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Sezioni unite civili; sentenza 27 luglio 1963, n. 2082; Pres. Tavolaro P. P., Est. Pece, P. M....

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Sezioni unite civili; sentenza 27 luglio 1963, n. 2082; Pres. Tavolaro P. P., Est. Pece, P. M. Criscuoli (concl. parz. diff.); Sechi (Avv. Regard, Beorchia Nigris) c. I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicannella, Nardone, Migliorelli) e Fall. Soc. «Minierfrigo » Source: Il Foro Italiano, Vol. 86, No. 9 (1963), pp. 1883/1884-1891/1892 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23152849 . Accessed: 24/06/2014 21:47 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 195.34.79.54 on Tue, 24 Jun 2014 21:47:00 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezioni unite civili; sentenza 27 luglio 1963, n. 2082; Pres. Tavolaro P. P., Est. Pece, P. M.Criscuoli (concl. parz. diff.); Sechi (Avv. Regard, Beorchia Nigris) c. I.n.p.s. (Avv. Aureli,Pizzicannella, Nardone, Migliorelli) e Fall. Soc. «Minierfrigo »Source: Il Foro Italiano, Vol. 86, No. 9 (1963), pp. 1883/1884-1891/1892Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23152849 .

Accessed: 24/06/2014 21:47

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1883 PARTE PRIMA 1884

un substrato economico © contrattuale, ma tuttavia è

contraddistinto dalla partecipazione all'astensione dal lavoro di prestatori di opera appartenenti ad altra e diversa cate

goria professionale, direttamente interessati alla soluzione

dell'insorta questione sindacale.

Il problema della liceità o meno di tale particolare astensione dal lavoro, cbe, com'è noto, trovasi ipotizzata nell'art. 505 cod. pen., non è suscettibile di una astratta

soluzione, cbe prescinda, cioè, dalle speciali modalità della

concreta fattispecie. Indubbiamente uno sciopero cbe si proponga di tute

lare un interesse altrui non può non ritenersi illegittimo, per difetto del necessario presupposto di un proprio inte

resse professionale, siccbè viene meno alla sua obiettiva

ragione giustificatrice l'astensione lavorativa attuata per un semplice e generico intento di solidarietà. E, però, la

mancanza del requisito di un interesse proprio non può farsi discendere dalla mera circostanza cbe il conflitto eco

nomico in atto riguardi una organizzazione settoriale di

versa da quella alla quale appartengono i lavoratori ade

renti allo sciopero. Per vero, ai fini della tutela dell'in

teresse professionale, l'àmbito della impresa o della cate

goria va riguardato da un più ampio punto di vista, come

del resto è dato molto spesso desumere dalla meno artico lata struttura organizzativa o inquadramento dei lavoratori

rispetto ai sindacati padronali. Il cbe vai quanto dire che, nella dinamica del rapporto di lavoro, deve riconoscersi la

esistenza di interessi comuni a intere categorie di lavoratori e

tale elemento solidaristico è individuale in concreto, o sotto

l'aspetto formale del comune inquadramento di secondo o

terzo grado, ovvero, infine, dal punto di vista sostanziale del comune interesse, quando, cioè, la controversia in atto

investa una questione di rilevanza generale, come, ad es., la costituzione e il funzionamento delle commissioni in terne. Orbene nell'ipotesi anzidetta è evidente cbe tali

interessi, pur se direttamente minacciati soltanto rispetto ai dipendenti di talune imprese, possono, in difetto di

tempestiva tutela, essere pregiudicati, in un futuro più o meno prossimo, ancbe nei confronti degli altri lavoratori, e sotto questo riflesso l'intera categoria professionale deve ritenersi immediatamente legittimata all'esercizio dell'au

totutela.

In definitiva, come pure riconosciuto dalla Corte cost, con la sentenza 28 dicembre 1962, n. 123 (Foro it., 1963, I, 5), lo sciopero di solidarietà, effettuato in appoggio a

rivendicazioni di carattere economico cui si rivolge la so

spensione dal lavoro già in via di svolgimento, è lecito e

giustificato unicamente quando sia accertata in concreto la esistenza di una comunanza, sia pure indiretta, di inte

ressi, la quale soltanto legittima, e anzi rende necessaria l'associazione di tutti gli appartenenti alla categoria inte

ressata in uno sforzo comune per il perseguimento di una

più energica ed efficace tutela. La denunciata sentenza ba completamente disatteso i

su indicati principi giuridici avendo invece ritenuto che

ogni e qualsiasi sciopero di solidarietà debba qualificarsi legittimo.

Pertanto il ricorso deve essere accolto restando ovvia mente assorbiti gli altri motivi di doglianza proposti con lo stesso mezzo, e la causa va rinviata ad altro giudice al fine di accertare, alla stregua della obiettiva situazione di

fatto, la sussistenza dei requisiti sopra menzionati, e cioè la specie e il grado del collegamento tra gli interessi econo

mici, rispettivamente oggetto della astensione lavorativa

già in atto e del successivo sciopero di solidarietà. Il giu dice di rinvio provvederà anche sulle spese di questo grado del giudizio.

Va infine ordinata la restituzione del deposito, anche

perchè non dovuto data la natura della controversia. Per questi motivi, cassa, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezioni unite civili ; sentenza 27 luglio 1963, n. 2082 ; Pres. Tavolaro P. P., Est. Pece, P. M. Criscuoli

(conci, parz. diff.) ; Sechi (Aw. Regard, Beorchia

Nigris) c. I.n.p.s. (Avv. Aureli, Pizzicanneixa, Nar

done, Migliorelli) e Fall. Soc. « Minierfrigo ».

(Oassa App. Bologna 17 giugno 1960)

Fallimento — Concordato — Decadenza del terzo

garante per inattività — Insussistenza (Cod. civ., art. 1957 ; r. d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del

fallimento, art. 140). Fallimento — Accertamento del passivo — Elletti

del decreto di ammissione sulle prescrizioni brevi (Cod. civ., art. 2953 ; r. d. 16 marzo 1942 n.

267, art. 97).

La decadenza del fideiussore per inattività prevista nell'art. 1957 cod. civ., non si applica al terzo garante del con cordato fallimentare, pur se questo non sia risolto nè annullato. (1)

Il credito, ammesso al passivo del fallimento con decreto del

giudice delegato non opposto, continua ad essere assog gettato alla originaria prescrizione breve. (2)

(1) Di avviso contrario è Trib. Catania 15 marzo 1961, Foro it., Rep. 1961, voce Fallimento, n. 24 , che ritiene appli cabile l'art. 1957 cod. civ. alla fideiussione prestata dal garante del concordato ; conforme alla sentenza riportata è invece Trib. Palermo 24 aprile 1959, id., Rep. 1960, voce cit., n. 652. Per riferimenti, può consultarsi altresì App. Palermo 27 novembre 1961, id., Rep. 1962, voce cit., n. 650, che ha escluso l'appli cabilità della norma in tema di assunzione del concordato.

(2) In ordine all'autorità, dei provvedimenti adottati dal giudice delegato sulle domande di ammissione al passivo, se ad essi debba cioè riconoscersi efficacia di cosa giudicata o soltanto un effetto preclusivo nel]'àmbito del processo falli mentare, non vi è pieno accordo in giurisprudenza fra le decisioni della Suprema corte e quelle dei giudici di merito. La Cassazione ha più volte ribadito la tesi dell'efficacia limitata all'àmbito del processo fallimentare ; si vedano in tal senso : sent. 6 ottobre 1962, n. 2841, Foro it., Rep. 1962, voce Fallimento, n. 633 ; 13 ottobre 1961 n. 2126, id., Rep. 1961, voce cit., n. 437 ; 13 ottobre 1961, n. 2127, ibid., n. 441 ; 12 novembre 1960, n. 3031, id., Rep. 1960, voce cit., n. 541, che parla tuttavia di «autorità di giudicato » nell'àmbito del processo fallimentare ; 27 maggio 1958, n. 1771, id., Rep. 1958, voce cit., n. 572 ; 9 luglio 1957, n. 2712, id., 1958, I, 741, con nota di richiami.

Si uniformano all'indirizzo della Cassazione : Trib. Firenze 4 maggio 1962, id., Rep. 1962, voce cit., n. 528 ; App. Milano 10 febbraio 1961 id., Rep. 1961, voce cit., n. 364 ; Trib. Milano 24 aprile 1960, id., Rep. 1960, voce cit., n. 543 ; Trib. Milano 20 giugno 1960, ibid., n. 544 ; Trib. Roma 30 maggio 1960, ibid., n. 467.

Dissentono tuttavia da tale indirizzo talune corti di merito, che ritengono l'efficacia di cosa giudicata del decreto del giu dice delegato ; in tal senso si vedano : Trib. Livorno 5 marzo 1960, id., Rep. 1960, voce cit., n. 542 ; App. Firenze 3 luglio 1958, id., Rep. 1958, voce cit., n. 360 ; Trib. Latina 18 luglio 1958, ibid., n. 451, in motivazione ; Trib. Roma 15 gennaio 1958, ibid., n. 491, in motivazione ; App. Roma 30 gennaio 1957, id., Rep. 1957, voce cit., n. 360 e 29 marzo 1957, id., 1958, X, 742.

In senso contrario alla giurisprudenza dominante, si con sultino in dottrina Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, 1957, pag. 260 (sulla natura giurisdizionale del procedimento di veri ficazione dei crediti, si veda lo stesso A., op. cit., pag. 249, il quale ravvisa un'analogia fra decreto del giudice delegato e decreto di ingiunzione ; in tal senso è anche Case. 13 ottobre 1961, n. 2126, Foro it., Rep. 1961, voce cit., n. 437, che rav visa fra procedimento di verificazione dei crediti in materia fal limentare e procedimento monitorio una # affinità », escludendo tuttavia l'« identità » fra di essi) ; Ferrara, Fallimento, 1959, pag. 354 segg. ; Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, 1955, II, pag. 702 ; v., invece, in senso conforme alla giurispru denza dominante, Db Martini, in Giur. Cass. civ., 1945, I, 130 ; Garbagnati, in Biv. dir. proc-, 1943, II, 137 ; Zapparoli, In troduzione a uno studio sul contraddittore fallimentare, 1962, pag. 101, in nota; Andrioli, in Annali della Università di Genova (Facoltà di giurisprudenza), 1962, pag. 127.

Sul caso specifico non risultano precedenti editi.

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giurisprudenza costituzionale e ciVilè

La Corte, ecc. — La sentenza impugnata ha affer

mato che alle garanzie prestate da terzi per la esecuzione

del concordato fallimentare non è applicabile il termine

di decadenza di sei mesi che, con decorrenza dalla sca

denza della obbligazione principale, è previsto dal 1°

comma dell'art. 1957 cod. civile.

Il ricorrente Sechi ha denunziato, con il primo mezzo

del ricorso, tale decisione ed ha dedotto che la decadenza

di cui sopra si applica anche in tema di concordato fai

limentare.

La censura non è fondata.

Più specificamente, il ricorrente afferma:

1) che, una volta definita la procedura concorsuale

mediante omologazione del concordato, cessa l'applica bilità della legge fallimentare, alla quale subentra, per

quanto attiene alla esecuzione del concordato, la legge comune e quindi, per quanto attiene alle garanzie date

da terzi nel concordato, lo speciale termine di decadenza

ex art. 1957 cod. civile ;

2) che l'art. 140 della legge fallimentare, statuendo

che nella ipotesi di riapertura del fallimento i creditori

anteriori conservano le garanzie per le somme tuttora ad

essi dovute in base al concordato risolto o annullato, ha

dettato una disposizione di carattere eccezionale, valevole

per la ipotesi di risoluzione o di annullamento del con

cordato, ma non anche per la ipotesi (verificatasi nella

specie) in cui il concordato sia restato definitivo perchè non più risolubile nè annullabile, stante l'avvenuto decorso

dei termini relativi ;

3) che, qualora non si volesse ritenere che il termine

semestrale di decadenza decorre, nella ipotesi del con

cordato fallimentare, dalla scadenza dell'ultimo pagamento stabilito nel concordato, bisognerebbe ritenere che il ter

mine predetto inizia a decorrere dalla scadenza dell'anno

utile per la risoluzione del concordato ovvero, al massimo, dalla scadenza del biennio utile all'annullamento del con

cordato stesso.

Le suesposte affermazioni non possono essere condivise.

Le stesse, infatti, operano una frattura nella unitarietà

della disciplina dettata per il concordato fallimentare

dalla legge speciale, con la conseguenza di una inammis

sibile commistione tra la predetta legge speciale e le norme

comuni in materia di fideiussione.

Non è esatto che, con il passaggio in giudicato della

sentenza di omologazione del concordato, venga a cessare

l'applicab'lità della legge fallimentare. Nè è prova con

traria la stessa possibilità di risoluzione o di annullamento

del concordato secondo le norme speciali della legge fal

limentare, con conseguenze che si discostano dai principi comuni.

Infatti, è stato già posto in evidenza dalla dottrina

come, solo per la ipotesi specifica della risoluzione del

concordato, la conservazione delle garanzie si presenta

giustificata dal fatto che quella risoluzione è conseguenza anche dello inadempimento da parte dei garanti. Al con

trario, la conservazione delle garanzie non può essere giu stificata con il ricorso ai comuni principi nella ipotesi di annullamento del concordato, postochè, con detto an

nullamento, le predette garanzie resterebbero non più

giustificate da una specifica causale giuridica e i garanti dovrebbero poter esperire, secondo le regole comuni, la

repetitio indebiti per le prestazioni già da essi eseguite. Ciò nonostante, la legge fallimentare (art. 140) ha espres

samente dettato la conservazione delle garanzie, a favore

dei creditori anteriori, e nella ipotesi di risoluzione e in

quella di annullamento del concordato. E ciò perchè sia

la risoluzione sia l'annullamento predetti sono stati dettati

a tutela dei creditori e pertanto non possono essere con

siderati come strumenti per cancellare ab imis il concor

dato e ridurre i rapporti con i creditori allo stato anteriore

al concordato stesso. Al contrario, la legge fallimentare ha

voluto assicurare, in ogni caso, ai creditori le conseguenze favorevoli del concordato già concluso, sicché quest'ultimo

quand'anche successivamente risolto o annullato, non

residua come mero fatto storico, ma come fatto giuridico,

produttivo di effetti giuridici persistenti.

Di qui la conservazione della efficacia delle garanzie

prestate dai terzi. Le suesposte considerazioni acquistano maggiore evi

denza nella ipotesi in cui, non essendo stato nè annullato nè risolto il concordato, le obbligazioni ad esso relative

si trovino (come nella specie in esame) tuttora in fase di esecuzione.

In tal caso, infatti, il persistere della efficacia delle

garanzie tende proprio alla attuazione della finalità spe cifica per la quale esse garanzie furono prestate.

I rilievi sopra lumeggiati testimoniano una intrinseca

incompatibilità giuridica tra il termine semestrale di de

cadenza ex art. 1957 cod. civ. e la disciplina delle ga ranzie per il concordato secondo le norme speciali della

legge fallimentare.

Tale incompatibilità vale anche ad escludere la tesi

subordinata del ricorrente, secondo cui, nella ipotesi di

concordato non risolto nè annullato, il termine semestrale

dell'art. 1957 cod. civ. dovrebbe iniziare a decorrere dalla

scadenza dell'anno utile alla risoluzione o, al massimo, dalla scadenza del biennio utile per l'annullamento del

concordato.

II primo mezzo del ricorso deve essere quindi disatteso

e deve essere affermato il principio che « il termine di de

cadenza di sei mesi previsto dall'art. 1957 cod. civ. non

è applicabile alle garanzie prestate dai terzi per la ese

cuzione del concordato fallimentare ».

La seconda questione che si presentava in causa era

quella di decidere (ai fini di accertare se dovesse applicarsi il termine di prescrizione proprio dei rapporti originari

oppure quello della prescrizione dell'actio iudicati) se il

provvedimento con il quale il giudice delegato dichiara

esecutivo lo stato passivo del fallimento, acquisti, nel

caso di mancata opposizione, efficacia di cosa giudicata ovvero abbia solo efficacia preclusiva nell'ambito della

procedura fallimentare. La sentenza impugnata ha ritenuto la tesi del giudicato. Il ricorrente insorge avverso tale conclusione con il

secondo mezzo del ricorso, affermando la tesi della pre clusione.

La censura è fondata.

La giurisprudenza di questa Corte suprema è per la

esclusione del giudicato e per l'affermazione che il prov vedimento con il quale il giudice delegato decide sul

l'ammissione dei vari crediti al passivo fallimentare spiega efficacia preclusiva entro l'àmbito della procedura del fal

limento, ma non acquista valore di cosa giudicata, la quale ultima è conseguente solo alla sentenza che, in caso di

opposizione allo stato passivo, decide definitivamente

sulla predetta opposizione. Il suesposto principio deve essere tenuto fermo.

La Corte d'appello ha motivato la soluzione contraria, che afferma la cosa giudicata, con le seguenti considerazioni.

A) La fase di accertamento dei crediti, da parte del

giudice delegato, ha carattere giurisdizionale.

B) Il provvedimento del giudice delegato deve ri

tenersi emanato nei confronti del fallito ed è opponibile a quest'ultimo, il quale, oltre che essere rappresentato dal curatore, deve essere sentito dal giudice delegato, sicché, se egli non avanza osservazioni, il credito deve

ritenersi accertato con il suo consenso ; mentre, se formula

osservazioni, le eventuali conclusioni diverse da parte del curatore sono indifferenti, posto che la decisione del

giudice delegato interviene sulle une e sulle altre.

Devono inoltre essere vagliate le seguenti ulteriori

argomentazioni, avanzate, volta a volta, a favore della

tesi del giudicato da una parte della dottrina.

0) La Relazione ministeriale alla legge fallimentare

pone in evidenza (§ 20, Le Leggi, 1942, 330) l'affinità tra

il procedimento di verifica dei crediti ed il procedimento monitorio.

D) Non ha rilievo il particolare che i provvedimenti sulla verifica dei crediti non vengano emanati nei con

fronti diretti del fallito ; nè vale richiamarsi ad una me

nomata facoltà di difesa diretta da parte del fallito me

desimo, in quanto tutto ciò è conseguenza del modo come

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1887 £ARTE PRIMA 1888

è articolata la procedura fallimentare, ed in quanto il de

bitore è sottoposto, perfino nel caso di revoca della di

chiarazione di fallimento, a subire le situazioni giuridiche

poste in essere regolarmente dagli organi fallimentari (ex art. 21 legge fallimentare).

E) Posto che la domanda di ammissione al passivo

produce gli effetti della domanda giudiziale (art. 94 legge

fall.) e posto che i singoli processi conseguenti alle opposi zioni ex art. 98 e 100 della legge fallimentare hanno natura

cognitoria, non è possibile che la natura dell'azione pro

posta ab initio venga a subire, in itinere, delle trasforma

zioni, sicché possa passare in giudicato la sentenza che

conclude l'opposizione avverso il decreto, del giudice de

legato, di esecutorietà dello stato passivo e non possa invece passare in cosa giudicata, in mancanza di opposi

zione, il predetto decreto di esecutorietà.

F) Il decreto con il quale il giudice delegato ha

ammesso un credito o una garanzia è suscettibile di re

vocazione per gli stessi motivi per i quali è ammessa la

revocazione delle sentenze (ex 1° comma dell'art. 102

legge fallimentare).

Inoltre, se il fallimento si chiude senza che la con

testazione sulla revocazione sia stata decisa, il giudizio

continua, dinanzi allo stesso tribunale, nei confronti del

l'ex fallito (ult. comma del citato art. 102). Ciò presuppone che l'accertamento del credito a carico

del debitore spieghi efficacia anche dopo la chiusura del

fallimento, stante che, se così non fosse, non si spiegherebbe la continuazione del giudizio tendente ad ottenere la re

voca di quell'accertamento che, una volta chiuso il falli

mento, l'ex fallito avrebbe potuto ugualmente disconoscere.

Le argomentazioni sopra riassunte non hanno valore

decisivo.

Il carattere giurisdizionale dell'attività del giudice de

legato, in sede di verificazione dei crediti, non importa che il decreto di ammissione debba, se non opposto, sfo

ciare nella cosa giudicata. Pur senza addentrarsi nel problema della interdipen

denza o meno dei concetti di giurisdizione e di giudicato, è sufficiente ricordare la giurisdizione volontaria, tra i

cui effetti tipici è quello della mancanza della cosa giu dicata, tanto che una parte della dottrina assume, come

è noto, proprio la possibilità o meno del formarsi del giu dicato, quale criterio per differenziare la giurisdizione contenziosa da quella volontaria.

Nè vale richiamarsi all'asserto carattere decisorio del

decreto di ammissione al passivo per rilevarne, come è stato fatto, che un provvedimento giurisdizionale decisorio è destinato ad acquistare carattere definitivo. Infatti, a parte che i concetti di definitività e di decisorietà non sono necessariamente interdipendenti, così come è dimo strato dalla differenza concettuale tra preclusione e giu dicato, il problema consiste proprio nell'accertare se l'ac cennato carattere di definitività debba ritenersi circo scritto all'ambito della procedura fallimentare, risolven dosi in mera preclusione nel predetto àmbito, oppure se detto carattere di definitività agisca anche in sede extra

fallimentare, e cioè, a fallimento chiuso, con l'efficacia della cosa giudicata.

Il fatto, poi, che la formazione e la verificazione dello stato passivo si svolga con l'intervento del fallito, il quale deve essere sentito e può svolgere le proprie osservazioni

(art. 95 e 96 legge fall.), non elimina il carattere sommario della indagine, che, per le stesse esigenze della procedura concorsuale, si presenta, per la fase innanzi al giudice de

legato, condensata e nel tempo e nelle modalità di svolgi mento.

Nè vale ancora osservare che la menomata facoltà di una difesa diretta da parte del fallito è conseguenza del modo come è articolata la procedura fallimentare e che, inoltre, dall'art. 21 legge fall, si ricava che il fallito è vin colato dalle situazioni giuridiche poste regolarmente in essere dagli organi fallimentari.

Le predette osservazioni non solo non risolvono lo

specifico problema in esame, ma, anzi, mettendone in evi denza la delicatezza e gravità delle conseguenze, inducono

a contenerne la soluzione entro le reali esigenze della pro cedura fallimentare e quindi, se giustificano la riconosciuta

efficacia preclusiva del decreto di ammissione al passivo nell'àmbito della suddetta procedura, non valgono invece

a giustificare la proiezione di quella efficacia anche al di

là della chiusura del fallimento.

Non riveste carattere decisivo neppure il richiamo

all'art. 94 legge fallimentare.

Il fatto che, in virtù di detto articolo, la domanda

di ammissione al passivo produce gli effetti della do

manda giudiziale vale ad assicurare i normali effetti so

stanziali e processuali, ricollegabili alla domanda giudi ziale (preclusione della decadenza ; interruzione della pre scrizione, ecc.), ma non importa anche la identità di natura

giuridica tra le due domande e che, di conseguenza, il

decreto del giudice delegato di ammissione al passivo sia

suscettibile del passaggio in cosa giudicata.

Infatti, nel procedimento sommario (per la ipotesi che le passività del debitore non superino un milione e

cinquecentomila lire) si prescinde, per la formazione dello

stato passivo, dalla necessità della istanza di ammissione

al passivo da parte dei vari creditori. Ciò nonostante, il

decreto del giudice delegato, che forma lo stato passivo e lo rende esecutive ex art. 157 legge fall, non potrebbe

avere, e, in effetti, non ha, natura giuridica diversa da

quella del decreto che il giudice delegato emette ex art. 97

della stessa legge, nei fallimenti con passivo superiore a

lire 1.500.000.

Il che dimostra che la soluzione del problema sulla

formazione o meno del giudicato in base al decreto del

giudice delegato di ammissione al passivo non può restare

influenzata dal disposto dell'art. 94.

Ne consegue ancora che dal menzionato art. 94 non può ricavarsi la equiparazione tra le due situazioni che si con

cludono, l'una, con il decreto del giudice delegato (ex art. 97), l'altra, con la sentenza che decide definitivamente

(ex art. 98 e 99) sulle opposizioni allo stato passivo. Al

contrario, stante la differenza (che appresso sarà posta in evidenza) tra le predette due situazioni, non può af

fermarsi che entrambe siano destinate a concludersi con

un provvedimento suscettibile di passare in cosa giudicata e che la esclusione di tale soluzione importi la trasfor

mazione, in itinere, del carattere giuridico della domanda

di ammissione al passivo. Per la soluzione del quesito in esame non possono

ricavarsi argomentazioni decisive neppure dall'art. 102

della legge fallimentare, relativo alla revocazione contro

i crediti ammessi.

Come si rileva dalla procedura da osservarsi, la revo

cazione in questione è destinata normalmente ad operare nell'àmbito della procedura fallimentare.

Ne segue che il carattere definitivo, che il decreto di

ammissione al passivo svolge nell'ambito della predetta

procedura, spiega perchè sia stata concessa al curatore

e ai creditori la possibilità di agire in revocazione anche

avverso il decreto (a suo tempo, non opposto) del giu dice delegato.

E cioè la possibilità di agire in revocazione ex art. 102 non importa anche che il decreto del giudice delegato,

pur se definitivo, debba ritenersi passato in cosa giudicata. La possibilità, poi, della continuazione del giudizio

di revocazione nei confronti diretti dell'ex fallito (ai sensi

dell'ult. comma dell'art. 102), ove il fallimento si sia chiuso

senza che la contestazione sia stata decisa, non postula la ultrattività, anche dopo la chiusura del fallimento, del decreto con il quale il giudice delegato aveva ammesso il credito al passivo. La possibilità della continuazione del giudizio di revocazione nonostante l'avvenuta chiu

sura del fallimento risponde invece ad un principio di

economia dei giudizi, essendo interesse e dell'ex fallito e

dell'asserto creditore di sentire definitivamente escludere o confermare la esistenza del credito, la cui ammissione era stata impugnata con la revocazione.

Non può, infine, avere carattere decisivo il richiamo all'affinità tra il procedimento di verifica dei crediti ed il procedimento ingiuntivo.

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1889 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 1890

La predetta affinità si riduce, in definitiva, alla forma

(decreto) del provvedimento conclusivo dell'una e dell'altra

procedura, e non può annullare le differenze che pur in

tercorrono tra l'una e l'altra in dipendenza della specialità della materia fallimentare e precludono di ricavare la

possibilità del giudicato, per il decreto del giudice delegato, dal fatto che il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo

costituisce altresì cosa giudicata. Le predette differenze possono essere cosi sintetizzate :

1) Nel decreto del giudice delegato manca quella

ingiunzione (ordine di pagare una somma determinata) che caratterizza, invece, la procedura monitoria.

2) Mentre nel procedimento ingiunzionale l'oppo sizione promana dal debitore, nella verifica dei crediti in

sede fallimentare è il creditore, non ammesso in tutto

o in parte, che ha la possibilità di provocare, attraverso

la opposizione, la sentenza del tribunale.

3) Mentre, in sede normale, il creditore ha facoltà

di scegliere tra la procedura monitoria e quella ordinaria, il creditore fallimentare, se vuole realizzare il proprio credito in pendenza del fallimento e non attendere la

chiusura del fallimento stesso, deve necessariamente seguire la procedura di ammissione al passivo.

4) In sede fallimentare sono ammessi alla verifica

anche i crediti non assistiti dalle condizioni necessarie

ex art. 633 cod. proc. civ. per la emissione del decreto

ingiuntivo.

5) Mentre il creditore, al quale è stato negato il de

creto ingiuntivo, può riproporre il ricorso oppure far va

lere la propria pretesa creditoria promovendo un regolare

giudizio di cognizione, il creditore al quale fosse stata

negata l'ammissione al passivo e che non avesse impu

gnato tempestivamente il decreto del giudice delegato, dovrebbe restarne definitivamente pregiudicato qualora a

tale decreto fosse riconosciuta l'efficacia del giudicato con i conseguenti effetti anche dopo la chiusura del fal

limento.

A tutto ciò può aggiungersi la considerazione con

clusiva (già posta in evidenza dalla sent. n. 2126 del 1961

di questa Corte suprema, a Sezione semplice, Foro it., Eep.

1961, voce Fallimento, n. 437), secondo cui, mentre nel

procedimento ingiunzionale la opposizione dà vita ad un

giudizio ordinario di cognizione sull'intero contenuto del

decreto opposto, sicché quest'ultimo ne resta travolto

nella sua interezza, al contrario, l'opposizione al decreto

del giudice delegato, che rende esecutivo lo stato passivo,

opera solo nei limiti nei quali viene proposta. Al di fuori

di detti limiti, il decreto relativo allo stato passivo fal

limentare diventa definitivo, sicché non è più possibile, nell'àmbito fallimentare, la proposizione di nuove domande

né la modifica di quelle già proposta.

Esposto, come sopra, il carattere non decisivo delle

argomentazioni a favore della tesi che ravvisa, nella effi

cacia del decreto del giudice delegato non assoggettato ad opposizione, la efficacia della cosa giudicata, queste Sezioni unite ritengono che la tesi della mera preclusione eircoscritta all'àmbito della procedura fallimentare si ricavi

dalla diversa natura giuridica tra la fase di verificazione

dei crediti innanzi al giudice delegato e la fase di accer

tamento, da parte del tribunale, dei crediti contestati, a seguito della opposizione avverso il decreto del giudice

delegato. Infatti, la fase di verificazione dello stato passivo tende

direttamente ed esclusivamente all'attuazione della pro cedura concorsuale e si presenta quale espressione di quel

potere regolamentare della esecuzione ai fini concorsuali,

che il giudice delegato ripete dall'art. 25 della legge fal

limentare.

Al contrario, alle opposizioni previste dagli art. 98 e

100 della legge predetta segue una fase di vera e propria natura contenziosa, avente per oggetto l'accertamento

positivo o negativo (in tutto o in parte) del credito con

efficacia di cosa giudicata. La distinzione di cui sopra è riflessa e nella lettera

stessa della legge e nelle funzioni degli organi (giudice

delegato ; tribunale fallimentare) che operano nell'una

ti. Fono Italiano — Volume LXX.XVI — forte /-121.

e nell'altra fase, e nella diversa natura giuridica del prov vedimento che le conclude.

Nella fase di formazione dello stato passivo da parte del giudice delegato, la legge parla di predisposizione allo

stato passivo ad opera, precisamente, del giudice delegato, il quale, tenuto conto delle contestazioni e delle osserva zioni svolte dagli interessati nell'adunanza dei creditori,

apporta allo stato passivo le modificazioni e le integrazioni che esso giudice delegato ritiene necessarie e conclude

il tutto con la emanazione del decreto che rende esecutivo 10 stato passivo (ex art. 95, 96, 97 legge fallimentare).

Le stesse espressioni usate dal legislatore ed il modo

stesso di svolgimento di esse da parte del giudice delegato testimoniano per un'attività di natura indubbiamente

giurisdizionale ma non anche contenziosa, contrassegnata com'è dal carattere sommario degli accertamenti (cosiddetti accertamenti a cognizione incompleta) ; carattere sommario, che è ancora più evidente nelle procedure fallimentari con

passivo inferiore a lire 1.500.000, nelle quali, procedendosi d'ufficio alla formazione dello stato passivo, mancherebbe

addirittura il fondamento stesso della istanza di parte, neces

saria ad una procedura che possa concludersi con un prov vedimento avente efficacia di cosa giudicata (art. 155 e

segg. legge fallimentare). Al contrario, nella fase conseguente alle opposizioni,

11 giudice delegato assume le funzioni di giudice istruttore

e provvede alla normale istruttoria delle cause di op

posizione, che vengono da lui successivamente rimesse

« all'udienza per la discussione innanzi al collegio a norma

dell'art. 189 cod. proc. civ. » e sulle quali il tribunale

pronuncia con sentenza soggetta ad appello, mentre la

sentenza di appello è, a sua volta, impugnabile con ri

corso per cassazione (art. 99 legge fallimentare).

Inoltre, il 2° comma dell'ora richiamato art. 99, ac

cennando alla possibilità che alcune opposizioni abbiso

gnino di « lunga istruzione », conferma che nel giudizio di opposizione l'attività istruttoria non si risolve, come

nella precedente fase di verificazione dello stato passivo, nella proposizione di mere osservazioni e nella esibizione

di documenti, ma può articolarsi in tutte le forme previste dalla procedura ordinaria, con i soli adattamenti resi

necessari dagli effetti di natura processuale, per quel che

riguarda il fallito, originati dalla sentenza di fallimento.

E cioè, mentre il carattere di accertamento a cogni zione completa, che contrassegna la procedura di verifi

cazione innanzi al giudice delegato, spiega perchè la stessa

si concluda con un provvedimento avente forma e sostanza

di decreto, la natura decisoria di una vera e propria con

testazione a carattere sostanziale spiega perchè la defi

nizione delle cause di opposizione avvenga con sentenza.

Di qui l'ulteriore conseguenza della limitazione dell'ef

ficacia del decreto all'ambito della procedura fallimentare, in contrapposto alla efficacia, anche ultratallimentars, della

sentenza che conclude definitivamente la causa di op

posizione. Poiché nella specie in esame viene in discussione la

efficacia del decreto del giudice delegato e non anche

quella di una sentenza pronunziata in sede di opposizione al predetto decreto, alla economia della presente deci

sione sarebbero sufficienti tutte le considerazioni fin qui

svolte, senza necessità di esaminare le obiezioni che pur sono state avanzate, in sede teorica, avverso la tesi della

cosa giudicata sulla sentenza pronunziata in sede di op

posizione. Tuttavia, e per completezza di trattazione e per la con

nessione che esiste tra le due questioni, con interdipendenza di riflessi della soluzione dell'una sulla soluzione dell'altra,

è opportuno ess minare anche le predette obiezioni.

In sintesi, è stato osservato che neanche la sentenza

pronunziata a seguito di opposizione può dar luogo alla

formazione del giudicato perchè :

a) mancherebbe, nella legge e nella volontà delle

parti, la richiesta di un accertamento incidentale sulla

esistenza e sulla entità del credito opposto, sicché la re

lativa controversia si presenterebbe solo come questione

pregiudiziale (e come tale insuscettibile di giudicato) ai

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1891 PARTE PRIMA 1892

fini della ammissione o della esclusione di quel determinato credito dalla procedura concorsuale ;

b) mancherebbe il soggetto nei cui confronti il giu dicato dovrebbe formarsi, in quanto, nella procedura per la formazione dello stato passivo, il curatore, più. che la difesa del debitore fallito, assume quella del fallimento inteso quale terzo nei confront' del fallito.

c) il creditore verrebbe ad essere vincolato dal giu dicato formatosi a seguito di un giudizio nel quale la prova circa la esistenza e la entità del credito da lui dedotto è

assoggettata ai particolari limiti derivanti dai principi in materia di simulazione nei confronti dei terzi (così quale è considerato il fallimento in relazione ai rapporti tra il fallito ed i creditori), nonché dalla posizione di relativa

incapacità processuale nella quale viene a trovarsi il fal

lito, con la conseguente impossibilità sia di testimoniare sia di rispondere all'interrogatorio formale o di giurare.

Le suesposte obiezioni non valgono ad escludere la tesi del giudicato.

Già con la sentenza n. 3140 del 1953 queste Sezioni unite (Foro it., 1954, I, 326) enunciarono la differenza tra le funzioni attribuite al tribunale fallimentare dall'art. 23 della legge (ponendone in evidenza il carattere giurisdizio nale, ma la contemporanea attinenza ai poteri di direzione e di controllo delle operazioni fallimentari) e le funzioni at

tribuite allo stesso tribunale da) successivo art. 24 (di cui

posero in evidenza il carattere esclusivamente ed integral mente contenzioso).

Con la menzionata sentenza fu anche sottolineato che le opposizioni allo stato passivo si risolvono in un'azione avente per oggetto l'accertamento del diritto di credito e danno vita ad un giudizio contenzioso innanzi al tri

bunale, da concludersi con sentenza soggetta ai normali

gravami. Posti i predetti principi (che vanno tenuti fermi, co

mechè aderenti alla lettera ed allo spirito dell'art. 99 della

legge fall.), non è possibile ritenere che l'accertamento in sede contenziosa si differenzi dalla verificazione innanzi al giudice delegato solo per una maggiore ampiezza di

indagine. La differenza è data, invece, dal fatto che quell'accer

tamento, innanzi al tribunale, forma esso stesso oggetto di un regolare giudizio di cognizione, rispetto al quale la

proposta opposizione ha la natura giuridica di vera e

propria domanda giudiziale di primo grado. Ne consegue, e per la, regolamentazione fattane dalla

legge nel menzionato art. 99 e per la volontà dell'oppo nente, che l'accertamento di cui sopra non può essere con tenuto nello schema delle questioni pregiudiziali, ma as sume la natura giuridica di un accertamento incidentale, istituzionalmente destinato a dar vita al giudicato.

Diversamente opinando, non si comprenderebbe per chè la legge speciale abbia dettato la procedura specifica di cui agli art. 98 e 99 e non abbia fatto ricorso, anche

per l'opposizione allo stato passivo, al reclamo ex art. 26, sia pure adattandolo in quanto alla maggiore ampiezza di indagine ed ai termini per la pronuncia del decreto in camera di consiglio.

Non è esatto, poi, che nel giudizio di cognizione conse

guente alla opposizione sia assente il fallito. Per lo stesso suo ufficio, infatti, il curatore è tenuto a tutelare anche le eventuali ragioni del debitore fallito, tanto più che tale

tutela, tenendo normalmente alla esclusione o alla ridu zione del credito vantato dal creditore opponente, coincide con la tutela degli interessi del fallimento.

Stante ciò non vi è ragione per sottrarre il giudicato, formatosi a conclusione del giudizio di opposizione, al prin cipio di cui all'art. 21 legge fall, per cui il fallito è sog getto, anche, a fallimento revocato e quindi, a maggior ragione, a fallimento chiuso, alle situazioni giuridiche legalmente poste in essere dagli organi fallimentari.

Il rilievo, infine, circa le limitazioni di prova che il creditore incontra, nei confronti del fallimento, nel giu dizio di opposizione, non può valere ad escludere la for mazione del giudicato, stante il carattere volontario e non necessario della proposizione della opposizione stessa,

dalla quale il creditore, se ritenuto di propria conve

nienza, può anche astenersi e riservarsi di fare valere il

proprio credito (nella misura, totale o parziale, in cui è

stato escluso dal giudice delegato) direttamente verso il

debitore, a fallimento chiuso.

Concludendo, il secondo mezzo del ricorso deve essere accolto e devono essere affermati i seguenti principi di

diritto :

« I provvedimenti che, in sede di verificazione dei

crediti, vengono adottati dal giudice delegato, quand'anche non abbiano formato oggetto di opposizione, non acqui stano efficacia di cosa giudicata, ma spiegano solo effetti

preclusivi nell'ambito della procedura fallimentare. « Al contrario, la opposizione avverso i provvedimenti

di cui sopra dà vita ad un vero e proprio giudizio di co

gnizione, di natura contenziosa, sulla esistenza o meno del credito. La sentenza che chiude definitivamente tale

giudizio ha efficacia di cosa giudicata ».

L'accoglimento del secondo mezzo di ricorso determina

l'assorbimento del terzo mezzo, con il quale il Sechi ha dedotto che, una volta esclusa la efficacia di cosa giudicata nel decreto del giudice delegato, i crediti dell'Istituto re sistente dovrebbero essere dichiarati prescritti, così come

tempestivamente eccepito da esso Sechi in sede di merito. Su tale eccezione già ritenuta assorbita dal Giudice di

primo o di secondo grado, dovrà pronunziarsi il giudice di merito.

In definitiva, deve essere rigettato il primo mezzo del ricorso ; deve essere accolto il secondo mezzo, dichia randosi assorbito il terzo.

La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione e la causa rinviata per nuovo esame, limitatamente alle

questioni decise con la parte cassata della sentenza e per quelle dichiarate assorbite, ad altra corte d'appello, che deciderà anche sulle spese di questo giudizio di Cassazione.

Per questi motivi, ecc.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.

Sezione III civile ; sentenza 26 luglio 1963, n. 2064 ; Pres. Naso P., Est. Felicetti, P. M. Caldarera (conci, conf.) ; Soc. an. costruzioni (Avv. Spagna) c. Sava rino (Avv. Messina).

(Gassa App. Roma 2 febbraio 1962)

Appello in materia civile — Eccezione respinta in

primo grado — Riproposizione mediante appello incidentale — Necessità — Generica enuncia zione nella comparsa di risposta — Insufficienza — Fattispecie (Cod. proc. civ., art. 343, 346).

Mutuo — Interessi moratori — Cumulubilità con la

penale prevista per il ritardato adempimento del contratto — Condizioni (Cod. civ., art. 1224, 1815).

Spese giudiziali — Appello — Spese del giudizio di

primo grado — Liquidazione d'ufficio difforme da quella del primo giudice — Ultrapetizione —

Fattispecie.

Impugnata dal mutuante, con appello principale, la sentenza di primo grado nella parte concernente la determinazione dell'ammontare della penale prevista per il ritardo nel

l'adempimento del contratto, il mutuatario appellato, rimasto parzialmente soccombente, ove intenda ottenere il riesame dell'eccezione di nullità della clausola relativa, respinta in primo grado, deve riproporla espressamente mediante appello incidentale e non limitarsi ad enunciarla

genericamente nella comparsa di risposta specificandone il contenuto solo nella comparsa conclusionale. (1)

(1) Sulla questione di specie non si rinvengono precedenti. Nel senso che l'appellato, che voglia insorgere contro gli

autonomi capi della sentenza di primo grado a lui contrari, deve necessariamente proporre impugnazione nelle forme dell'appello

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