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sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5252; Pres. Gambogi, Est. R. Sgroi, P. M. Morozzo...

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sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5252; Pres. Gambogi, Est. R. Sgroi, P. M. Morozzo Della Rocca (concl. conf.); Proc. gen. Cass. c. Governatori ed altri. Cassa Consiglio superiore della magistratura, sez. disciplinare, 12 maggio 1983 Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 11 (NOVEMBRE 1985), pp. 2977/2978-2983/2984 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23180046 . Accessed: 28/06/2014 16:54 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.31.195.50 on Sat, 28 Jun 2014 16:54:43 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5252; Pres. Gambogi, Est. R. Sgroi, P. M.Morozzo Della Rocca (concl. conf.); Proc. gen. Cass. c. Governatori ed altri. Cassa Consigliosuperiore della magistratura, sez. disciplinare, 12 maggio 1983Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 11 (NOVEMBRE 1985), pp. 2977/2978-2983/2984Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180046 .

Accessed: 28/06/2014 16:54

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

farsi valere nel fallimento mediante il procedimento di accer

tamento del passivo. La società Sperco che aveva iniziato la lite (ordinaria) volta al

riconoscimento del proprio credito, una volta sopravvenuto il

fallimento, si sarebbe dovuta insinuare al passivo per fare accerta

re tale credito, e solo a seguito della acquisita certezza avrebbe

potuto pretendere che in quanto scaturito dalla iniziativa del

commissario giudiziario tale credito venisse collocato in prede

duzione, giacché la prededuzione presuppone pur sempre un

credito « accertato » in sede fallimentare potendo la soluzione

apparire opinabile ove si tratti di crediti cui ha dato origine lo

stesso ufficio fallimentare, ma dovendosi sottolineare la impre

scindibilità, anche e soprattutto in linea logica, di un previo accertamento correlato alla necessaria insinuazione quando il

credito sia sorto prima della dichiarazione di fallimento, doven

dosene esaminare, e quindi accertare la regolarità, insieme con la

esistenza.

In definitiva, come esattamente viene posto in luce nella

memoria, nemmeno postulando la decisorietà del provvedimento,

ritenendo, cioè, sia pure del tutto avventatamente che il giudice

delegato avesse voluto, con accertamento negativo, escludere l'e

sistenza del credito, sarebbe stato giustificato il ricorso per cassazione: né diretto ed immediato, né preceduto da un reclamo

(non accolto dal tribunale). Giova al riguardo richiamare la residualità ultimativa del

ricorso per cassazione ex art. Ill Cost, che sicuramente non è

ammissibile se sussista nell'ordinamento altro specifico mezzo di

tutela.

Orbene il processo fallimentare appresta uno strumento siffatto.

L'art. 52, 2° comma, 1. fall, specifica, a chiare lettere, che

« ogni » credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve

essere accertato nel fallimento secondo le regole dettate dagli art.

92 ss. 1. fall., stabilendo specificamente la facoltà di impugnazione ex art. 98 stessa legge dei creditori non ammessi o ammessi con

riserva. La Sperco ha ritenuto, invece, che, traendo origine il

credito dalla autorizzazione del commissario giudiziario, non

occorresse procedere alla verificazione e coerentemente a tale

errore di impostazione ha svolto le sue deduzioni.

In buona sostanza i motivi di merito svolti davanti a questa

corte, fondati o infondati che siano, hanno tipico contenuto di

opposizione alla non ammissione.

Il fondamentale ostacolo alla ammissibilità del ricorso risiede,

quindi, nella imprenscindibile esperibilità della verifica fallimenta

re del credito che la Sperco pretende di vedere collocato in

prededuzione. Anche di recente questa corte ha avuto modo di ribadire che i

crediti sorti verso gli organi di una liquidazione coatta ammini

strativa, pur godendo del trattamento di prededuzione di cui

all'art. Ill 1. fall., sono soggetti alla regola della procedura esecutiva concorsuale (Cass. 1019/82, id., Rep. 1982, voce Liqui dazione coatta amministrativa, n. 71; e nello stesso senso in

precedenza 1307/78, id., Rep. 1978, voce cit., n. 23; 1132/73, id.,

1973, I, 523; 3699/71, id., Rep. 1971, voce cit., n. 28).

È tuttavia certo che nella specie il provvedimento del g.d.

(avallato dal tribunale) non ha inteso statuire sull'esistenza del

credito, ma si è limitato a stabilire che si trattava di credito

contestato che non poteva essere ammesso de plano alla prededu zione prima dell'accertamento della sua esistenza pur non sussi

stendo dubbi sulla ricorrenza dei connotati tipici del debito di

massa.

Ne resta confermata l'inammissibilità del ricorso che non può valere a riparare l'errore nella scelta degli strumenti di tutela

giurisdizionale in cui è incorsa la difesa della creditrice che non

ha provveduto, come avrebbe dovuto, ad insinuare il credito al

passivo, ma ha preteso ugualmente di ottenere il pagamento in

sede di riparto in prededuzione nonostante la pendenza del

giudizio riguardante l'esistenza del credito stesso, e che comunque,

ove avesse ritenuto decisorio il provvedimento di diniego della

collocazione fondata sulla incertezza, avrebbe dovuto avvalersi dei

rimedi endofallimentari tipici riguardarsi l'ammissione al passi

vo. (Omissis)

Il Foro Italiano — 1985.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 18

ottobre 1984, o. 5252; Pres. Gambogi, Est. R. Sgroi, P. M.

Morozzo Della Rocca (conci, ooof.); Proc. gen. Case. c.

Governatori ed altri. Cassa Consiglio superiore della magistra

tura, sez. disciplinare, 12 maggio 1983.

Ordinamento giudiziario — Consiglio superiore della magistra tura — Istruttoria nel procedimento disciplinare — Applicabi lità dell'art. 372 c.p.p. — Esclusione (Cod. proc. pen., art. 372; r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511, guarentigie della magistratura, art. 32, 33, 34).

Ordinamento giudiziario — Procedimento disciplinare contro

magistrati — Termine di decadenza — Vizi dell'atto com

piuto entro il termine — Irrilevanza ai fini dell'evento

estintivo (Cod. proc. pen., art. 272; 1. 3 gennaio 1981 n. 1, modificazioni alla 1. 24 marzo 1958 n. 195 e al d.p.r. 16

settembre 1958 n. 916, sulla costituzione ed il funzionamen

to del Consiglio superiore della magistratura, art. 12).

Non è applicabile, nei procedimenti disciplinari nei confronti dei

magistrati, l'art. 372 c.p.p., il quale è finalizzato a consentire

l'esercizio del diritto di difesa incidente nel rapporto fra p.m. e

g.i., ponendosi tra la requisitoria del primo e la decisione del

secondo, per cui è privo di qualsiasi logico significato in un

sistema, come quello del processo disciplinare, che non prevede nessuna decisione di carattere istruttorio, né nel senso del

proscioglimento, né nel senso del rinvio a giudizio. (1) La l. 3 gennaio 1981 n. 1 deve inserirsi nel sistema generale, nel

quale i termini di durata di una fase processuale non sono

condizionati dalla validità dell'atto compiuto, per cui la senten

za della sezione disciplinare del Consiglio superiore della ma

gistratura emanata nel biennio dalla comunicazione all'incolpato dell'inizio dell'azione, previsto dall'art. 12 l. 1/81, anche se

annullata, impedisce l'evento estintivo. (2)

(1) Non si rinvengono precedenti editi sulla questione specifica. Sui

limiti di applicabilità dell'obbligo del deposito degli atti al termine

dell'istruzione, v. Cass. 29 giugno 1982, Saja, Foro it., Rep. 1983, voce

Libertà personale dell'imputato, n. 248; 21 aprile 1980, Noviello, id.,

Rep. 1981, voce cit., n. 27; 27 novembre 1978, Bordo, id., Rep. 1980, voce cit., n. 93; 24 gennaio 1978, Suma, id., Rep. 1978, voce cit., n.

165; 5 maggio 1976, Izzo, id., Rep. 1977, voce Impugnazioni penali, n. 123, secondo cui l'art. 372 c.p.p. non può essere applicato nel caso

di impugnazione da parte del p.m. di un provvedimento in tema di

libertà provvisoria emesso nell'istruzione; Cass. 11 luglio 1978, Con

tino, id., Rep. 1979, voce Istruzione penale, n. 76 e 8 novembre 1974,

Ingemi, id., Rep. 1976, voce cit., n. 168, che ne hanno escluso

l'operativà in sede di appello istruttorio; Cass. 24 febbraio 1976,

Persia, id., Rep. 1977, voce cit., n. 144; 27 ottobre 1975, Ricci, id.,

Rep. 1976, voce cit., n. 167; 7 api-ile 1972, Cascino, id., Rep. 1975, voce cit., n. 207, secondo cui l'obbligo del deposito degli atti, ai sensi

dell'art. 372 c.p.p., vige solo quando l'istruzione debba essere definita con sentenza di proscioglimento; Cass. 9 febbraio 1976, Turrà, id.,

Rep. 1977, voce cit., n. 146. Nel senso che la prescrizione dettata dall'art. 372 c.p.p. riguarda la

garanzia dell'esistenza e dell'intervento dell'imputato e la completa

esplicazione del suo diritto di difesa, v. Cass. 15 febbraio 1982,

Batronni, id., Rep. 1983, voce cit., n. 77.

Per alcuni profili di legittimità costituzionale dell'art. 372 c.p.p., cfr.

Corte cost. 6 maggio 1976, n. 112, id., 1977, I, 247, con nota di

richiami e 10 luglio 1975, n. 199, id., 1975, I, 1884, con nota di

richiami. Sull'art. 372 c.p.p. cfr. pure Cass. 7 ottobre 1980, Caiola, id., Rep.

1982, voce cit., n. 51; 30 aprile 1980, Crea e 14 giugno 1979, Foti,

id., Rep. 1981, voce cit., nn. 80, 49; 5 luglio 1978, Alfarano, id.,

Rep. 1980, voce Notificazione penale, n..69; 17 febbraio 1978, Crea, id.,

Rep. 1979, voce Istruzione penale, n. 72; 1° dicembre 1975, Diodato e 13 novembre 1975, Papangelo, id., Rep. 1976, voce cit., nn. 173,

192; 27 febbraio 1974, Grimaldi, id., 1975, II, 367, con nota di

richiami; 5 ottobre 1973, Mazzola, id., Rep. 1975, voce cit., n. 202; 10 luglio 1973, Broglio, id., 1974, II, 1, con nota di richiami.

(2) Nel senso che l'irregolare composizione della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura è motivo che attiene alla nullità e non alla inesistenza della decisione, per cui il conseguente annullamento di quest'ultima non travolge la rilevanza processuale della decisione che, una volta pronunciata, implica l'esercizio di quel diritto al cui mancato esercizio soltanto l'art. 12 1. 1/81 collega l'effetto preclusivo della prosecuzione del giudizio, v. Cons. sup.

magistratura, sez. disciplinare, 8 luglio 1983, Foro it., 1983, III, 465, con nota di richiami.

In ordine all'art. 12 1. 1/81, v. Cass. 2 aprile 1984, n. 2144, id.,

1984, I, 1207, con nota di richiami, secondo cui ad evitare l'estinzione del procedimento disciplinare per il decorso del termine di due anni è

sufficiente che entro tale termine sia avvenuta la conclusione del

giudizio disciplinare, essendo indifferenti i tempi di sviluppo dell'ulte riore fase processuale conseguente all'impugnazione proposta dall'incol

pato o dal pubblico ministero.

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2979 PARTE PRIMA 2980

Motivi della decisione. — Il p.g., avverso l'ordinanza 8 aprile 1983, ha dedotto in primo luogo la violazione dell'art. 200 c.p.p. in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., osservando che la sezione

disciplinare, con ordinanza 21 luglio 1978, aveva già respinto l'eccezione di nullità (per violazione dell'art. 372 c.p.p.) che ha

poi accolto con l'ordinanza dell'8 aprile 1983, di modo che la

riproposizione della questione mirava alla revoca della precedente

ordinanza; revoca che non era possibile, essendo l'ordinanza

irrevocabile, ma soltanto soggetta ad impugnazione insieme con la

sentenza.

In secondo luogo, ha dedotto la violazione dell'art. 6 1. 24 marzo

1958 n. 195, modificato dalla 1. 18 dicembre 1967 n. 1198 e

modificato dall'art. 15 1. 3 gennaio 1981 n. 1, ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c., contestando l'affermazione della sezione, secondo cui la

costituzione del collegio all'udienza 21 luglio 1978 non era

conforme a quanto stabilito con la sentenza n. 87/82 (Foro it.,

1982, I, 1495) della Corte costituzionale.

Invero, l'art. 6 1. n. 195/58 stabiliva che per la validità della

decisione della sezione disciplinare dovevano partecipare alla

medesima tre magistrati di Corte di cassazione, salvo che si

trattasse di giudicare un magistrato d'appello o di tribunale, nel

qual caso almeno due dovevano appartenere alla categoria del

magistrato inquisito; e pertanto a norma del suddetto art. 6 e

dell'art. 33 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916 i magistrati di

cassazione necessari per la validità della deliberazione dovevano

essere soltanto due, di cui uno nominato alle funzioni direttive

superiori. Di quel collegio facevano parte come magistrati di

cassazione il dott. Berri, avvocato generale presso la procura

generale della cassazione, ed il dott. D'Oreste, presidente di

sezione della Corte d'appello di Venezia, magistrati oioè che

avevano conseguito oltreché il grado anche le relative funzioni;

pertanto il collegio era legittimamente costituito, e la sezione non

poteva dichiarare nulla né revocare la precedente ordinanza,

perché non revocabile, in quanto soggetta ad impugnazione.

In terzo luogo, il p.g. deduce la violazione degli art. 32 e 33

r.d.l. 31 maggio 1946 n. 511 e falsa applicazione dell'art. 372

c.p.p., ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c. osservando: a) che, in

fatto, il deposito degli atti al termine dell'istruzione formale era

stato effettuato e comunque il difensore aveva preso visione degli atti. Il procedimento disciplinare oggetto dell'impugnata sentenza

era stato riunito ad altro procedimento contro lo stesso Governa

tori ed i dott. Alvato ed Antonacci, per i quali il p.m. aveva

formulato richiesta di proscioglimento, pronunciata poi in camera

di consiglio all'udienza del 5 maggio 1977. Poiché tale decisione

era stata adottata con la partecipazione dei difensori, quello del

Governatori prese visione degli atti; né a tale scopo appare rilevante il fatto che non sia stato adottato un provvedimento formale di deposito con avviso al difensore, quando risulta che il

deposito in concreto vi fu e che il difensore prese visione

dell'intero fascicolo; b) in ogni caso, l'art. 372 c.p.p. non è

applicabile al procedimento disciplinare, perché il deposito degli atti è finalizzato alla possibilità per la difesa di svolgere un'attivi

tà tendente ad elidere od attenuare l'efficacia delle prove raccolte

ed allo scopo di porre il g.i. nella condizione di adottare un

provvedimento coincidente con le aspettative dell'imputato. Siffat

ta possibilità è esclusa quando la legge non consente, in caso di

richiesta di rinvio a giudizio da parte del p.m. nessuna alternati

va per la sezione disciplinare (art. 33 r.d.l. n. 511/46). Né il

rinvio al dibattimento dinanzi alla sezione disciplinare viola il

diritto di difesa ex art. 24 Cost.; c) la sezione ha ritenuto che il

deposito degli atti dovrebbe precedere la requisitoria del p.m.; ma con ciò non ha applicato le norme del c.p.p., ma ne ha

creata una nuova. La legge non ha ancorato l'operatività della

norma esclusivamente alla richiesta del p.m., perché il proscio

glimento può essere disposto soltanto quando, su conforme

richiesta del p.m., siano esclusi gli addebiti contestati, il che

significa che il proscioglimento nel procedimento disciplinare è

regolato in modo diverso rispetto al proscioglimento istruttorio

penale. I due procedimenti sono diversi nei presupposti, nelle

finalità e negli interessi che si intendono tutelare ed a tale

diversità consegue l'inapplicabilità della norma relativa al deposi to degli atti.

I tre motivi si devono accogliere, per quanto di ragione. Si deve premettere, da un punto di vista formale, che l'impu

gnazione alle sezioni unite civili della Corte suprema di cassazio

ne delle sentenze diala sezione disciplinare del Consiglilo superiore della magistratura (art. 60 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916) è inte

ramente regolata dagli art. 360 ss. c.p.c. (Cass., sez. un., 15

novembre 1982, n. 6085, id., 1983, I, 680; 10 novembre 1977, n.

Il Foro Italiano — 1985.

4843, id., Rep. 1979, voce Ordinamento giudiziario, n. 44). E,

pertanto, l'impugnazione deve essere diretta contro il provvedi mento decisorio finale (art. 17, ult. comma, 1. 24 marzo 1958 n.

195: salva l'impugnabilità dei provvedimenti di sospensione cau

telare). L'ordinanza dibattimentale, non impugnabile ex se autonoma

mente, ma solo con la sentenza (art. 200 c.p.p.) è oggetto del

ricorso con riferimento alla sua influenza sulla sentenza e cioè

soltanto in quanto la sentenza sia affetta da un vizio derivante

dalla nullità dell'ordinanza. La sentenza civile, invero, può essere

impugnata anche per nullità del procedimento (art. 360, n. 4,

c.p.c.) che si rifletta in nullità della sentenza.

Nella specie, da un lato tutta la motivazione della sentenza è

basata sul presupposto dell'integrale recezione dell'ordinanza del

T8 aprile 1983 e della sua confermata validità; dall'altro lato

il p.g., nell'impugnare contestualmente la sent. 12 maggio 1983, ha affermato che, una volta accolto uno qualsiasi dei motivi

dedotti contro l'ordinanza, non avrebbe più ragione d'essere

la nullità del decreto di citazione posta a base della dichia

rata estinzione del procedimento disciplinare. Vi è quindi un

richiamo espresso, nell'impugnazione avverso la sentenza, dei

motivi d'impugnazione contro l'ordinanza, e pertanto il ricorso è

ammissibile, anche nei primi tre motivi che si stanno esaminando,

perché essi sono rivolti sostanzialmente anche contro la sentenza.

La prima censura, con la quale il p.g. deduce che la sezione

disciplinare non avrebbe potuto « revocare » la propria preceden te ordinanza del 1978 (con la quale era stata respinta l'eccezione

di nullità, invece accolta con l'ordinanza del 1983) non è perti nente alla ratio decidendi adottata dalla sezione la quale non

ha revocato l'ordinanza precedente, ma l'ha dichiarata nulla,

perché emessa dal collegio in composizione illegittima (sulla differenza fra revoca e dichiarazione di nullità è evidente che

non è necessario insistere).

Egualmente priva di effettiva pertinenza alle ragioni della

dichiarata nullità è la seconda censura con la quale si contesta

che la sezione disciplinare, nella composizione dell'udienza del 21

luglio 1978, versasse nell'illegittimità dipendente dalla pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 23, 2° comma, 1. 24 marzo

1958 n. 195 (come sostituito dall'art. 3 1. 22 dicembre 1975 n.

695), nella parte in cui prevede che possano essere componenti del Consiglio superiore, in qualità di magistrati di cassazione,

magistrati che abbiano conseguito la nomina, ma non esercitino

le relative funzioni (Corte cost. 10 maggio 1982, n. 87). Invero, il

p.g. è partito dalla premessa erronea che si dovesse applicare l'art. 5 1. 24 marzo 1958 n. 195, sostituito dall'art. 2 1. 22 dicembre

1975 n. 695; ma il suddetto articolo è stato dichiarato incostitu

zionale con sentenza della Corte cost. 2 febbraio 1971, n. 12

(id., 1971, I, 536), per cui (fino all'entrata in vigore della nuova 1. n. 1/81; evidentemente non applicabile ad un collegio costituito

nel 1978) il consiglio, in sede disciplinare, deliberava nel plenum

previsto dall'art. 4 1. del 1958, sostituito dall'art. 1 1. del 1967. Ed è con riguardo a tale plenum di 15 membri che è stata

esattamente dichiarata, d'ufficio, l'illegittima composizione ai sen si della successiva sentenza della Corte cost. n. 87/82. Invero, in un procedimento pendente, salva la preclusione del giudicato, la declaratoria di illegittima composizione del collegio investe anche deliberazioni anteriori alla sent. n. 87 (cfr., fra le altre

sez. un. 15 novembre 1982, n. 6089, id., 1983, I, 679).

È invece fondata, sotto tutti gli aspetti, la terza censura. In fatto, si rileva che effettivamente, come ha dato atto anche

il Consiglio superiore nella decisione impugnata, i procedimenti disciplinari avviati contro il dott. Governatori erano tre ed erano stati riuniti; ma il secondo (quello di cui alla nota del 4

dicembre 1972, iniziato anche nei confronti dei dott. Alvaro ed

Antonacci) è da tempo esaurito. Invero, in data 10 gennaio 1975 il p.g. (contestualmente alla fissazione del dibattimento per gli altri due addebiti) chiedeva alla sezione disciplinare per l'adde bito comune agli altri due incolpati che dichiarasse non farsi luogo al rinvio a dibattimento nei confronti di tutti e tre gli incolpati.

A seguito di vari rinvìi nella fissazione della camera di

consiglio, il 5 maggio 1978 la sezione disciplinare pronunciava sentenza di non farsi luogo -a rinvio a dibattimento limitatamente all'addebito comune nei confronti anche del Governatori.

Che quest'ultimo avesse avuto, allora, piena conoscenza di tutti

gli atti risulta, oltre che dalla prova presuntiva indicata dal

ricorrente, da una prova documentale positiva, proveniente dallo stesso Governatori, il quale, in data 13 ottobre 1977 chiedeva ed otteneva la copia degli atti (cfr. l'annotazione « si autorizza » in

calce all'istanza, la cui formulazione consente di comprendere

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

nell'ottenimento della copia tutti gli atti inviati al Governatori il

15 ottobre 1977 relativi anche ai residui due procedimenti disci

plinari). Pertanto, la sezione disciplinare ha trascurato di conside

rare (ed il relativo accertamento può essere compiuto da questa corte, nell'ambito dei poteri di esame diretto degli atti di causa

che le competono in sede di cognizione dei vizi in procedendo che a decorrere dalla suddetta data del 15 ottobre 1977

il Governatori non avrebbe più potuto eccepire la pretesa nullità (cfr. Cass. pen. 14 febbraio 1966 Sorrentino, id., Rep.

1966, voce Impugnazioni penali, n. 34; 11 dicembre 1964, Mem

bretti, ibid., voce Istruzione penale, n. 160) per violazione del

l'art. 372 c.p.p. perché era in possesso della copia di tutti gli atti (nessun altro atto istruttorio è stato compiuto successivamen

te al 10 gennaio 1975). Pertanto, già per questo assorbente

motivo, avrebbe dovuto rigettare l'eccezione sollevata all'udienza

dell'8 aprile 1983. Per ribadire la pretestuosità dell'eccezione, è

utile anche rilevare che, comunque, l'eccezione non avrebbe

potuto essere più sollevata, in ordine al decreto del 1" aprile 1982 con il quale il Governatori è stato citato a comparire per l'udienza del 1° ottobre 1982 (udienza rinviata prima al 18 marzo

1983 e, ancora, all'8 aprile successivo). Invero, risulta dagli atti

che il Governatori è stato citato, con provvedimento del 27

giugno 1978 dal presidente della sezione (e pertanto valido sotto

il profilo della competenza, in quanto non investito dalla già richiamata sentenza della Corte cost. n. 87/82) ed ha partecipato al dibattimento conclusosi con l'ordinanza del 21 luglio 1978. Nei

dieci giorni in cui l'art. 33, ult. comma, r.d.l. n. 511/46, il

Governatori avrebbe potuto prendere visione di tutti gli atti, già del resto conosciuti fin dall'ottobre del 1977.

L'eccezione non avrebbe potuto essere mossa neppure contro il

decreto di convocazione del 27 giugno 1978, per la già acquisita conoscenza degli atti, fin dall'ottobre 1977.

Le osservazioni fatte non esauriscono la materia del ricorso,

perché con esse si è dimostrata l'erroneità della pronuncia con

cui la sezione disciplinare ha dichiarato la nullità del decreto del

suo presidente di citazione a giudizio (sia di quello del 1978 che

di quello del 1982). Si deve ora dimostrare l'erroneità della

pronuncia di nullità della richiesta di rinvio a giudizio (contenuta nell'atto in data 10 gennaio 1975 del p.g.), in quanto l'ordinanza

8 aprile 1983 ha dichiarato in primo luogo la suddetta nullità, mentre la nullità del decreto di citazione a giudizio è stata

dichiarata come conseguenza della prima. La corte ritiene che evidenti dati testuali e sistematici dimo

strino l'inapplicabilità dell'art. 372 c.p.p., la cui pretesa violazione

è pertanto del tutto inesistente.

L'art. 32 d.l. n. 511/46, sotto la rubrica «istruttoria nel pro cedimento disciplinare » al 3° comma dispone: « per l'istru

zione si osservano, in quanto compatibili, le norme relative

all'istruzione nei procedimenti penali ». Gli ultimi due comma

richiamano norme specifiche del c.p.p. sui periti e testimoni.

L'art. 34, sotto la rubrica « discussione nel giudizio disciplina re », all'ult. comma dispone: si osservano, in quanto compatibili con la natura del procedimento e con le disposizioni del presente

decreto, le norme dei dibattimenti penali. L'art. 33, invece, sotto la rubrica « chiusura dell'istruttoria »

non solo non richiama le norme del c.p.p., ma regola in maniera

autonoma e completa (che non consente di integrare la disciplina con norma del c.p.p. e di ritenere operante il rinvio contenuto

nel 3° comma dell'art. 32) la chiusura dell'istruttoria disciplinare.

Invero, questa è strutturata in modo tale da negare lo stesso

presupposto dell'art. 369 c.p.p., con cui si apre il capo X (« della

chiusura dell'istruttoria formale ») titolo II, libro II, c.p.p. consi

stente nei « rapporti fra il giudice istruttore ed il p.m. ».

Nessun « rapporto » del genere sussiste nel procedimento di

sciplinare, nel quale la dialettica è istituita fra il p.m. e la

sezione disciplinare, competente per il giudizio. E pertanto, l'art.

372, che è finalizzato a consentire l'esercizio del diritto di difesa

incidente in tale rapporto, perché si pone temporalmente e

strutturalmente fra la requisitoria del p.m. e la decisione del g.i.

di rinvio a giudizio (art. 374) o di proscioglimento (art. 378

c.p.p.) è privo di qualsiasi logico significato in un sistema che

non prevede nessuna decisione di carattere istruttorio, né nel

senso del proscioglimento, né nel senso del rinvio a giudizio. Se il rapporto si istituisce fra il p.m. e la sezione disciplinare,

è evidente che il diritto di difesa (anche nel caso in cui si sia

proceduto ad istruttoria formale, la quale non porta alcuna

diversità di disciplina relativamente alla chiusura dell'istruzione,

regolata dall'art. 33) si esercita alla stregua dell'art. 397 c.p.c.

(dopo la richiesta di citazione a giudizio) e dell'art. 410 c.p.p.,

durante il termine per comparire al giudizio.

Il Foro Italiano — 1985.

D'altra parte, il deposito degli atti ex art. 372 c.p.p. è finalizza

to allo svolgimento di un'attività difensiva tendente » porre il g.i. nelle condizioni di adottare un provvedimento di proscioglimen

to: ma siffatta possibilità è esclusa nel procedimento disciplinare, nel quale, in caso di richiesta di rinvio a giudizio da parte del

p.m., la sezione disciplinare non ha alcuna alternativa che il

giudizio. L'art. 33 cit. non consente di pronunciare un proscio

glimento se non quando, su conforme (richiesta del p.m., risultino

esclusi gli addebiti. La formula dimostra che il proscioglimento

disciplinare è regolato in modo del tutto diverso dal prosciogli mento in sede penale, perché non è ammesso con la formula del

dubbio o del « fatto che non costituisce illecito disciplinare ».

Inoltre, il proscioglimento è sempre adottato dall'organo compe tente per il giudizio e non dall'organo istruttorio; esso evita il

dibattimento, ma differisce dal proscioglimento in sede penale, sia

per la competenza dell'organo che lo pronuncia, sia per il diverso

regime nei confronti delle richieste del p.m., una sola delle quali

può condurre alla conforme deoisione che « dalle prove risultino

esclusi gli addebiti» <2° comma dell'art. 33 cit.).

A queste ragioni di ordine letterale e sistematico si affianca la

impossibilità di applicare l'art. 372 il quale prevede il deposito

degli atti dopo la requisitoria del p.m. L'anticipazione del deposi to ad un momento anteriore alle richieste del p.g. (onde consen

tire alla difesa di influire sulla valutazione conclusiva dell'istrut

toria rimessa all'esclusiva competenza del p.g.), postulata dalla

sezione disciplinare nel provvedimento impugnato, in primo luogo non corrisponde all'applicazione dell'art. 372, ma si converte nella

creazione di una norma diversa. In secondo luogo, tende alla

soddisfazione di un'esigenza che può essere assicurata ugualmente

dall'art. 305 c.p.p. (e norme ivi richiamate, applicabili all'istruzio

ne sommaria ex art. 392 c.p.p., nel testo risultante da Corte cost.

26 giugno 1965, n. 52, id., 1965, I, 1160), nonché dai richiamati

art. 397 e 410 c.p.p. (cfr. Corte cost. 29 dicembre 1966, n. 127,

id., 1967, I, 1; 4 febbraio 1970, n. 16, id., 1970, I, 698). E,

pertanto, sotto nessun profilo può ritenersi che l'art. 372 c.p.p. sia

norma « computabile » ai sensi del 2° comma dell'art. 32 r.d. n.

511/46.

Con l'ultimo motivo il p.g. deduce la violazione dell'art. 12 1. 3

gennaio 1981 n. 1, osservando che il termine ivi previsto non è

di decadenza, né di prescrizione, ma una semplice preclusione

processuale, la quale non può più verificarsi, una volta compiuto l'onere.

La nullità del decreto di citazione, una volta accolto uno dei

motivi precedenti, non avrebbe più ragion d'essere e toglierebbe

il fondamento della dichiarata estinzione. In ogni caso, l'atto

nullo non può parificarsi a quello inesistente, ed di compimento

dell'atto — anche se affetto da qualche vizio — impedisce il

verificarsi della decadenza. La nullità o l'irregolarità di un atto

non incide sull'efficacia del medesimo, al fine del superamento dei

termini posti dalla 1. n. 1/81. Infine — osserva il p.g. — il

decreto del 1978, con il quale venne fissata l'udienza del 21 luglio

1978, non è mai stato dichiarato nullo. Già con tale decreto — a

cui seguì la fase dinanzi alla Corte costituzionale — la decadenza

relativa al periodo istruttorio era stata superata e pertanto doveva

farsi luogo a trattazione nel procedimento.

II motivo è fondato nella parte in cui non è assorbito

dall'accoglimento — per quanto di ragione — dei precedenti.

Invero, poisto che non avrebbe potuto dichiararsi la nullità

della richiesta di rinvio a giudizio del p.g. e del decreto di

citazione a giudizio, la sezione del Consiglio superiore della

magistratura avrebbe dovuto applicare l'art. 13 1. n. 1/81 a

tenore del quale, per i fatti per i quali era in corso il pro

cedimento disciplinare (alla data della entrata in vigore della

legge) i termini previsti dall'art. 12 decorrono dall'entrata in

vigore predetta, nonché il 2° comma dell'art. 12 sulla sospen

sione fino alla pubblicazione della sentenza della Corte costitu

zionale pronunciata sull'incidente di legittimità costituzionale sol

levato nel predetto procedimento a carico del Governatori (su

un'altra norma, non rilevante in questa sede).

E, pertanto, poiché si era già nella fase successiva alla comuni

cazione all'incolpato del decreto del 1978 di fissazione della

discussione orale (discussione iniziata ben prima dell'entrata in

vigore della legge), doveva applicarsi il termine biennale —

decorrente dal 17 giugno 1981 — per la pronuncia della sentenza.

Poiché, nel frattempo, il biennio si è compiuto il 17 giugno

1983 (ma la sentenza impugnata è del 12 maggio 1983) sorge il

problema dell'eventuale sopravvenienza di un termine di estin

zione diverso da quello applicato dalla sezione disciplinare. Ma la

questione deve essere risolta in senso negativo.

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Page 5: sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5252; Pres. Gambogi, Est. R. Sgroi, P. M. Morozzo Della Rocca (concl. conf.); Proc. gen. Cass. c. Governatori ed altri. Cassa Consiglio

2983 PARTE PRIMA 2984

Si deve premettere che con riguardo ai termini previsti dal 9°

comma dell'art. 12 1. n. 1 non può parlarsi di decadenza, poiché tale istituto può riguardare solo gli atti di parte (privata o p.m.) e non gli atti del giudice, in ordine ai quali è più esatto parlare di « preclusione ». E, pertanto, non può applicarsi il principio secondo cui l'atto che impedisce la decadenza deve essere con

forme a legge ed avere tutti i requisiti previsti a pena di nullità

(Cass. 26 maggio 1954, n. 1688, id., Rep. 1954, voce Decadenza, n. 3). Ma, si ripete, non si tratta di atti che regolano l'esercizio

di un « diritto » entro un determinato termine (art. 2964 c.c.),

perché, nel primo caso, l'atto da compiere è la comunicazione

all'incolpato del decreto (del presidente della sezione disciplinare) e quindi non è un atto che proviene dall'organo titolare del

potere disciplinare, costituzionalmente garantito (art. 107, 2°

comma Cost.); nel secondo caso, deve essere esercitata entro due

anni la funzione decisoria in materia disciplinare spettante al

Consiglio superiore della magistratura (art. 105 Cost.), funzione

a cui mal si adatata la configurazione di un diritto (di regola

potestativo) in relazione al cui esercizio sia posto, con onere

di perentoria osservanza, un termine (Cass. 6 novembre 1976, n. 4043, id., Rep. 1976, voce Prescrizione e decadenza, n. 181).

Escluso che la nullità dell'atto compiuto possa valutarsi negati

vamente, ad finii dell'osservanza dei due termini predetti, con

riguardo ai principi sulla decadenza (che non sono applicabili), la

corte osserva che la legge sembra essere partita dal presupposto

che gli atti da compiere non siano mai annullati e non si

debbano rinnovare. Ed infatti, basti pensare all'ipotesi di un'i

struttoria dichiarata valida dalla sezione disciplinare, ma annulla

ta dalla Corte di cassazione, per impedire il rispetto dei termini,

a meno che non si abbia una sentenza della Cassazione entro il

primo dei due termini (quello di un anno). A parte la irrealtà

dell'ipotesi, essa contrasta con la legge, che non può pretendere — ai fini del rispetto di termini diversi, coordinati in successione

temporale delle due fasi — che tutte le fasi si compiano nel primo

termine. La necessità di una pronuncia (della sezione del

Consiglio superiore della magistratura o della Cassazione),

per dichiarare la nullità incorsa in un atto da compiere entro un certo termine, induce a far ritenere profondamente errata la tesi che addebita al legislatore un disegno che non

tiene conto del regime della nullità degli atti processuali, da

valutarsi in sede prima decisoria e poi di gravame, e cioè in una

sede in cui sono già necessariamente cominciati a decorrere i

termini successivi per la decisione. In realtà, infatti, la legge deve

inserirsi nel sistema generale, nel quale i termini di durata di una

fase processuale non sono condizionati dalla validità dell'atto

compiuto (argomento ex art. 272, nuovo testo, c.p.p.). L'argomen to contrario svolto dalla sezione è basato essenzialmente sull'as

sunto che in caso di nullità del decreto di fissazione conseguente ad omissioni rilevanti di attività istruttorie sarebbe consentito a

fini istruttori l'utilizzazione del periodo che la legge ha riferito

allo svolgimento del dibattimento ed all'emanazione della senten

za. Ma l'argomento non può essere seguito, perché muove dall'as

sunto che quel tempo debba essere sottratto dal termine biennale

per la decisione successiva alla comunicazione del decreto di

fissazione; assunto insostenibile, proprio perché una decisione

della sezione vi è stata (sia pure di mero annullamento di atti e

non di merito) e quindi il termine biennale non può più essere

suscettibile di limitazioni.

Analogamente — ed a maggior ragione — la sentenza emanata

nel biennio previsto dalla legge, anche se annullata, impedisce l'evento estintivo: infatti, basta aggiungere che il giudizio d'im

pugnazione è regolato autonomamente in primo luogo con la

fissazione del termine di 60 giorni ex art. 60 d.p.r. n. 916/58; ed

in secondo luogo con l'applicazione degli art. 360 ss. c.p.c. e

delle norme sul giudizio di rinvio.

All'accoglimento del ricorso deve seguire l'enunciazione dei

principi ex art. 384 c.p.c., perché l'annullamento non è pronun ciato ex art. 360, n. 3, ma ex art. 360, n. 4, c.p.c., ed in tali casi

non si deve enunciare il principio, ma il vincolo nasce dalla

diretta statuizione emanata da questa corte sul processo, in sede

di rinvio dinanzi alla sezione disciplinare.

Il Foro Italiano — 1985.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 21 luglio

1984, ti, 4284; Pres. F. Greco, Est. Bologna, P. M. Benanti

(conci, oonif.); Saotaktcda (Aw. Caradonna) c. Saoitaluoia e

ail/tiro (Aw. Battista, Bellisario, Trabace). Conferma App. Bari 8 luglio 1983.

Società — Società di persone composta da tre soci — Esclusio

ne di un socio — Competenza (Cod. civ., art. 2287).

Nell'ipotesi di società di persone composta da soli tre soci, l'esclusione di uno di essi dalla società non può essere pronun ciata dal giudice, ma deve essere deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da

escludere. (1)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenzia 30 marzo

1984, n. 2084; Pres. Falcone, Est. Bologna, P.M. Zema

(conci, conf.); Core (Avv. Piperno, Di Benedetto) c. Soc.

Pasteur (Avv. Camilli, Lombardo). Cassa App. L'Aquila 2

giugno 1981.

Società — Società di persone — Controversie relative alla

esclusione di soci — Compromettibilità in arbitri — Termine

(Cod. civ., art. 2287; cod. proc. civ., art. 806).

Il termine di decadenza, stabilito dall'art. 2287 c.c. per la

proposizione dell'opposizione avverso l'esclusione di un socio

nelle società di persone, non è applicabile ai giudizi arbitrali e

la rinunzia alla cognizione degli arbitri, effettuata dopo l'in

staurazione del procedimento, non fa rivivere ex post l'opera tività di detto termine. (2)

(1) La sentenza in epigrafe ha ritenuto « giuridicamente corretta e

logicamente congrua » la motivazione della sentenza di merito per cui la società in questione era da considerarsi composta da tre soci e non solo da due, come pretendeva l'attore, in quanto anche nei confronti del terzo sussistevano gli elementi dei conferimenti, della divisione

degli utili, dell'affectio socìetatis (il quale ultimo elemento consiste nel vincolo di collaborazione in vista della attività economica comune, per Cass. 20 gennaio 1982, n. 381, Foro it., Rep. 1982, voce Società, n.

134). In relazione dell'onere della prova, Cass. 5 maggio 1978, n. 2120,

id., Rep. 1978, voce cit., n. 320, ha ritenuto che l'azione promossa da un socio per ottenere l'esclusione di altro socio ha come presupposto processuale il fatto che la società sia in quel momento composta da due soci soltanto, e all'attore incombe l'onere di provare la sussistenza della società, mentre al convenuto, che voglia eccepire l'improponibilità dell'azione, incombe l'onere di provare che della società fanno parte anche altre persone.

(2) A giudizio della corte la norma dell'art. 2287 c.c., che pre vede un termine di trenta giorni per instaurare il giudizio di

opposizione dinanzi al tribunale da parte del socio, è derogata dalla clausola dello statuto sociale che compromette in arbitri la risoluzione delle controversie in tema di esclusione di soci, e non è suscettibile di reviviscenza neppure in caso di rinunzia al procedimento arbitrale operata concordemente dalle parti.

Per App. Milano 1° settembre 1962, Foro it., Rep. 1963, voce Società, n. 299, il termine di trenta giorni per il proponimento dell'opposizione di nanzi al tribunale, ove lo statuto sociale contenga una clausola compro missoria, decorre dalla data in cui si sia eventualmente estinto il manda to per il deposito del lodo. Secondo Cass. 18 dicembre 1978, nn. 6053 e 6054, id., Rep. 1978, voce cit., nn. 322, 323, la definitività di una delibera di decadenza del socio per mancata impugnazione nel termine perentorio fissato dallo statuto sociale, non trova ostacolo nel fatto che l'impugnazione vada proposta in sede arbitrale, e che il collegio stesso non sia ancora costituito, laddove la tempestiva proposizione dell'im pugnazione sia prevista dallo statuto come mezzo idoneo per promuo vere il procedimento di costituzione del collegio.

È molto dibatutto se, in presenza di clausola compromissoria, sopravviva pur tuttavia in capo al tribunale la competenza a disporre la sospensione dell'esecuzione della delibera di esclusione. La soluzione largamente maggioritaria è quella affermativa, in considerazione della natura cautelare del provvedimento, in quanto gli arbitri, a mente dell'art. 818 c.p.c., non possono disporre provvedimenti cautelari. In tal senso, v., tra le altre, Trib. Verbania 1" agosto 1949, id., 1949, I, 1139, e Trib. Milano 19 maggio 1951, id., Rep. 1951, voce cit., n. 307; in dottri na cfr. Andrioli, Competenza a sospendere la deliberazione di esclusio ne di un socio dalla società s.n.c., id., 1949, I, 1139, e Jannuzzi, Questioni in tema di controversie di esclusione di socio di società personali deferite ad arbitro, in Giur. it., 1950, I, 2, 113, spec. 116. In senso contrario v., da ultimo, Di Gravio, Una competenza « inventa ta»-. la sospensione della delibera di esclusione del socio in pendenza di procedimento arbitrale, in Dir. fall., 1982, I, 305, spec. 318 e 325.

Sul punto, e in generale sui rapporti tra giudice ordinario e collegio arbitrale in ordine a controversie sulla esclusione di un socio di

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