sezioni unite civili; sentenza 20 marzo 1985, n. 2033; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M. SgroiV. (concl. parz. diff.); Cruciani (Avv. Palermo) c. Min. tesoro e altri (Avv. dello Stato Palatiello)e I.n.p.s. (Avv. Chiabrera, Sacerdoti). Cassa Trib. Roma 14 luglio 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 6 (GIUGNO 1985), pp. 1651/1652-1663/1664Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178530 .
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1651 PARTE PRIMA 1652
maggio 1976 n. 313, per non avere il pretore tenuto presente che
l'introduzione a seguito della legge da ultimo citata di un nuovo
3° comma rendeva inapplicabile il precedente 2° comma e per avere inoltre fornito del termine « impossibilità » una interpreta zione non corretta in quanto la stessa deve ritenersi sussistente in tutti i casi in cui sia inesigibile sia l'approntamento di mezzi
idonei, sia il loro utilizzo quando sia particolarmente oneroso. Il complesso motivo di ricorso sottopone al collegio un
duplice problema: il primo costituito dall'interpretazione dell'art. 121 cod. strad. come modificato dall'art. 5 1. 5 maggio 1976 n.
313, il secondo relativo alla determinazione del concetto di
impossibilità della determinazione del peso esatto, che legittima una tolleranza del cinque per cento sul peso complessivo.
L'art. 121, nel prevedere che sui veicoli a motore il traporto di cose non può superare la portata utile e, per i trasporti ecceziona li, la portata determinata dai limiti potenziali di carico, indicata nel documento di circolazione (1° comma), aggiunge che « nei casi in cui non sia possibile la determinazione del peso esatto, nonché
per cose per loro natura soggette a subire durante il trasporto aumenti di peso per umidità e pioggia, è ammessa una differenza di peso fino al cinque per cento del peso complessivo» (2° comma).
A queste disposizioni seguiva un 3° comma cosi formulato:
«chiunque circola con un veicolo il cui carico supera la portata utile o la portata determinata dai limiti potenziali di carico indicata nel documento di circolazione è punito salvo che non ricorra alcuna delle ipotesi di reato previste dall'art. 33, con l'ammenda da lire cinquantamila a lire duecentomila ».
Tale disposizione è stata sostituita con l'art. 5 1. n. 313/76 dalla seguente: « chiunque circoli con un veicolo che superi il
peso complessivo a pieno carico o il cui rimorchio superi il
proprio peso complessivo a pieno carico o il peso rimorchiabile del veicolo trainante, o, per i trasporti eccezionali, superi i
corrispondenti limiti potenziali indicati nei documenti di circola
zione, oltre il limite di tolleranza del cinque per cento del peso complessivo, è punito con l'ammenda da lire 50 mila a lire 200 mila se l'eccedenza non supera i 10 quintali, da lire 100 mila a lire 300 mila se l'eccedenza non supera i 20 quintali, da lire 200 mila a lire 500 mila se l'eccedenza non supera i 30 quintali; se l'eccedenza supera i 30 quintali si applicano l'ammenda di lire 808 mila e 15 giorni di arresto ».
La stessa disposizione prevede altresì che « nel caso che il
carico superi la portata utile oltre la tolleranza stabilita, sia il
proprietario del veicolo sia il conducente sono civilmente respon sabili in solido ».
Ritiene il collegio, che a seguito delle modifiche apportate dal
legislatore del 1976, le sanzioni per le violazioni consistenti nella circolazione con veicolo che ecceda il limite di peso fissato dagli art. 33 e 121 cod. strad. non siano pdù contenute solamente nell'art. 121, come per il passato, ma siano distintamente previste sia in quest'ultima norma che nel precedente art. 33.
L'art. 33, ult. comma, sostituito dall'art. 4 1. n. 313/76, ma rimasto sostanzialmente immutato, sanziona, in via generale, il
comportamento di chi circoli con un veicolo che ecceda i limiti di peso fissati dalla norma stessa, salvo quando disposto dall'art. 121.
Ai fini dell'integrazione di questa infrazione occorre tener
presente il 2° comma dell'art. 121, con la conseguenza che la
differenza di peso contenuta nel limite del cinque per cento e
purché sussistano le condizioni volute dalla norma (impossibilità di determinazione del peso esatto e presenza di cose soggette a subire durante il trasporto aumenti di peso per umidità e pioggia) non dà luogo alla infrazione e alla comminatoria della relativa sanzione.
Il 3° comma dell'art. 121 — cosi come il 4° comma dello stesso articolo inserito con la più volte richiamata 1. n. 313/76 —
ai fini della graduazione della sanzione calcola l'eccedenza di peso su quello consentito maggiorato della tolleranza del cinque per cento del peso complessivo e ciò a prescindere dal fatto se tale tolleranza sia giustificata o meno.
Dal complesso della normativa, cosi unitariamente interpretata, si evince quindi non già una implicita abrogazione del 2° comma dell'art. 121, come si sostiene dai ricorrenti, né un difetto di coordinamento fra il 2° ed il 3° comma dello stesso articolo, come adombrato dalla amministrazione resistente nel controricorso, ma un sistema sanzionatorio cosi strutturato: la circolazione di veicoli con pesi eccedenti i limiti fissati dall'art. 33, ma nel limite del cinque per cento, integra una violazione della norma da ultimo citata se l'eccedenza non dipenda da impossibilità di determinazione del peso esatto o da merce per sua natura
Il Foro Italiano — 1985.
soggetta a subire aumenti di peso per umidità o pioggia durante il
trasporto; la circolazione di veicoli con pesi eccedenti i predetti limiti di peso, maggiorato della tolleranza del cinque per cento,
integra la violazione di cui all'art. 121, 3° comma, cod. strad.
diversamente sanzionata a seconda dell'ammontare dell'eccedenza
di peso cosi' determinata.
Nel caso di specie, l'infrazione contestata agli attuali ricorrenti
(trasporto di merce eccedente il limite di peso non oltre il cinque
per cento di quello massimo consentito) rientrava nella previsione dell'art. 33, ult. comma, e, pertanto, correttamente, il Pretore di
Asti, al fine di accertare la legittimità della sanzione comminata, si è posto il problema — risolvendolo negativamente per i
ricorrenti — se sussistesse la scriminante di cui all'art. 121, 2°
comma, cod. strad.
Il primo profilo di censura è quindi infondato e va disatteso, mentre è irrilevante la circostanza che nella sentenza impugnata l'infrazione contestata sia stata fatta rientrare nell'art. 121 cod.
strad., anziché nell'art. 33, ult. comma, stesso codice: si tratta
infatti di erronea motivazione in diritto della sentenza che
comporta non già la cassazione della stessa, ma solo la correzio
ne della motivazione, nei sensi in precedenza esposti, a norma
dell'art. 384, 2° comma, c.p.c. Per completezza di motivazione va inoltre rilevato che l'erronea
contestazione della norma che l'infrazione prevede (l'art. 121
anziché l'art. 33, ult. comma) da parte della p.a. non comporta alcuna illegittimità dell'ordinanza di condanna in quanto quello che importa è la contestazione del fatto, mentre la individuazio ne della norma latamente incriminatrice spetta al giudice.
Né maggiormente fondato è il secondo profilo di censura con il
quale si contesta l'interpretazione del concetto di « impossibilità di
determinazione del peso esatto » formulato dal pretore. La questione è stata già esaminata da questa corte con una non
recente sentenza (Cass. 18 aprile 1973, n. 1115, Foro it., 1973, I,
3078) la quale ha rintracciato l'elemento unificatore delle due
ipotesi che legittimano la tolleranza dell'eccedenza nel fatto che
tale eccedenza non deve dipendere dalla volontà del trasportatore, ritenendo che tale impossibilità non deve essere intesa come
mancanza nel luogo di carico e nelle immediate vicinanze di uno
strumento idoneo alla pesatura, bensì come mancanza di qualsiasi altro mezzo, anche senza la pesatura, di determinare esattamente
il carico.
A tali principi si è attenuto il pretore e la sua decisione non
merita censura, mentre la prospettazione dei ricorrenti secondo i
quali la impossibilità dovrebbe ravvisarsi anche nell'ipotesi in cui
sia inesigibile sia l'approntamento di mezzi idonei, sia il loro
utilizzo, quando sia particolarmente oneroso, non può essere
condivisa in quanto da una parte finisce per trasformare l'impos sibilità in una inesigibilità, contrariamente alla chiara dizione della norma e, dall'altra, fa dipendere la tolleranza dalla volontà
del trasportatore il quale, pur sapendo dell'eccessività del carico, verrebbe scriminato per il solo fatto che sarebbe troppo oneroso
rispettare i limiti imposti dalla legge, mentre non coglie nel segno la ulteriore censura prospettata e secondo la quale, in difetto di una interpretazione quale quella fornita dai ricorrenti, la norma
non avrebbe alcuna possibilità di operare atteso il fatto che, allo
stato attuale della scienza e della tecnica, non esiste una impossi bilità di verificare in concreto il peso di alcunché, in quanto, come esattamente rilevato dal pretore, quello che rileva è la mancanza di strumenti idonei alla determinazione del peso, in
considerazione di particolari situazioni da verificarsi di volta in
volta, e non già l'astratta possibilità di procedere sempre alla determinazione del peso esatto.
Nella specie è stata dimostrata la presenza di tali strumenti nel
luogo del carico e, pertanto, correttamente è stata ritenuta
inapplicabile la scriminante di cui all'art. 121, 2° comma, cod. strad. Conclusivamente, il ricorso va rigettato. (Omissis)
I
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 20 marzo 1985, n. 2033; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M. Sgroi V. (conci, parz. difT.); Cruciami (Avv. Palermo) c. Min. tesoro e altri (Avv. dello Stato Palatiello) e I.n.p.s. (Avv. Chiabrera, Sacerdoti). Cassa Trib. Roma 14 luglio 1982.
Impiegato dello Stato e pubblico — Funzionario onorario — Com
penso — Misura — Giurisdizione amministrativa (Cost., art. 36; cod. civ., art. 2225; cod. proc. civ., art. 409).
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Impiegato dello Stato e pubblico — Funzionario onorario — Tute la della posizione previdenziale — Difetto assoluto di giurisdizio ne.
La domanda del funzionario onorario di un ente pubblico diretta
alla determinazione dell'equo ammontare dei compensi percepi ti, che si assumono inadeguati, ed alla condanna dell'ente al
pagamento della differenza, e quella di generico risarcimento
dei danni, appartengono alla competenza del giudice ammini
strativo in sede di giurisdizione generale di legittimità. (1) La domanda del funzionario onorario di un .snte pubblico diretta
alla tutela della sua posizione previdenziale è improponibile per
difetto assoluto di giurisdizione. (2)
II
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 15
marzo 1985, n. 2016; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M.
Sgroi V. (conci, diff.); De Meo (Avv. Cassandro) c. Pres.
cons, ministri e Istituto centrale di statistica; Pres. cons,
ministri e Istituto centrale di statistica (Aw. dello Stato
Palatiello) c. De Meo. Conferma Trib. Roma 20 giugno 1983.
Impiegato dello Stato e pubblico — Funzionario onorario —
Compenso — Misura — Fattispecie (Cost., art. 36; cod. proc. civ., art. 409; 1. 27 maggio 1959 n. 324, miglioramenti economici al
personale statale in attività ed in quiescenza, art. 2).
L'art. 36 Cost, è applicabile al solo lavoro subordinato (nella
specie l'applicazione è stata esclusa per il funzionario onorario
preposto alla presidenza di ente pubblico). (3) Il funzionario onorario non ha diritto alla indennità di buonuscita
e agli scatti di anzianità. (4) Non opera il divieto di corresponsione per più di una volta
dell'indennità integrativa speciale, qualora essa faccia parte del
compenso di funzionario onorario determinato solo per relatio
nem con riferimento al trattamento economico di dipendente statale (nella specie, direttore generale di categoria C). (5)
I
Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 5 giugno 1980 il dott. Claudio Cruciani esponeva che aveva ricoperto la
carica di vice presidente dell'I.n.p.s. dal 18 dicembre 1964 fino al
1972 e di presidente del fondo pensioni dei lavoratori dipendenti dal 30 aprile 1970 fino alla predetta data; che aveva in tale
(1-2) Per i precedenti, v., oltre i richiami contenuti nella sentenza
2033 del 1985 in epigrafe, la nota redazionale a Cass. 16 luglio 1983, n. 4887, Foro it., 1984, I, 2581, e le note di A. Lener e R. A. Di
Stefano a Cass. 2 maggio 1983, n. 3006 e Cass. 7 ottobre 1982, n.
5129, id., 1983, I, 1852. Il principio di cui alla prima massima è solo apparentemente con
traddetto per implicito dalla decisione 2016 del 1985, che si è
pronunciata sul merito della causa. Come è, infatti, ivi illustrato con ampi richiami di giurisprudenza, ogni questione sulla giu risdizione era preclusa in quella sede, in quanto la sentenza d'ap
pello, riformando parzialmente quella di primo grado, aveva af
fermato la giurisdizione del giudice ordinario, e di ciò non si
erano doluti il ricorrente principale e quello incidentale. E anche
quest'ultimo avrebbe dovuto attivarsi poiché la questione era stata da lui sollevata, ma era stata esaminata e risolta dal giudice d'appello.
Per l'affermazione della natura di pronuncia di merito e non di rito della decisione di improponibilità della domanda per difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della p.a., e per una critica della
disciplina esistente, cfr. A. Proto Pisani, Problemi e prospettive in tema (,di regolamenti) di giurisdizione e di competenza, id., 1984, V, 89, § 2.1.2, 2.3.1.
(3) Per i precedenti, v. i riferimenti nella sentenza 2016 del 1985 qui riportata, in cui è da segnalare una puntuale ricostruzione dei caratteri fisionomici del funzionario onorario e, soprattutto, Yobiter dictum sulla sindacabilità dell'esercizio del potere discrezionale della
p.a. nella determinazione del compenso del funzionario onorario in
ordine all'osservanza dei principi di buona amministrazione e, quindi, sotto il profilo dell'eccesso di potere.
Corte cost. 7 luglio 1964, n. 75, Foro it., 1964, I, 1708, ha affermato che l'art. 36 Cost, va applicato, nel rapporto di opera professionale, tenendo presente « l'attività complessiva del professioni sta, nei modi in cui essa sia accettabile e valutabile e non in relazione
ai singoli rapporti e alle singole prestazioni». Tale posizione è definita « più problematica », rispetto a quella sul punto della Cassazione, da T. Treu, Rapporti economici, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, sub art. 36, 78, nota 5. Sul problema, cfr. F.
Mortillaro, Il lavoro nella giurisprudenza costituzionale, ricerca diret ta da R. Scognamiglio, Milano, 1978, 196-198.
(4-5) Non constano precedenti in termini.
Il Foro Italiano — 1985.
periodo, per delega del titolare della carica, impedito da ragioni di salute, svolto di fatto per non meno di 31 mesi le funzioni di
presidente dell'I.n.p.s., senza alcun emolumento aggiuntivo; che aveva percepito, come compenso per la suddetta attività, conti nuamente svolta, la somma di lire 100.000 lorde mensili per 12 mesi fino al 30 aprile 1970 e di lire 525.000 lorde mensili per 12 mesi nel periodo successivo; che con d.p.r. 8 novembre 1971 era stato nominato presidente dell'E.n.p.a.s., carica nella quale era stato confermato con d.p.r. 15 febbraio 1975; che, a seguito della messa in liquidazione dell'E.n.p.a.s. in previsione del trasferimen to alle regioni delle funzioni già esercitate dagli enti mutualistici, era stato preposto con d.p.r. 1° luglio 1975 alla gestione dell'ente
predetto, quale commissario straordinario fino al 31 dicembre
1975; che con successivi d.p.r. 27 dicembre 1975, 29 maggio 1976, 12 agosto 1976 e 9 dicembre 1976 era stato confermato nelle
funzioni di commissario straordinario dell'E.n.p.a.s. e, in virtù dell'art. 2 1. n. 349/77, prorogato in carica sino all'entrata in
vigore della riforma sanitaria; che, per l'attività continuativamente svolta quale presidente dell'E.n.p.a.s., gli era stata attribuita una
indennità di carica nella misura di lire 9.000.000 annue lorde, indennità la quale non aveva subito la rivalutazione nel tempo; che, soltanto con d.p.r. 21 ottobre 1979 (intervenuto dopo quattro anni dalla 1. n. 70/75, la quale all'art. 32 demandava ad un
successivo decreto presidenziale la determinazione dell'indennità di carica spettante agli amministratori degli enti pubblici), si era
provveduto ad aumentare il compenso dei commissari straordina
ri, equiparandolo all'attuale trattamento economico onnicompren sivo dei direttori generali degli enti pubblici contemplati nella tabella allegata alla 1. n. 70/75 maggiorato del 20 %; che,
tuttavia, avuto riguardo alla importanza ed alla natura delle
funzioni svolte dal commissario straordinario (le quali riassumono
quelle proprie del presidente, del comitato esecutivo e del consi
glio di amministrazione), anche tale indennità non poteva consi
derarsi congrua, specie tenendo conto della mancanza di tutela
sotto il profilo assicurativo-previdenziale e di un trattamento di
quiescenza a conclusione dell'incarico.
Tutto ciò premesso, il Cruciani conveniva davanti al Pretore di
Roma il ministero del tesoro, il ministero del lavoro e della
previdenza sociale, l'I.n.p.s. e l'E.n.p.a.s., per sentire: a) dichiara
re inadeguati i compensi a lui corrisposti per le prestazioni di cui alla narrativa; b) stabilire l'equo ammontare dei compensi stessi;
c) condannare gli enti convenuti a corrispondergli la somma che sarebbe risultata in giudizio, con gli accessori di legge, nonché a
risarcirgli i danni subiti e subendi, da liquidarsi in separata sede;
d) dichiarare il suo diritto al trattamento di previdenza e
quiescenza nonché all'assicurazione contro le malattie a far data
dalla sua nomina a vice presidente dell'I.n.p.s. e presidente del
fondo pensioni lavoratori dipendenti; e) conseguentemente con
dannare i convenuti al versamento immediato ai competenti istituti di previdenza ed assistenza dei relativi contributi a loro
carico.
Instauratosi il contraddittorio, l'I.n.p.s. deduceva l'improponi bilità della domanda, non potendosi configurare nella fattispecie un rapporto di lavoro subordinato con l'istituto stesso, e la
infondatezza nel merito del ricorso sia per il motivo di cui sopra, sia perché i compensi corrisposti al Cruciani, quale vice-presiden te dell'istituto, erano stati tassativamente determinati dai decreti
interministeriali 6 novembre 1963 e 3 novembre 1971, sia, infine,
perché tra le funzioni di vice-presidente rientrava per legge quella di sostituire il presidente in caso di assenza o di impedimento.
L'avvocatura dello Stato, costituitosi per conto del ministero
del tesoro, del ministero del lavoro e della previdenza sociale, e
dell'E.n.p.a.s., eccepiva in via pregiudiziale il difetto assoluto di
giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, vertendosi in ma teria di publico impiego o di richiesta di annullamento di un
atto amministrativo. Il pretore dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice
ordinario con sentenza resa all'udienza del 6 marzo 1981, che, su
appello del Cruciani, era confermata dal Tribunale di Roma, con
sentenza 14 luglio 1982.
II tribunale si richiamava alla sentenza di questa corte del 24
marzo 1981, n. 1687 (Foro it., Rep. 1981, voce Regione, n. 167)
che, ritenendo i membri di una commissione di controllo regiona le funzionari onorari e non pubblici impiegati, ha ribadito che in
caso di espletamento di funzioni pubbliche il soggetto investito
delle medesime non può appartenere che ad una delle due
suddette figure e che non esiste una terza specie di funzionario.
Con la conseguenza che se il soggetto investito di funzioni
pubbliche debba ritenersi inserito, per le modalità con le quali di fatto esplica la sua attività ed in particolare per la continui
tà e la professionalità dell'attività stessa nell'apparato burocratico
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1655 PARTE PRIMA 1656
di un ente, come sembrava sostenere l'appellante, la giurisdizione a conoscere della controversia spetterebbe sempre agli organi di
giustizia amministrativa, versandosi in un rapporto di pubblico
impiego. Ma — soggiungeva il tribunale — esaminando l'altra ipotesi,
cioè quella del funzionario onorario, che rimane sempre tale
anche se l'impegno richiesto sia diverso a seconda della funzione
a lui affidata (da lui liberamente accettata), la Suprema corte ha
ritenuto che « è in relazione alla natura che l'interesse sostanziale
dedotto assume nell'ordinamento che deve essere individuato il
giudice che ha giurisdizione. Per attribuirla al giudice ordinario
occorrerebbe che ' esista una norma '
che tuteli in modo diretto
l'interesse fatto valere sicché esso assuma la figura del diritto
soggettivo ».
Restando cosi confermato che il n. 5 dell'art. 409 c.p.c., laddove
attribuisce alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie
relative ad « altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché non
siano devoluti dalla legge ad altro giudice », non deroga ai
principi fondamentali che disciplinano l'attribuzione del conten
zioso alla giustizia ordinaria o a quella amministrativa.
In particolare, la Suprema corte ha precisato che l'attività della
p.a. in ordine alla commisurazione della indennità, « ancorché
destinata a riflettersi... su interessi privati, è sempre essenzial
mente e fondamentalmente dominata dalla considerazione dell'in
teresse pubblico, sia pure al fine dell'equo contemperamento con
interessi concorrenti dei cittadini. Il che comporta che que sti... sono configurabili, se coinvolti, come interessi legittimi,
giacché assumono rilievo giuridico in funzione dell'interesse pub blico, e sono quindi tutelabili, occasionalmente ed indirettamente, attraverso il sindacato di legittimità devoluto al giudice ammini
strativo in ordine al modo (eventualmente scorretto) di esercizio
del potere ».
Ciò è quanto ritenuto dal pretore, il quale ha anche esattamente
precisato che esiste lesione di un diritto soggettivo solo se, una
volta determinata da parte della competente autorità amministra
tiva l'entità del compenso, il funzionario onorario lamenti la
mancata corresponsione della indennità prefissata ovvero l'errata
liquidazione della indennità stessa.
Perciò, i vari provvedimenti amministrativi che fin dal 1963
avevano stabilito il trattamento economico da attribuirsi a coloro che ricoprivano le cariche onorarie affidate nel tempo al dott. Cruciani (prima decreti interministeriali e poi decreti del presi dente della repubblica) dovevano essere impugnati davanti agli organi di giustizia amministrativa.
Né del resto l'interesse legittimo dell'appellante poteva assurge re a diritto soggettivo sotto il profilo della violazione dell'art. 36
Cost., in quanto, come anche la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare (sent. 5 aprile 1971, n. 70, id. 1971, I, 1174), il principio enunciato nella suddetta norma trova applicazione soltanto nei rapporti di lavoro dipendente.
E poiché tutte le domande del Cruciani (anche quella relativa alla costituzione di un rapporto assicurativo e previdenziale e
quella tendente alla declaratoria del diritto al trattamento di
quiescenza) erano dirette a conseguire un adeguamento del
trattamento economico e normativo alla quantità e qualità del lavoro da lui svolto, anche in relazione al trattamento usato ad altri funzionari onorari, andava confermato il difetto di giurisdi zione del giudice ordinario.
Avverso tale decisione ricorre per due motivi il Cruciani; resistono con controricorso i ministeri del tesoro e del lavoro, l'E.n.p.a.s., e con altro controricorso l'I.n.p.s. Le parti hanno
presentato altresì memoria.
Motivi della decisione. — Per due ragioni di diritto, tutte
apprezzabili nell'ottica dell'art. 360, n. 1, c.p.c., il ricorrente censura la sentenza del tribunale innanzitutto per aver ritenuto che il rapporto di esso ricorrente con l'I.n.p.s. e l'E.n.p.a.s. non fosse suscettibile di assumere rilievo giuridico unitario, ma doves se essere scomposto nelle singole funzioni, a volte considerate nei
singoli provvedimenti di nomina; e ciò in contrasto con l'art. 36
Cost., alla cui stregua l'attività di lavoro va sempre considerata di
per sé, secondo i criteri suoi propri, quale che ne sia l'aspetto formale, nonché con l'art. 2225 c.c., alla cui stregua il soggetto che tale attvità abbia posto in essere, non solo necessariamente in
regime di subordinazione, ma anche in regime lato di autonomia, ha diritto ad una congrua retribuzione, anche alla stregua di Cass. 1687/81 solo parzialmente riportata nella sentenza impu gnata. E ciò al di là e al di fuori dei provvedimenti determinativi delle singole indennità di carica, i quali vanno disapplicati non
già nel senso di operare una diversa determinazione di tali
indennità, ma al fine di ricostruire, al di fuori degli stessi, l'unità
Il Foro Italiano — 1985.
del complessivo rapporto, attribuendo ad esso l'effettivo contenuto
di poteri e doveri, di diritti soggettivi e di obblighi.
Per un secondo ordine di ragioni si censura la sentenza
laddove ha ritenuto che il carattere continuativo dell'attività di
lavoro concretamente prestata al di là e al di fuori dei singoli
atti di preposizione, la professionalità dell'attività stessa ed il
fatto che essa sia stata posta in essere nell'ambito organizzativo
dapprima deH'I.n.p.s. e poi dell'E.n.p.a.s. inducano a configurare il
rapporto necessariamente come di pubblico impiego.
La sentenza muove dal presupposto che fra funzionario onora
rio e funzionario professionale non esiste un tertium genus,
laddove vi è la norma di cui all'art. 409, n. 5, c.p.c. (altrimenti
inutiler data) che attribuisce alla giurisdizione del giudice ordina
rio le controversie relative ad altri rapporti di lavoro pubblico.
Invero, da un canto, non è configurabile rapporto di impiego in
carenza di formale atto di nomina; d'altro canto, quando l'effetti
vo atteggiarsi del rapporto originariamente onorifico si traduce in
una vera e propria attività di lavoro, non può più dirsi quello
formalmente regolato da ciascun singolo atto di preposizione al
munus plublicum. Tale rapporto di lavoro va unitariamente considerato, perché,
col prestare prima in favore dell'I.n.p.s. e poi dell'E.n.p.a.s. tutte
le proprie energie, il dott. Cruciani era restato costantemente
impegnato a tempo pieno, non potendo svolgere alcun'altra
attività professionale, e perché esso rapporto ha finito per risol
versi in una serie di prestazioni d'opera, di carattere oltreché
continuativo, anche coordinato; si è insomma verificata una
compenetrazione fra la prestazione d'opera del dott. Cruciani e lo
sviluppo delle funzioni istituzionali dell'I.n.p.s. e dell'E.n.p.a.s.,
comportando la necessaria implicazione della personalità del pre statore d'opera nell'attività da lui posta in essere.
Pur tuttavia, il rapporto de quo non si risolve in alcun nesso di
subordinazione, trattandosi, in realtà, « di un rapporto che rifugge
dall'inquadramento nelle generali categorie del lavoro esterne
nonché conseguenziali e del lavoro subordinato; esso costituisce
una categoria a sé stante, anche se il carattere continuo e
coordinato dell'attività lavorativa per esso esplicata, unito alla
dipendenza sul piano economico che in capo al prestatore da
essi deriva, lo accosta per certi aspetti al rapporto di lavoro subordinato ». E invece il dott. Cruciani non ha mai dedotto di essere un pubblico dipendente.
Dall'art. 409, n. 3, c.p.c. emerge una generale ratio, dotata di forza espansiva: dare a tutti i rapporti di parasubordinazione, quale che sia la natura dei soggetti in causa, la specifica intensa tutela che spetta al lavoratore subordinato, a cominciare dall'a
spetto processuale; e in relazione a tale ratio trae luce l'interpre tazione dell'art. 409, n. 5, che conferma che la giurisdizione spetta al giudice ordinario.
Il ricorso è infondato. A prescindere dalla considerazione che — se si eccettuino fuggevoli richiami, nel ricorso, alle norme di cui agli art. 36 Cost., 2225 c.c. e 409, on. 3 e 5, c.p.c. — vengono sol genericamente dedotte « ragioni di diritto » attinenti alla
giurisdizione, esso ricorso sembra incentrarsi su due punti essen ziali: l'unicità del rapporto, e la sua riconduzione ad un non
meglio identificato tertium genus, assimilabile alla parasubordina zione, fra il rapporto di servizio onorario ed il rapporto di
pubblico impiego. Questo al primo punto, del quale, del resto, non è agevole
ravvisare la rilevanza ai fini della giurisdizione, basti considerare
che, quale che sia la natura del rapporto, la sua unicità presup pone l'identità dei soggetti, ovvero il trasferimento del rapporto —
nella sua identità — da uno ad altro soggetto. Ma tale identità è senza dubbio insussistente perché, di fronte
al dott. Cruciani, vi sono stati prima l'I.n.p.s. e poi l'E.n.p.a.s., enti, è inutile dirlo, soggettivamente distinti, e fra i quali non era intercorso e, ovviamente, non avrebbe potuto giammai intercorre
re, alcun atto di cessione o traslazione del rapporto col dott. Cruciani.
Quanto al secondo punto, deve ritenersi che esattamente il tribunale ha escluso che possa darsi una terza figura accanto a
quella del pubblico impiegato e del funzionario onorario. La giurisprudenza di questa corte in molteplici decisioni ha ben
individuato la figura del funzionario onorario, precisandone i contorni anche in relazione a quella del pubblico impiegato, ed anzi individuandola addirittura in maniera residuale rispetto al l'altra (« quando esiste un rapporto di servizio volontario con attribuzione di funzioni pubbliche, ma in assenza degli elementi caratterizzanti l'impiego pubblico, si ha la figura del funzionario onorario »: cfr. Cass., sez. un., 8 gennaio 1975, n. 27, id., 1975, I, 569; 6 ottobre 1975, n. 3165, id., Rep. 1975, voce Giurisdizione
civile, n. 167; 18 dicembre 1975, n. 4159, ibid., voce Impie
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
gato dello Stato, n. 242; 27 febbraio 1978, n. 863, id., Rep. 1978, voce Giurisdizione civile, n. 98; 24 maggio 1981, n. 1687,
id., Rep. 1981, voce Regione, n. 167; 7 ottobre 1982, n. 5129, e 2 maggio 1983, n. 3006, id., 1983, I, 1852; 16 luglio 1983, n. 4887, id., 1984, I, 2581).
Si riscontra, in tale giurisprudenza, varietà di soluzioni in
punto di giurisdizione, che vanno, secondo le particolarità delle
varie fattispecie, dalla declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario, a quella del giudice amministrativo, o di improponibi lità assoluta della domanda.
Ciò è dovuto, come ha osservato l'ultima delle citate sentenze, al fatto che, sia nel campo del rapporto di pubblico impiego, che
in quello delle funzioni onorarie, vi è spazio per posizioni
soggettive di diritto soggettivo o di interesse legittimo, con più
larga ricorrenza di quest'ultimo nel secondo, che è disciplinato dall'ordinamento in maniera alquanto rudimentale, lasciando per ciò ampio spazio alle possibilità di esercizio del pubblico potere discrezionale.
Ed anzi non poche situazioni, direttamente tutelate nel pubbli co impiego, sono addirittura ignorate nel servizio onorario, sicché
non hanno giuridica rilevanza (si pensi alla mancanza, in molti
casi, di una tutela previdenziale).
Vari sono gli elementi differenziali fra le due figure, e caratte
rizzanti quella del funzionario onorario: la scelta, di carattere
amministrativo-tecnico, mediante procedure concorsuali, quanto alla prima, politico-discrezionale, quanto alla seconda; l'inserimen
to nell'organizzazione amministrativa, strutturale o professio nale per l'impiegato, meramente funzionale per il funzio
nario onorario; lo svolgimento del rapporto, retto da ap
posito statuto per il pubblico dipendente, sostanzialmente privo di disciplina, se non quella derivante dall'atto di conferimento
dell'incarico e dalla natura stessa di quest'ultimo per il funziona
rio onorario; il compenso, che è vera e propria remunerazione, inserendosi in un rapporto sinallagmatico, per l'impiegato, mentre
ha carattere indennitario, o di ristoro delle spese in senso lato,
per il funzionario; la durata del rapporto tendenzialmente inde
terminata per il pubblico impiegato, sempre temporanea (anche se
con possibilità di reiterazione dell'incarico) per il funzionario
onorario.
Nella specie, lo stesso ricorrente in maniera categorica esclude
che il suo possa qualificarsi come rapporto di pubblico impiego.
E, del resto, ricorrono, in positivo, gli elementi caratteristici delle
funzioni onorarie; la scelta ed il conferimento dell'incarico, del
tutto discrezionali; l'inapplicabilità della disciplina propria del
rapporto d'impiego; il compenso, costituito da mera indennità di
carica e non da uno stipendio; l'assenza di previsione di una
tutela previdenziale. Può non sembrare esauriente l'alternativa pubblico impiegato
- funzionario onorario, ma ciò non consente comunque di
ipotizzare — come si vorrebbe — un tertium genus, un rapporto di lavoro non pubblico né autonomo; fuori della subordinazione
e dell'autonomia non ci sarebbe che la parasubordinazione ex art.
409, n. 3, o collaborazione continuativa e coordinata: ma questa non può ravvisarsi nel rapporto che legE. il titolare di un organo
all'ente, cui questo perviene, perché il titolare dell'organo non
collabora con l'ente, non è esterno ad esso, ma si identifica
funzionalmente con l'ente medesimo ed agisce per esso.
Né, nella specie, si sostiene che siano state svolte funzioni eccedenti quelle proprie dal presidente dell'ente, e che quindi
possa essersi venuto a costituire un rapporto di pubblico impiego collaterale a quello onorario.
Non può che trattarsi, in definitiva, di funzione onoraria, la
giurisdizione in relazione alla quale va determinata, alla stregua di quanto affermato dalla giurisprudenza di questa corte, in
dividuando quali sono le posizioni soggettive ravvisabili nelle varie
domande proposte. Orbene, le domande proposte dal Cruciani sono quelle di
determinazione dell'equo ammontare dei compensi che ha perce
pito ma che assume inadeguati, nonché di risarcimento dei danni
subiti e subendi; e quella di declaratoria del suo diritto a
trattamento previdenziale, con conseguente condanna degli enti
convenuti al versamento dei contributi dovuti agli enti di compe tenza.
Quanto alla prima domanda, con cui si pone in questione la
legittimità del trattamento economico, non essendo questo fissato
da alcuna norma, ma trovando la sua unica origine in discrezio
nali valutazioni della p.a. (e non venendo in discussione la
debenza del compenso dall'amministrazione già determinato con i
propri provvedimenti), alla base di essa domanda non può che
ravvisarsi una posizione di interesse legittimo, in quanto correlata
ad un potere della p.a., il cui corretto esercizio può essere
Il Foro Italiano — 1985 — Parte I-107.
sindacato solo dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione
generale di legittimità (cosi, in caso analogo, le cit. sent. 4887/83 e 1687/81).
E ciò vale anche per la genericissima domanda di risarcimento
danni, atteso che la completa mancanza di ogni specificazione non consente di apprezzare se essa integri gli estremi di un
diritto patrimoniale conseguenziale (in ipotesi rientrante nella
giurisdizione del giudice ordinario), ma la fa ritenere piuttosto una formula di stile applicativa della domanda lato sensu ineren te al trattamento economico.
Quanto alla domanda relativa alla tutela previdenziale, basti
osservare che questa presuppone necessariamente un rapporto di
lavoro pubblico o privato, sol dalla cui sussistenza discende
l'obbligo del datore di lavoro di costituire una posizione assicura
tiva.
Ma poiché, come si è detto, manca nella specie un rapporto del
genere, ne deriva, in base alla stessa deduzione di parte, carenza
di azione per non configurabilità, in astratto, di una posizione
soggettiva giuridicamente tutelabile (Cass. 2 maggio 1983, n. 3006,
nonché, nella motivazione, Cass. 4887/83); senza contare che non
erano presenti in giudizio gli enti (del resto neppure indicati) in
favore dei quali si chiede genericamente la condanna al versa
mento dei contributi. Onde l'improponibilità della domanda per difetto assoluto di giurisdizione.
Perciò la sentenza impugnata, che nel confermare quella del
pretore ha erroneamente ritenuto anche tale capo della domanda
appartenente alla giurisdizione del giudice amministrativo, va, sul
punto, cassata senza rinvio (art. 382, ult. comma, c.p.c.). (Omissis)
II
Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 21
novembre 1980 il prof. Giuseppe De Meo — premesso di essere
stato nominato presidente dell'ISTAT con d.p.r. 18 ottobre 1961 e
di essere stato confermato nell'incarico fino al 31 ottobre 1980; di
avere percepito fino al 31 dicembre 1979 un compenso non
adeguato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto come
presidente dell'ISTAT — chiedeva al Pretore di Roma, in fun
zione di giudice del lavoro, di stabilire l'equo ammontare dei
compensi dovutigli ai sensi dell'art. 36 Cost, e di condannare, in
solido, la presidenza del consiglio dei ministri e l'ISTAT a
pagargli un'integrazione di lire 111.121.234, con svalutazione ed
interessi.
Con successivo ricorso depositato il 9 gennaio 1981, il medesi
mo prof. De Meo — rilevato che dal 1° gennaio al 31 ottobre
gli era stato liquidato il compenso spettantegli in misura inferiore
a quella fissata con d.p.c.m. del 14 maggio 1980 e che non gli era
stato liquidato il trattamento di fine lavoro — chiedeva la
condanna dell'ISTAT al pagamento di lire 7.209.585 per differen
ze retributive e di lire 28.805.140 per buonuscita, con svalutazio
ne ed interessi.
Riunite le due cause, all'udienza del 4 febbraio 1982 il pretore dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in
ordine alle domande proposte con il ricorso depositato il 21
novembre 1980; condannava l'ISTAT a pagare al ricorrente la
somma di lire 3.728.836 per incidenza sul trattamento economico
del dirigente generale dello Stato dell'indennità integrativa spe
ciale; respingeva le altre domande proposte con il ricorso de
positato in data 9 gennaio 1981. Su appello principale del De Meo e incidentale delle presidenze
del consiglio dei ministri e dell'istituto il Tribunale di Roma con
sentenza 20 giugno 1983 confermava tale decisione.
Riteneva il tribunale doversi affermare la giurisdizione dei
giudice ordinario su tutte le domande proposte dal De Meo, il
quale a fondamento delle sue pretese non aveva invocato un
rapporto di pubblico impiego, né comunque circostanze di fatto
idonee alla configurazione di un rapporto di pubblico impiego, ma — deducendo che il rapporto con l'ISTAT, per il suo
contenuto e per la sua struttura, integrava una delle ipotesi considerate dall'art. 409, n. 5, o, in subordine, n. 3, c.p.c. —
aveva chiesto l'adeguamento ex art. 36 Cost, dei compensi perce
piti dal gennaio 1962 al dicembre 1979 e la corresponsione del
trattamento di fine rapporto. Dalla prospettazione della domanda nei termini sopra richiama
ti e della natura dell'interesse sostanziale dedotto in giudizio, discendeva la giurisdizione del giudice ordinario, e più precisa mente del giudice di lavoro.
Nel merito, peraltro, sia la domanda diretta ad ottenere l'ade
guamento dei compensi ex art. 36 Cost., sia quella volta ad
ottenere la corresponsione del trattamento di fine rapporto, anda
vano rigettate.
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1659 PARTE PRIMA 1660
Posto che il rapporto di lavoro dei dipendenti dell'ISTAT
(ente pubblico non economico posto sotto il diretto ed e
sclusivo controllo del presidente del consiglio dei ministri) rientra tra i rapporti di pubblico impiego devoluti dalla
legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e che
nel caso di specie lo stesso ricorrente escludeva, nella prospetta zione dei fatti e delle domande, la sussistenza di un rapporto di
pubblico impiego, riteneva il tribunale che potesse rientrare
nell'ampia nozione di « rapporti di collaborazione » di cui
all'art. 409, n. 3, c.p.c. anche il rapporto tra l'ISTAT e il
prof. De Meo, nominato presidente dell'istituto con d.p.r. 18 ottobre 1961 e confermato nell'incarico per altri tre
quadrienni, durante i quali il De Meo aveva svolto una presta zione d'opera professionale continuativa e coordinata, prevalente mente personale, a favore del predetto istituto proprio nella sua
qualità di presidente del medesimo.
A prescindere dalla questione dell'applicabilità o meno dell'art.
36 Cost, nei rapporti diversi da quelli di lavoro subordinato,
osservava il tribunale che i compensi corrisposti al prof. De Meo
dal 6 al 31 dicembre 1979 apparivano pienamente adeguati alla
qualità e soprattutto alla quantità del lavoro prestato, considerato
che nello stesso tempo il prof. De Meo aveva assolto « con
diligenza i suoi doveri di professore ordinario di statistica eco
nomica nell'università di Roma », come affermava egli stesso nel
ricorso in appello.
Difatti, l'indennità di carica gli era stata corrisposta in lire
325.000 mensili sino al 31 agosto 1963, in lire 450.000 mensili
sino al 23 ottobre 1972, in lire 600.000 mensili sino al 31
dicembre 1977, in lire 800.000 mensili sino al 31 dicembre 1979.
Del resto, lo stesso appellante, nelle sue difese, deduceva
l'insufficienza del trattamento economico non in se stesso, ma
confrontandolo con quello di un dirigente generale di livello C
ed assumendo che, in base ai criteri ispiratori del d.p.c.m. 20
dicembre 1961 e del d.p.c.m. 14 maggio 1980, l'indennità di
carica avrebbe dovuto essergli corrisposta in misura pari alla
retribuzione di un direttore generale di livello C, maggiorata del
32%.
Ma nulla nei decreti antecedenti quello del 14 maggio 1980
autorizzava l'interprete a ritenere quanto affermato dall'appellan
te, mentre con l'ultimo decreto l'indennità di carica era stata
riconosciuta nella misura « pari al trattamento economico onni
comprensivo del dirigente generale C delle amministrazioni dello
Stato, maggiorato del 20 % » (oltre il gettone di presenza per la
partecipazione alle riunioni degli organi collegiali).
In relazione a tale ultimo decreto, il prof. De Meo aveva
chiesto che fosse accertato il suo diritto ad un trattamento
economico riferito a quello del dirigente generale di livello
C delle amministrazioni dello Stato comprensivo dell'indennità
integrativa speciale e degli aumenti biennali di anzianità, ed al
trattamento di fine lavoro nella misura spettante al predetto
dirigente. Correttamente il primo giudice — sulla base anche della nota
7 novembre 1980 con la quale lo stesso ufficio della presidenza del consiglio aveva chiarito che il trattamento previsto del decreto 14 maggio 1980 era « comprensivo delle seguenti voci:
stipendio iniziale, tredicesima mensilità e indennità integrativa
speciale ove competa ai sensi delle norme in vigore » — aveva
ritenuto che il riferimento al trattamento del dirigente generale aveva solo la funzione della determinazione per relationem (e con
l'intervento di un coefficiente maggiorato) del quantum del com
penso, autonomamente spettante al De Meo.
Nella determinazione del predetto quantum occorre fare riferi
mento al trattamento del dirigente generale, inclusa l'indennità
integrativa speciale, che faceva parte del trattamento medesimo,
indipendentemente dalla circostanza che il De Meo, quale profes sore universitario, percepiva già la medesima indennità.
La determinazione unitaria del compenso per relationem se da
una parte imponeva l'inclusione dell'indennità integrativa speciale, dall'altra escludeva che possa farsi riferimento al trattamento
economico del dirigente generale C comprensivo di scatto di
anzianità e di indennità di fine rapporto.
Il richiamo al trattamento economico del dirigente generale per determinare l'indennità di carica, in mancanza di una espressa
previsione normativa, non poteva ritenersi esteso agli scatti di
anzianità e al trattamento di fine lavoro, incompatibili con la
natura stessa dell'indennità di carica, oltre che con la natura del
rapporto di lavoro, non subordinato, instauratosi tra le parti. Avverso tale decisione ricorre per tre motivi il De Meo;
resistono con controricorso la presidenza del consiglio dei ministri
e l'ISTAT, che hanno presentato altresì ricorso incidentale. Le
parti hanno tutte presentato memoria.
Il Foro Italiano — 1985.
Motivi della decisione. — Col primo motivo di ricorso denun
ciando vizio di omessa motivazione su punto decisivo della
controversia, il De Meo, premesso di aver sostenuto nelle fasi di
merito che il ventennale rapporto che lo aveva legato al
l'ISTAT rientrava fra quelli di cui al n. 5 dell'art. 409 c.p.c.,
o, subordinatamente, fra quelli di cui al n. 3 dello stesso
articolo, ma che il tribunale ha accolto la seconda tesi, senza in
alcun modo spiegare perché fosse da respingere la prima, torna a
ribadire che il suo rapporto rientra nella categoria degli « altri
rapporti di lavoro pubblico » dei quali parla l'art. 409, n. 5.
Lo status di presidente dell'ISTAT, anche se non consente di
classificare il relativo rapporto fra quelli di pubblico impiego, è
però uno di quei rapporti di lavoro pubblico atipici, che non
rientrano in alcuna ben definita categoria, ma per i quali si può
parlare di subordinazione in senso lato, venendo posta a
disposizione dell'ente pubblico in via continuativa l'attività di
chi ad esso è in tal modo legato, e che entra perciò a far parte
dell'organizzazione dell'ente, a sua volta obbligato a corrispondere un compenso di indubbia natura retributiva, come appunto nel
caso del presidente dell'ISTAT: trattasi dunque di una prestazione
professionale, il compenso pagato in relazione alla quale ha natura di corrispettivo.
Col secondo motivo di ricorso, denunciando ulteriore vizio di
difetto di motivazione, si lamenta che, accogliendo la tesi subor
dinata di esso ricorrente, il tribunale non ha preso posizione sul
punto decisivo della controversia dell'applicabilità al ritenuto
rapporto di prestazione d'opera continuativa e coordinata del
l'art. 36 Cost., che va letto insieme al precedente art. 35, assicurante la tutela del lavoro « in tutte le sue forme e applica zioni », e che perciò è applicabile anche al lavoro autonomo e libero professionale, e quindi a rapporti di parasubordinazione. Il
tribunale, dichiarando di prescindere da tale questione, ha affer mato che comunque i compensi corrisposti al prof. De Meo dal 1962 al 1979 appaiono adeguati alla qualità e soprattutto alla
quantità del lavoro, ma con affermazione apodittica e arbitraria; se il tribunale avesse posto a raffronto l'indennità del 1979 con
quella del 1980, cioè non con un termine estraneo ma con se
stessa, si sarebbe persuaso dell'inadeguatezza dei compensi corri
sposti al prof. De Meo, in quanto è palesemente contraddittorio ammettere che il compenso corrisposto per il 1979 « è pienamente adeguato » quando la stessa amministrazione aveva pagato per l'anno successivo un compenso oltre due volte e mezzo più elevato, con un aumento, quindi, di gran lunga maggiore rispetto all'aumento del costo della vita.
Col" terzo motivo, si osserva che, sempre incorrendo in vizio di
motivazione, il tribunale ha escluso la computabilità, nel compen so parificato al trattamento economico del dirigente generale C dell'amministrazione dello Stato, degli scatti biennali e dell'inden nità di fine rapporto, ritenendo necessaria, all'uopo, una espressa previsione normativa, peraltro non richiesta quanto all'indennità
integrativa speciale. E che della retribuzione onnicomprensiva del dirigente genera
le di livello C (cui è rapportata quella del presidente dell'ISTAT) facciano parte gli aumenti biennali e l'indennità di fine lavoro, è stato affermato dal Consiglio di Stato (parere 29 ottobre 1980) a
proposito della determinazione dei compensi ai commissari liqui datori degli enti mutualistici, la cui indennità di carica, in forza del d.p.r. 31 ottobre 1979, è pure riportata al trattamento economico dei rispettivi direttori generali.
Le due amministrazioni resistenti, ribadendo in controricorso la
configurabilità del rapporto de quo come rapporto di ufficio
onorario, sostengono che la determinazione dell'indennità attiene all'esercizio di un potere pubblico discrezionale, in ordine al
quale il titolare della indennità ha solo interessi legittimi, da far valere davanti al giudice amministrativo; propongono poi ricorso
incidentale, dolendosi dell'avvenuto riconoscimento della compati bilità dell'indennità integrativa speciale, contro il divieto di doppia percezione posto dalla 1. 29 maggio 1959 n. 324, istitutiva di
quella indennità, essendo pacifico infatti che il De Meo era già titolare dell'indennità integrativa speciale come docente universi tario.
Le stesse amministrazioni poi, nella memoria presentata per l'udienza fissata davanti alla sezione lavoro di questa corte, insistono (e lo ribadiscono nella memoria presentata per l'udienza odierna) sulle questioni di giurisdizione implicate da dette pro spettazioni (difetto di giurisdizione del giudice ordinario sull'atto autoritativo di determinazione dell'indennità; e difetto assoluto di
giurisdizione in ordine al quantum dell'indennità); ed è per questo che il ricorso è stato rimesso a queste sezioni unite.
Va perciò preliminarmente esaminata detta questione; ma deve constatarsi che essa è ormai preclusa.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Infatti il tribunale espressamente risolvendo — in parziale riforma della sentenza del pretore — la questione di giurisdizione ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario, e più precisa mente del giudice del lavoro, su tutte le domande proposte dal
De Meo. Di questo punto della decisione il ricorrente principale non si è
doluto, avendo esso proposto tre motivi di ricorso concernenti
aspetti sostanziali della controversia, e non aspetti processuali. Ma non se ne sono dolute, nelle forme prescritte, neppure le
amministrazioni resistenti, le quali hanno proposto, sì, ricorso
incidentale, ma anch'esso solo in ordine ad una questione sostan
ziale, limitandosi a fare un cenno alla questione di giurisdizione solo nel controbattere, in controricorso, le ragioni avverse, e
sviluppandola più ampiamente nelle memorie.
Ma cosi dimendicando che, secondo costante giurisprudenza di
questa corte, il principio secondo cui la parte totalmente vittorio sa non è tenuta a proporre ricorso incidentale per ottenere il riesame di questioni pregiudiziali o preliminari vale solo per le
questioni che, rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado della
controversia, non siano state tuttavia esaminate e decise dal
giudice d'appello; se invece lo siano state, e risolte sfavorevol
mente alla parte poi risultata in concreto vittoriosa, questa, in caso di ricorso per cassazione della controparte, deve proporre ricorso incidentale in ordine a detta questione per evitare che
essa rimanga preclusa in considerazione della struttura del giudi zio di legittimità, il quale non è soggetto alla disciplina dettata
per l'appello dall'art. 346 c.p.c., con la conseguenza che l'onere
dell'impugnazione, gravante sul convenuto nel giudizio stesso, va
riferito non solo alla soccombenza pratica, ma anche a quella teorica (sent. 5 gennaio 1983, n. 51, Foro it., Rep. 1983, voce
Cassazione civile, ti. 187; 2 febbraio 1983, n. 895, ibid., n. 188; 15 aprile 1982, n. 2290, id., Rep. 1982, vooe cit., n. 158; 7
gennaio 1982, n. 62, ibid., n. 259; 18 marzo 1981, n. 1609, id.,
Rep. 1981, voce cit., n. 277; 13 gennaio 1981, n. 300, ibid., n. 278; 7 maggio 1981, n. 2979, ibid., n. 279; 13 agosto 1981, n. 4920,
ibid., n. 281; 12 aprile 1980, n. 2335, id., Rep. 1980, voce cit., n.
255; 15 febbraio 1979, n. 978, id., Rep. 1979, voce cit., n. 269; 25
giugno 1977, n. 2718, id., Rep. 1977, voce cit., n. 282; 21 maggio 1977, n. 2117, ibid., n. 281; 15 aprile 1976, n. 1333, id., 1976, I,
1501); e, con specifico riguardo alla giurisdizione, ove il giudice di
merito abbia espressamente affermato la propria giurisdizione e
pronunciato sulla domanda, la statuizione sulla giurisdizione, in
ipotesi di ricorso per cassazione solo per il merito (come appunto nella specie) da parte del soccombente, può essere riesaminata
dalla Suprema corte soltanto ove sia proposto, dalla parte vitto
riosa nel merito, ricorso incidentale, anche se condizionato all'ac
coglimento del ricorso principale avversario (sent. 15 ottobre
1983, n. 6051, id., Rep. 1983, voce cit., n. 197; 8 aprile 1981, n.
2010, id., Rep. 1981, voce cit., n. 265).
Rimane perciò ferma la giurisdizione del giudice ordinario, affermata dal tribunale, nonché la competenza del giudice del
lavoro, anch'essa, sia pur solo assertivamente, ritenuta dal mede
simo tribunale, chiamato a pronunciare su espressa eccezione
d'incompetenza delle amministrazioni convenute, le quali, peral tro, anche quanto a tale punto non hanno proposto gravame alcuno, limitandosi ad accennarne nel controricorso e in memo
ria.
Passando, dunque, all'esame del merito, va innanzitutto affron tata la questione della pretesa insufficienza del compenso corri
sposto al De Meo, sotto il profilo, innanzitutto, della invocata
applicabilità dell'art. 36 Cost, anche ad un rapporto di « lavoro
pubblico » ex art. 409, n. 5, c.p.c., quale il ricorrente asserisce
essere quello che lo lega allTSTAT, e, poi, sotto quello della
concreta adeguatezza del compenso stesso, che si assume contrad
dittoriamente affermata dal tribunale.
Il tribunale ha escluso che il rapporto che legava il De Meo
all'ISTAT potesse qualificarsi di pubblico impiego, e lo ha ritenuto
appartenente alla categoria dei rapporti di cui all'art. 409, n. 3.
Il ricorrente assume invece che il rapporto andava inquadrato fra quelli di cui al n. 5 di detta norma.
Va in proposito preliminarmente precisato che la preclusione della questione di giurisdizione non impedisce di esaminare la
questione della disciplina sostanziale applicabile al rapporto. E questa non va ravvisata né in quella applicata dalla sentenza
impugnata, né in quella indicata dal ricorrente, bensì nella
disciplina propria del rapporto di servizio onorario.
Va, all'uopo, ricordato che il rapporto di servizio onorario
assume una propria caratterizzazione, che lo distingue dal rappor to di pubblico impiego, sulla base di una serie di elementi
sintomatici, cosi riassumibili: a) la scelta, di carattere ammini
strativo-tecnico, mediante procedure concorsuali, quanto al pub
II Foro Italiano — 1985.
blico impiegato, politico-discrezionale quanto al funzionario ono
rario; b) l'inserimento nella organizzazione amministrativa, strut
turale, che è professionale per l'impiegato, meramente funzionale
per il funzionario onorario; c) lo svolgimento del rapporto, che è
retto dall'apposito statuto per il pubblico dipendente, mentre è
privo di una specifica disciplina — se non quella derivante
dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura stessa di
quest'ultimo — per il funzionario onorario; ci) il compenso, che è
vera e propria remunerazione, inserentesi in un rapporto sinallag
rnatico, per l'impiegato, mentre ha carattere indennitario, o di
ristoro di spese in senso lato per il funzionario; e) la durata del
rapporto, tendenzialmente indeterminato per il pubblico impiega
to, sempre temporaneo (anche se con possibilità di reiterazione
dell'incarico) per il funzionario onorario.
E, nella specie, non v'è dubbio che ricorrano i più significativi elementi della figura del funzionario onorario, dal criterio di
scelta e dalla forma della nomina, al tipo di compenso, e alla
temporaneità dell'incarico, seppur reiteratamente confermato, cosi
come emergono dalla sentenza impugnata. Trattasi, dunque, di un rapporto in ordine al quale possono
configurarsi — come affermato dalla giurisprudenza di questa corte — sia posizioni di diritto soggettivo (quale, ad esempio,
quella inerente alla indennità già fissata in provvedimento del
l'autorità) sia di interesse legittimo (quale quella alla misura
di detto compenso da fissare), secondo il vario atteggiarsi del
la pretesa dell'interessato e della concreta fattispecie, con le
relative conseguenze quanto alla giurisdizione (che in questa
sede, per quanto già detto, non possono più essere prese in con
siderazione).
Comunque ad un siffatto rapporto, che nulla ha a che vedere con
un rapporto di lavoro subordinato, non può in alcun modo
applicarsi il principio della retribuzione adeguata di cui al 1°
comma dell'art. 36 Cost.
È, invece, giurisprudenza costante che questo riguarda esclusi
vamente il rapporto di lavoro subordinato, e non è applicabile in
tema di compenso per altre prestazioni lavorative, quali quelle di
lavoro autonomo (Cass. 5 gennaio 1983, n. 38, id., Rep. 1983, voce Lavoro autonomo, n. 55; 12 febbraio 1980, n. 991, id., Rep. 1980, voce cit., n. 9; 10 novembre 1977, n. 4853, id., Rep. 1977, voce cit., n. 6; 17 maggio 1975, n. 1945, id., Rep. 1975, voce Lavoro (rapporto, n. 1104; 16 aprile 1970, n. 1060, id., Rep. 1970, voce Lavoro autonomo, n. 10; 4 dicembre 1969, n. 3867, ibid., n. 3); e in particolare al lavoro libero professionale (Cass. 21 luglio 1977, n. 1091, id., Rep. 1977, voce Professioni intel
lettuali, n. 39; 30 ottobre 1969, n. 3605, id., Rep. 1970, vooe cit., n. 78).
Interpretazione, questa, suffragata dal tenore del 2° e del 3° comma del medesimo art. 36, che non possono che riferirsi al lavoro subordinato, e solo ad esso, vertendo in materia di orario di lavoro, riposi e ferie.
Né valido argomento in senso contrario può trarsi dalla esten sione normativa di talune discipline tipiche del lavoro subordinato a categorie di lavoratori autonomi, cosi come non lo si può neppure trarre dall'applicabilità del rito del lavoro ai rapporti cosiddetti parasubordinati; eccezionali estensioni, queste, che con fermano la regola della generale inapplicabilità al lavoro autono mo di principi e discipline proprie di quello subordinato.
Esclusa, quindi, in linea di principio l'applicabilità dell'art. 36 Cost, ad un rapporto non di lavoro subordinato quale quello di servizio onorario, resterebbe assorbita la censura attinente alla concreta adeguatezza del compenso ritenuta dal tribunale a pre scindere da tale esclusione; non senza tuttavia rilevare come, stante la già vista discrezionalità di determinazione del compenso, nel determinarlo la p.a. è tenuta all'osservanza di principi di buona amministrazione, censurabili (davanti al giudice ammini strativo) sotto il profilo dell'eccesso di potere, e che davanti al
giudice ordinario (presso il quale è rimasta radicata la giurisdi zione — nonché la competenza — per i motivi processuali innanzi esposti) non è stato allegato elemento alcuno che potesse consentire una consimile valutazione.
Anche l'ultimo motivo è infondato. 11 carattere previdenziale dell'indennità di buonuscita che, fra l'altro, presuppone il versa mento di contributi a carico di entrambe le parti del rapporto d'impiego, ormai pacifico nella giurisprudenza di questa corte (sez. un. 13 settembre 1978, n. 4127, id., 1978, I, 1872; 15 settembre 1977, nn. 3971-3981 e 3983, id., Rep. 1977, voce
Impiegato dello Stato, nn. 1121-1132, 1077; 7 luglio 1977, n.
3011, ibid., n. 1080; 12 maggio 1977, n. 1864, ibid., n. 1081; 7 dicembre 1976, nn. 3595 e 3596, id., 1976, I, 2509 e 2506; 12 giugno 1975, n. 2329, id., 1975, I, 2448; 15 marzo 1975, n. 1002, ibid., 1083), esclude in radice ogni possibilità di ritenere
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1663 PARTE PRIMA 1664
dette indennità, in mancanza di specifica previsione e disciplina, computabile nel trattamento economico in discussione.
Esattamente il tribunale ha escluso dal computo anche gli scatti biennali di anzianità, che presuppongono un rapporto di durata
indeterminata, e non un rapporto a termine (pur se più volte
prorogato) e per di più di mero servizio, quale quello di cui è
causa, sicché in relazione ad esso non può parlarsi di anzianità di carriera, che è invece alla base dell'istituto degli aumenti bienna
li; i quali in ogni caso sono anch'essi regolati da una specifica disciplina che, in mancanza di espresso richiamo, non può ritenersi sic et simpliciter estensibile.
Infondato, è, altresì, il ricorso incidentale.
invero, pur se il divieto di corrispondere più di una volta l'indennità integrativa speciale, posto dall'art. 2, 7° comma, 1. 27
maggio 1959 n. 354 (la cui questione di costituzionalità è stata ritenuta manifestamente infondata dal Cons, di Stato, sez. Ili, 7
luglio 1982, n. 357) è stato inteso dal Supremo Consesso ammi
nistrativo nella maniera più lata, come applicabile anche nel caso in cui uno dei due rapporti abbia natura privatistica (sez. VI 7
luglio 1982, n. 357), con riguardo, dunque, alla percezione di indennità di carovita (sez. IV 2 marzo 1982, n. Ill, id., Rep. 1982, voce Impiegato dello Stato, n. 774) e a qualsiasi altra indennità percepita da impiegato o pensionato variabile in rela zione al fluttuare del costo della vita, indipendentemente dalla sua denominazione (sez. IV 1° dicembre 1981, n. 938, ibid., n.
773; 23 giugno 1981, n. 506, id., Rep. 1981, voce cit., n. 669), va
peraltro considerato che, come esattamente, del resto aveva rite nuto il pretore, il compenso corrisposto dall'I ST AT al suo presi dente aveva una caratterizzazione giuridica unitaria e autonoma, mentre il riferimento al trattamento del dirigente generale aveva solo funzione di determinazione p,er relationem (e, inoltre, con
applicazione di un coefficiente maggiorativo) della misura del
compenso. Cosicché ben poteva in esso ricomprendersi anche l'indennità
integrativa speciale intesa, così come la tredicesima mensilità, come mero parametro di commisurazione, e senza che, pertanto, il suo
computo (meramente contabile, e non attributivo di uno specifico
diritto) potesse comportare l'inosservanza del divieto di corre
sponsione dell'indennità stessa più d'una volta.
In conclusione, entrambi i ricorsi vanno rigettati. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 15
marzo 1985, n. 2018; Pres. Moscone, Est. R. Sgroi, P. M.
Grossi (conci, conf.); Fi.e.g., Sindacato nazionale rivenditori
giornali e riviste, Sindacato provinciale giornalai (Aw. Monte
foschi, Montesano, Giorgianni) c. Tirelli e Comune di Roma; Tirelli (Avv. C. Migro, Battaglia) c. F.i.e.g., Sindacato nazio
nale rivenditori giornali e riviste, Sindacato provinciale giornalai, Comune di Roma. Cassa App. Roma 21 aprile 1980.
Responsabilità civile — Accordo fra associazioni di produttori e
di rivenditori — Mancato rilascio del tesserino di prelevamento ad aspirante rivenditore — Lesione di un diritto soggettivo — Insussistenza (Cod. civ., art. 2043).
Concorrenza (disciplina della) — Concorrenza sleale — Associa
zioni professionali — Legittimazione passiva — Ammissibilità — Presupposti (Cod. civ., art. 2598).
Concorrenza (disciplina della) — Concorrenza sleale — Accordo
fra associazioni di produttori e di rivenditori — Selezione
distributiva — Liceità — Limiti (Cod. civ., art. 2598).
L'accordo fra associazioni di produttori (nella specie, editori di
giornali e riviste) e di rivenditori (giornalai), inteso a regolare la procedura di istituzione ed assegnazione dei punti di vendi
ta, non può integrare gli estremi della responsabilità extracon
trattuale, in danno del soggetto cui sia stata rifiutata l'asse
gnazione, per difetto della lesione immediata e diretta di un
diritto soggettivo. (1)
(1-3) Le regole (redazionali) del giuoco impongono di non ' raccon tare ' la sentenza che si riporta. Ma, si sa, tutte le regole — meno una — annoverano eccezioni. E, nella circostanza, sembra davvero opportuno offrire al lettore, se non una silloge, un abbozzo di '
guida ragionata
' alla lettura della complessa e tormentata decisione con cui le sezioni unite si sforzano di metter ordine nel risalente contenzioso relativo alla distribuzione dei giornali.
Cominciamo dallo scenario. Con qualche variazione, di cui daremo conto tra un momento, la fattispecie s'iscrive a pieno titolo nel folklore della materia: siamo, cioè, ben dentro alla tradizionale lotta
Il Foro Italiano — 1985.
Le associazioni di categoria degli imprenditori sono legittimate
passivamente all'azione di concorrenza sleale per gli atti (con
sistenti,, nella specie, nella stipulazione e/o esecuzione di un
accordo restrittivo della concorrenza, avente ad oggetto la
designazione normativa dei distributori del prodotto secondo
criteri selettivi) compiuti in pregiudizio di imprenditori non
iscritti, se tali atti sono posti in essere nell'interesse di altro
imprenditore, anche non iscritto, che abbia chiesto e ottenuto
l'applicazione a suo vantaggio dell'accordo. (2) L'accordo fra associazioni di produttori e di commercianti, che
consente la fornitura dei prodotti (nella specie, giornali e
riviste) ai soli rivenditori prescelti in base a regole stabilite
nell'accordo stesso non integra gli estremi della slealtà concor
renziale se la scelta dei distributori non esclude i soggetti estranei all'accordo, ma si ispira a criteri qualitativi obiettivi, correlati all'esigenza di razionalizzazione e miglioramento della
distribuzione e fissati uniformemente in base ad una procedura nella quale sono valutati comparativamente, e sia pure con una
qualche discrezionalità, le situazioni e le posizioni, precostituite sul mercato, di più aspiranti al medesimo punto di vendita;
l'applicazione di detto accordo in violazione dei criteri prefissa
ti, senza il rispetto della procedura prevista o con arbitraria
discriminazione può esser considerato atto contrario alla corret
tezza professionale se idoneo a provocare danno a carico
dell'imprenditore escluso, con vantaggio potenziale di un con
corrente. (3)
degli aspiranti giornalai, muniti di licenza di commercio ma sprovvisti del fatidico « tesserino di prelevamento », per un '
posto al sole ' (il
sistema a due soglie è diffusamente descritto nella nota di R.
Pardolesi, Distribuzione dei giornali: associazioni di categoria e
boicottaggio, a Cass. 16 aprile 1983, n. 2634, Foro it., 1983, I, 2160). Trent'anni or sono — e la causa continua! — l'odierno resistente si era visto respingere, dall'apposita commissione paritetica interregiona le, la domanda di rilascio del tesserino; per sovramercato, due mesi
più tardi il comune capitolino aveva depennato dalla sua licenza la voce « giornali e riviste ». L'anno dopo, le rinnovate aspirazioni del nostro giornalaio in pectore erano state deluse dalla commissione consultiva istituita dal comune, la quale, anzi, dava via libera ad un esercizio situato nelle immediate adiacenze: il tutto con l'avallo di un'ordinanza comunale, da cui traeva origine il ricorso amministrati vo, approdato alla sezione V del Consiglio di Stato nel 1962, con esito vittorioso (dee. 12 maggio 1962, n. 386, id., Rep. 1962, voce Commer cio di vendita al pubblico, n. 50) ma privo d'incidenza pratica, posto che, nel frattempo, la commissione consultiva comunale era stata soppressa. Scattò allora l'azione civile, respinta in prime cure, ma accolta in appello (la sentenza reca la stessa data di quella cui si riferisce Cass. 2634/83; ed è, del pari, inedita), sul piano della lesione extracontrattuale del diritto all'iniziativa economica privata del would be edicolante.
Ci si riannoda, cosi, ad una corposa vicenda giurisprudenziale (ricostruita in dettaglio nella nota dianzi menzionata), il cui ultimo atto era rappresentato, appunto, da Cass. 2634/83: smentendo il precedente di Cass. 20 giugno 1973, n. 1829, id., 1973, I, 3371 — resa, peraltro, in fattispecie estranea alla carta stampata —, tale pronunzia aveva, si, prospettato la possibile illiceità dell'accordo tra associazioni di editori e di rivenditori, non, però, alla luce dell'art. 2043 c.c., ma in riferimento al precetto di lealtà concorrenziale (sul punto, v. la nota di G. Vettori, Sulla distribuzione selettiva nel settore della stampa, id., 1984, I, 535), evocato — nonostante il difetto di qualità imprenditiva nelle associazioni coinvolte — attraverso lo schema della concorrenza per interposta persona.
L'idea-guida della sentenza ora ricordata sembrava quella di chiama re le cose col proprio nome: perché intestardirsi sul parametro del neminem laedere quando l'intero apparato argomentativo si fondava sulla logica del boicottaggio e rinviava, di filato, all'art. 2598 c.c.? Nella sostanza, le sezioni unite avallano una siffatta direttiva. Ma s'ingegnano di radicarla su un sostrato più affidante, idoneo a dimostrare l'impraticabilità della via alternativa. In limine, esse rico noscono che un atto negoziale nullo può, a prescindere dall'impro duttività di effetti sul piano giuridico, causare pregiudizio a terzi (e si evoca, al riguardo, lo spettro — nobile, ma decaduto — del « contrat to in danno »). Senonché, per innescare il meccanismo della responsa bilità aquiliana, occorre la lesione di una situazione soggettiva tutelata. E questa non può consistere nel diritto, assoluto, di iniziativa econo mica, cui si rifanno i giudici di appello con tanto di riferimento all'art. 41, 2° comma, Cost, (sulla scorta, del resto, di eleganti sortite dottrinarie: cfr., indicativamente, P. Marchetti, Boicottaggio e rifiuto di contrarre, Padova, 1969, 376), non foss'altro perché l'accordo di foreclosure è espressione della stessa libertà che si assume prevaricata (è appena il caso di ricordare che questa contraddizione di fondo costituisce, da sempre, il '
piede sinistro ' in materia di antitrust: il nodo, ineludibile, è rivisitato, ancora di recente e in chiave delibera tamente provocatoria, da F. H. Easterbrook, The Limits of Antitrust, 63 Tex. L. Rev. 1 (1984)). Occorrerebbe, quindi, qualcosa di più, che non è comunque dato derivare dalla prospettazione della domanda del giornalaio pretermesso. Rivolta com'è ad ottenere il tesserino, essa
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