Sezioni unite civili; sentenza 28 gennaio 1961, n. 157; Pres. Oggioni P. P., Est. Danzi, P. M. Pepe(concl. conf.); Procuratore generale Corte appello Bari c. Musajo Somma (Avv. Labriola)Source: Il Foro Italiano, Vol. 84, No. 2 (1961), pp. 201/202-205/206Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151884 .
Accessed: 24/06/2014 23:05
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 188.72.126.25 on Tue, 24 Jun 2014 23:05:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
201 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 202
clie, di conseguenza, non era legittimato ad agire per
inadempienze concernenti solo l'affitto.
Ora, se la conclusione, cui in quel caso pervenne la
detta sentenza, non può non accettarsi, non pare, tuttavia, clie possa in via assoluta condividersi la premessa, posta a base di quella decisione ed intesa nel senso che, scissosi in due l'originario contratto di affitto di fondo rustico, a
seguito di alienazione della sola casa colonica, il rapporto avente ad oggetto la casa debba essere considerato e rego lato come locazione d'immobile urbano.
È ben vero che una casa colonica, pertinenza di fondo
rustico dato in affitto, qualora sia separatamente alie nata perde la sua natura di pertinenza di bene produttivo e che, essendo essa, isolatamente presa, un bene non
destinato a produrre altri beni, viene conseguentemente a presentarsi nei confronti del nuovo proprietario come un bene improduttivo e quindi come un bene suscettivo di
essere assunto ad oggetto di locazione e non di affitto, ma ciò non importa, ad avviso di questo Collegio, che il
rapporto tra acquirente della casa colonica ed affittuario
diventi, per il solo fatto della scissione in due del contratto
originario, un rapporto di locazione d'immobile urbano, ossia un rapporto pressoché completamente avulso da
quello originario e dalla relativa causa contrahendi e regolato da diritti ed obblighi nuovi, senza che sia intervenuto alcun
particolare accordo tra l'acquirente ed il conduttore (efr. Cass. 9 marzo 1955, n. 693, Foro it., Kep. 1955, voce Con tratti agrari, n. 217).
Non si vede, infatti, come possa ritenersi inadempiente un affittuario, che, in forza dei diritti derivanti dal rap porto originario, continui, dopo la vendita della sola casa
colonica, a servirsi di questa come nel periodo precedente alla vendita.
È noto che, ai sensi degli art. 1599 e 1602 cod. civ.
(1597 cod. 1865), qualora avvenga il trasferimento della cosa locata, la locazione, se abbia data certa anteriore alla
alienazione, è opponibile al terzo acquirente, il quale è
tenuto a rispettarla, subentrando nei diritti ed obblighi derivanti dal contratto. Al rispetto delle locazioni fatte senza frode con data certa e per un tempo non superiore a tre anni è anche tenuto il venditore che abbia esercitato il riscatto (art. 1505) ; opponibili all'acquirente, nei limiti di cui agli art. 2923 e 2925, sono altresì le locazioni consen tite da chi ha subito l'espropriazione o l'assegnazione forzata.
Nei ricordati casi, pertanto, la legge prevede che un
soggetto subentri ad un altro soggetto in un rapporto obbligatorio, anche senza e contro la volontà del condut tore. Questi, però, sebbene sia tenuto ad accettare un nuovo locatore al posto della persona con la quale stipulò il con
tratto, conserva, di regola, un godimento inalterato della
cosa, anche se, in determinati casi previsti dalla legge, egli può essere soggetto a quelle cause di risoluzione o di cessazione del contratto, che si riferiscono all'acqui rente (es. : art. 7 legge n. 253 del 1950), in quanto questo fenomeno della sostituzione dei soggetti non può essere inteso che entro certi limiti, e da esso non si è autorizzati a trarre conseguenze non volute e non previste nè dalla
legge nè dalle parti. Ora, in una ipotesi, come quella di specie, di alienazione
della casa colonica separatamente dal fondo, del quale era
pertinenza, se, come si è detto, il rapporto originario si scinde in due, non per questo è possibile ritenere che, senza la partecipazione della volontà del conduttore, la regola mentazione convenzionale del rapporto locatizio origi nario venga ad essere talmente influenzata, per quanto concerne la casa colonica, dalla detta scissione, da indurre a considerare legittima una conseguenza del genere di
quella sostenuta dal ricorrente. Affinchè la casa colonica avesse potuto divenire oggetto
di un contratto di locazione sottoposto alle norme relative
agli immobili urbani, sarebbe stato necessario che vi fosse stato il concorso degli elementi essenziali a tale contratto, vale a dire, oltre la res e la determinazione del corrispettivo, l'accordo delle parti, in difetto di che, il fatto che l'affit
tuario, a seguito della alienazione, sia tenuto ad accettare
il nuovo o i nuovi locatori, non può dar luogo al sorgere di un rapporto mai voluto e mai previsto.
Accedendo alla contraria opinione, deriverebbe clie la
impresa agricola potrebbe venire irrimediabilmente com
promessa dalla alienazione della casa colonica, necessaria
alla regolare conduzione del fondo ; ne potrebbe derivare,
altresì, la possibilità di una indiretta elusione delle norme
sulla proroga dei contratti agrari, perchè l'affittuario
potrebbe essere costretto ad abbandonare il fondo, qualora
egli non potesse più attendere convenientemente alla sua
coltivazione.
Ma, oltre a tali considerazioni, deve riconoscersi che
nessuna disposizione di legge consente di adottare una
tesi diversa.
Grli art. 1599 e 1602 stabiliscono, come si è visto, che,
normalmente, la locazione è opponibile al terzo acquirente, che è tenuto a rispettarla, e poiché con tali disposizioni, che hanno portata generale, non si fa alcuna distinzione
tra terzo acquirente di tutto o di parte dell'immobile, ne
consegue che, anche nell'ipotesi di vendita parziale, l'acqui rente sarà tenuto a rispettare la locazione originaria, nei
limiti e nell'ambito della res acquistata, anche se, sogget
tivamente, ha acquistato un proprio autonomo diritto ed
una sua propria distinta legittimazione ad agire per far
valere quelle cause di risoluzione o di cessazione del con
tratto, che lo riguardano e che la legge prevede.
Pertanto, dovendosi ritenere inesistente l'asserita causa
di risoluzione del contratto, la impugnata sentenza, sia
pure attraverso una motivazione in parte diversa, non
merita la censura mossale.
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezioni unite civili ; sentenza 28 gennaio 1961, n. 157 ; Pres.
Oggioni P. P., Est. Danzi, P. M. Pepe (eonel. conf.) ; Procuratore generale Corte appello Bari c. Musajo Somma (Avv. Labriola).
(Conferma App. Bari 27 marzo 1958)
Nobiltà (titoli <li) —- Predicato nobiliare —• Aggiunta
al nome — Ricorso in camera «li consiglio —
Sentenza di rettificazione defili atti di stato civile — Pubblico ministero — Impugnazioni — Termine —■ Fattispecie (Cod. civ., art. 454, 455, 2909 ; cod.
proc. civ., art. 324, 327, 739 ; r. d. 9 luglio 1939 n. 1238, ordinamento dello stato civile, art. 168, 174).
Se la richiesta di aggiunta al cognome di un predicato nobi
liare venga proposta nelle forme del procedimento di ret
tifica degli atti dello stato civile, il Pubblico ministero, concludente in prime cure, non può impugnare la relativa
sentenza dopo un anno dalla pubblicazione, lamentando
il mancato ricorso ad un ordinario giudizio contenzioso
nei confronti della Consulta araldica e di eventuali altri
controinteressati. (1)
(1) Circa il regime di impugnazione delle sentenze pronun ziate in camera di consiglio nel procedimento di rettifica degli atti dello stato civile, le Sezioni unite si richiamano espressa mente a quanto già ritenuto, a Sezione semplice, con la sentenza 13 giugno 1957, n. 2221, Foro it., 1958, X, 234 (annotata da Pez
zata) e, da ultimo, con quella 11 luglio 1960, n. 1874, id., 1960, I, 1476, con osservazioni dello stesso Autore.
Tale sentenza ha ritenuto, cosi come nel corso della moti vazione quella che si annota (adde, Trib. Caltagirone 19 settembre
1959, id., 1959, I, 1962, con nota di Pezzana ; contra Trib. Bo
logna 18 aprile 1958, id., Rep. 1959, voce Nobiltà, n. 10), che, per valersi del predicato nobiliare come parte del nome, non può farsi ricorso al procedimento di rettifica degli atti dello stato
civile, ma deve promuoversi giudizio ordinario. Merita di essere segnalata la presa di posizione delle Se
zioni unite contro l'orientamento, che, pure seguito dalla Cas
Il Foro Italiano — Volume LXXXIV — Parte I-li.
This content downloaded from 188.72.126.25 on Tue, 24 Jun 2014 23:05:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
203 PARTE PRIMA '204
La Corte, ecc. — Il resistente deduce preliminarmente una eccezione di inammissibilità del ricorso che è mani
festamente infondata. Sostiene infatti il Musajo che, avendo
la sentenza impugnata dichiarato la inammissibilità del
l'appello proposto dal Procuratore della Repubblica contro
la sentenza del Tribunale di Bari, deve ritenersi precluso in questa sede ogni riesame delle questioni di merito ovvero
di quelle processuali che non siano attinenti alla ritualità
del procedimento di secondo grado. Ma è facile rispondere che, come risulterà evidente dall'analisi delle censure for
mulate dal ricorrente, queste sono dirette unicamente con
tro gli argomenti di cui si è servita la Corte d'appello per
giungere alla declaratoria di inammissibilità della impugna zione, in quanto la stessa risultava proposta dopo la sca
denza del termine di un anno dal deposito della sentenza
del Tribunale.
Ciò premesso, si osserva che i mezzi di ricorso possono cosi riassumersi : 1°) violazione e falsa applicazione degli art. 167 e 174 t. u. delle leggi sullo stato civile, approvato con r. decreto 9 luglio 1939 n. 1238 ; 454 e 455 cod. civ. ; 737 e segg., 324 e 327 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ., in
relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civile.
Il ricorrente rileva che la Corte d'appello, affermando che
il provvedimento emesso dal Tribunale in sede di rettifica
zione dell'atto di nascita ha natura di sentenza suscettibile di acquistare forza di giudicato e non è pertanto assimila
bile al decreto previsto dall'art. 742 cod. proc. civ., avrebbe
violato il principio secondo cui il nomen ìuris dei provvedi menti emessi dall'autorità giudiziaria non costituisce ele mento sufficiente per determinarne l'efficacia processuale e sostanziale, giacché questa deve piuttosto desumersi dal
contenuto, facendo prevalere la sostanza sulla forma. Pre
messo che il procedimento di rettificazione degli atti di
stato civile serve a correggere gli eventuali errori materiali commessi nella redazione di tali atti, ovvero a supplire a
possibili omissioni od a ricostruire gli atti mancanti o di
strutti, il ricorrente osserva che lo stesso può assumere
veste contenziosa, con tutte le conseguenze formali e so stanziali che ne derivano, solo quando vi siano controin
teressati che il giudice chiami ad intervenire, risolvendo con la sua decisione un contrasto di interessi. Ma quando non vi siano controinteressati o questi non siano chiamati ad intervenire, il procedimento si esaurisce con un provve dimento che è insuscettibile di passare in giudicato, perchè il giudicato postula appunto l'esistenza di una controversia che trova nella sentenza la sua soluzione irretrattabile, e
che dovrebbe pertanto inquadrarsi tra i provvedimenti di camera di consiglio di natura non contenziosa e perciò as similabili ai decreti di volontaria giurisdizione e soggetti alla speciale disciplina per gli stessi prevista. Tale distin zione troverebbe conferma, oltre che nell'art. 168 t. u.,
soprattutto nel combinato disposto degli art. 454 e 455 cod. civ. in relazione all'art. 2909 stesso codice, secondo cui la sentenza di rettificazione non può essere opposta, anche se sia passata in giudicato, a coloro che non furono
parti nel relativo giudizio, il che significherebbe che il giu dicato è possibile solo quando la sentenza sia stata emessa in un giudizio contenzioso in contraddittorio delle parti principali o secondarie chiamate in causa. Nella specie, il
Musajo aveva chiesto l'aggiunta di un predicato nobiliare
agli atti di nascita suo, della moglie e dei figli e a tale istanza era interessata a contraddire la Consulta araldica
presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Il relativo
provvedimento è stato invece adottato dal Tribunale senza che si fosse ordinata la chiamata in causa della Consulta stessa e quindi senza nlcun contraddittorio ; 2°) violazione e falsa applicazione degli art. 167-174 del già ricordato t. u. delle leggi sullo stato civile, nonché degli art. 324-327 e 737 e segg. del codice di rito, e 454, 455 cod. civ., in relazione
sazione in tema di applicazione dell'art. Ili, 2° comma, della Costituzione (v., da ultimo, sent. 17 giugno 1959, n. 1902, id., 1960, I, 1384, e 27 gennaio 1961, n. 124, infra, 2(6, ccn nota di richiami), è inteso a far prevalere la sostanza sulla forma dei provvedimenti giurisdizionali.
all'art. 360, un. 3 e 5, cod. proo. civ. La Corte d'appello ha omesso di considerare che, nella specie, la istanza del
Musajo non era riconducibile sotto l'ipotesi del procedi mento di rettificazione, giacché lo stesso chiedeva che al
contenuto esatto e completo degli atti di stato civile, ri
guardanti la sua famiglia, si aggiungesse la menzione di un
predicato nobiliare che assumeva competergli in base ad
un preteso titolo di concessione. Tale domanda infatti
avrebbe dovuto dar luogo ad un procedimento ordinario
in contraddittorio della Consulta araldica presso la Presi
denza del Consiglio dei ministri, parte necessaria del giu dizio. Ciò sarebbe dovuto bastare per dichiarare la nullità
del procedimento di primo grado ; 3°) violazione degli art.
102, 331, 70, 72 e 327 cod. proc. civ. in relazione all'art.
360, n. 3, stesso codice. Premesso che la sentenza impu
gnata ha attribuito al P. m. concludente in prime cure la
veste di parte in senso sostanziale e formale, tanto da rite
nere verificato nei suoi confronti il giudicato sostanziale e
formale per decorrenza del termine di impugnazione, il
ricorrente osserva che, nella specie, sussistevano, per quanto attiene alla partecipazione al giudizio della Consulta aral
dica e di altri eventuali interessati, gli estremi del litiscon
sorzio necessario e che, pertanto, la sentenza del Tribunale
doveva ritenersi inutiliter data ed era inidonea ad acquistare forza di cosa giudicata anche nei confronti di coloro che
erano stati parti nel giudizio. Tali censure, per la loro evidente connessione logica,
possono formare oggetto di esame congiunto. Prendendo le mosse dalla seconda, la quale ha carattere
preliminare, deve senz'altro riconoscersi che l'istanza del
Musajo, in quanto diretta ad ottenere, attraverso l'aggiunta del relativo predicato al cognome, l'attribuzione di un
titolo nobiliare, non poteva formare oggetto del procedi mento di rettificazione degli atti di stato civile. Infatti, tale speciale procedimento può essere consentito solo nei
casi in cui debba provvedersi alla semplice integrazione di
un atto incompleto, ovvero alla correzione di eventuali
errori materiali o alla eliminazione di possibili omissioni, o,
infine, alla ricostruzione di atti distrutti o mancanti, men
tre esso non può servire ad accertamenti di carattere costi
tutivo, che incidano in lato senso sullo stato delle persone, tra i quali rientra senza alcun dubbio quello che tende al
riconoscimento di un titolo nobiliare mediante l'aggiunta al cognome del predicato corrispondente. In tutti questi casi, il giudizio ha natura tipicamente contenziosa e deve
svolgersi nelle forme ordinarie con la partecipazione di
coloro che hanno interesse a contraddire alla domanda.
L'accertamento della spettanza di un titolo nobiliare e
l'aggiunta al cognome del predicato che vi corrisponde de
vono perciò chiedersi con il rito ordinario nei confronti della
Consulta araldica presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri e di altri eventuali controinteressati, ogni qual volta il diritto al titolo, non risultando dalla iscrizione
dell'interessato nei registri di tale Consulta, non può essere fatto valere senza una pronunzia del giudice.
Ma, dall'indubbia esattezza di questo rilievo, non può trarsi argomento per risolvere, nel senso indicato dal ricor
rente, la questione relativa alla natura ed agli effetti del
provvedimento emanato dal Tribunale di Bari in accogli mento dell'istanza del Musajo. Cade opportuno osservare a questo proposito che la nullità determinata dalla irritua lità del procedimento in camera di consiglio rispetto alla
fattispecie concreta non potrebbe farsi valere che come mezzo di gravame contro la decisione, se alla medesima dovesse riconoscersi efficacia di sentenza, secondo quanto è stato ritenuto dalla Corte d'appelllo.
Si rende perciò necessario esaminare la prima censura del ricorso, che solleva appunto la questione riguardante la natura giuridica del provvedimento conclusivo del pro cedimento camerale di rettificazione degli atti di stato civile. È noto che tale questione, sottoposta per la prima volta all'esame di queste Sezioni unite, ha formato oggetto di decisioni contrastanti da parte della Suprema corte in
Sezione semplice. Con le sentenze 15 aprile 1949, n. 914
(Foro it., Rep. 1949, voce Stato civile, nn. 9, 10) e 26 luglio 1952, n. 2365 (id,, Rep. 1952, vace cit., nn. 1, 2) è stato
This content downloaded from 188.72.126.25 on Tue, 24 Jun 2014 23:05:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
205 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 20(3
infatti affermato il principio che la sentenza, emessa nel
procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, è un provvedimento di volontaria giurisdizione traendone
la conseguenza che la stessa, se pronunziata dalla corte
d'appello in sede di gravame, non è suscettibile di ricorso
per cassazione e non è del pari idonea ad acquistare effi
cacia di cosa giudicata, mentre, con successiva sentenza
13 giugno 1957, n. 2221 (id., 1958, I, 234), si è ritenuto
che le norme per i procedimenti in camera di consiglio, le
quali stabiliscono la irreclamabilità dei provvedimenti pro nunciati in sede di reclamo (art. 739, ult. comma, del codice
di rito), riguardano solo i provvedimenti emessi sotto forma
di decreto, laddove quelli emanati sotto forma di sentenza, se non vi siano disposizioni speciali, trovano il loro regola mento nella disciplina propria delle sentenze, e si è pertanto stabilito che la sentenza d'appello la quale, in camera di
consiglio, abbia pronunziato in tema di rettifica di atti
dello stato civile, è impugnabile con ricorso per cassazione.
È opportuno ricordare anzitutto i dati positivi dai quali soltanto può desumersi l'esatta soluzione del problema. L'art. 168 t. u. delle leggi sullo stato civile stabilisce che, sulla domanda di rettificazione, il tribunale, sentito il
P. m., provvede in camera di consiglio con sentenza e, a
sua volta, l'art. 174 dello stesso t. u. dispone che non si
può procedere a rettificazione od annotazione in base a
sentenza, se questa non è passata in giudicato. Tali norme della legge speciale trovano puntuale riscontro nell'art.
454 cod. civ., dove è detto che la rettificazione degli atti
dello stato civile si fa in forza di sentenza del tribunale
passata in giudicato, e vanno completate con il richiamo
all'art. 455 dello stesso codice, nel quale si precisa che la
sentenza di rettificazione non può essere opposta a quelli che non concorsero a domandare la rettificazione, ovvero
non furono parti in giudizio o non vi furono regolarmente chiamati.
Orbene, alla stregua di tali norme, di cui appare super fluo mettere in risalto l'assoluta precisione terminologica, devono senz'altro ritenersi acquisiti all'indagine sulla natura
del provvedimento, di cui si discute, due punti fermi : che
cioè il procedimento camerale per la rettifica degli atti di
stato civile deve concludersi con l'emanazione di una sen
tenza, e che la stessa è idonea a far passaggio in cosa
giudicata. Sul primo punto è da osservare, contro l'obiezione rela
tiva alla intrinseca natura del procedimento di rettifica, che non ha carattere necessariamente contenzioso, quando
per la mancanza o per l'assenza di eventuali interessati a
contraddire all'istanza non si determini una controversia, che il criterio più corretto per determinare gli effetti giuri dici del suo atto conclusivo sia quello di riferirsi alla strut
tura tipica di tale atto secondo la sua disciplina positiva. A questo riguardo giova ricordare che l'art. 131 cod. proc. civ. stabilisce che la legge prescrive in quali casi il giudice
pronunzia sentenza e che, da tale principio fondamentale
del diritto processuale, non può non trarsi la conseguenza che ogni qual volta sia richiesta per il provvedimento del
giudice la forma tipica della sentenza, con tutti gli attri
buti che ne costituiscono l'essenza, ogni riferimento alle
peculiarità del procedimento che conduce alla sua emana
zione non può fornire all'interprete elementi utili per de
gradare la definizione del provvedimento ad una mera
apparenza formale, se manchino disposizioni particolari le
quali autorizzino tale deviazione dall'ipotesi normale. E
ciò basta per porre in luce l'irrilevanza del richiamo all'art.
739, cod. proc. civ., dove la disciplina dei reclami contro i
provvedimenti emessi nel procedimento camerale in sede
di giurisdizione volontaria si riferisce a quei provvedimenti
per i quali l'art. 737 stesso codice prescrive la forma del
decreto motivato. Tutto ciò autorizza a concludere sul piano sistematico che la disciplina positiva del procedimento di
rettifica presenta, in relazione alla natura del provvedi mento che deve concluderlo, un aspetto anomalo, ma non
può evidentemente giustificare un arbitrario declassamento
della forma richiesta dalla legge per la sua emanazione.
Tuttavia, se fosse lecito dubitare della esattezza di tali
considerazioni, l'espressa menzione del passaggio in giudicato della sentenza, emessa nel procedimento di rettifica ne of
frirebbe la conferma più decisiva. È vano opporre che la
irretrattabilità del giudicato riposa sul presupposto neces
sario dell'attribuzione di un bene della vita perchè, quando la sentenza si limiti a tutelare l'interesse, insieme pubblico e privato, alla regolare formazione e tenuta degli atti di
stato civile, senza dirimere alcuna controversia in proposito, la irretrattabilità propria del giudicato deve naturalmente
intendersi con riferimento alla situazione giuridica deter minata dalla sentenza, cioè in relazione alle correzioni od
aggiunte che, in virtù della medesima, debbano essere ap
portate ad un atto di stato civile. Gli art. 174 del t. u. e
454 cod. civ. stanno del resto a dimostrare, nella loro chiara
dizione, che la legge non ha inteso fare alcuna distinzione circa gli effetti della sentenza di rettificazione pronunziata in sede contenziosa, cioè per risolvere un contrasto di inte ressi attuale, e quella emessa senza alcun contraddittorio di eventuali controinteressati. L'una e l'altra sono infatti suscettibili di acquistare forza di giudicato nei limiti preci sati dall'art. 455, cosicché non può essere consentito all'in
terprete di introdurre distinzioni che sarebbero in aperto contrasto con il testo della legge. L'effetto della cosa giu dicata, espressamente attribuito dalla legge alle sentenze in materia di rettificazione degli atti di stato civile, sta inoltre ad indicare, nei suoi riflessi formali, che le stesse
soggiacciono alla normale disciplina delle impugnazioni, le
quali devono essere pertanto proposte con l'osservanza dei termini di decadenza stabiliti dagli art. 325 e 327 cod. proc. civ. Bene pertanto la sentenza denunziata ha ritenuto la
inammissibilità dell'appello proposto dal Procuratore della
Repubblica contro la sentenza del Tribunale di Bari, quando era già trascorso il termine massimo di un anno dalla sua
pubblicazione. Resta a dire del terzo mezzo, con il quale si deduce che,
ricorrendo nella specie gli estremi del litisconsorzio neces
sario, la sentenza del Tribunale avrebbe dovuto ritenersi
inutiliter data, e quindi inidonea ad acquistare forza di
giudicato, per la mancata partecipazione al giudizio della
Consulta araldica, legittimata a contraddire la richiesta di
rettificazione. E, a questo proposito, appare evidente che
la risposta negativa alla tesi del ricorrente è data dall'art.
455 cod. civ., il quale, stabilendo che la sentenza di rettifica
non può essere opposta a quelli, che non concorsero a do
mandare la rettificazione, ovvero non furono parti in giu dizio, o non vi furono regolarmente chiamati, autorizza
chiaramente a concludere che tale sentenza, come non può essere considerata efficace erga omnes nonostante il suo
oggetto, così è idonea a passare in giudicato nei confronti
di chi l'abbia richiesta e di chi abbia partecipato o sia
stato regolarmente chiamato a partecipare al giudizio. Nella specie non può di conseguenza contestarsi che gli effetti del giudicato formale si producano nei confronti del
P. m. che, spiegando nel procedimento di rettifica le sue
conclusioni, vi ha assunto la veste di parte in senso formale.
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
I
Sezione I civile ; sentenza 27 gennaio 1961, n. 124 ; Pres.
Torrente P., Est. Malfitano, P. M. Colli (conci,
diff.) ; Soc. Innocente Mangili Adriatica (Avv. Fresa,
Scarpa) c. Da Re (Avv. Ragonese).
(Conferma Trib. Milano 20 novembre 1959)
Fallimento — Piano di riparlo — Decreto «lei giudice
delegato — Reclamabilità al collegio — Impu
gnabili! à in Cassazione del decreto del tribunale
(Costituzione della Repubblica, art. Ili ; r. d. 16 marzo
1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 23, 26, 110),
This content downloaded from 188.72.126.25 on Tue, 24 Jun 2014 23:05:44 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions