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sezioni unite civili; sentenza 6 dicembre 1995, n. 12567; Pres. La Torre, Est. Vella, P.M.Jannelli (concl. conf.); D'Agostino (Avv. Castagna) c. Min. grazia e giustizia (Avv. dello StatoBasile). Cassa Cons. sup. magistratura, sez. disciplinare, 13 gennaio 1995Source: Il Foro Italiano, Vol. 119, No. 1 (GENNAIO 1996), pp. 105/106-111/112Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23190582 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
delle colpe ai sensi dell'art. 1126 c.c., come, invece, richiesto
dalla predetta appellante. Per la cassazione di tale decisione, pubblicata il 15 giugno
1992 e non notificata, ricorrono Alberto e Giancarlo Sebastia
ni, quali eredi della Tarantola e nei soli confronti degli eredi
Luciani, con atto articolato su tre motivi. Resistono con con
troricorso Riccardo e Maria Pia Luciani nonché Fortuna Tra
mutolo, tutti quali eredi di Candido Luciani, i quali deducono altresì, nei confronti del ministero degli interni, un unico moti
vo di ricorso incidentale, con atto ad esso notificato in data
13 settembre 1993. Resiste con controricorso la predetta ammi
nistrazione, la quale eccepisce l'inammissibilità dell'impugna zione incidentale, siccome tardiva, e ne chiede, in ogni caso,
il rigetto. Nessuna attività difensiva è stata invece svolta dal
Camedoli. Motivi della decisione. — 4. - Con il terzo motivo del ricorso
principale si adduce la violazione e falsa applicazione degli art.
1126, 2051, 2053 e 2055 c.c., nonché difetto ed erroneità della
motivazione, e si afferma che, essendo risultato che la Taranto
la era titolare di 172,76 millesimi, contro gli 827,24 millesimi del Luciani, nella stessa misura avrebbero dovuto essere gra
duate le rispettive colpe, tanto più che quest'ultimo aveva l'e
sclusivo accesso alla terrazza, il cedimento della quale ebbe a
determinare il crollo del fabbricato.
Osserva la corte che, essendo stata dedotta ed accertata la
responsabilità aquiliana di condomini di un edificio per danni a terzi cagionati dalla omessa manutenzione di esso, nei rappor
ti tra danneggiami e danneggiato legittimamente è stata affer
mata la natura solidale di detta responsabilità (art. 2055, 1°
comma, c.c.): punto della decisione, questo, che non forma og
getto di ricorso.
Questo investe invece, con il motivo in esame, la diversa sfe
ra dei rapporti interni tra danneggiami, riguardo ai quali lo
stesso art. 2055 dispone, nei commi successivi, che colui, il qua
le ha risarcito il danno, ha regresso nei confronti di ciascuno
degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispetti va colpa e dall'entità delle conseguenze, che ne sono derivate,
e che, nel dubbio, le singole colpe si presumono eguali.
La corte territoriale ha confermato nella misura del 50% per
ciascuno dei due condomini l'apporto di costoro all'evento dan
noso, osservando che questo era stato determinato dalla pari
menti negligente omissione, da parte di entrambi, di ogni neces
sario intervento manutentivo, facendo in tal senso applicazione
del 2° comma del menzionato art. 2055, e rilevando che la nor
ma non consente il riferimento ad automatismi di sorta, neppu
re ai sensi dell'art. 1126 c.c.
Quest'ultima disposizione prevede per il lastrico solare, non
in uso comune a tutti i condomini, il riparto tra costoro delle
spese per le riparazioni e ricostruzioni, nella misura da essa pre
cisata.
Il problema del coordinamelo tra le due norme, portato all'e
same della corte territoriale agli effetti del regolamento dei rap
porti interni tra i due condomini danneggiami, è stato risolto
in difformità dall'indirizzo interpretativo, affermatosi in sede di legittimità.
Già con sentenza del 14 febbraio 1987, n. 1618 (Foro it.,
Rep. 1987, voce Comunione e condominio, n. 108) questa Cor
te suprema aveva, infatti, avuto occasione di stabilire che anche
i danni, cagionati dalla mancata manutenzione del lastrico sola
re e del manto impermeabile, che protegge l'ultimo piano del
l'edifico, debbono essere risarciti col concorso del condominio
nella proporzione prevista dall'art. 1126 c.c.: interpretazione,
questa, poi ribadita con sentenza del 25 giugno 1990, n. 6405
(id., Rep. 1990, voce cit., n. 83) e del 17 maggio 1994, n. 4816
(id., Rep. 1994, voce cit., n. 175) e che, per le considerazioni di seguito esposte, va qui confermata.
Gli interventi di manutenzione straordinaria su edificio con dominiale devono ritenersi obbligatori allorquando, dalla loro omessa esecuzione, possano derivare danni a terzi, come si de
sume, oltre che dalle attribuzioni in ordine alle spese urgenti,
rispettivamente demandate, dagli art. 1134 e 1135, ultimo com
ma, c.c., anche al singolo condomino ed all'amministratore, dalla
responsabilità, ai sensi dell'art. 2051 c.c., del condominio e dei
singoli condomini in caso di danni a terzi cagionati dall'edificio condominiale: responsabilità che, come questa corte ha precisa
to, prescinde anche dalla conoscenza o meno dei danni stessi
(sent. n. 6405 del 1990, cit.).
Il Foro Italiano — 1996.
La stretta correlazione, che intercorre tra tali norme, porta
a ritenere che, al di là della mera lettera della disposizione, l'art.
1126 c.c. abbia inteso disciplinare, relativamente ai lastrici sola
ri, il riparto delle spese non solo riguardo alle riparazioni e ri
costruzioni, ma anche, nei rapporti interni tra condomini, al
concorso di costoro nel risarcimento dei danni cagionati dalla
omessa esecuzione dei doverosi interventi manutentivi, non es
sendovi, nell'ambito di tali rapporti, alcun motivo per distin
guere tra l'una e l'altra sfera.
Nella specie, i giudici del merito motivatamente ed incensura
bilmente hanno accertato che il crollo del fabbricato fu deter
minato dalla omessa esecuzione dei necessari lavori strutturali
sulla terrazza, dei quali i due condomini erano a conoscenza
e riguardo ai quali entrambi mantennero un atteggiamento ne
gligentemente omissivo: le conseguenze dannose del quale, nei
rapporti interni tra costoro, non possono, pertanto, non trova
re la loro disciplina nell'art. 1126 c.c.
Né possono seguirsi le argomentazioni dei controricorrenti Lu
ciani, basate sulla natura della responsabilità — conseguente,
si afferma, a reato — e sul giudicato penale.
Quest'ultima affermazione avrebbe, invero, dovuto formare
oggetto di ricorso incidentale condizionato, avendo la corte ter
ritoriale affermato che esso non precludeva un diverso accerta
mento delle singole colpe, talché era onere della parte, rimasta
sul punto soccombente, impugnare la decisione.
Quanto, poi, alla asserita responsabilità ex delieto, essa inve
ste in realtà i soli rapporti tra danneggiato e danneggiami, men
tre, nei rapporti interni tra questi ultimi, diverse sono, per quanto
già esposto, le norme che vengono in considerazione.
Si impone pertanto l'annullamento, sul punto, della senten
za, con rinvio ad altra sezione della stessa corte territoriale,
la quale si atterrà al seguente principio di diritto: in caso di
danni a terzi, cagionati dalla omessa esecuzione di lavori di ma
nutenzione straordinaria su lastrico solare in edificio condomi
niale, ed a carico del condominio, i singoli condomini sono te
nuti, nei rapporti interni tra loro, a concorrere al risarcimento
dei danni secondo i criteri di cui all'art. 1126 c.c.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 6 di cembre 1995, n. 12567; Pres. La Torre, Est. Vella, P.M.
Jannelli (conci, conf.); D'Agostino (Aw, Castagna) c. Min.
grazia e giustizia (Aw. dello Stato Basile). Cassa Cons. sup.
magistratura, sez. disciplinare, 13 gennaio 1995.
Ordinamento giudiziario — Procedimento disciplinare — Iscri
zione di magistrato alla massoneria — Dlecito disciplinare —
Limiti (R.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511, guarentigie della ma
gistratura, art. 18).
L'affiliazione alla massoneria è astrattamente configuratile co
me illecito disciplinare, ma, in concreto, nel caso di iscrizione
(nel 1985) anteriore all'ingresso in magistratura, seguita da
richiesta di «collocamento in sonno» di pochi anni successiva
(nel 1989), per motivare adeguatamente una condanna disci
plinare per violazione dell'obbligo di diligenza e avvedutezza è necessario valutare: A) se il magistrato aveva piena consa
pevolezza dell'incompatibilità tra lo stato di magistrato e la
permanenza nella massoneria, in relazione alle circostanze che
di) dalla giurisprudenza disciplinare formatasi sull'iscrizione di magistrati alla loggia massonica P2 (anni 1983-1985) si può ragionevolmente ritenere che fosse stata affermata l'illiceità
disciplinare dell'iscrizione a detta loggia segreta, ma non alla
massoneria ufficiale; b) il Csm ha manifestato espressamente
il proprio giudizio di riprovevolezza nei confronti dei magi strati iscritti alla massoneria solo nel 1990 e ha ipotizzato che
tale iscrizione potesse costituire illecito disciplinare solo nel
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PARTE PRIMA
1993; c) sul piano parlamentare, nel 1987, non è stata espres sa una valutazione negativa dell'iscrizione dei magistrati alla
massoneria ma si è solo previsto un obbligo del magistrato di informare il Csm dell'iscrizione a qualsiasi tipo di associa zione, compresa la massoneria; B> ferma l'irrilevanza delle
motivazioni individuali che hanno spinto l'incolpato a chiede re il «collocamento in sonno», se l'accoglimento di detta ri
chiesta determini o non la cessazione definitiva e completa della qualità di associato e, in caso negativo, se nell'ordina
mento della massoneria esistano forme più incisive di sciogli mento del vincolo associativo delle quali l'incolpato si sareb
be potuto servire. (1)
Svolgimento del processo. — Il 23 novembre 1993 il ministro
di grazia e giustizia promosse azione disciplinare nei confronti
del dr. Luciano D'Agostino, magistrato di tribunale, con fun
zioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribu
nale di Lamezia Terme, per avere il medesimo, in violazione
dell'art. 18 r.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511, compromesso il pre
stigio dell'ordine giudiziario, affiliandosi alla loggia massonica Ferrer del Grande oriente d'Italia, nell'anno successivo (1987)
a quello di nomina a uditore giudiziario (1986), e sciogliendosi dal vincolo massonico (mediante il c.d. collocamento in sonno)
soltanto nell'anno 1990.
Espletata l'istruzione sommaria, il D'Agostino fu rinviato al
giudizio della sezione disciplinare del Consiglio superiore della
magistratura, che, con sentenza del 13 gennaio 1995 (Foro it.,
1995, III, 215), respinte le richieste di proscioglimento del di fensore e del procuratore generale della Corte di cassazione,
gli ha inflitto la sanzione della censura, avendo ritenuto incom
patibile l'affiliazione alla massoneria con la sua appartenenza alla magistratura.
Contro tale decisione il D'Agostino ha proposto ricorso per
cassazione, con due motivi illustrati con memoria, al quale resi
ste con controricorso il ministro di grazia e giustizia. Motivi della decisione. — Con il primo motivo, denunziando
la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, in rela
zione all'art. 360, n. 3, c.p.c., il ricorrente, non senza rilevare
che egli aderì alla massoneria prima di essere assunto in magi stratura e che non gli si può, quindi, far carico di una volontà
manifestata quando magistrato non era, censura la sentenza im
pugnata per avere la sezione disciplinare erroneamente ritenuto
esso D'Agostino responsabile dell'illecito contestatogli, per la
sua appartenenza alla loggia massonica Ferrer del Grande oriente
d'Italia, sebbene, all'epoca dell'affiliazione (anni 1986-1990), dalla stessa sezione disciplinare (sent. 9 febbraio 1983, Foro it., Rep.
1983, voce Ordinamento giudiziario, n. 144) e dalle sezioni uni
te della Corte di cassazione (sent. nn. 550, 551, 552, 553, 554,
555, 556, id., Rep. 1985, voce cit., nn. 170-175, 166 e n. 557 del 1985, id., 1985, I, 378), la responsabilità disciplinare dei magistrati fosse stata ravvisata solo per l'iscrizione a sodalizi
massonici segreti, essendo essa vietata dall'art. 18 Cost, e dalla
1. 26 gennaio 1982 n. 17.
Si aggiunge che la sezione avrebbe dovuto negare la colpevo lezza del D'Agostino, pur avendo ritenuto che sia vietata l'ap
(1) La sentenza della sezione disciplinare 13 gennaio 1995, ora cassa
ta, è riportata in Foro it., 1995, III, 215, con nota di richiami. A prescindere dalla richiesta di una più rigorosa valutazione della
portata obiettiva del «collocamento in sonno» del tutto giustificata, non si comprendono le ragioni per le quali apoditticamente si affermi l'irri
levanza delle motivazioni soggettive in base alle quali la richiesta è stata
inoltrata, perché da dette motivazioni può emergere sia la consapevo lezza del disvalore dell'affiliazione massonica e sia, ad esempio, la man canza di spontaneità che potrebbe togliere alla circostanza valore di ravvedimento attuoso o di spontanea desistenza dall'illecito.
La corte accoglie poi la tesi che la procura generale aveva già soste nuto davanti alla sezione disciplinare (v. C. F. Grosso, Massoneria e
magistratura: la sentenza disciplinare 13 gennaio 1995 come sbocco na turale di un lungo travaglio interpretativo del Csm sul divieto della doppia appartenenza, ibid., V, 198, 210). È evidente che lo spostamento in avanti della data in cui si sarebbe formata la valutazione a livello socia le e istituzionale di riprovevolezza dell'affiliazione dei magistrati alla massoneria (dall'inizio degli anni '80, secondo la sezione disciplinare, al 1990 o 1993, secondo quanto, almeno in modo implicito, sembrano ritenere le sezioni unite), restringe in modo molto significativo l'ambito dei comportamenti perseguibili disciplinarmente. Forse non un «colpo di spugna», ma certo qualcosa che può rassomigliarvi. [G. Salme]
Il Foro Italiano — 1996.
partenenza dei magistrati a logge, anche non segrete, per avere
ad esse esteso il principio dell'incompatibilità tra lo status di
giudice e quello di affiliato alla massoneria, enunciato dal ple num del Consiglio superiore della magistratura con le delibera
zioni del 22 marzo 1990 e del 14 luglio 1993, emanate in occa
sione del conferimento di alcuni incarichi direttivi. Infatti, l'in colpato, fino alla presentazione della domanda di dimissioni dalla
massoneria, avvenuta in data anteriore a quella di tali delibere,
non poteva avere avuto coscienza dell'illiceità della sua affilia
zione, essendo state pronunciate, fino a quel momento, soltan
to le sentenze su citate della sezione disciplinare e delle sezioni
unite della Corte di cassazione, con le quali la violazione del
l'art. 18 r.d.leg. n. 511 del 1946 era stata limitata all'iscrizione
a sodalizi massonici segreti. Con il secondo motivo, strettamente connesso a quello innan
zi esposto, si denunzia il difetto e la contraddittorietà di moti
vazione per non avere la sezione disciplinare precisato le ragioni
per le quali aveva respinto la tesi dell'incolpato, secondo cui
la responsabilità dei magistrati sussiste per la loro affiliazione
alle logge segrete e non anche a quelle della massoneria ufficia
le, pur essendo tale tesi conforme all'interpretazione accolta con
la sua pronuncia del 1983, e con le decisioni della Corte di cas
sazione dell'anno 1985. In particolare, ha desunto «un vero e
forte sentimento di condivisione del sodalizio massonico e delle
sue regole» dal contenuto della lettera di dimissioni del D'Ago
stino, mentre la logica più elementare avrebbe dovuto indurre
a ritenere che il medesimo, con tale comportamento, aveva, in
vece, «compiuto un gesto evidente di sensibilità e di adesione
alla sacralità della condizione magistratuale».
Infine, si sostiene che, anche la statuizione con cui è stata
irrogata la sanzione della censura, è affetta da vizio di motiva
zione, in quanto la sezione disciplinare l'ha giustificata, limi
tandosi a rilevare la gravità dell'illecito, senza avere proceduto
alla dovuta comparazione tra il fatto addebitato e i precedenti
dell'incolpato. 1. - Deve preliminarmente darsi atto che l'impugnata senten
za disciplinare, rettificando le date di affiliazione e di sciogli mento dal vincolo massonico indicate nell'incolpazione (rispet
tivamente «nell'anno 1987» e «non prima dell'anno 1990»), ha
precisato che in realtà il D'Agostino si affiliò alla massoneria
«nel 1985, in epoca antecedente al suo ingresso in magistratura e che ebbe poi a chiedere di esserne disciolto prima del colloca
mento in sonno . . . alla fine del 1989» (pag. 18, ove peraltro si considera questa diversità di date «insignificante»).
2. - Il primo problema da esaminare è quello della configura zione o non dell'illecito disciplinare nel caso d'iscrizione dei ma
gistrati a logge massoniche non segrete. Si deve cioè stabilire
se l'affiliazione alla massoneria ufficiale costituisca o meno con
dotta vietata dall'art. 18 r.d.leg. 31 maggio 1946 n. 511 (mod. dalla 1. 7 febbraio 1956 n. 30) per il quale: «Il magistrato che
manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta
tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considera
zione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'or
dine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari secondo le
disposizioni degli articoli seguenti». Ed è comunque da tenere
presente che, nel caso in esame, il problema si pone non tanto
con riguardo al fatto positivo della «affiliazione», quanto al
fatto negativo del «non tempestivo scioglimento» dal vincolo
massonico, dato che questo — come sopra detto — fu contrat
to dal D'Agostino quando egli non era ancora entrato in magi stratura.
Come è noto, le sezioni unite, con sentenze del 1985 (da n.
550 a n. 557, cit.), conformemente alla decisione, deliberata
due anni prima dalla sezione disciplinare, ritennero che costi
tuisse illecito disciplinare l'adesione del magistrato alla loggia massonica P2, essendosi considerata questa un'associazione vie
tata dall'art. 18 Cost, e dalla sua legge applicativa 26 gennaio 1982 n. 17, per la natura segreta, evidenziata dall'esercizio na
scosto di un'attività diretta ad interferire sull'apparato dei pote ri pubblici e sullo svolgimento dell'attività politica.
Sulla questione della appartenenza dei magistrati a logge mas
soniche non segrete queste sezioni unite non si erano, invece, anteriormente pronunciate e l'unico precedente della sezione di
sciplinare è costituito dalla sentenza impugnata col ricorso pro
posto dal D'Agostino. Con tale decisione la sezione disciplinare, dopo avere richia
mato la sentenza della Corte costituzionale n. 100 del 1981 (id.,
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
1981, I, 2360) di rigetto dell'eccezione — con cui si era dedotta
l'illegittimità dell'art. 18 r.d.leg. n. 511 del 1946, sotto il profi lo dell'indeterminatezza dell'illecito disciplinare da esso contem
plata e nella quale si era affermato che i diritti costituzionali, sanciti dagli art. 18 (diritto di associarsi liberamente, senza au
torizzazione, per fini non vietati dalla legge penale) e 21 (diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, 10 scritto e ogni altro mezzo di diffusione) Cost., devono essere
per i magistrati posti a confronto con gli altri valori dell'impar zialità e indipendenza della funzione giurisdizionale, riconosciu
ti dagli art. 101 e 104 Cost., al fine di contemperare esigenze
egualmente garantite dall'ordinamento costituzionale — ha cor
rettamente giudicato prevalenti questi due ultimi specifici valori
sull'altro, più generico, della libertà associativa.
Ciò premesso, in forza dei suoi estesi poteri valutativi — de
rivanti dall'indeterminatezza dell'illecito disciplinare (assenza di
tipicizzazione) — i quali consistono nello stabilire, di volta in volta, se i comportamenti del magistrato siano o non lesivi dei
valori tutelati dall'art. 18 r.d.leg. n. 511 del 1946, ha ritenuto
che l'appartenenza all'ordine giudiziario è incompatibile anche
con l'affiliazione alla massoneria non segreta, e ha addotto, a sostegno di tale convincimento, una serie di considerazioni
che integrano, nel loro complesso, una motivazione logica, esau
riente ed immune da errori di diritto. Infatti, ha osservato che «dubbi gravissimi» sussistono sulla
possibilità per il magistrato massone di esercitare le funzioni
giurisdizionali, in modo imparziale e indipendente, come costi
tuzionalmente prescritto, perché l'associazionismo massonico, come risulta dalle sue costituzioni e dai giuramenti degli iscritti
(che impegnano gli adepti anche contro gli obblighi derivanti dal giuramento richiesto per l'esercizio di specifiche funzioni
pubbliche), è un ordinamento caratterizzato da diffusi aspetti di segretezza, da vincoli interni, particolarmente intensi, dalla
persistenza del legame e da tenaci influenze tra gli affiliati. In
particolare, ha chiarito che l'ordinamento massonico prevede
per gli affiliati: a) la libertà da vincoli contrastanti, con i princi pi e le finalità della massoneria; b) l'esistenza di gradi massoni
ci e di rapporti di subordinazione gerarchica tra massoni in ba
se al grado; c) la devoluzione alla giustizia massonica delle con
troversie tra gli affiliati; d) l'indissolubilità del vincolo massonico,
anche in caso di dissociazione del singolo affiliato, e la sua sot
toposizione al potere disciplinare per la violazione dei doveri
massonici. E ha concluso che, per tutte queste ragioni, l'affilia
zione alla massoneria, è comunemente apprezzata come un di
svalore (sempre più evidente a causa dei fenomeni degenerativi dell'associazionismo massonico in Italia) per i magistrati, anche
perché costoro devono comportarsi nella vita privata, oltre che
in quella pubblica, in modo da non pregiudicare la considera
zione loro dovuta e il prestigio dell'ordine giudiziario al quale
appartengono. Infine, ha rilevato che:
1) lo stesso plenum del Consiglio superiore della magistratu
ra, con le deliberazioni del 22 marzo 1990 e del 14 luglio 1993,
con specifico riguardo alla progressione di carriera dei magi
strati e al conferimento di incarichi direttivi, ebbe a porre in
risalto il netto contrasto esistente tra i valori dell'indipendenza, dell'autonomia e della soggezione dei giudici alla sola legge, e l'affiliazione alla massoneria, anche non segreta, sulla quale
gli iscritti alla loggia P2 hanno conservato la loro influenza ne
gativa;
2) vi sono state recenti iniziative parlamentari, volte a san
zionare per il magistrato il divieto dell'affiliazione a sodalizi
massonici.
3. - Ritenuto che la sezione disciplinare abbia in tal modo
ampiamente e correttamente giustificato la propria decisione,
per quanto riguarda l'astratta configurabilità dell'illecito disci
plinare, per l'incompatibilità esistente tra lo status di magistra to e l'appartenenza alla massoneria, si deve ora stabilire se la
stessa abbia motivato in modo adeguato e coerente anche la
statuizione con cui ha affermato in concreto la responsabilità
dell'incolpato per la sua partecipazione alla loggia Ferrer del
Grande oriente d'Italia.
La sezione disciplinare è pervenuta a tale conclusione, perché ha ritenuto che il D'Agostino — il quale si era iscritto alla log
gia Ferrer del Grande oriente d'Italia, nell'anno 1985, prima
di essere nominato uditore giudiziario (anno 1986, e non nel
l'anno successivo, come indicato nell'imputazione) — avendo
presentato la domanda di dimissioni dal sodalizio massonico,
11 Foro Italiano — 1996.
quando erano già decorsi quasi tre anni (fine dell'anno 1989) da tale nomina, aveva violato i doveri di diligenza ed avvedu tezza su di lui incombenti, per non avere tempestivamente av
vertito il pregiudizio arrecato dall'affiliazione massonica alla sua
immagine e all'ordine giudiziario. Nel pronunciare tale decisione ha, però, trascurato l'esame
di elementi, la cui valutazione avrebbe potuto determinare una
decisione diversa.
In particolare, non ha considerato che in alcune parti della
motivazione della sua stessa sentenza del 1983 e delle pronunce delle sezioni unite del 1985, erano contenute delle espressioni, le quali potevano indurre ragionevolmente a ritenere che, per
quei giudici, all'affiliazione, certamente vietata dei magistrati alla massoneria segreta, si contrapponesse l'adesione legittima alla massoneria ufficiale.
Infatti, nella decisione della sezione disciplinare si legge: «Al
la luce di quanto ora sopra esposto risulta chiaro che non vale
ad escludere l'elemento soggettivo dell'illecito disciplinare la con
vinzione, da più incolpati affermata, di avere preso contatti con
una loggia del Grande oriente d'Italia. Ciò che esclusivamente
conta è la natura comunque propria della loggia P2 e la cono
scibilità della sua segretezza con un minimo di diligenza». Nelle sentenze (nn. 550-557 del 1985, cit.) delle sezioni unite
è, poi, contenuta la seguente considerazione: «D'altro canto, non è dubbio che l'applicazione dei principi suddetti sia stata compiuta in maniera corretta, avendo la sentenza accertato che
10 scopo dell'associazione non era soltanto l'assistenza e la soli
darietà tra gli associati (come una loggia massonica qualsiasi)».
Inoltre, non ha tenuto presente che il Consiglio superiore del
la magistratura (plenum), per la prima volta nell'anno 1990, in sede di assegnazione di alcuni incarichi direttivi, manifestò espressamente il proprio giudizio di riprovevolezza nei confron
ti dei magistrati iscritti alla massoneria, anche ufficiale; e, sol
tanto nell'anno 1993, ipotizzò la configurazione di un illecito
disciplinare a carico dei magistrati massoni, anche per l'inqui namento che, ad opera della massoneria occulta, si era avuto
di quella non coperta, e, in special modo, del Grande oriente
d'Italia. Pertanto, la sezione disciplinare non avrebbe potuto ritenere
11 D'Agostino responsabile dell'illecito addebitatogli per «viola
zione dell'obbligo di diligenza e avvedutezza», senza avere pri ma valutato se, anche in presenza dei suindicati elementi, egli avesse potuto avere piena consapevolezza dell'incompatibilità esistente tra il suo stato di magistrato e la permanenza nella
massoneria. E tanto più questa indagine avrebbe dovuto com
piere, perché, come è stato posto esattamente in risalto nella
memoria difensiva, all'epoca della nomina dell'incolpato ad udi
tore giudiziario e anche negli anni immediatamente seguenti, il disvalore della partecipazione dei magistrati alla massoneria
ufficiale non era stato ancora chiaramente percepito, neanche
sul piano parlamentare. Infatti, in tutti i progetti di legge, sia
d'iniziativa governativa (progetto presentato alle camere il 1°
dicembre 1987), sia di singoli deputati o senatori (nelle successi
ve legislature), non approvati per gli scioglimenti anticipati del
le due camere, era sempre mancato un espresso giudizio di ri
provevolezza verso la massoneria non deviata, e, nello stesso
progetto governativo menzionato, si era previsto per i giudici soltanto l'obbligo d'informare il Consiglio superiore della loro
adesione alla massoneria o a qualsiasi altra associazione.
Il vizio di motivazione riscontrato non può ritenersi superato dalla rilevata natura «ricognitiva» delle deliberazioni del Consi
glio superiore della magistratura (22 marzo 1990; 14 luglio 1993),
perché l'esistenza, o inesistenza della responsabilità, è, come si
è precisato, intimamente connessa alla consapevolezza che il D'A
gostino avrebbe o meno potuto avere del disvalore della sua
iscrizione alla massoneria, in presenza delle suriportate pronun ce disciplinari e degli altri importanti elementi di giudizio, tutti trascurati nella sentenza impugnata.
Né la motivazione del provvedimento disciplinare può essere
giudicata esauriente per l'indicazione in esso contenuta delle ra
gioni che avrebbero determinato il D'Agostino alle dimissioni
dalla massoneria (impossibilità di un'apprezzabile frequentazio ne della loggia Ferrer, sita in Napoli, e inopportunità di fre
quentazione di quella ubicata in Lamezia Terme, luogo in cui
esercitava le funzioni giurisdizionali), dovendosi dare rilievo al fatto oggettivo del volontario scioglimento dell'associato dal vin
colo massonico e non alle spinte psicologiche che lo abbiano
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PARTE PRIMA
determinato. Ma anche su questo fatto oggettivo l'indagine è
stata svolta in modo incompleto e superficiale non avendo la
sezione disciplinare accertato se il c.d. collocamento in sonno
determini o non lo scioglimento definitivo e completo dell'affi liato dalla massoneria, e se, in caso negativo, sia prevista nel
l'ordinamento di questa un'altra più incisiva forma di distacco
della quale il D'Agostino si sarebbe potuto servire per eliminare
qualsiasi, sia pur residuo legame, con il sodalizio di appartenenza.
Consegue che, nei limiti suesposti, si deve accogliere il ricor
so, cassare la sentenza impugnata e rinviare il processo alla se
zione disciplinare, la quale, ai fini del giudizio di responsabili tà, eseguirà un nuovo esame dell'incolpazione valutando, gli ele
menti trascurati e gli effetti dell'atto di distacco dal sodalizio
massonico, compiuto dall'incolpato (collocamento in sonno).
Resta assorbita la censura riguardante la sanzione inflitta.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 4 dicem bre 1995, n. 12489; Pres. Girone, Est. Cristarella Oresta
no, P.M. Gambardella (conci, diff.); De Liso (Aw. Mrro
lo) c. Martino e Diana; Martino e Diana (Aw. A. Barile)
c. De Liso. Cassa Trib. Bari 21 novembre 1992.
Distanze legali — Costruzione — Nozione — Fattispecie (Cod.
civ., art. 872, 873, 878, 885, 905). Possesso e azioni possessorie — Azione di manutenzione — Am
missibilità — Fattispecie (Cod. civ., art. 872, 873, 878, 885, 905, 1170).
Ai fini dell'applicazione della disciplina delle distanze, la nozio ne di costruzione riguarda ogni opera non completamente in
terrata, avente il requisito della stabilità e della immobilizza
zione rispetto al suolo (nella specie, sulla base di tale princi
pio è stata cassata la pronuncia di merito che aveva escluso
integrasse costruzione, ai fini della disciplina delle distanze,
una porzione di opera emergente 70 cm. fuori terra). (1)
Legittima il ricorso alla tutela possessoria una unilaterale alte
razione dello stato dei luoghi (nella specie, innalzamento del
muro di cinta), che realizzi un 'arbitraria limitazione del godi mento del proprietario confinante (nella specie, nell'afflusso
di luce ed aria). (2)
(1-2) I. - Ai fini dell'individuazione della nozione di costruzione, la
sentenza in epigrafe rinvia ad un consolidato orientamento giurispru denziale: v. Cass. 14 febbraio 1994, n. 1467, Foro it., 1994, I, 1386, in cui si precisa che va considerato come costruzione in senso tecnico
giuridico il muro di cinta tra fondi a dislivello, che non ha solo la
funzione di recintare la proprietà, ma ha lo scopo di contenere un ter
rapieno creato artificialmente con terra e pietrame; 5 novembre 1992, n. 12001, id., Rep. 1993, voce Distanze legali, n. 3, per la quale è
costruzione, ex art. 873 c.c., ogni opera di particolare consistenza e
stabilità, che risulti infissa al suolo in modo stabile e, quindi, sia immo
bilizzata rispetto ad esso, a nulla rilevando i materiali e i mezzi impie
gati. Nel senso ora indicato, v. anche Cass. 9 giugno 1992, n. 7067,
id., Rep. 1992, voce cit., n. 7. Per la qualificazione del muro di cinta
come costruzione, avendo riguardo principalmente al suo scopo: Cass.
11 marzo 1992, n. 2940, ibid., n. 16 (i muri che non hanno le caratteri
stiche e gli scopi dei muri di cinta sono muri di fabbrica e ad essi si applica la disciplina delle distanze); 26 febbraio 1992, n. 2376, id.,
Rep. 1993, voce cit., n. 22, e Riv. giur. edilizia, 1992, I, 862 (il muro
di cinta, che non va considerato ai fini delle distanze, deve essere desti
nato alla demarcazione della linea di confine, non superare l'altezza
di m. 3, costituire un muro isolato); 11 gennaio 1992, n. 243, Foro
it., Rep. 1992, voce cit., n. 21, in cui si individua il muro di cinta in relazione alla sua funzione conservativa dello stato dei luoghi. Nello stesso senso, v. Cass. 3 settembre 1991, n. 9348, id., Rep. 1991, voce
cit., n. 7; 16 maggio 1991, n. 5472, ibid., n. 8. In senso contrario, v. Cass. 16 giugno 1967, n. 1414, id., 1967, I, 1379, per la quale il
Il Foro Italiano — 1996.
Svolgimento del processo. — Nel marzo 1989 Rosa De Liso,
allegando la proprietà ed il possesso di uno stabile con annesso
giardino nella via Duca d'Aosta di Bari-Palese, propose denun
zia di nuova opera al Pretore di Bari nei confronti dei propri
confinanti Nicola Martino e Nicoletta Diana che, a suo dire,
avevano innalzato da m. 2,34 a m. 3,54 il muro di cinta e stava
no costruendo a ridosso di esso un locale seminterrato destinato
a garage.
Dopo la comparizione delle parti la causa prosegui in posses
sorio davanti allo stesso pretore il quale, con sentenza 6 giugno
1990, espletata una consulenza tecnica, accolse la domanda di
manutenzione avanzata dalla De Liso, ordinando ai convenuti
di ripristinare la precedente altezza del muro e di demolire la
parte fuori terra di 70 cm. del locale seminterrato, il restante
vano-garage interrato e la terrazza di copertura dello stesso co
stituente anche veduta, e ciò sul presupposto che il p.r.g. di
Bari prescriveva, per la zona B/7, in cui ricadevano gli immobi
li delle parti, la distanza minima di m. 5 dal confine e di m. 10 tra fabbricati.
Proposto gravame dai coniugi soccombenti, il Tribunale di
Bari, con la sentenza precisata in epigrafe, nella resistenza della
De Liso, ha riformato parzialmente la decisione di primo gra
do, eliminando la condanna alla demolizione del nuovo locale
e della relativa terrazza di copertura. Ha osservato il giudice d'appello: — che la parte emergente dal suolo del vano realizzato dagli
appellanti era di soli 70 cm., e non di 130 cm. come dedotto
erroneamente dalla De Liso senza tener presente che tale ultima
altezza era stata misurata dal c.t.u. a nord degli edifici delle
parti e in un lato del fondo di controparte non confinante con
11 suo, sicché doveva escludersi che avesse la caratteristica di
«costruzione» per la sua scarsa consistenza e per la sua inido
neità a dar luogo ad un'intercapedine; e doveva altresì' conside
rarsi che l'art. 878, 2° comma, c.c. consente di rendere comune
il muro posto sul confine anche a scopo di appoggio; — che il vano residuo adibito a garage era totalmente inter
rato e pertanto non andava neppure esso rimosso perché del
tutto irrilevante ai fini della distanza legale; — che il muro di confine, da considerarsi «di cinta», andava
riportato alla sua originaria altezza di m. 2.34 (e non di m.
3 come preteso dagli appellanti), dato che le parti e il pretore
avevano esaminato le questioni della causa sotto il profilo pos sessorio e, quindi, occorreva ripristinare lo stato dei luoghi co
me era prima dell'azione che aveva arrecato molestia al possesso; — che la terrazza di copertura del nuovo vano-garage non
costituiva servitù di veduta poiché essa, una volta abbassato
il muro di cinta dagli attuali m. 3,54 agli originari m. 2,34, risultava delimitata da un muro alto m. 1,64 il quale non con
sentiva un comodo affaccio; — che le spese processuali andavano compensate. Ricorre per cassazione Rosa De Liso sulla base di quattro
motivi poi illustrati con memoria. Resistono con controricorso
i coniugi Martino-Diana, proponendo, a loro volta, ricorso in
cidentale basato su due motivi, uno dei quali condizionato, cui
replica con controricorso la De Liso.
Motivi della decisione. — Va innanzitutto disposta, ex art.
335 c.p.c., la riunione dei due ricorsi perché rivolti contro la
stessa sentenza.
muro di cinta non è soggetto a distanze legali nemmeno se ha funzioni
di sostegno, perché rappresenta solo una tutela del fondo al cui servizio è posto.
Per l'esperibilità della tutela possessoria a seguito di violazione della
disciplina delle distanze, v. Cass., sez. un., 22 novembre 1994, n. 9871,
id., 1995, I, 532, con nota di Benini, e Gius, 1994, fase. 23, 93, con
nota di Carbone, e Giust. civ., 1995, I, 1883, con nota di Sardo, in
cui si richiede, per la configurabilità della molestia possessoria, il com
pimento di un atto materiale ed il ricorrere dell'elemento soggettivo del dolo e della colpa. Nello stesso senso: Cass. 15 ottobre 1994, n.
8471, Foro it., Rep. 1994, voce Possesso, n. 112; 27 aprile 1993, n.
4928, id., Rep. 1993, voce cit., n. 64; 19 marzo 1991, n. 2927, id.,
Rep. 1991, voce cit., n. 53; 7 agosto 1990, n. 7978, ibid., n. 54.
V. anche Cass., sez. un., 14 luglio 1994, n. 6582, id., Rep. 1994, voce Edilizia e urbanistica, n. 291, e Riv. giur. edilizia, 1995, I, 96, in cui si afferma che le norme sulle distanze tra le costruzioni fondano il diritto soggettivo del danneggiato al risarcimento del danno e alla
riduzione in pristino, senza che, in contrario, possa rilevare l'art. 2933 c.c.
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