sezioni unite civili; sentenza 5 novembre 1984, n. 5583; Pres. F. Greco, Est. Tridico, P. M. SgroiV. (concl. conf.); Provveditorato al porto di Venezia (Avv. Russo, Ottolenghi) c. Soc. Vineurop eSoc. Gestione cantina Svevi (Avv. Palandri, Vianello). Conferma App. Venezia 13 maggio 1975Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 3 (MARZO 1985), pp. 777/778-783/784Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177446 .
Accessed: 28/06/2014 09:38
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 91.223.28.163 on Sat, 28 Jun 2014 09:38:57 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
efficace, pur se invalidabile. Per cui l'affittuario o concessionario,
che sia coltivatore diretto, è insediato sul fondo e lo coltiva in
base ad un titolo giuridico, che lo investe di un diritto di
godimento. Situazione giuridica dell'affittuario o concessionario,
questa, che si consolida una volta decorso il termine quinquenna le di prescrizione senza che l'azione di annullamento sia stata
esercitata.
Chiarito ciò, l'ulteriore problema che si pone è se l'affittuario o
concessionario in uso del fondo, assegnato dall'ente di riforma al
concedente, sia compreso o meno tra i soggetti ai quali la
normativa vigente attribuisce il diritto di prelazione, ed il succe
daneo diritto di riscatto, in ipotesi di vendita del fondo effettuata
in favore di altri, nel suddetto periodo di tempo, dall'assegnata
rio, divenuto proprietario per effetto dell'avvenuto pagamento
integrale del prezzo. Ulteriore problema, questo, che il collegio deve porsi e risolvere, sulla base dell'accertata fattispecie concreta
(per cui non si rendono necessarie indagini di fatto), perché, se
dovesse ritenersi che il coltivatore diretto insediato sul fondo in
base ad un titolo non è compreso tra coloro ai quali è attribuito
il diritto di prelazione, il ricorso non potrebbe essere accolto, nonostante il rilevato errore di diritto in cui è incorsa la corte di
Roma, procedendosi a correzione della motivazione della sentenza
impugnata ai sensi dell'art. 84, 2° comma, c.p.c. Il problema deve essere risolto in senso affermativo.
Stando alla formulazione letterale del primo e del secondo
periodo del 4° comma dell'art. 4, il diritto di prelazione è
attribuito all'ente di riforma ed ai « coltivatori diretti proprietari di terreni confinanti ». Ma il terzo periodo, nel graduare i diritti
di prelazione attribuiti alle varie categorie di soggetti, dopo avere statuito che « il diritto di prelazione dell'ente prevale su quello dei confinanti », dispone che costoro « sono a loro volta preferiti nei confronti di ogni altro avente diritto a prelazione ». Dalla
quale disposizione si desume che il diritto di prelazione è attribuito dalla legge, oltre che all'ente di riforma ed ai coltivato ri diretti proprietari di terrenti confinanti, anche ad altre catego rie di soggetti, sebbene non determinate nella normativa di cui all'art. 4 1. n. 379/67.
Ai fini della determinazione di tali categorie di soggetti, deve tenersi conto della ratio cui si ispira quella normativa che attribuisce il diritto di prelazione, ed il succedaneo diritto di
riscatto, in ipotesi di vendita del fondo da parte dell'assegnatario
-proprietario in favore di altri.
Scopo della riforma fondiaria è di agevolare la formazione
della proprietà contadina: attribuire la proprietà della terra a chi
vi esercita l'attività imprenditoriale di coltivazione diretta. È
questa la ratio della normativa di cui all'art. 4 1. 29 maggio 1967 n. 379 che disciplina il diritto di prelazione ed il succedaneo diritto di riscatto nell'ambito della riforma fondiaria; ratio che è identica a quella della normativa di cut all'art. 8 1. 26 maggio 1965 n. 590, modificata dagli art. 7, 8 e 9 1. 14 agosto 1971 n.
817, che disciplina anche essa il diritto di prelazione ed il succedaneo diritto di riscatto in ipotesi di alienazione di fondi
rustici, attribuendo quei diritti ai coltivatori diretti insediati sul fondo in base ad un titolo ed ai coltivatori diretti proprietari di
fondi confinanti.
Se questa è la ratio della normativa in esame, il riferimento ad
« ogni altro avente diritto a prelazione » contenuto nell'ultimo
periodo del 4° comma dell'art. 4 1. n. 379/67 deve essere
valorizzato in relazione alla coesistente normativa di cui all'art. 8
1. n. 590/65: nel senso che il diritto di prelazione ed il
succedaneo diritto di riscatto sono attribuiti anche al coltivatore
diretto insediato sul fondo in base ad un contratto di affitto o ad un altro contratto di concessione in uso, pur se non autorizza
to dall'ente di riforma, corrispondendo questa situazione di fatto e di diritto alla ratio dell'una e dell'altra normativa.
I quali diritti, di prelazione e succedaneo di riscatto, possono venir meno soltanto se l'acquirente del fondo, indubbiamente
interessato, o qualunque altro soggetto che vi abbia interesse, esercita l'azione di annullamento, nel termine quinquennale di
prescrizione, ottenendo la invalidazione del contratto di affitto o
di concessione in uso.
Dimostrata la fondatezza della censura sub a), l'altra censura
prospettata dal ricorrente resta assorbita.
Pertanto, il ricorso deve essere accolto per quanto di ragione.
Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere cassata in
relazione alla censura accolta e la causa deve essere rinviata ad altro giudice, il quale procederà a suo nuovo esame facendo
applicazione del seguente principio di diritto: « Qualora chi ha ottenuto da un ente di riforma fondiaria l'asse
gnazione di un fondo, e ne sia divenuto proprietario per effetto del
II Foro Italiano — 1985 — Parte I- 50.
l'integrale pagamento delle rate del prezzo, venda il fondo anterior
mente alla scadenza del trentesimo anno dalla prima assegnazione,
il diritto di prelazione ed il succedaneo diritto di riscatto, di cui
agli art. 4, 5° e 6° comma, e 6, 2° comma, 1. 29 maggio 1967 n.
379, competono, oltre che all'ente di riforma ed ai coltivatori
diretti proprietari di terrenti confinari ii, anche al coltivatore
diretto insediato sul fondo in esecuzione di un contratto di affitto
o di un contratto di concessione in uso non autorizzato dall'ente
di riforma, se tale ente od altro interessato non ne abbia chiesto
ed ottenuto l'annullamento ai sensi dell'art. 6, 1° comma, 1. n.
379/67 ». (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 5 no
vembre 1984, n. 5583; Pres. F. Greco, Est. Tridico, P. M.
Sgroi V. (conci, conf.); Provveditorato al porto di Venezia (Avv.
Russo, Ottolenghi) c. Soc. Vineurop e Soc. Gestione cantina
Svevi (Avv. Palandri, Vianello). Conferma App. Venezia
13 maggio 1975.
Lavoro portuale — Esecuzione con mezzi meccanici — Ricorso
alle compagnie portuali — Necessità — Esclusione — Limiti
(Cod. nav., art. 108, 110).
L'operatore portuale non è tenuto ad avvalersi della mano
d'opera fornita dalle compagnie portuali allorché le operazioni siano eseguite, nell'ambito portuale, con mezzi meccanici propri e l'opera dell'uomo si limiti alla pura e semplice manovra dei
mezzi impiegati (nella specie si trattava di travaso di liquidi dai depositi ad auto o ferrocisterne e l'opera dell'uomo era
consistita nell'allaccio delle « manichette »). (1)
(1) La decisione, sui cui termini esatti non risultano precedenti specifici, conferma l'orientamento restrittivo in tema di individuazione dell'ambito di applicazione del « monopolio » delle compagnie portuali nel lavoro che in tale ambito si svolge, espresso da Cass. 16 maggio 1981, n. 3228, Foro it., Rep. 1983, voce Lavoro portuale, n. 4 (per esteso in Mass. giur. lav., 1982, 656, con nota adesiva di R.
Longobardi, L'autonomia organizzativa delle imprese private nell'ambi
to della disciplina giuridica del lavoro portuale), che ha escluso
possano farsi rientrare nella nozione di lavoro portuale di cui all'art. 108 c. nav., ed in particolare in quella di « deposito » dalla norma prevista, l'attività di sistemazione, conservazione e custodia delle
merci all'interno dei locali di pertinenza delle imprese concessionarie di
operazioni portuali ancorché per lo scarico e carico siano stati superati i limiti di questi locali.
Cass., sez. un., 26 febbraio 1969. n. 621 (Foro it., 1969, I, 3252, con
osservazioni di F. Pellegrino), decidendo il noto caso della nave
portacarbone « Butterfly », il cui scarico era completamente automatiz
zato, aveva affermato il principio per cui l'operatore portuale, se non
può avvalersi, nell'esecuzione delle operazioni portuali, di maestranze
diverse da quelle organizzate nelle compagnie, purtuttavia non è tenuto a servirsene qualora sia esclusa la necessità e convenienza dell'impiego di mano d'opera.
Per ampi riferimenti, sia sulla ripartizione della giurisdizione in tema
di impugnativa dei provvedimenti che determinano le tariffe per l'attività dei soci delle compagnie portuali, sia sulla affermazione di
principio che alla corresponsione del compenso deve corrispondere una
prestazione effettiva v., citata in motivazione, Cons. Stato, sez. VI, 14
novembre 1969, n. 716, id., 1970, III, 7, con nota di richiami.
In dottrina si esprime in senso esattamente conforme alla sentenza
riportata G. Lombardi (Considerazioni sulla nozione di « operazione
portuale » e sui limiti della riserva di lavoro a favore delle compagnie
portuali in riferimento alla progettata modifica dell'ultimo comma
dell'art. 110 c. nav., in Trasporti, 1981, fase. 24, 155) secondo cui è da
escludere che possano farsi rientrare nelle operazioni portuali la « manovra di valvole e manichette » (pag. 159) e « le operazioni di
allacciamento delle manichette sulle navi cisterna ed in generale la
manovra di valvole e macchinari regolanti il flusso di prodotti li
quidi, non comportando dette operazioni alcuna manipolazione mate
riale di merci » (pag. 167). Implicitamente conforme è da ritenersi l'opinione di M. L. Corbino,
Le operazioni portuali, Padova, 1979, secondo cui, perché possa
parlarsi di operazioni portuali, è necessaria la coesistenza di un criterio
di ordine spaziale (l'operazione deve avvenire all'interno del territorio
portuale) e di un criterio funzionale (l'operazione deve essere ricollega bile alla navigazione); criterio, quest'ultimo, non ravvisabile nel caso
deciso dalle sezioni unite. Più in generale v. sul tema, tra i contributi più recenti, F.
D'Aniello, Lavoro portuale, voce del Novissimo digesto, appendice,
Torino, 1983, IV, 754; F. A. Querci, Il lavoro portuale in Italia, in
Dir. maritt., 1983, 98; Id., Lavoro portuale, voce dell 'Enciclopedia del
diritto, Milano, 1973, XXIII, 469; F. Lauria, Le compagnie portuali nel diritto interno e comunitario, Milano, 1981. Tra i contributi meno
recenti cons. M. Iannuzzi, Le compagnie portuali, Milano, 1954.
This content downloaded from 91.223.28.163 on Sat, 28 Jun 2014 09:38:57 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE PRIMA
Svolgimento del processo. — Con atti del 22 settembre 1970 il
provveditorato al porto di Venezia, in persona del provveditore pro-tempore, conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Venezia la s.p.a. Vineurop e la s.r.l. Cantina Svevi chiedendo la condanna della prima al pagamento di lire 4.710.368 e della seconda di lire
779.727, oltre agli interessi di legge, clausola di provvisoria esecuzione della sentenza e rifusione di spese.
Assumeva l'attore che le due convenute esercitavano attività di commercio di vini e mosti occupando, per le relative lavorazioni, locali siti nella zona franca del porto e che, negli anni 1963 e
1964, avevano immesso in detti locali vini ed alcool da lavorare
provvedendo poi, a lavorazione ultimata, al travaso dei liquidi lavorati dal deposito ad auto o ferrocisterne. Il provveditorato, poiché tali operazioni erano da comprendere tra quelle di movi mento merci in arrivo e partenza di cui all'art. 30 del regolamen to generale d'esercizio del provveditorato al porto, aveva, ai sensi dell'art. 64 stesso regolamento, adebitato alle due società gli importi relativi ai travasi per l'ammontare sopra specificato, ma, essendosi le stesse rifiutate di pagare, si vedeva costretto ad adire l'autorità giudiziaria.
Costituitosi il contraddittorio, le convenute sostenevano di nulla
dovere al provveditorato, essendo state le operazioni di travaso
dei vini e simili eseguite senza necessità di mano d'opera, e
concludevano, pertanto, per il rigetto della domanda con la
rifusione delle spese di causa; la s.r.l. Svevi avanzava domanda
riconvenzionale per il rimborso di lire 703.926 pagate all'attore
nel 1962 e di lire 591.811 pagate nel 1963 per lo stesso titolo,
deducendo, a sostegno, le medesime argomentazioni svolte per chiedere il rigetto della domanda.
Riunite le due domande, assunti i mezzi istruttori indicali dalle
parti, il tribunale adito, con sentenza 24 maggio-3 ottobre 1972,
accoglieva la domanda principale e rigettava la domanda ricon
venzionale della Svevi.
Avverso tale decisione proponevano impugnazione le due socie
tà soccombenti. Resisteva il provveditorato. Con sentenza 13 maggio 1975 la corte d'appello in parziale
riforma dell'impugnata sentenza condannava le due società al
pagamento in favore del provveditorato e accoglieva la domanda
riconvenzionale. Osservava la corte che le operazioni di cui è
causa sono state compiute solo con mezzi meccanici e che ad
esse è rimasto del tutto estraneo il provveditorato.
Avverso tale sentenza il provveditorato soccombente ha propo sto ricorso per cassazione. Resistono le società con contricorso, illustrato con memoria.
Motivi della decisione. — Il provveditorato ricorrente censura
la sentenza della Corte d'appello di Venezia per violazione dell'art. 2 r.d.l. 14 marzo 1929 n. 503 modificato dall'art. 1 1. 12
agosto 1957 n. 597; violazione e comunque falsa applicazione
degli art. 110 e 111 c. nav. e 201 del regolamento per l'esecuzione
del codice medesimo; violazione e comunque falsa applicazione
degli art. 108 e 112 c. nav.; ed assume che, nel porto di Venezia, l'esercizio commerciale è riservato per legge (art. 2 r.d.l. 14
marzo 1929 n. 503 modificato dall'art. 1 1 12 agosto 1957 n. 597) al provveditorato, cui spetta la gestione di tutte le operazioni portuali e cioè imbarco, sbarco, deposito, trasporto delle merci. Il che è stato riconosciuto dal Consiglio di Satto (sez. VI 11
aprile 1970, n. 580, Foro it., Rep. 1970, voce Demanio, nn. 20-22), nella quale è stato affermato che il provveditorato al porto di
Venezia, in quanto titolare dell'esercizio commerciale del porto stesso, ha la gestione delle operazioni di sbarco ed imbarco, trasbordo e deposito merci anche nella sezione di Marghera per la parte ricompresa nell'ambito portuale).
Più precisamente, in forza delle disposizioni di legge di cui
sopra — prosegue il ricorrente — il provveditorato, in quanto riservatario dell'esercizio commerciale del porto di Venezia, si
configura, tra l'altro, come l'unica impresa per operazioni portua li, cui tutti gli utenti debbono obbligatoriamente rivolgersi per l'esecuzione delle operazioni portuali medesime.
Pertanto, l'utente, che intenda eseguire un'operazione portuale, potrà farlo a mezzo di una delle imprese di cui all'art. Ili c.
nav., ovvero per conto proprio, quando la esecuzione avvenga nei porti diversi da quello di Venezia, mentre in questo porto non potrà che ricorrere al provveditorato cui la legge, che ne
disciplina l'istituzione e le funzioni, attribuisce in via esclusiva la
gestione delle relative operazioni. Quanto alla riserva posta dall'art. 110 c. nav. a favore delle
compagnie portuali, essa vale sia per il porto di Venezia che per gli altri porti. Ma solo in questi ultimi le compagnie intrattengo no i rapporti relativi alla esecuzione delle opere loro demandate
Il Foro Italiano — 1985.
con l'impresa di cui all'art. Ili c. nav. ovvero con i singoli utenti. Nel porto di Venezia, invece, quei rapporti non possono essere svolti che con l'unica impresa, cui obbligatoriamente deve ricorrersi e cioè con il provveditorato, che è quindi l'unico contraente possibile delle compagnie. Tanto premesso, si duole che, secondo l'impugnata sentenza, l'unico problema della causa consisterebbe nell'esaminare se « nel caso che l'operatore, com
piendo con un lavoro proprio operazioni di trasporto meccaniz zate, e non necessitando quindi il lavoro di terzi, sia esonerato dal richiedere mano d'opera portuale ». Secondo il ricorrente, l'errore di tale impostazione consiste proprio nell'ipotizzare un
rapporto diretto, quanto all'esecuzione delle operazioni portuali, fra utente e compagnia portuale, laddove tale rapporto non può che intervenire fra provveditorato e compagnia, spettando all'ente
portuale la gestione e quindi l'organizzazione di cui si è detto; sicché con esso solo può l'utente stabilire il suo rapporto contrat
tuale, senza che possa acquistare rilievo alcuno il problema della riserva legislativa a favore delle compagnie portuali operante nei confronti del gestore delle operazioni portuali.
Deduce, fra l'altro, che esso provveditorato avrebbe inteso addebitare non tanto un corrispettivo per delle prestazioni, quan to piuttosto un quid per spese generali, per organizzazioni di servizi o addirittura per rischio imprenditoriale.
Alla prestazione dei complessi servizi, al rischio connesso ed ai
prezzi operati dai porti concorrenti sono commisurate appunto le tariffe spettanti al provveditorato al porto di Venezia destinate
quindi a compensare altre prestazioni diverse da quelle offerte dalla compagnia portuale e che a queste ultime non possono essere in alcun modo assimilate.
11 ricorso non è fondato. L'impugnata sentenza si sottrae ad
ogni censura, puntuale e corretta essendo stata l'applicazione della normativa che disciplina, nel nostro ordinamento, il lavoro
portuale. Giova premettere che l'art. 108 c. nav. enuncia il principio, in
base al quale al comandante del porto spettano le funzioni relati
ve alla disciplina ed alla vigilanza delle operazioni di imbarco,
sbarco, trasporto, deposito e movimento in genere di merci e di
ogni altro materiale; mentre l'art. 110 (« ... salvo casi speciali stabiliti dal ministero della marina l'esecuzione delle operazioni portuali è riservata alle compagnie portuali ») prevede un vero e
proprio monopolio delle operazioni portuali in favore delle
compagnie o gruppi di lavoro portuale, che sono formate dalle maestranze addette a tali operazioni. In ordine poi ai corrispettivi spettanti per l'esecuzione delle operazioni di lavoro portuale alle maestranze all'uopo adibite, l'art. 112 del cit. codice dispone che le tariffe e le altre norme per le prestazioni delle compagnie e dei gruppi portuali « sono determinate secondo le modalità stabi lite dal regolamento ».
E il regolamento per la navigazione marittima, cui rinvia la citata norma, disciplina in particolare la materia delle tariffe di lavoro all'art. 203, il quale cosi testualmente dispone: « le tariffe di cui all'art. 112 del codice e le norme per la loro applicazione sono formate dall'autorità preposta alla disciplina del lavoro
portuale, sentito il consiglio o la commissione del lavoro portuale e sono approvate con decreto del direttore marittimo, previa autorizzazione del ministero per la marina mercantile ».
Per quanto riguarda il porto di Venezia, la suddetta disciplina risulta derogata dalle norme contenute nell'art. 2 r.d.l. 14 marzo 1929 n. 503, modificato dall'art. 1 1. 12 agosto 1957 n. 797, e nel successivo art. 12 dello stesso decreto legge, norme che prevedono l'affidamento al provveditorato al porto di Venezia dell'esercizio commerciale del relativo porto, la devoluzione, allo stesso prov veditorato, della gestione delle operazioni di imbarco, sbarco delle merci, nonché della disciplina delle prestazioni della mano
d'opera che vi è adibita, con tutti i compiti assegnati agli uffici del lavoro portuale, ai comandanti di porto ed ai direttori marittimi, con l'osservanza delle norme contenute nel codice della
navigazione e nel relativo regolamento; la devoluzione al consi glio d'amministrazione del provveditorato del potere di stabilire le « tariffe e le relative norme di applicazione » per tutte le prestazioni concernenti il traffico del porto, tariffe che diventano esecutive con l'approvazione del ministro per la marina mer cantile.
Il quadro normativo va poi completato con gli art. 30 e 64 del regolamento d'esercizio.
L'art. 30 dispone che, salvo le eccezioni indicate agli art. 24 e 110, tutte le manipolazioni che si compiono in porto, a bordo o a terra, per il movimento o deposito delle merci in arrivo, in partenza o in trasbordo devono essere eseguite esclusivamente a mezzo di lavoratori iscritti nei ruoli portuali, ed appartenenti alla
This content downloaded from 91.223.28.163 on Sat, 28 Jun 2014 09:38:57 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
compagnia istituita a norma del r.d.l. 2& gennaio 1929 n. 166 (1° comma), e che i contravventori sono soggetti alle sanzioni disci
plinari previste da tali norme, e sono tenuti a risarcire la
compagnia lavoratori del mancato provento ai termini dell'art. 64
(2° comma). L'art. 64 prevede ulteriori sanzioni, stabilendo che « chiunque
per le operazioni di competenza del provveditorato, o da questo disciplinate, omettesse la richiesta della mano d'opera occorrente, od impiegasse personale estraneo ai ruoli, sarà tenuto egualmen al pagamento delle tariffe in vigore per le manipolazioni abusi vamente eseguite, nonostante che i lavoratori di ruolo non vi avessero partecipato ».
Tanto premesso, occorre muovere dalla «riserva» che l'art. 110 c. nav. dispone a favore delle compagnie portuali: riserva che trova la sua ratio nell'esigenza di assicurare, per un interesse
oggettivo, l'ordine in materia di lavoro portuale, ossia il regolare e ordinato svolgimento delle operazioni portuali.
L'ultimo comma dell'art. 110 c. nav. riserva alle compagnie le
operazioni portuali, attinenti al carico e allo scarico della nave, come risulta dall'art. 108 c. nav.
Come questa Corte suprema a sezioni unite ha avuto modo di
precisare con la sentenza 26 ottobre 1969, n. 621 (id., 1969, I,
3252), le compagnie portuali previste dall'art. 110 c. nav. che, al 2° comma, riconosce ad esse personalità giuridica, sono disciplina te, oltre che dallo stesso art. 110, anche dal successivo art. 112
per quanto riguarda le tariffe, e dagli ail. 148-195 (part. 161-195) del regolamento per la navigazione marittima. Esse sono conside rate dalla giurisprudenza e dalla prevalente dottrina quali persone giuridiche private del tipo di società cooperativa a responsabilità limitata e, agendo in regime di monopolio per le operazioni portuali, sono sottoposte nel loro funzionamento ad una minuzio sa e rigorosa disciplina, che si spinge fino ad un controllo sostitutivo dello Stato (art. 189 reg. nav. mar.).
Particolarmente in materia di tariffe (art. 112 c. nav. e 203 reg. nav. mar.) sono previsti interventi delle autorità portuali e
l'approvazione con decreto del direttore marittimo, previa auto rizzazione del ministro per la marina mercantile.
In conseguenza, da un lato sono stabilite sanzioni penali per chi « si avvale di personale non appartenente alle maestranze costituite nelle compagnie» (art. 1172 c. nav.) e, dall'altro, per chi « richiede e riscuote mercedi superiori a quelle fissate nelle tariffe» (art. 1173 c. nav.).
Il problema — che il ricorso pone all'attenzione di queste sezioni unite — si concreta soprattutto nella determinazione dell'ambito della menzionata riserva; a tale soluzione sono legate le altre questioni prospettate.
Poiché la normativa dinanzi richiamata incide — e notevolmen te — sull'autonomia privata, impostando limitazioni della libertà a contrattare degli operatori portuali, il giudice deve interpretare le norme nel loro significato letterale e log:'co, non solo senza farne
applicazione analogica, ma valendosi, con estrema cautela, anche del criterio estensivo, per evitare di attribuire al legislatore una volontà diversa da quella reale precisamente manifestata. Secondo
l'espressione della legge, il monopolio a favore delle compa gnie portuali, derogabile solo da un'autorizzazione del mini stero per la marina mercantile (art. 110, ult. comma, c. nav.), è per l'esecuzione di operazioni portuali, come la citata disposi zione dell'ult. comma dell'art. 110 c. nav. afferma, cioè per l'utilizzazione materiale di mano d'opera. Rimane cioè fuori dalla riserva l'organizzazione dei servizi del lavoro.
A norma dell'art. 188, 3° comma, n. 4, reg. nav. mar., il
regolamento interno delle compagnie portuali determina l'orga nizzazione del lavoro, l'uso dei mezzi meccanici in proprietà, in locazione o in concessione alla compagnia; la custodia, la distri
buzione, l'uso o la riconsegna degli strumenti di lavoro. L'orga nizzazione del lavoro, a cui si fa riferimento, non è quella generale del lavoro del porto, ma quella necessaria all'interno
delle compagnie, relativa alle attribuzioni loro istituzionalmente
spettanti e concernenti l'ordinata ed efficace ripartizione dei
compiti dei turni di lavoro e simili in rapporto al succedersi delle
richieste.
Inoltre l'art. Ili c. nav., nel determinare l'esercizio, da parte di
imprese, di operazioni portuali per conto di terzi, conferma il
carattere esecutivo delle attribuzioni delle compagnie, in quanto consente che queste, in aggiunta alla riserva della esecuzione delle operazioni portuali, possano conseguire la concessione di
operazioni per conto di terzi come qualsiasi altra impresa. -Detto questo, va osservato che l'impugnata sentenza — nel
porsi il problema dei limiti e della portata della precennata riserva — si è dato carico di esaminare se, nel caso che
Il Foro Italiano — 1985.
l'operatore, compiendo con lavoro proprio operazioni di trasporto meccanizzate, non necessitando quindi del lavoro di terzi, sia
esonerato dal richiedere mano d'opera portuale, ed ha corretta
mente dato a tale quesito una risposta affermativa. Ha giustamente rilevato la corte che, per « operazioni portua
li », di cui all'art. 110 c. nav., debbono intendersi esclusivamente
quelle che il legislatore ha indicato all'art. 108 e cioè quelle
tipicamente portuali, poiché le « operazioni portuali », oggetto della riserva in esame, non possono essere diverse da un porto
all'altro, perché altrimenti vi sarebbe disparità di limitazioni della
libertà dell'operatore, cosa questa che la legge non prevede e non
vuole.
Dopo aver dato atto della meccanizzazione di talune operazioni
portuali con mezzi d'opera apprestati dallo stesso operatore
privato e che l'energia di lavoro necessaria per il movimento
delle merci in arrivo, in partenza o in trasbordo, è stata fornita
interamente da mezzi meccanici, in sostituzione del lavoro umano
nel porto, la corte di Venezia ha ritenuto che sono eccettuate
dalla riserva di monopolio delle compagnie portuali, non solo le
operazioni meccanizzate ma anche quelle prestazioni personali consistenti nella pura e semplice manovra dei mezzi meccanici
impiegati.
Quando l'energia è fornita dalla macchina — puntualizza la
corte del merito — le manualità di manovra del mezzo meccanico
stesso non possono ricomprendersi nel concetto di « manipolazio ne di merci » né secondo il significato lessicale della norma di
cui all'art. 30 reg. gen. di esercizio ne secondo la ratio della
norma dell'art. 110 c. nav.
In definitiva, secondo il corretto apprezzamento del giudice del merito, non ricorre l'ipotesi dello spostamento della merce da
parte dell'uomo nel caso in cui l'energia per lo spostamento della
merce venga fornita dalla macchina e l'opera dell'uomo si limiti
«alla manualità di manovra del mezzo meccanico», sicché l'ope razione atipica o meramente meccanica quale l'aggancio delle
« manichette » non è idonea a rientrare nel concetto di operazioni
portuale.
Conseguentemente, se mancava un'operazione portuale in senso
proprio non poteva ovviamente sorgere alcuna pretesa, a titolo di
corrispettivo.
È, pertanto, illegittima la pretesa volta ad ottenere il pagamen to di tariffe per prestazioni non effettivamente rese dalle maestran
ze portuali in base al disposto all'art. 64 del regolamento del
porto di Venezia che prevede l'obbligo del pagamento delle
tariffe in vigore per le manipolazioni abusivamente eseguite, nonostante che i lavoratori non vi avessero partecipato.
L'art. 1172 c. nav. prevede sanzioni penali per chiunque «si
avvale » di personale non appartenente alle maestranze riunite
nelle compagnie portuali e neppure per implicito si riferisce al
caso di chi può fare a meno dell'opera delle maestranze.
Se il legislatore impone le maestranze associate per l'esecuzione
delle operazioni portuali, è logico che deve trattarsi di operazioni
portuali per cui mano d'opera sia necessaria.
Ciò è confermato dall'art. 201 reg. nav. mar., che richiede
l'autorizzazione dell'autorità preposta alla disciplina del lavoro
portuale per « coloro che impiegano direttamente maestranze
portuali e mezzi d'opera per provvedere alle operazioni portuali,
per conto proprio », disposizione dove è ulteriormente chiarito
che è la necessità dell'impiego (ed impiego significa compimento di un'attività concreta) di maestranze portuali e di mezzi d'opera, che la legge prevede.
Per effetto della riserva posta a favore delle compagnie portuali dall'art. 110, ult. comma, c. nav., l'operatore portuale non può valersi nell'esecuzione delle operazioni portuali di maestranze
diverse da quelle organizzate nelle compagnie, ma resta rimessa
all'operatore stesso la valutazione circa la necessità e la conve nienza dell'impiego di dette maestranze.
Pertanto, il comandante di porto non può imporre l'impiego di
maestranze delle compagnie portuali che non sia ritenuto necessa
rio dall'operatore portuale o che ne sia effettivamente utilizzabile, né può valersi di poteri di coazione in caso di inosservanza da
parte dell'operatore stesso di un suo ordine in tale materia. Nel vigente sistema normativo, né il comandante del porto né
l'ufficio del lavoro, nell'ambito della materia del lavoro, tra cui
tipica è quella dell'impiego della mano d'opera portuale, può importare mano d'opera allorché non sia effettivamente utilizzabi
le, giacché l'impiego presuppone una prestazione positiva di lavoro.
In altre parole, l'obbligo di pagare i corrispettivi per le
operazioni delle compagnie portuali può evidentemente spingersi fin dove le operazioni portuali esistono e devono o dovrebbero
This content downloaded from 91.223.28.163 on Sat, 28 Jun 2014 09:38:57 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE PRIMA
essere affidate alle compagnie portuali per esigenze di ordine
portuale e non certo là dove l'operazione portuale non sussiste e
quindi non vi è necessità di servirsi né delle compagnie portuali, né di terzi.
È perciò da condividere l'affermazione, che è contenuta nella
decisione del Consiglio di Stato n. 716 del 1969 (id., 1970, III, 7), che evidenzia l'esigenza che le tariffe del lavoro portuale siano
rispondenti a prestazioni effettivamente rese dalle maestranze
portuali in favore degli armatori e non debbano, invece, costituire
una tassa o, peggio, una tangente a carico di questi ultimi,
indipendentemente dalla prestazione di attività lavorativa.
Diversamente opinando, la pretesa del provveditorato — essen
do priva di causa, ossia del necessario fondamento legale oggetti vo idoneo a giustificare lo spostamento patrimoniale — verrebbe a configurarsi quale atto di imposizione tributaria e, sotto questo
aspetto, ulteriormente illegittima per l'evidente contrasto col prin cipio di legalità, che in subiecta materia deve sempre sorreggere ogni imposizione di prestazione patrimoniale (art. 23 Cost.).
Né vale la prospettazione del ricorrente, secondo cui non è tanto alle operazioni portuali, oggettivamente considerate, che si
deve guardare, bensì ai soggetti preposti a sovraintendere, nei
porti, a quelle operazioni. A parte la novità della deduzione che ne imporrebbe l'inam
missibilità, v'è da dire, a completamento delle osservazioni
dianzi esposte, che lo spostamento del fulcro del problema dal
momento oggettivo a quello soggettivo non giova in alcun modo
al ricorrente.
Quel che conta e rileva è soltanto che un certo fatto abbia le
caratteristiche tipiche che, su un piano esclusivamente oggettivo e materiale, siano tali da inquadrarlo nel concetto di « operazione
portuale »; quali che siano invece le caratteristiche del soggetto, cui tali operazioni si riconducono, è un fatto privo di ogni e
qualsiasi rilevanza.
Mentre resta assorbito ogni ulteriore profilo di doglianza, il
ricorso deve essere conseguemente rigettato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 30 otto
bre 1984, n. 5545; Pres. Falcone, Est. Sensale, P. M. Morozzo
Della Rocca (conci, diff.); Min. finanze (Aw. dello Stato
Salimei) c. Rossi (Avv. Paoletti, Ferreri). Cassa Comm. trib.
centrale 30 gennaio 1981, n. 195.
Successioni e donazioni (imposta sulle) — Trasferimenti operati dal « de cuius » negli ultimi sei mesi di vita — Alienazione al
futuro erede — Inserimento del bene nell'attivo ereditario —
Questione infondata di costituzionalità (Cost., art. 3, 24, 53;
d.p.r 26 ottobre 1972 n. 637, disciplina dell'imposta sulle
successioni e sulle donazioni, art. 9).
Ai sensi dell'art. 9 cl.p.r. 26 ottobre 1972 n. 637 sono compresi nell'asse ereditario anche i beni acquistati dall'erede negli
ultimi sei mesi di vita del de cuius. (1) È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzio
nale dell'art. 9 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 637, nella parte in cui
pone una presunzione assoluta di esistenza nell'attivo ereditario
dei beni acquistati dall'erede negli ultimi sei mesi di vita del
de cuius ed assoggetta l'erede, a differenza dell'acquirente
estraneo, ad una doppia imposizione, in riferimento agli art. 3, 24 e 53 Cost. (2)
(1-2) Questioni nuove. Sulla possibilità di escludere la tassazione del valore del bene
alienato dal de cuius, mediante la dimostrazione del particolare impiego delle somme ottenute in pagamento dal defunto, v. Comm. trib. I grado Firenze 23 settembre 1981, Foro it., Rep. 1982, voce Successioni e donazioni (imposta sulle), n. 14, che esclude la tassabilità
del valore relativo all'alienazione di immobiii impiegato dal de cuius
nell'acquisto di buoni del tesoro; Comm. trib. I grado Firenze 4
gennaio 1982, ibid., n. 29, che annette in detrazione — rispetto al
valore degli immobili venduti — le imposte pagate dal de cuius ai
sensi del decreto istitutivo dell'i.n.v.i.m. (entrambe le pronunce si
leggono in Bollettino trib., 1982, 744 e 745, con nota di Bompani, Vendite nei sei mesi anteriori alla apertura della sucessione: problemi
particolari). Sulla nuova disciplina introdotta dall'art. 25 d.p.r. 634/72 e richia
mata dall'art. 7 d.p.r. 637/72, che pone una presunzione di gratuità dei trasferimenti immobiliari posti in essere fra parenti in linea diretta, v. Cass. 25 luglio 1978, n. 3709, Foro it., 1979, I, 1037.
Il Foro Italiano — 1985.
Svolgimento del processo. — Con due atti del 18 aprile 1975
Elena Gobetti vendeva al cugino Attilio Rossi due complessi
agricoli. Il 3 maggio dello stesso anno ella decedeva lasciando a
succederle, quale erede universale designato con testamento, il
predetto Attilio Rossi. In una delle denunzie presentate, questi, in
ottemperanza al disposto dell'art. 9 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 637
(in base al quale si considerano compresi nell'attivo ereditario i
beni e i diritti trasferiti a terzi a titolo oneroso negli ultimi sei
mesi di vita del defunto), dichiarava gli acquisti da lui effettuati
dalla defunta prima della sua morte e conseguentemente l'ufficio, nella liquidazione dei tributi successori, comprendeva i beni in
parola: e, mentre in un primo tempo aveva detratto le imposte di registro assolte per gli acquisti di cui si è fatto cenno, in un
secondo momento pretendeva il pagamento integrale dei tributi
liquidati in sede successoria.
Contro tale criterio di tassazione il Rossi reclamava alle com
missioni tributarie, sostenendo che, essendo egli succeduto alla
defunta, non poteva essere considerato « terzo » secondo la previ sione del 1° comma dell'art. 9, mentre l'ufficio opponeva la tesi
contraria affermando che il significato attribuito al termine « ter zo » dal legislatore era da intendere in senso generico.
Tanto in primo che in secondo grado il contribuente vedeva accolta la propria tesi, che è stata condivisa, con la decisione
impugnata in questa sede, dalla Commissione tributaria centrale.
Questa, premesso che in base all'art. 9 d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 637 si considerano compresi nell'attivo ereditario i beni e i
diritti, soggetti ad imposta, che siano stati trasferiti a terzi a titolo oneroso negli ultimi sei mesi di vita del defunto e che tale
In dottrina cons, sull'argomento Schiavon, La presunzione di appar tenenza all'attivo ereditario dei beni alienati negli ultimi sei mesi, in Informatore Pirola, 1978, 543; Stoppani, Imposta di successione e trasferimento di beni negli ultimi sei mesi di vita dell'alienante, in Giur. it., 1973, IV, 189; Altana, Beni alienati negli ultimi sei mesi di vita, in I.v.a. e tributi erariali, 1973, 297; e da ultimo Vinci Gagliardi, La successione nella legge civile e tributaria, Milano, 1985, 135.
* * *
La sentenza della Cassazione appaga ad una prima lettura ma lascia qualche perplessità ad un meditato ripensamento.
Non per il primo dei principi affermati dato che il ricomprendere l'erede tra «i terzi» previsti dal 1° comma dell'art. 9 d.p.r. 637/72 corregge, in adesione alla norma di delega, la lettera enfatizzata della norma delegata.
Infatti il punto 4 dell'art. 8 1. 825/71 prevede la «irrilevanza, ai fini della determinazione dell'imponibile nelle successioni ereditarie, delle alienazioni di beni e delle cessioni di passività poste in essere negli ultimi sei mesi di vita del dante causa, ecc. » e non lascia adito a distinzione tra eredi e terzi.
Senza il confronto con la norma di delega la interpretazione della Commissione tributaria centrale sarebbe più aderente al testo in quanto la parola terzi in tanto ha un senso in quanto si contrapponga ad eredi. La contrapposizione che la sentenza istituisce con i destinatari dei trasferimenti previsti gratuiti ex art. 25 della legge di registro •—
isolando un richiamo contenuto nell'ult. comma dell'art. 7 — appare invero artificiosa: infatti il citato comma si riferisce piuttosto a tutte le donazioni pervenute agli eredi e quindi la contrapposizione non
potrebbe che riguardare l'intera categoria degli eredi. Meno felici appaiono le considerazioni della sentenza circa la
compatibilità della norma con il dettato costituzionale. Innanzi tutto non si può condividere l'affermata analogia tra l'ult.
comma dell'art. 7 e il 1° comma dell'art. 9. Il primo recita « Ai soli fini della determinazione delle aliquote il
valore globale dell'asse ereditario è maggiorato di un importo pari al valore complessivo di tutte le donazioni, comprese quelle che si
presumono tali ai sensi del d.p.r. 634/72, fatte dal defunto agli eredi o
legatari ». Non vi è dubbio che, come espressamente dichiarato, la disposizione
valga solo per la determinazione delle aliquote senza peraltro che le
aliquote cosi determinate vengano di nuovo applicate sull'importo del bene donato: per questo la tassazione avvenuta al momento della donazione rimane definitiva.
Ma la norma dell'art. 9 non richiama i beni alienati nel coacervo ereditario ai soli fini della tassazione ma precisa che « sono compresi nell'attivo ereditario » comportando quindi una seconda tassazione.
Non c'è dubbio dunque che l'erede che non sia discendente diretto
venga a pagare due volte la trasmissione dello stesso bene, trasmissio ne che, ovviamente, non può che essere unica.
Vero è che sulla prima paga l'imposta di registro e sulla seconda
l'imposta sulle successioni, ma paga entrambe per acquisire una sola
volta il medesimo bene. Solo formalisticamente può sostenersi a questo punto che l'art. 53
Cost, sia stato rispettato. M. Gagliardi
This content downloaded from 91.223.28.163 on Sat, 28 Jun 2014 09:38:57 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions