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sezioni unite penali; sentenza 17 dicembre 2003; Pres. Marvulli, Est. Carmenini, P.M. Siniscalchi...

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sezioni unite penali; sentenza 17 dicembre 2003; Pres. Marvulli, Est. Carmenini, P.M. Siniscalchi (concl. parz. diff.); ric. Huang Yunwen e altri. Annulla App. Bologna 13 maggio 2002 Source: Il Foro Italiano, Vol. 127, No. 3 (MARZO 2004), pp. 131/132-137/138 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23199506 . Accessed: 28/06/2014 10:34 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.213.220.135 on Sat, 28 Jun 2014 10:34:13 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite penali; sentenza 17 dicembre 2003; Pres. Marvulli, Est. Carmenini, P.M.Siniscalchi (concl. parz. diff.); ric. Huang Yunwen e altri. Annulla App. Bologna 13 maggio2002Source: Il Foro Italiano, Vol. 127, No. 3 (MARZO 2004), pp. 131/132-137/138Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23199506 .

Accessed: 28/06/2014 10:34

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PARTE SECONDA

Di talché, nonostante la scadenza del termine di efficacia del

provvedimento nelle more del gravame, da un lato, il detenuto

mantiene intatto l'interesse, concreto e attuale, a che si stabiliz

zino le statuizioni, a lui favorevoli, adottate dal tribunale di sor

veglianza che ne abbia accolto anche parzialmente il reclamo, e

dall'altro il pubblico ministero ha l'opposto interesse, anch'esso

concreto e attuale, a che non si stabilizzino affatto dette statui

zioni, che, per esplicito dettato normativo, sono idonee a pre cludere, o comunque a limitare, l'autonomo esercizio da parte del ministro della giustizia del potere di riedizione — senza li

miti di tempo — e di proroga

— per periodi successivi, ciascu

no pari ad un anno — del regime speciale nei confronti del me

desimo soggetto. Ritiene inoltre il collegio che l'assenza di ogni decisione nel

merito (conseguente, ovviamente, all'ipotizzata declaratoria di

inammissibilità del gravame per sopravvenuta carenza d'inte

resse al suo esame, per essere ormai decorso il termine finale di

efficacia del decreto ministeriale), nel vanificare di fatto la pro

spettiva impugnatoria, viola la garanzia, riconosciuta dalla Co

stituzione e dal diritto internazionale convenzionale, ad un ef

fettivo, non meramente formale ed astratto, controllo giurisdi zionale sulla legalità della misura, esponendo cosi l'Italia a pro babili condanne da parte della Corte europea dei diritti dell'uo

mo.

È ben vero, infatti, che «le simple dépassement d'un délai

légal ne constitue pas une méconnaissance du droit garanti», an

che se «le temps nécessaire à l'examen d'un recours [pouvait] en mettre en cause l'efficacité» del sindacato (Corte eur. diritti

dell'uomo 28 settembre 2000, Messina c. Italia, id., Rep. 2001, voce Diritti politici e civili, n. 82). E però non può dubitarsi che, ove gli organi giurisdizionali, oltre ad inosservare i termini or

dinatori fissati dalla legge per il loro intervento, rifiutino altresì

di statuire in merito al ricorso dell'interessato, a causa dell'inu

tile decorso del termine di efficacia della misura, «l'absence de

toute décision sur le fond des recours déposés contre les arretés

du ministre de la Justice a violé le droit du requérant à ce que sa

cause soit entendue par un tribunal» (Corte eur. diritti dell'uo

mo 30 ottobre 2003, Ganci c. Italia): in tal caso, sembra dunque

agevole ravvisare la specifica violazione, non già dell'art. 13, bensì dell'art. 6.1 della convenzione.

3. - Ciò premesso in ordine all'ammissibilità in rito del ricor

so, occorre rilevare che il ricorrente ha denunziato violazione di

legge e mancanza di motivazione del decreto ministeriale di

proroga della misura, sotto il profilo dell'omessa indicazione e

valutazione di elementi di fatto comprovanti l'attuale perma nenza di collegamenti con l'organizzazione camorristica di ori

ginaria appartenenza e il concreto pericolo per l'ordine e la si

curezza, criticandosi in particolare l'automatismo applicativo e

la sostanziale insindacabilità del meccanismo di proroga del

trattamento penitenziario differenziato.

Mette conto di osservare che la Corte costituzionale, con nu

merose decisioni (349/93, id., 1995, I, 488; 410/93, id., Rep. 1993, voce Ordinamento penitenziario, n. 44; 332/94, id.. Rep. 1994, voce cit., n. 58; 351/96, id., 1997, I, 2785; 376/97, id., 1998, I, 5), ha chiarito che l'art. 41 bis, 2° comma, ord. penit. non è costituzionalmente illegittimo, in quanto sia interpretato nel senso della «piena sindacabilità» ad opera del giudice ordi

nario, e precisamente del tribunale di sorveglianza adito col re clamo di cui al comma 2 quinquies dell'art. 41 bis ord. penit., dei decreti ministeriali sia di applicazione che di proroga del re

gime detentivo speciale, sia sotto il profilo dell'esistenza dei

presupposti e della congruità della motivazione, che sotto il pro filo del rispetto, nel contenuto delle singole misure restrittive, dei limiti del potere ministeriale.

Di talché, non solo i provvedimenti applicativi devono essere concretamente giustificati in relazione alle esigenze di ordine e

sicurezza per l'effettivo pericolo scaturente dalla permanenza di

collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata, ma an che per i decreti di proroga si richiede un'autonoma e congrua motivazione in ordine all'attuale persistenza del pericolo per l'ordine e per la sicurezza che le misure medesime mirano a

prevenire, non potendosi consentire, per una sorta d'inammissi bile automatismo, che la novellata norma autorizzi semplici e

immotivate proroghe del regime differenziato, ovvero motiva

II Foro Italiano — 2004.

zioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di

concretezza e attualità le misure disposte. Ritiene il collegio che, soltanto così interpretata, la disposi

zione del comma 2 bis dell'art. 41 bis, laddove, con particolare

riguardo al fenomeno della proroga, è consentita la rinnovazione

della misura «purché non risulti che la capacità del detenuto di

mantenere contatti con associazioni criminali sia venuta meno», si rivela non fondata la censura di violazione degli art. 24 e 113

Cost., poiché, in base ad una soluzione costituzionalmente

orientata, nessun limite può essere frapposto al sindacato giuris dizionale «pieno» sulla legittimità degli atti della pubblica am

ministrazione.

Ma la critica difensiva, pure astrattamente condivisibile, non

coglie tuttavia nel segno. Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha invero sottoposto

ad adeguato vaglio critico i dati fattuali idonei a sorreggere

l'apprezzamento di attuale permanenza del vincolo di affiliazio

ne e di concreta capacità del detenuto di mantenere contatti con

la criminalità organizzata, nonostante le restrizioni del regime detentivo differenziato, e, confutando le tesi difensive già espo ste nel reclamo, ha ritenuto giustificata la valutazione sfavore

vole al ricorrente con puntuale e logico apparato argomentativo, facendo riferimento, da un lato, alla posizione apicale da lui ri

vestita nel sodalizio criminoso noto come «clan dei Casalesi», facente capo a Francesco Schiavone, ed all'accertata sua parte

cipazione a plurimi eventi omicidiari di matrice camorristica,

nonché, dall'altro, all'assenza di specifici, ulteriori, elementi

investigativi da cui risultasse l'avvenuta cesura dei collegamenti e la cessazione, quindi, delle esigenze di ordine e di sicurezza, cui la misura era finalizzata.

Il ricorso si palesa pertanto infondato e va respinto, con le

conseguenze di legge.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 17 dicembre 2003; Pres. Marvulli, Est. Carmenini, P.M. Sini scalchi (conci, parz. diff.); ric. Huang Yunwen e altri. An

nulla App. Bologna 13 maggio 2002.

Sequestro di persona — Privazione della libertà di soggetti

immigrati finalizzata al conseguimento del prezzo del loro illecito ingresso nel territorio dello Stato — Reato confi

gurabile (Cod. pen., art. 605, 629, 630).

La privazione della libertà di soggetti immigrati mirante a con

seguire il prezzo del loro illecito ingresso nel territorio dello Stato integra non già un'ipotesi di concorso tra il sequestro di persona ex art. 605 c.p. e la fattispecie di estorsione (con sumata o tentata), bensì il reato di sequestro di persona a

scopo di estorsione ex art. 630 c.p. ( 1 )

(1) Con la sentenza su riprodotta le sezioni unite risolvono nel senso

più rigoristico il problema della qualificazione giuridico-penale di una

tipologia di sequestro che è andata emergendo nello scenario criminale dell'ultimo decennio: si allude ai sequestri di persona realizzati da or

ganizzazioni criminali allo scopo di indurre le vittime a pagare somme di denaro corrispondenti — a seconda dei casi — o a partite di sostanze

stupefacenti oggetto di pregressi traffici di droga ovvero al prezzo pat tuito come corrispettivo di viaggi di immigrazione clandestina. Com'è facile osservare, la peculiarità criminologica di una simile fattispecie concreta consiste in ciò: la richiesta di pagamento da parte delle orga nizzazioni sequestratrici trova causa, ancor prima che nella stessa azio ne di sequestro e nella conseguente aspettativa di liberazione, nell'esi stenza di un pregresso rapporto illecito con le vittime (per cui la priva zione della libertà personale funge da strumento di pressione per indur re la vittima a soddisfare un debito precedentemente contratto).

In realtà, muovendo verosimilmente anche da preoccupazioni equi

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GIURISPRUDENZA PENALE

Motivi della decisione. — (Omissis). 2. - Si può ora passare all'esame della doglianza contenuta nel ricorso del procuratore generale territoriale, che attiene alla qualificazione giuridica dei fatti prima contestati ai sensi dell'art. 630 c.p. e poi derubricati nei reati previsti dagli art. 605 e 629 c.p.

Come si è chiarito nella parte espositiva, la ricostruzione dei fatti è certa e non è oggetto di contestazione: un'organizzazione criminale, anche mediante la cooperazione di organizzazioni lo

cali, si occupa di far entrare clandestinamente in Italia soggetti extracomunitari, prelevandoli dal luogo di origine e portandoli a destinazione in stato di cattività; li trattiene, in genere con mo dalità violente, e li libera soltanto quando ottiene il pagamento del prezzo del viaggio, di elevato tenore, in precedenza concor dato.

Rispetto all'ipotesi tipica del sequestro di persona a scopo di

estorsione, la fattispecie in esame presenta la caratteristica di

sottendere un previo patto, di natura illecita, tra i membri del sodalizio criminoso e le vittime.

Situazioni simili non hanno ricevuto qualificazioni giuridiche univoche né dai giudici di merito, né in sede di legittimità.

La giurisprudenza di questa corte, in particolare, presenta due correnti interpretative.

Il primo orientamento prende le mosse da una sentenza della sezione II (1° luglio 1993, Versaci e altri, Foro it., Rep. 1994, voce Sequestro di persona, n. 4) e ritiene che il delitto di seque stro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) sussista sol tanto se l'autore del sequestro abbia agito

— in assenza di una causa preesistente — al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione; che non sia configurabi le, invece, mancando tale specifico fine, quando il sequestro ed il perseguimento del profitto siano direttamente collegabili ad una precedente causa, ancorché illecita (nello stesso senso,

Cass., sez. VI, 20 gennaio 2000, Ekvelum, id., Rep. 2000, voce

cit., n. 4; sez. V 22 giugno 2000, Zheng Xiaodong, ibid., n. 5; sez. II 10 agosto 2000, Lu Hai, id., Rep. 2001, voce cit., n. 3).

Si tratta dell'orientamento prevalente, espresso, per altro, in

relazione a vicende analoghe a quella che ha dato origine al pre sente processo, oppure in relazione a casi di sequestro di perso

tative, l'orientamento in precedenza predominante si è espresso nel senso di ritenere configurabile il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione soltanto se l'autore agisca — in assenza di una causa pre esistente — al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto come

prezzo della liberazione; con la conseguenza di propendere per la con

figurabilità di un concorso tra i reati di sequestro di persona ex art. 605

c.p. ed estorsione (consumata o tentata) quando, mancando tale specifi co fine, il sequestro ed il perseguimento del profitto siano direttamente

collegabili ad una precedente causa, ancorché illecita (Cass. 1° luglio 1993, Versaci ed altri. Foro it., Rep. 1994, voce Sequestro di persona, n. 4; 20 gennaio 2000, Ekvelum, id., Rep. 2000, voce cit., n. 4; 22 giu gno 2000, Zheng Xiaodong, ibid., n. 5; 10 agosto 2000, Lu Hai, id., Rep. 2001, voce cit., n. 3. Nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Fi renze 24 maggio 1999, Toscana giur., 1999, 824, e Foro it., Rep. 2000. voce cit.. n. 6).

A favore invece della configurabilità del (solo) sequestro estorsivo, ancorché sanzionato con pene draconiane, l'indirizzo decisamente mi noritario risalente a Cass. 7 gennaio 1997, Branco, id.. Rep. 1997, voce cit., n. 4, e, per esteso, Riv. pen., 1997, 726.

Nel privilegiare quest'ultimo orientamento ermeneutico, la Cassa zione a sezioni unite contesta all'indirizzo maggioritario di trascurare che l'art. 630 c.p. configura un reato sì plurioffensivo, ma caratteriz zato soprattutto da un elemento fondante costituito dalla «mercificazio ne della persona umana»; ragion per cui, ove ricorrano i due elementi della privazione della libertà personale e della finalità di conseguire un

profitto come prezzo della liberazione, si verifica sempre la particolare tipologia di delitto delineata dalla fattispecie di sequestro a scopo di estorsione: ad avviso della corte, «ogni scissione del fatto unitario è

priva di qualsiasi fondamento nella legge, in quanto si lucra un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuote

re, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimoniale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima».

In dottrina, per una ricostruzione della fattispecie di cui all'art. 630

c.p. volta ad accentuarne il profilo di lesività in termini di offesa pre valentemente arrecata a beni personali, cfr. Brunelli, Il sequestro di

persona a scopo di estorsione, Padova, 1995, passim. [G. Fiandaca]

Il Foro Italiano — 2004.

na di trafficanti di droga che si erano rifiutati di corrispondere ai correi l'importo pattuito per una partita di stupefacenti, o di ri velare il luogo in cui il quantitativo di droga era custodito.

Il secondo filone interpretativo, opposto al precedente, fa ca

po ad una decisione della sezione VI (sent. 7 gennaio 1997, Branco, citata talvolta come «Branco», id., Rep. 1997, voce cit., n. 4), secondo cui il carattere giusto o ingiusto del profitto va

apprezzato non in base alla personale valutazione dell'autore del fatto, ma con riferimento a canoni obiettivi, che sono quelli legali, a seconda che la legge riconosca o meno protezione alle

posizioni giuridiche soggettive; con la conseguenza che sussi stono gli estremi del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione anche quando l'agente persegua un profitto che deri vi da un pregresso rapporto illecito (quale, nella fattispecie allo ra all'esame della corte, quello relativo ad un rapporto di dare avere in relazione ad una cessione di sostanza stupefacente).

La questione sottoposta all'attenzione delle sezioni unite è

dunque, essenzialmente, quella della qualificabilità come seque stro di persona a scopo di estorsione — anziché come sequestro di persona semplice accompagnato da estorsione (consumata o

tentata) — della condotta consistente nel privare taluno della li bertà personale al fine di ottenere, come prezzo della liberazio

ne, l'adempimento di una precedente obbligazione, che tragga origine da un rapporto illecito.

In altre parole, per dirimere il contrasto di giurisprudenza oc corre rispondere al seguente quesito: «se la condotta criminosa

consistente nella privazione della libertà di una persona, finaliz zata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, pretesa in esecuzione di.un precedente rapporto illecito, integri il delitto, di cui all'art. 630 c.p., ovvero il con corso del delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.) e del de litto di estorsione, consumata o tentata (art. 629, 56 c.p.)».

Appare necessario procedere ad una disamina approfondita della struttura dei reati in questione, sottolineando che gli epi sodi attribuiti agli odierni imputati delimitano il thema deciden dum alle fattispecie connotate da due dati di fatto: il contenuto strettamente patrimoniale della prestazione concordata; l'illi ceità dell'accordo precedente. Esulano, quindi, dal campo d'in

dagine altre tematiche, quali la nozione di profitto in generale e

l'estensione del concetto di patrimonialità, o la figura delittuosa delineabile in caso di liceità del rapporto preesistente.

Va subito segnalato che a sostegno dell'orientamento preva lente si portano argomenti dettati piuttosto che da un approccio sistematico, da esigenze di ordine equitativo, che dichiarata

mente risentono dei condizionamenti provenienti dal singolo ca so concreto.

Nel passaggio motivazionale centrale della sentenza capofila si ammette che «l'apparente significato letterale delle espres sioni usate», nella formulazione dell'art. 630 c.p., avrebbe po tuto anche giustificare una conclusione diversa da quella rag giunta; nel contempo si fa chiaramente intendere che alla scelta

operata non è stata estranea anche la considerazione della «ec cezionale asprezza» della pena prevista per la più grave delle

ipotesi di reato in ballottaggio. Si osserva, invero, che il modello cui si è ispirato il legislato

re con le disposizioni dell'art. 630 c.p. e con le modifiche ap portate in un momento storico caratterizzato dal gravissimo fe

nomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, nonché il

ponderosissimo trattamento sanzionatorio, postulano, per la de

finizione della fattispecie, un'interpretazione restrittiva della

norma, dovendosi ad essa attribuire un contenuto meno ampio di quello desumibile dall'apparente significato letterale delle

espressioni usate; di talché si pone l'accento sul fatto che la vit

tima viene sequestrata per esigere una preesistente pretesa (ille

cita) e non già per chiedere un prezzo per la sua liberazione, ve

nendo così a mancare uno degli elementi indefettibili della nor

ma incriminatrice.

La giurisprudenza opposta mette in rilievo, per contro, che è

la natura stessa del pregresso rapporto a qualificare il profitto come giusto, o ingiusto; con la conseguenza che, una volta rav

visato il carattere ingiusto del profitto perseguito, non può pro cedersi ad ulteriori distinzioni e si deve riconoscere la sussisten

za del delitto previsto dall'art. 630 c.p. tutte le volte che un sog getto viene sequestrato e viene chiesto un prezzo per la sua libe

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PARTE SECONDA

razione, di modo che è facilmente rilevabile lo stretto collega mento tra la condotta sequestratrice, il fine di lucro e la richiesta

di pagamento del prezzo.

Questo collegio ritiene che meriti di essere seguita la scelta

ermeneutica del secondo orientamento, anche se minoritario; ne

vanno dunque approfondite le premesse concettuali e logico

giuridiche. Il sequestro di persona a scopo di estorsione è tradizional

mente concepito quale reato complesso; è stato ritenuto dalla

giurisprudenza di legittimità una figura autonoma di reato, qua lificabile, appunto, come reato complesso, poiché confluiscono

in esso, in guisa di elementi costitutivi, fatti che costituirebbero

per sé stessi reato, ai sensi dell'art. 84 c.p.; si è escluso, inoltre,

specificamente che esso possa considerarsi «ipotesi delittuosa

aggravata del sequestro di persona, dal quale si differenzia per il

dolo specifico, che si concretizza nello scopo perseguito, per sé

o per gli altri, di un ingiusto profitto come prezzo della libera

zione» (così, in particolare, sez. II 20 novembre 1991, Romano

ed altro, id., Rep. 1992, voce cit., n. 7; nello stesso senso, sez. II

15 marzo 1990, Cipullo, id., Rep. 1991, voce cit., n. 7). E noto che per configurare un reato complesso è necessario

che una norma di legge operi la fusione in un'unica ipotesi cri

minosa dei fatti costituenti reati autonomi.

In realtà, a ben vedere, la figura di reato delineata dall'art.

630, 1° comma, c.p. si compone di una parte oggettiva

comportamentale (il sequestro di persona: «Chiunque sequestra una persona») e di una parte soggettiva-teleologica («allo scopo di conseguire ... un ingiusto profitto come prezzo della libera

zione»): la componente materiale coincide anche nominalmente

con il reato previsto dall'art. 605 c.p., del quale riproduce la ru

brica; la componente subbiettiva è strutturata da una forma di

dolo attinente al delitto di estorsione (art. 629 c.p.). Si può dire che il legislatore ha connotato di dolo specifico

una forma peculiare di violenza, delimitando l'area della vio

lenza generica atta a configurare (in alternativa alla minaccia)

l'estorsione, con quella forma particolare di violenza che è il

sequestro di persona, cioè la privazione della libertà personale di un soggetto.

Di modo che la figura delineata dall'art. 630, 1° comma, c.p.,

piuttosto che essere l'unione di due modelli criminosi «sempli ci», il sequestro di persona e l'estorsione, risulta composta dal

l'elemento oggettivo del sequestro di persona, arricchito con

elementi propri dell'estorsione. Rispetto all'estorsione, invero, il verificarsi del «danno» ed il conseguimento del «profitto in

giusto» non costituiscono eventi in senso naturalistico necessari

per la sussistenza del reato: mentre il danno finisce per identifi

carsi nella lesione arrecata dalla condotta all'interesse protetto, il profitto ingiusto è solo oggetto del dolo specifico e rimane

privo di rilevanza agli effetti della consumazione del reato.

In questo senso si può parlare più propriamente — come evi denzia la dottrina — di fattispecie «a doppia specialità» o a

«specialità reciproca». In particolare, il legislatore ha ritenuto di dare funzione quali

ficante e specializzante del reato proprio all'elemento soggetti vo: non può non essere evidenziata la funzione svolta nel delitto

in esame dal dolo specifico. E stato notato che la condotta della privazione della libertà si

presta facilmente ad essere funzionale a scopi ulteriori; sì che

anche sotto il profilo della tecnica normativa, il legislatore ha

delineato più fattispecie di sequestro qualificato di persona e ne

ha affidato il tratto differenziale al dolo specifico, che ne ha

condizionato anche la collocazione in titoli diversi del codice

penale (v. la figura in esame e quella parallela di cui all'art. 289

bis c.p., il reato previsto dall'art. 3 1. 718/85, ovvero i ratti de

scritti dagli ora abrogati art. 522 ss. c.p.). Sotto questo aspetto può ritenersi ancora in certo qual modo

giustificata la collocazione della fattispecie criminosa in esame

nell'ambito della categoria dei delitti contro il patrimonio, ten

dendo a rimarcare la specifica intenzionalità dell'agente come

condizione costitutiva del modello legale. Se, invero, tale reato

ha natura plurioffensiva, poiché l'oggetto della tutela penale si

identifica sia nella libertà personale, sia nell'inviolabilità del

patrimonio, il tratto che ha sempre costituito il suo elemento

fondante è la «mercificazione della persona umana»: la persona

Il Foro Italiano — 2004.

è strumentalizzata in tutte le sue dimensioni, anche affettive e

patrimoniali, rispetto al fine dell'agente; è, in altre parole, resa

merce di scambio contro un prezzo, come risulta dalla stretta

correlazione posta tra il fine del sequestro, che è il profitto in

giusto, e il suo titolo, cioè, appunto, il prezzo della liberazione

(v. Cass., sez. Ili, 24 giugno 1997, Breshani ed altri, id., Rep. 1998, voce cit., n. 8).

A ben vedere, quando un soggetto viene tenuto sotto seque stro — inteso essenzialmente come privazione della libertà di

movimento nello spazio secondo l'autonoma scelta di ciascuno —

per la sua liberazione viene preteso un prezzo, l'azione tipica delineata dall'art. 630 c.p. risulta pienamente configurata, con la

sua carica intenzionale di conseguimento di un profitto; se tale

profitto è ingiusto il reato si perfeziona. L'organizzazione cri

minale che pattuisce un compenso per effettuare un'immigra zione clandestina ha come movente interno l'accordo con la

vittima, ma si prefigge lo scopo di lucrare un profitto illecito

(quindi ingiusto) quale prezzo della liberazione della vittima

stessa tenuta come vero e proprio ostaggio; la scomposizione di

un fatto unitario, come tale previsto dall'art. 630 c.p., nei due

reati semplici di cui agli art. 605 e 629 c.p., mostra di confonde

re il movente retrostante col dolo specifico, fin dall'inizio ben

delineato.

Come ha correttamente rilevato l'ordinanza di rimessione, in

vero, l'opposta soluzione è basata su di una lettura della norma

che sovrappone due elementi, i quali nella norma sono distinti:

l'ingiusto profitto ed il prezzo. li prezzo è la controprestazione che viene imposta quale corrispettivo della liberazione della

persona: prezzo e liberazione sono i due poli dello specifico si

nallagma. La ricerca di questo corrispettivo può però essere

volta a conseguire sia il vantaggio che deriva direttamente dal

prezzo (e quindi ad ottenere un profitto comunque ingiusto), sia

il vantaggio che deriva da un rapporto pregresso. Se la pretesa

dell'agente ha titolo, come nella specie, in un negozio avente

causa illecita, il profitto perseguito è ingiusto; e non si vede

perché se ad essa si accompagni la segregazione del soggetto

passivo, e la liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo, la condotta del sequestratore debba essere scissa in

due fatti-reato — sequestro di persona ed estorsione — il se

condo dei quali presuppone comunque l'ingiustizia del profitto. Il binomio normativo «ingiusto profitto come prezzo della li

berazione» non esclude che il perseguimento del prezzo del ri

scatto tragga il movente da preesistenti rapporti illeciti, limitan

dosi a collegare l'azione ricattatrice alla prospettiva della libe

razione del sequestrato. L'agente infatti non ha una pretesa tu

telabile dalla legge da far valere; sicché in realtà l'utilità non

dovuta che il ricattatore persegue rappresenta null'altro che il

corrispettivo della liberazione dell'ostaggio. In definitiva può affermarsi che il delitto previsto dall'art.

630 c.p. è un reato plurioffensivo, nel quale l'elemento obiettivo

del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un pro fitto ingiusto dal prezzo della liberazione; ne consegue che ove

ricorrano i due elementi della privazione della libertà personale e della finalità di ottenere un profitto come prezzo della libera

zione, si verifica quella forma particolare di delitto che è previ sta dall'art. 630 c.p.; ogni scissione del fatto unitario è priva di

qualsiasi fondamento nella legge, in quanto si lucra un prezzo

per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per ri

scuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimo niale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente

tra sequestratore e vittima.

La menzione specifica del «prezzo della liberazione» ha la

funzione di sottrarre all'area di applicabilità dell'art. 630 c.p. fatti di sequestro di persona in cui l'ingiusta utilità perseguita non si pone come corrispettivo per la liberazione dell'ostaggio, ma ad altro titolo, come ad esempio quando l'agente pretenda un compenso per rendere meno gravosa la condizione del se

questrato. Pertanto alla domanda se la condotta criminosa consistente

nella privazione della libertà di una persona, finalizzata a con

seguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimo niale, anche se pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integri il delitto, di cui all'art. 630 c.p., occorre dare ri

sposta affermativa.

Questo inquadramento sistematico fornisce un chiaro criterio

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Page 5: sezioni unite penali; sentenza 17 dicembre 2003; Pres. Marvulli, Est. Carmenini, P.M. Siniscalchi (concl. parz. diff.); ric. Huang Yunwen e altri. Annulla App. Bologna 13 maggio 2002

GIURISPRUDENZA PENALE

ermeneutico del tutto aderente al testo ed alla ratio della norma,

rendendo non necessaria la ricostruzione dell'evoluzione storica

della fattispecie criminosa in esame, che sarebbe utile, al più, ad

illustrare Voccasio legis. Al riguardo si può solo accennare, del

tutto sinteticamente, che il sequestro estorsivo è un delitto dalle

origine antiche (il ricatto), il quale si è andato di volta in volta

adeguando ai tempi ed alle diverse forme di sfruttamento eco

nomico della persona «prigioniera», modernizzandosi e rinno

vando i suoi profili socio-economici e criminologici: sì che vo

lerne limitare la lettura alla mera matrice storica appare opera zione impropriamente limitativa.

Il detto inquadramento torna, per altro, di stretta attualità ed è

perfettamente riferibile al caso in esame, il cui disvalore sociale

consiste proprio nella stretta correlazione tra la «persona og

getto» e la sua utilizzazione a fini di spostamento di ricchezze

verso organizzazioni criminali, con conseguente potenziamento delle stesse e crescente pericolo per la collettività.

La conclusione delle argomentazioni fin qui svolte comporta che i fatti ritenuti dalla sentenza impugnata come integranti le

autonome ipotesi di sequestro di persona e di estorsione (in un

caso di tentata estorsione) devono essere, invece, qualificati come sequestro di persona a scopo di estorsione, in accogli mento del ricorso del procuratore generale territoriale. È appena il caso di rilevare che nella specie si tratta di reati consumati,

atteso che, come in precedenza rilevato, l'art. 630 c.p. non ri

chiede per la consumazione del reato come elemento necessario

il fatto che l'agente abbia effettivamente conseguito l'ingiusto

profitto avuto di mira (negli episodi contestati agli imputati, per

altro, il prezzo è stato sempre riscosso, tranne che in un caso).

Ne consegue che la sentenza della corte bolognese deve esse

re annullata sul punto; ulteriore conseguenza è che tornano a ri

vivere i reati ritenuti dal primo giudice e che si rende necessaria

la rideterminazione finale della pena, dovendosi rinviare per

questo incombente ad altra sezione della stessa corte d'appello, la quale terrà conto dei ristretti limiti entro cui essa è tenuta ad

operare. Si è formato, infatti, il giudicato sulla colpevolezza di

tutti gli imputati; sulla qualificazione giuridica dei fatti addebi tati; sull'inapplicabilità della circostanza attenuante di cui al

l'art. 114 c.p.; sull'applicazione, per converso, delle attenuanti

generiche per tutti gli imputati con la riduzione massima di un

terzo della pena, come già computata dal g.u.p.; sull'applicazio ne dell'istituto della continuazione; sul calcolo della diminuente

per la scelta del rito. Poiché residua soltanto la doglianza —

contenuta negli atti di gravame e comune a tutti gli imputati —

della eccessività della pena, il giudice del rinvio dovrà limitarsi

ad esaminare se tale doglianza meriti o meno accoglimento e se

vi siano margini per una eventuale riduzione della pena inflitta

dal giudice di primo grado. La soluzione data alle questioni sollevate dai ricorrenti, men

tre ha condotto ad accogliere il ricorso del procuratore generale,

comporta il rigetto dei ricorsi degli imputati, con la specifica zione che il terzo argomento di indagine devoluto a questo col

legio, ossia i motivi attinenti al giudizio di comparazione tra

circostanze di segno contrario ed all'aumento di pena operato dalla corte d'appello per la continuazione, resta assorbito.

Il Foro Italiano — 2004.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza 25

novembre 2003; Pres. Olivieri, Est. Brusco, P.M. Hinna

Danesi (conci, conf.); ric. Min. economia e finanze e altro in

c. Barillà. Annulla App. Genova, ord. 6 febbraio 2003.

Errore giudiziario e ingiusta detenzione (riparazione di) —

Errore giudiziario — Riparazione — Natura — Indennità — Criteri di liquidazione (Cod. civ., art. 1226, 2056; cod.

proc. pen., art. 643). Danni in materia civile — Danno biologico — Liquidazione

— Criterio tabellare — Obbligatorietà — Esclusione (Cod.

civ., art. 1226, 2056, 2059). Danni in materia civile — Danno esistenziale — Criteri di

valutazione (Cod. civ., art. 1226, 2056, 2059).

La riparazione dell'errore giudiziario costituisce il corrispetti vo di un pregiudizio che deriva da una condotta conforme al

l'ordinamento ma produttiva di un danno, per la cui valuta

zione e liquidazione il giudice può far ricorso (tanto per i

danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali) sia ad un

criterio risarcitorio integrato da quello equitativo per le sole

voci di danno certe nel! 'an ma non esattamente quantificabili, sia ad un criterio esclusivamente equitativo. (1)

Posto che il danno biologico, come quello morale ed esisten

(1) La sentenza in epigrafe annulla App. Genova, ord. 6-7 febbraio

2003, riportata per esteso in Nuova giur. civ., 2003, I, 500, con nota di

E. Navarretta, Non è solo esistenziale il danno da errore giudiziario: il caso Barillà e il processo kafkiano (ove può leggersi che «[l]a dispo sizione [l'art. 643 c.p.p.], da sempre ritenuta fonte di un diritto alla ri

parazione globalmente riferito ad ogni tipo di pregiudizio [. ..] perde

d'improvviso la capacità di evocare i pregiudizi non patrimoniali, che

divengono irrisarcibili, secondo l'ordinanza genovese, fuori dai casi di

reato»); nonché Danno e resp., 2003, 628, con nota di G. Ponzanelli, Il

caso Barillà: danno esistenziale, pena privata e la «lotteria della re

sponsabilità civile», e Resp. civ., 2003, 810, con nota di F.M. Zanasi, Il

danno esistenziale conseguente all'errore giudiziario. Sui criteri di li

quidazione dell'indennità e sul carattere non risarcitorio del diritto alla

riparazione, v. Cass. 20 novembre 2001, Spanò, Foro it., Rep. 2002, voce Errore giudiziario, n. 16; sez. un. 9 maggio 2001, Caridi, id., Rep. 2001, voce cit., n. 29, e, per esteso, Dir. e formazione, 2001, 459, con

nota di F.A. Genovese, Le sezioni unite definiscono la natura dell'in

dennizzo per ingiusta detenzione; App. Milano 29 novembre 2000, Fo

ro it., Rep. 2001, voce cit., nn. 38, 41, 51, nonché Foro ambrosiano,

2001, 196 (m), con nota di R. Vanni, Il contributo causale della vittima

del processo alla produzione dell'errore cautelare e la determinazione

dell'entità pecuniaria della riparazione per ingiusta detenzione (che e

videnzia come la riparazione sia «diversa dal 'risarcimento del danno', dalla 'prevedibilità' dei quale prescinde. Essa è 'un diritto costituito

sulla base di un rapporto lecito e di una attività legittima — quella sta

tuale giudiziaria — e si fonda su un danno obiettivamente ingiusto cau

sato da quella attività'. La riparazione 'scaturisce da un rapporto di so

lidarietà civile"; si attua 'non con rigidi criteri tecnico-giuridici, ma con

criteri prettamente equitativi. Detti criteri consentono di abbracciare

qualsiasi danno, patrimoniale e penale, diretto o mediato, che sia in

rapporto eziologico con l'ingiusta detenzione'»); Cass. 28 settembre

2000, Greco, Foro it.. Rep. 2002, voce cit., n. 30, e, per esteso, Giust.

pen., 2002, IH, 150; 7 aprile 2000, Cela, Foro it., Rep. 2001, voce cit., n. 7; App. Bologna 29 febbraio 2000, id.. Rep. 2002, voce cit., n. 31, e,

per esteso, Critica del diritto, 2001, 138, con nota di M.G. Coppetta, La riparazione per ingiusta detenzione: ancora troppi silenzi normativi

e soluzioni giurisprudenziali inappaganti; App. Palermo 15 febbraio

2000, Foro it., 2001, II, 41, con nota di D. Chinnici, Un breve «excur

sus» in materia di riparazione dell'errore giudiziario (si legge nel

provvedimento che «l'istituto è preordinato alla corresponsione di

quelle utilità che valgono a compensare la vittima dell'errore giudizia rio di ogni tipo di pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale conse

guente alla condanna»). In dottrina, v. A. Vassallo, Errore giudiziario e diritto alla riparazione, in Danno e resp., 2003, 1109; LA. Santan

gelo, La riparazione per l'ingiusta detenzione, in Giur. merito, 2001,

1499 (secondo cui «circa la costruzione della responsabilità dello Stato

per atto lecito [. ..] non [è] possibile, nel caso dell'errore giudiziario, rinvenire in essa il principio equitativo secondo cui il sacrificio indivi

duale, in quanto preordinato ad un altrui vantaggio, debba essere com

pensato, poiché in tale figura non si ha un sacrificio dell interesse del

l'innocente per un contrario interesse collettivo, bensì una lesione di

entrambi questi interessi, atteso che interest rei publicae innocentem

non condemnari. E deve, inoltre, aggiungersi che l'errore vizia il prov vedimento, tanto sotto il profilo della ricostruzione dei fatti, quanto sotto quello della prospettazione degli elementi probatori acquisiti al

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