Sezioni unite civili; sentenza 7 maggio 1981, n. 2957; Pres. T. Novelli, Est. Sandulli, P. M. Saja(concl. conf.); Cossuto (Avv. Di Gravio) c. Comune di Cassino (Avv. Sciacca) e Min. industria,commercio e artigianato. Conferma Cons. Stato, Sez. VI, 12 dicembre 1978, n. 1297Source: Il Foro Italiano, Vol. 104, No. 9 (SETTEMBRE 1981), pp. 2193/2194-2197/2198Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23173024 .
Accessed: 28/06/2014 07:57
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 141.101.201.189 on Sat, 28 Jun 2014 07:57:11 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
come accennato, opinabile de iure condendo ma ben chiaro de iure condito.
Alla stregua dei cennati rilievi si nota con maggiore chiarezza la differenza tra le ipotesi di ampliamento di servitù e amplia mento dell'accesso diretto per i fondi non interclusi: la prima risponde ai normali criteri per la concessione di servitù coattiva, espressamente richiamati nel 3° comma dell'art. 1051, la seconda viene in considerazione soltanto per il caso di non ampliabilità e con riguardo al fondo non intercluso, sicché nel giudicare del
l'ampliabilità o meno dell'accesso (nella seconda ipotesi) non può che essere considerata la possibilità materiale e giuridica, nonché il costo che ne deriva per il fondo non intercluso, mentre nel
giudicare dell'ampliabilità o meno della servitù non può essere considerato soltanto l'interesse del fondo dominante, ma devesi aver riguardo al danno del fondo servente.
Tutto ciò risponde esattamente al testo dell'art. 1051, 3° comma cod. civ., che prescrive l'applicazione delle « stesse disposizioni », cioè delle disposizioni di cui al 1° ed al 2° comma, « nel caso in cui taluno, avendo un passaggio sul fondo altrui, abbia bisogno ai fini suddetti di ampliarlo per il transito dei veicoli anche a trazione meccanica». Se nel caso di bisogno di ampliamento dovesse aversi riguardo soltanto alla servitù esistente, senza possi bilità di più comoda e meno dannosa (per il fondo servente) servitù su altro fondo, si dovrebbe, contro il testo, affermare che
per l'ampliamento non trova applicazione il 2° comma, per il
quale « il passaggio si deve stabilire in quella parte per cui l'accesso alla via pubblica è più breve e riesce di minor danno al fondo sul quale è consentito ».
All'esegesi letterale corrisponde quella storica: sotto l'impero del codice del 1865 si riteneva, infatti, che fosse possibile ottenere altro accesso in altro podere, in luogo dell'ampliamento della
servitù, perché veniva in considerazione non soltanto l'interesse del fondo dominante (del quale oggi deve tenersi conto nel
giudicare dell'ampliabilità soltanto dell'accesso a termini dell'art. 1052 cod. civ.), ma anche quello del fondo servente. Del resto, che il titolare del fondo servente potesse chiedere che, in luogo dell'ampliamento della servitù coattiva, venisse prescelto altro
percorso sul suo stesso fondo, come si ricavava, prima, dal combinato disposto degli art. 593 e 645 cod. civ. del 1865, a
fortiori si ricava, oggi, dal disposto degli art. 1051 e 1068 cod. civ. vigente, perché ciò che è consentito per le servitù volontarie, cioè il trasferimento, a maggior ragione deve essere consentito per quelle coattive. Ma per la servitù coattiva c'è qualche cosa di
più: obbligati sono i proprietari dei fondi limitrofi e la scelta del fondo si opera con i criteri di cui all'art. 1051. Ne deriva che il
giudizio è correlato al tipo di servitù da concedere, alla situazione attuale dei luoghi, oltre che all'equilibrio del rapporto danno-van
taggio, rispettivamente per i fondi servente e dominante. Sicché non vi è ragione di escludere che al momento in cui si chiede la trasformazione della precedente servitù di passaggio a piedi in un
passo carraio non si debba rinnovare quel giudizio e si debba, necessariamente, muovere dal presupposto che il luogo dove già esiste una servitù sia il più idoneo e che l'ampliamento costituisca
qualche cosa di diverso dall'imposizione di una servitù coattiva. L'idea che l'ampliamento costituisca una fattispecie distinta dal
l'imposizione di servitù coattiva scaturisce dall'erroneo principio secondo il quale il fondo dotato di servitù non è intercluso — o lo è relativamente — laddove avere una servitù non idonea
equivale a non averla; onde il problema, se può restringersi all'ampliamento — perché il proprietario ha facoltà di richiederlo ed ottenerlo se nulla vi osti —, non cessa di essere un problema di interclusione che va risolto con i criteri tipici che la legge prescrive per l'interclusione, mentre il fatto dell'esistenza di una servitù (volontaria, perché, se coattiva, si estingue nel trasferimen
to) può costituire elemento concreto di giudizio per preferire l'ampliamento di essa alla concessione di servitù carraia su fondo
diverso, non motivo per escludere la ricerca della via « più breve e che riesce di minore danno » al fondo servente.
Non vi è passo, nel testo dell'art. 1051, che consenta tale
esclusione, e non può sottacersi che la diversa interpretazione, secondo la quale chi ha una servitù può solo ottenere l'amplia mento di essa e non una servitù diversa, si è trovata in difficoltà
quando ha dovuto precisare in che cosa potesse consistere la
valutazione del minor danno per il fondo servente, al punto che
si è pensato doversi soltanto stabilire da che lato operare l'am
pliamento (destra o sinistra del tracciato preesistente, cosi con
fondendo la nozione di « parte » del fondo menzionato all'art.
1051, che si riferisce al fondo dominante, con la «parte» della
servitù nel territorio servente).
L'ipotesi, poi, di nuova servitù per il solo caso di non ampliabi lità della precedente, non sussistendo affatto nella visione dell'art.
1051, che non fa cenno alcuno di non ampliabilità, è stata tratta
dalla nozione, priva di ogni analogia, di non ampliabilità dell'ac cesso (diretto) di cui all'art. 1052, per ricondurre, ancora, nel
quadro dell'art. 1051 la disciplina dell'ampliamento condizionato soltanto all'utilità del fondo dominante, se non addirittura per applicare lo stesso art. 1052 al fondo « relativamente » intercluso.
Ancora meno è possibile trarre l'esigenza di non ampliabilità della servitù, come condizione per la concessione di servitù su fondo diverso, dal primo comma dell'art. 1051 cod. civ., laddove è previsto come condizione per l'insorgenza del diritto alla servitù coattiva il fatto che il proprietario, privo di uscita, non possa procurarsela senza dispendio o disagio, perché a parte quanto è stato già rilevato qui viene in considerazione l'esigenza del pro prietario del fondo dominante, laddove la concessione di servitù diversa non va riguardata soltanto come un maggiore diritto del fondo intercluso, ma come miglior tutela del fondo servente: l'osservanza del criterio di legge volto al massimo risultato con il minor aggravio del fondo onerato, realizzando il contemperamento degli interessi, sta a garanzia tanto del fondo dominante che di
quello servente.
Discende da quanto esposto che ove il proprietario del fondo
intercluso chieda, come nel caso in esame, l'ampliamento della
servitù della quale già gode, due sono le condizioni essenziali per l'ampliamento: a) che ricorra l'utilità per l'uso conveniente del
fondo secondo destinazione, o che già possedeva o che il proprie tario dimostri di voler attuare per il migliore sfruttamento;
b) che in concreto quell'ampliamento possa realizzarsi nei limiti
dei criteri fissati dal 2° comma dell'art. 1051. Questa seconda
condizione esige quel giudizio comparativo che è tipico della
concessione di servitù coattiva (v. sent. n. 2680 del 1967, id.,
1968, I, 451) e legittima il proprietario ad eccepire l'idoneità di
altro accesso in altro fondo, onde quest'accesso realizzi la via più breve ed idonea e sia, rispetto al nuovo fondo servente, meno
dannoso dell'ampliamento richiesto.
Nel caso in esame la pronuncia impugnata non ha proceduto al
cennato esame di merito richiesto dal convenuto perché la servitù
esistente appariva materialmente ampliabile, ma, come si è visto, tanto non basta: occorre che, in concreto, l'ampliamento richiesto
soddisfi le condizioni di cui all'art. 1051, 2° comma, cod. civile. Pertanto va accolto il ricorso e va cassata la sentenza impugna
ta con rinvio ad altro giudice, che procederà al cennato esame di
merito sulla scorta dei principi esposti. Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezioni unite civili; sentenza 7
maggio 1981, n. 2957; Pres. T. Novelli, Est. Sandulli, P. M.
Saja (conci, conf.); Cossuto (Avv. Di Gravio) c. Comune di
Cassino (Avv. Sciacca) e Min. industria, commercio e artigiana to. Conferma Cons. Stato, Sez. VI, 12 dicembre 1978, n. 1297.
Commercio (disciplina del) — Rivendita di giornali e riviste —
Disciplina del commercio al minuto — Applicabilità (Legge 11
giugno 1971 n. 426, disciplina del commercio, art. 1, 24). Commercio (disciplina del) — Rivendita di giornali e riviste —
Applicazione della disciplina del commercio al minuto — Que
stione di costituzionalità manifestamente infondata (Cost., art.
9, 21, 41; legge 11 giugno 1971 n. 426, art. 1, 45).
Gli edicolanti sono assoggettati alla disciplina generale dettata
dalla legge 426/1971 per il commercio al minuto. (1) È manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli
art. 1 e 45 legge 426/1971, nelle parti in cui non escludono
dalla loro sfera di applicazione i venditori di giornali e riviste, in riferimento agli art. 9, 21, 41 Cost. (2)
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Con ordinanza
del 29 luglio 1975, il sindaco di Cassino disponeva la chiusura
dell'esercizio di vendita di giornali e riviste, gestito nel chiosco di
(1-2) Tanto sulla prima quanto sulla seconda massima, cfr. in senso conforme Cass. 22 aprile 1981, n. 2386, nonché Cass. 2387 e 2388, rese in pari data; Cons. Stato, Sez. VI, 12 dicembre 1978, n. 1297, Foro it., Rep. 1979, voce Commercio (disciplina del), n. 32 (pronunzia ora confermata dalla Cassazione); Sez. V 14 luglio 1978, n. 880, id., 1979, III, 151, con esaustiva nota di richiami di C. E. Gallo.
L'applicabilità del regime autorizzatorio, avallata dall'autorità della Corte di cassazione, trova ora riscontro — e ulteriori sviluppi —
nell'art. 14 legge 5 agosto 1981 n. 416, disciplina delle imprese edi trici e provvidenze per l'editoria (Le leggi, 1981, I, 1404).
Sui rapporti tra edicolanti, ed editori, cfr. Corte giust. 16 giugno 1981, in causa 126/80, che sarà riportata in uno dei prossimi fasci
coli, con nota di R. Pardolesi.
This content downloaded from 141.101.201.189 on Sat, 28 Jun 2014 07:57:11 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
2195 PARTE PRIMA 2196
via Enrico De Nicola da Anna Cossuto, perché mancante dell'au
torizzazione amministrativa prevista dall'art. 24 legge 2 giugno 1971 n. 426, sulla disciplina del commercio.
Avverso tale provvedimento la Cossuto proponeva ricorso in
nanzi al T.A.R. del Lazio, chiedendo l'annullamento dell'atto
impugnato per eccesso di potere, in quanto il sindaco aveva
erroneamente ritenuto l'assoggettabilità dell'attività dell'edicolan
te-giornalaio alla legislazione sul commercio, e deducendo l'illegit timità costituzionale degli art. 1 e 45 della citata legge n. 426 del
1971, per contrasto con gli art. 21, 41 e 9 Cost., nella parte in cui
non escludevano dalla sfera di applicazione della predetta legge la
categoria dei venditori di giornali e riviste periodiche. Con un motivo aggiunto, contenuto in una memoria illustrativa,
notificata in data 24 gennaio 1976 anche al ministero dell'indu
stria, commercio e artigianato, la Cossuto impugnava, chiedendone
l'annullamento, il regolamento di esecuzione della legge n. 426 del
1971, approvato con d. m. 14 gennaio 1972, nella parte in cui
qualificava come commerciante soggetti che tali non erano. Il comune di Cassino resisteva alle impugnative, deducendo:
a) che l'autorizzazione amministrativa per la vendita di giornali e
riviste era espressamente prevista dall'art. 55 del regolamento di
esecuzione; b) che il dedotto profilo di illegittimità costituzionale era manifestamente infondato; c) che il motivo aggiunto era inammissibile perché tardivo.
Il ministero dell'industria non si costituiva.
Con decisione del 22 settembre 1976 (Foro it., Rep. 1977, voce Commercio (disciplina), n. 18), il T.A.R. del Lazio — ritenute l'inammissibilità del motivo aggiunto e l'irrilevanza del dedotto
profilo d'illegittimità costituzionale — respingeva il ricorso consi
derando che il vizio di eccesso di potere non era ipotizzabile
nell'ipotesi di provvedimenti vincolati, ricorrente nella specie, in
quanto l'art. 39, 3° comma, legge 11 giugno 1971 n. 426 imponeva all'autorità comunale di ordinare la chiusura dell'esercizio di
vendita al minuto quando il suo titolare non risultava in possesso della prescritta autorizzazione ed in quanto tra le attività com
merciali di vendita al minuto rientravano le rivendite di giornali e
riviste, come poteva desumersi dal complesso delle norme del
regolamento di esecuzione della legge, emanato con d. m. 14
gennaio 1972, il quale, all'art. 55, includeva specificamente i
giornali e le riviste periodiche tra le merci vendibili senza
indicazione del prezzo e, all'allegato 3 della seconda sezione
(negozi al minuto), elencava le rivendite ed i chioschi di giornali e riviste tra le specializzazioni merceologiche, che dovevano essere
comunicate ai comuni ai sensi dell'art. 36 del regolamento ai fini
dell'approvazione e della revisione dei piani di sviluppo e di
adeguamento della rete distributiva, e richiedeva per l'inclusione
tra i negozi al minuto l'indicazione degli estremi dell'autorizzazio ne comunale.
Contro tale decisione la Cossuto proponeva appello innanzi al
Consiglio di Stato, deducendo che il T.A.R. aveva erroneamente
ritenuto: che l'impugnazione del regolamento di esecuzione (pro
posta con il motivo aggiunto) era tardiva; che l'assoggettabilità alla legge n. 426 del 1971 della categoria degli edicolanti-giornalai derivava dal regolamento di esecuzione; che i profili di incostitu zionalità erano privi di rilevanza.
Con la denunciata decisione del 12 dicembre 1978, n. 1297 (id.,
Rep. 1979, voce cit., n. 32), il Consiglio di Stato respingeva l'appello, considerando: che non meritava censura la pronuncia di
primo grado, in ordine alla dichiarata inammissibilità, per tardivi
tà, del motivo aggiunto, con il quale la ricorrente aveva impugna to il decreto ministeriale 14 gennaio 1972, contenente il regola mento di esecuzione della legge n. 426 del 1971, sulla disciplina del commercio, in quanto la detta impugnativa, notificata il 24
gennaio 1976, avrebbe dovuto essere proposta entro il termine
perentorio di sessanta giorni dalla data di notificazione (29 luglio 1975) \del provvedimento impugnato, dal momento che traeva
origine da un atto noto a tale data alla ricorrente, per essere stato
pubblicato nella Gazzetta ufficiale e menzionato nel ricorso intro
duttivo; che era infondato anche il secondo motivo, non avendo
attribuito il giudice di primo grado al regolamento di esecuzione
una forza imperativa maggiore di quella della legge 11 giugno 1971 n. 426, in quanto — qualificando detta legge come commer
ciante « chiunque professionalmente acquista merci a nome e per conto proprio e li rivende ad altri » — doveva ritenersi che era
direttamente la legge 11 giugno 1971 n. 426 a ricomprendere nel
proprio ambito di applicazione i rivenditori di giornali e riviste, anche se costoro si rifornivano di queste merci, stipulando con gli editori contratti estimatori e non contratti di compravendita, e
che il decreto ministeriale 14 gennaio 1972 non faceva che attuare
le prescrizioni della predetta legge, con la conseguenza che
correttamente il giudice di primo grado aveva ritenuto che l'attivi
tà di rivendita dei giornali e riviste non poteva svolgersi senza la
prescritta autorizzazione comunale e che il sindaco, una volta accertata la mancanza di tale autorizzazione, era tenuto ad adot tare il provvedimento di chiusura dell'esercizio, senza alcun mar
gine di discrezionalità da cui potesse essere dedotto un vizio di eccesso di potere.
Il Consiglio di Stato aggiungeva che erano tutte manifestamente
infondate le questioni di illegittimità costituzionale sollevate dal
l'appellante. Contro la decisione del Consiglio di Stato la Cossuto ha
proposto ricorso per cassazione ex art. 362 cod. proc. civ., sostenendo che il Consiglio di Stato, « mediante un'attività in
terpretativa non sorretta dai criteri legislativamente posti in mate
ria », « abbia esercitato in sostanza funzioni eccedenti il potere
giurisdizionale spettantegli ». Hanno resistito, con separati contro
ricorsi, il comune di Cassino ed il ministero dell'industria, com
mercio e artigianato, i quali hanno eccepito l'inammissibilità del
ricorso, sul rilievo che le decisioni del Consiglio di Stato possono essere impugnate innanzi alle sezioni unite della Corte suprema di
cassazione, soltanto per motivi attinenti alla giurisdizione. Il
ministero dell'industria ha, inoltre, eccepito il proprio difetto di
legittimazione passiva, non essendo stato impugnato dalla ricor
rente il capo della pronuncia relativo alla irricevibilità del ricorso
proposto contro il d. m. 14 gennaio 1972, contenente il regolamen to di esecuzione della legge 11 giugno 1971 n. 426.
Motivi della decisione. — (Omissis). Può, pertanto, passarsi all'esame clol ricorso proposto nei confronti del comune di Cas
sino.
Come si è visto, ai fini della risoluzione della prima eccezione
d'inammissibilità, con l'unico motivo, la ricorrente — denunciato
«l'eccesso rispetto ai limiti del sindacato giurisdizionale», non
ché l'omessa e perplessa motivazione della decisione — sostiene
che il Consiglio di Stato abbia pronunciato su una questione che, attenendo a diritti soggettivi (e non ad interessi legittimi), non
rientrerebbe nella sua giurisdizione. Secondo la tesi della ricorrente, il Consiglio di Stato sarebbe
pervenuto alla denunciata decisione attraverso l'erronea interpre tazione dell'art. 1, 2° comma, n. 2, legge 11 giugno 1971 n. 426
(sulla disciplina del commercio), che, se inteso in modo da
ricomprendere nell'ambito dell'attività di commercio al minuto in sede fissa anche l'attività di vendita di giornali e riviste, sarebbe affetto da illegittimità costituzionale per contrasto con gli art. 21, 41 e 9 Cost.
Secondo tale costruzione, i venditori di giornali e riviste perio diche — stipulando con gli editori contratti estimatori e non di
compravendita — non potrebbero essere ricompresi nell'ambito di
coloro che, ai sensi ed agli effetti della legge n. 426 del 1971,
vengono considerati esercenti « attività di commercio al minuto », e cioè di coloro che « professionalmente acquistano merci a nome e per conto proprio e le rivendono in sede fissa (o mediante altre forme di distribuzione) direttamente al consumatore finale » e non
potrebbero, quindi, ritenersi assoggettati ex art. 29 (rectius: 24, 1°
comma) della citata legge n. 426 alla preventiva autorizzazione
amministrativa del sindaco. Dal che l'implicazione che — dovendo considerarsi pienamente
libera l'apertura (e la gestione) di esercizi di vendita di giornali e riviste (per non essere la stessa soggetta a provvedimenti autoriz zativi o concessivi) — i provvedimenti amministrativi incidenti sulla gestione dell'attività di vendita di giornali e riviste verrebbe ro ad operare su situazioni giuridiche soggettive confxgurabili come diritti soggettivi ed attribuite, quindi, alla cognizione del
giudice ordinario.
L'unico motivo di ricorso, in cui è articolata la complessa riassunta censura, è privo di fondamento.
Va, innanzi tutto, rilevato che, qualora, ai fini della determina zione della giurisdizione, si controverta sulla portata e l'interpre tazione di una norma di legge, la Corte suprema — dovendo
procedere alla rivalutazione dei presupposti di diritto (e di fatto) in base ai quali la giurisdizione va stabilita — può procedere, avvalendosi dei poteri attribuitile dalla legge, attraverso la verifica
dell'interpretazione della statuizione legislativa, all'individuazione e qualificazione degli elementi giuridici atti a determinare la
giurisdizione secondo il normale criterio di riparto, da essa
emergenti.
Va, poi, osservato — nel condurre la verifica dell'interpretazio ne operata dal Consiglio di Stato, in ordine alla portata del contenuto della disposizione legislativa, dettata nel n. 2 del 2" comma dell'art. 1 legge 11 giugno 1971 n. 426, la quale qualifica (agli effetti di detta legge) come esercente l'attività di commercio al minuto in punti fissi di vendita « chiunque professionalmente acquista merci a nome e per conto proprio e le rivende diretta mente al consumatore finale » — come il Consiglio di Stato, tenute presenti le finalità della citata legge, dirette alla salvaguar
This content downloaded from 141.101.201.189 on Sat, 28 Jun 2014 07:57:11 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
dia dell'interesse pubblico ed alla composizione dei coesistenti interessi collegati alla funzione economico-sociale delle attività
commerciali, abbia correttamente interpretato la norma nel senso che con la suddetta definizione il legislatore abbia inteso riferirsi non soltanto a chi, mediante contratti di compravendita, acquista in senso tecnico-giuridico la proprietà di beni per trasferirli ad
altri, ma anche a chi, attraverso la stipulazione di contratti
estimatori, consegue il potere di disporre dei beni per trasferirli ad altri, assolvendo cosi alla funzione terziaria propria delle
operazioni commerciali.
Invero, nel contratto estimatorio (che, secondo la prevalente dottrina, dà origine ad un rapporto complesso, costituente un
misto di deposito, autorizzazione e vendita, in cui il ricevente assume l'obbligo di pagare il prezzo della cosa mobile stimata
consegnatagli per la vendita — libro, giornale, ecc. — salvo che
non voglia restituire la cosa ricevuta e rimasta incorrupta in sua
mano) l'accipiens, pur non acquistando la proprietà della cosa,
può disporre della stessa, trasferendola a terzi, mentre il tradens,
pur continuando ad essere titolare del diritto sulla cosa affidata
per la vendita, non può disporne fino a che la stessa non gli sia
restituita.
Per modo che — pur passando la proprietà del giornale o della
rivista dall'editore al terzo acquirente in forza dell'autorizzazione
a vendere concessa all'edicolante-giornalaio, in quanto l'effetto
traslativo, pur trovando la sua giustificazione nell'autorizzazione
iniziale, si attua soltanto nel momento dell'acquisto che il terzo fa
dall'accipiens — deve ritenersi che i venditori di giornali e riviste,
potendo disporre delle cose ad essi consegnate e destinate ad
essere trasferite a terzi, debbano considerarsi agli effetti della
legge n. 426 del 1971 sullo stesso piano dei commercianti al
minuto che abbiano acquistato le merci da rivendere e, quindi,
assoggettati come questi alla disciplina del commercio dettata
dalla citata legge, nonostante che per rifornirsi delle merci vendu
te stipulino con gli editori contratti estimatori e non contratti di
compravendita.
Né tale interpretazione può far considerare non manifestamente
infondati i profili di illegittimità costituzionale degli art. 1 e 45
legge n. 426 del 1971, nelle parti in cui non escludono dalla loro
sfera di applicazione i venditori di giornali e riviste, riproposti dalla ricorrente in sede di legittimità per contrasto con gli art. 21,
41 e 9 Cost.
In ordine all'art. 21 Cost., va rilevato che la subordinazione
dell'apertura dell'esercizio di vendita di giornali e riviste alla
concessione dell'autorizzazione amministrativa da parte del sinda
co nel cui territorio ha sede l'esercizio non incide in alcun modo
sulla libertà di espressione del pensiero, garantita, con divieto di
assoggettamento della stampa ad autorizzazioni o censure, dalla
suddetta norma costituzionale, la quale attiene alla manifestazione
del pensiero dell'uomo con la parola, lo scritto ed ogni altro
mezzo.
Per modo che — dovendo il divieto di autorizzazione imposto dalla disposizione costituzionale riferirsi esclusivamente alla mani
festazione del pensiero attraverso la stampa e rientrando l'autoriz
zazione alla gestione di un esercizio di vendita di giornali e
riviste nel quadro della disciplina delle attività commerciali —
deve ritenersi che l'autorizzazione del sindaco, prevista dall'art.
24, 4° comma, legge n. 426 del 1971 per l'apertura di un'edicola
di giornali, non investa il contenuto delle libere espressioni di
pensiero manifestate attraverso la stampa e non operi, nell'ambito
delle pubblicazioni, alcuna coercizione o limitazione della libertà
di stampa. D'altro canto, va rilevato come i limiti conseguenti alla conclu
sione del procedimento di decisione sulla domanda di autorizza
zione all'apertura di un esercizio di vendita di giornali e riviste
non potrebbero in alcun modo essere tali da causare un ostacolo
apprezzabile alla diffusione ed alla distribuzione capillare dei
mezzi di manifestazione del pensiero costituenti la stampa, inter
venendo le autorizzazioni dei punti di vendita in base alla visione
programmatica del piano commerciale comunale, teso ad assicura
re un opportuno equilibrio commerciale nell'ambito della zona
considerata.
La prospettata illegittimità costituzionale non sussiste neppure
sotto il profilo dell'art. 41 Cost., il quale, nell'affermare il princi
pio della libertà dell'iniziativa economica privata, in cui rientra la
libertà di commercio, stabilisce che essa non può svolgersi in
contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana ed affida al legislatore il
compito di determinare i programmi e i controlli opportuni
perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indi
rizzata e coordinata ai fini sociali.
Invero, la disciplina dettata con le disposizioni degli art. 1, 45
e 24 segg. legge n. 426 del 1971 — rientrando pienamente nei
limiti anzidetti — non contrasta con interessi pubblici e finalità sociali e non pregiudica in alcun modo la sicurezza, la libertà e la dignità umana.
Neppure, per le considerazioni innanzi esposte, può ritenersi che le citate norme della legge, n. 426 violino l'art. 9 Cost., in
quanto la disciplina della vendita della stampa periodica dettata da detta legge non comprime in alcun modo il conseguimento delle finalità di promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica.
Tutti i profili di illegittimità costituzionale delineati dalla ricor rente sono, quindi, da ritenere manifestamente infondati. (Omissis)
L'unico motivo di ricorso è, per ciò, da disattendere. Va, quindi, rigettato il ricorso proposto nei confronti del comune di Cassino e va conseguentemente, dichiarata la giurisdizione esclu siva del giudice amministrativo. In definitiva, va dichiarata l'i nammissibilità del ricorso proposto nei confronti del ministero
dell'industria, commercio e artigianato e va rigettato il ricorso
proposto nei confronti del comune di Cassino. (Omissis) Per questi motivi, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 29 apri le 1981, n. 2617; Pres. Marchetti, Est. Santosuosso, P. M. Zema (conci, conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Neri) c.
Scappi (Avv. Barbera). Cassa Comm. trib. centrale 5 luglio 1978, n. 1893.
Tributi in genere — Imposte indirette e tasse sugli affari — Ri corso alla Commissione tributaria centrale — Termine — Pro
roga (Legge 2 dicembre 1975 n. 576, disposizioni in materia di
imposte sui redditi e sulle successioni, art. 19).
In materia di imposte indirette e di tasse sugli affari, la pro roga disposta dall'art. 19 legge 2 dicembre 1975 n. 576
concerne, oltre ai termini sostanziali, anche quelli proces suali, già prorogati dal d. I. 19 giugno 1974 n. 237 convertito con modificazioni nella legge 2 agosto 1974 n. 350, e prima ancora dal d. pres. 18 dicembre 1972 n. 788, convertito nella
legge 15 febbraio 1973 n. 9.(1)
La Corte, ecc. — Svolgimento del processo. — Sorta contro
versia fra gli eredi di Mario Aldo Scappi e l'amministrazione
delle finanze relativamente agli interessi moratori sulla somma
dovuta a titolo di imposta di successione, la commissione tribu
taria di secondo grado, con decisione depositata il 18 aprile 1975, riteneva fondata la tesi dei contribuenti.
Tale decisione veniva notificata il 14 ottobre 1975, ed impu
gnata dall'amministrazione finanziaria con atto notificato il 26
gennaio 1976.
La Commissione centrale, con la decisione che forma ora
oggetto di ricorso, ha dichiarato inammissibile l'impugnazione
perché proposta tardivamente.
A base del suo ricorso l'amministrazione delle finanze deduce
un unico motivo. Resistono gli eredi Scappi con controricorso, illustrato da memoria.
Motivi della decisione. — La ricorrente si limita a far no
tare che tra le deposizioni in materia di imposte sui redditi e
sulle successioni, contenute nella legge 2 dicembre 1975 n. 576, è contenuta anche quella (art. 19) che proroga ulteriormente
fino al 31 dicembre 1976 i termini di prescrizione e di deca
denza già prorogati al 31 dicembre 1975. Pertanto doveva rite
nersi ammissibile l'impugnazione proposta alla Commissione cen
trale il 26 gennaio 1976.
Il ricorso è infondato. Con la recente sentenza 4 novembre
1980, n. 5909 questo Supremo collegio ha già ritenuto, in un
altro caso analogo, che era « sfuggito alla Commissione centrale
(1) Nello stesso senso Cass. 14 ottobre 1980, n. 5515, 16 ottobre
1980, n. 5563, Foro it., Rep. 1980, voce Tributi in genere, nn. 1113, 1112 (ove la precisazione che tra i termini processuali prorogati sono
quelli per l'esperimento del ricorso per cassazione); 29 luglio 1980, n.
4874 e 29 aprile 1980, n. 2839; 29 gennaio 1980, n. 698, id., 1981,
I, 106, con nota di richiami. Sulla denunzia di sospetta incostituzionalità di alcune parti del
l'art. 19 della legge n. 576 del 1975, cfr. le ordinanze Comm. trib. II grado di Udine 12 maggio 1978 e Comm. trib. II grado di Pescara
29 aprile 1978, id., 1979, III, 303 e 255. Da ricordare che, in materia, ulteriori proroghe, sino al 31 dicem
bre 1977, sono state concesse con l'art. 1 d. 1. 10 dicembre 1976 n.
798, convertito con modificazioni nella legge 8 febbraio 1977 n. 16, e
con l'art. 5 d. 1. 10 giugno 1977 n. 307, convertito nella legge 4 agosto 1977 n. 500.
Il Foro Italiano — 1981 — Parte I-141.
This content downloaded from 141.101.201.189 on Sat, 28 Jun 2014 07:57:11 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions