Sezioni unite civili; sentenza 27 luglio 1963, n. 2082; Pres. Tavolaro P. P., Est. Pece, P. M.Criscuoli (concl. parz. diff.); Sechi (Avv. Regard, Beorchia Nigris) c. I.n.p.s. (Avv. Aureli,Pizzicannella, Nardone, Migliorelli) e Fall. Soc. «Minierfrigo »Source: Il Foro Italiano, Vol. 86, No. 9 (1963), pp. 1883/1884-1891/1892Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23152849 .
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1883 PARTE PRIMA 1884
un substrato economico © contrattuale, ma tuttavia è
contraddistinto dalla partecipazione all'astensione dal lavoro di prestatori di opera appartenenti ad altra e diversa cate
goria professionale, direttamente interessati alla soluzione
dell'insorta questione sindacale.
Il problema della liceità o meno di tale particolare astensione dal lavoro, cbe, com'è noto, trovasi ipotizzata nell'art. 505 cod. pen., non è suscettibile di una astratta
soluzione, cbe prescinda, cioè, dalle speciali modalità della
concreta fattispecie. Indubbiamente uno sciopero cbe si proponga di tute
lare un interesse altrui non può non ritenersi illegittimo, per difetto del necessario presupposto di un proprio inte
resse professionale, siccbè viene meno alla sua obiettiva
ragione giustificatrice l'astensione lavorativa attuata per un semplice e generico intento di solidarietà. E, però, la
mancanza del requisito di un interesse proprio non può farsi discendere dalla mera circostanza cbe il conflitto eco
nomico in atto riguardi una organizzazione settoriale di
versa da quella alla quale appartengono i lavoratori ade
renti allo sciopero. Per vero, ai fini della tutela dell'in
teresse professionale, l'àmbito della impresa o della cate
goria va riguardato da un più ampio punto di vista, come
del resto è dato molto spesso desumere dalla meno artico lata struttura organizzativa o inquadramento dei lavoratori
rispetto ai sindacati padronali. Il cbe vai quanto dire che, nella dinamica del rapporto di lavoro, deve riconoscersi la
esistenza di interessi comuni a intere categorie di lavoratori e
tale elemento solidaristico è individuale in concreto, o sotto
l'aspetto formale del comune inquadramento di secondo o
terzo grado, ovvero, infine, dal punto di vista sostanziale del comune interesse, quando, cioè, la controversia in atto
investa una questione di rilevanza generale, come, ad es., la costituzione e il funzionamento delle commissioni in terne. Orbene nell'ipotesi anzidetta è evidente cbe tali
interessi, pur se direttamente minacciati soltanto rispetto ai dipendenti di talune imprese, possono, in difetto di
tempestiva tutela, essere pregiudicati, in un futuro più o meno prossimo, ancbe nei confronti degli altri lavoratori, e sotto questo riflesso l'intera categoria professionale deve ritenersi immediatamente legittimata all'esercizio dell'au
totutela.
In definitiva, come pure riconosciuto dalla Corte cost, con la sentenza 28 dicembre 1962, n. 123 (Foro it., 1963, I, 5), lo sciopero di solidarietà, effettuato in appoggio a
rivendicazioni di carattere economico cui si rivolge la so
spensione dal lavoro già in via di svolgimento, è lecito e
giustificato unicamente quando sia accertata in concreto la esistenza di una comunanza, sia pure indiretta, di inte
ressi, la quale soltanto legittima, e anzi rende necessaria l'associazione di tutti gli appartenenti alla categoria inte
ressata in uno sforzo comune per il perseguimento di una
più energica ed efficace tutela. La denunciata sentenza ba completamente disatteso i
su indicati principi giuridici avendo invece ritenuto che
ogni e qualsiasi sciopero di solidarietà debba qualificarsi legittimo.
Pertanto il ricorso deve essere accolto restando ovvia mente assorbiti gli altri motivi di doglianza proposti con lo stesso mezzo, e la causa va rinviata ad altro giudice al fine di accertare, alla stregua della obiettiva situazione di
fatto, la sussistenza dei requisiti sopra menzionati, e cioè la specie e il grado del collegamento tra gli interessi econo
mici, rispettivamente oggetto della astensione lavorativa
già in atto e del successivo sciopero di solidarietà. Il giu dice di rinvio provvederà anche sulle spese di questo grado del giudizio.
Va infine ordinata la restituzione del deposito, anche
perchè non dovuto data la natura della controversia. Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezioni unite civili ; sentenza 27 luglio 1963, n. 2082 ; Pres. Tavolaro P. P., Est. Pece, P. M. Criscuoli
(conci, parz. diff.) ; Sechi (Aw. Regard, Beorchia
Nigris) c. I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicanneixa, Nar
done, Migliorelli) e Fall. Soc. « Minierfrigo ».
(Oassa App. Bologna 17 giugno 1960)
Fallimento — Concordato — Decadenza del terzo
garante per inattività — Insussistenza (Cod. civ., art. 1957 ; r. d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del
fallimento, art. 140). Fallimento — Accertamento del passivo — Elletti
del decreto di ammissione sulle prescrizioni brevi (Cod. civ., art. 2953 ; r. d. 16 marzo 1942 n.
267, art. 97).
La decadenza del fideiussore per inattività prevista nell'art. 1957 cod. civ., non si applica al terzo garante del con cordato fallimentare, pur se questo non sia risolto nè annullato. (1)
Il credito, ammesso al passivo del fallimento con decreto del
giudice delegato non opposto, continua ad essere assog gettato alla originaria prescrizione breve. (2)
(1) Di avviso contrario è Trib. Catania 15 marzo 1961, Foro it., Rep. 1961, voce Fallimento, n. 24 , che ritiene appli cabile l'art. 1957 cod. civ. alla fideiussione prestata dal garante del concordato ; conforme alla sentenza riportata è invece Trib. Palermo 24 aprile 1959, id., Rep. 1960, voce cit., n. 652. Per riferimenti, può consultarsi altresì App. Palermo 27 novembre 1961, id., Rep. 1962, voce cit., n. 650, che ha escluso l'appli cabilità della norma in tema di assunzione del concordato.
(2) In ordine all'autorità, dei provvedimenti adottati dal giudice delegato sulle domande di ammissione al passivo, se ad essi debba cioè riconoscersi efficacia di cosa giudicata o soltanto un effetto preclusivo nel]'àmbito del processo falli mentare, non vi è pieno accordo in giurisprudenza fra le decisioni della Suprema corte e quelle dei giudici di merito. La Cassazione ha più volte ribadito la tesi dell'efficacia limitata all'àmbito del processo fallimentare ; si vedano in tal senso : sent. 6 ottobre 1962, n. 2841, Foro it., Rep. 1962, voce Fallimento, n. 633 ; 13 ottobre 1961 n. 2126, id., Rep. 1961, voce cit., n. 437 ; 13 ottobre 1961, n. 2127, ibid., n. 441 ; 12 novembre 1960, n. 3031, id., Rep. 1960, voce cit., n. 541, che parla tuttavia di «autorità di giudicato » nell'àmbito del processo fallimentare ; 27 maggio 1958, n. 1771, id., Rep. 1958, voce cit., n. 572 ; 9 luglio 1957, n. 2712, id., 1958, I, 741, con nota di richiami.
Si uniformano all'indirizzo della Cassazione : Trib. Firenze 4 maggio 1962, id., Rep. 1962, voce cit., n. 528 ; App. Milano 10 febbraio 1961 id., Rep. 1961, voce cit., n. 364 ; Trib. Milano 24 aprile 1960, id., Rep. 1960, voce cit., n. 543 ; Trib. Milano 20 giugno 1960, ibid., n. 544 ; Trib. Roma 30 maggio 1960, ibid., n. 467.
Dissentono tuttavia da tale indirizzo talune corti di merito, che ritengono l'efficacia di cosa giudicata del decreto del giu dice delegato ; in tal senso si vedano : Trib. Livorno 5 marzo 1960, id., Rep. 1960, voce cit., n. 542 ; App. Firenze 3 luglio 1958, id., Rep. 1958, voce cit., n. 360 ; Trib. Latina 18 luglio 1958, ibid., n. 451, in motivazione ; Trib. Roma 15 gennaio 1958, ibid., n. 491, in motivazione ; App. Roma 30 gennaio 1957, id., Rep. 1957, voce cit., n. 360 e 29 marzo 1957, id., 1958, X, 742.
In senso contrario alla giurisprudenza dominante, si con sultino in dottrina Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, 1957, pag. 260 (sulla natura giurisdizionale del procedimento di veri ficazione dei crediti, si veda lo stesso A., op. cit., pag. 249, il quale ravvisa un'analogia fra decreto del giudice delegato e decreto di ingiunzione ; in tal senso è anche Case. 13 ottobre 1961, n. 2126, Foro it., Rep. 1961, voce cit., n. 437, che rav visa fra procedimento di verificazione dei crediti in materia fal limentare e procedimento monitorio una # affinità », escludendo tuttavia l'« identità » fra di essi) ; Ferrara, Fallimento, 1959, pag. 354 segg. ; Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, 1955, II, pag. 702 ; v., invece, in senso conforme alla giurispru denza dominante, Db Martini, in Giur. Cass. civ., 1945, I, 130 ; Garbagnati, in Biv. dir. proc-, 1943, II, 137 ; Zapparoli, In troduzione a uno studio sul contraddittore fallimentare, 1962, pag. 101, in nota; Andrioli, in Annali della Università di Genova (Facoltà di giurisprudenza), 1962, pag. 127.
Sul caso specifico non risultano precedenti editi.
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giurisprudenza costituzionale e ciVilè
La Corte, ecc. — La sentenza impugnata ha affer
mato che alle garanzie prestate da terzi per la esecuzione
del concordato fallimentare non è applicabile il termine
di decadenza di sei mesi che, con decorrenza dalla sca
denza della obbligazione principale, è previsto dal 1°
comma dell'art. 1957 cod. civile.
Il ricorrente Sechi ha denunziato, con il primo mezzo
del ricorso, tale decisione ed ha dedotto che la decadenza
di cui sopra si applica anche in tema di concordato fai
limentare.
La censura non è fondata.
Più specificamente, il ricorrente afferma:
1) che, una volta definita la procedura concorsuale
mediante omologazione del concordato, cessa l'applica bilità della legge fallimentare, alla quale subentra, per
quanto attiene alla esecuzione del concordato, la legge comune e quindi, per quanto attiene alle garanzie date
da terzi nel concordato, lo speciale termine di decadenza
ex art. 1957 cod. civile ;
2) che l'art. 140 della legge fallimentare, statuendo
che nella ipotesi di riapertura del fallimento i creditori
anteriori conservano le garanzie per le somme tuttora ad
essi dovute in base al concordato risolto o annullato, ha
dettato una disposizione di carattere eccezionale, valevole
per la ipotesi di risoluzione o di annullamento del con
cordato, ma non anche per la ipotesi (verificatasi nella
specie) in cui il concordato sia restato definitivo perchè non più risolubile nè annullabile, stante l'avvenuto decorso
dei termini relativi ;
3) che, qualora non si volesse ritenere che il termine
semestrale di decadenza decorre, nella ipotesi del con
cordato fallimentare, dalla scadenza dell'ultimo pagamento stabilito nel concordato, bisognerebbe ritenere che il ter
mine predetto inizia a decorrere dalla scadenza dell'anno
utile per la risoluzione del concordato ovvero, al massimo, dalla scadenza del biennio utile all'annullamento del con
cordato stesso.
Le suesposte affermazioni non possono essere condivise.
Le stesse, infatti, operano una frattura nella unitarietà
della disciplina dettata per il concordato fallimentare
dalla legge speciale, con la conseguenza di una inammis
sibile commistione tra la predetta legge speciale e le norme
comuni in materia di fideiussione.
Non è esatto che, con il passaggio in giudicato della
sentenza di omologazione del concordato, venga a cessare
l'applicab'lità della legge fallimentare. Nè è prova con
traria la stessa possibilità di risoluzione o di annullamento
del concordato secondo le norme speciali della legge fal
limentare, con conseguenze che si discostano dai principi comuni.
Infatti, è stato già posto in evidenza dalla dottrina
come, solo per la ipotesi specifica della risoluzione del
concordato, la conservazione delle garanzie si presenta
giustificata dal fatto che quella risoluzione è conseguenza anche dello inadempimento da parte dei garanti. Al con
trario, la conservazione delle garanzie non può essere giu stificata con il ricorso ai comuni principi nella ipotesi di annullamento del concordato, postochè, con detto an
nullamento, le predette garanzie resterebbero non più
giustificate da una specifica causale giuridica e i garanti dovrebbero poter esperire, secondo le regole comuni, la
repetitio indebiti per le prestazioni già da essi eseguite. Ciò nonostante, la legge fallimentare (art. 140) ha espres
samente dettato la conservazione delle garanzie, a favore
dei creditori anteriori, e nella ipotesi di risoluzione e in
quella di annullamento del concordato. E ciò perchè sia
la risoluzione sia l'annullamento predetti sono stati dettati
a tutela dei creditori e pertanto non possono essere con
siderati come strumenti per cancellare ab imis il concor
dato e ridurre i rapporti con i creditori allo stato anteriore
al concordato stesso. Al contrario, la legge fallimentare ha
voluto assicurare, in ogni caso, ai creditori le conseguenze favorevoli del concordato già concluso, sicché quest'ultimo
quand'anche successivamente risolto o annullato, non
residua come mero fatto storico, ma come fatto giuridico,
produttivo di effetti giuridici persistenti.
Di qui la conservazione della efficacia delle garanzie
prestate dai terzi. Le suesposte considerazioni acquistano maggiore evi
denza nella ipotesi in cui, non essendo stato nè annullato nè risolto il concordato, le obbligazioni ad esso relative
si trovino (come nella specie in esame) tuttora in fase di esecuzione.
In tal caso, infatti, il persistere della efficacia delle
garanzie tende proprio alla attuazione della finalità spe cifica per la quale esse garanzie furono prestate.
I rilievi sopra lumeggiati testimoniano una intrinseca
incompatibilità giuridica tra il termine semestrale di de
cadenza ex art. 1957 cod. civ. e la disciplina delle ga ranzie per il concordato secondo le norme speciali della
legge fallimentare.
Tale incompatibilità vale anche ad escludere la tesi
subordinata del ricorrente, secondo cui, nella ipotesi di
concordato non risolto nè annullato, il termine semestrale
dell'art. 1957 cod. civ. dovrebbe iniziare a decorrere dalla
scadenza dell'anno utile alla risoluzione o, al massimo, dalla scadenza del biennio utile per l'annullamento del
concordato.
II primo mezzo del ricorso deve essere quindi disatteso
e deve essere affermato il principio che « il termine di de
cadenza di sei mesi previsto dall'art. 1957 cod. civ. non
è applicabile alle garanzie prestate dai terzi per la ese
cuzione del concordato fallimentare ».
La seconda questione che si presentava in causa era
quella di decidere (ai fini di accertare se dovesse applicarsi il termine di prescrizione proprio dei rapporti originari
oppure quello della prescrizione dell'actio iudicati) se il
provvedimento con il quale il giudice delegato dichiara
esecutivo lo stato passivo del fallimento, acquisti, nel
caso di mancata opposizione, efficacia di cosa giudicata ovvero abbia solo efficacia preclusiva nell'ambito della
procedura fallimentare. La sentenza impugnata ha ritenuto la tesi del giudicato. Il ricorrente insorge avverso tale conclusione con il
secondo mezzo del ricorso, affermando la tesi della pre clusione.
La censura è fondata.
La giurisprudenza di questa Corte suprema è per la
esclusione del giudicato e per l'affermazione che il prov vedimento con il quale il giudice delegato decide sul
l'ammissione dei vari crediti al passivo fallimentare spiega efficacia preclusiva entro l'àmbito della procedura del fal
limento, ma non acquista valore di cosa giudicata, la quale ultima è conseguente solo alla sentenza che, in caso di
opposizione allo stato passivo, decide definitivamente
sulla predetta opposizione. Il suesposto principio deve essere tenuto fermo.
La Corte d'appello ha motivato la soluzione contraria, che afferma la cosa giudicata, con le seguenti considerazioni.
A) La fase di accertamento dei crediti, da parte del
giudice delegato, ha carattere giurisdizionale.
B) Il provvedimento del giudice delegato deve ri
tenersi emanato nei confronti del fallito ed è opponibile a quest'ultimo, il quale, oltre che essere rappresentato dal curatore, deve essere sentito dal giudice delegato, sicché, se egli non avanza osservazioni, il credito deve
ritenersi accertato con il suo consenso ; mentre, se formula
osservazioni, le eventuali conclusioni diverse da parte del curatore sono indifferenti, posto che la decisione del
giudice delegato interviene sulle une e sulle altre.
Devono inoltre essere vagliate le seguenti ulteriori
argomentazioni, avanzate, volta a volta, a favore della
tesi del giudicato da una parte della dottrina.
0) La Relazione ministeriale alla legge fallimentare
pone in evidenza (§ 20, Le Leggi, 1942, 330) l'affinità tra
il procedimento di verifica dei crediti ed il procedimento monitorio.
D) Non ha rilievo il particolare che i provvedimenti sulla verifica dei crediti non vengano emanati nei con
fronti diretti del fallito ; nè vale richiamarsi ad una me
nomata facoltà di difesa diretta da parte del fallito me
desimo, in quanto tutto ciò è conseguenza del modo come
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1887 £ARTE PRIMA 1888
è articolata la procedura fallimentare, ed in quanto il de
bitore è sottoposto, perfino nel caso di revoca della di
chiarazione di fallimento, a subire le situazioni giuridiche
poste in essere regolarmente dagli organi fallimentari (ex art. 21 legge fallimentare).
E) Posto che la domanda di ammissione al passivo
produce gli effetti della domanda giudiziale (art. 94 legge
fall.) e posto che i singoli processi conseguenti alle opposi zioni ex art. 98 e 100 della legge fallimentare hanno natura
cognitoria, non è possibile che la natura dell'azione pro
posta ab initio venga a subire, in itinere, delle trasforma
zioni, sicché possa passare in giudicato la sentenza che
conclude l'opposizione avverso il decreto, del giudice de
legato, di esecutorietà dello stato passivo e non possa invece passare in cosa giudicata, in mancanza di opposi
zione, il predetto decreto di esecutorietà.
F) Il decreto con il quale il giudice delegato ha
ammesso un credito o una garanzia è suscettibile di re
vocazione per gli stessi motivi per i quali è ammessa la
revocazione delle sentenze (ex 1° comma dell'art. 102
legge fallimentare).
Inoltre, se il fallimento si chiude senza che la con
testazione sulla revocazione sia stata decisa, il giudizio
continua, dinanzi allo stesso tribunale, nei confronti del
l'ex fallito (ult. comma del citato art. 102). Ciò presuppone che l'accertamento del credito a carico
del debitore spieghi efficacia anche dopo la chiusura del
fallimento, stante che, se così non fosse, non si spiegherebbe la continuazione del giudizio tendente ad ottenere la re
voca di quell'accertamento che, una volta chiuso il falli
mento, l'ex fallito avrebbe potuto ugualmente disconoscere.
Le argomentazioni sopra riassunte non hanno valore
decisivo.
Il carattere giurisdizionale dell'attività del giudice de
legato, in sede di verificazione dei crediti, non importa che il decreto di ammissione debba, se non opposto, sfo
ciare nella cosa giudicata. Pur senza addentrarsi nel problema della interdipen
denza o meno dei concetti di giurisdizione e di giudicato, è sufficiente ricordare la giurisdizione volontaria, tra i
cui effetti tipici è quello della mancanza della cosa giu dicata, tanto che una parte della dottrina assume, come
è noto, proprio la possibilità o meno del formarsi del giu dicato, quale criterio per differenziare la giurisdizione contenziosa da quella volontaria.
Nè vale richiamarsi all'asserto carattere decisorio del
decreto di ammissione al passivo per rilevarne, come è stato fatto, che un provvedimento giurisdizionale decisorio è destinato ad acquistare carattere definitivo. Infatti, a parte che i concetti di definitività e di decisorietà non sono necessariamente interdipendenti, così come è dimo strato dalla differenza concettuale tra preclusione e giu dicato, il problema consiste proprio nell'accertare se l'ac cennato carattere di definitività debba ritenersi circo scritto all'ambito della procedura fallimentare, risolven dosi in mera preclusione nel predetto àmbito, oppure se detto carattere di definitività agisca anche in sede extra
fallimentare, e cioè, a fallimento chiuso, con l'efficacia della cosa giudicata.
Il fatto, poi, che la formazione e la verificazione dello stato passivo si svolga con l'intervento del fallito, il quale deve essere sentito e può svolgere le proprie osservazioni
(art. 95 e 96 legge fall.), non elimina il carattere sommario della indagine, che, per le stesse esigenze della procedura concorsuale, si presenta, per la fase innanzi al giudice de
legato, condensata e nel tempo e nelle modalità di svolgi mento.
Nè vale ancora osservare che la menomata facoltà di una difesa diretta da parte del fallito è conseguenza del modo come è articolata la procedura fallimentare e che, inoltre, dall'art. 21 legge fall, si ricava che il fallito è vin colato dalle situazioni giuridiche poste regolarmente in essere dagli organi fallimentari.
Le predette osservazioni non solo non risolvono lo
specifico problema in esame, ma, anzi, mettendone in evi denza la delicatezza e gravità delle conseguenze, inducono
a contenerne la soluzione entro le reali esigenze della pro cedura fallimentare e quindi, se giustificano la riconosciuta
efficacia preclusiva del decreto di ammissione al passivo nell'àmbito della suddetta procedura, non valgono invece
a giustificare la proiezione di quella efficacia anche al di
là della chiusura del fallimento.
Non riveste carattere decisivo neppure il richiamo
all'art. 94 legge fallimentare.
Il fatto che, in virtù di detto articolo, la domanda
di ammissione al passivo produce gli effetti della do
manda giudiziale vale ad assicurare i normali effetti so
stanziali e processuali, ricollegabili alla domanda giudi ziale (preclusione della decadenza ; interruzione della pre scrizione, ecc.), ma non importa anche la identità di natura
giuridica tra le due domande e che, di conseguenza, il
decreto del giudice delegato di ammissione al passivo sia
suscettibile del passaggio in cosa giudicata.
Infatti, nel procedimento sommario (per la ipotesi che le passività del debitore non superino un milione e
cinquecentomila lire) si prescinde, per la formazione dello
stato passivo, dalla necessità della istanza di ammissione
al passivo da parte dei vari creditori. Ciò nonostante, il
decreto del giudice delegato, che forma lo stato passivo e lo rende esecutive ex art. 157 legge fall, non potrebbe
avere, e, in effetti, non ha, natura giuridica diversa da
quella del decreto che il giudice delegato emette ex art. 97
della stessa legge, nei fallimenti con passivo superiore a
lire 1.500.000.
Il che dimostra che la soluzione del problema sulla
formazione o meno del giudicato in base al decreto del
giudice delegato di ammissione al passivo non può restare
influenzata dal disposto dell'art. 94.
Ne consegue ancora che dal menzionato art. 94 non può ricavarsi la equiparazione tra le due situazioni che si con
cludono, l'una, con il decreto del giudice delegato (ex art. 97), l'altra, con la sentenza che decide definitivamente
(ex art. 98 e 99) sulle opposizioni allo stato passivo. Al
contrario, stante la differenza (che appresso sarà posta in evidenza) tra le predette due situazioni, non può af
fermarsi che entrambe siano destinate a concludersi con
un provvedimento suscettibile di passare in cosa giudicata e che la esclusione di tale soluzione importi la trasfor
mazione, in itinere, del carattere giuridico della domanda
di ammissione al passivo. Per la soluzione del quesito in esame non possono
ricavarsi argomentazioni decisive neppure dall'art. 102
della legge fallimentare, relativo alla revocazione contro
i crediti ammessi.
Come si rileva dalla procedura da osservarsi, la revo
cazione in questione è destinata normalmente ad operare nell'àmbito della procedura fallimentare.
Ne segue che il carattere definitivo, che il decreto di
ammissione al passivo svolge nell'ambito della predetta
procedura, spiega perchè sia stata concessa al curatore
e ai creditori la possibilità di agire in revocazione anche
avverso il decreto (a suo tempo, non opposto) del giu dice delegato.
E cioè la possibilità di agire in revocazione ex art. 102 non importa anche che il decreto del giudice delegato,
pur se definitivo, debba ritenersi passato in cosa giudicata. La possibilità, poi, della continuazione del giudizio
di revocazione nei confronti diretti dell'ex fallito (ai sensi
dell'ult. comma dell'art. 102), ove il fallimento si sia chiuso
senza che la contestazione sia stata decisa, non postula la ultrattività, anche dopo la chiusura del fallimento, del decreto con il quale il giudice delegato aveva ammesso il credito al passivo. La possibilità della continuazione del giudizio di revocazione nonostante l'avvenuta chiu
sura del fallimento risponde invece ad un principio di
economia dei giudizi, essendo interesse e dell'ex fallito e
dell'asserto creditore di sentire definitivamente escludere o confermare la esistenza del credito, la cui ammissione era stata impugnata con la revocazione.
Non può, infine, avere carattere decisivo il richiamo all'affinità tra il procedimento di verifica dei crediti ed il procedimento ingiuntivo.
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1889 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 1890
La predetta affinità si riduce, in definitiva, alla forma
(decreto) del provvedimento conclusivo dell'una e dell'altra
procedura, e non può annullare le differenze che pur in
tercorrono tra l'una e l'altra in dipendenza della specialità della materia fallimentare e precludono di ricavare la
possibilità del giudicato, per il decreto del giudice delegato, dal fatto che il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo
costituisce altresì cosa giudicata. Le predette differenze possono essere cosi sintetizzate :
1) Nel decreto del giudice delegato manca quella
ingiunzione (ordine di pagare una somma determinata) che caratterizza, invece, la procedura monitoria.
2) Mentre nel procedimento ingiunzionale l'oppo sizione promana dal debitore, nella verifica dei crediti in
sede fallimentare è il creditore, non ammesso in tutto
o in parte, che ha la possibilità di provocare, attraverso
la opposizione, la sentenza del tribunale.
3) Mentre, in sede normale, il creditore ha facoltà
di scegliere tra la procedura monitoria e quella ordinaria, il creditore fallimentare, se vuole realizzare il proprio credito in pendenza del fallimento e non attendere la
chiusura del fallimento stesso, deve necessariamente seguire la procedura di ammissione al passivo.
4) In sede fallimentare sono ammessi alla verifica
anche i crediti non assistiti dalle condizioni necessarie
ex art. 633 cod. proc. civ. per la emissione del decreto
ingiuntivo.
5) Mentre il creditore, al quale è stato negato il de
creto ingiuntivo, può riproporre il ricorso oppure far va
lere la propria pretesa creditoria promovendo un regolare
giudizio di cognizione, il creditore al quale fosse stata
negata l'ammissione al passivo e che non avesse impu
gnato tempestivamente il decreto del giudice delegato, dovrebbe restarne definitivamente pregiudicato qualora a
tale decreto fosse riconosciuta l'efficacia del giudicato con i conseguenti effetti anche dopo la chiusura del fal
limento.
A tutto ciò può aggiungersi la considerazione con
clusiva (già posta in evidenza dalla sent. n. 2126 del 1961
di questa Corte suprema, a Sezione semplice, Foro it., Eep.
1961, voce Fallimento, n. 437), secondo cui, mentre nel
procedimento ingiunzionale la opposizione dà vita ad un
giudizio ordinario di cognizione sull'intero contenuto del
decreto opposto, sicché quest'ultimo ne resta travolto
nella sua interezza, al contrario, l'opposizione al decreto
del giudice delegato, che rende esecutivo lo stato passivo,
opera solo nei limiti nei quali viene proposta. Al di fuori
di detti limiti, il decreto relativo allo stato passivo fal
limentare diventa definitivo, sicché non è più possibile, nell'àmbito fallimentare, la proposizione di nuove domande
né la modifica di quelle già proposta.
Esposto, come sopra, il carattere non decisivo delle
argomentazioni a favore della tesi che ravvisa, nella effi
cacia del decreto del giudice delegato non assoggettato ad opposizione, la efficacia della cosa giudicata, queste Sezioni unite ritengono che la tesi della mera preclusione eircoscritta all'àmbito della procedura fallimentare si ricavi
dalla diversa natura giuridica tra la fase di verificazione
dei crediti innanzi al giudice delegato e la fase di accer
tamento, da parte del tribunale, dei crediti contestati, a seguito della opposizione avverso il decreto del giudice
delegato. Infatti, la fase di verificazione dello stato passivo tende
direttamente ed esclusivamente all'attuazione della pro cedura concorsuale e si presenta quale espressione di quel
potere regolamentare della esecuzione ai fini concorsuali,
che il giudice delegato ripete dall'art. 25 della legge fal
limentare.
Al contrario, alle opposizioni previste dagli art. 98 e
100 della legge predetta segue una fase di vera e propria natura contenziosa, avente per oggetto l'accertamento
positivo o negativo (in tutto o in parte) del credito con
efficacia di cosa giudicata. La distinzione di cui sopra è riflessa e nella lettera
stessa della legge e nelle funzioni degli organi (giudice
delegato ; tribunale fallimentare) che operano nell'una
ti. Fono Italiano — Volume LXX.XVI — forte /-121.
e nell'altra fase, e nella diversa natura giuridica del prov vedimento che le conclude.
Nella fase di formazione dello stato passivo da parte del giudice delegato, la legge parla di predisposizione allo
stato passivo ad opera, precisamente, del giudice delegato, il quale, tenuto conto delle contestazioni e delle osserva zioni svolte dagli interessati nell'adunanza dei creditori,
apporta allo stato passivo le modificazioni e le integrazioni che esso giudice delegato ritiene necessarie e conclude
il tutto con la emanazione del decreto che rende esecutivo 10 stato passivo (ex art. 95, 96, 97 legge fallimentare).
Le stesse espressioni usate dal legislatore ed il modo
stesso di svolgimento di esse da parte del giudice delegato testimoniano per un'attività di natura indubbiamente
giurisdizionale ma non anche contenziosa, contrassegnata com'è dal carattere sommario degli accertamenti (cosiddetti accertamenti a cognizione incompleta) ; carattere sommario, che è ancora più evidente nelle procedure fallimentari con
passivo inferiore a lire 1.500.000, nelle quali, procedendosi d'ufficio alla formazione dello stato passivo, mancherebbe
addirittura il fondamento stesso della istanza di parte, neces
saria ad una procedura che possa concludersi con un prov vedimento avente efficacia di cosa giudicata (art. 155 e
segg. legge fallimentare). Al contrario, nella fase conseguente alle opposizioni,
11 giudice delegato assume le funzioni di giudice istruttore
e provvede alla normale istruttoria delle cause di op
posizione, che vengono da lui successivamente rimesse
« all'udienza per la discussione innanzi al collegio a norma
dell'art. 189 cod. proc. civ. » e sulle quali il tribunale
pronuncia con sentenza soggetta ad appello, mentre la
sentenza di appello è, a sua volta, impugnabile con ri
corso per cassazione (art. 99 legge fallimentare).
Inoltre, il 2° comma dell'ora richiamato art. 99, ac
cennando alla possibilità che alcune opposizioni abbiso
gnino di « lunga istruzione », conferma che nel giudizio di opposizione l'attività istruttoria non si risolve, come
nella precedente fase di verificazione dello stato passivo, nella proposizione di mere osservazioni e nella esibizione
di documenti, ma può articolarsi in tutte le forme previste dalla procedura ordinaria, con i soli adattamenti resi
necessari dagli effetti di natura processuale, per quel che
riguarda il fallito, originati dalla sentenza di fallimento.
E cioè, mentre il carattere di accertamento a cogni zione completa, che contrassegna la procedura di verifi
cazione innanzi al giudice delegato, spiega perchè la stessa
si concluda con un provvedimento avente forma e sostanza
di decreto, la natura decisoria di una vera e propria con
testazione a carattere sostanziale spiega perchè la defi
nizione delle cause di opposizione avvenga con sentenza.
Di qui l'ulteriore conseguenza della limitazione dell'ef
ficacia del decreto all'ambito della procedura fallimentare, in contrapposto alla efficacia, anche ultratallimentars, della
sentenza che conclude definitivamente la causa di op
posizione. Poiché nella specie in esame viene in discussione la
efficacia del decreto del giudice delegato e non anche
quella di una sentenza pronunziata in sede di opposizione al predetto decreto, alla economia della presente deci
sione sarebbero sufficienti tutte le considerazioni fin qui
svolte, senza necessità di esaminare le obiezioni che pur sono state avanzate, in sede teorica, avverso la tesi della
cosa giudicata sulla sentenza pronunziata in sede di op
posizione. Tuttavia, e per completezza di trattazione e per la con
nessione che esiste tra le due questioni, con interdipendenza di riflessi della soluzione dell'una sulla soluzione dell'altra,
è opportuno ess minare anche le predette obiezioni.
In sintesi, è stato osservato che neanche la sentenza
pronunziata a seguito di opposizione può dar luogo alla
formazione del giudicato perchè :
a) mancherebbe, nella legge e nella volontà delle
parti, la richiesta di un accertamento incidentale sulla
esistenza e sulla entità del credito opposto, sicché la re
lativa controversia si presenterebbe solo come questione
pregiudiziale (e come tale insuscettibile di giudicato) ai
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1891 PARTE PRIMA 1892
fini della ammissione o della esclusione di quel determinato credito dalla procedura concorsuale ;
b) mancherebbe il soggetto nei cui confronti il giu dicato dovrebbe formarsi, in quanto, nella procedura per la formazione dello stato passivo, il curatore, più. che la difesa del debitore fallito, assume quella del fallimento inteso quale terzo nei confront' del fallito.
c) il creditore verrebbe ad essere vincolato dal giu dicato formatosi a seguito di un giudizio nel quale la prova circa la esistenza e la entità del credito da lui dedotto è
assoggettata ai particolari limiti derivanti dai principi in materia di simulazione nei confronti dei terzi (così quale è considerato il fallimento in relazione ai rapporti tra il fallito ed i creditori), nonché dalla posizione di relativa
incapacità processuale nella quale viene a trovarsi il fal
lito, con la conseguente impossibilità sia di testimoniare sia di rispondere all'interrogatorio formale o di giurare.
Le suesposte obiezioni non valgono ad escludere la tesi del giudicato.
Già con la sentenza n. 3140 del 1953 queste Sezioni unite (Foro it., 1954, I, 326) enunciarono la differenza tra le funzioni attribuite al tribunale fallimentare dall'art. 23 della legge (ponendone in evidenza il carattere giurisdizio nale, ma la contemporanea attinenza ai poteri di direzione e di controllo delle operazioni fallimentari) e le funzioni at
tribuite allo stesso tribunale da) successivo art. 24 (di cui
posero in evidenza il carattere esclusivamente ed integral mente contenzioso).
Con la menzionata sentenza fu anche sottolineato che le opposizioni allo stato passivo si risolvono in un'azione avente per oggetto l'accertamento del diritto di credito e danno vita ad un giudizio contenzioso innanzi al tri
bunale, da concludersi con sentenza soggetta ai normali
gravami. Posti i predetti principi (che vanno tenuti fermi, co
mechè aderenti alla lettera ed allo spirito dell'art. 99 della
legge fall.), non è possibile ritenere che l'accertamento in sede contenziosa si differenzi dalla verificazione innanzi al giudice delegato solo per una maggiore ampiezza di
indagine. La differenza è data, invece, dal fatto che quell'accer
tamento, innanzi al tribunale, forma esso stesso oggetto di un regolare giudizio di cognizione, rispetto al quale la
proposta opposizione ha la natura giuridica di vera e
propria domanda giudiziale di primo grado. Ne consegue, e per la, regolamentazione fattane dalla
legge nel menzionato art. 99 e per la volontà dell'oppo nente, che l'accertamento di cui sopra non può essere con tenuto nello schema delle questioni pregiudiziali, ma as sume la natura giuridica di un accertamento incidentale, istituzionalmente destinato a dar vita al giudicato.
Diversamente opinando, non si comprenderebbe per chè la legge speciale abbia dettato la procedura specifica di cui agli art. 98 e 99 e non abbia fatto ricorso, anche
per l'opposizione allo stato passivo, al reclamo ex art. 26, sia pure adattandolo in quanto alla maggiore ampiezza di indagine ed ai termini per la pronuncia del decreto in camera di consiglio.
Non è esatto, poi, che nel giudizio di cognizione conse
guente alla opposizione sia assente il fallito. Per lo stesso suo ufficio, infatti, il curatore è tenuto a tutelare anche le eventuali ragioni del debitore fallito, tanto più che tale
tutela, tenendo normalmente alla esclusione o alla ridu zione del credito vantato dal creditore opponente, coincide con la tutela degli interessi del fallimento.
Stante ciò non vi è ragione per sottrarre il giudicato, formatosi a conclusione del giudizio di opposizione, al prin cipio di cui all'art. 21 legge fall, per cui il fallito è sog getto, anche, a fallimento revocato e quindi, a maggior ragione, a fallimento chiuso, alle situazioni giuridiche legalmente poste in essere dagli organi fallimentari.
Il rilievo, infine, circa le limitazioni di prova che il creditore incontra, nei confronti del fallimento, nel giu dizio di opposizione, non può valere ad escludere la for mazione del giudicato, stante il carattere volontario e non necessario della proposizione della opposizione stessa,
dalla quale il creditore, se ritenuto di propria conve
nienza, può anche astenersi e riservarsi di fare valere il
proprio credito (nella misura, totale o parziale, in cui è
stato escluso dal giudice delegato) direttamente verso il
debitore, a fallimento chiuso.
Concludendo, il secondo mezzo del ricorso deve essere accolto e devono essere affermati i seguenti principi di
diritto :
« I provvedimenti che, in sede di verificazione dei
crediti, vengono adottati dal giudice delegato, quand'anche non abbiano formato oggetto di opposizione, non acqui stano efficacia di cosa giudicata, ma spiegano solo effetti
preclusivi nell'ambito della procedura fallimentare. « Al contrario, la opposizione avverso i provvedimenti
di cui sopra dà vita ad un vero e proprio giudizio di co
gnizione, di natura contenziosa, sulla esistenza o meno del credito. La sentenza che chiude definitivamente tale
giudizio ha efficacia di cosa giudicata ».
L'accoglimento del secondo mezzo di ricorso determina
l'assorbimento del terzo mezzo, con il quale il Sechi ha dedotto che, una volta esclusa la efficacia di cosa giudicata nel decreto del giudice delegato, i crediti dell'Istituto re sistente dovrebbero essere dichiarati prescritti, così come
tempestivamente eccepito da esso Sechi in sede di merito. Su tale eccezione già ritenuta assorbita dal Giudice di
primo o di secondo grado, dovrà pronunziarsi il giudice di merito.
In definitiva, deve essere rigettato il primo mezzo del ricorso ; deve essere accolto il secondo mezzo, dichia randosi assorbito il terzo.
La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione e la causa rinviata per nuovo esame, limitatamente alle
questioni decise con la parte cassata della sentenza e per quelle dichiarate assorbite, ad altra corte d'appello, che deciderà anche sulle spese di questo giudizio di Cassazione.
Per questi motivi, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione III civile ; sentenza 26 luglio 1963, n. 2064 ; Pres. Naso P., Est. Felicetti, P. M. Caldarera (conci, conf.) ; Soc. an. costruzioni (Avv. Spagna) c. Sava rino (Avv. Messina).
(Gassa App. Roma 2 febbraio 1962)
Appello in materia civile — Eccezione respinta in
primo grado — Riproposizione mediante appello incidentale — Necessità — Generica enuncia zione nella comparsa di risposta — Insufficienza — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 343, 346).
Mutuo — Interessi moratori — Cumulubilità con la
penale prevista per il ritardato adempimento del contratto — Condizioni (Cod. civ., art. 1224, 1815).
Spese giudiziali — Appello — Spese del giudizio di
primo grado — Liquidazione d'ufficio difforme da quella del primo giudice — Ultrapetizione —
Fattispecie.
Impugnata dal mutuante, con appello principale, la sentenza di primo grado nella parte concernente la determinazione dell'ammontare della penale prevista per il ritardo nel
l'adempimento del contratto, il mutuatario appellato, rimasto parzialmente soccombente, ove intenda ottenere il riesame dell'eccezione di nullità della clausola relativa, respinta in primo grado, deve riproporla espressamente mediante appello incidentale e non limitarsi ad enunciarla
genericamente nella comparsa di risposta specificandone il contenuto solo nella comparsa conclusionale. (1)
(1) Sulla questione di specie non si rinvengono precedenti. Nel senso che l'appellato, che voglia insorgere contro gli
autonomi capi della sentenza di primo grado a lui contrari, deve necessariamente proporre impugnazione nelle forme dell'appello
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