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sezioni unite civili; sentenza 20 marzo 1985, n. 2033; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M. Sgroi V....

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sezioni unite civili; sentenza 20 marzo 1985, n. 2033; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M. Sgroi V. (concl. parz. diff.); Cruciani (Avv. Palermo) c. Min. tesoro e altri (Avv. dello Stato Palatiello) e I.n.p.s. (Avv. Chiabrera, Sacerdoti). Cassa Trib. Roma 14 luglio 1982 Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 6 (GIUGNO 1985), pp. 1651/1652-1663/1664 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23178530 . Accessed: 28/06/2014 17:43 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 92.63.104.65 on Sat, 28 Jun 2014 17:43:44 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite civili; sentenza 20 marzo 1985, n. 2033; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M. SgroiV. (concl. parz. diff.); Cruciani (Avv. Palermo) c. Min. tesoro e altri (Avv. dello Stato Palatiello)e I.n.p.s. (Avv. Chiabrera, Sacerdoti). Cassa Trib. Roma 14 luglio 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 6 (GIUGNO 1985), pp. 1651/1652-1663/1664Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178530 .

Accessed: 28/06/2014 17:43

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1651 PARTE PRIMA 1652

maggio 1976 n. 313, per non avere il pretore tenuto presente che

l'introduzione a seguito della legge da ultimo citata di un nuovo

3° comma rendeva inapplicabile il precedente 2° comma e per avere inoltre fornito del termine « impossibilità » una interpreta zione non corretta in quanto la stessa deve ritenersi sussistente in tutti i casi in cui sia inesigibile sia l'approntamento di mezzi

idonei, sia il loro utilizzo quando sia particolarmente oneroso. Il complesso motivo di ricorso sottopone al collegio un

duplice problema: il primo costituito dall'interpretazione dell'art. 121 cod. strad. come modificato dall'art. 5 1. 5 maggio 1976 n.

313, il secondo relativo alla determinazione del concetto di

impossibilità della determinazione del peso esatto, che legittima una tolleranza del cinque per cento sul peso complessivo.

L'art. 121, nel prevedere che sui veicoli a motore il traporto di cose non può superare la portata utile e, per i trasporti ecceziona li, la portata determinata dai limiti potenziali di carico, indicata nel documento di circolazione (1° comma), aggiunge che « nei casi in cui non sia possibile la determinazione del peso esatto, nonché

per cose per loro natura soggette a subire durante il trasporto aumenti di peso per umidità e pioggia, è ammessa una differenza di peso fino al cinque per cento del peso complessivo» (2° comma).

A queste disposizioni seguiva un 3° comma cosi formulato:

«chiunque circola con un veicolo il cui carico supera la portata utile o la portata determinata dai limiti potenziali di carico indicata nel documento di circolazione è punito salvo che non ricorra alcuna delle ipotesi di reato previste dall'art. 33, con l'ammenda da lire cinquantamila a lire duecentomila ».

Tale disposizione è stata sostituita con l'art. 5 1. n. 313/76 dalla seguente: « chiunque circoli con un veicolo che superi il

peso complessivo a pieno carico o il cui rimorchio superi il

proprio peso complessivo a pieno carico o il peso rimorchiabile del veicolo trainante, o, per i trasporti eccezionali, superi i

corrispondenti limiti potenziali indicati nei documenti di circola

zione, oltre il limite di tolleranza del cinque per cento del peso complessivo, è punito con l'ammenda da lire 50 mila a lire 200 mila se l'eccedenza non supera i 10 quintali, da lire 100 mila a lire 300 mila se l'eccedenza non supera i 20 quintali, da lire 200 mila a lire 500 mila se l'eccedenza non supera i 30 quintali; se l'eccedenza supera i 30 quintali si applicano l'ammenda di lire 808 mila e 15 giorni di arresto ».

La stessa disposizione prevede altresì che « nel caso che il

carico superi la portata utile oltre la tolleranza stabilita, sia il

proprietario del veicolo sia il conducente sono civilmente respon sabili in solido ».

Ritiene il collegio, che a seguito delle modifiche apportate dal

legislatore del 1976, le sanzioni per le violazioni consistenti nella circolazione con veicolo che ecceda il limite di peso fissato dagli art. 33 e 121 cod. strad. non siano pdù contenute solamente nell'art. 121, come per il passato, ma siano distintamente previste sia in quest'ultima norma che nel precedente art. 33.

L'art. 33, ult. comma, sostituito dall'art. 4 1. n. 313/76, ma rimasto sostanzialmente immutato, sanziona, in via generale, il

comportamento di chi circoli con un veicolo che ecceda i limiti di peso fissati dalla norma stessa, salvo quando disposto dall'art. 121.

Ai fini dell'integrazione di questa infrazione occorre tener

presente il 2° comma dell'art. 121, con la conseguenza che la

differenza di peso contenuta nel limite del cinque per cento e

purché sussistano le condizioni volute dalla norma (impossibilità di determinazione del peso esatto e presenza di cose soggette a subire durante il trasporto aumenti di peso per umidità e pioggia) non dà luogo alla infrazione e alla comminatoria della relativa sanzione.

Il 3° comma dell'art. 121 — cosi come il 4° comma dello stesso articolo inserito con la più volte richiamata 1. n. 313/76 —

ai fini della graduazione della sanzione calcola l'eccedenza di peso su quello consentito maggiorato della tolleranza del cinque per cento del peso complessivo e ciò a prescindere dal fatto se tale tolleranza sia giustificata o meno.

Dal complesso della normativa, cosi unitariamente interpretata, si evince quindi non già una implicita abrogazione del 2° comma dell'art. 121, come si sostiene dai ricorrenti, né un difetto di coordinamento fra il 2° ed il 3° comma dello stesso articolo, come adombrato dalla amministrazione resistente nel controricorso, ma un sistema sanzionatorio cosi strutturato: la circolazione di veicoli con pesi eccedenti i limiti fissati dall'art. 33, ma nel limite del cinque per cento, integra una violazione della norma da ultimo citata se l'eccedenza non dipenda da impossibilità di determinazione del peso esatto o da merce per sua natura

Il Foro Italiano — 1985.

soggetta a subire aumenti di peso per umidità o pioggia durante il

trasporto; la circolazione di veicoli con pesi eccedenti i predetti limiti di peso, maggiorato della tolleranza del cinque per cento,

integra la violazione di cui all'art. 121, 3° comma, cod. strad.

diversamente sanzionata a seconda dell'ammontare dell'eccedenza

di peso cosi' determinata.

Nel caso di specie, l'infrazione contestata agli attuali ricorrenti

(trasporto di merce eccedente il limite di peso non oltre il cinque

per cento di quello massimo consentito) rientrava nella previsione dell'art. 33, ult. comma, e, pertanto, correttamente, il Pretore di

Asti, al fine di accertare la legittimità della sanzione comminata, si è posto il problema — risolvendolo negativamente per i

ricorrenti — se sussistesse la scriminante di cui all'art. 121, 2°

comma, cod. strad.

Il primo profilo di censura è quindi infondato e va disatteso, mentre è irrilevante la circostanza che nella sentenza impugnata l'infrazione contestata sia stata fatta rientrare nell'art. 121 cod.

strad., anziché nell'art. 33, ult. comma, stesso codice: si tratta

infatti di erronea motivazione in diritto della sentenza che

comporta non già la cassazione della stessa, ma solo la correzio

ne della motivazione, nei sensi in precedenza esposti, a norma

dell'art. 384, 2° comma, c.p.c. Per completezza di motivazione va inoltre rilevato che l'erronea

contestazione della norma che l'infrazione prevede (l'art. 121

anziché l'art. 33, ult. comma) da parte della p.a. non comporta alcuna illegittimità dell'ordinanza di condanna in quanto quello che importa è la contestazione del fatto, mentre la individuazio ne della norma latamente incriminatrice spetta al giudice.

Né maggiormente fondato è il secondo profilo di censura con il

quale si contesta l'interpretazione del concetto di « impossibilità di

determinazione del peso esatto » formulato dal pretore. La questione è stata già esaminata da questa corte con una non

recente sentenza (Cass. 18 aprile 1973, n. 1115, Foro it., 1973, I,

3078) la quale ha rintracciato l'elemento unificatore delle due

ipotesi che legittimano la tolleranza dell'eccedenza nel fatto che

tale eccedenza non deve dipendere dalla volontà del trasportatore, ritenendo che tale impossibilità non deve essere intesa come

mancanza nel luogo di carico e nelle immediate vicinanze di uno

strumento idoneo alla pesatura, bensì come mancanza di qualsiasi altro mezzo, anche senza la pesatura, di determinare esattamente

il carico.

A tali principi si è attenuto il pretore e la sua decisione non

merita censura, mentre la prospettazione dei ricorrenti secondo i

quali la impossibilità dovrebbe ravvisarsi anche nell'ipotesi in cui

sia inesigibile sia l'approntamento di mezzi idonei, sia il loro

utilizzo, quando sia particolarmente oneroso, non può essere

condivisa in quanto da una parte finisce per trasformare l'impos sibilità in una inesigibilità, contrariamente alla chiara dizione della norma e, dall'altra, fa dipendere la tolleranza dalla volontà

del trasportatore il quale, pur sapendo dell'eccessività del carico, verrebbe scriminato per il solo fatto che sarebbe troppo oneroso

rispettare i limiti imposti dalla legge, mentre non coglie nel segno la ulteriore censura prospettata e secondo la quale, in difetto di una interpretazione quale quella fornita dai ricorrenti, la norma

non avrebbe alcuna possibilità di operare atteso il fatto che, allo

stato attuale della scienza e della tecnica, non esiste una impossi bilità di verificare in concreto il peso di alcunché, in quanto, come esattamente rilevato dal pretore, quello che rileva è la mancanza di strumenti idonei alla determinazione del peso, in

considerazione di particolari situazioni da verificarsi di volta in

volta, e non già l'astratta possibilità di procedere sempre alla determinazione del peso esatto.

Nella specie è stata dimostrata la presenza di tali strumenti nel

luogo del carico e, pertanto, correttamente è stata ritenuta

inapplicabile la scriminante di cui all'art. 121, 2° comma, cod. strad. Conclusivamente, il ricorso va rigettato. (Omissis)

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 20 marzo 1985, n. 2033; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M. Sgroi V. (conci, parz. difT.); Cruciami (Avv. Palermo) c. Min. tesoro e altri (Avv. dello Stato Palatiello) e I.n.p.s. (Avv. Chiabrera, Sacerdoti). Cassa Trib. Roma 14 luglio 1982.

Impiegato dello Stato e pubblico — Funzionario onorario — Com

penso — Misura — Giurisdizione amministrativa (Cost., art. 36; cod. civ., art. 2225; cod. proc. civ., art. 409).

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Impiegato dello Stato e pubblico — Funzionario onorario — Tute la della posizione previdenziale — Difetto assoluto di giurisdizio ne.

La domanda del funzionario onorario di un ente pubblico diretta

alla determinazione dell'equo ammontare dei compensi percepi ti, che si assumono inadeguati, ed alla condanna dell'ente al

pagamento della differenza, e quella di generico risarcimento

dei danni, appartengono alla competenza del giudice ammini

strativo in sede di giurisdizione generale di legittimità. (1) La domanda del funzionario onorario di un .snte pubblico diretta

alla tutela della sua posizione previdenziale è improponibile per

difetto assoluto di giurisdizione. (2)

II

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 15

marzo 1985, n. 2016; Pres. Cusani, Est. O. Fanelli, P. M.

Sgroi V. (conci, diff.); De Meo (Avv. Cassandro) c. Pres.

cons, ministri e Istituto centrale di statistica; Pres. cons,

ministri e Istituto centrale di statistica (Aw. dello Stato

Palatiello) c. De Meo. Conferma Trib. Roma 20 giugno 1983.

Impiegato dello Stato e pubblico — Funzionario onorario —

Compenso — Misura — Fattispecie (Cost., art. 36; cod. proc. civ., art. 409; 1. 27 maggio 1959 n. 324, miglioramenti economici al

personale statale in attività ed in quiescenza, art. 2).

L'art. 36 Cost, è applicabile al solo lavoro subordinato (nella

specie l'applicazione è stata esclusa per il funzionario onorario

preposto alla presidenza di ente pubblico). (3) Il funzionario onorario non ha diritto alla indennità di buonuscita

e agli scatti di anzianità. (4) Non opera il divieto di corresponsione per più di una volta

dell'indennità integrativa speciale, qualora essa faccia parte del

compenso di funzionario onorario determinato solo per relatio

nem con riferimento al trattamento economico di dipendente statale (nella specie, direttore generale di categoria C). (5)

I

Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 5 giugno 1980 il dott. Claudio Cruciani esponeva che aveva ricoperto la

carica di vice presidente dell'I.n.p.s. dal 18 dicembre 1964 fino al

1972 e di presidente del fondo pensioni dei lavoratori dipendenti dal 30 aprile 1970 fino alla predetta data; che aveva in tale

(1-2) Per i precedenti, v., oltre i richiami contenuti nella sentenza

2033 del 1985 in epigrafe, la nota redazionale a Cass. 16 luglio 1983, n. 4887, Foro it., 1984, I, 2581, e le note di A. Lener e R. A. Di

Stefano a Cass. 2 maggio 1983, n. 3006 e Cass. 7 ottobre 1982, n.

5129, id., 1983, I, 1852. Il principio di cui alla prima massima è solo apparentemente con

traddetto per implicito dalla decisione 2016 del 1985, che si è

pronunciata sul merito della causa. Come è, infatti, ivi illustrato con ampi richiami di giurisprudenza, ogni questione sulla giu risdizione era preclusa in quella sede, in quanto la sentenza d'ap

pello, riformando parzialmente quella di primo grado, aveva af

fermato la giurisdizione del giudice ordinario, e di ciò non si

erano doluti il ricorrente principale e quello incidentale. E anche

quest'ultimo avrebbe dovuto attivarsi poiché la questione era stata da lui sollevata, ma era stata esaminata e risolta dal giudice d'appello.

Per l'affermazione della natura di pronuncia di merito e non di rito della decisione di improponibilità della domanda per difetto assoluto di giurisdizione nei confronti della p.a., e per una critica della

disciplina esistente, cfr. A. Proto Pisani, Problemi e prospettive in tema (,di regolamenti) di giurisdizione e di competenza, id., 1984, V, 89, § 2.1.2, 2.3.1.

(3) Per i precedenti, v. i riferimenti nella sentenza 2016 del 1985 qui riportata, in cui è da segnalare una puntuale ricostruzione dei caratteri fisionomici del funzionario onorario e, soprattutto, Yobiter dictum sulla sindacabilità dell'esercizio del potere discrezionale della

p.a. nella determinazione del compenso del funzionario onorario in

ordine all'osservanza dei principi di buona amministrazione e, quindi, sotto il profilo dell'eccesso di potere.

Corte cost. 7 luglio 1964, n. 75, Foro it., 1964, I, 1708, ha affermato che l'art. 36 Cost, va applicato, nel rapporto di opera professionale, tenendo presente « l'attività complessiva del professioni sta, nei modi in cui essa sia accettabile e valutabile e non in relazione

ai singoli rapporti e alle singole prestazioni». Tale posizione è definita « più problematica », rispetto a quella sul punto della Cassazione, da T. Treu, Rapporti economici, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, sub art. 36, 78, nota 5. Sul problema, cfr. F.

Mortillaro, Il lavoro nella giurisprudenza costituzionale, ricerca diret ta da R. Scognamiglio, Milano, 1978, 196-198.

(4-5) Non constano precedenti in termini.

Il Foro Italiano — 1985.

periodo, per delega del titolare della carica, impedito da ragioni di salute, svolto di fatto per non meno di 31 mesi le funzioni di

presidente dell'I.n.p.s., senza alcun emolumento aggiuntivo; che aveva percepito, come compenso per la suddetta attività, conti nuamente svolta, la somma di lire 100.000 lorde mensili per 12 mesi fino al 30 aprile 1970 e di lire 525.000 lorde mensili per 12 mesi nel periodo successivo; che con d.p.r. 8 novembre 1971 era stato nominato presidente dell'E.n.p.a.s., carica nella quale era stato confermato con d.p.r. 15 febbraio 1975; che, a seguito della messa in liquidazione dell'E.n.p.a.s. in previsione del trasferimen to alle regioni delle funzioni già esercitate dagli enti mutualistici, era stato preposto con d.p.r. 1° luglio 1975 alla gestione dell'ente

predetto, quale commissario straordinario fino al 31 dicembre

1975; che con successivi d.p.r. 27 dicembre 1975, 29 maggio 1976, 12 agosto 1976 e 9 dicembre 1976 era stato confermato nelle

funzioni di commissario straordinario dell'E.n.p.a.s. e, in virtù dell'art. 2 1. n. 349/77, prorogato in carica sino all'entrata in

vigore della riforma sanitaria; che, per l'attività continuativamente svolta quale presidente dell'E.n.p.a.s., gli era stata attribuita una

indennità di carica nella misura di lire 9.000.000 annue lorde, indennità la quale non aveva subito la rivalutazione nel tempo; che, soltanto con d.p.r. 21 ottobre 1979 (intervenuto dopo quattro anni dalla 1. n. 70/75, la quale all'art. 32 demandava ad un

successivo decreto presidenziale la determinazione dell'indennità di carica spettante agli amministratori degli enti pubblici), si era

provveduto ad aumentare il compenso dei commissari straordina

ri, equiparandolo all'attuale trattamento economico onnicompren sivo dei direttori generali degli enti pubblici contemplati nella tabella allegata alla 1. n. 70/75 maggiorato del 20 %; che,

tuttavia, avuto riguardo alla importanza ed alla natura delle

funzioni svolte dal commissario straordinario (le quali riassumono

quelle proprie del presidente, del comitato esecutivo e del consi

glio di amministrazione), anche tale indennità non poteva consi

derarsi congrua, specie tenendo conto della mancanza di tutela

sotto il profilo assicurativo-previdenziale e di un trattamento di

quiescenza a conclusione dell'incarico.

Tutto ciò premesso, il Cruciani conveniva davanti al Pretore di

Roma il ministero del tesoro, il ministero del lavoro e della

previdenza sociale, l'I.n.p.s. e l'E.n.p.a.s., per sentire: a) dichiara

re inadeguati i compensi a lui corrisposti per le prestazioni di cui alla narrativa; b) stabilire l'equo ammontare dei compensi stessi;

c) condannare gli enti convenuti a corrispondergli la somma che sarebbe risultata in giudizio, con gli accessori di legge, nonché a

risarcirgli i danni subiti e subendi, da liquidarsi in separata sede;

d) dichiarare il suo diritto al trattamento di previdenza e

quiescenza nonché all'assicurazione contro le malattie a far data

dalla sua nomina a vice presidente dell'I.n.p.s. e presidente del

fondo pensioni lavoratori dipendenti; e) conseguentemente con

dannare i convenuti al versamento immediato ai competenti istituti di previdenza ed assistenza dei relativi contributi a loro

carico.

Instauratosi il contraddittorio, l'I.n.p.s. deduceva l'improponi bilità della domanda, non potendosi configurare nella fattispecie un rapporto di lavoro subordinato con l'istituto stesso, e la

infondatezza nel merito del ricorso sia per il motivo di cui sopra, sia perché i compensi corrisposti al Cruciani, quale vice-presiden te dell'istituto, erano stati tassativamente determinati dai decreti

interministeriali 6 novembre 1963 e 3 novembre 1971, sia, infine,

perché tra le funzioni di vice-presidente rientrava per legge quella di sostituire il presidente in caso di assenza o di impedimento.

L'avvocatura dello Stato, costituitosi per conto del ministero

del tesoro, del ministero del lavoro e della previdenza sociale, e

dell'E.n.p.a.s., eccepiva in via pregiudiziale il difetto assoluto di

giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, vertendosi in ma teria di publico impiego o di richiesta di annullamento di un

atto amministrativo. Il pretore dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice

ordinario con sentenza resa all'udienza del 6 marzo 1981, che, su

appello del Cruciani, era confermata dal Tribunale di Roma, con

sentenza 14 luglio 1982.

II tribunale si richiamava alla sentenza di questa corte del 24

marzo 1981, n. 1687 (Foro it., Rep. 1981, voce Regione, n. 167)

che, ritenendo i membri di una commissione di controllo regiona le funzionari onorari e non pubblici impiegati, ha ribadito che in

caso di espletamento di funzioni pubbliche il soggetto investito

delle medesime non può appartenere che ad una delle due

suddette figure e che non esiste una terza specie di funzionario.

Con la conseguenza che se il soggetto investito di funzioni

pubbliche debba ritenersi inserito, per le modalità con le quali di fatto esplica la sua attività ed in particolare per la continui

tà e la professionalità dell'attività stessa nell'apparato burocratico

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1655 PARTE PRIMA 1656

di un ente, come sembrava sostenere l'appellante, la giurisdizione a conoscere della controversia spetterebbe sempre agli organi di

giustizia amministrativa, versandosi in un rapporto di pubblico

impiego. Ma — soggiungeva il tribunale — esaminando l'altra ipotesi,

cioè quella del funzionario onorario, che rimane sempre tale

anche se l'impegno richiesto sia diverso a seconda della funzione

a lui affidata (da lui liberamente accettata), la Suprema corte ha

ritenuto che « è in relazione alla natura che l'interesse sostanziale

dedotto assume nell'ordinamento che deve essere individuato il

giudice che ha giurisdizione. Per attribuirla al giudice ordinario

occorrerebbe che ' esista una norma '

che tuteli in modo diretto

l'interesse fatto valere sicché esso assuma la figura del diritto

soggettivo ».

Restando cosi confermato che il n. 5 dell'art. 409 c.p.c., laddove

attribuisce alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie

relative ad « altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché non

siano devoluti dalla legge ad altro giudice », non deroga ai

principi fondamentali che disciplinano l'attribuzione del conten

zioso alla giustizia ordinaria o a quella amministrativa.

In particolare, la Suprema corte ha precisato che l'attività della

p.a. in ordine alla commisurazione della indennità, « ancorché

destinata a riflettersi... su interessi privati, è sempre essenzial

mente e fondamentalmente dominata dalla considerazione dell'in

teresse pubblico, sia pure al fine dell'equo contemperamento con

interessi concorrenti dei cittadini. Il che comporta che que sti... sono configurabili, se coinvolti, come interessi legittimi,

giacché assumono rilievo giuridico in funzione dell'interesse pub blico, e sono quindi tutelabili, occasionalmente ed indirettamente, attraverso il sindacato di legittimità devoluto al giudice ammini

strativo in ordine al modo (eventualmente scorretto) di esercizio

del potere ».

Ciò è quanto ritenuto dal pretore, il quale ha anche esattamente

precisato che esiste lesione di un diritto soggettivo solo se, una

volta determinata da parte della competente autorità amministra

tiva l'entità del compenso, il funzionario onorario lamenti la

mancata corresponsione della indennità prefissata ovvero l'errata

liquidazione della indennità stessa.

Perciò, i vari provvedimenti amministrativi che fin dal 1963

avevano stabilito il trattamento economico da attribuirsi a coloro che ricoprivano le cariche onorarie affidate nel tempo al dott. Cruciani (prima decreti interministeriali e poi decreti del presi dente della repubblica) dovevano essere impugnati davanti agli organi di giustizia amministrativa.

Né del resto l'interesse legittimo dell'appellante poteva assurge re a diritto soggettivo sotto il profilo della violazione dell'art. 36

Cost., in quanto, come anche la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare (sent. 5 aprile 1971, n. 70, id. 1971, I, 1174), il principio enunciato nella suddetta norma trova applicazione soltanto nei rapporti di lavoro dipendente.

E poiché tutte le domande del Cruciani (anche quella relativa alla costituzione di un rapporto assicurativo e previdenziale e

quella tendente alla declaratoria del diritto al trattamento di

quiescenza) erano dirette a conseguire un adeguamento del

trattamento economico e normativo alla quantità e qualità del lavoro da lui svolto, anche in relazione al trattamento usato ad altri funzionari onorari, andava confermato il difetto di giurisdi zione del giudice ordinario.

Avverso tale decisione ricorre per due motivi il Cruciani; resistono con controricorso i ministeri del tesoro e del lavoro, l'E.n.p.a.s., e con altro controricorso l'I.n.p.s. Le parti hanno

presentato altresì memoria.

Motivi della decisione. — Per due ragioni di diritto, tutte

apprezzabili nell'ottica dell'art. 360, n. 1, c.p.c., il ricorrente censura la sentenza del tribunale innanzitutto per aver ritenuto che il rapporto di esso ricorrente con l'I.n.p.s. e l'E.n.p.a.s. non fosse suscettibile di assumere rilievo giuridico unitario, ma doves se essere scomposto nelle singole funzioni, a volte considerate nei

singoli provvedimenti di nomina; e ciò in contrasto con l'art. 36

Cost., alla cui stregua l'attività di lavoro va sempre considerata di

per sé, secondo i criteri suoi propri, quale che ne sia l'aspetto formale, nonché con l'art. 2225 c.c., alla cui stregua il soggetto che tale attvità abbia posto in essere, non solo necessariamente in

regime di subordinazione, ma anche in regime lato di autonomia, ha diritto ad una congrua retribuzione, anche alla stregua di Cass. 1687/81 solo parzialmente riportata nella sentenza impu gnata. E ciò al di là e al di fuori dei provvedimenti determinativi delle singole indennità di carica, i quali vanno disapplicati non

già nel senso di operare una diversa determinazione di tali

indennità, ma al fine di ricostruire, al di fuori degli stessi, l'unità

Il Foro Italiano — 1985.

del complessivo rapporto, attribuendo ad esso l'effettivo contenuto

di poteri e doveri, di diritti soggettivi e di obblighi.

Per un secondo ordine di ragioni si censura la sentenza

laddove ha ritenuto che il carattere continuativo dell'attività di

lavoro concretamente prestata al di là e al di fuori dei singoli

atti di preposizione, la professionalità dell'attività stessa ed il

fatto che essa sia stata posta in essere nell'ambito organizzativo

dapprima deH'I.n.p.s. e poi dell'E.n.p.a.s. inducano a configurare il

rapporto necessariamente come di pubblico impiego.

La sentenza muove dal presupposto che fra funzionario onora

rio e funzionario professionale non esiste un tertium genus,

laddove vi è la norma di cui all'art. 409, n. 5, c.p.c. (altrimenti

inutiler data) che attribuisce alla giurisdizione del giudice ordina

rio le controversie relative ad altri rapporti di lavoro pubblico.

Invero, da un canto, non è configurabile rapporto di impiego in

carenza di formale atto di nomina; d'altro canto, quando l'effetti

vo atteggiarsi del rapporto originariamente onorifico si traduce in

una vera e propria attività di lavoro, non può più dirsi quello

formalmente regolato da ciascun singolo atto di preposizione al

munus plublicum. Tale rapporto di lavoro va unitariamente considerato, perché,

col prestare prima in favore dell'I.n.p.s. e poi dell'E.n.p.a.s. tutte

le proprie energie, il dott. Cruciani era restato costantemente

impegnato a tempo pieno, non potendo svolgere alcun'altra

attività professionale, e perché esso rapporto ha finito per risol

versi in una serie di prestazioni d'opera, di carattere oltreché

continuativo, anche coordinato; si è insomma verificata una

compenetrazione fra la prestazione d'opera del dott. Cruciani e lo

sviluppo delle funzioni istituzionali dell'I.n.p.s. e dell'E.n.p.a.s.,

comportando la necessaria implicazione della personalità del pre statore d'opera nell'attività da lui posta in essere.

Pur tuttavia, il rapporto de quo non si risolve in alcun nesso di

subordinazione, trattandosi, in realtà, « di un rapporto che rifugge

dall'inquadramento nelle generali categorie del lavoro esterne

nonché conseguenziali e del lavoro subordinato; esso costituisce

una categoria a sé stante, anche se il carattere continuo e

coordinato dell'attività lavorativa per esso esplicata, unito alla

dipendenza sul piano economico che in capo al prestatore da

essi deriva, lo accosta per certi aspetti al rapporto di lavoro subordinato ». E invece il dott. Cruciani non ha mai dedotto di essere un pubblico dipendente.

Dall'art. 409, n. 3, c.p.c. emerge una generale ratio, dotata di forza espansiva: dare a tutti i rapporti di parasubordinazione, quale che sia la natura dei soggetti in causa, la specifica intensa tutela che spetta al lavoratore subordinato, a cominciare dall'a

spetto processuale; e in relazione a tale ratio trae luce l'interpre tazione dell'art. 409, n. 5, che conferma che la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Il ricorso è infondato. A prescindere dalla considerazione che — se si eccettuino fuggevoli richiami, nel ricorso, alle norme di cui agli art. 36 Cost., 2225 c.c. e 409, on. 3 e 5, c.p.c. — vengono sol genericamente dedotte « ragioni di diritto » attinenti alla

giurisdizione, esso ricorso sembra incentrarsi su due punti essen ziali: l'unicità del rapporto, e la sua riconduzione ad un non

meglio identificato tertium genus, assimilabile alla parasubordina zione, fra il rapporto di servizio onorario ed il rapporto di

pubblico impiego. Questo al primo punto, del quale, del resto, non è agevole

ravvisare la rilevanza ai fini della giurisdizione, basti considerare

che, quale che sia la natura del rapporto, la sua unicità presup pone l'identità dei soggetti, ovvero il trasferimento del rapporto —

nella sua identità — da uno ad altro soggetto. Ma tale identità è senza dubbio insussistente perché, di fronte

al dott. Cruciani, vi sono stati prima l'I.n.p.s. e poi l'E.n.p.a.s., enti, è inutile dirlo, soggettivamente distinti, e fra i quali non era intercorso e, ovviamente, non avrebbe potuto giammai intercorre

re, alcun atto di cessione o traslazione del rapporto col dott. Cruciani.

Quanto al secondo punto, deve ritenersi che esattamente il tribunale ha escluso che possa darsi una terza figura accanto a

quella del pubblico impiegato e del funzionario onorario. La giurisprudenza di questa corte in molteplici decisioni ha ben

individuato la figura del funzionario onorario, precisandone i contorni anche in relazione a quella del pubblico impiegato, ed anzi individuandola addirittura in maniera residuale rispetto al l'altra (« quando esiste un rapporto di servizio volontario con attribuzione di funzioni pubbliche, ma in assenza degli elementi caratterizzanti l'impiego pubblico, si ha la figura del funzionario onorario »: cfr. Cass., sez. un., 8 gennaio 1975, n. 27, id., 1975, I, 569; 6 ottobre 1975, n. 3165, id., Rep. 1975, voce Giurisdizione

civile, n. 167; 18 dicembre 1975, n. 4159, ibid., voce Impie

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

gato dello Stato, n. 242; 27 febbraio 1978, n. 863, id., Rep. 1978, voce Giurisdizione civile, n. 98; 24 maggio 1981, n. 1687,

id., Rep. 1981, voce Regione, n. 167; 7 ottobre 1982, n. 5129, e 2 maggio 1983, n. 3006, id., 1983, I, 1852; 16 luglio 1983, n. 4887, id., 1984, I, 2581).

Si riscontra, in tale giurisprudenza, varietà di soluzioni in

punto di giurisdizione, che vanno, secondo le particolarità delle

varie fattispecie, dalla declaratoria di giurisdizione del giudice ordinario, a quella del giudice amministrativo, o di improponibi lità assoluta della domanda.

Ciò è dovuto, come ha osservato l'ultima delle citate sentenze, al fatto che, sia nel campo del rapporto di pubblico impiego, che

in quello delle funzioni onorarie, vi è spazio per posizioni

soggettive di diritto soggettivo o di interesse legittimo, con più

larga ricorrenza di quest'ultimo nel secondo, che è disciplinato dall'ordinamento in maniera alquanto rudimentale, lasciando per ciò ampio spazio alle possibilità di esercizio del pubblico potere discrezionale.

Ed anzi non poche situazioni, direttamente tutelate nel pubbli co impiego, sono addirittura ignorate nel servizio onorario, sicché

non hanno giuridica rilevanza (si pensi alla mancanza, in molti

casi, di una tutela previdenziale).

Vari sono gli elementi differenziali fra le due figure, e caratte

rizzanti quella del funzionario onorario: la scelta, di carattere

amministrativo-tecnico, mediante procedure concorsuali, quanto alla prima, politico-discrezionale, quanto alla seconda; l'inserimen

to nell'organizzazione amministrativa, strutturale o professio nale per l'impiegato, meramente funzionale per il funzio

nario onorario; lo svolgimento del rapporto, retto da ap

posito statuto per il pubblico dipendente, sostanzialmente privo di disciplina, se non quella derivante dall'atto di conferimento

dell'incarico e dalla natura stessa di quest'ultimo per il funziona

rio onorario; il compenso, che è vera e propria remunerazione, inserendosi in un rapporto sinallagmatico, per l'impiegato, mentre

ha carattere indennitario, o di ristoro delle spese in senso lato,

per il funzionario; la durata del rapporto tendenzialmente inde

terminata per il pubblico impiegato, sempre temporanea (anche se

con possibilità di reiterazione dell'incarico) per il funzionario

onorario.

Nella specie, lo stesso ricorrente in maniera categorica esclude

che il suo possa qualificarsi come rapporto di pubblico impiego.

E, del resto, ricorrono, in positivo, gli elementi caratteristici delle

funzioni onorarie; la scelta ed il conferimento dell'incarico, del

tutto discrezionali; l'inapplicabilità della disciplina propria del

rapporto d'impiego; il compenso, costituito da mera indennità di

carica e non da uno stipendio; l'assenza di previsione di una

tutela previdenziale. Può non sembrare esauriente l'alternativa pubblico impiegato

- funzionario onorario, ma ciò non consente comunque di

ipotizzare — come si vorrebbe — un tertium genus, un rapporto di lavoro non pubblico né autonomo; fuori della subordinazione

e dell'autonomia non ci sarebbe che la parasubordinazione ex art.

409, n. 3, o collaborazione continuativa e coordinata: ma questa non può ravvisarsi nel rapporto che legE. il titolare di un organo

all'ente, cui questo perviene, perché il titolare dell'organo non

collabora con l'ente, non è esterno ad esso, ma si identifica

funzionalmente con l'ente medesimo ed agisce per esso.

Né, nella specie, si sostiene che siano state svolte funzioni eccedenti quelle proprie dal presidente dell'ente, e che quindi

possa essersi venuto a costituire un rapporto di pubblico impiego collaterale a quello onorario.

Non può che trattarsi, in definitiva, di funzione onoraria, la

giurisdizione in relazione alla quale va determinata, alla stregua di quanto affermato dalla giurisprudenza di questa corte, in

dividuando quali sono le posizioni soggettive ravvisabili nelle varie

domande proposte. Orbene, le domande proposte dal Cruciani sono quelle di

determinazione dell'equo ammontare dei compensi che ha perce

pito ma che assume inadeguati, nonché di risarcimento dei danni

subiti e subendi; e quella di declaratoria del suo diritto a

trattamento previdenziale, con conseguente condanna degli enti

convenuti al versamento dei contributi dovuti agli enti di compe tenza.

Quanto alla prima domanda, con cui si pone in questione la

legittimità del trattamento economico, non essendo questo fissato

da alcuna norma, ma trovando la sua unica origine in discrezio

nali valutazioni della p.a. (e non venendo in discussione la

debenza del compenso dall'amministrazione già determinato con i

propri provvedimenti), alla base di essa domanda non può che

ravvisarsi una posizione di interesse legittimo, in quanto correlata

ad un potere della p.a., il cui corretto esercizio può essere

Il Foro Italiano — 1985 — Parte I-107.

sindacato solo dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione

generale di legittimità (cosi, in caso analogo, le cit. sent. 4887/83 e 1687/81).

E ciò vale anche per la genericissima domanda di risarcimento

danni, atteso che la completa mancanza di ogni specificazione non consente di apprezzare se essa integri gli estremi di un

diritto patrimoniale conseguenziale (in ipotesi rientrante nella

giurisdizione del giudice ordinario), ma la fa ritenere piuttosto una formula di stile applicativa della domanda lato sensu ineren te al trattamento economico.

Quanto alla domanda relativa alla tutela previdenziale, basti

osservare che questa presuppone necessariamente un rapporto di

lavoro pubblico o privato, sol dalla cui sussistenza discende

l'obbligo del datore di lavoro di costituire una posizione assicura

tiva.

Ma poiché, come si è detto, manca nella specie un rapporto del

genere, ne deriva, in base alla stessa deduzione di parte, carenza

di azione per non configurabilità, in astratto, di una posizione

soggettiva giuridicamente tutelabile (Cass. 2 maggio 1983, n. 3006,

nonché, nella motivazione, Cass. 4887/83); senza contare che non

erano presenti in giudizio gli enti (del resto neppure indicati) in

favore dei quali si chiede genericamente la condanna al versa

mento dei contributi. Onde l'improponibilità della domanda per difetto assoluto di giurisdizione.

Perciò la sentenza impugnata, che nel confermare quella del

pretore ha erroneamente ritenuto anche tale capo della domanda

appartenente alla giurisdizione del giudice amministrativo, va, sul

punto, cassata senza rinvio (art. 382, ult. comma, c.p.c.). (Omissis)

II

Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 21

novembre 1980 il prof. Giuseppe De Meo — premesso di essere

stato nominato presidente dell'ISTAT con d.p.r. 18 ottobre 1961 e

di essere stato confermato nell'incarico fino al 31 ottobre 1980; di

avere percepito fino al 31 dicembre 1979 un compenso non

adeguato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto come

presidente dell'ISTAT — chiedeva al Pretore di Roma, in fun

zione di giudice del lavoro, di stabilire l'equo ammontare dei

compensi dovutigli ai sensi dell'art. 36 Cost, e di condannare, in

solido, la presidenza del consiglio dei ministri e l'ISTAT a

pagargli un'integrazione di lire 111.121.234, con svalutazione ed

interessi.

Con successivo ricorso depositato il 9 gennaio 1981, il medesi

mo prof. De Meo — rilevato che dal 1° gennaio al 31 ottobre

gli era stato liquidato il compenso spettantegli in misura inferiore

a quella fissata con d.p.c.m. del 14 maggio 1980 e che non gli era

stato liquidato il trattamento di fine lavoro — chiedeva la

condanna dell'ISTAT al pagamento di lire 7.209.585 per differen

ze retributive e di lire 28.805.140 per buonuscita, con svalutazio

ne ed interessi.

Riunite le due cause, all'udienza del 4 febbraio 1982 il pretore dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in

ordine alle domande proposte con il ricorso depositato il 21

novembre 1980; condannava l'ISTAT a pagare al ricorrente la

somma di lire 3.728.836 per incidenza sul trattamento economico

del dirigente generale dello Stato dell'indennità integrativa spe

ciale; respingeva le altre domande proposte con il ricorso de

positato in data 9 gennaio 1981. Su appello principale del De Meo e incidentale delle presidenze

del consiglio dei ministri e dell'istituto il Tribunale di Roma con

sentenza 20 giugno 1983 confermava tale decisione.

Riteneva il tribunale doversi affermare la giurisdizione dei

giudice ordinario su tutte le domande proposte dal De Meo, il

quale a fondamento delle sue pretese non aveva invocato un

rapporto di pubblico impiego, né comunque circostanze di fatto

idonee alla configurazione di un rapporto di pubblico impiego, ma — deducendo che il rapporto con l'ISTAT, per il suo

contenuto e per la sua struttura, integrava una delle ipotesi considerate dall'art. 409, n. 5, o, in subordine, n. 3, c.p.c. —

aveva chiesto l'adeguamento ex art. 36 Cost, dei compensi perce

piti dal gennaio 1962 al dicembre 1979 e la corresponsione del

trattamento di fine rapporto. Dalla prospettazione della domanda nei termini sopra richiama

ti e della natura dell'interesse sostanziale dedotto in giudizio, discendeva la giurisdizione del giudice ordinario, e più precisa mente del giudice di lavoro.

Nel merito, peraltro, sia la domanda diretta ad ottenere l'ade

guamento dei compensi ex art. 36 Cost., sia quella volta ad

ottenere la corresponsione del trattamento di fine rapporto, anda

vano rigettate.

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1659 PARTE PRIMA 1660

Posto che il rapporto di lavoro dei dipendenti dell'ISTAT

(ente pubblico non economico posto sotto il diretto ed e

sclusivo controllo del presidente del consiglio dei ministri) rientra tra i rapporti di pubblico impiego devoluti dalla

legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, e che

nel caso di specie lo stesso ricorrente escludeva, nella prospetta zione dei fatti e delle domande, la sussistenza di un rapporto di

pubblico impiego, riteneva il tribunale che potesse rientrare

nell'ampia nozione di « rapporti di collaborazione » di cui

all'art. 409, n. 3, c.p.c. anche il rapporto tra l'ISTAT e il

prof. De Meo, nominato presidente dell'istituto con d.p.r. 18 ottobre 1961 e confermato nell'incarico per altri tre

quadrienni, durante i quali il De Meo aveva svolto una presta zione d'opera professionale continuativa e coordinata, prevalente mente personale, a favore del predetto istituto proprio nella sua

qualità di presidente del medesimo.

A prescindere dalla questione dell'applicabilità o meno dell'art.

36 Cost, nei rapporti diversi da quelli di lavoro subordinato,

osservava il tribunale che i compensi corrisposti al prof. De Meo

dal 6 al 31 dicembre 1979 apparivano pienamente adeguati alla

qualità e soprattutto alla quantità del lavoro prestato, considerato

che nello stesso tempo il prof. De Meo aveva assolto « con

diligenza i suoi doveri di professore ordinario di statistica eco

nomica nell'università di Roma », come affermava egli stesso nel

ricorso in appello.

Difatti, l'indennità di carica gli era stata corrisposta in lire

325.000 mensili sino al 31 agosto 1963, in lire 450.000 mensili

sino al 23 ottobre 1972, in lire 600.000 mensili sino al 31

dicembre 1977, in lire 800.000 mensili sino al 31 dicembre 1979.

Del resto, lo stesso appellante, nelle sue difese, deduceva

l'insufficienza del trattamento economico non in se stesso, ma

confrontandolo con quello di un dirigente generale di livello C

ed assumendo che, in base ai criteri ispiratori del d.p.c.m. 20

dicembre 1961 e del d.p.c.m. 14 maggio 1980, l'indennità di

carica avrebbe dovuto essergli corrisposta in misura pari alla

retribuzione di un direttore generale di livello C, maggiorata del

32%.

Ma nulla nei decreti antecedenti quello del 14 maggio 1980

autorizzava l'interprete a ritenere quanto affermato dall'appellan

te, mentre con l'ultimo decreto l'indennità di carica era stata

riconosciuta nella misura « pari al trattamento economico onni

comprensivo del dirigente generale C delle amministrazioni dello

Stato, maggiorato del 20 % » (oltre il gettone di presenza per la

partecipazione alle riunioni degli organi collegiali).

In relazione a tale ultimo decreto, il prof. De Meo aveva

chiesto che fosse accertato il suo diritto ad un trattamento

economico riferito a quello del dirigente generale di livello

C delle amministrazioni dello Stato comprensivo dell'indennità

integrativa speciale e degli aumenti biennali di anzianità, ed al

trattamento di fine lavoro nella misura spettante al predetto

dirigente. Correttamente il primo giudice — sulla base anche della nota

7 novembre 1980 con la quale lo stesso ufficio della presidenza del consiglio aveva chiarito che il trattamento previsto del decreto 14 maggio 1980 era « comprensivo delle seguenti voci:

stipendio iniziale, tredicesima mensilità e indennità integrativa

speciale ove competa ai sensi delle norme in vigore » — aveva

ritenuto che il riferimento al trattamento del dirigente generale aveva solo la funzione della determinazione per relationem (e con

l'intervento di un coefficiente maggiorato) del quantum del com

penso, autonomamente spettante al De Meo.

Nella determinazione del predetto quantum occorre fare riferi

mento al trattamento del dirigente generale, inclusa l'indennità

integrativa speciale, che faceva parte del trattamento medesimo,

indipendentemente dalla circostanza che il De Meo, quale profes sore universitario, percepiva già la medesima indennità.

La determinazione unitaria del compenso per relationem se da

una parte imponeva l'inclusione dell'indennità integrativa speciale, dall'altra escludeva che possa farsi riferimento al trattamento

economico del dirigente generale C comprensivo di scatto di

anzianità e di indennità di fine rapporto.

Il richiamo al trattamento economico del dirigente generale per determinare l'indennità di carica, in mancanza di una espressa

previsione normativa, non poteva ritenersi esteso agli scatti di

anzianità e al trattamento di fine lavoro, incompatibili con la

natura stessa dell'indennità di carica, oltre che con la natura del

rapporto di lavoro, non subordinato, instauratosi tra le parti. Avverso tale decisione ricorre per tre motivi il De Meo;

resistono con controricorso la presidenza del consiglio dei ministri

e l'ISTAT, che hanno presentato altresì ricorso incidentale. Le

parti hanno tutte presentato memoria.

Il Foro Italiano — 1985.

Motivi della decisione. — Col primo motivo di ricorso denun

ciando vizio di omessa motivazione su punto decisivo della

controversia, il De Meo, premesso di aver sostenuto nelle fasi di

merito che il ventennale rapporto che lo aveva legato al

l'ISTAT rientrava fra quelli di cui al n. 5 dell'art. 409 c.p.c.,

o, subordinatamente, fra quelli di cui al n. 3 dello stesso

articolo, ma che il tribunale ha accolto la seconda tesi, senza in

alcun modo spiegare perché fosse da respingere la prima, torna a

ribadire che il suo rapporto rientra nella categoria degli « altri

rapporti di lavoro pubblico » dei quali parla l'art. 409, n. 5.

Lo status di presidente dell'ISTAT, anche se non consente di

classificare il relativo rapporto fra quelli di pubblico impiego, è

però uno di quei rapporti di lavoro pubblico atipici, che non

rientrano in alcuna ben definita categoria, ma per i quali si può

parlare di subordinazione in senso lato, venendo posta a

disposizione dell'ente pubblico in via continuativa l'attività di

chi ad esso è in tal modo legato, e che entra perciò a far parte

dell'organizzazione dell'ente, a sua volta obbligato a corrispondere un compenso di indubbia natura retributiva, come appunto nel

caso del presidente dell'ISTAT: trattasi dunque di una prestazione

professionale, il compenso pagato in relazione alla quale ha natura di corrispettivo.

Col secondo motivo di ricorso, denunciando ulteriore vizio di

difetto di motivazione, si lamenta che, accogliendo la tesi subor

dinata di esso ricorrente, il tribunale non ha preso posizione sul

punto decisivo della controversia dell'applicabilità al ritenuto

rapporto di prestazione d'opera continuativa e coordinata del

l'art. 36 Cost., che va letto insieme al precedente art. 35, assicurante la tutela del lavoro « in tutte le sue forme e applica zioni », e che perciò è applicabile anche al lavoro autonomo e libero professionale, e quindi a rapporti di parasubordinazione. Il

tribunale, dichiarando di prescindere da tale questione, ha affer mato che comunque i compensi corrisposti al prof. De Meo dal 1962 al 1979 appaiono adeguati alla qualità e soprattutto alla

quantità del lavoro, ma con affermazione apodittica e arbitraria; se il tribunale avesse posto a raffronto l'indennità del 1979 con

quella del 1980, cioè non con un termine estraneo ma con se

stessa, si sarebbe persuaso dell'inadeguatezza dei compensi corri

sposti al prof. De Meo, in quanto è palesemente contraddittorio ammettere che il compenso corrisposto per il 1979 « è pienamente adeguato » quando la stessa amministrazione aveva pagato per l'anno successivo un compenso oltre due volte e mezzo più elevato, con un aumento, quindi, di gran lunga maggiore rispetto all'aumento del costo della vita.

Col" terzo motivo, si osserva che, sempre incorrendo in vizio di

motivazione, il tribunale ha escluso la computabilità, nel compen so parificato al trattamento economico del dirigente generale C dell'amministrazione dello Stato, degli scatti biennali e dell'inden nità di fine rapporto, ritenendo necessaria, all'uopo, una espressa previsione normativa, peraltro non richiesta quanto all'indennità

integrativa speciale. E che della retribuzione onnicomprensiva del dirigente genera

le di livello C (cui è rapportata quella del presidente dell'ISTAT) facciano parte gli aumenti biennali e l'indennità di fine lavoro, è stato affermato dal Consiglio di Stato (parere 29 ottobre 1980) a

proposito della determinazione dei compensi ai commissari liqui datori degli enti mutualistici, la cui indennità di carica, in forza del d.p.r. 31 ottobre 1979, è pure riportata al trattamento economico dei rispettivi direttori generali.

Le due amministrazioni resistenti, ribadendo in controricorso la

configurabilità del rapporto de quo come rapporto di ufficio

onorario, sostengono che la determinazione dell'indennità attiene all'esercizio di un potere pubblico discrezionale, in ordine al

quale il titolare della indennità ha solo interessi legittimi, da far valere davanti al giudice amministrativo; propongono poi ricorso

incidentale, dolendosi dell'avvenuto riconoscimento della compati bilità dell'indennità integrativa speciale, contro il divieto di doppia percezione posto dalla 1. 29 maggio 1959 n. 324, istitutiva di

quella indennità, essendo pacifico infatti che il De Meo era già titolare dell'indennità integrativa speciale come docente universi tario.

Le stesse amministrazioni poi, nella memoria presentata per l'udienza fissata davanti alla sezione lavoro di questa corte, insistono (e lo ribadiscono nella memoria presentata per l'udienza odierna) sulle questioni di giurisdizione implicate da dette pro spettazioni (difetto di giurisdizione del giudice ordinario sull'atto autoritativo di determinazione dell'indennità; e difetto assoluto di

giurisdizione in ordine al quantum dell'indennità); ed è per questo che il ricorso è stato rimesso a queste sezioni unite.

Va perciò preliminarmente esaminata detta questione; ma deve constatarsi che essa è ormai preclusa.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Infatti il tribunale espressamente risolvendo — in parziale riforma della sentenza del pretore — la questione di giurisdizione ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario, e più precisa mente del giudice del lavoro, su tutte le domande proposte dal

De Meo. Di questo punto della decisione il ricorrente principale non si è

doluto, avendo esso proposto tre motivi di ricorso concernenti

aspetti sostanziali della controversia, e non aspetti processuali. Ma non se ne sono dolute, nelle forme prescritte, neppure le

amministrazioni resistenti, le quali hanno proposto, sì, ricorso

incidentale, ma anch'esso solo in ordine ad una questione sostan

ziale, limitandosi a fare un cenno alla questione di giurisdizione solo nel controbattere, in controricorso, le ragioni avverse, e

sviluppandola più ampiamente nelle memorie.

Ma cosi dimendicando che, secondo costante giurisprudenza di

questa corte, il principio secondo cui la parte totalmente vittorio sa non è tenuta a proporre ricorso incidentale per ottenere il riesame di questioni pregiudiziali o preliminari vale solo per le

questioni che, rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado della

controversia, non siano state tuttavia esaminate e decise dal

giudice d'appello; se invece lo siano state, e risolte sfavorevol

mente alla parte poi risultata in concreto vittoriosa, questa, in caso di ricorso per cassazione della controparte, deve proporre ricorso incidentale in ordine a detta questione per evitare che

essa rimanga preclusa in considerazione della struttura del giudi zio di legittimità, il quale non è soggetto alla disciplina dettata

per l'appello dall'art. 346 c.p.c., con la conseguenza che l'onere

dell'impugnazione, gravante sul convenuto nel giudizio stesso, va

riferito non solo alla soccombenza pratica, ma anche a quella teorica (sent. 5 gennaio 1983, n. 51, Foro it., Rep. 1983, voce

Cassazione civile, ti. 187; 2 febbraio 1983, n. 895, ibid., n. 188; 15 aprile 1982, n. 2290, id., Rep. 1982, vooe cit., n. 158; 7

gennaio 1982, n. 62, ibid., n. 259; 18 marzo 1981, n. 1609, id.,

Rep. 1981, voce cit., n. 277; 13 gennaio 1981, n. 300, ibid., n. 278; 7 maggio 1981, n. 2979, ibid., n. 279; 13 agosto 1981, n. 4920,

ibid., n. 281; 12 aprile 1980, n. 2335, id., Rep. 1980, voce cit., n.

255; 15 febbraio 1979, n. 978, id., Rep. 1979, voce cit., n. 269; 25

giugno 1977, n. 2718, id., Rep. 1977, voce cit., n. 282; 21 maggio 1977, n. 2117, ibid., n. 281; 15 aprile 1976, n. 1333, id., 1976, I,

1501); e, con specifico riguardo alla giurisdizione, ove il giudice di

merito abbia espressamente affermato la propria giurisdizione e

pronunciato sulla domanda, la statuizione sulla giurisdizione, in

ipotesi di ricorso per cassazione solo per il merito (come appunto nella specie) da parte del soccombente, può essere riesaminata

dalla Suprema corte soltanto ove sia proposto, dalla parte vitto

riosa nel merito, ricorso incidentale, anche se condizionato all'ac

coglimento del ricorso principale avversario (sent. 15 ottobre

1983, n. 6051, id., Rep. 1983, voce cit., n. 197; 8 aprile 1981, n.

2010, id., Rep. 1981, voce cit., n. 265).

Rimane perciò ferma la giurisdizione del giudice ordinario, affermata dal tribunale, nonché la competenza del giudice del

lavoro, anch'essa, sia pur solo assertivamente, ritenuta dal mede

simo tribunale, chiamato a pronunciare su espressa eccezione

d'incompetenza delle amministrazioni convenute, le quali, peral tro, anche quanto a tale punto non hanno proposto gravame alcuno, limitandosi ad accennarne nel controricorso e in memo

ria.

Passando, dunque, all'esame del merito, va innanzitutto affron tata la questione della pretesa insufficienza del compenso corri

sposto al De Meo, sotto il profilo, innanzitutto, della invocata

applicabilità dell'art. 36 Cost, anche ad un rapporto di « lavoro

pubblico » ex art. 409, n. 5, c.p.c., quale il ricorrente asserisce

essere quello che lo lega allTSTAT, e, poi, sotto quello della

concreta adeguatezza del compenso stesso, che si assume contrad

dittoriamente affermata dal tribunale.

Il tribunale ha escluso che il rapporto che legava il De Meo

all'ISTAT potesse qualificarsi di pubblico impiego, e lo ha ritenuto

appartenente alla categoria dei rapporti di cui all'art. 409, n. 3.

Il ricorrente assume invece che il rapporto andava inquadrato fra quelli di cui al n. 5 di detta norma.

Va in proposito preliminarmente precisato che la preclusione della questione di giurisdizione non impedisce di esaminare la

questione della disciplina sostanziale applicabile al rapporto. E questa non va ravvisata né in quella applicata dalla sentenza

impugnata, né in quella indicata dal ricorrente, bensì nella

disciplina propria del rapporto di servizio onorario.

Va, all'uopo, ricordato che il rapporto di servizio onorario

assume una propria caratterizzazione, che lo distingue dal rappor to di pubblico impiego, sulla base di una serie di elementi

sintomatici, cosi riassumibili: a) la scelta, di carattere ammini

strativo-tecnico, mediante procedure concorsuali, quanto al pub

II Foro Italiano — 1985.

blico impiegato, politico-discrezionale quanto al funzionario ono

rario; b) l'inserimento nella organizzazione amministrativa, strut

turale, che è professionale per l'impiegato, meramente funzionale

per il funzionario onorario; c) lo svolgimento del rapporto, che è

retto dall'apposito statuto per il pubblico dipendente, mentre è

privo di una specifica disciplina — se non quella derivante

dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura stessa di

quest'ultimo — per il funzionario onorario; ci) il compenso, che è

vera e propria remunerazione, inserentesi in un rapporto sinallag

rnatico, per l'impiegato, mentre ha carattere indennitario, o di

ristoro di spese in senso lato per il funzionario; e) la durata del

rapporto, tendenzialmente indeterminato per il pubblico impiega

to, sempre temporaneo (anche se con possibilità di reiterazione

dell'incarico) per il funzionario onorario.

E, nella specie, non v'è dubbio che ricorrano i più significativi elementi della figura del funzionario onorario, dal criterio di

scelta e dalla forma della nomina, al tipo di compenso, e alla

temporaneità dell'incarico, seppur reiteratamente confermato, cosi

come emergono dalla sentenza impugnata. Trattasi, dunque, di un rapporto in ordine al quale possono

configurarsi — come affermato dalla giurisprudenza di questa corte — sia posizioni di diritto soggettivo (quale, ad esempio,

quella inerente alla indennità già fissata in provvedimento del

l'autorità) sia di interesse legittimo (quale quella alla misura

di detto compenso da fissare), secondo il vario atteggiarsi del

la pretesa dell'interessato e della concreta fattispecie, con le

relative conseguenze quanto alla giurisdizione (che in questa

sede, per quanto già detto, non possono più essere prese in con

siderazione).

Comunque ad un siffatto rapporto, che nulla ha a che vedere con

un rapporto di lavoro subordinato, non può in alcun modo

applicarsi il principio della retribuzione adeguata di cui al 1°

comma dell'art. 36 Cost.

È, invece, giurisprudenza costante che questo riguarda esclusi

vamente il rapporto di lavoro subordinato, e non è applicabile in

tema di compenso per altre prestazioni lavorative, quali quelle di

lavoro autonomo (Cass. 5 gennaio 1983, n. 38, id., Rep. 1983, voce Lavoro autonomo, n. 55; 12 febbraio 1980, n. 991, id., Rep. 1980, voce cit., n. 9; 10 novembre 1977, n. 4853, id., Rep. 1977, voce cit., n. 6; 17 maggio 1975, n. 1945, id., Rep. 1975, voce Lavoro (rapporto, n. 1104; 16 aprile 1970, n. 1060, id., Rep. 1970, voce Lavoro autonomo, n. 10; 4 dicembre 1969, n. 3867, ibid., n. 3); e in particolare al lavoro libero professionale (Cass. 21 luglio 1977, n. 1091, id., Rep. 1977, voce Professioni intel

lettuali, n. 39; 30 ottobre 1969, n. 3605, id., Rep. 1970, vooe cit., n. 78).

Interpretazione, questa, suffragata dal tenore del 2° e del 3° comma del medesimo art. 36, che non possono che riferirsi al lavoro subordinato, e solo ad esso, vertendo in materia di orario di lavoro, riposi e ferie.

Né valido argomento in senso contrario può trarsi dalla esten sione normativa di talune discipline tipiche del lavoro subordinato a categorie di lavoratori autonomi, cosi come non lo si può neppure trarre dall'applicabilità del rito del lavoro ai rapporti cosiddetti parasubordinati; eccezionali estensioni, queste, che con fermano la regola della generale inapplicabilità al lavoro autono mo di principi e discipline proprie di quello subordinato.

Esclusa, quindi, in linea di principio l'applicabilità dell'art. 36 Cost, ad un rapporto non di lavoro subordinato quale quello di servizio onorario, resterebbe assorbita la censura attinente alla concreta adeguatezza del compenso ritenuta dal tribunale a pre scindere da tale esclusione; non senza tuttavia rilevare come, stante la già vista discrezionalità di determinazione del compenso, nel determinarlo la p.a. è tenuta all'osservanza di principi di buona amministrazione, censurabili (davanti al giudice ammini strativo) sotto il profilo dell'eccesso di potere, e che davanti al

giudice ordinario (presso il quale è rimasta radicata la giurisdi zione — nonché la competenza — per i motivi processuali innanzi esposti) non è stato allegato elemento alcuno che potesse consentire una consimile valutazione.

Anche l'ultimo motivo è infondato. 11 carattere previdenziale dell'indennità di buonuscita che, fra l'altro, presuppone il versa mento di contributi a carico di entrambe le parti del rapporto d'impiego, ormai pacifico nella giurisprudenza di questa corte (sez. un. 13 settembre 1978, n. 4127, id., 1978, I, 1872; 15 settembre 1977, nn. 3971-3981 e 3983, id., Rep. 1977, voce

Impiegato dello Stato, nn. 1121-1132, 1077; 7 luglio 1977, n.

3011, ibid., n. 1080; 12 maggio 1977, n. 1864, ibid., n. 1081; 7 dicembre 1976, nn. 3595 e 3596, id., 1976, I, 2509 e 2506; 12 giugno 1975, n. 2329, id., 1975, I, 2448; 15 marzo 1975, n. 1002, ibid., 1083), esclude in radice ogni possibilità di ritenere

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1663 PARTE PRIMA 1664

dette indennità, in mancanza di specifica previsione e disciplina, computabile nel trattamento economico in discussione.

Esattamente il tribunale ha escluso dal computo anche gli scatti biennali di anzianità, che presuppongono un rapporto di durata

indeterminata, e non un rapporto a termine (pur se più volte

prorogato) e per di più di mero servizio, quale quello di cui è

causa, sicché in relazione ad esso non può parlarsi di anzianità di carriera, che è invece alla base dell'istituto degli aumenti bienna

li; i quali in ogni caso sono anch'essi regolati da una specifica disciplina che, in mancanza di espresso richiamo, non può ritenersi sic et simpliciter estensibile.

Infondato, è, altresì, il ricorso incidentale.

invero, pur se il divieto di corrispondere più di una volta l'indennità integrativa speciale, posto dall'art. 2, 7° comma, 1. 27

maggio 1959 n. 354 (la cui questione di costituzionalità è stata ritenuta manifestamente infondata dal Cons, di Stato, sez. Ili, 7

luglio 1982, n. 357) è stato inteso dal Supremo Consesso ammi

nistrativo nella maniera più lata, come applicabile anche nel caso in cui uno dei due rapporti abbia natura privatistica (sez. VI 7

luglio 1982, n. 357), con riguardo, dunque, alla percezione di indennità di carovita (sez. IV 2 marzo 1982, n. Ill, id., Rep. 1982, voce Impiegato dello Stato, n. 774) e a qualsiasi altra indennità percepita da impiegato o pensionato variabile in rela zione al fluttuare del costo della vita, indipendentemente dalla sua denominazione (sez. IV 1° dicembre 1981, n. 938, ibid., n.

773; 23 giugno 1981, n. 506, id., Rep. 1981, voce cit., n. 669), va

peraltro considerato che, come esattamente, del resto aveva rite nuto il pretore, il compenso corrisposto dall'I ST AT al suo presi dente aveva una caratterizzazione giuridica unitaria e autonoma, mentre il riferimento al trattamento del dirigente generale aveva solo funzione di determinazione p,er relationem (e, inoltre, con

applicazione di un coefficiente maggiorativo) della misura del

compenso. Cosicché ben poteva in esso ricomprendersi anche l'indennità

integrativa speciale intesa, così come la tredicesima mensilità, come mero parametro di commisurazione, e senza che, pertanto, il suo

computo (meramente contabile, e non attributivo di uno specifico

diritto) potesse comportare l'inosservanza del divieto di corre

sponsione dell'indennità stessa più d'una volta.

In conclusione, entrambi i ricorsi vanno rigettati. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 15

marzo 1985, n. 2018; Pres. Moscone, Est. R. Sgroi, P. M.

Grossi (conci, conf.); Fi.e.g., Sindacato nazionale rivenditori

giornali e riviste, Sindacato provinciale giornalai (Aw. Monte

foschi, Montesano, Giorgianni) c. Tirelli e Comune di Roma; Tirelli (Avv. C. Migro, Battaglia) c. F.i.e.g., Sindacato nazio

nale rivenditori giornali e riviste, Sindacato provinciale giornalai, Comune di Roma. Cassa App. Roma 21 aprile 1980.

Responsabilità civile — Accordo fra associazioni di produttori e

di rivenditori — Mancato rilascio del tesserino di prelevamento ad aspirante rivenditore — Lesione di un diritto soggettivo — Insussistenza (Cod. civ., art. 2043).

Concorrenza (disciplina della) — Concorrenza sleale — Associa

zioni professionali — Legittimazione passiva — Ammissibilità — Presupposti (Cod. civ., art. 2598).

Concorrenza (disciplina della) — Concorrenza sleale — Accordo

fra associazioni di produttori e di rivenditori — Selezione

distributiva — Liceità — Limiti (Cod. civ., art. 2598).

L'accordo fra associazioni di produttori (nella specie, editori di

giornali e riviste) e di rivenditori (giornalai), inteso a regolare la procedura di istituzione ed assegnazione dei punti di vendi

ta, non può integrare gli estremi della responsabilità extracon

trattuale, in danno del soggetto cui sia stata rifiutata l'asse

gnazione, per difetto della lesione immediata e diretta di un

diritto soggettivo. (1)

(1-3) Le regole (redazionali) del giuoco impongono di non ' raccon tare ' la sentenza che si riporta. Ma, si sa, tutte le regole — meno una — annoverano eccezioni. E, nella circostanza, sembra davvero opportuno offrire al lettore, se non una silloge, un abbozzo di '

guida ragionata

' alla lettura della complessa e tormentata decisione con cui le sezioni unite si sforzano di metter ordine nel risalente contenzioso relativo alla distribuzione dei giornali.

Cominciamo dallo scenario. Con qualche variazione, di cui daremo conto tra un momento, la fattispecie s'iscrive a pieno titolo nel folklore della materia: siamo, cioè, ben dentro alla tradizionale lotta

Il Foro Italiano — 1985.

Le associazioni di categoria degli imprenditori sono legittimate

passivamente all'azione di concorrenza sleale per gli atti (con

sistenti,, nella specie, nella stipulazione e/o esecuzione di un

accordo restrittivo della concorrenza, avente ad oggetto la

designazione normativa dei distributori del prodotto secondo

criteri selettivi) compiuti in pregiudizio di imprenditori non

iscritti, se tali atti sono posti in essere nell'interesse di altro

imprenditore, anche non iscritto, che abbia chiesto e ottenuto

l'applicazione a suo vantaggio dell'accordo. (2) L'accordo fra associazioni di produttori e di commercianti, che

consente la fornitura dei prodotti (nella specie, giornali e

riviste) ai soli rivenditori prescelti in base a regole stabilite

nell'accordo stesso non integra gli estremi della slealtà concor

renziale se la scelta dei distributori non esclude i soggetti estranei all'accordo, ma si ispira a criteri qualitativi obiettivi, correlati all'esigenza di razionalizzazione e miglioramento della

distribuzione e fissati uniformemente in base ad una procedura nella quale sono valutati comparativamente, e sia pure con una

qualche discrezionalità, le situazioni e le posizioni, precostituite sul mercato, di più aspiranti al medesimo punto di vendita;

l'applicazione di detto accordo in violazione dei criteri prefissa

ti, senza il rispetto della procedura prevista o con arbitraria

discriminazione può esser considerato atto contrario alla corret

tezza professionale se idoneo a provocare danno a carico

dell'imprenditore escluso, con vantaggio potenziale di un con

corrente. (3)

degli aspiranti giornalai, muniti di licenza di commercio ma sprovvisti del fatidico « tesserino di prelevamento », per un '

posto al sole ' (il

sistema a due soglie è diffusamente descritto nella nota di R.

Pardolesi, Distribuzione dei giornali: associazioni di categoria e

boicottaggio, a Cass. 16 aprile 1983, n. 2634, Foro it., 1983, I, 2160). Trent'anni or sono — e la causa continua! — l'odierno resistente si era visto respingere, dall'apposita commissione paritetica interregiona le, la domanda di rilascio del tesserino; per sovramercato, due mesi

più tardi il comune capitolino aveva depennato dalla sua licenza la voce « giornali e riviste ». L'anno dopo, le rinnovate aspirazioni del nostro giornalaio in pectore erano state deluse dalla commissione consultiva istituita dal comune, la quale, anzi, dava via libera ad un esercizio situato nelle immediate adiacenze: il tutto con l'avallo di un'ordinanza comunale, da cui traeva origine il ricorso amministrati vo, approdato alla sezione V del Consiglio di Stato nel 1962, con esito vittorioso (dee. 12 maggio 1962, n. 386, id., Rep. 1962, voce Commer cio di vendita al pubblico, n. 50) ma privo d'incidenza pratica, posto che, nel frattempo, la commissione consultiva comunale era stata soppressa. Scattò allora l'azione civile, respinta in prime cure, ma accolta in appello (la sentenza reca la stessa data di quella cui si riferisce Cass. 2634/83; ed è, del pari, inedita), sul piano della lesione extracontrattuale del diritto all'iniziativa economica privata del would be edicolante.

Ci si riannoda, cosi, ad una corposa vicenda giurisprudenziale (ricostruita in dettaglio nella nota dianzi menzionata), il cui ultimo atto era rappresentato, appunto, da Cass. 2634/83: smentendo il precedente di Cass. 20 giugno 1973, n. 1829, id., 1973, I, 3371 — resa, peraltro, in fattispecie estranea alla carta stampata —, tale pronunzia aveva, si, prospettato la possibile illiceità dell'accordo tra associazioni di editori e di rivenditori, non, però, alla luce dell'art. 2043 c.c., ma in riferimento al precetto di lealtà concorrenziale (sul punto, v. la nota di G. Vettori, Sulla distribuzione selettiva nel settore della stampa, id., 1984, I, 535), evocato — nonostante il difetto di qualità imprenditiva nelle associazioni coinvolte — attraverso lo schema della concorrenza per interposta persona.

L'idea-guida della sentenza ora ricordata sembrava quella di chiama re le cose col proprio nome: perché intestardirsi sul parametro del neminem laedere quando l'intero apparato argomentativo si fondava sulla logica del boicottaggio e rinviava, di filato, all'art. 2598 c.c.? Nella sostanza, le sezioni unite avallano una siffatta direttiva. Ma s'ingegnano di radicarla su un sostrato più affidante, idoneo a dimostrare l'impraticabilità della via alternativa. In limine, esse rico noscono che un atto negoziale nullo può, a prescindere dall'impro duttività di effetti sul piano giuridico, causare pregiudizio a terzi (e si evoca, al riguardo, lo spettro — nobile, ma decaduto — del « contrat to in danno »). Senonché, per innescare il meccanismo della responsa bilità aquiliana, occorre la lesione di una situazione soggettiva tutelata. E questa non può consistere nel diritto, assoluto, di iniziativa econo mica, cui si rifanno i giudici di appello con tanto di riferimento all'art. 41, 2° comma, Cost, (sulla scorta, del resto, di eleganti sortite dottrinarie: cfr., indicativamente, P. Marchetti, Boicottaggio e rifiuto di contrarre, Padova, 1969, 376), non foss'altro perché l'accordo di foreclosure è espressione della stessa libertà che si assume prevaricata (è appena il caso di ricordare che questa contraddizione di fondo costituisce, da sempre, il '

piede sinistro ' in materia di antitrust: il nodo, ineludibile, è rivisitato, ancora di recente e in chiave delibera tamente provocatoria, da F. H. Easterbrook, The Limits of Antitrust, 63 Tex. L. Rev. 1 (1984)). Occorrerebbe, quindi, qualcosa di più, che non è comunque dato derivare dalla prospettazione della domanda del giornalaio pretermesso. Rivolta com'è ad ottenere il tesserino, essa

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