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Sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1982, n. 5394; Pres. Mirabelli, Est. Panzarani, P. M....

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Page 1: Sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1982, n. 5394; Pres. Mirabelli, Est. Panzarani, P. M. Corasaniti (concl. diff.); Soc. Alfa Romeo (Avv. Barberio Corsetti, Toffoletti) c. Faverzani;

Sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1982, n. 5394; Pres. Mirabelli, Est. Panzarani, P. M.Corasaniti (concl. diff.); Soc. Alfa Romeo (Avv. Barberio Corsetti, Toffoletti) c. Faverzani;Faverzani (Avv. D'Amati, Crugnola, Vitale) c. Soc. Alfa Romeo. Cassa App. Milano 22 novembre1974Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 9 (SETTEMBRE 1983), pp. 2205/2206-2213/2214Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177010 .

Accessed: 24/06/2014 22:46

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Ai fini dell'ammissibilità del ricorso, e quindi del rispetto del termine perentorio di sei mesi per la sua proposizione, decorrenti dalla data in cui l'istante viene a conoscenza delle circostanze che la revocazione giustificano, va accertato se sia sufficiente la

presentazione del ricorso o se sia necessario anche, nel suddetto

termine, la notificazione del ricorso quanto meno ad uno dei

controinteressati, provvedendosi, nei confronti degli altri, alla

eventuale integrazione del contraddittorio a norma dell'art. 331

c.p.c. Ritiene il collegio, tenendo presente che l'istanza di revocazione

non introduce un giudizio di impugnazione ordinario, ma un

giudizio attribuito, in unico grado, alla competenza anche di

merito, della Corte di cassazione e che manca, nella normativa che

10 prevede, una qualsiasi disciplina che non sia applicabile la

regola che vuole il giudizio di legittimità disciplinato dalle forme

proprie del ricorso per cassazione, anche quando inerisce a

procedimenti per i quali le fasi di merito sono introdotte con la

mera presentazione del ricorso, da notificarsi, poi, ad iniziativa

dell'ufficio, ma che si debba far capo alle norme generali contenu

te negli art. 314/12 e 314/13 c.c., che regolano la introduzione del

più importante, e più compiutamente disciplinato, giudizio conten

zioso previsto nella speciale materia e che si instaura con il

deposito nella cancelleria del tribunale per i minorenni dell'atto di

opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità, mentre è

11 tribunale che dispone la notifica dell'atto ai controinteressati

nonché la fissazione dell'udienza.

A tale conclusione conduce anche l'unico dato testuale offerto

dall'art. 314/27. c.c. che, parlando di istanza « presentata », sembra

alludere ad una introduzione del procedimento per mezzo di atto

depositato dall'istante presso l'ufficio competente e poi notificato, su impulso di quest'ultimo, ai controinteressati.

Ulteriore presupposto per l'ammissibilità del ricorso è la prova del rispetto del termine semestrale decorrente dalla data della

conoscenza degli eventi che legittimano la revocazione e che può dirsi raggiunta, nell'ipotesi di ricorso presentato dal pubblico

ministero, con la produzione di atti o documenti o dichiarazioni, aventi data certa, da cui sia possibile fissare il dies a quo del

suddetto termine, dovendo presumersi, in difetto di prova contra

ria, e per il principio di legalità che ispira l'attività dei pubblici uffici, l'ignoranza di tali eventi in epoca precedente.

Nella specie, questa prova può dirsi raggiunta con la produzione

dell'esposto sottoscritto da Milione Francesco, preteso padre natu

rale degli adottati, denunciante i fatti revooatori, pervenuto al

l'ufficio del p.m. ed allegato all'istanza di revocazione, depositata nella cancelleria di questa corte nel termine di sei mesi dalla data

dell'anzidetto esposto. Ciò basta per l'ammissibilità dell'istanza di revocazione del

provvedimento di adozione speciale, a norma dell'art. 314/27 c.c., dovendosi ritenere, ai predetti fini, sufficiente il deposito della

istanza stessa nella cancelleria della Corte di cassazione nel

termine di sei mesi dal momento in cui l'istante è venuto a

conoscenza dei fatti revooatori, mentre incombe sull'ufficio presso cui è stato effettuato il deposito disporre la notifica ai controinte

ressati che vanno individuati nell'adottato, negli adottanti e nei

genitori naturali dell'adottato, salva la nomina a quest'ultimo di

un curatore speciale se minorenne, attesa l'astratta possibilità di

una situazione conflittuale fra l'adottato e gli adottanti.

Passando all'esame del merito del ricorso si osserva che lo stesso

è fondato e merita accoglimento dovendosi ritenere sussistente

nella specie l'ipotesi di cui al n. 2 dell'art. 395 c.p.c. e non anche

quella di cui al n. 1 dello stesso articolo come sostenuto dal

pubblico ministero ricorrente e come affermato da questa stessa

corte in altra controversia sostanzialmente analoga a quella oggi decisa (cfr. Cass. 28 ottobre 1977, n. 4643, Foro it., 1978, I, 48).

L'art. 314/27 c.c. prevede che il provvedimento che pronuncia l'adozione speciale può essere revocato, fra le altre ipotesi, quando ricorrono i motivi previsti dai nn. 1 e 2 dell'art. 395 c.p.c. e cioè

quando vi è stato dolo di una delle parti ai danni dell'altra o

quando si è giudicato in base a prove riconosciute o dichiarate

false dopo il provvedimento di adozione.

Come è emerso dalle dichiarazioni rese nel corso della odierna

udienza dai genitori adottivi Milione Raffaele e Postiglione Maria,

Milione Francesco, convivente con Postiglione Ida, avendo avuto

da quest'ultima due figli e non potendo riconoscerli perché

coniugato, atteso il divieto all'epoca esistente di riconoscere i

propri figli adulterini, pensò di dare il suo cognome ai bambini

facendoli adottare dal fratello Milione Raffaele, coniugato con

Postiglione Maria.

A tale scopo fu fatto risultare attraverso dichiarazioni rese al

servizio sociale per i minorenni, convalidate da quanto dichiarato

nell'atto di assenso all'adozione della madre naturale Postiglione

Ida, che i minori si trovavano in affidamento presso di loro fin

dal momento della nascita, in modo da giovarsi della disposizione

transitoria di cui al 2° comma dell'art. 6 1. 5 giugno 1967 n. 431, che consentiva ai coniugi che si trovavano nelle condizioni di cui

all'art. 314/2 c.c. di potere chiedere al tribunale per i minorenni di

dichiarare l'adozione speciale dei minori ad essi affidati, mentre in

realtà i predetti minori avevano sempre vissuto con la loro madre

naturale Postiglione Ida che provvedeva al loro mantenimento insieme -al padre naturale Milione Francesco.

Dalla suesposta ricostruzione dei fatti, mentre deve escludersi la

ricorrenza del dolo processuale di cui al n. 1 dell'art. 395 c.p.c,, deve ammettersi la sussistenza dell'ipotesi di cui al n. 2 dello

stesso articolo, in quanto elemento determinante del provvedimen to di adozione speciale è stata la dichiarazione resa dalla madre

naturale all'ufficiale d'anagrafe delegato in data 3 ottobre 1969 e

dalla quale risultava che i minori adottandi erano stati affidati fin

dalla nascita ai coniugi Milione e tale dichiarazione è stata

riconosciuta falsa da questi ultimi e ciò è sufficiente per la revoca

del decreto di adozione speciale di Postiglione Marcello nato a

Portici il 10 settembre 1966 e di Postiglione Francesca nata a

Portici il 30 settembre 1963.

Per completezza di motivazione si osserva che, secondo la

costante giurisprudenza di questa corte, il dolo di una parte in

danno dell'altra può costituire motivo di revocazione in quanto si

concreti in artifizi o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa

avversaria o impedire al giudice l'accertamento della verità, con la

conseguenza che non basta ai predetti fini né la semplice omissio

ne della parte che si astiene dal produrre un documento contrario

o sfavorevole alla sua tesi (Cass. 22 aprile 1977, n. 1488, id., Rep. 1977, voce Revocazione (giudizio di), n. 2; 29 aprile 1980, n. 2833,

id., Rep. 1980, voce cit., n. 4), né l'allegazione — come è avvenuto

nella specie — di fatti non veri, anche se ciò avviene in violazione

dei doveri di lealtà e probità (Cass. 5 giugno 1976, n. 2052, id.,

Rep. 1976, voce cit., n. 2). (Omissis)

I

CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite civili; sentenza 18 ot

tobre 1982, n. 5394; Pres. Mirabelli, Est. Panzarani, P. M.

Corasaniti (conci, diff.); Soc. Alfa Romeo (Avv. Barberio

Corsetti, Toffoletti) c. Faverzani; Faverzani (Avv. D'Amati,

Crugnola, Vitale) c. Soc. Alfa Romeo. Cassa App. Milano 22

novembre 1974.

Lavoro (rapporto) — Licenziamento — Intimazione orale — Inef

ficacia — Termine di decadenza per l'impugnazione — Inap

plicabilità (L. 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti

individuali, art. 2, 6; 1. 20 maggio 1970 n. 300, norme sulla

tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sin

dacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme

sul collocamento, art. 18).

Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro sia tenuto all'osservanza

della disciplina della l. 15 luglio 1966 n. 604, il licenziamento

intimato in forma orale è nullo per difetto della forma scritta

richiesta ad substantiam, e pertanto non incombe sul lavoratore

licenziato l'onere di impugnarlo nei sessanta giorni di cui all'art.

I. 6 l. 604/66, essendo invece tenuto alla sola osservanza dei

termini prescrizionali. (1)

(1) Con la decisione in epigrafe le sezioni unite pongono termine al

contrasto, insorto in seno alla sezione lavoro, circa l'applicabilità o non

al licenziamento intimato oralmente del termine di decadenza di

sessanta giorni di cui all'art. 6 1. 604/66. !Per ampie indicazioni sulle divergenti posizioni assunte dalla dottrina

e dalla giurisprudenza v. la nota di O. Mazzotta a Cass. 8 marzo

1978, n. 1170, Foro it., 1978, I, 1426 e la nota di richiami di G.

Silvestri a Cass. 27 giugno 1980, n. 4083, id., 1980, I, 2124, cui adde

in dottrina, nello stesso senso oggi accolto dalle sez. un., Pera, La

cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, 143, 151; Ghera,

Diritto del lavoro, Bari, 1982, 284; F. Mazziotti, Il licenziamento

illegittimo, Napoli, 1982, 208. La decisione delle sez. un. è stata

commentata in Giust. civ., 1983, I, 874, da Vallebona, Licenziamento

« inefficace » e termine di impugnazione, il quale, fra l'altro pone in

rilievo l'equivocità del riferimento del principio di diritto alla « osser

vanza dei termini prescrizionali », ed osserva che, avendo le sez. un.

ritenuto nullo il licenziamento intimato in forma orale, il richiamo alla

prescrizione può valere solo per i « diritti conseguenziali (reintegra nel

posto di lavoro, risarcimento del danno per il periodo ante sentenza) »

alla dichiarazione di nullità la quale è imprescrittibile ex art. 1422 c.c.

È da notare che la decisione in epigrafe è redatta dal medesimo

estensore (Panzarani) della contestuale Cass., sez. un., 18 ottobre 1982,

n. 5326, Foro it., 1983, 1, 1337, con nota di O. Mazzotta, secondo cui

la comunicazione del licenziamento come « collettivo » sottrae il licen

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2207 PARTE PRIMA 2208

II

PRETURA DI TORINO; sentenza 9 ottobre 1982; Giud. F. Ros

si; Polerà (Avv. Villani) c. Soc. Ghion Sport (Avv. Treves).

Lavoro (rapporto) — Licenziamento — Intimazione orale — Inef

ficacia — Termine di decadenza per l'impugnazione — Inap

plicabilità (L. 15 luglio 1966 n. 604, art. 2, 6; 1. 20 maggio 1970

n. 300, art. 18). Lavoro (rapporto) — Assunzione in violazione delle norme sul

collocamento — Inidoneità a costituire giustificato motivo di

licenziamento (Cod. civ., art. 2098; 1. 15 luglio 1966 n. 604, art. 1; 1. 20 maggio 1970 n. 300, art. 18).

Il licenziamento intimato oralmente è nullo per difetto di forma e

pertanto può essere denunciato dal lavoratore con ordinaria

azione di accertamento non soggetta alla decadenza di cui

all'art. 6 l. 604/66. (2) L'assunzione in violazione delle norme sul collocamento, ove non

denunciata dal pubblico ministero tramite l'azione di annulla

mento ex art. 2098 c.c., non inficia la validità del rapporto di

lavoro: pertanto il lavoratore licenziato con la motivazione che

non era stato possibile ottenere il prescritto nulla osta dal

l'ufficio di collocamento, ha diritto ad essere reintegrato nel

posto di lavoro. (3)

I

Svolgimento del processo. — Con atto di citazione notificato il 6

dicembre 1971 Giuseppe Faverzani conveniva avanti al Pretore di

Milano la s.p.a. Alfa Romeo chiedendo che fosse dichiarata la

nullità, l'inefficacia o l'illegittimità del licenziamento che gli era

stato solo verbalmente intimato, con conseguente condanna della

società stessa alla sua reintegrazione nel posto di lavoro ed al

pagamento delle dovute retribuzioni oltre che al risarcimento del

danno in misura non inferiore a cinque mensilità. Deduceva in

proposito l'attore che egli aveva lavorato alle dipendenze della

società convenuta dal 4 giugno al 6 luglio 1971, giorno in cui

era stato, per l'appunto, verbalmente licenziato, laddove la società

medesima, a seguito di sua contestazione a mezzo di legale, aveva

dedotto la legittimità della risoluzione del rapporto trattandosi di

lavoratore in prova. Costituitasi la convenuta, che eccepiva in via principale la

decadenza dell'impugnazione del licenziamento per essere stata

proposta oltre sessanta giorni dalla relativa comunicazione, il

pretore adito con sentenza del 26 marzo 1973 dichiarava l'ineffica

cia del licenziamento stesso ordinando la reintegrazione dell'attore

nel posto di lavoro e condannando la società al risarcimento del

danno nonché al pagamento degli arretrati di retribuzione. Contro

tale decisione la società medesima proponeva gravame avanti alla

Corte d'appello di Milano che con sent, del 26 settembre-22

novembre 1974 dichiarava il Faverzani decaduto dall'impugnazione del licenziamento « confermando nel resto l'impugnata sentenza »

e dichiarando compensate fra le parti le spese di quel grado di

giudizio. La corte territoriale, dato atto che al Faverzani il licenziamento

era stato intimato verbalmente il 14 giungo 1971 e che esso era

stato impugnato con lettera raccomandata soltanto il 19 settembre

successivo e considerato inoltre che esulava dall'economia della

lite l'indagine relativa all'esistenza oppur no di un valido patto di

assunzione in prova, richiamava la disposizione di cui all'art. 6 1.

15 luglio 1966 n. 604 sull'assegnazione del termine di decadenza di

sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento ovvero dalla

comunicazione dei relativi motivi (ove questa non fosse stata

contestuale) e, richiamata altresì' la norma dell'art. 2 della stessa

ziamento stesso alla necessità di essere impugnato — come « individua le » — nel termine di sessanta giorni ex art. 6 1. 604/66.

In ordine al diverso problema dei limiti e dei modi di applicabilità dell'art. 6 1. 604/66 in ipotesi di serie di contratti a termine illegittimi, v., da ultimo, Cass. 5 marzo 1983, n. 1646 e 18 novembre 1982, in

6212, in questo fascicolo, I, 2177, con ampia nota di richiami di O. Mazzotta.

(2-3) La decisione del Pretore di Torino si pone nello stesso alveo della successiva pronuncia delle sez. un., con riferimento ad una ipotesi particolare in cui il licenziamento era stato motivato dal mancato ottenimento del nulla osta dall'ufficio di collocamento di una assunzione avvenuta in violazione delle norme sul collocamento stesso.

Con riferimento alla terza massima v., nello stesso senso, richiamata in motivazione, Pret. Milano 29 ottobre 1976, Foro it., 1977, I, 1577, e, nel senso che il mancato nulla osta dell'ufficio di collocamento non esime chi si è impegnato ad assumere alle proprie dipendenze un lavoratore, e detto nulla osta ha invano richiesto, dall'adempimento dell'obbligo, se il contratto, su istanza del p.m., non viene annullato, cfr. Cass. 31 luglio 1962, n. 2286, id., 1963, I, 582, con nota di richiami.

legge prescrivente la 'forma scritta a pena di inefficacia, osservava

che nella fattispecie, essendo mancata tale forma, il licenziamento

era stato inefficace, ma che — appunto perché tale — esso

avrebbe dovuto essere impugnato entro il suddetto termine di

sessanta giorni dalla comunicazione verbale ed invero la legge non

faceva, a tal fine, alcuna distinzione tra licenziamento nullo, inefficace e illegittimo. Argomentava ancora che dal contesto del

suddetto art. 6 e, in particolare, dal 2° comma di esso si evinceva

che il legislatore aveva stabilito in modo chiaro la decorrenza del

termine per l'impugnativa non limitando il precetto soltanto ai

licenziamenti comunicati per iscritto. Considerato quindi che la

sentenza doveva essere sul punto riformata, il giudice d'appello rilevava che l'accoglimento della relativa censura assorbiva tutti gli altri motivi del gravame della società.

Contro tale decisione la società stessa ha proposto ricorso a

questa Suprema corte formulato in un solo motivo. Il Faverzani

ha resistito con controricorso nel quale ha svolto un motivo di

ricorso incidentale subordinato. Entrambe le parti hanno deposita to memorie. Il ricorrente incidentale ha altresì presentato osserva

zioni scritte sulle conclusioni del procuratore generale. Motivi della decisione. — (Omissis). Nell'unico motivo di tale

mezzo il Faverzani addebita alla sentenza impugnata, in base

all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., violazione degli art. 2 e 6 1. 15 luglio 1966 n. 604 e dell'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300 nonché

violazione degli art. 1325, 1350 e 1418, 2° comma, c.c. e dei

principi generali di diritto relativi alla nullità dei negozi, ed inoltre motivazione errata e contraddittoria.

Deduce al riguardo che erroneamente la corte d'appello, dopo aver riconosciuto l'inefficacia del licenziamento intimatogli per mancata osservanza della forma scritta, ha affermato la necessità, a pena di decadenza, della relativa impugnazione entro sessanta

giorni della comunicazione orale.

Argomenta in proposito che la decorrenza del suddetto termine

presuppone invece la comunicazione scritta del licenziamento e dei relativi motivi, che tale interpretazione è coerente con la

formulazione testuale e con la ratio delle norme di cui alla 1. n.

604/66 — le quali prevedono un complesso rigoroso di formalità e di procedimenti —, che tale sistema d'impugnativa a pena di decadenza non si concilia con la natura del vizio che colpisce il licenziamento orale il quale deve invero considerarsi affetto da nullità assoluta per difetto del requisito essenziale della forma

scritta, anche se l'art. 2 della stessa legge parla di inefficacia per descrivere l'effetto comune delle due situazioni, rispettivamente, di inosservanza di tale forma e di mancata successiva comunicazione dei motivi, tesi questa che trova del resto conferma nei lavori

preparatori della legge medesima.

Tutto ciò richiamato, e premesso che la questione oggetto di tale ricorso incidentale ha determinato la remissione della presente causa all'esame di queste sezioni unite dato il contrastante indirizzo manifestatosi nella giurisprudenza della sezione lavoro, si osserva come il ricorso stesso sia, per le considerazioni che

seguono, fondato.

I. - Deve in proposito innanzitutto rilevarsi come la 1. 15 luglio 1966 n. 604 — ove si escludano contingenti provvedimenti del

periodo post-bellico (cfr. il d.l. lgt. 21 agosto 1945 n. 523 e il d.l.

lgt. 14 febbraio 1946 n. 27) nonché specifici divieti (v., in

particolare, la 1. 26 agosto 1950 n. 860, poi sostituita da quella 30 dicembre 1971 n. 1204, a tutela delle lavoratrici madri ed inoltre la 1. 9 gennaio 1963 n. 7 sulla nullità dei licenziamenti attuati a causa di matrimonio) — costituisca la prima forma di disciplina legale vincolistica generalizzata dei licenziamenti individuali (pur nei limiti stabiliti, quanto alle dimensioni dell'azienda, dall'art. 11, 1° comma, della stessa legge), col che si è venuto a profondamente innovare rispetto alla regola del recesso ad nutum di cui all'art.

2118, 1° comma, c.c., la quale aveva pur tuttavia ricevuto alcuni

temperamenti ad opera della contrattazione collettiva (cfr., tra gli altri, gli accordi interconfederali per l'industria sui licenziamenti

individuali del 18 ottobre 1950 — reso efficace erga omnes con il

d.p.r. 14 luglio 1960 n. 1011 — e del 29 aprile 1965; v. altresì gli accordi concernenti i licenziamenti collettivi per riduzione di

personale), a parte considerandosi peraltro alcuni speciali regimi di stabilità (ad es. quelli di cui al r.d. 8 gennaio 1931 n. 148 e reg. ali. A sul trattamento del personale delle imprese esercenti servizi di pubblico trasporto, e al testo unico approvato con il d.p.r. 15

maggio 1963 n. 858 riguardante gli addetti ai servizi di riscossione delle imposte dirette).

La suddetta nuova disciplina (approvata dopo l'enunciazione di indicazioni della Corte costituzionale — cfr. ad es. sent. 9 giugno 1965, n. 45, Foro it., 1965, I, 1119 — nella considerazione della raccomandazione n. 119 adottata nel 1963 dalla 47' sezione della conferenza internazionale del lavoro e in analogia a quanto, in

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

diverse forme, realizzato in altri paesi), se da un lato ha costituito una prima significativa attuazione (che sarà poi perfezionata dallo statuto dei lavoratori) del principio del diritto al lavoro (art. 4, 1°

comma, Cost.), dall'altro ha posto in essere problemi di indubbio rilievo nell'ambito delle strutture aziendali, determinando per gli imprenditori nuove necessità nella relativa organizzazione (la

quale, in una certa misura, veniva ad essere sottoposta alla

possibilità di controllo da parte del giudice di fronte alla giu stificazione dei licenziamenti per motivi oggettivi: art. 3, 2' ipotesi, e 5) e, in generale, in tutto l'assetto dei rapporti con il personale dipendente.

Il legislatore, introducendo una riforma di cosi incisivo significa to, non poteva non tener conto di tutto ciò e — anche alla luce di

quanto la prassi delle relazioni aziendali era andata attuando —

ha inteso pertanto assicurare un'adeguata forma di contempera mento dei rispettivi interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro e

ciò attraverso la previsione — accanto alla necessità della sussi

stenza di comprovati motivi sostanziali giustificanti il recesso (art. 3 e 5) — dello svolgimento di una vera e propria « procedura »

per il licenziamento individuale e per la relativa contestazione, caratterizzata dalla sequenza articolata di un complesso di atti, di

termini e di oneri (art. 2 e 6), diretti a soddisfare un'evidente

esigenza di chiarezza di univoca rappresentazione delle posizioni delle parti: di ciò espressione particolarmente significativa è il

termine di decadenza di sessanta giorni per l'impugnazione del

licenziamento da parte del lavoratore (art. 6, 1° e 2° comma) che — com'è, tra l'altro, precisato negli atti parlamentari relativi al

disegno di 1. n. 2452 del 15 giugno 1965 — è stato introdotto « al

fine di evitare l'insorgere di controversie in epoca lontana dai fatti

con le intuitive difficoltà che ne conseguono in materia di prova

per l'una e per l'altra parte », termine che peraltro, nonostante

questa considerazione di entrambi i soggetti del rapporto, chiara

mente opera in via primaria nell'interesse del datore di lavoro, il

quale deve la sicurezza di poter provvedere alle necessità dell'im

presa senza il rischio di dover riassumere (o dover risarcire) dei

lavoratori che siano stati licenziati anche in epoca remota.

II. - Ciò va considerato per quel che concerne, in particolare, la

previsione della forma degli atti, nonché dei termini fissati per il

loro compimento. E quanto al primo aspetto (che è quello che

essenzialmente interessa ai fini della presente decisione), si deve

ricordare che le deroghe al principio generale della libertà della

forma sono introdotte dall'ordinamento in relazione a negozi

giuridici ritenuti, in un determinato momento storico, di particola re rilevanza, cosicché per essi viene reputata necessaria la predi

sposizione di una specifica documentazione che tra l'altro — come

ha osservato la dottrina — richiami l'attenzione delle parti

sull'importanza degli atti che intendono compiere e dei relativi

effetti. Peraltro, nella duplice previsione che la forma scritta sia

richiesta ad substantiam e cioè come costitutiva del negozio

ovvero soltanto ad probationem, il legislatore ha avuto normal

mente cura di chiarire quando ricorra l'una o l'altra ipotesi,

indicando la prima con chiara forma imperativa integrata dall'e

nunciazione della relativa sanzione (« devono farsi per atto pub

blico o per scrittura privata, sotto pena di nullità...»: art. 1350

c.c. di cui è rilevante la norma generale di rinvio contenuta al n.

13) ovvero direttamente affermando l'inidoneità dell'atto privo

della forma richiesta a produrre gli effetti sostanziali suoi propri

(« l'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da

atto scritto»: art. 1, 3° commma, 1. 18 aprile 1962 n. 230 sulla

disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), e precisan

do, al contrario, per la seconda, l'esclusiva funzione probatoria

(«deve essere provato per iscritto»: art. 1888, 1° comma, c.c.; v.

altresì, in particolare, gli art. 1928, 1967, 2556 e 2596 dello stesso

codice, nonché l'art. 3 1. 22 luglio 1966 n. 606 in materia di affitto

a conduttori non coltivatori diretti).

Esaminando perciò in base a tali criteri le regole dettate dalla 1.

n. 604/66 in relazione alla forma degli atti rientranti nella

« procedura » per il licenziamento individuale, preliminarmente si

osserva come, a differenza che nelle diposizioni sulla forma scritta

richiesta solo ai fini della prova, una siffatta menzione sia del

tutto assente, mentre chiara è la formulazione imperativa sottoli

neata dal ripetuto uso del verbo « deve » riferito sia all'imprendi

tore che al prestatore di lavoro (art. 2, 1° e 2° comma, 6).

Trattandosi peraltro di tutti atti unilaterali riconducibili alla

previsione di cui all'art. 1334 c.c., il legislatore stesso ha avuto

cura di sottolinearne la necessaria natura recettizia, il che del resto

inerisce altresì al carattere « procedimentale » del licenziamento

individuale e della relativa contestazione, vale a dire all'articolato

susseguirsi di adempimenti nell'ambito di termini decadenziali.

Siffatta natura recettizia è invero evidenziata dal ripetuto uso

(sei volte) dei tipici termini « comunicare » e « comunicazione »

che viene fatto nelle già richiamate disposizioni con riferimento

agli atti scritti da esse previsti (nell'art. 6 l'esigenza è poi ulteriormente ribadita, a proposito dell'impugnazione del licenzia

mento, con l'indicazione della idoneità del relativo atto « a rendere nota 'la volontà del lavoratore »). Va tuttavia ulteriormente consi derato — non occorrendo qui richiamare la problematica che è stata a suo tempo trattata dalla dottrina circa i criteri di

identificazione delle dichiarazioni recettizie e circa il requisito necessario per la loro perfezione giuridica in relazione al momento dell'emissione ovvero a quello del ricevimento da parte del

destinatario — come nella formulazione delle norme di cui alla 1. n. 604/66 l'espressione «comunicare per iscritto» usata a proposi to dell'intimazione del licenziamento (art. 2, 1° comma) e quella « comunicarli per iscritto » riguardante i relativi motivi (art. 2, 2"

comma) indichino che il portare a conoscenza del lavoratore gli atti di che trattasi deve essere fatto in modo qualificato e cioè

proprio mediante la consegna dello scritto al medesimo ovvero il farlo pervenire all'indirizzo di lui (art. 1335 c.c.), dal quale solo

momento possono scaturire i relativi effetti (art. 1334 c.c., cit.; per

l'impugnazione del licenziamento, v. similmente art. 6, 1° e 2°

comma).

III. - Per quanto concerne poi l'aspetto della sanzione, caratte

rizzante — unitamente alla previsione imperativa della forma scritta — la funzione ad substantiam di questa si osserva come il

legislatore, non ricorrendo alla definizione di nullità (riservata alle

ipotesi di licenziamento adottato per motivi discriminatori), abbia

affermato nel 3° comma dell'art. 2 1. n. 604/66 che il licenziamento

intimato senza l'osservanza delle disposizioni di cui ai precedenti comma 1° e 2° « è inefficace ». Al riguardo va rilevato che nel corso

dei lavori parlamentari (v. gli atti relativi al disegno di legge cit). fu considerato che la suddetta espressione poteva dar luogo ad

incertezza, ma in proposito fondamentali principi giuridici consen

tono chiaramente di attribuire ad essa (impiegata forse perché

riguardante anche la previsione della mancata comunicazione dei

motivi) l'univoco significato di « conseguenza della situazione di

nullità del negozio». Invero parlare di inefficacia non avrebbe

senso alcuno con riferimento ad un negozio per il quale la forma

scritta sia richiesta soltanto a fini probatori, il che attiene piuttosto ad un momento essenzialmente processuale senza che sia im

pedito che tale negozio produca di per sé i propri effetti, nel mentre la suddetta espressione neppure si attaglia ad una

ipotesi di semplice annullabilità del negozio stesso, dato invero che

questo, fintantoché non sia intervenuta la pronunzia costitutiva del

giudice, parimenti produce tutti i propri effetti.

L'inefficacia è invece (a parte le particolari ipotesi, che non

riguardano la materia in esame, dell'apposizione al negozio giuri dico di termini iniziali o di condizioni sospensive) un tipico

aspetto — ripetesi — della nullità, al che si attaglia la nota

enunciazione: quod nullum est, nullum producit effectum. E in tal

senso la formulazione del 3° comma dell'art. 2 1. n. 604/66 è stata

intesa dalla prevalente dottrina e dalla giurisprudenza di questa

Suprema corte anche con riferimento a ipotesi diverse da quella qui trattata (cfr. es., a proposito dell'apposizione del termine al

contratto di lavoro — v. supra — sent. 25 gennaio 1975, n. 301,

id., 1975, I, 1396).

Se dunque, per quanto fin qui argomentato, l'intimazione del

licenziamento che sia carente della forma scritta non è idonea, sul

piano sostanziale, a produrre la risoluzione del rapporto di lavoro, da essa a fortiori non può scaturire alcuno degli aspetti propri della « procedura » regolata dalla 1. n. 604/66, per il cui avvio tale

legge prevede, con chiare note di inderogabilità, per l'appunto la

comunicazione del licenziamento in forma scritta. Al riguardo basterebbe considerare che la decorrenza dei termini di otto giorni

per la richiesta da parte del lavoratore dei motivi del licenziamen

to (art. 2, 2° comma) e di sessanta giorni per l'impugnazione del

recesso (art. 6) è espressamente fissata con riferimento, rispettiva mente alla « comunicazione » del licenziamento stesso ovvero dei

motivi.

Se pertanto una « comunicazione » — che, per quanto sopra

considerato, va effettuata necessariamente per iscritto (art. 2, 1° e

2° comma) — non vi è stata, è evidente che i suddetti termini, difettandone il presupposto e non essendo concepibili equivalenti, non possono cominciare a decorrere. Va poi aggiunto che, se il

legislatore — per le ragioni esposte — ha introdotto, per le ipotesi

generali di licenziamento riconducibili all'ambito di applicazione della disciplina in esame, un siffatto procedimento che è articolato

in un insieme di atti e di termini entro i quali le parti del

rapporto di lavoro (del contemperamento dei cui rispettivi interessi

il legislatore stesso ha avuto cura) debbono adempiere a determi

nati oneri (richiesta dei motivi del licenziamento da parte del

lavoratore, comunicazione di essi da parte del datore di lavoro,

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PARTE PRIMA 2212

impugnazione del licenziamento stesso ad opera del lavoratore), non può una delle due parti, e cioè il datore di lavoro, che non

adempia all'onere suo primario, vale a dire quello di comunicare

per iscritto il licenziamento che intende intimare — con ciò

mostrando di non voler tener conto delle prescrizioni di cui alla 1.

n. 604/66 —, pretendere poi dal lavoratore l'osservanza di siffatte

prescrizioni per quanto attiene, nell'interesse di esso datore di

lavoro (v. supra), al profilo dell'impugnazione entro sessanta giorni di un atto che è invece giuridicamente inidoneo fin dall'origine a

produrre qualsiasi effetto. Invero tutta la tematica degli oneri, e

cioè (per la nozione di essi che qui interessa) dei comportamenti cui alcuno è tenuto se vuol conseguire un determinato risultato, è

caratterizzata — come ha sottolineato la dottrina — da esigenze di

chiarezza e di oggettiva correttezza (art. 1175 c.c.), in una

situazione di normale correlatività e quindi di reciproco condizio

namento.

Va ancora considerato che, se il licenziamento comunicato

oralmente è ancora — almeno nella normalità dei casi — di

univoco significato, la stessa cosa non può affermarsi, anche in

base alla comune esperienza, nelle ipotesi il cui il licenziamento

stesso sia attuato dall'imprenditore con meri comportamenti mate

riali tra cui l'estromissione puramente di fatto del lavoratore dal

suo posto di lavoro: situazioni di ambiguità che il legislatore, data

la rilevata finalità della disciplina in esame, ha voluto — quanto meno per i rapporti riconducibili nell'ambito di detta disciplina e

quindi dell'art. 35 dello statuto dei lavoratori — chiaramente

impedire.

IV. - A proposito poi della portata dell'art. 18 dello statuto dei

lavoratori — le disposizioni dei cui comma 1° e 2° hanno unificato

il regime dell'inefficacia '(art. 2 1. n. 604/66), dell'invalidità (art. 1

.e 3) e della nullità per motivi discriminatori (art. 4) — deve

osservarsi che esso, come si desume dalla sua chiara enunciazione, si riferisce esclusivamente al contenuto della pronuncia del

giudice in relazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di

lavoro, al risarcimento del danno ed alle retribuzioni al lavoratore

stesso spettanti in relazione alle tre suddette ipotesi, con ciò

profondamente innovando rispetto alla regola di cui all'art. 8 1. n.

604/66 concernente soltanto i oasi di accertamento della mancanza

degli estremi della giusta causa o del giustificato motivo del

licenziamento e realizzante peraltro una tutela definita meramente

« obbligatoria » rispetto a quella « reale » (e cioè idonea al

ripristino del posto di lavoro) propria del suddetto art. 18 stat. lav.

Com'è noto la problematica circa il significato dell'unificazione

adottata da quest'ultima norma è stata da tempo affrontata dalla

dottrina, la quale non ha mancato di considerare che, nonostante

le difficoltà create dal disposto accumunamento, le tre ipotesi non

sono state tuttavia del tutto confuse, laddove non emerge in alcun

modo che — tenuto conto peraltro delle finalità di maggior tutela

perseguite dallo statuto dei lavoratori anche in relazione ai

rapporti individuali di prestazione d'opera subordinata — sia stato

da questo apportato un deterioramento nella posizione del lavora

tore, imponendogli un onere d'impugnazione che dalla 1. n. 604/66 assolutamente non scaturiva, laddove — ripetesi — l'art. 18 dello

statuto si riferisce esclusivamente al contenuto del provvedimento

giudiziario e non già alle condizioni di proposizione della doman

da ed ai presupposti della procedura di licenziamento e di

impugnazione già compiutamente regolata dalla suddetta legge e

che, come detto, deve prendere l'avvio, a pena di inefficacia, attraverso le forme previste dall'art. 2 di essa, norma del resto

espressamente richiamata dallo stesso art. 18 statuto lavoratori.

Nell'ipotesi dunque di licenziamento non attuato in forma

scritta, al lavoratore spetta una ordinaria azione di accertamento

della inefficacia di esso con diritto peraltro, alla reintegrazione nel

posto di lavoro e alle altre conseguenziali pronunce di cui allo

stesso art. 18 statuto lavoratori, pretese da avanzare, non ve

rificandosi la decadenza di cui all'art. 6 1. n. 604/66, con la sola

osservanza dei termini prescrizionali.

In base a tali ragioni deve essere disatteso il contrario indirizzo

che sulla problematica trattata è stato seguito da una parte della

giurisprudenza della sezione lavoro di questa Suprema corte che

sovente ha valorizzato l'argomento dell'unificazione di disciplina introdotto dal considerato art. 18 dello statuto lavoratori (cfr., ad

es., sent. 14 ottobre 1975, n. 3324, id., Rep. 1976, voce Lavoro

(rapporto), n. 947; 21 novembre 1975, n. 3922, id., 1976, I, 1679; 29 giugno 1978, n. 3270, id., Rep. 1978, voce cit., n. 1337; 11

ottobre 1978, n. 4560, id., 1979, I, 70; 27 giugno 1980, n. 4043, id.,

1980, I, 2124, e 29 giugno 1981, n. 4225, id., Rep. 1981, voce cit., n. 1827), ritenendosi invece esatte le considerazioni svolte in altre

decisioni che hanno evidenziato l'aspetto della inidoneità assoluta

del licenziamento intimato non per iscritto ad operare sul rapporto di lavoro e la conseguente sua assoluta irrilevanza (v., in partico

lare, sent. 3 novembre 1976 n. 4017, id., Rep. 1976, voce cit., n.

972; 6 novembre 1976, n. 4063, id., Rep. 1977, voce cit., n. 1039; 3

novembre 1977, n. 4687, ibid., n. 1034, e 12 aprile 1980, n. 2356,

id., Rep. 1980, voce cit., n. 1343).

Conseguentemente, rigettandosi il ricorso principale, in accogli mento di quello incidentale la sentenza impugnata deve essere

cassata, con rinvio della causa ad altro giudice d'appello che si

designa nella Corte d'appello di Brescia (sezione lavoro), la quale in relazione al mezzo accolto dovrà procedere a nuovo esame del

merito uniformandosi al seguente principio di diritto: « Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro, che sia tenuto all'osser

vanza della disciplina di cui alla 1. 15 luglio 1966 n. 604, abbia

intimato il licenziamento non adottando la comunicazione scritta, il recesso, in quanto nullo per difetto di forma prescritta ad

substantiam, è privo di qualsiasi efficacia giuridica lasciando

operante il rapporto di lavoro; peraltro, non essendo un siffatto

recesso idoneo ad avviare la procedura che, per i licenziamenti

individuali e relativa contestazione, è prevista dalla stessa 1. n.

604/66, non incombe in tal caso al lavoratore licenziato l'onere

dell'impugnazione nel termine di cui all'art. 6 della medesima

legge essendo invece tenuto alla sola osservanza dei termini

prescrizionali». (Omissis)

II

Motivi della decisione. — 1) Sull'omessa impugnazione del

termine di decadenza del licenziamento intimato oralmente. - Il licenziamento intimato oralmente, improduttivo di effetti ed inido

neo a determinare l'estinzione del rapporto di lavoro, pur essendo

soggetto alla normativa comune ai licenziamenti individuali, è

sottratto all'onere di impugnativa nel termine di decadenza di cui

all'art. 6 1. n. 604/66. 1 a) È noto il contrasto giurisprudenziale in merito al regime

del licenziamento inefficace per difetto di forma.

Secondo parte della giurisprudenza, la disposizione dell'art. 6, 1°

comma, 1. 15 luglio 1966 n. 604 sui licenziamenti individuali, in base alla quale il licenziamento deve essere impugnato, a pena di

decadenza, entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazio ne del medesimo, si applica non solo all'azione di impugnazione per illegittimità, in difetto di giusta causa o giustificato motivo, ma anche all'azione spettante al lavoratore per far riconoscere l'i nefficacia del licenziamento intimato senza l'osservanza delle mo dalità di cui all'art. 2 della legge stessa (comunicazione scritta del recesso e, su richiesta del lavoratore e nei cinque giorni della

medesima, dei motivi) (in tal senso: Cass. 27 giugno 1980, n. 4043, Foro it., 1980, I, 2124; 11 ottobre 1978, n. 4560, id., 1979, I, 70; 8

marzo 1978, n. 1170, id., 1978, I, 1426; 21 novembre 1975, n. 3922, id., 1976, I, 1619; 14 ottobre 1975, n. 3324, id., Rep. 1976, voce Lavoro (rapporto), n. 947).

1 b) Sull'altro versante si pone la giurisprudenza della Cassazio ne secondo cui l'aggettivo inefficace di cui al 3° comma dell'art. 2 1. n. 604, riferito al licenziamento intimato senza la forma scritta o senza la comunicazione dei motivi — in quanto richiesti —, indica chiaramente l'inidoneità assoluta ab origine di un tale licenziamen to a produrre qualsivoglia effetto giuridico, il che è proprio dell'atto nullo, con la conseguenza che il difetto di un essenziale

requisito formale del licenziamento si traduce in una vera e

propria nullità, denunziabile con ordinaria azione di accertamento non soggetta a decadenza per mancata impugnazione nel termine di cui all'art. 6, 1° comma, della stessa 1. n. 604 (in tal senso: Cass. 3 novembre 1977, n. 4687, id., !Rep. 1977, voce cit., n. 1034. Si collocano nel contesto di tale orientamento: Cass. 29 aprile 1977, n. 1654, id., 1978, I, 1426; 3 novembre 1976, n. 4017 e 6 novembre 1976, n. 4063, id., Rep. 1976, voce cit., n. 972 e Rep. 1977, voce cit., n. 1039). Nel senso della nullità sembra, da ultimo, orientata anche Cass. 12 aprile 1980, n. 2356 (id., Rep. 1980, voce cit., n. 1343), in cui è affermato il principio che « il licenziamento del lavoratore, per essere validamente intimato, con le pertinenti motivazioni, necessita della prescritta comunicazione scritta, con la

conseguenza che sono irrilevanti, tamquam non essent, le eventuali sue intimazioni meramente orali e le correlative ragioni cosi

esposte ».

1 c) Tanto premesso, a parere del giudicante, l'orientamento sub 1 a, secondo cui il licenziamento inefficace sarebbe impugnabile solo nel termine di decadenza di sessanta giorni fissato dall'art. 6 1. 15 luglio 1966 n. 604, non può essere condiviso.

È infatti pacifico in giurisprudenza che il licenziamento è un negozio giuridico unilaterale recettizio (in questo senso, fra le tante, Cass. 18 febbraio 1975, n. 647, id., 1975, I, 2020).

È del pari pacifico in giurisprudenza che tale negozio, a seguito della 1. n. 604, ha assunto la forma scritta vincolata ad substan tiam, laddove nel vigore del codice del 1942, con riferimento agli art. 2118 e 2119, sussisteva la più ampia libertà di forma (cfr., al

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

riguardo Cass. 25 gennaio 1975, n. 301, id., 1975, I, 1396; 27 ottobre 1965, n. 2280, id., 1966, I, 1461; 23 luglio 1965, n. 1619, ibid., 474; 26 giugno 1965, n. 1346, id., Rep. 1966, voce cit., n.

578). Ciò posto, la giurisprudenza di legittimità e di merito non ha

mancato di rilevare che non soltanto la comunicazione tipizzata del negozio-recesso attiene al perfezionamento della fattispecie dichiarativa, ma che detta fattispecie non si esaurisce nella mera comunicazione del recesso, onde non è consentito invocare forme di comunicazione equipollenti ex art. 1334 c.c. richie dendo la vigente normativa un quid pluris, ossia la consegna al

lavoratore dello scritto da utilizzarsi come strumento di comunica

zione, che « deve rimanere in suo possesso come documentazio ne precisa dell'atto di volontà che lo concerne e che, in relazione

al principale effetto risolutivo cui è ordinato ed ai termini in cui è

manifestato, gli attribuisce diritti e facoltà che possono, a seconda dei oasi, essere variamente esercitati » (cfr. Cass. 20 giugno 1979, n. 3440, id., Rep. 1980, voce cit., n. 1345; in termini, Pret. Torino 7-10 aprile 1982, Gamba c. Steri; Pret. Roma 30 marzo 1979, id.,

Rep. 1980, voce cit., n. 1346). Cosi delineata la fattispecie

contemplata dall'art. 2 1. 15 luglio 1966 n. 604, è evidente che

l'onere di impugnazione fissato dall'art. 6, 2° comma, della stessa

legge sussiste solo ove il datore di lavoro abbia comunicato al

lavoratore, nella forma prescritta dall'art. 2, il licenziamento (nel

qual caso, appunto, il termine di decadenza decorre dalla ricezione

della comunicazione, ex art. 6, 2° comma, legge citata).

Nessuna ulteriore dilatazione in via ermeneutica della normativa

in esame pare consentita, posto che la decadenza legale è istituto

eccezionale, in quanto deroga al principio generale, secondo cui

l'esercizio dei diritti soggettivi non è sottoposto a limiti in ordine

all'ari ed al quando: onde le norme che stabiliscono decadenze

non sono suscettibili di analogia, ex art. 14 disp. sulla legge in

generale (in termini: Pret. Torino 4 febbraio 1980, Cammarota c.

R.a.i.). Va quindi respinta l'eccezione di decadenza sollevata dalla

società convenuta; al licenziamento inefficace devono poi applicar si le sanzioni di cui all'art. 18 dello statuto dei 'lavoratori, che

unifica tutte le ipotesi di illegittimità del licenziamento nel

rigoroso regime degli effetti, ove ricorrano i requisiti di cui all'art.

35 1. m. 300/70.

2) Sulla dedotta violazione delle norme sul collocamento come

impeditiva della tutela reintegratoria. - L'inosservanza delle norme

sul collocamento non dà luogo ad una ipotesi di nullità (ex art.

1418 c.c.) e non può essere fatta valere dai soggetti del rapporto di lavoro.

2 a) Già prima dell'entrata in vigore del c.c. e della vigente normativa sul collocamento, la Suprema corte ebbe a dichiarare la

validità del rapporto di lavoro, concluso non per il tramite

dell'ufficio di collocamento (Cass. 29 novembre 1939, n. 3169, id.,

1940, I, 1062). Il successivo diritto applicato è connotato da univocità di

orientamento: nel senso che i soggetti del rapporto non sono

legittimati ad impugnare un contratto individuale di lavoro per inosservanza delle norme sul collocamento (Trib. Milano 24 luglio

1952, iid., Rep. 1953, voce Lavoro (collocamento), n. 21), nel

senso che il mancato nulla osta dell'ufficio di collocamento non

esime chi si è impegnato ad assumere alle proprie dipendenze un

lavoratore, e detto nulla osta ha invano richiesto, dall'adempiere all'obbligo, se il contratto, su istanza del pubblico ministero, non

viene annullato (Cass. 31 luglio 1962, n. 2286, id., 1963, I, 582). Nella parte motiva della citata sentenza della Suprema corte, si

legge: ... « Nel conflitto tra la presente dottrina, orientata per la

nullità del contratto di lavoro stipulato senza l'osservanza delle

norme sul collocamento, e la giurisprudenza, orientata, invece, nel

senso della sua validità, il codice civile vigente, nella disposizione di cui all'art. 2098, ha seguito la via di mezzo della semplice annul

labilità. Come rilevasi dalla relazione del guardasigilli del re al li

bro del codice civile « Del lavoro » (n. 45), il legislatore ha inteso

disattendere tanto la soluzione « incongrua ed inopportuna » della

nullità assoluta, trattandosi di un rapporto, come quello di lavoro,

che, una volta attuato, determina effetti irrevocabili, quanto la solu

zione della piena validità del rapporto medesimo, in relazione alle

finalità essenzialmente pubblicistiche che la disciplina della do

manda e dell'offerta ha nella materia del lavoro. L'annullabilità,

stabilita dall'art. 2098, è, però, sottoposta ad un regime particola re: la legittimazione ad istituire l'azione di annullamento di un

contratto stipulato con violazione delle norme sul collocamento

non è data al lavoratore o all'imprenditore, bensì soltanto al p.m.,

per l'ovvia considerazione che, nella violazione delle dette norme,

non è in giuoco direttamente nessun interesse particolare dei

contraenti, ma solo l'interesse pubblico all'attuazione della disci

plina della domanda e dell'offerta di lavoro ».

In termini, da ultimo, Pret. Milano, ord. ex art. 700 c.p.c., 29 ottobre 1976 (id., 1977, I, 1577), secondo cui: ...«l'assunzione senza l'osservanza delle regole sul collocamento non dà luogo invero ad una ipotesi di nullità (art. 1418 c.c.)... bensì ad una

ipotesi di annullabilità. Dispone infatti l'art. 2098 c.c. (sotto la rubrica: violazione delle norme sul collocamento dei lavoratori) che il contratto di lavoro stipulato senza l'osservanza delle

disposizioni concernenti la disciplina della domanda e dell'offerta di lavoro può essere annullato. Lo stesso articolo affida la titolarità dell'azione di annullamento al pubblico ministero.

« Se si tiene presente il carattere costitutivo di tale azione, non

può desumersene che, fino a quando tale azione non sia stata

proposta (ed accolta), il rapporto di lavoro, anche stipulato in violazione delle norme sul collocamento, resta valido ed efficace

quali che siano le conseguenze della irregolare assunzione sul terreno penale ».

I richiamati principi sono tuttora applicabili, non incidendo la normativa penale dello statuto sulla validità del rapporto.

Per le suesposte argomentazioni, la domanda va accolta. (Omis sis)

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 7 ottobre

1982, n. 5139; Pres. Mazzacane, Est. Lipari, P.M. Catelani

(conci, conf.); Passaseo (Avv. Vanin, Fabbroni) c. Gallanti

e Proc. gen. App. Genova. Cassa App. Genova 19 maggio 1980.

Adozione — Adozione speciale — Procedimento di opposizione alla dichiarazione di adottabilità — Sopravvenuto riconosci

mento del minore — Audizione del genitore — Necessità ,(Cod. civ., art. 314/11, 314/12, 314/13, 314/14).

La sopravvenienza del riconoscimento della paternità durante la

pendenza del giudizio di opposizione alla declaratoria di adotta

bilità, legittima l'intervento del genitore nella relativa fase

processuale e obbliga, in mancanza, il giudice a ordinare

l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti, in quanto

parte necessaria; ne consegue che in caso di mancata integrazio ne la sentenza va cassata per violazione del contraddittorio e la

causa va rimessa al giudice davanti al quale pendeva il processo al momento dell'avvenuto riconoscimento (nella specie, siccome

il riconoscimento era avvenuto durante la pendenza del proce dimento in primo grado, la corte ha rimesso la causa davanti al

tribunale per i minorenni per l'integrazione del contraddittorio

nei confronti del genitore riconoscente). (1)

(1) I. - Deve innanzitutto farsi presente che la materia dell'affidamen to e dell'adozione è stata oggetto di riforma con la 1. 4 maggio 1983 n. 184 {Le leggi, 1983, 184). in particolare, da un lato, il titolo Vili del libro I del codice civile, modificato in alcuni articoli, è stato

espressamente riferito all'adozione di persone maggiori di età e, dall'altro, tutto il capo III del titolo Vili è stato abrogato. La materia dell'adozione speciale, introdotta per la prima volta nel nostro ordinamen to con la 1. n. 431/67, è ora disciplinata interamente dalla predetta 1. n.

184/83. È opportuno sottolineare che il legislatore del 1983, a differenza di

quello del 1967, non ha adottato il metodo della novellazione e ha

disciplinato pertanto l'adozione in una legge speciale. Ciò posto, la decisione riportata, pur concernendo materia oggetto di

riforma, riveste notevole interesse in quanto può fornire utili indi cazioni per la soluzione dei problemi che si pongono a proposito della presenza (necessaria o no) dei genitori che hanno riconosciuto il figlio in pendenza del giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, problemi lasciati insoluti dalla nuova disciplina.

Anche questa legge, infatti, non prevede il caso in cui durante la fase di opposizione allo stato di adottabilità intervenga il riconoscimento ad opera del genitore. All'art. 11 è previsto soltanto il caso in cui durante il procedimento davanti al tribunale per i minorenni per la dichiarazio ne dello stato di adottabilità uno dei genitori chieda la sospensione della procedura al fine di procedere al riconoscimento.

II. - Il caso concreto sottoposto all'attenzione della corte non ha precedenti specifici. Trib. Messina 28 febbraio 1973, Foro it., Rep. 1974, voce Adozióne, n. 56, e in Dir. famiglia, 1974, 429, con nota di Correnti, Per una maggiore tutela del minore abbandonato, ha ritenuto legittimo il decreto che ha dichiarato lo stato di adottabilità, qualora al giudice non sia pervenuta tempestiva notizia del riconoscimento del minore da parte dei suoi genitori naturali, avvenuto anteriormente al decreto. E ciò per evitare di dovere reputare invalidi i decreti emessi nelle forme previste dalla legge per i minori con genitori sconosciuti (art. 314/7), ogni volta che il riconoscimento avvenga prima della emissione della dichiarazione dello stato di adottabilità e dello stesso riconoscimento non si abbia, per un qualsiasi motivo, notizia prima della dichiarazione.

È la prima volta che la Cassazione afferma la natura di litisconsorti necessari nel giudizio di opposizione dei genitori non opponenti. La

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