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sezioni unite civili; sentenza 20 novembre 1998, n. 11732; Pres. La Torre, Est. Roselli, P.M. Fedeli...

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sezioni unite civili; sentenza 20 novembre 1998, n. 11732; Pres. La Torre, Est. Roselli, P.M. Fedeli (concl. diff.); Vigna (Avv. Giacobbe) c. Min. grazia e giustizia (Avv. dello Stato Palmieri), Proc. gen. Corte di cassazione. Cassa Cons. sup. magistratura 20 gennaio 1998 Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 3 (MARZO 1999), pp. 871/872-877/878 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23194193 . Accessed: 28/06/2014 09:21 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.223.28.130 on Sat, 28 Jun 2014 09:21:22 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite civili; sentenza 20 novembre 1998, n. 11732; Pres. La Torre, Est. Roselli, P.M.Fedeli (concl. diff.); Vigna (Avv. Giacobbe) c. Min. grazia e giustizia (Avv. dello Stato Palmieri),Proc. gen. Corte di cassazione. Cassa Cons. sup. magistratura 20 gennaio 1998Source: Il Foro Italiano, Vol. 122, No. 3 (MARZO 1999), pp. 871/872-877/878Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23194193 .

Accessed: 28/06/2014 09:21

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PARTE PRIMA

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 20 no

vembre 1998, n. 11732; Pres. La Torre, Est. Roselli, P.M.

Fedeli (conci, diff.); Vigna (Avv. Giacobbe) c. Min. grazia e giustizia (Avv. dello Stato Palmieri), Proc. gen. Corte di

cassazione. Cassa Cons. sup. magistratura 20 gennaio 1998.

Ordinamento giudiziaria — Magistrato — Responsabilità disci

plinare — Valutazione del Consiglio superiore della magistra tura (R.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511, guarentigie della magis

tratura, art. 18). Ordinamento giudiziario —

Magistrato — Responsabilità disci

plinare — Dovere di riservatezza — Illecito di pericolo con

creto — Fattispecie.

La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratu ra, nel valutare disciplinarmente i comportamenti dei singoli

magistrati, compie un 'ordinaria attività ermeneutica che si rea

lizza nell'applicare al caso concreto la previsione legale del

l'art. 18 r.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511, mediante un'inter

pretazione sistematicamente coordinata con le altre norme del

diritto statale (Costituzione ed altre fonti di cui all'art. 1 pre

leggi) e con le fonti di diritto interne all'ordinamento della

magistratura e di livello infralegislativo quali il codice etico, le fonti c.d. paranormative dello stesso Consiglio superiore della magistratura, i precedenti in materia della sezione disci

plinare o della Corte di cassazione. (1) La condotta del magistrato il quale rivela fatti relativi ad un

processo conosciuti a causa del suo ufficio, se idonea a pro vocare un rischio di interferenza o di pregiudizio alle indagi ni, costituisce una fattispecie di illecito di pericolo concreto

per la cui sanzionabilità occorre dimostrare, con un minimo di riferimenti specifici, che il pericolo sia effettivo e concreto

(nella specie, la Suprema corte ha accolto il motivo di ricorso

dell'insufficiente motivazione in ordine alla specifica indica

zione degli atti o della fase processuale su cui la notizia avrebbe

interferito o delle attività investigative che la stessa avrebbe

pregiudicato, ritenendo che, trattandosi di intervista non sol lecitata e resa per ridimensionare notizie di stampa, non rile va di per sé che a) l'intervista abbia provocato nuove polemi che giornalistiche, b) l'intervista, in presenza di indagini con dotte sullo stésso fatto da più magistrati di diversi uffici, abbia

potuto far sorgere sulla stampa e nel pubblico dubbi circa

dissensi tra loro). (2)

(1-2) I. - Le sezioni unite riconfermano la piena legittimità dell'atti vità della sezione disciplinare che, nell'esercizio della funzione giurisdi zionale di sua competenza, richiama anche fonti non legislative al fine di meglio individuare le fattispecie disciplinarmente rilevanti riconduci bili alla previsione, di contenuto generale, dettata dall'art. 18 della leg ge sulle guarentigie della magistratura. L'atipicità dell'illecito, riferito ad ogni condotta che renda il magistrato immeritevole della fiducia e della credibilità che, come singolo e come appartenente all'ordine giudi ziario, deve riscuotere da parte dell'intera collettività, giustifica il ricor so all'integrazione della previsione legale con norme di etica professio nale come avviene per tutte le altre forme di responsabilità disciplinare degli esercenti determinate professioni.

In senso conforme, Cass., sez. un., 16 gennaio 1998, n. 359, citata in motivazione, Foro it., Mass., 37; 10 giugno 1997, n. 5225, e 6 no vembre 1997, n. 10922, id., Rep. 1997, voce Ordinamento giudiziario, nn. 187, 186, che legittimano il riferimento ad atti regolamentari in materia di uso di autovetture di servizio; 10 luglio 1997, n. 6255, ibid., n. 185, in tema di regole di coordinamento interno ai c.d. pool investi gativi; 10 luglio 1997, n. 6254, ibid., n. 176, in tema di circolari mini steriali; 14 ottobre 1996, n. 8958, id., Rep. 1996, voce cit., n. 195, che, per sopperire alla incompleta tipicizzazione normativa delle fatti specie di rilievo disciplinare, ritiene necessario che nella contestazione risultino indicati, in forma analitica e circostanziata, la natura e gli elementi essenziali della condotta nonché il profilo sotto cui la stessa viene addebitata.

Nella fattispecie in esame la corte enuncia, poi, un'importante affer mazione in ordine alla natura dell'illecito disciplinare consistente nella violazione del dovere di riservatezza, che qualifica come ipotesi di illeci to di pericolo concreto con la conseguenza di richiedere, per l'afferma zione di responsabilità, una specifica indicazione dei fatti nei quali si sarebbero sostanziati l'effettiva influenza, interferenza e pregiudizio per il procedimento cui le notizie propagate si riferiscono.

II. - Di particolare rilevanza sono alcune affermazioni contenute in sentenza con riferimento sia ai mezzi di comunicazione di massa, de scritti come strumenti di controllo dei modi di esercizio delle pubbliche funzioni e tra esse della giustizia, sia alla necessità che il diritto all'in

II Foro Italiano — 1999.

Motivi della decisione. — (Omissis). Col secondo motivo il

ricorrente denuncia ancora la violazione dell'art. 18 r.d.leg. 31

maggio 1946 n. 511 e l'insufficiente o contraddittoria motiva

zione, affermando che il giudice disciplinare pervenne alla pro nuncia di condanna pur senza la previa, necessaria definizione

in termini esatti della fattispecie di illecito. Ed infatti esso: a) definì come riservata una notizia già diffusa dalla stampa quo tidiana; b) considerò come divulgazione della notizia da parte del magistrato quella che era soltanto una precisazione ed un

ridimensionamento; c) non disse le ragioni del mancato eserci

zio dell'azione disciplinare contro colleghi dell'attuale incolpa

to, che avevano, anche loro, divulgato la stessa notizia; d) con

siderò il dovere di riserbo come di contenuto variabile in fun

zione del rilievo sociale del processo su cui viene data la notizia, essendo evidente l'assenza di violazione del segreto istruttorio:

seppure il rilievo sociale del processo fosse rilevante nella sog

getta materia, esso dovrebbe anzi attenuare il riserbo del magi strato, specie se questi intenda evitare la circolazione di notizie

false.

Il ricorrente nota poi come la sezione disciplinare abbia con

siderato quale elemento della fattispecie d'illecito l'idoneità del

la diffusione delle notizie ad ostacolare le indagini penali in

corso, senza peraltro precisare quale nocumento essa avrebbe

potuto produrre. Irrilevanti sarebbero gli asseriti influssi di tale

diffusione sulle convinzioni del pubblico circa la colpevolezza o l'innocenza degli imputati nel processo penale, o circa even

tuali dissensi fra i magistrati inquirenti. Col terzo motivo il ricorrente invoca la stessa disposizione

di legge, lamentando il difetto di motivazione circa l'elemento

psicologico dell'illecito, certamente da escludere quando le noti

zie d'ufficio siano fornite allo scopo di prevenire una cattiva

formazione sui procedimenti giudiziari deve essere opportunamente bi lanciato dalla tutela delle esigenze proprie della giustizia che deve fare il suo corso senza essere alimentata da interventi impropri di magistrati che, per la loro generale qualificazione ed in particolare allorché essi stessi siano titolari dei procedimenti, finiscano per attenuare anche la sola apparenza dell'imparzialità fino a renderli quasi partecipi del c.d.

processo parallelo celebrato nella comunicazione di massa anziché nelle aule di giustizia.

Sulle esternazioni dei magistrati, comprendenti non solo quelle con nesse al dovere di riservatezza sui fatti conosciuti nell'esercizio delle proprie funzioni ma anche quelle collegate al generale diritto di critica e di manifestazione della propria opinione, si ricorda che il ministro della giustizia, nel corso del 1998, ha esercitato più volte l'azione disci

plinare in coerenza con le proprie determinazioni, assunte con la nota del 21 settembre 1996, avente ad oggetto indirizzi sull'esercizio dell'a zione disciplinare con specifico riferimento alle dichiarazioni rese da

magistrati alla stampa e ad altri mezzi di comunicazione. Lo stesso mi nistro, nello stesso anno, ha impugnato dinanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione anche alcune sentenze disciplinari che avevano deci so in senso assolutorio giudizi proposti, su iniziativa dello stesso mini stro, in tema di dichiarazioni di magistrati. Sul punto, con riferimenti statistici sulle azioni disciplinari aventi ad oggetto le esternazioni, D. Stasio, Braccio di ferro tra il guardasigilli Flick e il consiglio superiore sulle esternazioni dei magistrati. Toghe: i limiti della libertà di opinio ne, la Cassazione farà da arbitro tra la linea del ministro e quella del Csm, in II Sole-24 Ore dell'8 ottobre 1998.

Il procuratore generale presso la Corte di cassazione nella relazione inaugurale dell'anno giudiziario 1997 evidenziò negativamente «il co stume invalso in non pochi magistrati di farsi essi stessi soggetti attivi di informazione», richiamando il potere di vigilanza da parte dei capi degli uffici ed auspicando la «cessazione degli eccessi di esternazione pubblica dei magistrati con riferimento ai propri atti».

Anche il ministro Diliberto, nella lettera del 30 ottobre 1998 con la quale ha reso il proprio saluto a tutti i componenti della magistratura, ha voluto evidenziare e ricordare ai magistrati che il proprio ruolo risul ta «tanto più essenziale, tanto più al servizio dello Stato e dei cittadini, tanto più autonomo ed indipendente, se esso si accompagna a compor tamenti improntati a quella sobrietà e a quel rigoroso rispetto dei diver si compiti ai quali io per primo intendo attenermi in modo scrupoloso».

III. - La sentenza disciplinare 12 dicembre 1997, cassata dalla deci sione in epigrafe, è riportata in Foro it., 1998, III, 188, con l'avverten za che in quel caso, l'azione disciplinare è stata esercitata dal procura tore generale.

Sul tema connesso della tutela della credibilità e del prestigio del sin golo magistrato, R. Fuzio, // Consiglio superiore della magistratura de ve difendere i magistrati?, ibid., 388.

IV. - Sui codici etici dei magistrati, cfr. Foro it., 1996, III, 38, e, ibid., 36, Barbagallo, I codici etici della magistratura.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

informazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa e

non certo per pregiudicare indagini in corso. Trattavasi del re

sto, ripete ancora il ricorrente, di notizie riservate e non segrete.

Questi due motivi, da esaminare insieme perché connessi, so

no in parte fondati, nei limiti e con le precisazioni che seguono. È da premettere che non può essere accolta la censura relati

va all'omessa definizione della fattispecie di illecito da parte della sezione disciplinare.

Queste sezioni unite, nella sentenza 16 gennaio 1998, n. 359,

Foro it., Mass., 37, hanno già osservato che l'art. 18 r.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511, il quale sottopone alle sanzioni previste dai successivi articoli «il magistrato che manchi ai suoi doveri,

o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda imme

ritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere,

o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario», contie

ne una previsione dell'illecito disciplinare in base alla quale, difettando l'elemento della rigida tipicità, il comportamento del

magistrato deve essere valutato facendo riferimento a modelli,

o clausole, di contenuto generale. Tali modelli o clausole generali, come risulta dal tenore lette

rale della norma sopra indicata, sono individuati, da un lato,

nella fiducia e nella considerazione che i cittadini debbono ri

porre nel magistrato e, dall'altro, nel prestigio dell'intero ordi

ne giudiziario. Si tratta di parametri che — non essendo possi

bile, in via astratta e preventiva, identificare in modo tassativo

tutti i possibili comportamenti materiali costituenti l'illecito di

sciplinare — assurgono a veri e propri valori ai quali la condot

ta del magistrato deve uniformarsi.

Al riguardo, come da parte di queste sezioni unite è stato

già in altre pronunce precisato (v. le sentenze n. 2104 del 24

maggio 1975, id., 1976, I, 116; n. 1882 del 25 maggio 1976,

id., Rep. 1976, voce Avvocato e procuratore, n. 128; n. 2844

del 13 giugno 1989, id., Rep. 1989, voce Professioni intellettua

li, n. 129; n. 5225 del 10 giugno 1997, id., Rep. 1997, voce

Ordinamento giudiziario, n. 187, e n. 10922 del 6 novembre

1997, ibid., n. 186) nelle materie attinenti agli illeciti posti in

essere da esercenti determinate professioni, per indicare le azio

ni o le omissioni vietate, non è possibile fare ricorso a formule

definitorie particolari, aventi uno specifico e concreto significa

to, ma vengono utilizzate clausole generali, il cui contenuto de

ve essere integrato dalle norme di etica professionale (v., ad

esempio, l'art. 38 d.p.r. 5 aprile 1950 n. 221, che sanziona «gli

abusi o le mancanze o i fatti disdicevoli» commessi dagli eser

centi le professioni sanitarie e l'art. 38 r.d.l. 27 novembre 1933

n. 1578, che usa analoga formula per gli esercenti la professio

ne legale, facendo, inoltre, riferimento «ai fatti non conformi

alla dignità e al decoro professionale»). E l'adozione di siffatti

modelli deve essere considerata del tutto legittima, sia perché

riguardo all'illecito disciplinare, che esula dal campo penale,

non può essere ipotizzato un contrasto con il principio di legali

tà in senso stretto enunciato dall'art. 25, 2° comma, Cost., sia

perché deve essere rispettata l'autonomia organizzativa degli or

dini professionali, sia, soprattutto, perché un'elencazione tassa

tiva dei singoli divieti o dei singoli obblighi rischierebbe di ren dere insindacabili atteggiamenti non espressamente contemplati,

e, tuttavia, considerati riprovevoli dalla coscienza collettiva. Di

tal che proprio l'attuazione del sistema indicato implica il ne

cessario affidamento all'organo designato, dalla legge, e depu

tato a valutare sotto il profilo disciplinare i comportamenti dei

singoli, del potere di adattare la previsione legale al caso con

creto, facendo riferimento — allo scopo pur sempre di rispetta

re il principio di legalità in senso lato, anche se questo, trattan

dosi di materia disciplinare, non richiede fattispecie descritte

attraverso schemi rigidamente preordinati — a regole ricavabili

o da specifiche previsioni di legge o da canoni di condotta espressi

dalla collettività o da principi deontologici dettati dai singoli

ordinamenti professionali. Concetti analoghi a quelli appena esposti sono stati espressi

dalla giurisprudenza costituzionale nelle numerose decisioni con

le quali sono state dichiarate non fondate varie questioni di le

gittimità costituzionale prospettate in relazione a fatti costituen

ti illeciti non solo disciplinari, ma anche penali.

In relazione alla materia penale la Corte costituzionale ha,

nel corso del tempo, enunciato i seguenti principi: 1) la disposi

zione di cui al 2° comma dell'art. 25 Cost, è attuata non solo

per mezzo di una rigorosa e tassativa descrizione di una fatti

specie, ma anche mediante l'uso di epressioni che «siano suffi

II Foro Italiano — 1999.

cienti per individuare con certezza il precetto e per giudicare se una determinata condotta l'abbia o meno violato» (Corte cost. 16 dicembre 1970, n. 191, id., 1971, I, 7, resa in materia

di atti e oggetti osceni); 2) il principio di legalità è osservato anche quando siano utilizzate locuzioni, ancorché generiche, tut

tavia di ovvia comprensione, richiamanti, come avviene nelle

fattispecie criminose c.d. a forma libera, «concetti di comune

esperienza o valori etico-sociali oggettivamente accertabili dal

l'interprete» (Corte cost. 8 luglio 1975, n. 188, id., 1975, I,

2418, emanata in tema di offesa alla religione dello Stato me

diante vilipendio di persone, e Corte cost. 28 luglio 1988, n.

925, id., Rep. 1988, voce Bestemmia, n. 2, emessa in relazione

all'art. 724, 1° comma, c.p., che punisce la bestemmia); 3) la

fattispecie penale non può essere considerata generica e indeter

minata quando il legislatore faccia semplice riferimento ai sug

gerimenti che la scienza specialistica può dare in un determina

to momento storico (Corte cost. 27 aprile 1988, n. 475, ibid., voce Infortuni sul lavoro, n. 207, che ha considerato legittimo, in relazione all'art. 25, 2° comma, Cost., il disposto dell'art.

24 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303, nella parte in cui stabilisce

l'obbligo del datore di lavoro, sanzionato con la pena prevista dal successivo art. 58, di adottare i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuire l'intensità di scuotimenti, vibrazioni

0 rumori nocivi ai lavoratori); 4) non è illegittimo l'uso da par te delle norme penali di espressioni di comune esperienza, come

avviene per il termine «lottizzazione» (Corte cost. 25 gennaio

1984, n. 5, id., Rep. 1984, voce Edilizia e urbanistica, n. 598). Per quanto concerne la materia disciplinare, poi, la Corte

costituzionale ha asserito che non può essere censurato il richia

mo fatto da singole ipotesi sanzionatone a modelli di carattere

generale, perché «trattasi di concetti determinabili secondo la

comune opinione» e perché, oltre tutto, l'ampio margine di va

lutazione è affidato ad un organo che esercita la relativa fun

zione con le garanzie proprie di un procedimento giurisdiziona le e che è «particolarmente qualificato per apprezzare se i com

portamenti di volta in volta considerati siano o meno lesivi dei

valori tutelati» (Corte cost. 8 giugno 1981, n. 100, id., 1981,

I, 2360, con la quale è stata appunto dichiarata non fondata

la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 r.d.leg. 31

maggio 1946 n. 511, ora oggetto di esame da parte di queste

sezioni unite). E si è aggiunto che, pur richiedendosi anche nel

la materia disciplinare che i comportamenti suscettibili di san

zione siano definiti in base alla legge, tuttavia non viola il prin

cipio di legalità la disposizione nella quale «permanga un ambi

to di elasticità nella puntuale configurazione e nella determina

zione delle condotte sanzionabili», purché queste ultime «siano

riferibili a principi enunciati da disposizioni legislative o enu

cleagli dai valori che ispirano nel loro complesso le regole di

comportamento caratterizzanti la scala di doveri propri della

funzione esercitata» (Corte cost. 24 luglio 1995, n. 356, id.,

1996, I, 797). La sopra indicata sentenza 8 giugno 1981, n. 100, con la qua

le, come si è detto, è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 r.d.leg. n. 511 del 1946,

ha pure rilevato che, se è vero che i magistrati debbono godere dei medesimi diritti di libertà, fra i quali quello di manifestazio

ne del proprio pensiero, assicurati a tutti i cittadini da principi costituzionalmente sanciti, è altrettanto vero che l'esercizio dei

suddetti diritti, riguardo a tutti coloro che ne sono beneficiari,

non è senza limiti, «purché questi siano posti dalla legge e tro

vino fondamento in precetti e principi costituzionali, espressa mente enunciati o desumibili dalla Carta costituzionale». Nella

medesima sentenza, inoltre, è stato osservato che i limiti alla

libertà di pensiero, per i magistrati, si rinvengono nelle disposi

zioni di cui agli art. 101, 2° comma, e 104, 1° comma, Cost.,

1 quali, nello stabilire le regole fondamentali dell'imparzialità

e dell'indipendenza della magistratura, hanno introdotto nel

l'ordinamento veri e propri principi di valore assoluto, da tene

re presenti non solo nell'esercizio dell'attività giurisdizionale, ma anche «come regola deontologica da osservarsi in ogni com

portamento» posto in essere dai singoli: tali principi sono diret

ti a garantire «la considerazione di cui il magistrato deve godere

presso la pubblica opinione» e, in pari tempo, ad assicurare

«quella dignità dell'intero ordine giudiziario, che la norma qua

lifica prestigio e che si concreta nella fiducia dei cittadini verso

la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa».

Da queste argomentazioni nella suddetta sentenza sono state

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PARTE PRIMA

tratte, come corollario, le seguenti conclusioni: 1) dal bilancia

mento dei contrapposti interessi deve essere ricavato il necessa

rio equilibrio, «al fine di contemperare esigenze egualmente ga rantite dall'ordinamento costituzionale»; 2) riguardo ai magi

strati, la libertà di pensiero riceva adeguata tutela come per

qualsiasi altro cittadino; 3) sempre riguardo ai magistrati, deve

essere peraltro vietato «l'esercizio anomalo» della libertà di pen

siero, che sussiste quando siano violati i suddetti principi di

imparzialità e di indipendenza; 4) la valutazione del comporta mento posto in essere dal singolo magistrato deve essere com

piuta dall'organo disciplinare indicato dalla legge, il quale deve

accertare se il comportamento in questione sia conforme a quel

modello, presente nell'opinione dei consociati, che corrisponde «alla natura e alla rilevanza degli interessi tutelati» e che è po sto in «funzione del buon andamento dell'attività giudiziaria».

Tutti questi rilievi, al contrario di quanto sostiene il ricorren

te, debbono essere tenuti presenti ai fini della decisione della

presente controversia e bene ha fatto, quindi, la sezione disci

plinare del Consiglio superiore della magistratura a richiamare, nella parte motiva della sua sentenza, la pronuncia della Corte

costituzionale n. 100 del 1981, sopra indicata (analoghe consi

derazioni in sez. un. 6 novembre 1997, n. 10922, cit.). Nella sentenza n. 359 del 1998, cit., queste sezioni unite han

no aggiunto che la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nell'esercizio della funzione giurisdizionale di sua competenza, non svolge perciò alcuna attività paranor mativa. La sua funzione, infatti, è semplicemente diretta ad ac

certare se il comportamento posto in essere dal singolo magi strato sia o meno conforme a quei modelli o clausole generali di cui si è sopra detto e che fanno riferimento alla fiducia e

alla considerazione di cui lo stesso magistrato deve godere non

ché al prestigio dell'ordine giudiziario e, quindi, ad applicare al caso concreto la disposizione contenuta nell'art. 18 r.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511. Trattasi, come si vede, di attività erme

neutica, non diversa, sostanzialmente, da quella che svolge il

giudice civile in tema di responsabilità per fatto illecito, quando — nella puntuale esplicitazione del precetto generale enunciato

dall'art. 2043 c.c. con riferimento al caso controverso — è chia

mato a stabilire se la condotta lesiva denunciata costituisca o

no «danno ingiusto» agli effetti del risarcimento.

Come è stato sopra esposto, l'art. 18 r.d.leg. n. 511 del 1946

non racchiude una norma il cui contenuto sia rimesso alla de

terminazione del giudice, ma, al contrario, comprende un pre cetto compiutamente definito nella descrizione della condotta

deontologicamente vietata al magistrato («. . . che manchi ai

suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che

10 renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giu diziario . . .»). Trattasi, infatti, di precetto enunciato secondo la formula della «atipicità» dell'illecito (disciplinare), non di

versa — come si è or ora accennato — da quella tradizional mente adottata in tema di illecito civile (art. 2043 c.c., corri

spondente all'art. 1151 c.c. del 1865); e il giudice svolge una

pura e semplice funzione ermeneutica, nell'esercizio del compi to, suo proprio, di applicare la legge al caso concreto, stabilen do appunto se la condotta di volta in volta considerata rientri o no nel paradigma normativo posto dal legislatore.

Ciò permette anche di superare un'obiezione della dottrina, la quale prospetta il pericolo di violazione del principio di irre troattività della pena; prospettazione ricorrente ogni volta che alla giurisdizione venga riconosciuto un ruolo maggiore nella formazione del diritto oggettivo e induce ad esempio i giudici statunitensi alla prospective overruling, vale a dire al preannun cio in obiter dicto dei progettati mutamenti di giurisprudenza. Anche questo pericolo però, del quale le sezioni unite si sono dovute dar carico proprio in materia di disciplina dei magistrati (sent. 25 ottobre 1996, n. 9333, id., Rep. 1996, voce Ordina mento giudiziario, nn. 182, 183; 18 settembre 1997, n. 9301, id., Rep. 1997, voce cit., n. 183; 18 febbraio 1998, n. 1736, id., Mass., 188), non può essere sopravvalutato, purché ci si

attenga al criterio che ogni giudice, e perciò anche quello disci

plinare, seppure sia talora chiamato ad un maggiore impegno ermeneutico come avviene quando debba applicare disposizioni elastiche, non può affidarsi a personali convincimenti e neppu re, quando trattisi di organi giudicanti di origine elettiva come

quelli disciplinari, all'ideologia della maggioranza intesa come

superiore al diritto oggettivo.

11 Foro Italiano — 1999.

La giurisprudenza deve infatti e pur sempre attenersi ai cano

ni dell'interpretazione sistematica.

Da tutto quanto detto discende anzitutto che l'interpretazione

applicazione delle clausole generali di cui all'art. 18 r.d.leg. n.

511 del 1946 non può considerarsi illegittima se sistematicamen

te coordinata con le altre norme del diritto statale (Costituzione e fonti di cui all'art. 1 preleggi) ed anche se fondata su fonti

del diritto interne all'ordinamento della magistratura e di livello

infralegislativo: codice etico di cui all'art. 58 bis, 4° comma,

d.leg. 3 febbraio 1993 n. 29, modificato dall'art. 28 d.leg. 23

dicembre 1993 n. 546; fonti cosiddette paranormative dello stes

so Consiglio superiore della magistratura; precedenti sentenze

della sezione disciplinare o della Corte di cassazione.

Da quanto sopra discende ancora che la norma risultante, di volta in volta, dall'interpretazione delle disposizioni dell'art.

18 resa dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della

magistratura, ossia la giuridica qualificazione dei fatti da parte dello stesso organo giudiziario alla stregua di dette disposizioni elastiche, è sindacabile in Cassazione ai sensi dell'art. 360, n.

3, c.p.c., non potendo essere confusa con l'accertamento dei

fatti stessi, sindacabile soltanto ex art. 360, n. 5. La contraria

affermazione, reperibile in alcune sentenze di questa corte che

parlano di «giudizio di merito insindacabile in sede di legittimi tà» (da ultimo, Cass. 7 agosto 1996, n. 7223, id., Rep. 1997, voce cit., n. 180), corrisponde in realtà all'inclinazione, propria

dell'organo statale di nomofilachia (organo tecnico e non eletti

vo), a non sostituirsi nelle scelte di valore agli organi di autono mia e di autocrinia degli ordinamenti professionali.

Per quanto attiene al caso di specie, non può esser condivisa

la censura, mossa dal ricorrente ex art. 360, n. 3, cit., secondo

la quale la sezione disciplinare non ha definito, o ha definito in modo arbitrario, l'illecito in questione.

Al contrario, la sezione ha fondato la propria interpretazione dell'art. 18 cit. anzitutto sull'art. 6 del codice etico adottato

dal comitato direttivo centrale dell'associazione nazionale magi strati ai sensi dell'art. 58 bis d.leg. n. 29 del 1993 e precisamen te sul capoverso — riportato nella sentenza e sul contenuto del

quale il ricorrente nulla obietta — secondo cui il magistrato, «quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informa

zioni conosciute per ragioni del suo ufficio e ritiene di dover

fornire notizie sull'attività giudiziaria, al fine di garantire la cor retta informazione dei cittadini e l'esercizio del diritto di crona

ca, ovvero di tutelare l'onore e la reputazione dei cittadini, evi

ta la costituzione o l'utilizzazione dei canali informativi perso nali riservati o privilegiati (2° comma)».

La sezione disciplinare ha poi richiamato due risoluzioni del

consiglio superiore: la prima, del 19 maggio 1993, che ricondu ce all'art. 21 Cost, il diritto del magistrato «segnatamente nelle

inchieste giudiziarie di particolare rilievo, di fornire le precisa zioni necessarie per dissipare equivoci e per impedire distorsio

ni, al fine di contribuire ad una corretta informazione», e la

seconda, dal 1° dicembre 1994, che richiama l'art. 6 del codice

etico, sopra riportato.

Ancora, la sentenza qui impugnata ricorda che il dovere di

riservatezza, da osservare anche fuori dell'ufficio a tutela del

l'immagine di indipendenza e di imparzialità, è stato sancito anche nella citata sentenza della Corte costituzionale n. 100 del

1981, nonché in precedenti della stessa sezione disciplinare (sent. 23 aprile 1974, proc. nn. 247 e 254). Si tratta di un dovere, diverso da quello del segreto, di non diffusione ingiustificata di notizie apprese nell'attività d'ufficio (sez. disc. Csm, sent. 11 novembre 1971, proc. n. 188/71).

Da queste premesse la sentenza trae un'interpretazione del

più volte citato art. 18, secondo cui, anche quando non si tratti di atti giudiziari coperti dal segreto, come nel caso di specie, il magistrato è tenuto alla riservatezza intesa più specificamente come dovere di non riferire ad organi di stampa ed insussistente

quando sia necessario garantire la corretta informazione dei cit tadini e l'esercizio del diritto di cronaca (art. 6, 2° comma), ma sicuramente violato quando la notizia sia idonea a provoca re il rischio di interferenza o di pregiudizio alle indagini in cor so (pag. 14 della sentenza, ultimo periodo).

La sezione disciplinare, inoltre, non ritiene che la notorietà, seppure in termini non del tutto corrispondenti al vero, dei fatti

divulgati dal magistrato possa costituire un'esimente.

Questa interpretazione dell'art. 18 cit. non appare contraria ad alcuna norma di diritto e perciò non è censurabile in questa

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Page 5: sezioni unite civili; sentenza 20 novembre 1998, n. 11732; Pres. La Torre, Est. Roselli, P.M. Fedeli (concl. diff.); Vigna (Avv. Giacobbe) c. Min. grazia e giustizia (Avv. dello Stato

GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

sede. Esatto è, in particolare, che una volontà di rettificare im

precise notizie di stampa non può portare al sacrificio anche

parziale dell'attività investigativa. È vero, ed è stato rilevato dalla dottrina fin dai primi anni

di entrata in vigore della Costituzione, che i mezzi di comunica

zione di massa costituiscono strumento di controllo anche dei

modi di esercizio delle pubbliche funzioni e in particolare della

giustizia, amministrata in nome del popolo (art. 101 Cost.) (cfr. Cass. 5 marzo 1979, Campili, id., 1980, II, 304), sì che sussiste

un pubblico interesse alla veridicità delle notizie riguardanti i

procedimenti giudiziari. In ciò sta la ratio del riportato art. 6, 2° comma, del codice etico e quindi l'eccezione al dovere di

riserbo «in relazione a materia di vivo interesse» (sez. disc. Csm, sent. 26 novembre 1993, proc. n. 7/93).

Ma è altrettanto vero che questo interesse deve essere bilan

ciato sia con le esigenze di giustizia, e in particolare, con la

necessità di evitare che la notizia fornita dalla fonte qualificata alteri l'acquisizione delle prove nel processo, sia con l'attenua

zione anche della sola apparenza d'imparzialità del singolo ma

gistrato, che potrebbe sembrare partecipe al cosiddetto processo

parallelo, celebrato nella comunicazione di massa invece che nelle

aule di giustizia (sez. disc. Csm, sent. 6 aprile 1992, proc. nn.

10/90, 62 e 73/91). La definizione dell'illecito contenuta nella sentenza impugna

ta è dunque non meritevole delle doglianze del ricorrente. Que ste sono per contro fondate sotto il profilo dell'art. 360, n.

5, c.p.c. ossia dell'insufficiente motivazione in ordine all'accer

tamento dei fatti posti a base dell'incolpazione. Motivazione

che deve essere «tanto più rigorosa ed esauriente quanto meno

specifica è la formula che descrive i comportamenti sanzionati»

(Corte cost., sent. n. 356 del 1995, cit.). La sezione disciplinare afferma, nella pag. 14 della sentenza:

«È appena il caso di aggiungere che non ogni e qualsiasi notizia

divulgata, relativa al contenuto di atti di indagine, deve ritener

si rilevante e dunque idonea ad integrare la violazione del dove

re di riservatezza, sanzionabile in sede disciplinare, bensì la no

tizia che, per il suo contenuto intrinseco e per il contesto tem

porale in cui si colloca, appare astrattamente idonea a provocare

quel rischio di interferenza o di pregiudizio alle indagini di cui

si è fatto cenno in precedenza». Così definito, l'illecito disciplinare in questione appare inte

grato dai due elementi, della condotta del magistrato, il quale rileva fatti relativi ad un processo conosciuto a causa del suo

ufficio, e del pericolo di interferenza o pregiudizio per le inda

gini. Trattasi perciò di illecito di pericolo. È necessario allora richiamare la distinzione, nota ai penalisti

ma valida anche nel campo degli illeciti disciplinari, fra illeciti

di pericolo astratto e illeciti di pericolo concreto. Nei primi la

valutazione di idoneità della condotta a produrre un danno vie

ne compiuta in via preventiva e generale, in sede di configura zione della fattispecie, con la conseguenza che il giudice-interprete non può, una volta verificata la condotta, escludere l'illecito

adducendo che in concreto non si è verificato alcun pericolo,

poiché questo è implicito nella stessa condotta (come avviene,

per esempio, nel delitto di fabbricazione o detenzione di mate

rie esplodenti: art. 435, cpv., c.p.).

Negli illeciti di pericolo concreto, per contro, è in relazione

al caso singolo che deve determinarsi se una situazione di peri colo si sia effettivamente verificata (come, ad esempio, nell'in

cendio di cosa propria ex art. 423, 2° comma, c.p. punibile solo se dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità pubblica).

Ciò premesso, non può esser dubbio che l'illecito disciplinare in questione debba qualificarsi come di pericolo concreto.

Ed infatti in via di astratta e pur remota ipotesi la rivelazione

di qualsiasi notizia è idonea ad influire negativamente su un

procedimento penale, anche quella apparentemente più banale

ed insignificante, con la conseguenza che, se all'integrazione del

l'illecito in questione bastasse il primo dei due elementi ora det

ti, il solo fatto della rivelazione conterrebbe, in via di presun

zione assoluta, il pericolo per le indagini. Se invece si ritiene,

con la sezione disciplinare, che al comportamento rivelativo debba

aggiungersi un ulteriore elemento della fattispecie, ossia il peri

colo per il corretto svolgimento delle indagini, allora l'inflizione

della sanzione dev'essere giustificata con un minimo di riferi

menti al caso concreto, non essendo sufficiente, ed anzi risul

tando contraddittoria, l'affermazione di astratta idoneità del com

portamento. Non occorre che il danno si sia realizzato ma è

Il Foro Italiano — 1999.

pur sempre necessario che il pericolo appaia effettivo e concreto.

Orbene, dopo aver dato la definizione di cui sopra la sezione

disciplinare aggiunge: «Nel caso di specie deve ritenersi che le

notizie dal dr. Vigna divulgate nell'intervista in cui si tratta era

no di per sé idonee ad interferire nel processo in corso di svolgi mento . . .». Nel seguito della sentenza, poi, essa non dice, nep

pure per cenni, quale incidenza la divulgazione abbia potuto avere sul detto processo. Si legge bensì nella motivazione che

questo, siccome riguardante i rapporti tra mafia e politica, su

scitava clamore ed interesse sui giornali e vedeva il pubblico diviso tra «innocentisti» e «colpevolisti», ma invano si cerca

l'indicazione anche generica degli atti o della fase processuale su cui la notizia fornita dall'attuale incolpato avrebbe interferi

to o quali attività investigative abbia potuto pregiudicare. Dalla

sentenza risulta solamente che il magistrato, interpellato dal gior

nalista, si limitò con brevissime battute a rettificare, nel senso

di restringere la portata di notizie già note alla stampa. Che l'intervista abbia potuto provocare nuove polemiche gior

nalistiche, come osserva ancora la sezione disciplinare, è un fat

to che, di per sé solo, non lede alcun interesse dell'ordinamen

to, e tanto meno un interesse costituzionalmente protetto, trat

tandosi pacificamente di processo già ben noto al pubblico ed

ampiamente illustrato da giornali e televisione (il riserbo dei

mezzi di comunicazione sui processi pendenti sarebbe necessa

rio anzitutto a protezione degli imputati ma, realisticamente, richiederebbe la brevità dei processi medesimi), e comunque ciò

non comporta necessariamente un pericolo per le indagini. Peri

colo a cui, ripetesi, la sezione disciplinare non dedica effettiva

mente il sostegno di un'argomentazione che vada al di là del

constatato clamore di stampa. L'art. 18 r.d.leg. cit. tutela certamente il prestigio, ossia la

credibilità, dell'ordine giudiziario attraverso l'imparzialità, so

stanziale ed apparente, del singolo magistrato: ma nella senten

za impugnata non è detto come il ridimensionamento di una

notizia di stampa, sollecitata da un giornalista, possa avere of

fuscato l'immagine di imparzialità dell'incolpato. Il più volte citato art. 6 del codice etico vieta la sollecitazione

di pubblicità sull'attività del proprio ufficio, e la sezione affer

ma chiaramente che l'incolpato non sollecitò alcunché ma anzi

fu raggiunto col telefono dal giornalista. E d'altra parte, poiché non risulta nemmeno che il colloquio fu sollecitato, non si può nemmeno parlare di costituzione o utilizzazione di canali infor

mativi riservati o privilegiati, di cui allo stesso art. 6.

Infine, le considerazioni contenute nella sentenza qui impu

gnata e relative alla circostanza che più magistrati indagassero sullo stesso fatto ed al possibile insorgere, nella stampa e nel

pubblico, di dubbi circa dissensi tra di loro, attengono al piano

dell'opportunità dei comportamenti, ma ciò solo non basta a

dar luogo a responsabilità disciplinare. Del resto, che non sem

pre i magistrati concordino nelle valutazioni è eventualità previ sta nell'ordinamento processuale e quindi di per sé non patolo

gica, ossia non idonea a menomare il prestigio dell'ordine giu diziario.

Diversa è la situazione in cui il singolo magistrato faccia par te di un cosiddetto pool investigativo, costituito all'interno di

un singolo ufficio giudiziario per disposizione del capo, e con

travvenga ad una regola, esplicitamente impartita, di previa con

sultazione nell'esercizio dell'attività istruttoria: situazione in cui

ben può ravvisarsi un illecito disciplinare (Cass. 10 luglio 1997, n. 6255, id., Rep. 1997, voce cit., n. 185).

In conclusione, l'accoglimento del secondo e terzo motivo di

ricorso, nelle sole parti attinenti all'insufficienza della motiva

zione, determina la cassazione della sentenza qui impugnata ed

il rinvio alla stessa sezione disciplinare.

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