sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5252; Pres. Gambogi, Est. R. Sgroi, P. M.Morozzo Della Rocca (concl. conf.); Proc. gen. Cass. c. Governatori ed altri. Cassa Consigliosuperiore della magistratura, sez. disciplinare, 12 maggio 1983Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 11 (NOVEMBRE 1985), pp. 2977/2978-2983/2984Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180046 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
farsi valere nel fallimento mediante il procedimento di accer
tamento del passivo. La società Sperco che aveva iniziato la lite (ordinaria) volta al
riconoscimento del proprio credito, una volta sopravvenuto il
fallimento, si sarebbe dovuta insinuare al passivo per fare accerta
re tale credito, e solo a seguito della acquisita certezza avrebbe
potuto pretendere che in quanto scaturito dalla iniziativa del
commissario giudiziario tale credito venisse collocato in prede
duzione, giacché la prededuzione presuppone pur sempre un
credito « accertato » in sede fallimentare potendo la soluzione
apparire opinabile ove si tratti di crediti cui ha dato origine lo
stesso ufficio fallimentare, ma dovendosi sottolineare la impre
scindibilità, anche e soprattutto in linea logica, di un previo accertamento correlato alla necessaria insinuazione quando il
credito sia sorto prima della dichiarazione di fallimento, doven
dosene esaminare, e quindi accertare la regolarità, insieme con la
esistenza.
In definitiva, come esattamente viene posto in luce nella
memoria, nemmeno postulando la decisorietà del provvedimento,
ritenendo, cioè, sia pure del tutto avventatamente che il giudice
delegato avesse voluto, con accertamento negativo, escludere l'e
sistenza del credito, sarebbe stato giustificato il ricorso per cassazione: né diretto ed immediato, né preceduto da un reclamo
(non accolto dal tribunale). Giova al riguardo richiamare la residualità ultimativa del
ricorso per cassazione ex art. Ill Cost, che sicuramente non è
ammissibile se sussista nell'ordinamento altro specifico mezzo di
tutela.
Orbene il processo fallimentare appresta uno strumento siffatto.
L'art. 52, 2° comma, 1. fall, specifica, a chiare lettere, che
« ogni » credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve
essere accertato nel fallimento secondo le regole dettate dagli art.
92 ss. 1. fall., stabilendo specificamente la facoltà di impugnazione ex art. 98 stessa legge dei creditori non ammessi o ammessi con
riserva. La Sperco ha ritenuto, invece, che, traendo origine il
credito dalla autorizzazione del commissario giudiziario, non
occorresse procedere alla verificazione e coerentemente a tale
errore di impostazione ha svolto le sue deduzioni.
In buona sostanza i motivi di merito svolti davanti a questa
corte, fondati o infondati che siano, hanno tipico contenuto di
opposizione alla non ammissione.
Il fondamentale ostacolo alla ammissibilità del ricorso risiede,
quindi, nella imprenscindibile esperibilità della verifica fallimenta
re del credito che la Sperco pretende di vedere collocato in
prededuzione. Anche di recente questa corte ha avuto modo di ribadire che i
crediti sorti verso gli organi di una liquidazione coatta ammini
strativa, pur godendo del trattamento di prededuzione di cui
all'art. Ill 1. fall., sono soggetti alla regola della procedura esecutiva concorsuale (Cass. 1019/82, id., Rep. 1982, voce Liqui dazione coatta amministrativa, n. 71; e nello stesso senso in
precedenza 1307/78, id., Rep. 1978, voce cit., n. 23; 1132/73, id.,
1973, I, 523; 3699/71, id., Rep. 1971, voce cit., n. 28).
È tuttavia certo che nella specie il provvedimento del g.d.
(avallato dal tribunale) non ha inteso statuire sull'esistenza del
credito, ma si è limitato a stabilire che si trattava di credito
contestato che non poteva essere ammesso de plano alla prededu zione prima dell'accertamento della sua esistenza pur non sussi
stendo dubbi sulla ricorrenza dei connotati tipici del debito di
massa.
Ne resta confermata l'inammissibilità del ricorso che non può valere a riparare l'errore nella scelta degli strumenti di tutela
giurisdizionale in cui è incorsa la difesa della creditrice che non
ha provveduto, come avrebbe dovuto, ad insinuare il credito al
passivo, ma ha preteso ugualmente di ottenere il pagamento in
sede di riparto in prededuzione nonostante la pendenza del
giudizio riguardante l'esistenza del credito stesso, e che comunque,
ove avesse ritenuto decisorio il provvedimento di diniego della
collocazione fondata sulla incertezza, avrebbe dovuto avvalersi dei
rimedi endofallimentari tipici riguardarsi l'ammissione al passi
vo. (Omissis)
Il Foro Italiano — 1985.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 18
ottobre 1984, o. 5252; Pres. Gambogi, Est. R. Sgroi, P. M.
Morozzo Della Rocca (conci, ooof.); Proc. gen. Case. c.
Governatori ed altri. Cassa Consiglio superiore della magistra
tura, sez. disciplinare, 12 maggio 1983.
Ordinamento giudiziario — Consiglio superiore della magistra tura — Istruttoria nel procedimento disciplinare — Applicabi lità dell'art. 372 c.p.p. — Esclusione (Cod. proc. pen., art. 372; r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511, guarentigie della magistratura, art. 32, 33, 34).
Ordinamento giudiziario — Procedimento disciplinare contro
magistrati — Termine di decadenza — Vizi dell'atto com
piuto entro il termine — Irrilevanza ai fini dell'evento
estintivo (Cod. proc. pen., art. 272; 1. 3 gennaio 1981 n. 1, modificazioni alla 1. 24 marzo 1958 n. 195 e al d.p.r. 16
settembre 1958 n. 916, sulla costituzione ed il funzionamen
to del Consiglio superiore della magistratura, art. 12).
Non è applicabile, nei procedimenti disciplinari nei confronti dei
magistrati, l'art. 372 c.p.p., il quale è finalizzato a consentire
l'esercizio del diritto di difesa incidente nel rapporto fra p.m. e
g.i., ponendosi tra la requisitoria del primo e la decisione del
secondo, per cui è privo di qualsiasi logico significato in un
sistema, come quello del processo disciplinare, che non prevede nessuna decisione di carattere istruttorio, né nel senso del
proscioglimento, né nel senso del rinvio a giudizio. (1) La l. 3 gennaio 1981 n. 1 deve inserirsi nel sistema generale, nel
quale i termini di durata di una fase processuale non sono
condizionati dalla validità dell'atto compiuto, per cui la senten
za della sezione disciplinare del Consiglio superiore della ma
gistratura emanata nel biennio dalla comunicazione all'incolpato dell'inizio dell'azione, previsto dall'art. 12 l. 1/81, anche se
annullata, impedisce l'evento estintivo. (2)
(1) Non si rinvengono precedenti editi sulla questione specifica. Sui
limiti di applicabilità dell'obbligo del deposito degli atti al termine
dell'istruzione, v. Cass. 29 giugno 1982, Saja, Foro it., Rep. 1983, voce
Libertà personale dell'imputato, n. 248; 21 aprile 1980, Noviello, id.,
Rep. 1981, voce cit., n. 27; 27 novembre 1978, Bordo, id., Rep. 1980, voce cit., n. 93; 24 gennaio 1978, Suma, id., Rep. 1978, voce cit., n.
165; 5 maggio 1976, Izzo, id., Rep. 1977, voce Impugnazioni penali, n. 123, secondo cui l'art. 372 c.p.p. non può essere applicato nel caso
di impugnazione da parte del p.m. di un provvedimento in tema di
libertà provvisoria emesso nell'istruzione; Cass. 11 luglio 1978, Con
tino, id., Rep. 1979, voce Istruzione penale, n. 76 e 8 novembre 1974,
Ingemi, id., Rep. 1976, voce cit., n. 168, che ne hanno escluso
l'operativà in sede di appello istruttorio; Cass. 24 febbraio 1976,
Persia, id., Rep. 1977, voce cit., n. 144; 27 ottobre 1975, Ricci, id.,
Rep. 1976, voce cit., n. 167; 7 api-ile 1972, Cascino, id., Rep. 1975, voce cit., n. 207, secondo cui l'obbligo del deposito degli atti, ai sensi
dell'art. 372 c.p.p., vige solo quando l'istruzione debba essere definita con sentenza di proscioglimento; Cass. 9 febbraio 1976, Turrà, id.,
Rep. 1977, voce cit., n. 146. Nel senso che la prescrizione dettata dall'art. 372 c.p.p. riguarda la
garanzia dell'esistenza e dell'intervento dell'imputato e la completa
esplicazione del suo diritto di difesa, v. Cass. 15 febbraio 1982,
Batronni, id., Rep. 1983, voce cit., n. 77.
Per alcuni profili di legittimità costituzionale dell'art. 372 c.p.p., cfr.
Corte cost. 6 maggio 1976, n. 112, id., 1977, I, 247, con nota di
richiami e 10 luglio 1975, n. 199, id., 1975, I, 1884, con nota di
richiami. Sull'art. 372 c.p.p. cfr. pure Cass. 7 ottobre 1980, Caiola, id., Rep.
1982, voce cit., n. 51; 30 aprile 1980, Crea e 14 giugno 1979, Foti,
id., Rep. 1981, voce cit., nn. 80, 49; 5 luglio 1978, Alfarano, id.,
Rep. 1980, voce Notificazione penale, n..69; 17 febbraio 1978, Crea, id.,
Rep. 1979, voce Istruzione penale, n. 72; 1° dicembre 1975, Diodato e 13 novembre 1975, Papangelo, id., Rep. 1976, voce cit., nn. 173,
192; 27 febbraio 1974, Grimaldi, id., 1975, II, 367, con nota di
richiami; 5 ottobre 1973, Mazzola, id., Rep. 1975, voce cit., n. 202; 10 luglio 1973, Broglio, id., 1974, II, 1, con nota di richiami.
(2) Nel senso che l'irregolare composizione della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura è motivo che attiene alla nullità e non alla inesistenza della decisione, per cui il conseguente annullamento di quest'ultima non travolge la rilevanza processuale della decisione che, una volta pronunciata, implica l'esercizio di quel diritto al cui mancato esercizio soltanto l'art. 12 1. 1/81 collega l'effetto preclusivo della prosecuzione del giudizio, v. Cons. sup.
magistratura, sez. disciplinare, 8 luglio 1983, Foro it., 1983, III, 465, con nota di richiami.
In ordine all'art. 12 1. 1/81, v. Cass. 2 aprile 1984, n. 2144, id.,
1984, I, 1207, con nota di richiami, secondo cui ad evitare l'estinzione del procedimento disciplinare per il decorso del termine di due anni è
sufficiente che entro tale termine sia avvenuta la conclusione del
giudizio disciplinare, essendo indifferenti i tempi di sviluppo dell'ulte riore fase processuale conseguente all'impugnazione proposta dall'incol
pato o dal pubblico ministero.
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2979 PARTE PRIMA 2980
Motivi della decisione. — Il p.g., avverso l'ordinanza 8 aprile 1983, ha dedotto in primo luogo la violazione dell'art. 200 c.p.p. in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che la sezione
disciplinare, con ordinanza 21 luglio 1978, aveva già respinto l'eccezione di nullità (per violazione dell'art. 372 c.p.p.) che ha
poi accolto con l'ordinanza dell'8 aprile 1983, di modo che la
riproposizione della questione mirava alla revoca della precedente
ordinanza; revoca che non era possibile, essendo l'ordinanza
irrevocabile, ma soltanto soggetta ad impugnazione insieme con la
sentenza.
In secondo luogo, ha dedotto la violazione dell'art. 6 1. 24 marzo
1958 n. 195, modificato dalla 1. 18 dicembre 1967 n. 1198 e
modificato dall'art. 15 1. 3 gennaio 1981 n. 1, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., contestando l'affermazione della sezione, secondo cui la
costituzione del collegio all'udienza 21 luglio 1978 non era
conforme a quanto stabilito con la sentenza n. 87/82 (Foro it.,
1982, I, 1495) della Corte costituzionale.
Invero, l'art. 6 1. n. 195/58 stabiliva che per la validità della
decisione della sezione disciplinare dovevano partecipare alla
medesima tre magistrati di Corte di cassazione, salvo che si
trattasse di giudicare un magistrato d'appello o di tribunale, nel
qual caso almeno due dovevano appartenere alla categoria del
magistrato inquisito; e pertanto a norma del suddetto art. 6 e
dell'art. 33 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916 i magistrati di
cassazione necessari per la validità della deliberazione dovevano
essere soltanto due, di cui uno nominato alle funzioni direttive
superiori. Di quel collegio facevano parte come magistrati di
cassazione il dott. Berri, avvocato generale presso la procura
generale della cassazione, ed il dott. D'Oreste, presidente di
sezione della Corte d'appello di Venezia, magistrati oioè che
avevano conseguito oltreché il grado anche le relative funzioni;
pertanto il collegio era legittimamente costituito, e la sezione non
poteva dichiarare nulla né revocare la precedente ordinanza,
perché non revocabile, in quanto soggetta ad impugnazione.
In terzo luogo, il p.g. deduce la violazione degli art. 32 e 33
r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511 e falsa applicazione dell'art. 372
c.p.p., ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. osservando: a) che, in
fatto, il deposito degli atti al termine dell'istruzione formale era
stato effettuato e comunque il difensore aveva preso visione degli atti. Il procedimento disciplinare oggetto dell'impugnata sentenza
era stato riunito ad altro procedimento contro lo stesso Governa
tori ed i dott. Alvato ed Antonacci, per i quali il p.m. aveva
formulato richiesta di proscioglimento, pronunciata poi in camera
di consiglio all'udienza del 5 maggio 1977. Poiché tale decisione
era stata adottata con la partecipazione dei difensori, quello del
Governatori prese visione degli atti; né a tale scopo appare rilevante il fatto che non sia stato adottato un provvedimento formale di deposito con avviso al difensore, quando risulta che il
deposito in concreto vi fu e che il difensore prese visione
dell'intero fascicolo; b) in ogni caso, l'art. 372 c.p.p. non è
applicabile al procedimento disciplinare, perché il deposito degli atti è finalizzato alla possibilità per la difesa di svolgere un'attivi
tà tendente ad elidere od attenuare l'efficacia delle prove raccolte
ed allo scopo di porre il g.i. nella condizione di adottare un
provvedimento coincidente con le aspettative dell'imputato. Siffat
ta possibilità è esclusa quando la legge non consente, in caso di
richiesta di rinvio a giudizio da parte del p.m. nessuna alternati
va per la sezione disciplinare (art. 33 r.d.l. n. 511/46). Né il
rinvio al dibattimento dinanzi alla sezione disciplinare viola il
diritto di difesa ex art. 24 Cost.; c) la sezione ha ritenuto che il
deposito degli atti dovrebbe precedere la requisitoria del p.m.; ma con ciò non ha applicato le norme del c.p.p., ma ne ha
creata una nuova. La legge non ha ancorato l'operatività della
norma esclusivamente alla richiesta del p.m., perché il proscio
glimento può essere disposto soltanto quando, su conforme
richiesta del p.m., siano esclusi gli addebiti contestati, il che
significa che il proscioglimento nel procedimento disciplinare è
regolato in modo diverso rispetto al proscioglimento istruttorio
penale. I due procedimenti sono diversi nei presupposti, nelle
finalità e negli interessi che si intendono tutelare ed a tale
diversità consegue l'inapplicabilità della norma relativa al deposi to degli atti.
I tre motivi si devono accogliere, per quanto di ragione. Si deve premettere, da un punto di vista formale, che l'impu
gnazione alle sezioni unite civili della Corte suprema di cassazio
ne delle sentenze diala sezione disciplinare del Consiglilo superiore della magistratura (art. 60 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916) è inte
ramente regolata dagli art. 360 ss. c.p.c. (Cass., sez. un., 15
novembre 1982, n. 6085, id., 1983, I, 680; 10 novembre 1977, n.
Il Foro Italiano — 1985.
4843, id., Rep. 1979, voce Ordinamento giudiziario, n. 44). E,
pertanto, l'impugnazione deve essere diretta contro il provvedi mento decisorio finale (art. 17, ult. comma, 1. 24 marzo 1958 n.
195: salva l'impugnabilità dei provvedimenti di sospensione cau
telare). L'ordinanza dibattimentale, non impugnabile ex se autonoma
mente, ma solo con la sentenza (art. 200 c.p.p.) è oggetto del
ricorso con riferimento alla sua influenza sulla sentenza e cioè
soltanto in quanto la sentenza sia affetta da un vizio derivante
dalla nullità dell'ordinanza. La sentenza civile, invero, può essere
impugnata anche per nullità del procedimento (art. 360, n. 4,
c.p.c.) che si rifletta in nullità della sentenza.
Nella specie, da un lato tutta la motivazione della sentenza è
basata sul presupposto dell'integrale recezione dell'ordinanza del
T8 aprile 1983 e della sua confermata validità; dall'altro lato
il p.g., nell'impugnare contestualmente la sent. 12 maggio 1983, ha affermato che, una volta accolto uno qualsiasi dei motivi
dedotti contro l'ordinanza, non avrebbe più ragione d'essere
la nullità del decreto di citazione posta a base della dichia
rata estinzione del procedimento disciplinare. Vi è quindi un
richiamo espresso, nell'impugnazione avverso la sentenza, dei
motivi d'impugnazione contro l'ordinanza, e pertanto il ricorso è
ammissibile, anche nei primi tre motivi che si stanno esaminando,
perché essi sono rivolti sostanzialmente anche contro la sentenza.
La prima censura, con la quale il p.g. deduce che la sezione
disciplinare non avrebbe potuto « revocare » la propria preceden te ordinanza del 1978 (con la quale era stata respinta l'eccezione
di nullità, invece accolta con l'ordinanza del 1983) non è perti nente alla ratio decidendi adottata dalla sezione la quale non
ha revocato l'ordinanza precedente, ma l'ha dichiarata nulla,
perché emessa dal collegio in composizione illegittima (sulla differenza fra revoca e dichiarazione di nullità è evidente che
non è necessario insistere).
Egualmente priva di effettiva pertinenza alle ragioni della
dichiarata nullità è la seconda censura con la quale si contesta
che la sezione disciplinare, nella composizione dell'udienza del 21
luglio 1978, versasse nell'illegittimità dipendente dalla pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 23, 2° comma, 1. 24 marzo
1958 n. 195 (come sostituito dall'art. 3 1. 22 dicembre 1975 n.
695), nella parte in cui prevede che possano essere componenti del Consiglio superiore, in qualità di magistrati di cassazione,
magistrati che abbiano conseguito la nomina, ma non esercitino
le relative funzioni (Corte cost. 10 maggio 1982, n. 87). Invero, il
p.g. è partito dalla premessa erronea che si dovesse applicare l'art. 5 1. 24 marzo 1958 n. 195, sostituito dall'art. 2 1. 22 dicembre
1975 n. 695; ma il suddetto articolo è stato dichiarato incostitu
zionale con sentenza della Corte cost. 2 febbraio 1971, n. 12
(id., 1971, I, 536), per cui (fino all'entrata in vigore della nuova 1. n. 1/81; evidentemente non applicabile ad un collegio costituito
nel 1978) il consiglio, in sede disciplinare, deliberava nel plenum
previsto dall'art. 4 1. del 1958, sostituito dall'art. 1 1. del 1967. Ed è con riguardo a tale plenum di 15 membri che è stata
esattamente dichiarata, d'ufficio, l'illegittima composizione ai sen si della successiva sentenza della Corte cost. n. 87/82. Invero, in un procedimento pendente, salva la preclusione del giudicato, la declaratoria di illegittima composizione del collegio investe anche deliberazioni anteriori alla sent. n. 87 (cfr., fra le altre
sez. un. 15 novembre 1982, n. 6089, id., 1983, I, 679).
È invece fondata, sotto tutti gli aspetti, la terza censura. In fatto, si rileva che effettivamente, come ha dato atto anche
il Consiglio superiore nella decisione impugnata, i procedimenti disciplinari avviati contro il dott. Governatori erano tre ed erano stati riuniti; ma il secondo (quello di cui alla nota del 4
dicembre 1972, iniziato anche nei confronti dei dott. Alvaro ed
Antonacci) è da tempo esaurito. Invero, in data 10 gennaio 1975 il p.g. (contestualmente alla fissazione del dibattimento per gli altri due addebiti) chiedeva alla sezione disciplinare per l'adde bito comune agli altri due incolpati che dichiarasse non farsi luogo al rinvio a dibattimento nei confronti di tutti e tre gli incolpati.
A seguito di vari rinvìi nella fissazione della camera di
consiglio, il 5 maggio 1978 la sezione disciplinare pronunciava sentenza di non farsi luogo -a rinvio a dibattimento limitatamente all'addebito comune nei confronti anche del Governatori.
Che quest'ultimo avesse avuto, allora, piena conoscenza di tutti
gli atti risulta, oltre che dalla prova presuntiva indicata dal
ricorrente, da una prova documentale positiva, proveniente dallo stesso Governatori, il quale, in data 13 ottobre 1977 chiedeva ed otteneva la copia degli atti (cfr. l'annotazione « si autorizza » in
calce all'istanza, la cui formulazione consente di comprendere
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
nell'ottenimento della copia tutti gli atti inviati al Governatori il
15 ottobre 1977 relativi anche ai residui due procedimenti disci
plinari). Pertanto, la sezione disciplinare ha trascurato di conside
rare (ed il relativo accertamento può essere compiuto da questa corte, nell'ambito dei poteri di esame diretto degli atti di causa
che le competono in sede di cognizione dei vizi in procedendo che a decorrere dalla suddetta data del 15 ottobre 1977
il Governatori non avrebbe più potuto eccepire la pretesa nullità (cfr. Cass. pen. 14 febbraio 1966 Sorrentino, id., Rep.
1966, voce Impugnazioni penali, n. 34; 11 dicembre 1964, Mem
bretti, ibid., voce Istruzione penale, n. 160) per violazione del
l'art. 372 c.p.p. perché era in possesso della copia di tutti gli atti (nessun altro atto istruttorio è stato compiuto successivamen
te al 10 gennaio 1975). Pertanto, già per questo assorbente
motivo, avrebbe dovuto rigettare l'eccezione sollevata all'udienza
dell'8 aprile 1983. Per ribadire la pretestuosità dell'eccezione, è
utile anche rilevare che, comunque, l'eccezione non avrebbe
potuto essere più sollevata, in ordine al decreto del 1" aprile 1982 con il quale il Governatori è stato citato a comparire per l'udienza del 1° ottobre 1982 (udienza rinviata prima al 18 marzo
1983 e, ancora, all'8 aprile successivo). Invero, risulta dagli atti
che il Governatori è stato citato, con provvedimento del 27
giugno 1978 dal presidente della sezione (e pertanto valido sotto
il profilo della competenza, in quanto non investito dalla già richiamata sentenza della Corte cost. n. 87/82) ed ha partecipato al dibattimento conclusosi con l'ordinanza del 21 luglio 1978. Nei
dieci giorni in cui l'art. 33, ult. comma, r.d.l. n. 511/46, il
Governatori avrebbe potuto prendere visione di tutti gli atti, già del resto conosciuti fin dall'ottobre del 1977.
L'eccezione non avrebbe potuto essere mossa neppure contro il
decreto di convocazione del 27 giugno 1978, per la già acquisita conoscenza degli atti, fin dall'ottobre 1977.
Le osservazioni fatte non esauriscono la materia del ricorso,
perché con esse si è dimostrata l'erroneità della pronuncia con
cui la sezione disciplinare ha dichiarato la nullità del decreto del
suo presidente di citazione a giudizio (sia di quello del 1978 che
di quello del 1982). Si deve ora dimostrare l'erroneità della
pronuncia di nullità della richiesta di rinvio a giudizio (contenuta nell'atto in data 10 gennaio 1975 del p.g.), in quanto l'ordinanza
8 aprile 1983 ha dichiarato in primo luogo la suddetta nullità, mentre la nullità del decreto di citazione a giudizio è stata
dichiarata come conseguenza della prima. La corte ritiene che evidenti dati testuali e sistematici dimo
strino l'inapplicabilità dell'art. 372 c.p.p., la cui pretesa violazione
è pertanto del tutto inesistente.
L'art. 32 d.l. n. 511/46, sotto la rubrica «istruttoria nel pro cedimento disciplinare » al 3° comma dispone: « per l'istru
zione si osservano, in quanto compatibili, le norme relative
all'istruzione nei procedimenti penali ». Gli ultimi due comma
richiamano norme specifiche del c.p.p. sui periti e testimoni.
L'art. 34, sotto la rubrica « discussione nel giudizio disciplina re », all'ult. comma dispone: si osservano, in quanto compatibili con la natura del procedimento e con le disposizioni del presente
decreto, le norme dei dibattimenti penali. L'art. 33, invece, sotto la rubrica « chiusura dell'istruttoria »
non solo non richiama le norme del c.p.p., ma regola in maniera
autonoma e completa (che non consente di integrare la disciplina con norma del c.p.p. e di ritenere operante il rinvio contenuto
nel 3° comma dell'art. 32) la chiusura dell'istruttoria disciplinare.
Invero, questa è strutturata in modo tale da negare lo stesso
presupposto dell'art. 369 c.p.p., con cui si apre il capo X (« della
chiusura dell'istruttoria formale ») titolo II, libro II, c.p.p. consi
stente nei « rapporti fra il giudice istruttore ed il p.m. ».
Nessun « rapporto » del genere sussiste nel procedimento di
sciplinare, nel quale la dialettica è istituita fra il p.m. e la
sezione disciplinare, competente per il giudizio. E pertanto, l'art.
372, che è finalizzato a consentire l'esercizio del diritto di difesa
incidente in tale rapporto, perché si pone temporalmente e
strutturalmente fra la requisitoria del p.m. e la decisione del g.i.
di rinvio a giudizio (art. 374) o di proscioglimento (art. 378
c.p.p.) è privo di qualsiasi logico significato in un sistema che
non prevede nessuna decisione di carattere istruttorio, né nel
senso del proscioglimento, né nel senso del rinvio a giudizio. Se il rapporto si istituisce fra il p.m. e la sezione disciplinare,
è evidente che il diritto di difesa (anche nel caso in cui si sia
proceduto ad istruttoria formale, la quale non porta alcuna
diversità di disciplina relativamente alla chiusura dell'istruzione,
regolata dall'art. 33) si esercita alla stregua dell'art. 397 c.p.c.
(dopo la richiesta di citazione a giudizio) e dell'art. 410 c.p.p.,
durante il termine per comparire al giudizio.
Il Foro Italiano — 1985.
D'altra parte, il deposito degli atti ex art. 372 c.p.p. è finalizza
to allo svolgimento di un'attività difensiva tendente » porre il g.i. nelle condizioni di adottare un provvedimento di proscioglimen
to: ma siffatta possibilità è esclusa nel procedimento disciplinare, nel quale, in caso di richiesta di rinvio a giudizio da parte del
p.m., la sezione disciplinare non ha alcuna alternativa che il
giudizio. L'art. 33 cit. non consente di pronunciare un proscio
glimento se non quando, su conforme (richiesta del p.m., risultino
esclusi gli addebiti. La formula dimostra che il proscioglimento
disciplinare è regolato in modo del tutto diverso dal prosciogli mento in sede penale, perché non è ammesso con la formula del
dubbio o del « fatto che non costituisce illecito disciplinare ».
Inoltre, il proscioglimento è sempre adottato dall'organo compe tente per il giudizio e non dall'organo istruttorio; esso evita il
dibattimento, ma differisce dal proscioglimento in sede penale, sia
per la competenza dell'organo che lo pronuncia, sia per il diverso
regime nei confronti delle richieste del p.m., una sola delle quali
può condurre alla conforme deoisione che « dalle prove risultino
esclusi gli addebiti» <2° comma dell'art. 33 cit.).
A queste ragioni di ordine letterale e sistematico si affianca la
impossibilità di applicare l'art. 372 il quale prevede il deposito
degli atti dopo la requisitoria del p.m. L'anticipazione del deposi to ad un momento anteriore alle richieste del p.g. (onde consen
tire alla difesa di influire sulla valutazione conclusiva dell'istrut
toria rimessa all'esclusiva competenza del p.g.), postulata dalla
sezione disciplinare nel provvedimento impugnato, in primo luogo non corrisponde all'applicazione dell'art. 372, ma si converte nella
creazione di una norma diversa. In secondo luogo, tende alla
soddisfazione di un'esigenza che può essere assicurata ugualmente
dall'art. 305 c.p.p. (e norme ivi richiamate, applicabili all'istruzio
ne sommaria ex art. 392 c.p.p., nel testo risultante da Corte cost.
26 giugno 1965, n. 52, id., 1965, I, 1160), nonché dai richiamati
art. 397 e 410 c.p.p. (cfr. Corte cost. 29 dicembre 1966, n. 127,
id., 1967, I, 1; 4 febbraio 1970, n. 16, id., 1970, I, 698). E,
pertanto, sotto nessun profilo può ritenersi che l'art. 372 c.p.p. sia
norma « computabile » ai sensi del 2° comma dell'art. 32 r.d. n.
511/46.
Con l'ultimo motivo il p.g. deduce la violazione dell'art. 12 1. 3
gennaio 1981 n. 1, osservando che il termine ivi previsto non è
di decadenza, né di prescrizione, ma una semplice preclusione
processuale, la quale non può più verificarsi, una volta compiuto l'onere.
La nullità del decreto di citazione, una volta accolto uno dei
motivi precedenti, non avrebbe più ragion d'essere e toglierebbe
il fondamento della dichiarata estinzione. In ogni caso, l'atto
nullo non può parificarsi a quello inesistente, ed di compimento
dell'atto — anche se affetto da qualche vizio — impedisce il
verificarsi della decadenza. La nullità o l'irregolarità di un atto
non incide sull'efficacia del medesimo, al fine del superamento dei
termini posti dalla 1. n. 1/81. Infine — osserva il p.g. — il
decreto del 1978, con il quale venne fissata l'udienza del 21 luglio
1978, non è mai stato dichiarato nullo. Già con tale decreto — a
cui seguì la fase dinanzi alla Corte costituzionale — la decadenza
relativa al periodo istruttorio era stata superata e pertanto doveva
farsi luogo a trattazione nel procedimento.
II motivo è fondato nella parte in cui non è assorbito
dall'accoglimento — per quanto di ragione — dei precedenti.
Invero, poisto che non avrebbe potuto dichiararsi la nullità
della richiesta di rinvio a giudizio del p.g. e del decreto di
citazione a giudizio, la sezione del Consiglio superiore della
magistratura avrebbe dovuto applicare l'art. 13 1. n. 1/81 a
tenore del quale, per i fatti per i quali era in corso il pro
cedimento disciplinare (alla data della entrata in vigore della
legge) i termini previsti dall'art. 12 decorrono dall'entrata in
vigore predetta, nonché il 2° comma dell'art. 12 sulla sospen
sione fino alla pubblicazione della sentenza della Corte costitu
zionale pronunciata sull'incidente di legittimità costituzionale sol
levato nel predetto procedimento a carico del Governatori (su
un'altra norma, non rilevante in questa sede).
E, pertanto, poiché si era già nella fase successiva alla comuni
cazione all'incolpato del decreto del 1978 di fissazione della
discussione orale (discussione iniziata ben prima dell'entrata in
vigore della legge), doveva applicarsi il termine biennale —
decorrente dal 17 giugno 1981 — per la pronuncia della sentenza.
Poiché, nel frattempo, il biennio si è compiuto il 17 giugno
1983 (ma la sentenza impugnata è del 12 maggio 1983) sorge il
problema dell'eventuale sopravvenienza di un termine di estin
zione diverso da quello applicato dalla sezione disciplinare. Ma la
questione deve essere risolta in senso negativo.
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2983 PARTE PRIMA 2984
Si deve premettere che con riguardo ai termini previsti dal 9°
comma dell'art. 12 1. n. 1 non può parlarsi di decadenza, poiché tale istituto può riguardare solo gli atti di parte (privata o p.m.) e non gli atti del giudice, in ordine ai quali è più esatto parlare di « preclusione ». E, pertanto, non può applicarsi il principio secondo cui l'atto che impedisce la decadenza deve essere con
forme a legge ed avere tutti i requisiti previsti a pena di nullità
(Cass. 26 maggio 1954, n. 1688, id., Rep. 1954, voce Decadenza, n. 3). Ma, si ripete, non si tratta di atti che regolano l'esercizio
di un « diritto » entro un determinato termine (art. 2964 c.c.),
perché, nel primo caso, l'atto da compiere è la comunicazione
all'incolpato del decreto (del presidente della sezione disciplinare) e quindi non è un atto che proviene dall'organo titolare del
potere disciplinare, costituzionalmente garantito (art. 107, 2°
comma Cost.); nel secondo caso, deve essere esercitata entro due
anni la funzione decisoria in materia disciplinare spettante al
Consiglio superiore della magistratura (art. 105 Cost.), funzione
a cui mal si adatata la configurazione di un diritto (di regola
potestativo) in relazione al cui esercizio sia posto, con onere
di perentoria osservanza, un termine (Cass. 6 novembre 1976, n. 4043, id., Rep. 1976, voce Prescrizione e decadenza, n. 181).
Escluso che la nullità dell'atto compiuto possa valutarsi negati
vamente, ad finii dell'osservanza dei due termini predetti, con
riguardo ai principi sulla decadenza (che non sono applicabili), la
corte osserva che la legge sembra essere partita dal presupposto
che gli atti da compiere non siano mai annullati e non si
debbano rinnovare. Ed infatti, basti pensare all'ipotesi di un'i
struttoria dichiarata valida dalla sezione disciplinare, ma annulla
ta dalla Corte di cassazione, per impedire il rispetto dei termini,
a meno che non si abbia una sentenza della Cassazione entro il
primo dei due termini (quello di un anno). A parte la irrealtà
dell'ipotesi, essa contrasta con la legge, che non può pretendere — ai fini del rispetto di termini diversi, coordinati in successione
temporale delle due fasi — che tutte le fasi si compiano nel primo
termine. La necessità di una pronuncia (della sezione del
Consiglio superiore della magistratura o della Cassazione),
per dichiarare la nullità incorsa in un atto da compiere entro un certo termine, induce a far ritenere profondamente errata la tesi che addebita al legislatore un disegno che non
tiene conto del regime della nullità degli atti processuali, da
valutarsi in sede prima decisoria e poi di gravame, e cioè in una
sede in cui sono già necessariamente cominciati a decorrere i
termini successivi per la decisione. In realtà, infatti, la legge deve
inserirsi nel sistema generale, nel quale i termini di durata di una
fase processuale non sono condizionati dalla validità dell'atto
compiuto (argomento ex art. 272, nuovo testo, c.p.p.). L'argomen to contrario svolto dalla sezione è basato essenzialmente sull'as
sunto che in caso di nullità del decreto di fissazione conseguente ad omissioni rilevanti di attività istruttorie sarebbe consentito a
fini istruttori l'utilizzazione del periodo che la legge ha riferito
allo svolgimento del dibattimento ed all'emanazione della senten
za. Ma l'argomento non può essere seguito, perché muove dall'as
sunto che quel tempo debba essere sottratto dal termine biennale
per la decisione successiva alla comunicazione del decreto di
fissazione; assunto insostenibile, proprio perché una decisione
della sezione vi è stata (sia pure di mero annullamento di atti e
non di merito) e quindi il termine biennale non può più essere
suscettibile di limitazioni.
Analogamente — ed a maggior ragione — la sentenza emanata
nel biennio previsto dalla legge, anche se annullata, impedisce l'evento estintivo: infatti, basta aggiungere che il giudizio d'im
pugnazione è regolato autonomamente in primo luogo con la
fissazione del termine di 60 giorni ex art. 60 d.p.r. n. 916/58; ed
in secondo luogo con l'applicazione degli art. 360 ss. c.p.c. e
delle norme sul giudizio di rinvio.
All'accoglimento del ricorso deve seguire l'enunciazione dei
principi ex art. 384 c.p.c., perché l'annullamento non è pronun ciato ex art. 360, n. 3, ma ex art. 360, n. 4, c.p.c., ed in tali casi
non si deve enunciare il principio, ma il vincolo nasce dalla
diretta statuizione emanata da questa corte sul processo, in sede
di rinvio dinanzi alla sezione disciplinare.
Il Foro Italiano — 1985.
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 21 luglio
1984, ti, 4284; Pres. F. Greco, Est. Bologna, P. M. Benanti
(conci, oonif.); Saotaktcda (Aw. Caradonna) c. Saoitaluoia e
ail/tiro (Aw. Battista, Bellisario, Trabace). Conferma App. Bari 8 luglio 1983.
Società — Società di persone composta da tre soci — Esclusio
ne di un socio — Competenza (Cod. civ., art. 2287).
Nell'ipotesi di società di persone composta da soli tre soci, l'esclusione di uno di essi dalla società non può essere pronun ciata dal giudice, ma deve essere deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da
escludere. (1)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenzia 30 marzo
1984, n. 2084; Pres. Falcone, Est. Bologna, P.M. Zema
(conci, conf.); Core (Avv. Piperno, Di Benedetto) c. Soc.
Pasteur (Avv. Camilli, Lombardo). Cassa App. L'Aquila 2
giugno 1981.
Società — Società di persone — Controversie relative alla
esclusione di soci — Compromettibilità in arbitri — Termine
(Cod. civ., art. 2287; cod. proc. civ., art. 806).
Il termine di decadenza, stabilito dall'art. 2287 c.c. per la
proposizione dell'opposizione avverso l'esclusione di un socio
nelle società di persone, non è applicabile ai giudizi arbitrali e
la rinunzia alla cognizione degli arbitri, effettuata dopo l'in
staurazione del procedimento, non fa rivivere ex post l'opera tività di detto termine. (2)
(1) La sentenza in epigrafe ha ritenuto « giuridicamente corretta e
logicamente congrua » la motivazione della sentenza di merito per cui la società in questione era da considerarsi composta da tre soci e non solo da due, come pretendeva l'attore, in quanto anche nei confronti del terzo sussistevano gli elementi dei conferimenti, della divisione
degli utili, dell'affectio socìetatis (il quale ultimo elemento consiste nel vincolo di collaborazione in vista della attività economica comune, per Cass. 20 gennaio 1982, n. 381, Foro it., Rep. 1982, voce Società, n.
134). In relazione dell'onere della prova, Cass. 5 maggio 1978, n. 2120,
id., Rep. 1978, voce cit., n. 320, ha ritenuto che l'azione promossa da un socio per ottenere l'esclusione di altro socio ha come presupposto processuale il fatto che la società sia in quel momento composta da due soci soltanto, e all'attore incombe l'onere di provare la sussistenza della società, mentre al convenuto, che voglia eccepire l'improponibilità dell'azione, incombe l'onere di provare che della società fanno parte anche altre persone.
(2) A giudizio della corte la norma dell'art. 2287 c.c., che pre vede un termine di trenta giorni per instaurare il giudizio di
opposizione dinanzi al tribunale da parte del socio, è derogata dalla clausola dello statuto sociale che compromette in arbitri la risoluzione delle controversie in tema di esclusione di soci, e non è suscettibile di reviviscenza neppure in caso di rinunzia al procedimento arbitrale operata concordemente dalle parti.
Per App. Milano 1° settembre 1962, Foro it., Rep. 1963, voce Società, n. 299, il termine di trenta giorni per il proponimento dell'opposizione di nanzi al tribunale, ove lo statuto sociale contenga una clausola compro missoria, decorre dalla data in cui si sia eventualmente estinto il manda to per il deposito del lodo. Secondo Cass. 18 dicembre 1978, nn. 6053 e 6054, id., Rep. 1978, voce cit., nn. 322, 323, la definitività di una delibera di decadenza del socio per mancata impugnazione nel termine perentorio fissato dallo statuto sociale, non trova ostacolo nel fatto che l'impugnazione vada proposta in sede arbitrale, e che il collegio stesso non sia ancora costituito, laddove la tempestiva proposizione dell'im pugnazione sia prevista dallo statuto come mezzo idoneo per promuo vere il procedimento di costituzione del collegio.
È molto dibatutto se, in presenza di clausola compromissoria, sopravviva pur tuttavia in capo al tribunale la competenza a disporre la sospensione dell'esecuzione della delibera di esclusione. La soluzione largamente maggioritaria è quella affermativa, in considerazione della natura cautelare del provvedimento, in quanto gli arbitri, a mente dell'art. 818 c.p.c., non possono disporre provvedimenti cautelari. In tal senso, v., tra le altre, Trib. Verbania 1" agosto 1949, id., 1949, I, 1139, e Trib. Milano 19 maggio 1951, id., Rep. 1951, voce cit., n. 307; in dottri na cfr. Andrioli, Competenza a sospendere la deliberazione di esclusio ne di un socio dalla società s.n.c., id., 1949, I, 1139, e Jannuzzi, Questioni in tema di controversie di esclusione di socio di società personali deferite ad arbitro, in Giur. it., 1950, I, 2, 113, spec. 116. In senso contrario v., da ultimo, Di Gravio, Una competenza « inventa ta»-. la sospensione della delibera di esclusione del socio in pendenza di procedimento arbitrale, in Dir. fall., 1982, I, 305, spec. 318 e 325.
Sul punto, e in generale sui rapporti tra giudice ordinario e collegio arbitrale in ordine a controversie sulla esclusione di un socio di
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