Click here to load reader
Click here to load reader
sezioni unite penali; sentenza 26 gennaio 1985; Pres. Barba, Est. Anedda, P. M. Amoroso (concl.conf.); ric. Vicari. Conferma Trib. Palmi 26 novembre 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 7/8 (LUGLIO-AGOSTO 1986), pp. 407/408-413/414Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180774 .
Accessed: 25/06/2014 03:59
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 195.78.109.162 on Wed, 25 Jun 2014 03:59:43 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
disposizione, per avere affidato la guida dell'auto-taxi di cui sopra al Sanna, sprovvisto del predetto certificato.
Gli imputati proponevano appello designando per la presentazio ne dei motivi e nominando difensore di fiducia l'avvocato Salva
tore Mansi, il quale presentava i motivi per il solo Sanna.
Il Tribunale di Roma, con sentenza 8 ottobre 1984, confermava
la prima decisione nei confronti del Sanna, nulla disponendo relativamente alla De Dominicis.
Entrambi i prevenuti ricorrono per cassazione denunciando, per la prima volta in questa sede, violazione dell'art. 151 c.p.p. per nullità della notifica dell'avviso di deposito della sentenza di
primo grado, effettuata mediante deposito in cancelleria, anziché
al domicilio dichiarato; nullità non sanata dalla presentazione dei
motivi da parte del difensore d'ufficio (recte: di fiducia). Motivazione. — I ricorsi sono stati assegnati alle sezioni unite
per i contrastanti orientamenti di singole sezioni di questa corte
in ordine alla questione sollevata nei ricorsi stessi, se cioè la
invalida (o omessa) notificazione all'imputato dell'avviso di depo sito della sentenza (di primo grado) sia causa di nullità (assoluta) anche quando l'avviso stesso sia stato ritualmente notificato al
difensore, che abbia presentato i motivi (per la insussistenza di
nullità, v. Cass., sez. II, 29 gennaio 1982, Federico ed altri, per la
configurabilità di nullità assoluta, Cass. sez. V, 10 novembre 1978, Zucchetto ed altri, Foro it., 1978, II, 457, in motivazione).
Deve preliminarmente rilevarsi l'inammissibilità del ricorso del
la De Dominicis per intempestività della relativa dichiarazione,
successiva alla scadenza del termine di cui all'art. 199 c.p.c. Tale inammissibilità preclude l'analoga declaratoria d'inammis
sibilità dell'appello della stessa De Dominicis per mancata presen tazione dei motivi, non rilevata dal tribunale.
Invece, quanto al ricorso del Sanna, la mancata proposizione nei motivi di appello della questione menzionata, non può condurre alla mera constatazione, in questa sede, della preclusio ne derivante ex art. 515 e 525 c.p.p. dalla mancata devoluzione al
giudice di secondo grado della questione medesima, poiché dette
norme non ostano alla deduzione o al rilievo d'ufficio della
nullità assoluta ipotizzata nel ricorso ed affermata in alcune
decisioni di questa corte; sicché è necessario in ogni caso
esaminare se detta nullità sussista e, in caso positivo, come debba
qualificarsi. In punto di fatto è pacifico in atti che l'avviso di deposito
della sentenza di primo grado è stato notificato mediante deposito
in cancelleria, anziché al domicilio ritualmente dichiarato dal
Sanna.
Ora, non sembra dubbio che la conseguente violazione dell'art.
151 c.p.p., che impone tale avviso agli essenziali fini della
prsentazione dei motivi e quindi della stessa concreta possibilità di
esercizio del diritto di impugnazione, integri la nullità prevista
dall'art. 185, n. 3, c.p.p., concernendo l'intervento dell'imputato
nella fase d'impugnazione. Detta nullità non è infatti collocabile nello schema letterale e
concettuale della « omessa citazione dell'imputato » di cui allo
stesso n. 3 e al 2° comma dell'art. 185 citato ed esula così dal
novero delle nullità assolute (ivi previste), rilevabili d'ufficio
incondizionatamente in ogni stato e grado del procedimento,
rientrando invece nella previsione del successivo 3° comma,
relativo alle nullità c.d. a regime intermedio (altrimenti dette, in
dottrina, relativamente assolute o assolute-affievolite).
Si tratta quindi di vedere se la nullità, cosi individuata e
qualificata, possa, come ritenuto in un indirizzo giurisprudenziale,
considerarsi sanata ex art. 187, 3° comma c.p.p. per raggiungi
mento dello scopo dell'atto « rispetto a tutti gli interessati », a
seguito della rituale presentazione dei motivi da parte del difen
sore, cui l'avviso di deposito sia stato regolarmente notificato.
Il collegio non condivide tale orientamento.
Deve rilevarsi al riguardo che il diritto d'impugnazione —
comprensivo di « dichiarazione » e « motivi » — è attribuito
all'imputato (art. 192, 1° comma, c.p.p.) che lo esercita quale
unico titolare, essendo il difensore mero legittimato all'esercizio
di quel diritto; infatti « l'impugnazione può anche essere proposta
dall'avvocato» (art. 192, 3° comma, c.p.p.) ma diviene inefficace
di fronte ad una contraria o incompatibile e prevalente impugna
zione dell'imputato (art. 193, 3° comma, c.p.p.: la sanatoria
reciproca prevista dall'ultima parte di detta disposizione è ammis
sibile solo in caso di compatibilità delle due impugnazioni).
Ciò posto non può ritenersi che la presentazione dei motivi da
parte del difensore sani la nullità dell'avviso di deposito relativo
all'imputato, non venendo raggiunto nei confronti di quest'ultimo
lo scopo dell'atto, che è quello di consentire al titolare del diritto
d'impugnazione l'esercizio, in tale fase, di un'autonoma attività di
difesa e d'« intervento », attuabile con la presentazione di propri
motivi integranti quelli del difensore o eventualmente contrastanti
con essi o mediante il controllo sull'opera del difensore o la
collaborazione con questi, o la sostituzione del medesimo.
Deve invero ulteriormente chiararsi al riguardo che la « contrad
dizione » di cui all'art. 193, 2° comma, c.p.p. e la conseguente
prevalenza della volontà dell'imputato, come si desume anche dal
riferimento generico del citato comma agli atti d'impugnazione,
può riguardare sia la dichiarazione che i motivi, essendo questi — anche se non contestuali e presentati con atto distinto —
parte integrante della prima ed entrambi compresi nel concetto
unitario d'impugnazione (sul punto v. anche la relazione al re, n.
81). Quanto poi al menzionato principio di cui all'ultima parte
dell'art. 193, 2° comma, secondo il quale — quando non vi sia
contraddizione — « la regolarità di una impugnazione sana l'irre
golarità dell'altra anche in relazione ai motivi », è appena il caso
di rilevarne la totale estraneità alla fattispecie: non può infatti
confondersi la sanatoria, in favore dell'imputato, di una irregolare
impugnazione del medesimo o del difensore, con la sanatoria di
un atto dell'ufficio (avviso di deposito) la cui irregolarità incide
negativamente sul diritto d'intervento dell'imputato in fase d'im
pugnazione. Non sembra poi fuor di luogo un sommario cenno alla evolu
zione normativa e giurisprudenziale dell'istituto dell'avviso di
deposito di cui all'art. 151 c.p.p. La originaria formulazione di tale norma prevedeva la sola
notifica dell'avviso « alle parti private a cui spetta il diritto
d'impugnazione», mentre per la 1. 18 giugno 1955 n. 517 l'avviso
«... è notificato inoltre nel caso preveduto nel primo capoverso al difensore dell'imputato e nel caso preveduto dalla prima parte al difensore che abbia proposto l'impugnazione e a quello desi
gnato dall'imputato nella dichiarazione d'impugnazione ».
La Corte costituzionale, inoltre, con sentenza 11 maggio 1971,
n. 96 (id., 1971, I, 1428), dichiarava costituzionalmente illegittima tale disposizione « nella parte in cui esclude che l'avviso di
deposito della sentenza pronunciata in seguito a dibattimento sia
notificata anche al difensore nel dibattimento » (per una precisa zione della portata di tale pronuncia, v. Cass., sez. un., ud. 27
aprile 1985, p.c. La Dolcetta).
Infine, con recente decisione (13 ottobre 1984, Meloni, id.,
1985, II, 330) queste sezioni unite hanno ritenuto che nel caso in
cui l'imputato abbia designato due difensori per la presentazione dei motivi, l'avviso in questione è dovuto a ciascuno di essi.
Ora, di fronte a tale ampliamento dell'area difensiva d'impu
gnazione, sarebbe oltretutto contraddittorio restringere la sfera
d'intervento dell'imputato, titolare del sostanziale interesse e del
diritto d'impugnazione, verificando la preminente rilevanza della
sua volontà, voluta dalla norma, si ripete, anche nella fase di
presentazione dei motivi.
In conclusione deve quindi affermarsi che l'invalida (o omessa)
notificazione all'imputato dell'avviso di deposito della sentenza (nel
la specie di primo grado) emessa nel dibattimento, attenendo all'in
tervento dell'imputato stesso in fase di impugnazione, integra una
nullità c.d. a regime intermedio ex art. 185, n. 3 e ult. comma, c.p.p., anche quando l'avviso sia stato notificato al difensore designato
per la presentazione dei motivi, che li abbia poi ritualmente
presentati. Il principio è valido anche nell'ipotesi di nullità dell'avviso di
deposito della sentenza d'appello, poiché, pur se l'imputato non
può personalmente redigere e presentare in Cassazione motivi non
contestabili, può nondimeno svolgere la residua, rilevante attività
difensiva e d'intervento in precedenza indicata.
Tuttavia il ricorso del Sanna non può essere accolto poiché, trattandosi come s'è detto di nullità a regime intermedio verifica
tasi nel giudizio di primo grado, la stessa non è stata dedotta —
come prescritto dall'art. 185, ult. comma, c.p.p. — nel successivo
grado di giudizio.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 26
gennaio 1985; Pres. Barba, Est. Anedda, P. M. Amoroso (conci,
conf.); ric. Vicari. Conferma Trib. Palmi 26 novembre 1982.
Cassazione penale — Riunione di giudizi — Inammissibilità (Cod.
proc. pen., art. 48, 413, 519, 530, 538).
La riunione dei procedimenti non è consentita nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione. (1)
(1) Le sezioni unite con la sentenza in epigrafe confermano l'orienta mento assolutamente prevalente che esclude la possibilità di disporre la
Il Foro Italiano — 1986.
This content downloaded from 195.78.109.162 on Wed, 25 Jun 2014 03:59:43 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
Svolgimento del processo. — Il 26 novembre 1982 il Tribunale
di Palmi ha confermato la sentenza del pretore di quel manda
mento in data 4 marzo 1982 con la quale Giuseppe Vicari era
stato condannato alla pena di giorni 20 di reclusione e lire
200.000 di multa quale responsabile di emissione continuata
aggravata di due assegni bancari a vuoto, rilasciati in Gioia
Tauro il 16 ottobre e il 10 novembre 1981.
riunione di più procedimenti pendenti in Cassazione. Le motivazioni addotte a sostegno della tesi contraria alla riunione sono sostanzial mente due: l'una fa riferimento alla mancanza di una esplicita previsione normativa '(come avviene, invece, per i giudizi di primo e di secondo grado con gli art. 413, 519 e 48, ultimo comma, c.p.p.) l'altra fa leva sulle finalità proprie del giudizio di legittimità che risulterebbe snaturato dalla eccessiva dilatazione dei poteri di merito che verrebbero attribuiti alla Corte di cassazione. Espressioni recenti di tale indirizzo interpretativo sono: Cass. 27 ottobre 1983, Cortesiano, Foro it., Rep. 1984, voce Cassazione penale, n. 55; 20 ottobre 1983, Schiassi, ibid., n. 56; 10 maggio 1983, Sbassi, ibid., n. 57; 1° marzo 1983, Milani, ibid., n. 58; 7 dicembre 1982, Federico, ibid., n. 59; analogamente in dottrina v. Campo, Riunione dei giudizi, voce del Novissimo digesto, 1976, XVI, 219; Leone, Trattato di diritto proces suale penale, 1961, I, 423.
La riunione dei giudizi in Cassazione non è consentita neppure ai fini dell'applicazione della continuazione tra reati oggetto di distinti procedimenti, in quanto l'accertamento della unicità del disegno crimi noso comporta un apprezzamento di fatto demandato al giudice del merito; cfr. in tal senso, tra le più recenti, Cass. 19 maggio 1983, Tavano, Foro it., Rep. 1984, voce cit., n. 61; 18 marzo 1983, Centin, ibid., n. 62; 18 marzo 1983, Mauro, ibid., voce Giudizio penale (atti preliminari del), n. 5; 8 marzo 1983, Palmieri, ibid., voce Cassazione penale, n. 63; 23 febbraio 1983, Coscia, ibid., n. 64; 20 gennaio 1983, Sgravagno, ibid., n. 65; 4 maggio 1982, Fael, ibid., n. 66; 2 luglio 1982, Galimberti, id., Rep. 1983, voce cit., n. 64; 5 aprile 1982, Gilio, ibid., n. 66; 6 novembre 1981, Sabatelli, id., Rep. 1982, voce cit., n. 94; 24 marzo 1980, Caraceni, ibid., n. 93, e in Cass. pen., 1982, 1036.
L'orientamento contrario, favorevole all'ammissibilità della riunione dei giudizi anche in Cassazione e manifestatosi proprio in relazione alle nuove norme sulla continuazione introdotte con la riforma del 1974 — che ha tra l'altro attribuito alla Corte di cassazione una speciale giurisdizione di merito per l'applicazione di disposizioni di legge più favorevoli all'imputato (art. 538, ult. comma, c.p.p.) — è stato seguito da Cass. 18 novembre 1975, Toncelli, Foro it., Rep. 1976, voce Esecuzione penale, n. 13; 11 ottobre 1978, Casamassima, id., Rep. 1979, voce Giudizio penale (atti preliminari del), n. 1; 20 ottobre 1978, Salafia, id., 1979, II, 189, con nota di Boschi, e ribadito più recentemente da Cass. 21 aprile 1980, Civardi, id., Rep. 1981, voce cit., n. 3; 21 ottobre 1980, Comini, ibid., voce Cassazione pena le, n. 63; 10 novembre 1981, Scapetti, id., Rep. 1983, voce cit., n.
68; 22 dicembre 1981, Manzo, ibid., n. 67. Si afferma con particolare chiarezza nella pronuncia del 20 ottobre
1978, Salafia, cit., che, avendo l'art. 538, ult. comma, c.p.p. introdotto un'eccezione alla normativa prevista per il procedimento di cassazione — permettendo un'indagine di merito sia pure al fine di applicare nuove disposizioni di legge più favorevoli all'imputato e ove non sia necessaria l'acquisizione di nuove prove diverse dall'esibizione di documenti —, la riunione dei procedimenti « sarà lecita, e anzi
doverosa, tutte le volte che sia resa necessaria per l'applicazione di
disposizioni più favorevoli e ciò sia nell'ipotesi in cui tali disposi zioni siano entrate in vigore dopo la pronuncia della sentenza
impugnata, sia nell'ipotesi in cui a venir in essere dopo detta
pronuncia siano soltanto i presupposti, anche di fatto, per l'applicazio ne della disposizione favorevole che era vigente al momento della
pronuncia di merito ma che il giudice non ha potuto applicare proprio per il difetto dei presupposti medesimi »; situazione che si verifica in materia di continuazione tra reati giudicati e reati ancora da giudicare, quando il giudicato si formi dopo la chiusura del giudizio d'appello sul reato da giudicare.
L'interpretazione richiamata è condivisa da Boschi, cit., secondo il
quale « se per applicare la legge sopravvenuta più favorevole all'impu tato è necessario disporre la riunione dei giudizi, come si verifica per la continuazione, non sembra dubbio che la giurisdizione di merito
della Corte di cassazione debba ritenersi estesa anche in ordine al
provvedimento di riunione». Le sezioni unite, nel propendere per la tesi contraria alla riunione,
non hanno tenuto conto delle argomentazioni addotte in contrario, dedicando all'art. 538, ult. comma, c.p.p., che, come si è detto
costituisce il fulcro dell'interpretazione contrastata, solo alcune formu
lazioni di principio prive, peraltro, di adeguata dimostrazione. La
cognizione di merito prevista dall'art. 538, ult. comma, c.p.p. è
rigorosamente limitata, secondo la sentenza riportata, « all'applicazione della norma sopravvenuta sulla quale il giudice a quo non abbia avuto
modo di pronunciarsi »; alla disposizione richiamata non può, pertanto, riconoscersi quell'effetto « dirompente sulle tradizionali strutture e
finalità » del giudizio di cassazione, che, talvolta, le è stato attribuito. Tale interpretazione restrittiva della portata dell'art. 538, ult. comma,
c.p.p. — con la quale si ribadisce quanto sostenuto da Cass., sez. un., 10 gennaio 1976, Volpe, id., 1976, II, 249, con nota di Boschi — è,
L'imputato ricorre per cassazione. Il suo difensore chiede
preliminarmente la riunione del procedimento ad altro pendente nei confronti dello stesso Vicari davanti a questa corte, per il
reato di emissione di assegno a vuoto, per connessione soggettiva ed oggettiva. Deduce poi la violazione dell'art. 474 c.p.p. per mancanza assoluta della motivazione sulla misura della pena.
Il ricorso è stato assegnato a queste sezioni unite in relazione al
tuttavia, frequentemente contraddetta dalle numerose decisioni della stessa corte che hanno applicato l'art. 538 citato in situazioni ben
diverse da quelle ritenute dalla sentenza in epigrafe. L'estensione dei poteri di merito della Cassazione ha trovato un
sicuro riconoscimento nelle frequenti pronunce dichiarative della estin zione per amnistia di un reato unito ad altri dal vincolo della
continuazione; si è sostenuto in questa ipotesi che la corte debba
provvedere direttamente, in virtù dei poteri ad essa conferiti dall'art.
538, ult. comma, c.p.p., alla determinazione della pena residua (cfr. Cass. 11 novembre 1983, Morellini, id., Rep. 1984, voce cit., n. 106; 19 novembre 1982, Occhiocupo, ibid., n. 79; 10 novembre 1982, Lucchese, ibid., n. 80; 5 marzo 1982, Rodenghi, id., Rep. 1983, voce cit., n. 70; 1° febbraio 1982, Stocchi, ibid., voce Reato continuato, n.
91; 5 marzo 1981, Vigo, id., Rep. 1982, voce Cassazione penale, n.
22; 9 aprile 1981, Di Pietra, ibid., n. 88) e ciò, sia nel caso in cui il reato estinto sia il più grave e risulti evidente che il giudice di merito abbia voluto applicare al reato satellite la pena nel minimo edittale
(come ritenuto da Cass. 25 ottobre 1982, Casoni, id., Rep. 1984, voce cit., n. 81), sia nell'ipotesi in cui, viceversa, l'aumento di pena per la continuazione sia stato effettuato dal giudice di merito in modo
globale (cfr. Cass. 15 luglio 1981, Parascandolo, id., Rep. 1982, voce cit., n. 9). Non sono mancate, è vero, opinioni contrarie (cfr. Cass. 6 novembre 1981, De Stefanis, id., Rep. 1983, voce Reato continuato, n.
92; 16 febbraio 1981, Sportella, id., Rep. 1982, voce Cassazione
penale, n. 87; 2 febbraio 1979, Argentini, id., Rep. 1979, voce Reato
continuato, n. 56; 8 novembre 1978, Di Franco, ibid., voce Cas sazione penale, n. 55), ma l'orientamento prevalente è quello che fa discendere il potere della Cassazione di determinare la pena residua direttamente dall'art. 538, ult. comma, c.p.p.
Con altre decisioni la Corte di cassazione, interpretando analogica mente l'art. 538, ult. comma, c.p.p., ha ritenuto di poter concedere il benefìcio della non menzione della condanna nel certificato del casella rio giudiziale, trattandosi di applicare una disposizione di legge nel senso più favorevole all'imputato, nel caso in cui non sia necessario assumere nuovi elementi di prova: Cass. 16 dicembre 1980, Squizzato, id., Rep. 1983, voce cit., n. 63; 18 ottobre 1979, Di Fazio, id., Rep. 1980, voce cit., n. 2.
Nella medesima direzione, quella dell'ampliamento della cognizione di merito della Cassazione, si è orientata, sia pure ai limitati fini dell'applicazione delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi, la recente 1. 24 novembre 1981 n. 689 che, oltre a prevedere all'art. 76 un'apposita norma transitoria sulla base della quale la Cassazione deve applicare le nuove norme ai procedimenti penali pendenti ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 538 c.p.p. (v. in tal senso Cass. 6 dicembre 1982, Concilio, id., Rep. 1984, voce Pena, n. 131), ha disposto all'art. 79 che il giudice può procedere all'applicazione della sanzione sostitu tiva a richiesta dell'imputato in ogni stato e grado del procedimento e quindi anche nel giudizio di cassazione, quando l'imputato ha formula to la richiesta nel termine previsto dall'art. 77 (cfr. in dottrina sul punto Bellavista-Tranchina, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1982, 658; Tonini, L'applicazione di sanzioni sostitutive su richiesta dell'imputato, in Foro it., 1982, V, 282 ed in giurisprudenza, su alcune questioni di legittimità costituzionale dell'art. 77, v. Corte cost. 17 dicembre 1985, n. 350, id., 1986, I, 3, con nota di La Greca); è appena il caso di rilevare che il procedimento ex art. 77 comporta un esame degli atti ed una valutazione delle condizioni soggettive dell'imputato caratteristici del giudizio di merito se è vero, come impone l'art. 58 richiamato dall'art. 77, che il giudice deve aver riguardo ai criteri indicati nell'art. 133 c.p.
È da ricordare, infine, l'orientamento giurisprudenziale che ammette la possibilità di richiedere l'applicazione della continuazione per la prima volta in sede di ricorso per cassazione nel caso in cui la relativa deduzione non sia stata possibile prima, qualora, trattandosi di fatti oggetto di procedimenti diversi, la sentenza che ha giudicato su uno di essi sia diventata irrevocabile dopo la pronuncia della sentenza d'appello relativa al reato da giudicare o dopo la presentazione dei motivi d'appello concernenti il reato ancora sub iudice; cfr. tra le più recenti Cass. 18 novembre 1982, Aleo, id., Rep. 1984, voce Cassazione penale, n. 109; 18 ottobre 1982, Rumolo, ibid., n. 110; 11 dicembre 1981, De Martino, id., Rep. 1983, voce cit., n. 73; 11 dicembre 1981, Gasperini, ibid., voce Reato continuato, n. 13; 9 ottobre 1981, Gori, id., Rep. 1982, voce Cassazione penale, n. 81; 15 aprile 1981, Lupo, ibid., n. 82; 1° aprile 1981, Iobbi, ibid., n. 83; 25 marzo 1981, Sessa, ibid., n. 84; 25 maggio 1981, Piazzolla, ibid., n. 85; 24 marzo 1980, Caraceni, ibid., n. 86; 21 ottobre 1980, Comini, id., Rep. 1981, voce cit., n. 67; 16 luglio 1980, Cristalli, ibid., n. 68; 26 settembre 1980, di Malta, ibid., n. 69. In tali decisioni la corte ha sostenuto che, non potendo valutare in fatto la sussistenza degli estremi della continuazio ne, il suo intervento deve limitarsi all'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito per l'eventuale applicazione dell'art. 81 c.p.
Il Foro Italiano — 1986.
This content downloaded from 195.78.109.162 on Wed, 25 Jun 2014 03:59:43 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE SECONDA
contrasto della giurisprudenza sull'ammissibilità della riunione dei
giudizi in Cassazione.
Motivi della decisione. — 1. - L'orientamento assolutamente
prevalente della corte è nel senso della inammissibilità della
riunione dei procedimenti nel giudizio di cassazione, poiché il
provvedimento relativo presuppone una valutazione di merito
estranea alla competenza funzionale del giudice di legittimità. È
stato anche precisato in numerose decisioni che la riunione non è
consentita neppure se finalizzata all'applicazione della continua
zione, ribadendosi che anche in tale ipotesi (statisticamente la più
frequente) l'accertamento dell'univocità del disegno criminoso
comporta un apprezzamento di fatto che spetta in via esclusiva
al giudice del merito.
Con altre decisioni, meno numerose, è stata riaffermata l'inam
missibilità della riunione, che è tuttavia consentita, eccezional
mente, in caso di applicazione di disposizioni più favorevoli ai
sensi dell'art. 538, 3° comma c.p.p. correlativamente alla cogni zione di merito attribuita alla corte (20 ottobre 1978, Salafia Foro
it., 1979, II, 189; 21 aprile 1980, Civardi, id., Rep. 1981, voce
Giudizio penale, n. 3; 21 ottobre 1980, Comini, ibid., voce Cassazio
ne penale, n. 63; 10 novembre 1981, Scapetti, id., Rep. 1983, voce
cit., n. 68; 22 dicembre 1981, Manzo, ibid., n. 67).
Infine, due isolate decisioni sembrano ammettere in ogni caso
la riunione dei procedimenti nel giudizio di cassazione; nella
prima tuttavia (18 novembre 1975, Toncelli, id., Rep. 1976, voce
Esecuzione penale, n. 13) la riunione era stata disposta, senza
alcuna enunciazione di principi, in vista dell'applicazione delle
nuove norme sulla continuazione, più favorevoli all'imputato, entrate in vigore dopo la dichiarazione di ricorso. Anche la
seconda decisione (11 ottobre 1978, Casamassima, id., Rep. 1979,
voce Giudizio penale, n. 1) si riferisce ad una ipotesi di applica zione dello ius novum in Cassazione, ai sensi dell'art. 538, 3°
comma c.p.p.; ma il problema dell'ammissibilità della riunione è
trattato nei suoi aspetti generali, pervenendosi alla conclusione
che, in forza dei principi generali che privilegiano il processo
cumulativo, e per l'assenza di una disposizione che ne faccia
divieto, la riunione è sempre consentita, quante volte se ne
ravvisi la convenienza e l'opportunità.
Ma, nonostante le formulazioni di principio, non si può non
osservare come, delibando sulla fondatezza della richiesta applicazione della continuazione, sia pure ai soli fini dell'annullamento o meno della sentenza non ancora passata in giudicato, la corte eserciti un controllo di merito sui fatti oggetto dei distinti procedimenti, indivi duando la possibile sussistenza dell'unicità del disegno criminoso tra i diversi reati (in caso contrario, la corte si limiterà a respingere la richiesta di applicazione dell'art. 81 c.p. senza annullare la sentenza
impugnata). La corte può, dunque, ritenere fondata, sulla base di una valutazione dei fatti istituzionalmente devoluta al giudice del merito, la richiesta di applicazione dell'art. 81 c.p., ma non può procedere direttamente al riconoscimento del vincolo della continuazione tra fatti
oggetto di distinti procedimenti. Nel tentativo di porre rimedio a tale anomala situazione e soprattut
to per evitare l'annullamento della sentenza impugnata che non ha
potuto pronunciarsi sull'applicazione della continuazione (nell'ipotesi in
cui la sentenza relativa agli altri reati da unificare non sia ancora
definitiva) si è sostenuto che il giudice d'appello, quando venga richiesto dell'unificazione del reato con altro oggetto di giudizio
pendente in Cassazione, è tenuto a sospendere il giudizio, in attesa del
passaggio in giudicato della condanna pendente in Cassazione; cfr. in
questo senso Cass. 30 aprile 1984, Meloni, Cass, pen., 1985, 2049 (m); 25 febbraio 1983, Scaglioni, Foro it., Rep. 1984, voce Reato continua
to, n. 45; 24 marzo 1980, Caraceni, id., Rep. 1982, voce cit., n. 31 e
per esteso in Cass, pen., 1982, 1036 con nota di Dominioni; 15 marzo
1979, Vitale, Foro it., Rep. 1980, voce cit., n. 58 (è da segnalare, in
proposito, Cass. 22 luglio 1985, Fissore, id., 1986, II, 342, con nota di
richiami, che, modificando un'interpretazione consolidata, ha affermato
il potere del giudice di ritenere il vincolo della continuazione tra reati
giudicati e reati da giudicare anche se questi ultimi siano più gravi di
quelli per i quali è già intervenuta sentenza irrevocabile di condanna e
siano stati commessi successivamente al passaggio in giudicato di detta
sentenza). Quest'ultima soluzione, che appare, invero, preferibile soprattutto per
motivi di economia processuale, può costituire una valida alternativa
per l'imputato alla richiesta di riunione di procedimenti pendenti in
Cassazione ai fini dell'applicazione della continuazione che, come
sostenuto dalla sentenza riportata, non è consentita. Rimane soltanto da
sottolineare come « l'effetto dirompente » attribuito, talvolta, all'art.
538, ultimo comma, c.p.p. sia in continua espansione e trovi nelle
richiamate decisioni della Cassazione un sicuro riconoscimento, in linea
del resto con autorevole dottrina (Cordero, Procedura penale, Milano,
1985, 784) che ritiene ormai testualmente smentito dall'art. 538, 3°
comma, c.p.p. l'assunto, « discutibile già nel vecchio sistema, che la
corte non indaghi mai sul merito ». [P. Canevelli]
2. - La ricognizione normativa esclude che sia individuabile una disposizione la quale, per applicazione diretta o per rinvio,
disciplini la riunione nel giudizio di cassazione.
L'art. 413 c.p.p., in virtù del quale, attraverso l'esercizio dei
poteri ordinatori del presidente o del pretore, si può pervenire al
cumulo dei procedimenti, è inserito fra le disposizioni che rego lano il periodo degli atti preliminari al dibattimento. La loro
collocazione ed intitolazione potrebbe ingenerare il dubbio che
esse si riferiscano, genericamente, al giudizio, che comprende
quelle di primo grado e quelle sulle impugnazioni, cioè l'appello e la cassazione. Se cosi fosse, il potere di riunione scaturirebbe
immediatamente da una disposizione di carattere generale, valevo le per il predibattimento di primo e di secondo grado, e di cassazione. Ma cosi non è, perché il contenuto delle disposizioni in esame è di tale tipicità da riferirle necessariamente alle attività
processuali preordinate al giudizio di primo grado: le regole sulla vocatio in ius attengono specificatamente alla citazione davanti alla corte d'assise, al tribunale, al pretore; e quella sulla predi sposizione delle prove, orali, documentali e tecniche sono prepa ratorie del dibattimento di primo grado, che è la sede naturale
dell'assunzione delle prove. Una conferma di ordine sistematico è data dall'esistenza, per i giudizi di appello e di cassazione, di
regole specifiche delle rispettive attività preliminari (art. 517, 530, 532 a 534 c.p.p.); e dal rilievo che quando la legge ha inteso utilizzare per il giudizio sulle impugnazioni le disposizioni del titolo I del libro III, ciò non è avvenuto automaticamente, ma in virtù di espressi richiami (cfr. il citato art. 517, nei commi 3°, 5°
e 6°, che rinviano appunto a talune prescrizioni dettate per il
decreto di citazione per il dibattimento di primo grado). 3. - La riunione dei procedimenti può essere ordinata dal
presidente e dal pretore nel predibattimento; ma può anche
essere disposta dal giudice dibattimentale in sede di risoluzione
delle questioni preliminari relative, come è espressamente previsto nell'art. 439, 2° comma, c.p.p., oppure anche successivamente, se la possibilità di proposizione della questione sorga soltanto nel
corso del dibattimento.
Nel giudizio di appello, la facoltà di riunione dei procedimenti connessi deriva testualmente dall'art. 48, ultimo comma, del codice
di rito che, sul presupposto naturale di giudizi separati in primo
grado per i vari reati, consente che il giudice di secondo grado
provveda con unico giudizio per tutti gli appelli. Non si dubita
tuttavia, interpretandosi estensivamente detto articolo, che anche
in appello la riunione possa essere ordinata non soltanto per
ragioni di connessione, ma anche per convenienza.
Questa, a ben vedere, e non l'art. 519 c.p.p. (come si afferma
usualmente nelle decisioni della corte) è la disposizione basilare
sulla quale si fonda il potere di riunione in appello: infatti l'art.
519 rinvia alle disposizioni relative al giudizio di primo grado
riguardanti il dibattimento, il modo di formazione della relativa
prova documentale, la sentenza che lo definisce; e tra queste
disposizioni non è compresa quella dell'art. 413 che è inserita,
come si è detto, tra quelle relative agli atti preliminari. All'art.
519 è cosi assegnato il più limitato effetto di consentire che
anche in appello il provvedimento di riunione sia adottato non
soltanto nel periodo degli atti preliminari, ma anche nel corso
del dibattimento.
Nessuna regola sulla riunione si rinviene invece per il giudizio di cassazione, né tra le disposizioni che ne disciplinano il
procedimento, né altrove. I rinvii, a parte quelli owii alle
disposizioni generali sulle impugnazioni, sono limitati alle regole sulla pubblicità, polizia e disciplina delle udienze e direzione della
discussione per i giudizi di primo e di secondo grado (art. 536, 1" comma, c.p.p.), ed alle norme per la deliberazione della
sentenza e sui suoi requisiti formali (art. 537, 3° comma, in
relazione agli art. 473 e 474 c.p.p.). 4. - L'estrema modestia dei collegamenti procedimentali tra
giudizi di merito e giudizio di cassazione non è casuale, ma
deriva dalla (relativa) autonomia strutturale del secondo rispetto ai primi, in relazione alla diversità funzionale dei compiti rispet tivamente assegnati per il raggiungimento di un risultato di
giustizia, cui la Cassazione coopera non direttamente quale tribu
nale di terza istanza, ma mediatamente, assicurando «... l'esatta
osservanza e la uniforme interpretazione della legge, l'unità del
diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse
giurisdizioni...» (art. 65 ord. giud.). La disciplina del procedimento di cassazione, scarna ed essen
ziale, è preordinata non all'acquisizione e all'apprezzamento della
prova, ma unicamente alla critica della decisione di merito, nei
limiti della devoluzione, sotto il profilo esclusivo dell'errore di
diritto, sostanziale e/o processuale; il che spiega da un lato
l'esaltazione della difesa tecnica, riservata a professionisisti spe
Il Foro Italiano — 1986.
This content downloaded from 195.78.109.162 on Wed, 25 Jun 2014 03:59:43 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA PENALE
cialmente abilitati (art. 529, 532 c.p.p.), e dall'altro la riduzione al minimo delle garanzie del contraddittorio.
5. - In tale prospettiva, una disposizione sulla riunione dei
giudizi, direttamente collocata nella sede propria e aliunde rica vabile dall'ordinamento, non soltanto sarebbe superflua, ma con trasterebbe con le caratteristiche e le finalità del giudizio di
cassazione, limitato al sindacato di legittimità; infatti il potere discrezionale del giudice di disporre (o non disporre) la riunione, è normalmente collegata alla ricognizione di un caso di connes sione tra procedimenti, che necessariamente involge indagini di fatto estranee alla competenza funzionale del giudice di legittimi tà, come quelle, ad esempio, sulla compartecipazione criminosa, e sul nesso teleologico e consequenziale tra reati, oppure, come è
già stato rilevato, sul vincolo della continuazione o, infine,
sull'apprezzamento di reciproche rilevanze probatorie. È vero che in talune ipotesi è attribuita alla Corte di cassazio
ne una cognizione di merito, come in tema di sanzioni contro il difensore dell'imputato che abbandona la difesa (art. 131, ult. com
ma, c.p.p.), o di ricorso contro la sentenza del giudice di rinvio per revisione (art. 569, 2° comma, in relazione all'art. 566, 1° comma,
c.p.p.) oppure contro la sentenza che pronunzia sulla domanda di
riparazione pecuniaria (art. 574, 6° comma, c.p.p.), e, ancora, in materia di revisione di misure di sicurezza (art. 641 c.p.p.) e di estradizione (art. 668, 1° comma, c.p.p.); e, infine, quando occor re applicare nuove disposizioni più favorevoli all'imputato (art.
538, 3° comma, c.p.p.). Si tratta tuttavia di disposizioni assoluta
mente eccezionali, che non possono modificare i caratteri fonda
mentali, tipici del giudizio di cassazione. Ciò vale anche per l'ultima delle disposizioni richiamate, cui è stato talvolta attribuito un effetto dirompente sulle tradizionali strutture e finalità dell'i stituto. In realtà molteplici rilievi convincono che queste son rimaste sostanzialmente inalterate, del resto in linea con il dise
gno che del giudice supremo di legittimità è tracciato nella Costituzione (art. Ili, 2° comma): infatti la cognizione di merito è rigorosamente limitata alla applicazione della norma sopravve nuta sulla quale il giudice a quo non abbia avuto modo di
pronunciarsi; inoltre la disposizione, che pur impropriamente
potrebbe definirsi transitoria, è destinata ad operare, sia pur con una previsione di carattere generale, nell'ambito esclusivo della successione delle leggi penali nel tempo; infine, la modificazione dell'art. 538 è derivata non da intenti riformatori, ma dall'esigen za di evitare la sommersione degli uffici giudiziari di merito con
una mole inusitata di giudizi di rinvio a seguito dell'entrata in
vigore, appena alcuni giorni prima, della novella legislativa
dell'aprile 1974.
La mancanza di una disposizione sulla riunione dei procedi menti in Cassazione scaturisce dunque da una scelta del legislato re, coerente alle finalità proprie del giudizio di legittimità; sicché le regole dettate per i procedimenti di primo e di secondo grado né possono essere interpretate estensivamente, né di esse può farsi applicazione analogica per difetto, tra il caso regolato e
quello non regolato, dell'essenziale rapporto di simiglianza. E tale
soluzione, naturalmente, vale anche per l'ipotesi della unione dei
procedimenti per mera convenienza, la cui marginalità è tale da non poter influire sulle prospettive di fondo del problema.
6. - Quanto all'unica censura prospettata, essa è infondata.
Infatti il tribunale, pur concisamente, ha dato contezza delle
ragioni che hanno determinato la commisurazione della pena, insindacabilmente individuato nella entità del fatto delittuoso e nella capacità a delinquere del colpevole. Pertanto il ricorso deve essere rigettato con le conseguenze di legge.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 24
novembre 1984; Pres. Marcellino, Est. Dattilo, P. M. Capece
latro (conci, conf.); ric. Conte. Annulla senza rinvio Trib.
Macerata 27 maggio 1983.
Appello penale — Sospensione condizionale della pena — Non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale — Erronea concessione in primo grado — Impugnazione dell'im
putato — Revoca — Inammissibilità (Cod. pen., art. 163, 164,
175; cod. proc. pen., art. 515).
Nel caso di appello proposto dal solo imputato il giudice non ha
facoltà di pronunciare di propria iniziativa, in pregiudizio dell'appellante medesimo, la revoca della sospensione condizid
nale della pena e della non menzione della condanna nel
certificato del casellario giudiziale, erroneamente concesse dal
giudice di primo grado in applicazione degli art. 163, 164 e
175 c.p., in quanto la concessione di tali benefici comporta necessariamente una valutazione di merito in ordine alla sussi stenza delle condizioni legittimatrici, il cui riesame, in mancan za di impugnazione del pubblico ministero, è precluso al
giudice di secondo grado. (1)
(1) Le sezioni unite, con la sentenza in epigrafe, hanno risolto il contrasto giurisprudenziale sulla questione della facoltà o meno del giudice d'appello, in difetto di gravame del pubblico ministero, di riformare la decisione del giudice di primo grado, che avesse erronea mente concesso i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Secondo l'orientamento prevalente, anche in questa ipotesi, il giudice d'appello non avrebbe la facoltà di revocare d'ufficio i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, concessi con la sentenza di primo grado appellata dal solo imputato, in quanto l'espresso divieto contenuto nell'art. 515, 3° comma, c.p.p., per la genericità della formulazione, non consente di operare alcuna deroga (Cass. 2 marzo 1983, La Stella, Foro it., Rep. 1984, voce Sospensione condizionale della pena, n. 77; 11 gennaio 1983, Amendola, ibid., voce Appello penale, n. 56; 31 ottobre 1978, Zeppi, id., Rep. 1979, voce cit., n. 29; 4 ottobre 1977, Menicali, id., 1978, II, 374; 10 ottobre 1972, Fregoli, id., Rep. 1973, voce cit., n. 41; in generale, cfr., in dottrina, Bellavista, Tranchina, Lezioni di diritto processuale penale, Milano, 1984, 618; Conso, Bargis, Nozioni elementari di procedura penale, Milano, 1985, 5; Leone, Trattato di diritto processuale penale, Napoli, 1961, III, 105; Id., Manuale di diritto processuale penale, Napoli, 1985 , 672; Manzini, Trattato di diritto processuale penale, Torino, 1972, IV, 749; Gius. Sabatini, Reformatio in peius (dir. proc. pen.), voce del Novissimo digesto, Torino, 1967, XIV, 1126).
L'indirizzo minoritario riteneva, invece, che non viola il principio del divieto della reformatio in peius la sentenza d'appello che, pur senza appello del pubblico ministero, corregga l'operato del giudice di primo grado che abbia erroneamente concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena o della non menzione della condan na nel certificato del casellario giudiziale (Cass. 13 marzo 1980, Abatangelo, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 81; 3 marzo 1977, Zagaria, id., Rep. 1978, voce cit., n. 44; 13 novembre 1973, Rizzo, id., Rep. 1975, voce cit., n. 31; 16 aprile 1969, Virgilio, id., 1970, ill, 435).
Le sezioni unite hanno sostanzialmente ribadito l'orientamento preva lente, distinguendo opportunamente tra le ipotesi di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena e dell'ordine di non menzio ne della condanna nel certificato del casellario giudiziale, concessi con sentenze precedenti e diverse da quella oggetto del giudizio d'appello, rispettivamente previste dagli art. 168 e 175, 3° comma, c.p., e l'ipotesi di revoca di questi benefici qualora siano stati concessi dal giudice di primo grado in violazione delle disposizioni sostanziali che li consentono.
Nel primo caso, il giudice d'appello, quando non vi abbia provveduto il giudice di primo grado, può pronunciare ex officio la revoca della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, concesse con sentenza precedente, non potendo trovare applicazione l'art. 515 c.p.p. né per quanto attiene al divieto della reformatio in peius, né in relazione alla regola tantum devolutum quantum appellatum, in quanto la revoca opera di diritto e il relativo provvedimento del giudice d'appello non ha funzione costitutiva ma meramente ricognitiva (cfr., in questo senso, Cass. 5 aprile 1983, Mucci, id., Rep. 1984, voce cit., n. 58; 21 ottobre 1982, Monachino, ibid., n. 57; 16 aprile 1980, Russi, id., Rep. 1980, voce cit., n. 80).
D'altronde l'art. 590, 1° e 2° comma, c.p.p., nel prevedere espressa mente il ricorso al rito degli incidenti di esecuzione per dichiarare la revoca della sospensione condizionale della pena e dell'ordine di non menzione della condanna, qualora il giudice di cognizione non vi abbia provveduto con la sentenza che pronuncia la nuova condanna, conferma tale possibilità.
Nell'ipotesi, invece, di concessione da parte del giudice di primo grado della sospensione condizionale e della non menzione senza che ricorrano le condizioni e i requisiti previsti dalla legge, l'errore dello stesso giudice può essere riparato soltanto mediante appello del pubblico ministero. Qualora, invece, appellante sia il solo imputato, il giudice di secondo grado non ha la facoltà, in pregiudizio dell'appel lante medesimo, di riesaminare la sussistenza delle condizioni legitti matrici dei benefici concessi nel primo grado di giudizio, perché, in caso contrario, verrebbe violato il chiaro disposto dall'art. 515, 3° comma, c.p.p., che vieta al giudice d'appello di revocare i benefici concessi, e si introdurrebbe una nuova ipotesi di revoca di diritto nonostante la mancanza di espressa norma al riguardo.
Lo stesso è a dirsi per il giudice dell'esecuzione, la cui competenza ex art. 590 c.p.p. è limitata soltanto alle ipotesi di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, con la conseguenza che gli è precluso, ostandovi il giudicato, di correggere eventuali errori in cui fosse incorso il giudice di cognizione nell'individuazione dei
Il Foro Italiano — 1986 — Parte 11-29.
This content downloaded from 195.78.109.162 on Wed, 25 Jun 2014 03:59:43 AMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions