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sezioni unite penali; sentenza 25 febbraio 1998; Pres. La Torre, Est. Silvestri, P.M. Toscani...

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sezioni unite penali; sentenza 25 febbraio 1998; Pres. La Torre, Est. Silvestri, P.M. Toscani (concl. conf.); Gerina e altro. Annulla App. Cagliari 13 maggio 1996 Source: Il Foro Italiano, Vol. 121, No. 4 (APRILE 1998), pp. 225/226-245/246 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23193245 . Accessed: 28/06/2014 13:48 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 78.24.220.173 on Sat, 28 Jun 2014 13:48:19 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite penali; sentenza 25 febbraio 1998; Pres. La Torre, Est. Silvestri, P.M. Toscani(concl. conf.); Gerina e altro. Annulla App. Cagliari 13 maggio 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 121, No. 4 (APRILE 1998), pp. 225/226-245/246Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23193245 .

Accessed: 28/06/2014 13:48

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225 GIURISPRUDENZA PENALE 226

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 25

febbraio 1998; Pres. La Torre, Est. Silvestri, P.M. Tosca

ni (conci, conf.); Gerina e altro. Annulla App. Cagliari 13

maggio 1996.

CORTE DI CASSAZIONE;

Cassazione penale — Letture dibattimentali — «Ius superve niens» — Applicabilità — Condizioni (Cod. proc. pen., art.

513; 1. 7 agosto 1997 n. 267, modifica delle disposizioni del codice di procedura penale in tema di valutazione delle pro

ve, art. 6).

In presenza di innovazioni legislative verificatesi nel corso del

processo in materia di utilizzabilità o di inutilizzabilità della prova, il principio tempus regit actum deve essere riferito al

momento della decisione e non a quello dell'acquisizione, at

teso che il divieto di uso, colpendo proprio l'idoneità della

prova a produrre risultati conoscitivi valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, interviene allorché il

procedimento probatorio non ha trovato ancora esaurimento,

di modo che il divieto inibisce che i dati probatori, pur se acquisiti con l'osservanza delle forme previste dalle norme pre

vigenti, possano avere un qualsiasi peso sulla decisione; ne

consegue che, sopravvenuta, nelle more del giudizio di legitti

mità, la l. n. 267 del 1997, la Corte di cassazione, a fronte della presentazione di motivi nuovi effettuata dalla parte che

ne abbia interesse, ha il potere-dovere di pronunciare l'annul

lamento con rinvio della sentenza impugnata, allo scopo di

consentire alla parte medesima, nel successivo giudizio di rin

vio, di chiedere la citazione del dichiarante a norma dell'art.

6, 40 comma, l. n. 267 del 1997. (1) Perché sussista il potere-dovere della Corte di cassazione di pro

nunciare l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, che abbia deciso in base alla lettura di dichiarazioni di sog

getti che, in sede dibattimentale, si siano avvalsi della facoltà di non rispondere, è in primo luogo necessario che gli origi nari motivi di ricorso abbiano rimesso la valutazione delle

dichiarazioni medesime alla cognizione del giudice di legitti mità; occorre, inoltre, che il ricorrente abbia manifestato, at

traverso la presentazione di motivi nuovi, la volontà che nel

processo in corso trovino ingresso i meccanismi di recupero dell'oralità e del contraddittorio di cui all'art. 6 l. n. 267 del

1997; occorre, infine, che il giudice di legittimità abbia accer

tato che la valutazione degli elementi probatori desunti dalle

letture delle dichiarazioni già effettuate a norma del previgen te testo dell'art. 513 c.p.p. abbia avuto un peso reale sulla

decisione di merito. (2)

(1-2) Sin dalle prime analisi sulla complessa (e compromissoria) di

sciplina di cui all'art. 6 1. 7 agosto 1997 n. 267 (per un compiuto studio, particolarmente attento ai lavori preparatori, cfr. Dalia, Le disposizio ni transitorie, in AA.VV., Le innovazioni in tema di formazione della

prova nel processo penate. Commento alla I. 7 agosto 1997 n. 267, Milano, 1998, 193 ss.) è stato posto in rilievo come la norma, nel dedi care regole specifiche ad ogni grado di merito (ivi compreso il giudizio di rinvio), non contenesse, invece, disciplina alcuna con riguardo al

giudizio di cassazione; e tale silenzio, pressoché uniformemente inter

pretato nel senso della inapplicabilità, avanti al giudice di legittimità, degli 'speciali' meccanismi di recupero previsti dalla disciplina tranisto

ria (cfr., ad es., Illuminati, Uno sguardo unitario alle riforme dell'e state 1997, in Dir. pen. e proc., 1997, 1524), era stato ora ritenuto

conforme a logica (cfr. Corbetta, Modifica dell'art. 513 c.p.p.: diffi coltà nell'applicazione della disciplina transitoria, ibid., 1067 s., e Nap

pi, Commento alle nuove norme sulla valutazione delle prove, in Gaz zetta giuridica, 1997, fase. 33, 9), ora tacciato di illegittimità costituzio

nale (cfr. Frigo, Ritornano l'oralità e il contraddittorio mentre cresce

il rischio di una controriforma, in Guida al diritto, 1997, fase. 32, 78;

per un diverso approccio in tema, alla luce dell'odierna decisione, cfr.

tuttavia Id., Il regime transitorio ritrova la coerenza con lo spirito della

l. 267/97, id., 1998, fase. 15, 15 s.). Chiamato a pronunciarsi sul punto, il giudice di legittimità aveva dapprima confermato tale indirizzo inter

pretativo, difendendone le logiche di fondo (Cass. 29 settembre 1997, Cascino ed altri, Foro it., 1997, II, 665, con osservazioni di Dì Chiara); l'orientamento era apparso condiviso dalla dottrina maggioritaria (Cor betta, La riforma dell'art. 513 c.p.p. e la disciplina transitoria delle

letture dibattimentali, in AA.VV., Le nuove leggi penali, Padova, 1997, 246 ss.; Grevi, Sull'applicabilità del nuovo art. 513 c.p.p. nei processi in corso, in Dir. pen. e proc., 1997, 1505 ss.; Mazza, La perdurante ap

II Foro Italiano — 1998 — Parte II-9.

Svolgimento del processo. — In data 13 maggio 1996 la Cor

te d'appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza pro nunciata il 24 aprile 1995 dal tribunale della stessa città, riduce

va a nove anni di reclusione e lire 60.000.000 di multa la pena inflitta a Gerina Efisio per il delitto di spaccio continuato di sostanze stupefacenti, aggravato dal concorso al fatto di alme no tre persone e dall'ingente quantitativo di eroina illegalmente

commerciata, commesso in Milano, Cagliari e zone limitrofe

tra il maggio 1989 e il luglio 1991: la pena inflitta al coimputato Contu Elio veniva ridotta a diciassette anni e dieci mesi di re

clusione e lire 147.000.000 di multa per i delitti di spaccio plu

riaggravato di ingenti quantitativi di droga e di illegale deten

plicazione del «vecchio» art. 513 c.p.p. ai processi ormai giunti in Cas

sazione, in Cass, pen., 1998, 141 ss.; contra, Locatelli, La riforma dell'art. 513 c.p.p.: profili di incostituzionalità, effetti processuali e pri me applicazioni giurisprudenziali, in Gazzetta giuridica, 1997, fase. 38,

7, e, da ultimo, E. Gaito, Sull'applicabilità immediata del «nuovo»

art. 513 c.p.p. nel giudizio di cassazione, in Giur. it., 1998, 321 nonché

Ronco, Sull'immediata operatività del nuovo testo dell'art. 513 c.p.p. nei ricorsi pendenti in Cassazione, ibid., 324), che pure non aveva man cato di segnalare ancora le innegabili aporie desumibili dall'impalcatura della norma transitoria. Ulteriori pronunce di legittimità (ora ripercor se, in parte motiva, dalla su riprodotta sentenza) avevano, tuttavia,

provocato l'emergere di un (pacato ma netto) contrasto interpretativo, risolto adesso — in senso per più aspetti diametralmente opposto a

quel primo indirizzo — dalle sezioni unite. L'asse concettuale su cui si edifica l'impianto motivativo dell'odierno

decisum è costituito dall'analisi del tradizionale principio tempus regit actum (su cui cfr., per tutti, Lozzi, La successione delle leggi proces suali penali nel tempo e le disposizioni transitorie del nuovo codice di

procedura penale, in Riflessioni sul nuovo processo penale, 2a ed., To

rino, 1992, 85 ss.) e, in tale contesto, dallo studio della nozione di actus avuto riguardo al fenomeno probatorio: la corte, nel suo più am

pio consesso, distingue tra gli atti che si consumano con effetti istanta nei e che, dunque, si esauriscono senza residui nel loro puntuale compi mento (tali, ad esempio, gli atti di impulso riservati alle parti) e gli atti a contenuto probatorio, i quali, per contro, si innestano in una

sequenza (scandita dalle tradizionali fasi del procedimento probatorio: ammissione, assunzione/acquisizione e valutazione della prova) che non

può dirsi esaurita finché il processo rimanga sub indice e che, pertanto, sarà destinata ad estinguersi solo con il formarsi della res iudicata. Poi ché — ad avviso della corte — l'art. 513 (nella sua «vecchia» e «nuo va» formulazione) attiene al fenomeno dell'utilizzabilità della prova e,

pertanto, attinge sia all'an che al quomodo della valutazione del risulta to probatorio, la sequenza è ancora aperta allorché l'atto, ammesso ed acquisito (pur ritualmente) in base alle «vecchie» regole, debba esser valutato alla luce dello ius superveniens: da qui la conclusione per cui il silenzio, serbato dall'art. 6 1. n. 267 circa il grado di legittimità, legit timerebbe ed anzi imporrebbe — proprio in forza del canone tempus regit actum — l'immediata applicazione del novum ius, per il tramite

dell'annullamento con rinvio, sì da dar modo alle parti che ne abbiano interesse di chiedere, in sede di giudizio di rinvio, la citazione del di chiarante ex art. 6, 4° comma, 1. n. 267 del 1997 (in questo senso si era già espresso Locatelli, cit.; per una critica sul punto cfr., invece, Grevi, cit., 1508, nota 10). Ed anzi — rimarcano ancora le sezioni unite — il silenzio dell'art. 6 appare ben giustificabile ove si pensi che la disciplina transitoria regola il quomodo, e non già Van, del peculiare «recupero» del «sapere» acquisito tramite lettura ai sensi del «vecchio» art. 513 c.p.p.: non v'era, dunque, ragione di prescrivere ex professo l'annullamento con rinvio, che appare (alla corte) soluzione dovuta, insuscettibile di incertezze di sorta.

Un simile iter ricostruttivo non mancherà certo di schiudere orizzonti nuovi al dibattito, che si pr?" enuncia vivace e non privo di toni polemi ci (cfr., tra le prime valutazioni, per orientamenti tra loro non poco diversi, Bricchetti, Le sezioni unite dettano le condizioni per la riaper tura dei processi, in Guida al diritto, 1998, fase. 15, 60 ss.; Frigo, Il regime transitorio ritrova la coerenza con lo spirito della l. 267/97, cit., 63 ss.; Giordano, Dimenticata la difficile acquisizione di prove nei procedimenti di criminalità organizzata, in Guida al diritto, 1998, fase. 15, 66 s.). Trascurando, qui, ogni approfondimento circa l'impat to dell'odierna pronuncia sui processi in corso (tema del cui vibrante rilievo la corte si dichiara, peraltro, ben consapevole) merita, piuttosto, di esser ancora sottolineata la peculiare e assorbente lettura del fenome no probatorio, nel prisma della successione di leggi processuali, offerta dalle sezioni unite. Non v'è dubbio che il transito dal «mezzo» al «ri sultato» di prova, su cui è infine destinata a dispiegarsi l'attività valuta

tiva del giudice, individui un'esperienza fortemente unitaria: un conti

nuum, appunto, contraddistinto dall'ormai consolidata nozione di pro cedimento probatorio (su cui cfr., per tutti, l'ormai classica trattazione di Cordbro, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove pena li, Milano, 1963, 3 ss., spec. 52 ss.). Tale unitarietà, tuttavia, a ben

vedere non osterebbe ad una considerazione analitica (e, dunque, ad uno specifico rilievo sub specie iuris) di ciascuno dei segmenti che

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PARTE SECONDA

zione di arma comune da sparo con matricola abrasa, nonché

di ricettazione di vari oggetti preziosi costituenti provento di

furto, commessi nel periodo compreso tra il 1984-1985 e l'otto

bre 1992; il Contu veniva, invece, assolto dai delitti contestati

ai capi F) e G) concernenti la detenzione, il porto e la ricetta

zione di armi da guerra. Premesso che le indagini iniziate in Lombardia grazie alle ri

velazioni fatte da La Barbera Roberto, prima come confidente

dei carabinieri e successivamente come collaboratore dell'auto

rità giudiziaria inquirente, avevano portato alla scoperta dell'e

sistenza di un'organizzazione criminale dedita stabilmente al traf

fico di ingenti quantitativi di eroina e di cocaina e con una

rete di distribuzione estesa a varie regioni, la corte territoriale

precisava che il La Barbera aveva dichiarato che in Sardegna

operavano, in modo autonomo e parallelo, due gruppi di clienti

che si rifornivano di droga dall'organizzazione lombarda, il pri mo facente capo a Contu Elio e il secondo ai fratelli Gerina

compongono la sequenza: ammissione e assunzione della prova indivi

duano, come è noto, ciascuna vere e proprie linee sub-procedimentali, suscettibili di considerazione autonoma e disciplinate, l'una e l'altra, da proprie regole (cfr., per tutti, anche per ulteriori rinvii, Ubertis, La prova penale. Profili giuridici ed epistemologici, Torino, 1995, 52);

quanto alla fase della valutazione del risultato di prova, anch'essa in

formata ad una propria peculiare disciplina, non mancano ricostruzioni

autorevoli che la collocherebbero addirittura fuori dall'ottica del proce dimento probatorio in senso stretto (così Ubertis, cit., 52, nota 5, il

quale ribadisce la natura bifasica del procedimento probatorio già sot

tolineata da Cordero, cit.; per la più diffusa ottica che ricomprende, invece, anche la fase valutativa nell'ambito del procedimento probato rio, cfr., tra gli altri, Amodio, Libertà e legalità della prova nella disci

plina della testimonianza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1973, 314, nota

10; Galantini, L'inutilizzabilità della prova nel processo penale, Pado

va, 1992, spec. 104 s.; Nobili, La nuova procedura penale, Bologna, 1989, 151).

Ciò posto, a fronte del quesito che ha dato origine all'odierno deci

sum, parrebbero due le chiavi di lettura prospettabili. Secondo una pri ma prospettiva, preoccupata anzitutto — muovendo dalla soluzione og

gi offerta dalle sezioni unite — di salvaguardare i valori di fondo sotte si alla riforma del 1997, «in ogni giudizio (fosse il primo o uno ulteriore) successivo alla riforma» la prova formata tramite lettura a norma del «vecchio» art. 513, «per quanto legittimamente acquisita secondo la

legge del tempo», non potrebbe più esser valutata, «cioè utilizzata per la valutazione», e ciò in quanto il giudice, onde procedere — appunto — alla valutazione del risultato probatorio, sarebbe vincolato ad appli care, proprio in forza del canone tempus regit actum, «la legge di quel momento, che è quella nuova, la quale vieta l'impiego, anche in sede di valutazione, delle dichiarazioni medesime»; non si tratterebbe — si è dunque concluso — di far «retroagire» la nuova disciplina, ma di

impedire che «ultragisca» la vecchia, «come accadrebbe se, in presenza di un sopravvenuto divieto, si continuasse ad utilizzare, in sede di at tuale giudizio, la prova vietata» (Frigo, Il regime transitorio ritrova

la coerenza con lo spirito della l. 267/97, cit., 15 s.). Si è, anzi, su

questo versante valorizzato un profilo su cui la corte, nell'odierna pro nuncia, non ha inteso soffermarsi, avendolo espressamente ritenuto as sorbito dall'itinerario percorso in motivazione: facendo leva sul modulo

argomentativo adottato da Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Belli (Foro it., 1990, II, 300), che ha ritenuto immediatamente applicabile, pur in assenza di espresse norme transitorie, l'art. 192, 3° comma, c.p.p. ai

procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del codice del 1988, si è chiarito che anche al «nuovo» art. 513 c.p.p. spetta il ruolo di «norma di garanzia» (per tale concetto cfr. le limpide pagine di Conso, Natura giuridica delle norme sulla prova nel processo penale, in Riv. dir. proc., 1970, 7 ss.), che in quanto tale è immediatamente applicabi le, pur nel silenzio della littera legis, ai procedimenti in corso (in tal senso esplicitamente Gaito, cit., 321).

Di contro — ed è la seconda chiave prospettica — potrebbe osservar si che la prova, già acquisita al fascicolo per il dibattimento in confor mità alla normativa vigente all'epoca (e, perciò, ilio tempore «legitti mamente acquisita» a norma dell'art. 526 c.p.p.: sul punto cfr., per tutti, Nobili, Divieti probatori e sanzioni, in Giust. pen., 1991, III, spec. 646 ss.), non possa ritenersi colpita da una sopravvenuta ed ineso rabile inutilizzabilità sol perché, a giudizio ancora in corso (e, dunque, a valutazione ancora aperta), sia nelle more sopravvenuto un ius no vum che nulla preveda in ordine alla situazione pendente (nella specie: giudizio in Cassazione); è ben vero che l'atto a contenuto probatorio, proprio per le caratteristiche intrinseche della vita funzionale che lo

contraddistingue, non è suscettibile di esaurirsi in se stesso ma si proiet ta in avanti, verso l'orizzonte della valutazione giudiziale, e che tale orizzonte si mantiene aperto finché il punto rimanga sub iudice-, rimar rebbe da chiedersi, tuttavia, se ciò possa ritenersi bastevole ad accredi tare — fondandola sul mero canone tempus regit actum — una rico

II Foro Italiano — 1998.

e al nipote Cardia Francesco. Nella motivazione della sentenza

d'appello veniva, quindi, riconosciuta l'intrinseca attendibilità

delle chiamate di correo fatte dal La Barbera, che apparivano

spontanee, genuine, coerenti, particolareggiate, e convergevano con le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, trovando,

inoltre, riscontro estrinseco in vari elementi obiettivi, indipen denti dalle chiamate, e integrando, cosi, una situazione proba toria pienamente giustificativa dell'affermazione di responsabi lità del Contu e del Gerina per l'attività di smercio di droga da loro svolta all'interno dei due gruppi che operavano in terri

torio sardo nonché, nei riguardi del solo Contu, per detenzione

e porto illegali di arma clandestina e per ricettazione.

Infine, la corte di secondo grado riconosceva la legittimità della confisca dei gioielli, del denaro, dei certificati di deposito

e dei buoni fruttiferi trovati nell'abitazione del Contu, essendo

dimostrata la loro provenienza dai reati dei quali lo stesso Con

struzione della fattispecie in termini di sopravvenuta inutilizzabilità del la prova ìlio tempore legittimamente assunta che passerebbe — e nel silenzio del legislatore — attraverso la configurazione di un vero e pro

prio onere, per la parte interessata, di (riservarsi di) iniziare, nel succes

sivo giudizio di rinvio, una nuova sequenza probatoria (ammissione e

assunzione dell'esame del dichiarante) allo scopo di integrare la prima

prova e di renderla, in tal modo, utilizzabile.

Eppure, a ben riflettere, non sembra priva di pregio — sul piano

rigorosamente tecnico — la già richiamata esigenza di evitare una ab norme «ultrattività» della non più vigente disciplina. Ciò che risulta

mutato, nell'intervallo tra la già intervenuta lettura ex art. 513 c.p.p. «vecchio stile» e l'entrata in vigore della 1. n. 267 del 1997, non è solo il regime di ingresso, nell'area del convincimento del giudice, del «sape re» del coimputato o del soggetto ex art. 210 c.p.p., ma altresì — e

proprio ai sensi della (pur complicata e per più aspetti eterodossa) disci

plina transitoria — la regola di valutazione del dictum di tali soggetti. Su un punto, allora, può essere utile insistere: la soluzione oggi accolta dalle sezioni unite non può dirsi rescindere una prova già compiuta mente formatasi, come avverrebbe (e non sarebbe razionale) se occor

resse riaprire le (già compiutamente esauritesi) fasi di ammissione e as sunzione di quella prova; al contrario, il principio statuito dalla corte

pone l'esigenza di schiudere una fase — per dir così — integrativa del

l'efficacia di quella prima prova, attraverso la celebrazione, nel succes sivo giudizio di rinvio, di una nuova sequenza probatoria non già aven

te ancora ad oggetto la medesima (ed ormai cristallizzatasi) lettura

acquisizione, ma finalizzata ad assumere, avanti al giudice del merito, la deposizione orale del dichiarante; il raccordo tra i risultati di questa nuova assunzione (resa doverosa dallo ius superveniens e dischiusa pro prio dalla pronuncia di annullamento con rinvio) e il contenuto della

lectio disposta ex art. 513 «vecchio stile» (che permane, stazionando in fascicolo, pur se ormai senza le potenzialità proprie del non più vi

gente regime) costituirà la piattaforma probatoria, doverosamente «ag

giornata», su cui andrà di seguito a dispiegarsi il convincimento del

giudice in applicazione della peculiare regola di giudizio di cui all'art.

6, 5° comma, 1. n. 267.

Sarà, comunque, necessario seguire con attenzione i successivi svilup pi della giurisprudenza di legittimità, allo scopo di verificare se il prin cipio enunciato dalle sezioni unite sarà in grado — attesa la delicatezza delle poste in gioco, e le perplessità comunque da subito messe a fuoco anche in dottrina (cfr., ad es., le opinioni di Conso e di Grevi, riporta te da Stasio, Nuovo «513»: governo cauto, in II Sole-24 Ore del 9

aprile 1998, 22) — di dirimere definitivamente i contrasti; pur se —

va detto con chiarezza — lascia non del tutto persuasi la repentina re centissima reinvestitura delle sezioni unite in ordine alla medesima quae stio, intervenuta ad appena tredici giorni dal deposito della pronuncia in epigrafe, nella prospettiva che la corte nel suo più ampio consesso

voglia, re melius perpensa, mutare indirizzo (per una ricostruzione della

vicenda, cfr. Stasio, La Cassazione tenta il dietrofront sul «513», in Il Sole-24 Ore del 21 aprile 1998, 2; la circolare 4 luglio 1997 del primo presidente aggiunto della Corte di cassazione, che suggerisce, allo scopo di evitare dissidi interpretativi tra sezioni unite e sezioni semplici, il rimedio di una nuova motivata rimessione alle sezioni unite della mede sima quaestio, in luogo di una più lacerante interpretazione difforme tout court della sezione semplice, è riprodotta in Cass, pen., 1997, 3687

s.). È questa, senza dubbio, l'ennesima riprova — se mai ve ne fosse necessità — di un bilanciamento mal riuscito (o, se non altro, poco trasparente), in sede legislativa, tra gli interessi in gioco, frutto di trop pe alchimie, incertezze, silenzi; costituisce, tuttavia, segno ulteriore di una crisi della funzione nomofilattica su cui ormai da tempo si pone l'accento (cfr., per tutti, di recente, il documentato studio di Romeo, La nomofilachia, ovvero l'evanescente certezza del diritto, ibid., 3667

ss.; dello stesso autore, cfr., peraltro, in ordine alla su riprodotta pro nuncia, Sul «513» la Cassazione ha tradito il parlamento, in II Sole-24 Ore del 17 aprile 1998, 7) e che sembra, a tutt'oggi, rimanere dramma ticamente senza risposte. [G. Di Chiara]

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GIURISPRUDENZA PENALE

tu è stato ritenuto responsabile, e reputava i due imputati non

meritevoli delle invocate circostanze attenuanti generiche. Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione

chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.

Nell'interesse di Gerina Efisio è stata denunciata la nullità

della sentenza per violazione degli art. 110 c.p., 192, 1°, 2°, 3° e 4° comma, c.p.p. nonché illogicità, contrarietà e mancan

za della motivazione sul rilievo che era stata erroneamente attri

buita intrinseca attendibilità alle dichiarazioni del La Barbera

e che le affermazioni degli altri collaboratori erano state inter

pretate in modo distorto tanto da ricavarne riscontri alle accuse

del primo, mentre esse non forniscono alcun apprezzabile ele

mento che comprovi, sia pure indirettamente, il coinvolgimento

dell'imputato nel traffico di droga. Del pari è stata prospettata

l'illogicità manifesta della motivazione in ordine alla ritenuta

convergenza delle dichiarazioni dei collaboranti La Barbera e

Abeni ai fini della identificazione di Gerina Efisio quale correo

del fratello Gerina Massimiliano, senza tenere conto delle im

precisioni e delle discordanze riscontrabili relativamente alla di

sponibilità da parte dell'imputato di un'autovettura Wolksva

gen Golf rossa, targata Brescia (BS), e all'ubicazione della sua

abitazione rispetto a quella del fratello Massimiliano.

Col secondo motivo di gravame, il ricorrente ha denunciato

la nullità della sentenza per violazione dell'art. 62 bis c.p. e

per mancanza e illogicità della motivazione assumendo che il

diniego dell'applicazione delle circostanze attenuanti generiche risulta in palese contraddizione con l'accertato ruolo subordina

to dell'imputato e con l'entità obiettivamente minima dei prece denti penali.

I difensori di Contu Elio hanno denunciato, col primo moti

vo di ricorso, violazione dell'art. 606, 1° comma, lett. d), c.p.p., in relazione agli art. 495, 2° comma, 190, 603 dello stesso codi

ce, lamentando che era stato compromesso il diritto alla prova

per la ragione che i giudici di merito avevano immotivatamente

respinto l'istanza di esecuzione di accertamenti bancari dai qua li avrebbe potuto desumersi che i depositi e il denaro apparte nenti all'imputato non costituiscono provento del commercio

di droga ma hanno origine lecita, sicché l'ingente consistenza

del patrimonio del Contu non può rappresentare un riscontro

obiettivo delle accuse dei chiamanti in correità e il provvedi mento di confisca risulta privo di fondamento.

Col secondo motivo di ricorso è stata prospettata la violazio

ne dell'art. 606, 1° comma lett. b), c) ed e), c.p.p., in relazione

agli art. 192, 1°, 2° e 3° comma, 190, 603 dello stesso codice

e 80 d.p.r. 309/90, in relazione alla mancata applicazione dei

criteri elaborati dalla giurisprudenza in tema di verifica della

intrinseca attendibilità della chiamata in correità, dato che le

dichiarazioni del La Barbera erano state ritenute credibili con

argomenti apodittici, contraddittori, incoerenti e contrassegnati

da evidenti vizi logici, tanto più gravi quando si considera che — come si è verificato a proposito della indicazione delle quan

tità di droga ceduta — il collaboratore era incorso in varie im

precisioni e aveva più volte modificato versione. Ad avviso dei

ricorrenti, i medesimi vizi logici inficiano le linee argomentative della sentenza impugnata nel punto relativo all'accertamento dei

riscontri, che la corte di merito aveva individuato sia in dati

fattuali interpretati in termini del tutto incoerenti e contrari a

regole di esperienza sia con una inesatta applicazione del princi

pio della c.d. convergenza del molteplice, essendo stato attri

buito il valore di riscontro alle dichiarazioni degli altri collabo

ratori nonostante che esse non fossero coincidenti con quelle

del La Barbera.

Col terzo motivo, i ricorrenti hanno rilevato che gli elementi

considerati quali riscontro delle accuse mosse dal La Barbera

contro il Contu attengono a fatti successivi al 1990, ditalchè

per i fatti dedotti al capo C) della rubrica manca qualsiasi ele

mento di prova che confermi la chiamata in correità.

Col quarto motivo, i ricorrenti hanno denunciato violazione

dell'art. 606, 1° comma lett. b), c) ed e), c.p.p., in relazione

all'art. 192, 1°, 2° e 3° comma, dello stesso codice e agli art.

10, 12 e 14 1. 497/74, osservando che il G.u.p. del Tribunale

di Cagliari, con sentenza 15 dicembre 1994 divenuta irrevocabi

le, aveva escluso la detenzione e il porto illegali di armi nei

confronti di Utzeri Antonio, concorrente col Contu nei medesi

1l Foro Italiano — 1998.

mi delitti, e che la corte d'appello aveva, al contrario, afferma

to la responsabilità di quest'ultimo per gli stessi fatti con argo menti incoerenti e sulla base di elementi del tutto generici.

Col quinto motivo è stata dedotta violazione dell'art. 606,

1° comma, lett. b), c) ed e), c.p.p., in relazione agli art. 240

e 648 c.p., in dipendenza della illogicità manifesta della motiva

zione con cui è stata riconosciuta la provenienza delittuosa dei

gioielli rinvenuti nell'abitazione dell'imputato ed è stata pro

nunciata la condanna per il delitto di ricettazione, sicché deve

considerarsi illegittima la confisca di tali oggetti come pure è

illegittima la confisca del denaro contante, dei conti, dei certifi

cati di deposito e dei buoni fruttiferi che rappresentano il risul

tato delle vincite di giuoco, come è stato chiesto di provare me

diante l'acquisizione della documentazione relativa ai movimen

ti bancari.

Col sesto motivo, i ricorrenti hanno denunciato inosservanza

ed erronea applicazione degli art. 80, 2° comma, d.p.r. 309/90,

192, 2° e 3° comma, c.p.p. nonché illogicità e mancanza di

motivazione sul rilievo che, pur essendo stata esclusa nei con

fronti dei due coimputati Fanni ed Utzeri, con sentenza irrevo

cabile, l'ingente quantità della droga commerciata, nella pro nuncia impugnata è stata applicata, al contrario, l'aggravante di cui al citato 2° comma dell'art. 80 d.p.r. 309/90 con una

valutazione incoerente, disarticolata e lacunosa delle dichiara

zioni incrociate dei collaboranti.

Con l'ultimo motivo i ricorrenti hanno censurato il punto della sentenza impugnata con cui è stata respinta la richiesta

di applicazione delle circostanze attenuanti generiche denunciando

la carenza e la genericità della motivazione in relazione agli ele

menti dedotti con specifico motivo di appello. Con motivi aggiunti, il Gerina ha chiesto, in base alla modifi

ca dell'art. 513 c.p.p. introdotta con 1. 8 agosto 1997 n. 267,

l'annullamento della sentenza per essere stata affermata la sua

colpevolezza esclusivamente alla luce delle dichiarazioni accusa

torie di due imputati di reati connessi giudicati separatamente, delle quali era stata data lettura in dibattimento per essersi gli stessi avvalsi della facoltà di non rispondere: ditalchè le predet te dichiarazioni, acquisite al fascicolo del dibattimento senza

il consenso delle parti, devono reputarsi inutilizzabili a norma

degli art. 1 e 2 della legge citata e della norma transitoria di

cui all'art. 6 che stabilisce precise formalità e condizioni per l'utilizzazione delle dichiarazioni di imputati in procedimenti con

nessi non confermate a mezzo di esame dibattimentale.

Alla pubblica udienza del 17 ottobre 1997, la quarta sezione

penale di questa corte, alla quale i ricorsi erano stati assegnati, ha pronunciato ordinanza con cui gli stessi sono stati rimessi

alle sezioni unite, ritenendo che l'interpretazione dell'art. 6 1.

267/97 potesse dare origine a contrasti giurisprudenziali per la

ragione che la norma transitoria, nel dettare la disciplina appli

cabile ai processi penali in corso alla data di entrata in vigore

della legge, non fa alcuna menzione del giudizio di cassazione.

Il primo presidente aggiunto ha assegnato i ricorsi alle sezioni

unite per la trattazione alla pubblica udienza del 25 febbraio

1998, rilevando che il contrasto di giurisprudenza prospettato nell'ordinanza di rimessione era divenuto attuale a seguito di

pronunce della prima e della seconda sezione penale di questa corte che hanno, rispettivamente, escluso e affermato l'applica zione al giudizio di legittimità della normativa transitoria conte

nuta nella 1. 267/97 con cui è stata modificata la disciplina

posta dall'art. 513 c.p.p. Con memoria difensiva depositata il 10 febbraio 1998, i di

fensori del Contu e del Gerina hanno chiesto «l'annullamento

della sentenza impugnata (per i motivi dedotti e con la rinnova

zione richiesta) con rinvio ad altro giudice di merito al quale

si chiederà, come sin d'ora si chiede, la citazione di Roberto

La Barbera e di Pietro Abeni perché siano esaminati nel rispet to del contraddittorio». Dopo avere osservato che la sentenza

25 settembre 1997, Fortugno, con cui la seconda sezione di que

sta corte si è espressa a favore dell'applicabilità nel giudizio

di cassazione della disciplina transitoria di cui all'art. 61. 267/97, è stata pronunciata nel processo penale celebrato a Milano avente

ad oggetto vicende (di cui quella sarda costituisce un segmento) ricostruite sulla base delle dichiarazioni e di un memoriale di

La Barbera Roberto non confermati in dibattimento, i difensori

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PARTE SECONDA

degli imputati hanno precisato che le disposizioni della 1. 267/97

sono rispondenti a principi di rango costituzionale, quali quelli dell'oralità, del contraddittorio e del diritto di difesa sancito

dall'art. 24 Cost., e sono, quindi, applicabili a tutti i giudizi in corso, tanto più che se può ammettersi che non rientra nel

campo di applicazione della nuova normativa il momento di

acquisizione della fonte di prova, il momento di valutazione

della prova è, invece, certamente soggetto alla disciplina che

ha innovato l'art. 513 c.p.p. I deducenti hanno aggiunto che

la mancanza nella normativa transitoria di una specifica men

zione non può interpretarsi come volontà del legislatore di esclu

dere per il solo giudizio di cassazione l'applicazione della novel

la, anche in forza dell'espresso riferimento al giudizio di rinvio

che, rappresentando la fase rescissoria successiva ad una pro nuncia di annullamento con rinvio, costituisce la logica conse

guenza e il naturale sviluppo del giudizio di legittimità. In via

subordinata, i difensori degli imputati hanno eccepito l'illegitti

mità costituzionale dell'art. 6 1. 267/97, interpretato nel senso

di escludere l'applicazione delle nuove norme al giudizio di cas

sazione, per contrasto con gli art. 3 e 24 Cost.: in progressivo

subordine, è stata dedotta l'incostituzionalità degli art. 210, 4°

comma, e 513 c.p.p. nel testo antecedente alla novella in riferi

mento agli art. 3, 24 e 76 Cost.

Motivi della decisione. — 1. - Deve premettersi che, benché

non prospettata nei ricorsi, la questione di diritto la cui soluzio

ne è stata rimessa alla decisione delle sezioni unite è stata ritual

mente introdotta dai ricorrenti a mezzo dei motivi nuovi, conte

nuti nelle memorie del 25 settembre 1997 e del 10 febbraio 1998,

con i quali è stato richiesto l'annullamento della sentenza di

secondo grado in applicazione della disciplina di cui alla 1. 7

agosto 1997 n. 267, che ha sostituito l'art. 513 del codice di

rito e ha dettato la normativa transitoria per i processi penden ti. Il rigore dell'effetto devolutivo delle impugnazioni e delle

preclusioni processuali che ne derivano è, difatti, temperato dalla

disposizione risultante dal coordinamento dell'art. 606, 3° com

ma, con l'art. 609, 2° comma, ultima parte, c.p.p., richiamato

espressamente dal primo, in forza della quale, in deroga al di

vieto del novum, deve ritenersi consentita la deducibilità di ul

teriori censure resa possibile da innovazioni legislative interve

nute dopo la proposizione del ricorso. Ditalchè — come è stato

recentemente chiarito proprio in riferimento ad una situazione

processuale identica a quella in esame — dalla sopravvenuta ammissibilità del motivo per effetto del ius superveniens discen

de che la questione relativa all'applicabilità nel giudizio di legit timità della disciplina transitoria prevista dall'art. 6 1. 267/97

può essere sollevata dalle parti anche dopo la presentazione del

ricorso e che la Corte di cassazione ha il potere-dovere di pro nunciarsi sulla medesima (Cass., sez I, 29 settembre 1997, Ca

scino ed altri, Foro it., 1987, II, 665). 2. - La prima sentenza sull'argomento ha risolto in senso af

fermativo il problema dell'applicazione o meno della normativa

transitoria nel giudizio di legittimità pendente nel momento di

entrata in vigore della 1. 267/97 rilevando che la Corte di cassa

zione, in coerenza con i propri compiti istituzionali di sindacato

sulla legittimità degli atti del processo, deve prendere atto della

sopravvenuta disciplina e pronunciare l'annullamento della im

pugnata sentenza in modo che il giudice di rinvio possa compie re le attività indicate nelle nuove disposizioni e possa trarne

le debite conseguenze in punto di validità processuale delle di

chiarazioni di imputati in procedimenti connessi ex art. 210

c.p.p., delle quali sia stata data lettura senza il consenso delle

parti in dipendenza dell'esercizio da parte degli stessi imputati della facoltà di non sottoporsi all'esame dibattimentale (Cass., sez. II, 25 settembre 1997, Fortugno). Tale linea interpretativa è stata recepita in altra successiva pronuncia con cui è stata

ribadita l'immediata operatività nel giudizio di legittimità della disciplina di cui alla 1. 267/97 (Cass., sez. II, 16 ottobre 1997, Messina ed altro).

Posizioni diametralmente opposte sono state espresse da altre

sentenze di questa corte con le quali è stata giustificata l'esclu

sione dell'applicazione nei giudizi di legittimità in corso sia del

le disposizioni di cui al nuovo testo dell'art. 513, 2° comma, sia delle relative norme transitorie attraverso linee argomentati ve i cui essenziali passaggi logico-giuridici possono essere così

Il Foro Italiano — 1998.

sintetizzati: a) l'applicazione del ius superveniens in materia pro

cessuale è regolata dal principio tempus regit actum dal quale deriva che la nuova legge, come non può spiegare alcun effetto

di sanatoria sulle già verificatesi nullità, così non può determi

nare la caducazione dell'atto pregresso legittimamente espleta

to, dotato di autonoma rilevanza e produttivo di effetti giuridi ci esauritisi nell'ambito del regime anteriore; b) nello speciale

ambito del fenomeno acquisitivo della prova mediante la lettura

dei verbali di dichiarazioni, non può invocarsi, in assenza di

specifiche disposizioni transitorie per i procedimenti in corso,

l'invalidità o l'inefficacia del provvedimento autorizzatorio del

la lettura emesso in vigenza della norma poi abrogata; c) la

disciplina transitoria dettata dall'art. 6 1. 267/97 subordina la

parziale applicabilità della nuova norma ad attività processuali

(richiesta della parte interessata e citazione dei dichiaranti per il nuovo esame dibattimentale) che sono assolutamente incom

patibili con il giudizio di legittimità, onde la mancata menzione

nel citato art. 6 e la conseguente impossibilità di ricondurre det

to giudizio nell'ambito delle disposizioni transitorie trovano coe

rente spiegazione nei peculiari caratteri strutturali che connota

no i poteri di cognizione della Corte di cassazione (sez. I 29

settembre 1997, Cascino ed altri).

Argomenti sostanzialmente identici sono stati sviluppati nelle

successive sentenze che hanno ritenuto non applicabili le norme

poste dalla novella del 1997 (Cass., sez. VI, 24 ottobre 1997,

Todini ed altri; sez. I 24 ottobre 1997, Di Mastromatteo ed

altro; sez. I 30 ottobre 1997, Di Palma ed altri; sez. VI 21 no

vembre 1997, Guida ed altri).

3. - Così riassunti i termini del contrasto di giurisprudenza

sottoposto all'intervento risolutivo delle sezioni unite a norma

dell'art. 618 c.p.p., si può sin d'ora anticipare che, delle due

opposte soluzioni, la prima si rivela sostanzialmente esatta mal

grado la succinta motivazione, mentre la seconda appare tecni

camente più argomentata ma non condivisibile sul piano giuri

dico per le ragioni che qui di seguito saranno esposte. E queste

ragioni, spiegando l'inattendibilità della più elaborata trama ar

gomentativa di tale indirizzo, nei singoli punti e nell'impianto

complessivo, varranno insieme a integrare e a rafforzare la sin

tetica motivazione del contrario orientamento.

4. - Occorre anzitutto sgombrare il campo da un equivoco di fondo: quello cioè di richiamarsi al principio tempus regit actum come decisivo criterio regolatore del conflitto di diritto

intertemporale che, nella vicenda legislativa in esame, si pone fra il testo originario dell'art. 513 c.p.p. e quello risultante dal

le modifiche introdotte con la 1. 7 agosto 1997 n. 267. Non è

che il criterio sia in sé inesatto o ambiguo, chiaro essendo che

con quella formula si intende significare che la sorte giuridica di un atto dipende dalla legge in vigore allorché esso fu compiu to. E sotto questo aspetto non è certo errato affermare che, in linea di principio, Io ius superveniens (non accompagnato da disposizioni transitorie), come non può sanare un atto ormai

colpito da nullità, così non può caducare un atto già valida

mente formatosi che sia produttivo di effetti giuridici già esau

ritisi nell'ambito del regime anteriore.

Ma ben spiegata con questo esempio la formula tempus regit actum e anche a sottolineare che la materia processuale ne offre

il più significativo campo di applicazione, il segnalato equivoco riaffiora sotto un duplice profilo. Il primo sta nel dare per scon

tata una nozione indifferenziata di «atto» processuale; mentre,

proprio ai fini di discriminarne le dimensioni temporali ricaden

ti sotto il vecchio o sotto il nuovo regime bisogna pur distingue re l'atto che si esaurisce senza residui nel suo puntuale compi mento (come una istanza, una eccezione, una impugnazione o

altro atto di impulso da eseguire in una data forma ed entro

certi termini) da quello, invece, che non ha mera funzione auto

referenziale né si consuma con effetti istantanei, atteso il suo

carattere strumentale e preparatorio rispetto alla successiva atti

vità cognitiva cui esso è destinato, com'è tipico della struttura

plurifasica del procedimento probatorio nel quale sono distin

guibili i momenti di ammissione e di assunzione del mezzo istrut

torio dal momento della valutazione ope iudicis. Di modo che

in un caso può individuarsi con certezza il tempus che regebat actum, trattandosi di situazione pregressa e ormai insensibile

al mutamento legislativo mentre nell'altro caso il tempus duran

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GIURISPRUDENZA PENALE

te il quale l'atto si dispiega, e rimane quindi collocato, non

è ancora passato allorché interviene lo ius superveniens: con

la conseguenza che, per stabilire se debba o non restare estra

neo alla nuova disciplina, l'atto deve essere esaminato nella sua

reale natura strutturale e funzionale e devono individuarsi l'e

satta portata della norma sopravvenuta e lo specifico piano su

cui essa è destinata ad operare. Il che non significa ripudiare 0 restringere il valore della massima tempus regit actum quale

criterio regolatore della successione di leggi processuali, ma, più

correttamente, significa escludere — in piena sintonia con le

posizioni di autorevole e accreditata dottrina — la praticabilità

di operazioni interpretative di impronta esclusivamente assio

matica imperniate su astratte e totalizzanti generalizzazioni avulse

dalla multiforme tipologia degli atti processuali e dallo specifi co contenuto della disciplina legislativa sopravvenuta.

Il secondo e più marcato profilo dell'equivoco sopra segnala

to sta nel trascurare o, comunque, nel sottovalutare l'avverten

za che la formula tempus regit actum, come del resto ogni altro

criterio diretto a risolvere un conflitto di diritto intertemporale

(«fatto compiuto», «situazione esaurita», «diritto quesito», ecc.), ha la sua ragione d'essere ed è operativo solo in funzione sussi

diaria, ossia nella ipotesi che manchi una disciplina transitoria,

in presenza della quale, quindi, non può quella o altra formula

sovrapporsi al contrario o diverso criterio normativo dettato dal

legislatore nell'esercizio della sua discrezionalità politica, che non

trova alcun limite fuorché nel rispetto delle norme costituziona

li e, in primis, nel divieto di retroattività della legge penale pu

nitiva (art. 25, 2° comma, Cost.).

5. - Definite le linee fondamentali lungo le quali deve svilup

parsi l'indagine, occorre, dunque, sottolineare che le dimensio

ni del principio tempus regit actum e le modalità con le quali

esso opera devono essere identificate non rispetto ad una gene

rica e astratta categoria di atti processuali, ma con specifico

riguardo all'istituto della prova e correlativamente, di pari pas

so, alla sanzione della inutilizzabilità, posto che questi, e non

altri, rappresentano l'oggetto della disciplina contenuta nel vec

chio e nel nuovo testo dell'art. 513 c.p.p.: ditalchè le regole del passaggio da una normativa all'altra non possono non esse

re verificate in stretta ed essenziale consonanza con i principi

peculiari della materia cui è riferito il conflitto di diritto inter

temporale.

Per prova si intende tanto il mezzo, lo strumento, il veicolo

di conoscenza di un fatto dedotto nel processo quanto il risulta

to gnoseologico offerto alla percezione del giudice. Il valore

polisemantico del termine «prova» riceve, sul piano della disci

plina normativa, configurazione unitaria nella ricostruzione della

vicenda probatoria in termini di sequenza o di successione di

atti destinati a fornire la conoscenza dei fatti dedotti nella res

iudicanda e a determinare il convincimento del giudice in ordi

ne agli stessi. Nella cultura processualpenalistica è ormai conso

lidato il riferimento alla figura del «procedimento probatorio», all'analisi delle fasi in cui esso si articola (ammissione, assun

zione e valutazione della prova) e al nesso funzionale che lega 1 vari momenti, i quali, pur nell'autonomia strutturale, sono

proiettati verso la decisione finale, nel senso che sono connotati

dall'idoneità a produrre risultati conoscitivi diretti a condizio

nare le scelte del giudice in un senso o nell'altro. A tale ottica

ricostruttiva del fenomeno devono ricondursi le posizioni di in

signe dottrina che ha qualificato la prova come fattispecie com

plessa a formazione successiva ponendone in risalto l'essenza

finalistica, che si traduce in un inscindibile collegamento tra

la prova stessa e il giudizio. Una simile linea di pensiero trova

esplicito riscontro normativo in numerose disposizioni del codi

ce nelle quali è univocamente posta in luce la correlazione teleo

logica tra prova e giudizio, come, ad esempio, nell'art. 404 («la

sentenza pronunciata siulla base di una prova ...»), nell'art. 526

(«il giudice non può utilizzare al fini della deliberazione prove

diverse ...»), nell'art. 603, 1° comma («il giudice, se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone

la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale»). Dall'indicata cor

relazione deve trarsi il corollario che, finché la regiudicanda

non è divenuta res iudicata perché sono ancora possibili ulterio

ri interventi decisori di un giudice chiamato a valutare gli esiti

Il Foro Italiano — 1998.

gnoseologici della prova, il procedimento probatorio deve con

siderarsi ancora in atto e non può reputarsi esaurito.

6. - Le precedenti riflessioni non sono sufficienti, tuttavia,

a risolvere il problema di diritto intertemporale posto dall'en

trata in vigore della 1. 7 agosto 1997 n. 267, dato che se la

portata della «novella» fosse circoscritta al piano della innova

zione delle modalità di ammissione e di assunzione di determi

nati mezzi di prova e alla previsione di nuove ipotesi di nullità

sarebbe indubbio che le condizioni di validità dell'atto conti nuerebbero ad essere governate dalla legge vigente nel tempo in cui gli stessi mezzi istruttori sono stati ammessi o assunti.

Le stesse riflessioni riescono, invece, ad imprimere un decisi

vo impulso all'indagine interpretativa quando l'argomento rela

tivo alla natura polifasica o procedimentale della prova viene

coordinato con quello della sanzione della inutilizzabilità intro

dotta dalla 1. 267/97 relativamente alla lettura delle dichiara

zioni delle persone indicate nell'art. 513 c.p.p. senza l'accordo

delle parti (art. 1 e 2) o per l'ipotesi in cui, dopo la lettura

già avvenuta nei processi in corso, la parte interessata abbia

manifestato la volontà di esercitare la facoltà di richiedere la

citazione delle stesse persone per un nuovo esame (art. 6, com

mi da 2 a 5). E che la normativa in esame, anche nella sua

parte transitoria, abbia introdotto una sanzione processuale ri

conducibile nella categoria della inutilizzabilità della prova non

è stato posto in dubbio dai commentatori della «novella» né

è stato contestato dall'indirizzo della giurisprudenza di questa

corte che ha escluso l'applicazione del nuovo regime ai giudizi di legittimità pendenti alla data di entrata in vigore della legge.

È unanime in giurisprudenza e in dottrina il convincimento

che la nuova categoria della inutilizzabilità della prova occupa un posto centrale nel sistema generale del «diritto delle prove

penali» delineato nel titolo I del libro III del codice (cfr. rei.

prel., pag. 58) e che essa rappresenta uno dei principali presidi

introdotti a tutela dell'effettività del principio della legalità del

la prova, nel quale trova espressione la regola che l'esercizio

del potere conoscitivo del giudice (e, di riflesso, del potere deci

sorio) è sottoposto ai limiti fissati dalla legge. Le sezioni unite di questa corte hanno già indicato i punti

di riferimento all'interno dei quali deve effettuarsi la colloca

zione sistematica dell'istituto, rilevando che «in linea generale, le categorie della nullità e della inutilizzabilità, pur operando

nell'area della patologia della prova, restano distinte e autono

me, perché correlate a diversi presupposti: la nullità attiene sem

pre e soltanto all'inosservanza di alcune formalità di assunzione

della prova, vizio che non pone il procedimento formativo o

acquisitivo completamente al di fuori del parametro normativo

di riferimento, ma questo non rispetta in alcuni dei suoi fonda

mentali presupposti; invece l'inutilizzabilità, come sanzione di

carattere generale, presuppone la presenza di una prova «vieta

ta» per la sua intrinseca illegittimità oggettiva, ovvero per effet

to del procedimento acquisitivo la cui manifesta illegittimità lo

pone completamente al di fuori del sistema processuale» (Cass. sez. un., 27 marzo 1996, Sala, id., 1996, II, 473).

Una delle più estese e significative applicazioni della sanzione

della inutilizzabilità è rinvenibile proprio nel regime delle «let

ture vietate» di cui all'art. 514 c.p.p., su cui si è prodotto l'in

tervento innovativo della 1. 267/97, la cui ragion d'essere va

identificata nella necessità di evitare che si realizzi — al di fuori

dei casi tassativamente stabiliti dalla legge — un processo di

osmosi dalla fase delle indagini preliminari a quella del giudizio e che gli esiti conoscitivi della prima si riversino nella seconda

e, per tale via, influiscano sulla decisione del giudice del dibatti

mento, vanificando o, per lo meno, restringendo le effettive

possibilità di esplicazione del principio del contraddittorio qua

le metodo della conoscenza giudiziale, dalla cui attuazione di

pende la salvaguardia delle fondamentali guarantigie processua

li, prima fra tutte il diritto di difesa dichiarato «inviolabile» dal 2° comma dell'art. 24 Cost, in ogni stato e grado del proce

dimento.

Nel ruolo di garante del principio di legalità della prova e

di presidio dei diritti costituzionalmente protetti, dei quali le

parti sono titolari all'interno del processo, la sanzione della inu

tilizzabilità prevista dall'art. 191 c.p.p. opera su un duplice pia

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PARTE SECONDA

no: come divieto di acquisizione e come divieto di «uso» della

prova. Sotto il primo profilo, l'inutilizzabilità impedisce l'am missione e l'assunzione del mezzo di prova colpito dal divieto, sotto il secondo, essa funziona da regola di esclusione dell'effi

cacia probatoria dell'atto comunque acquisito, perdendo que

sto, ope legis, qualsiasi valore dimostrativo e divenendo assolu

tamente inidoneo a produrre un risultato conoscitivo utilizzabi

le ai fini della decisione. Tale connotazione funzionale della

sanzione ex art. 191 c.p.p. risulta esplicitamente confermata nella

giurisprudenza di queste sezioni unite, che, a proposito del di

vieto di uso delle intercettazioni, ha precisato che «l'inutilizza

bilità, secondo l'espresso dettato legislativo, colpisce non l'in

tercettazione in quanto mezzo di ricerca della prova, ma i suoi

risultati, che possono rivestire la natura di prova, tipica della

fase del giudizio, o quella di indizio, nell'accezione dell'art. 273

c.p.p. (Cass., sez. un., 27 marzo 1996, P.m. in proc. Monteleo

ne, ibid., 710). Ne consegue che, in relazione alla predetta pe culiare connotazione il divieto di uso del risultato probatorio ha come naturale destinatario il giudice e non può che riferirsi, sotto l'aspetto funzionale, al momento della deliberazione di

un provvedimento. 7. - Se è vero che il divieto di uso dei risultati conoscitivi

è normalmente collegato con un divieto di acquisizione del mez

zo di prova, è da escludere, tuttavia, che tale interrelazione cor

risponda ad una regola di valore assoluto, in quanto non man

cano casi nei quali la legge processuale commina la sanzione

della inutilizzabilità scindendo i due momenti e riferendo il di vieto o la regola di proibizione della prova non al momento

formativo acquisitivo ma a quello della valutazione, nel quale i risultati probatori diventano oggetto dell'apprezzamento del

giudice ai fini della decisione, oltre ai casi di prove oggettiva mente vietate, ipotesi di questo tipo vengono comunemente iden

tificate nelle situazioni previste dagli art. 63, 1° comma (dichia razioni indiziami), 195, 3° comma (testimonianza indiretta) e

254, 3° comma, c.p.p. (sequestro di corrispondenza), nelle qua li il divieto è formulato con esclusivo riguardo all'uso della pro

va, indipendentemente dalle modalità di acquisizione. D'altro canto, deve sottolinearsi che, proprio in riferimento

alle intrinseche caratteristiche funzionali della sanzione ex art.

191 c.p.p., il momento della valutazione ope iudicis resta co

munque quello determinante per stabilire se sia o non produtti vo di risultati conoscitivi un mezzo di prova colpito da inutiliz

zabilità dipendente dalla violazione di divieti di acquisizione. Tale principio rappresenta l'inequivoca ratio decidendi della so

luzione interpretativa accolta nella giurisprudenza di questa corte,

che in riferimento alle modifiche apportate all'art. 500, 4° com

ma, c.p.p. dal d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella 1. 7

agosto 1992 n. 356 — ha ritenuto utilizzabili dal giudice di ap

pello le dichiarazioni usate per le contestazioni ancorché fossero

state acquisite illegittimamente dal giudice di primo grado in

base alle norme allora vigenti (Cass., sez. I, 29 dicembre 1993,

Cima, id., Rep. 1994, voce Dibattimento penale, n. 80), con

ciò restando confermato che, anche nell'ottica della successione

di leggi processuali nel tempo, il profilo dell'acquisizione del

mezzo di prova è nettamente distinto da quello della valutazio

ne dei risultati probatori e che il divieto legale di uso degli stessi

va in ogni caso riferito all'atto della decisione giudiziale con

cui il procedimento probatorio si esaurisce.

Non è casuale, del resto, che proprio la dottrina cui si deve

una delle più organiche e seguite analisi ricostruttive del proce dimento probatorio abbia ritenuto che una prova ammessa da

una legge preesistente possa essere vietata da una legge successi

va e che lo ius superveniens renda inutilizzabile la prova stessa,

già legittimamente acquisita, se ancora sia in fieri la sequenza

procedimentale, dato che questa si conclude solo con la decisio

ne del giudice, ossia con l'uso della prova. L'affidabilità logico giuridica di una tale posizione risulta evidente quando si consi

dera che rientra indubbiamente nella discrezionalità del legisla tore vietare l'utilizzazione di prove indipendentemente dalla le

gittimità o non delle modalità di acquisizione, in tutti i processi in corso nei quali il procedimento probatorio non sia esaurito

perché i risultati conoscitivi devono essere ancora definitivamente valutati dal giudice. L'unico limite è dato dalla necessità che

il divieto di uso e le regole di esclusione della prova introdotti

li Foro Italiano — 1998.

dal legislatore in base a scelte discrezionali, siano dotati di ra

gionevolezza e non collidano con precetti costituzionali posti a tutela di valori fondamentali dell'ordinamento (cfr. Corte cost.

16 giugno 1994, n. 241, id., 1995, I, 3046). 8. - Una prima conclusione può essere tratta dal ragionamen

to sin qui sviluppato: quella per cui, in presenza di innovazioni

legislative verificatesi nel corso del processo in materia di utiliz

zabilità o di inutilizzabilità della prova, il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento della decisione e non

a quello dell'acquisizione, atteso che il divieto di uso, colpendo

proprio l'idoneità della prova a produrre risultati conoscitivi

valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, interviene allorché il procedimento probatorio non ha trovato

ancora esaurimento, di modo che — come è stato icasticamente

affermato in dottrina — il divieto inibisce che i dati probatori,

pur se acquisiti con l'osservanza delle forme previste dalle nor

me previgenti, possano avere un qualsiasi peso sulla «bilancia

del giudizio». Tali linee logico-sistematiche, di decisiva importanza per l'e

satta individuazione del contenuto prescrittivo della 1. 7 agosto 1997 n. 267, sono state tenute ben presenti nel corso del proce dimento di esame e di approvazione di quello che è poi divenu

to il testo definitivo, soprattutto negli interventi di vari compo nenti della commissione giustizia della camera dei deputati.

È indubbio che la legge, una volta approvata, è dotata di

una propria oggettiva portata precettiva, autonoma rispetto al

l'opinione di chi l'ha formata, e che quest'ultima non può esse

re identificata con la ratio legis: tuttavia, è parimenti indubbio

che i lavori preparatori costituiscono un utile strumento di cui

l'interprete può avvalersi per verificare l'attendibilità dei risul

tati raggiunti con l'uso dei criteri ermeneutici enunciati dall'art.

12 preleggi. Alla luce di tale precisazione, deve rilevarsi — a conforto

delle conclusioni interpretative offerte dall'indagine sin qui con

dotta — che risultano estremamente eloquenti e significative le

seguenti dichiarazioni del relatore, on. Alfredo Mantovano «È

pregiudiziale in proposito una riflessione sulla nozione di inuti

lizzabilità degli atti processuali; si tratta di una categoria che,

pur disciplinata dal codice di procedura penale del 1930 in ipo tesi limitate e circoscritte, è assurta a categoria generale col co

dice attuale, e in particolare con la norma di cui all'art. 191.

Essa è strettamente collegata alla prova e rende invalido l'atto

la cui motivazione vi faccia riferimento significativo, nonché

gli atti da questo derivati: pur correlandosi alla separazione tra

la fase delle indagini preliminari e la fase del dibattimento, l'u

tilizzabilità rileva in quanto tale al momento della valutazione

della prova e non anche al momento della sua valutazione. Dun

que, se è stata superata la fase del giudizio durante la quale, in virtù del meccanismo previsto dalla formulazione oggi in vi

gore dell'art. 513, sono stati acquisiti al fascicolo del dibatti

mento i verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini

dall'imputato o dal coimputato che nel dibattimento si sono

avvalsi della facoltà di non rispondere, ma il giudizio non è

stato ancora definito, non vi è alcuna necessità di una norma

transitoria perché il giudice non utilizzi quelle dichiarazioni: al

momento della decisione, il giudice si limiterà a dichiararle non

utilizzabili» (camera dei deputati, commissione giustizia, seduta

del 27 maggio 1997). Identiche opinioni sono state ribadite dal

lo stesso relatore nelle sedute successive («È infatti convinto

che il principio tempus regit actum debba essere riferito al mo

mento di valutazione delle prove» seduta del 18 giugno 1997) e negli interventi di vari parlamentari, tra i quali spicca per

l'esplicita presa di posizione sul tema, quello dell'on. Raffaele

Marotta, il quale precisò che «per le norme processuali vige il principio tempus regit actum e che il momento decisivo per determinare quale sia la norma vigente è quello in cui viene

adottata la sentenza. È in questo momento che il giudice valute

rà la prova. Ciò farà secondo le norme processuali vigenti in

quel momento» (seduta del 3 giugno 1997). 9. - L'ulteriore passaggio logico del percorso argomentativo

attiene alla individuazione dei tipi di decisione rispetto alle qua li può legittimamente parlarsi di «uso» o di «valutazione» della

prova dovendo, in particolare, stabilirsi se il criterio risolutore

dei conflitti di diritto intertemporale possa operare nei termini

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GIURISPRUDENZA PENALE

dianzi indicati, anche in caso di proibizione dell'utilizzazione

della prova introdotta in pendenza del giudizio di legittimità. La soluzione non può che essere affermativa, dato che una

applicazione limitata ai soli giudizi di merito manca di qualsiasi base logica e sistematica.

È ovvio che, rispetto al tema della prova, il ruolo della Corte

di cassazione si differenzia da quello del giudice di merito. Tut

tavia, l'indubbia distinzione qualitativa dei poteri di cognizione non autorizza a ritenere che il giudice di legittimità non compia una valutazione delle prove sulle quali è fondata la decisione

impugnata. Infatti, se è certo che il «prudente apprezzamento» delle prove (art. 192, 1° comma, c.p.p.) è rimesso al giudice di merito, è, non di meno, altrettanto certo che la Corte di

cassazione, in relazione alla «funzione di giudice ultimo della

legittimità affidata alla medesima dall'art. Ill Cost.» (Corte cost. 5 luglio 1995, n. 294, id., Rep. 1995, voce Cassazione

penale, n. 54), compie certamente un'operazione di valutazione

della prova allorché, quale supremo garante della legalità della

decisione, è chiamata a controllare la motivazione della senten

za impugnata al fine di stabilire se l'interpretazione delle prove sia stata eseguita dal giudice di merito seguendo le regole della

logica e le massime di comune esperienza e di verificare se l'ac

quisizione e l'utilizzazione delle stesse prove siano avvenute nel

rispetto delle disposizioni che le disciplinano. Ne consegue che, alla luce delle argomentazioni sopra svolte, insuperabili ragioni di coerenza logica e sistematica impongono di ritenere che il

procedimento probatorio deve considerarsi ancora in fieri nel

corso del giudizio di legittimità allorquando la Corte di cassa

zione sia investita del sindacato sulla motivazione relativa alla

valutazione delle prove compiuta dal giudice di merito: l'ulte

riore conseguenza è quella che la Corte suprema, nell'esercizio

dei suoi compiti istituzionali, ha il potere-dovere di rilevare che

la decisione impugnata si fonda su prove colpite da un soprav venuto divieto di utilizzazione.

Utili e precisi spunti in tal senso possono ricavarsi dalla sen

tenza delle sezioni unite con cui è stato riconosciuto che il nuo

vo criterio di valutazione della chiamata di correo, posto dal

l'art. 192, 2° comma, c.p.p., è immediatamente applicabile nel

giudizio di cassazione, con la precisazione che «la lettera e il

tenore della disposizione in esame, ora, non autorizzano un'in

terpretazione riduttiva, nel senso di limitare l'applicazione ai

soli giudizi non ancora definiti nel merito alla data del 24 otto

bre 1989; né sussistono obiettivamente ragioni per poter affer

mare che l'inapplicabilità potrebbe derivare dalle specifiche fun

zioni della Corte di cassazione quale giudice di legittimità, nel

senso che non essendo giudice del fatto, non potrebbe essere

vincolata da una norma che, siccome diretta a dettare regole

per la valutazione e non per l'assunzione di una prova, si riferi

rebbe soltanto ai giudici di merito» (Cass., sez. un., 3 febbraio

1990, Belli, id., 1990, II, 300). Mette conto osservare che, per escludere l'importanza della

pronuncia testé citata sulla soluzione di diritto intertemporale in esame, non è producente obiettare che il precedente giuris

prudenziale si riferiva ad una situazione per la quale esisteva

un'espressa norma transitoria (art. 245, 2° comma, lett. b, disp. trans, c.p.p.) che estendeva ai processi in corso la nuova regola fissata dall'art. 192, 3° comma, c.p.p. per la valutazione della

chiamata di correo, giacché una simile obiezione trascura pro

prio uno dei punti salienti della ratio decidendi della sentenza

delle sezioni unite laddove è enunciato il principio che le nuove

norme sulla valutazione delle prove sono immediatamente ap

plicabili anche nel giudizio di cassazione in corso e non soltanto

nel giudizio di merito. Se ciò è vero per le norme che modificano i criteri di valuta

zione della prova, l'applicazione del medesimo principio risulta

tanto più coerente e necessitata rispetto alle norme che introdu

cono la sanzione della inutilizzabilità della prova per la precisa

ragione che mentre le prime stabiliscono come la prova deve

essere valutata, le seconde prescrivono se la prova deve essere

valutata, ponendo rigide regole di esclusione. Opinare il contra

rio significa dimenticare che, in materia probatoria, il sindacato

di legittimità della motivazione è costituito anche, e soprattut

to, dalla verifica della conformità della decisione ai canoni le

gali che regolano l'uso della prova, non in riferimento a quelli

Il Foro Italiano — 1998.

operanti al tempo dell'assunzione del mezzo di prova o della

pronuncia della sentenza impugnata, ma rispetto a quelli vigenti

all'epoca del controllo eseguito dal giudice di legittimità. Per

le ragioni precedentemente illustrate, l'immediata applicazione di tali canoni trova base giustificativa nel fatto che il procedi mento probatorio è ancora in atto allorché interviene la nuova

legge, dalla quale sorge un vincolo e una regola del giudizio

probatorio ai quali anche la Corte di cassazione è tenuta a sot

tostare. Dunque, a nulla rileva la circostanza che la sentenza

impugnata sia immune da errores in iudicando e da errores in

procedendo secondo la disciplina vigente all'epoca in cui è stata

pronunciata, dato che il controllo della motivazione, compiuto dal giudice di legittimità, postula che la verifica di conformità alle regole legali contenenti divieti di utilizzazione probatoria

avvenga in base alla normativa applicabile nel tempo in cui il

controllo medesimo è compiuto, come, del resto, è inequivoca mente confermato dalle disposizioni contenute nell'art. 609, 2°

comma, ultima parte, c.p.p. e nell'art. 619, 3° comma, c.p.p., dettata, la seconda, per l'ipotesi di applicazione di legge so

pravvenuta di natura sostanziale o processuale, più favorevole

all'imputato, che non comporti l'annullamento della sentenza

(cfr. Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Saviano, id., 1990, II,

694, riguardante l'identica disposizione di cui all'art. 538, 3°

comma, del codice del 1930). Gli esiti dell'indagine permettono, quindi, di affermare — sen

za che sia necessario prendere posizione sulla discussa questione della retroattività di alcune fondamentali norme processuali (c.d. norme di garanzia: cfr. Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Belli,

cit.; 3 febbraio 1990, Saviano, cit.) — che, proprio in virtù del principio tempus regit actum, le norme di cui agli art. 1

e 2 I. 7 agosto 1997 n. 267 dovrebbero trovare immediata appli cazione nel giudizio di legittimità se questo dovesse ritenersi real

mente estraneo all'ambito della disciplina transitoria ex art. 6

della stessa legge, dato che la proibizione dell'uso di determina

ti risultati conoscitivi è sopravvenuta quando il procedimento

probatorio non era definito per non essere stata ancora com

piuta la «valutazione» affidata alla Corte di cassazione. Di mo

do che, a ben vedere, deve essere capovolta l'alternativa posta dall'indirizzo giurisprudenziale contrario, nel senso che dall'e

sclusione dalla sfera di operatività dell'art. 6 consegue che nei

giudizi di legittimità in corso dovrebbe inevitabilmente applicar si la nuova normativa dettata dagli art. 1 e 2 e non quella in

vigore alla data in cui è stata pronunciata la sentenza impugna ta: sostenere il contrario significa, nella sostanza, deviare dalla

retta osservanza delle norme regolatrici dei conflitti di diritto

intertemporale in materia processuale e attribuire una non con

sentita ultrattività alla disciplina dell'utilizzabilità della prova

caducata, con effetto immediato, dalla nuova legge. 10. - Tuttavia, una corretta analisi interpretativa delle dispo

sizioni transitorie conduce inequivocamente a riconoscere che

nel tessuto precettivo di tale disciplina sono riconducibili anche

i giudizi di legittimità pendenti alla data di entrata in vigore della 1. 267/97, senza che sia necessario l'ausilio del metodo

analogico, che, del resto, è interdetto rispetto alle norme che

regolano la successione di leggi nel tempo. Canone ermeneutico fondamentale, valido per ogni ramo del

diritto, è quello sancito dall'art. 12 disp. sulla legge in generale secondo cui «nell'applicare la legge non si può ad essa attribui

re altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione

del legislatore».

Le sezioni unite di questa corte hanno recentemente chiarito

che l'operazione interpretativa coinvolge in modo concorrente

e paritario entrambi i criteri enunciati dall'art. 12 e che in caso

di ambiguità della struttura letterale della norma la ratio legis assume un'importanza preponderante, nel senso che il significa to letterale più appropriato deve essere individuato alla luce della

maggiore o della minore coerenza con l'interesse tutelato e, in

definitiva, con lo scopo della legge (Cass., sez. un., 29 ottobre

1997, P.m. in proc. Schillaci, id., 1998, II, 81). Sotto il profilo letterale, l'esame dell'art. 6 1. 267/97 pone

in luce che i commi 2, 3 e 4 contengono esplicite previsioni riferite ai diversi gradi nei quali si articola il processo (giudizio di primo grado, di appello e di rinvio) senza fare menzione del

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PARTE SECONDA

giudizio di legittimità: tale dato testuale è stato ritenuto suffi

ciente per trarre significativo argomento a favore della tesi se

condo cui il giudizio di cassazione non è soggetto alla disciplina transitoria.

Deve obiettarsi, però, che il silenzio, di per sè solo, non ha

valore concludente, nel senso che non equivale a certa regola di esclusione, per la semplice, ma evidente, ragione che — al

pari dei criteri operanti sul piano dell'ermeneutica contrattuale

(qui tacet consentire videtur si loqui debuisset ac potuisset) —

nella ricostruzione della reale portata di una legge il fatto pre termesso non è né affermato né escluso e che, stante il valore

non univoco del silenzio del legislatore, compito indeclinabile

dell'interprete è quello di attribuire, caso per caso, alla omessa

menzione del fatto il significato più coerente con la ratio legis

enucleando la vis ac potestas della disposizione legislativa dalle

sue intrinseche capacità applicative, riferite tanto al contesto

normativo in cui essa è in concreto inserita quanto all'assetto

degli interessi tutelati e dei fini effettivamente perseguiti. 11. - In una tale prospettiva interpretativa è necessario rileva

re che l'art. 6 è compreso in una legge il cui dichiarato intento

è quello di rafforzare le garanzie assicurate ai principi del con

traddittorio, dell'oralità e della formazione della prova attra

verso la dialettica dibattimentale al fine di arginare il sempre

più diffuso ricorso, nell'esperienza giudiziaria, al meccanismo

delle letture delle dichiarazioni rese durante le indagini prelimi nari. L'esame delle disposizioni dettate dalla 1. 267/97, compre se quelle non direttamente attinenti alla riformulazione del testo

dell'art. 513, rende evidente che, con la nuova disciplina, il legis

latore ha voluto realizzare un nuovo e diverso bilanciamento

dei principi-guida sopra indicati con i principi della non disper sione dei mezzi di prova e di efficace esercizio della giurisdizio

ne penale, creando un punto di equilibrio ad un livello differen

te da quello delineato in varie pronunce della Corte costituzio

nale, prima tra tutte la sentenza n. 254 del 3 giugno 1992 (id.,

1992,1, 2014) con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzio

nale del 2° comma dello stesso art. 513. Gli interventi nella

commissione giustizia della camera dei deputati non potrebbero

essere, in tal senso, più direttamente esplicativi, dal momento

che tutti i parlamentari hanno unanimemente riconosciuto che

la legge è finalizzata ad una più completa attuazione della ga ranzia del contraddittorio, conformemente al precetto di cui al

l'art. 24 Cost., che dà copertura costituzionale al diritto di dife

sa, e alle norme della convenzione per la salvaguardia dei diritti

dell'uomo e delle libertà fondamentali. Estremamente significa tive risultano le seguenti dichiarazioni del guardasigilli: «La con

ciliazione tra i tre principi richiamati non è certo facile, ma

in ogni caso il principio del contraddittorio deve senza dubbio

prevalere come pure, probabilmente, quello dell'oralità. È evi

dente peraltro che qualunque sia la scelta effettuata, deve essere

pagato un prezzo ... Il governo condivide pienamente la finalità

della riforma che vuole evitare che le parti si sottraggano al

confronto dibattimentale, sul presupposto che l'accertamento

operato in assenza della difesa di regola non è portatore di veri

tà» (commissione giustizia, seduta del 4 giugno 1997). Di pari chiarezza e trasparenza risulta la finalità della norma

tiva transitoria contenuta dal 2° al 6° comma dell'art. 6 in rife

rimento alle scelte compiute dal legislatore nell'intento di rie

quilibrare l'esigenza di ripristino della regola del contradditto

rio, considerata quale indefettibile condizione del «giusto

processo», rispetto all'esigenza di evitare la totale dispersione delle conoscenze acquisite mediante la già avvenuta lettura di

dichiarazioni predibattimentali. In altri termini, nella consape volezza che le nuove norme sul divieto di utilizzazione di cui

agli art. 1 e 2 avrebbero dovuto applicarsi a tutti i processi in corso proprio in virtù del principio tempus regit actum, con

l'art. 6 è stato prefigurato un particolare assetto normativo col

quale sono state superate le opposte posizioni emerse durante

il dibattito in commissione — favorevoli, da un lato, alla pura e semplice operatività della nuova disciplina, senza la previsione di un regime transitorio, e, dall'altro, all'applicazione di essa

ai soli procedimenti nei quali non fosse stata ancora esercitata

l'azione penale — ed è stato realizzato un ponderato e misurato

contemperamento delle esigenze dianzi indicate. Alla luce di tali

Il Foro Italiano — 1998.

rilievi trovano appagante spiegazione sia le disposizioni conte

nute nei commi 2° 3° e 4° dell'art. 6, volte a rendere possibile un recupero del contraddittorio rimesso all'iniziativa di parte, sia la disposizione dettata dal 5° comma che, in deroga alla

disciplina di cui all'art. 192, 3° comma, c.p.p., ha posto specia li regole di utilizzazione e di valutazione delle dichiarazioni pre

dibattimentali, escludendo, in particolare, che queste possano riscontrarsi vicendevolmente quando entrambe siano state sot

tratte alla verifica del dibattimento.

Dal tessuto strutturale della normativa transitoria e dalla pe

culiare finalità conservativa, sia pur attenuata, ad essa inerente

deve trarsi il corollario, di lineare conseguenzialità logico

giuridica, che le disposizioni ex art. 6 sono estese a tutti i pro

cessi in corso, e non ai soli giudizi di merito, giacché esse ri

guardano l'applicazione della disciplina intertemporale non nel

l'art ma nel quomodo, nel senso che esse regolano le sole moda

lità mediante le quali deve realizzarsi il «recupero» del

contraddittorio, indicando le attività processuali a tal fine ne

cessarie (richiesta della parte interessata e citazione del dichia

rante). Tali osservazioni rendono palesi le ragioni della partico

lare formulazione del testo dell'art. 6 e danno un senso alla

mancata previsione del giudizio di cassazione tra quelli nei qua li è possibile il compimento delle attività processuali dirette ad

attuare il «nuovo interpello» del dichiarante che si era prece dentemente rifiutato di rispondere. Soltanto trascurando il sen

so logico delle disposizioni e lo specifico contesto normativo

in cui esse sono inserite può sostenersi che il recupero del con

traddittorio resta definitivamente precluso per il motivo che i

meccanismi a ciò preordinati non possono essere immediata

mente attivati dinanzi alla Corte di cassazione. Infatti, questa sola ragione non è sufficiente a determinare l'esclusione dal

l'ambito di operatività della normativa transitoria, ma implica,

semplicemente, che l'applicazione di essa deve avvenire con le

forme imposte dalla peculiare natura del giudizio di legittimità,

ossia mediante il passaggio obbligato dell'annullamento della

sentenza pronunciata in base a prove divenute inutilizzabili e

del rinvio al giudice di merito, dinanzi al quale le parti potran

no richiedere la rinnovazione parziale del dibattimento, a nor

ma del 4° comma dell'art. 6, per ottenere la citazione di coloro

che avevano reso le dichiarazioni per le quali è sopravvenuto il divieto di uso.

12. - Non hanno pregio le obiezioni mosse ai risultati dell'a

nalisi ricostruttiva dell'art. 6 ad opera dell'orientamento giuris

prudenziale contrario all'applicabilità della normativa transito

ria nel giudizio di cassazione pendente al momento dell'entrata

in vigore della 1. 267/97. Nella sentenza che ha dato maggiore

dignità argomentativa a tale indirizzo è stato rilevato che «la

stessa corte, mediante l'annullamento della sentenza impugna ta, potrebbe fare luogo ad un'inammissibile regressione del pro cesso nella fase di merito, meramente strumentale al fine di con

sentire alla parte interessata di formulare la richiesta di rinno

vazione dell'esame del dichiarante e al giudice di rinvio di

verificare dapprima l'esistenza delle condizioni per la riapertura dell'istruzione dibattimentale e valutare poi l'esito del nuovo

esame alla stregua della specifica regula iuris all'uopo dettata

dalla norma transitoria. II principio affermato dalla Corte di

cassazione con la sentenza di annullamento resterebbe in questo caso condizionato, nel suo effettivo dispiegarsi nella vicenda pro cessuale dall'esercizio meramente eventuale dei poteri difensivi

della parte interessata dalla successiva rinnovazione dell'esame»

(Cass., sez. I, 29 settembre 1997, Cascino ed altri, cit.). A tale obiezione deve replicarsi che l'esclusione delle disposi

zioni di diritto intertemporale potrebbe avere una qualche base

giustificativa soltanto se l'applicazione di esse dovesse implicare

deroghe alle regole ordinarie o deviazioni dal comune modello

cui sono uniformate le pronunce di annullamento. L'argomento diviene, invece, inconferente quando si osserva che i poteri di

cognizione e di decisione del giudice di legittimità e le connota

zioni strutturali della fase rescindente e di quella rescissoria cor

rispondono, anche nel caso in esame, a quelli stabiliti dal siste

ma processuale generale, al quale non è estranea l'eventualità

che il principio enunciato dalla Corte di cassazione, ai sensi

dell'art. 173, 2° comma, disp. att. c.p.p., possa non trovare

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GIURISPRUDENZA PENALE

applicazione nel giudizio di rinvio in dipendenza del mancato

esercizio dei «poteri difensivi della parte interessata»: basta por mente alla circostanza che l'art. 627, 2° comma, c.p.p. stabili

sce che, in caso di annullamento di una sentenza di appello, il giudice di rinvio dispone la rinnovazione dell'istruzione dibat

timentale soltanto se le parti ne facciano richiesta, onde può ben verificarsi che, in ipotesi di annullamento pronunciato per la mancata assunzione di una prova decisiva (art. 606, 1° com

ma, lett. d, c.p.p.), nel giudizio di rinvio non sia poi compiuta

la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale a causa della desi

stenza della parte dalla richiesta di ammissione della prova. Per

tanto, non può rappresentare un proficuo argomento ermeneu

tico quello di far discendere la limitazione dell'ambito di appli cazione della normativa transitoria ex art 6 1. 267/97 dal fatto

che alla sentenza di annullamento potrebbe non seguire la ri

chiesta di parte indispensabile per l'esame dibattimentale della

persona delle cui dichiarazioni sia stata data precedentemente lettura.

Il tema legato ai poteri di iniziativa delle parti rende necessari

taluni approfondimenti per individuare i presupposti richiesti

perché la Corte di cassazione possa pronunciare l'annullamento

della sentenza basata sulle letture non più consentite. In propo

sito, deve sottolinearsi che, poiché le norme transitorie fanno

dipendere la sanzione dell'inutilizzabilità dalla mancata acquie scenza delle parti, l'annullamento non può essere pronunciato

automaticamente, per il solo fatto della sopravvenienza della

nuova disciplina, e che esso postula, invece, che le parti stesse

abbiano manifestato la volontà di ottenere che nel processo in

corso trovino ingresso i meccanismi di recupero dell'oralità e

del contraddittorio. Nel giudizio di cassazione tale volontà non

può ovviamente estrinsecarsi nella richiesta di rinnovazione del

l'istruzione dibattimentale, la cui sede naturale è costituita dalla

fase rescissoria, ma — conformemente alle regole del sistema — deve esprimersi per mezzo della proposizione di motivi nuo

vi, ai sensi dell'art. 585, 4° comma, c.p.p., deducibili in base

alla già esaminata disposizione di cui all'art. 606, 3° comma, in relazione all'art. 609, 2° comma, ultima parte, c.p.p. E ciò

non perchè l'inutilizzabilità sia rilevabile soltanto su istanza di

parte ma per la ragione che, nello speciale regime transitorio,

essa inerisce ad una fattispecie per il cui perfezionamento la

legge richiede che la parte interessata non sia acquiescente alla

lettura delle dichiarazioni predibattimentali. Del resto, non de

ve meravigliare che la sanzione dell'inutilizzabilità sia condizio

nata all'esercizio dei poteri dei quali le parti dispongono all'in

terno di un processo conformato al modello accusatorio, dato

che non sono infrequenti i divieti probatori dipendenti da mani

festazioni di volontà attraverso le quali le parti stesse scelgono

le proprie linee difensive: tipico è il caso della testimonianza

indiretta, la cui utilizzazione è vietata solo quando non siano

chiamate a deporre, «a richiesta di parte», le persone dalle qua li il testimone ha avuto conoscenza dei fatti (art. 195, 1° e 3°

comma, c.p.p.). 13. - I fautori della tesi contraria all'applicazione dell'art.

6 1. 267/97 nel giudizio di legittimità hanno ritenuto di poter trarre significativi argomenti dai lavori preparatori per il fatto

che «lo specifico rilievo svolto dall'on. Simeone in sede di com

missione giustizia della camera dei deputati nel corso della se

duta del 5 giugno 1997, circa la necessità d'inserimento di un

ulteriore comma che prevedesse l'applicabilità della medesima

disciplina 'anche alla fase pendente dinanzi alla Corte di cassa

zione', non sia stato neppure posto in discussione ed anzi sia

rimasto privo di alcuna risposta da parte del relatore nella me

desima sede referente» (Cass., sez. I, 29 settembre 1997, Casci

no ed altri, cit.). L'assunto non ha pregio. Nel resoconto della seduta del 5

giugno 1997 l'intervento dell'on. Simeone, per la parte che qui

interessa, risulta così riportato: «osserva che tutta la struttura

portante di questa disposizione normativa è da condividersi con

l'unico rilievo che può essere inserito, senza apportare sostan

ziali cambiamenti, che la medesima disciplina possa applicarsi anche nella fase pendente dinanzi alla Corte di cassazione e non

solo, pertanto, nei giudizi di rinvio a seguito di annullamento

disposto dalla Suprema corte».

Orbene, la locuzione «senza apportare sostanziali cambiamen

II Foro Italiano — 1998.

ti» rende palese che l'intervento era dettato unicamente dall'esi

genza che fosse specificato quanto si riteneva già insito nel con

tenuto precettivo della normativa transitoria, sicché la mancata

risposta alle osservazioni dell'on. Simeone ben può spiegarsi con

la diffusa convinzione che le disposizioni transitorie fossero ap

plicabili in tutti i processi in corso, nei quali avrebbero dovuto

altrimenti osservarsi i divieti di utilizzazione di cui agli art. 1

e 2. Il rilievo è confermato dal fatto che il relatore aveva espres samente precisato che il regime transitorio «riguarda, cioè, l'ap

plicazione della nuova disciplina ai processi non ancora definiti

con sentenza irrevocabile» (seduta del 27 maggio 1997) e che

Fon. Siniscalchi aveva osservato, ancor più esplicitamente, che

«non vi sono ragioni per circoscrivere al solo giudizio di appel

lo la disposizione di cui al 3° comma dell'art. 7 (divenuto l'art.

6 del testo definitivo) in relazione alla rinnovazione parziale del

dibattimento. Dovrebbe infatti essere applicata la medesima di

sciplina anche per la fase di fronte alla Corte di cassazione»

(seduta del 29 maggio 1997). 14. - Occorre, a questo punto, richiamare il fondamentale

canone di ermeneutica giuridica per cui, di fronte alla possibili tà di differenti scelte interpretative, il giudice è tenuto a preferi re quella conforme ai principi della Costituzione e, correlativa

mente, a disattendere quella che conduce a risultati non compa tibili con i principi medesimi.

Devono condividersi, sotto tale profilo, le considerazioni svi

luppate, nella sua requisitoria, dal procuratore generale presso

questa corte, il quale ha osservato che se le norme transitorie

dovessero interpretarsi nel senso della inapplicabilità nei giudizi di cassazione, dovrebbe considerarsi non manifestamente infon

data la questione di legittimità costituzionale dell'art. 61. 267/97, in riferimento agli art. 3 e 24 Cost., per la ragione che risulte

rebbe violato il principio di uguaglianza di trattamento, restan

do priva di ragionevole giustificazione l'esclusione, per i soli

giudizi di legittimità, delle possibilità di recupero delle regole dell'oralità, del contraddittorio e della parità dei diritti dell'ac

cusa e della difesa nella formazione della prova dibattimentale.

L'opinione espressa dal procuratore generale condivisa da nu

merosi commentatori della nuova legge (compresi taluni che,

pure, escludono l'applicabilità dell'art. 6 nei giudizi di cassazio

ne), è avvalorata dalla circostanza che le conclusioni della tesi

contraria all'applicabilità della disciplina transitoria nei giudizi pendenti in sede di legittimità appaiono di assai dubbia raziona lità in quanto esse conducono ad operare una non plausibile

tripartizione dei processi in corso, distinguendo tra processi sog

getti agli art. 1 e 2 1. 267/97, nei quali non sono state ancora

esaminate le persone indicate nel nuovo testo dell'art. 513 c.p.p.,

processi di merito nei quali deve trovare applicazione l'art. 6,

commi da 2 a 5, perché è già avvenuta la lettura delle dichiara

zioni predibattimentali e, infine, processi pendenti dinanzi alla

Corte di cassazione, gli unici che continuerebbero a restare sog

getti alla vecchia normativa e a rimanere, quindi, esclusi dalla

possibilità di ripristino del contraddittorio. La discrepanza dal principio di ragionevolezza risulta tanto

più evidente quando si considera che, di fronte alla nuova regu la iuris introdotta allorché il processo non è definito, riesce ol

tre modo arduo cogliere una differenza razionale che possa giu stificare la palese disparità di trattamento fra imputati che si

trovano nelle medesime condizioni, salvo che per gli uni la nuo

va regola sopravviene quando il giudizio è ancora in grado di

appello e per gli altri sopravviene, invece, nelle more fra la sen

tenza di appello e il giudizio di cassazione.

Non può rappresentare un'appagante risposta alle prospetta

te violazioni del principio di uguaglianza l'argomento, di ordine

meramente formale, secondo cui le eventuali differenze tra im

putati non costituiscono ingiustificate disparità di trattamento,

essendo tale evento connaturato al principio generale della suc

cessione della legge processuale nel tempo. Infatti, una ricostru

zione della portata dell'art. 6 1. 267/97 da cui dovesse escludersi

l'operatività nei giudizi pendenti in Cassazione molto difficil mente riuscirebbe a sottrarsi alle critiche di irragionevolezza mo

tivate dall'avere fatto dipendere l'osservanza o non della garan

zia fondamentale del contraddittorio, nel quale l'essenza del «giu sto processo» trova la più saliente espressione, dalla sola

circostanza che la sentenza della Corte di cassazione sia stata

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PARTE SECONDA

pronunciata prima o dopo il 12 agosto 1997, data di entrata

in vigore della 1. n 267 del 1997: da tale evenienza, meramente

casuale e fortuita, deriverebbe — se fosse esatta l'interpretazio ne disattesa dalle sezioni unite — che il 4° e il 5° comma del

l'art. 6 dovrebbero applicarsi nei giudizi di rinvio dipendenti da annullamenti pronunciati anteriormente alla predetta data

e non anche, invece, in quelli scaturiti da sentenze di annulla

mento successive, essendo conseguenziale, in quest'ultimo caso,

che l'inapplicabilità affermata per i giudizi di cassazione do vrebbe inevitabilmente valere anche per i giudizi rescissori deri

vati dai primi. Ditalchè, anche sotto tale profilo, le scelte del

legislatore risulterebbero incompatibili col principio di uguaglian za e rimarrebbero inspiegabili le ragioni per le quali è stata de

cretata l'esclusione del recupero del contraddittorio soltanto per

un numero ben circoscritto di processi ancora sub iudice: quali,

appunto, possono essere solo quelli che, decisi nel giudizio di

merito anteriormente all'entrata in vigore della nuova legge (12

agosto 1997), abbiano dato luogo a sentenze ancora suscettibili

0 già gravate di ricorso per cassazione, ovvio essendo che, se

ancora pendenti alla suddetta data in una fase di merito (primo

grado, appello o rinvio), l'applicazione della nuova regula iuris

discende de plano dalle esplicite e non controverse previsioni della norma transitoria dettata dal legislatore (commi da 2 a

5 dell'art. 6 1. 267/97). Le precedenti considerazioni offrono, dunque, una ulteriore

riprova della sicura attendibilità della soluzione favorevole al

l'applicabilità della disciplina transitoria nei giudizi di legittimi tà in corso, dato che i risultati forniti dall'uso dei canoni erme

neutici sanciti dall'art. 12 preleggi si presentano immuni dalle

aporie e dalle incongruenze riscontrabili negli esiti dell'opposta tesi interpretativa e, nello stesso tempo, permettono di dare fe

dele attuazione alla volontà del legislatore di realizzare per tutti

1 giudizi pendenti il giusto equilibrio tra i principi fondamentali del processo, la cui matrice primigenia è rappresentata dalle nor

me della Costituzione, tra le quali spicca quella posta dall'art.

24, 2° comma («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e

grado del procedimento») corrispondente ad uno dei paradigmi

primari sui quali è configurato il «giusto processo». Le sezioni unite sono ben consapevoli che il nuovo equilibrio

perseguito dal legislatore del 1997 e il conseguente ripudio dei

precedenti assetti processuali, nei quali restava pressoché vanifi

cata la regola del contraddittorio, possono costituire un fattore

di allungamento dei tempi di trattazione dei processi, ancor più rilevante con l'applicazione della disciplina transitoria in sede

di legittimità. Una siffatta incidenza, però, non è stata affatto

ignorata nel corso dei lavori preparatori, tant'è che nel già ri

cordato intervento del guardasigilli dinanzi alla commissione giu stizia della camera dei deputati, nella seduta del 4 giugno 1997, si è riconosciuta l'esigenza di dare priorità al ripristino della

prevalenza del principio del contraddittorio e si è osservato, cor

relativamente, che «qualunque sia la scelta effettuata, deve es

sere pagato un prezzo ...». Ne consegue che paventare il «di

rompente sconvolgimento dei processi in corso» — come è sta

to fatto dai sostenitori dell'opinione contraria all'applicazione della disciplina transitoria nei giudizi di cassazione — significa

prospettare un argomento che, oltre ad essere dotato di una

suggestività sfornita di documentati dati obiettivi che lo renda

no plausibile, è inidoneo ad alterare le consapevoli e meditate

scelte adottate dal legislatore nell'esercizio della propria discre

zionalità politica: scelte che neppure il giudice delle leggi può sindacare quando risultino compiute in sintonia con il principio di uguaglianza e con i precetti costituzionali.

L'ultima obiezione, di un qualche spessore, resta quella rife

ribile al contenuto della disposizione di cui al 6° comma del

l'art. 6 1. 267/97, che, facendo decorrere la sospensione del cor

so della prescrizione dal momento del rinnovo della citazione

dell'imputato che si era avvalso della facoltà di non rispondere, non riesce a coprire l'intero periodo indispensabile al recupero del contraddittorio nell'ipotesi di annullamento con rinvio pro nunciato dalla Corte di cassazione in applicazione della nuova

disciplina. Per il vero, la segnalata incongruenza della disciplina è individuabile, ad un attento esame, non solo rispetto al giudi zio di legittimità ma anche nei riguardi dei giudizi di merito,

Il Foro Italiano — 1998.

dato che anche per questi ultimi possono ben ipotizzarsi situa

zioni nelle quali non è completamente neutralizzato, ai fini del

la prescrizione, tutto il tempo occorrente per il compimento delle

necessarie attività processuali: il che si verifica quando il giudi

ce di merito non si pronunci immediatamente sulla richiesta della

parte interessata, restando sottratto, in tali casi, alla sospensio ne del corso della prescrizione il periodo trascorso tra la data

di presentazione dell'istanza e quella del provvedimento di rin

novo della citazione. Ne deriva che, pur essendo innegabile che,

nel giudizio di cassazione, il passaggio dalla fase rescindente

a quella rescissoria comporta tempi più ampi non coperti dalla

sospensione, non è risolutiva l'obiezione secondo cui il contenu

to della disposizione di cui al 6° comma dell'art. 6 1. 267/97

rivelerebbe che il processo di legittimità è estraneo alle previsio

ni della normativa transitoria.

Alle precedenti riflessioni deve aggiungersi che, come insegna

l'antico brocardo, nell'interpretazione della legge adducere in

conveniens non est solvere argomentum: sicché l'eventuale lacu

na normativa esistente nel tessuto delle disposizioni transitorie

non può rappresentare, di per sé sola, un decisivo dato erme

neutico idoneo a capovolgere le conclusioni dell'interpretazione

della disciplina transitoria, il cui effettivo campo di applicazio ne è stato possibile definire compiutamente per mezzo di una

organica indagine logico-sistematica, con risultati che hanno ri

cevuto puntuale e convincente riscontro dalle inequivoche indi

cazioni desumibili dai lavori preparatori e che, in primo luogo,

appaiono in piena armonia con i valori espressi dall'ordinamen

to costituzionale.

15. - Si è già posto in evidenza che, al fini dell'applicazione nel giudizio di cassazione delle norme transitorie ex art. 6 1.

267/97 la parte interessata deve manifestare la non acquiescen

za alla lettura delle dichiarazioni predibattimentali sulle quali

trova base la sentenza impugnata e che tale volontà deve essere

espressa nelle forme imposte dalla disciplina delle impugnazio

ni, ossia a mezzo della presentazione di motivi di ricorso nuovi

a norma dell'art. 585, 4° comma, c.p.p. (v. § 12).

Ulteriori, concorrenti condizioni devono essere ricavate dal

sistema.

La prima è strettamente dipendente dall'effetto devolutivo del

l'impugnazione e si traduce nella inderogabile necessità che gli

originari motivi di ricorso abbiano rimesso alla cognizione della

Corte di cassazione il controllo della motivazione nel punto re

lativo alla valutazione delle dichiarazioni rese da coimputati o

da imputati in procedimenti connessi, essendo palese che la par te non potrebbe richiedere e, correlativamente, il Supremo col

legio non potrebbe applicare la nuova disciplina se questa ver

tesse su un tema di decisione irretrattabilmente coperto da pre clusioni e se, quindi, fosse definitivamente esaurita la situazione relativa alla valutazione della prova cui si riferiscono le innova

zioni apportate dallo ius superveniens inoltre, deve sottolinearsi

che, poiché i motivi nuovi non possono investire i capi e i punti della sentenza impugnata diversi da quelli specificamente ogget to dell'originario ricorso (cfr., coeva alla presente sentenza, Cass., sez. un., 25 febbraio 1998, Bono ed altri), il rigore delle preclu

sioni, conseguenti all'effetto devolutivo dell'impugnazione, im

plicherebbe che neppure all'interno dell'originario motivo di ri

corso, afferente l'illogicità della motivazione e l'inosservanza

dei criteri ex art. 192, 3° comma, c.p.p., le parti potrebbero dedurre la sopravvenienza delle nuove norme se il motivo nuo

vo non fosse reso proponibile dalla disposizione risultante dal

già menzionato coordinamento degli art. 606, 3° comma, e 609, 2° comma, ultima parte, c.p.p. Deve inferirsene che, conforme

mente alle regole generali in materia di impugnazioni, la pre sentazione di motivi nuovi, nelle forme prescritte dall'art. 585, 4° comma, c.p.p., costituisce il mezzo indispensabile per intro

durre nel thema decidendum, devoluto alla cognizione della corte di legittimità, la questione relativa all'applicazione della norma

tiva transitoria.

L'ultima condizione riguarda la necessità di verificare la rile

vanza sul dictum contenuto nella sentenza impugnata degli ele

menti probatori desunti dalle letture delle dichiarazioni predi battimentalì non più consentite, nel senso che la corte di legitti mità deve accertare se la valutazione dei predetti elementi abbia

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GIURISPRUDENZA PENALE

avuto un peso reale sulla decisione del giudice di merito e deve,

quindi, controllare la struttura argomentativa della motivazione

per stabilire se la scelta di una determinata soluzione sarebbe

stata la stessa, anche senza quelle dichiarazioni, per la presenza di altre prove ritenute di per sé sufficienti a giustificare l'identi

co convincimento.

16. - L'applicazione dei principi testé indicati rendono evi

denti i limiti entro i quali risulta applicabile nel presente proces so la normativa transitoria ex art. 6 1. 7 agosto 1997, n 267.

Per quanto concerne la posizione del ricorrente Gerina Efi

sio, deve rilevarsi che la sua responsabilità per il delitto di cui

agli art. 110, 81, cpv., c.p. e 73, 1° e 6° comma, 80, 2° comma,

d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, è stata concordemente affermata

dai giudici di primo e di secondo grado sulla base principalmen te delle chiamate di correo dei collaboratori La Barbera Rober

to e Abeni Pietro, imputati in procedimenti connessi, delle cui

dichiarazioni, rese al p.m. nel corso delle indagini preliminari, è stata data lettura per essersi entrambi rifiutati di sottoporsi all'esame dibattimentale. Basta esaminare la motivazione della

sentenza di appello per rendersi conto che sulla identificazione

del Gerina quale concorrente nel delitto di spaccio continuato

aggravato, con il fratello Massimiliano e il nipote Cardia Fran

cesco, giudicati in separati processi, hanno avuto un rilievo de

terminante la lettura delle dichiarazioni predibattimentali del La

Barbera e dell'Abeni, essendo state queste direttamente utilizza

te dai giudici di merito per reputare inattendibile la tesi difensi

va dell'imputato volta a sostenere l'esistenza di un errore di

identificazione e la sua completa estraneità alle attività di spac cio di sostanze stupefacenti. Ne consegue che, in accoglimento del motivo nuovo relativo all'applicazione della normativa tran

sitoria ex art. 6 1. 267/97, deve pronunciarsi l'annullamento della

sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altro giu

dice, che, su richiesta della parte interessata, dovrà provvedere alla rinnovazione parziale del dibattimento per poi rivalutare

tutte le risultanze probatorie, tenendo anche conto delle regole dettate dal 5° comma dell'art. 6. Resta ovviamente assorbito

il secondo motivo di ricorso diretto contro il diniego delle circo

stanze attenuanti generiche. Identica rilevanza delle letture delle dichiarazioni dei collabo

ratori La Barbera e Abeni è riscontrabile riguardo al giudizio di responsabilità di Contu Elio per le imputazioni di spaccio di cui ai capi C) e D) della rubrica. Infatti, dalla motivazione

della sentenza di secondo grado emerge che le ragioni della con

danna del Contu per tali delitti poggiano su un compendio pro batorio in cui assumono un importante ruolo le dichiarazioni

del La Barbera e, in minore misura, quelle dell'Abeni. In parti

colare, deve osservarsi che se è vero che la corte di merito ha

ritenuto che per taluni episodi le dichiarazioni accusatorie di

altri chiamanti in correità hanno avuto un'autonoma valenza

probatoria perché corroborate da riscontri esterni che prescin dono del tutto dalle dichiarazioni del La Barbera, è altrettanto

certo che queste ultime restano la principale e più completa fonte

di accusa a carico del Contu, della quale i giudici di merito

si sono avvalsi per ricostruire la condotta criminosa posta in essere dall'imputato nel commercio di droga, soprattutto per le attività attribuitegli fino al 1990, in concorso con Stori Pie

tro, che formano oggetto dell'imputazione sub C). L'annullamento con rinvio per i capi C) e D), riguardanti

10 spaccio di sostanze stupefacenti, deve essere esteso all'impu tazione di cui al capo L) reativa alla ricettazione di oggetti d'o

ro, costituenti provento di furti, atteso che nella motivazione

della sentenza la prova della responsabilità per tale delitto è

stata direttamente collegata con l'accertato ruolo di trafficante

di droga del Contu.

Infine, l'annullamento della decisione per i delitti di spaccio non può non riflettersi sul provvedimento di confisca emesso

sul presupposto che il denaro e i titoli sequestrati nell'abitazio

ne dell'imputato fossero il prodotto e il profitto del commercio

di droga da lui svolto per vari anni.

Deve essere, invece, rigettato il quarto motivo del ricorso del

Contu contenente censure afferenti i delitti relativi alle armi in

ordine ai quali la dichiarazione di responsabilità prescinde com

pletamente dagli elementi probatori risultanti dalla lettura delle

dichiarazioni predibattimentali del La Barbera, essendo stata ri

cavata la prova del porto e della detenzione illegale delle armi,

11 Foro Italiano — 1998.

tra le quali era compresa una pistola con numero di matricola

abraso, dalla valutazione delle dichiarazioni del Cossu e della

deposizione del teste Patri al quale lo stesso Contu aveva detto

di non avere bisogno di armi perché già ne disponeva: ne conse

gue che, poiché l'interpretazione degli elementi probatori risulta

immune da vizi logici e giuridici, devono essere disattese le do

glianze a mezzo delle quali il ricorrente ha denunciato l'illogici tà della motivazione che sorregge la pronuncia di condanna.

Riguardo ai medesimi capi di sentenza manca di pregio anche

la censura con cui è stata dedotta la contraddittorietà della di

chiarazione di responsabilità rispetto alla sentenza di assoluzio

ne emessa il 15 dicembre 1994 dal G.u.p. del Tribunale di Ca

gliari nei confronti di Utzeri Antonio, ritenuto concorrente col

Contu nei delitti di detenzione e porto illegali di armi. In pro

posito e sufficiente osservare che l'Utzeri è stato giudicato con

rito abbreviato e che la sua assoluzione è stata pronunciata dal

G.u.p. sulla base degli elementi di prova raccolti nelle indagini

preliminari, mentre la condanna del Contu è stata giustificata dalla corte territoriale in riferimento alle risultanze probatorie

acquisite in dibattimento: ond'è che il diverso esito dei due giu dizi non può costituire motivo per lamentare l'illogicità della

sentenza impugnata. A conclusione della disamina relativa alla posizione del Con

tu, deve, dunque, pronunciarsi l'annullamento limitatamente ai

reati di cui ai capi C), D), L) e al punto relativo alla disposta confisca, con rinvio alla Corte di appello di Cagliari - sezione

distaccata di Sassari, che dovrà applicare le norme contenute

nell'art. 6, 4° e 5° comma, 1. 267/97 e, in relazione all'esito

del nuovo giudizio, dovrà eventualmente rideterminare le pene da infliggere per i reati relativi alle armi qualora l'imputato do

vesse essere assolto dalle altre imputazioni. Restano assorbiti gli altri motivi di ricorso del Contu.

I

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III penale; sentenza 17 di

cembre 1997; Pres. Pioletti, Est. Accattato, P.M. (conci,

conf.); ric. P.m. c. Consolini. Annulla Pret. Reggio Emilia

4 giugno 1996.

Previdenza e assistenza sociale — Omesso versamento delle rite

nute previdenziali — Mancato pagamento della retribuzione

al lavoratore — Reato (D.l. 12 settembre 1983 n. 463, misure

urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il conteni

mento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della

pubblica amministrazione e proroga di taluni termini, art. 2; 1. 11 novembre 1983 n. 638, conversione in legge, con modifi

cazioni, del d.l. 12 settembre 1983 n. 463, art. unico).

Il reato dì cui all'art. 2 d.l. n. 463 del 1983, per l'omesso versa

mento di ritenute previdenziali all'Inps, è configurabile anche

in caso di mancato pagamento della retribuzione ai di

pendenti. (1)

(1-3) I. - Sulla prima massima, conformemente, Cass. 14 ottobre 1997,

Romano, Ced Cass., rv. 208869; 16 novembre 1994, Cagna, Foro it., Rep. 1995, voce Previdenza sociale, n. 996. Sul tema, con riferimento

alla delega di funzioni, v. Corte cost. 14 luglio 1976, n. 173, id., 1977,

I, 49.

Sulla terza massima, conforme Cass. 7 maggio 1997, Sassi, Ced Cass., rv. 208388; Pret. Ascoli Piceno 7 ottobre 1986, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 1157.

In dottrina, S. Guadalupi, Obbligo del versamento contributivo in caso di mancata corresponsione della retribuzione, in Dir. e pratica lav.,

1997, 1989; M. Petrone, La responsabilità penale dell'imprenditore in

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