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ShinBuN ews - aikidobari.com · verso la famosa formula di A. Ein-stein (E=mc2), ci insegna che...

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ShinBuN ews Il Bollettino del Praticante dello Shin Bu Dojo Hara… Ki era costui ?
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ShinBuN ews Il Bollettino del Praticante dello Shin Bu Dojo

Hara… Ki era costui ?

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Responsabile : Fabrizio Ruta

Redazione: Vincenza Patruno, Jacqueline Gentile, Gaetano Nevola

Foto: Vincenza Patruno

Sommario

Editoriale 3

Ki e Hara Kokyu soren

4 13

Senti chi parla Segni particolari: Cintura Nera

Il praticante si racconta Raja Yoga e Kinorenma Bioenergetica: Lowen e l’analisi bioenergetica (III parte)

7

10 15 18

Umorismo Tengu Il koan del Maestro Nano Successe al dojo L’estate marcia, i piedi marciscono

21 25 25 30

Dall’Oriente Storia del Bokken

Storie Zen Cucina giapponese: comportamento da tenere a tavola

12 25 27

I Pensieri di O’ Sensei Facile a dire, difficile a fare L’Aikido indica una via

31 32

Varie Per non dimenticare... Inferno e Paradiso Serata in pizzeria Fiori di Bach Lettera a Sensei Cruciverba

Quiz d’intelligenza Momenti d’ozio Shin Bu: dietro le quinte

26 26 28 30 33 35 36 37 38

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Ben ritrovati, shinbuisti! Questo è il quarto numero dello Shinbun, l’ultimo per quest’anno 2004/05: un anno in cui questo giornale ha visto la luce, ha affiancato la nostra pra-tica al dojo, ha sottolineato gli eventi più salienti e, soprattutto, ha accolto, come un grande contenitore, racconti, emozioni, pareri, estrosità di tutti noi. In questo numero, viene inaugurata la rubrica dedicata alle interviste alle Cinture Nere del dojo che, tra un po’, incominceranno ad evitare i compo-nenti della Redazione (a dir la verità, qualcuno già lo fa) e a praticare senza hakama per confondersi tra la folla dei comuni kyu! Troverete ap-profondimenti sul kinorenma, e, per rellegrare le vostre vacanze estive, in cui sarete costretti a combattere contro le crisi di astinenza da dojo, la Redazione ha disseminato qua e là dei fantastici “Ruta dixit” nuovi di zecca (grazie Maestro, per non lasciarci mai sprovvisti di essi!) ed altri nuovi ed interessanti articoli. E , per concludere in bellezza, è stato elaborato un cruciverba di non solo aikido, con cui cimentarvi sotto l’ombrellone bevendo lentamente una bibita ghiacciata... I tre della Redazione vi ringraziano e sperano di ritrovarvi tutti, a set-tembre, altrettanto partecipi ed entusiasti: domo arigato!

La Redazione

“Impara gli insegnamenti dell'albero di pino, del bambù e del fiore di susino. Il pino è sempreverde, radicato stabilmente e venerabile. Il bambù è forte ed elastico, indistruttibile. Il fiore di susi-no è robusto, fragrante ed elegante.”

O' Sensei

Editoriale

S

hin

Bu

Ne

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ShinBuNews

Giugno 2005

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Ki e Hara di Fabrizio Ruta

Quando ci si accosta ad un'arte tradizionale giapponese (sia che si tratti di un'arte marziale piutto-sto che della cerimonia del tè, dell'ikebana o del teatro Noh, dello shiatsu o dell'agopuntura) si entra subito in contatto con la no-zione di ki ed hara. Non è possibile, infatti, parlare di Arti Tradizionali Orientali senza fare riferimento a questi due con-cetti che, tra l'altro, sono fonda-mentali punti di riferimento all'in-terno della nuova cultura emer-gente della New Age. Questi due aspetti vanno com-presi contemporaneamente con la "testa" e con il corpo se si vuo-le raggiungere l'eccellenza nel-l'arte e per centrare l’obiettivo più profondo della pratica di queste discipline. Cercherò, ora, di spie-gare in maniera semplice ed e-sauriente il significato e l'impor-tanza del ki e dell' hara in base alla mia personale esperienza sia pratica che teorica. Il Ki Partiamo dal ki. In una prima tra-duzione, questo termine può es-sere interpretato come: "energia vitale" od "interna" ed è una no-zione presente probabilmente in tutte le culture antiche. Il ki era definito chi in Cina, prana in In-dia, pneuma dai greci e lo ritro-viamo anche nell'ambito degli studi alternativi della ricerca occi-dentale; per esempio, era indivi-duato con il termine "Energia Or-gonica" da W. Reich, ispiratore della Bioenergetica. In uno dei suoi libri - "Lo spirito dell' Aikido"- il Doshu si esprime

nei seguenti termini:" Un prati-cante di Aikido che si sia allenato regolarmente può avere alcune intuizioni personali del ki anche non conoscendone le radici stori-che e teoriche (...). Ma, ci sono delle differenze nelle sue manife-stazioni concrete in ogni persona che dipendono dal temperamento e dalle aspirazioni individuali, dal-le capacità fisiche, dalle espe-rienze a dal retroterra di ognuno. E' quindi inevitabile che ci siano differenze nel modo in cui prati-camente sentono ed esprimono il ki (…). Ogni risposta è valida, nel senso che è una sincera impres-sione raggiunta dopo una precisa esperienza personale." Questa apertura del Doshu spia-na naturalmente la strada alla ri-cerca personale invitando, nel contempo, a farne un'esperienza individuale e diretta attraverso un lungo e serio allenamento. Inoltre, ci rende liberi di "ascoltarci" fa-cendo a meno di tutta una serie di condizionamenti relativi a come o cosa "dovrebbe essere" il ki. Un primo grosso ostacolo che si incontra quando si parla del ki è un "dogma scientista" in base al quale nulla "può esistere" se pri-ma non viene dimostrato. Ma ciò che è invisibile non è detto che sia inesistente! Ci sono tante co-se in questo mondo che non sono percepibili dai sensi umani (alcuni gas, le onde elettromagnetiche, gli ultrasuoni, i virus, gli atomi...) e sicuramente tante altre che ci so-no ancora sconosciute, eppure ci comportiamo e giudichiamo come se tutto ci fosse noto e chiaro. E-

videntemente, non si tratta di cre-dere per fede ma, al contrario, di sperimentare su se stessi certe possibilità. D'altronde, tecniche come l'agopuntura o lo shiatsu, che hanno un'indubbia efficacia terapeutica, basano il loro effetto curativo proprio su l’esistenza del ki e sulla sua corretta e costante circolazione nell'organismo, attra-verso la rimozione di blocchi e il riequilibro globale dell'energia. La cosa forse più comica e parados-sale è che i ricercatori scientifici devono avere, come prima dote, la capacità di dubitare e mettere in discussione qualsiasi teorema ed assioma "lanciandosi" libera-mente nell'esplorazione delle idee ed ipotesi più strane e lontane dal senso comune. Universi paralleli, equivalenza tra materia ed ener-gia, principio di indeterminazione, materia "scura", campi informativi morfogenetici, curvatura dello spazio tempo, antimateria, parti-celle subatomiche che tornano indietro nel tempo... queste sono alcune delle tesi più conosciute sulle quali lavorano, fisici, mate-matici e scienziati di ogni paese. Tutti coloro che credono solo "a quello che vedono o toccano" so-no dei moderni "San Tommaso"

"Il ventre è la sorgente e il deposito della forza vitale. Il Ventre non è solo una regione particolare del corpo, ma implica problemi molto più importanti rispetto alla totalità del terreno. E' il simbolo e l'espressione dell’attività vitale dell’uomo

Itsuo Tada

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arretrati di centinaia di anni rispet-to all'attuale visione scientifica di cui essi credono, al contrario, di essere paladini rifiutando tutte le "sciocchezze" irrazionali che non collimano con la loro pseudocultu-ra. Ma, tornando al ki, esso può es-sere definito come l'energia pri-mordiale che forma la trama basi-lare dell'Universo. Esso supporta tutti i fenomeni esistenziali, per-mettendo lo svolgimento, non so-lo delle funzioni vitali, ma anche di quelle emotive, mentali e spiri-tuali dell'essere umano. Il ki, così come l'elettricità, non è qualcosa di visibile, ma si possono percepi-re e misurare gli effetti della sua attività. Infatti, così come l'ener-gia elettrica si trasforma in luce in una lampadina, calore in un ter-mosifone e movimento in un ven-tilatore, ugualmente il ki, circolan-do nel corpo umano, diventa in-telligenza e creatività (luce), nella mente, amore (calore) nel cuore e slancio vitale (movimento) nel ventre (hara). Per noi Occidentali moderni, è difficile capire e quindi accettare la nozione di ki perché ci hanno insegnato (condizionato?) a con-siderare l'uomo come una specie di macchina la cui attività dipende dal buon funzionamento delle sue parti; per cui, quando questa macchina biologica senziente "si rompe" la vita finisce e la co-scienza, con il suo fardello di pensieri, sentimenti, aspirazioni, sensazioni, ecc., si dissolve nel nulla. E crediamo in questo, per-ché ci identifichiamo con il nostro corpo, ritenendo che l'insieme di organi e funzioni che lo costitui-scono creino la vita. Ma proviamo a considerare un televisore: è u-na macchina che mostra delle immagini ed emette dei suoni i quali non sono creati autonoma-

mente ma provengono da un' e-mittente esterna. Ebbene, quan-do un televisore si danneggia e non è più capace di trasmettere, sarebbe assurdo affermare che le immagini e i suoni che trasmette-va non esistono più in base all'os-servazione empirica che non so-no più visibili né udibili. Evidente-mente, ciò che è accaduto è semplicemente che quell'appa-recchio è semplicemente incapa-ce di captare quegli impulsi elet-tromagnetici che permangono "in vita" pur essendo invisibili. Allo stesso modo, quando il nostro corpo "si rompe" irrimediabilmen-te non può più esprimere "gli im-pulsi" di colui che lo abitava cioè di noi stessi! Di quella parte, che può essere definita, facendo rife-rimento alla psicologia transper-sonale, il Sé. Il ki può, dunque, essere considerato come sinoni-mo di vita: esso è ciò che dà e-nergia a tutto l'universo. Del re-sto, uno dei più conosciuti mae-stri spirituali del nostro secolo Pa-ramahansa Yogananda, ha tra-dotto la parola prana (il ki in san-scrito) coniando un nuovo termi-ne in inglese: "lifetrons". Questa parola può essere appunto tra-dotta in italiano con "vitatroni" per analogia con elettroni e protoni. Un'altra maniera per descrivere il ki è partendo dall'ideogramma corrispondente (vedi disegno). Esso è costituito da una parte su-periore che ricorda il vapore, ed una inferiore (lato sinistro) che sta ad indicare i campi di riso. Vapore e riso sono separati da un terzo segno che rappresenta un conte-nitore metallico. L'intero ideo-gramma ki può quindi essere im-maginato come una pentola, dove bolle del riso, e dalla quale il va-pore esala verso l'alto. Il senso che se ne può ricavare è che, per gli orientali, l'energia ha un doppio

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significato: uno strettamente lega-to alla materia (il riso) e l'altro più spirituale, sottile ed imponderabile (il vapore). Non vi è, quindi, una scissione tra mondo spirituale e mondo fisico. Questo concetto rimanda, tra l'altro, alla moderna concezione della fisica che, attra-verso la famosa formula di A. Ein-stein (E=mc2), ci insegna che ma-teria ed energia sono semplice-mente due facce della stessa me-daglia. Esistono molte altre forme attra-verso le quali è possibile cercare di trasmettere il significato del ki. Il ki è integrità dell' azione, è gioia che pulsa, è un cavallo selvaggio che agita la lunga criniera mentre corre nello spazio verde della li-bertà sconfinata dei territori inte-riori dell'essere. Il ki si avverte nel sole che, al mattino, sorgendo spezza le catene del buio con lampi di luce, nel cosmo assetato di vita, nel canto di gioia o nel pianto totale per una conchiglia ricevuta o negata al bambino in-teriore. Il ki è un ringraziamento lanciato nel mondo dal corpo feli-ce quando lo si lascia libero di essere e muoversi così come é. Il ki si schiude, potente, insieme alle gemme nella tiepida prima-vera e si ritrae silenzioso nei cal-di colori autunnali per risplendere nel crepitio della fiamma ardente di un camino d'inverno. E' il calore che riscalda la passio-ne di due corpi fusi in mistica u-nione, è la valle dopo il picco di un orgasmo totale. E' rabbia, gioia, pianto... è l'evoluzione dei "cinque elementi" che ruotano nella stagione dell'esistenza, se-guendo la legge dell'universo. L'Hara Passiamo ora a descrivere il cen-tro hara. Hara è una parola giapponese

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che, tradotta letteralmente, signi-fica ventre. Ma il senso che si dà a questo termine è molto più ric-co. Infatti, in Giappone per indica-re la forza e la capacità di una persona si dice che questa "possiede hara" o, viceversa, che è "senza hara" quando è incapa-ce di prendere decisioni e si mo-stra debole e senza volontà. La padronanza dell' hara è quindi indispensabile non solo nella pra-tica delle Arti Marziali classiche ma anche per la padronanza di qualunque attività artistica. Basti pensare all'ikebana (l'arte della composizione floreale) o il cha-no-yu (la cerimonia del tè), nelle quali occorre padroneggiare il "ventre" per esprimere l'arte al suo più alto livello e raggiungere così la maestria. L'hara è un centro molto impor-tante da sviluppare per acquisire una buona stabilità fisica e men-tale. Essa è collegato ai primi tre Chakra della tradizione induista e la sua “coscientizzazione” per-mette di aumentare la propria for-za vitale e a rafforzare la volontà, oltre che a determinare un vero e proprio radicamento al suolo. A-vere hara corrisponde al posse-dere un buon grounding (radicamento, ancoraggio) nella definizione utilizzata dalla bioe-nergetica. Anatomicamente, l'hara corri-sponde al ventre e il seika tanden al baricentro fisico posto due cm sotto l'ombelico. Secondo le tradizioni esoteriche di molte culture arcaiche, dentro l'essere umano esistono più centri con differenti funzioni. Nell'ambito di questi insegnamenti, si è tra-mandata la conoscenza relativa ad un "secondo cervello" che tro-va la sua collocazione fisiologica nel plesso solare. Il maestro Omraam Mikhael

Ajvanhov così descrive questa idea, in una sua conferenza: "Il plesso solare è un cervello, ma un cervello rovesciato poiché, mentre nel cervello la materia grigia è al-l'esterno e la materia bianca all'in-terno, nel plesso solare si osserva il contrario. La materia grigia, co-stituita dalle cellule nervose, per-mette di pensare, mentre quella bianca, costituita da fibre nervose, prolungamenti delle cellule, per-mette di provare delle sensazioni. Quindi, grazie alla sua materia bianca che è all'esterno, il plesso solare registra tutto ciò che acca-de nell'organismo in tutte le cellu-le; (...). In seguito allo sviluppo del cervello, l'uomo ha preso coscien-za di sé, ed è grazie a tale evolu-zione che si è formato la sua indi-vidualità. Il plesso solare, invece, essendo la sede della subco-scienza, mette l'uomo in relazione con l'oceano della vita universale e lo unisce all'intero cosmo (...)." Negli ultimi anni, anche la scienza ufficiale ha scoperto l'esistenza di questo secondo cervello formato da un reticolo di neuroni, neuro-trasmettitori e proteine distribuiti nei tessuti dell' esofago, dello sto-maco e dell'intestino. Questo in-sieme di neuroni si comporta co-me il cervello che tutti ben cono-sciamo; esso, infatti, è capace di imparare, ricordare e produrre sensazioni essendo formato da circa cento milioni di neuroni, cioè ben più di quanti ne conti il midol-lo spinale. L'esistenza di questo "cervello vi-scerale" ci illumina, così, in manie-ra ancor più chiara sull'importanza di entrare in contatto con il nostro centro hara, di attivarlo e di ren-derlo più vivo, flessibile ed attivo. L’hara è, dunque, l'oceano della nostra forza inconscia, le radici profondamente abbracciate alla nostra terra, la memoria ancestra-

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le, l'istinto, l'oscura forza selvag-gia dell'esistenza, la culla della vita, la grotta sacra. L' hara ricon-quistato è una fortezza inamovibi-le, fa del nostro corpo un castello e ci rende roccia tra le onde, sta-bilità in mezzo alla tormenta; tra-mite esso, il movimento diventa danza con un centro, la medita-zione calma attiva. Hara è fiducia e abbandono all'universo, è il cen-tro dell'intero cosmo. Con hara, sei a casa dovunque, puoi lasciar-ti andare senza perderti, puoi ce-lebrare la vita totalmente e, dun-que, incontrare la morte con gioia. L' hara è il "qui ed ora" e ci dona la possibilità di essere presenti e di sperimentare la stabilità, essa ci rimanda a noi stessi e alla no-stra individualità facendoci centro nella periferia dell'universo, il cuore centripeto dell'azione, ci risveglia alla gravità e ci rende terra da cui sgorgano le correnti misteriose del ki.

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Redazione: Quando e come hai conosciuto l’Aikido? Paolo Gissi :Avevo 14 anni ed ero in giro per scegliere un'Arte Mar-ziale da praticare. Una persona mi portò a vedere il Dojo di Aikido. Mi piacque molto l'atmosfera, calda e raccolta, ma all'epoca volevo qual-cosa di più "guerriero" (calci, pu-gni, ed urla varie), così optai per il Kempo. A 19 anni, il mio modo di intendere le arti marziali era cambiato e sco-prii che il Kempo non faceva più per me. Mi misi di nuovo in giro, visitando tutte le palestre di Arti Marziali di Bari, ma non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine del Dojo che avevo visto cinque anni prima. Così eccomi qua…. Redazione: In che modo ritieni che la pratica dell’Aikido ti abbia cambiato o abbia influenzato la tua vita? Paolo Gissi: La filosofia ed il parti-colare senso della vita che Ueshi-ba volle trasmettere con l'Aikido, è scritto nei movimenti di quest'arte marziale. Se la pratichi a lungo e con passione, ti entra nel corpo senza bisogno di passare dalla testa. Così te la porti dietro, anche fuori del tatami. Redazione: Ricordi il tuo esame da sesto kyu? Paolo Gissi: Ehm... veramente no… ero abbastanza impegnato ad associare inquietanti nomi giap-ponesi ai relativi movimenti corpo-rei, assumendo nel contempo un'aria di sicura ed esperta padro-nanza delle tecniche…. In compenso, ricordo bene una lezione di quindici giorni prima del-l'esame, quando ebbi modo di sco-prire una misteriosa tecnica che suonava come "ucicaitensanchio" e che, a quanto pare, faceva parte del mio programma.... Mi dissi: "Bah, non sarà poi così difficile!"... ...sigh... Redazione: Ci racconti le emozio-ni provate per l’esame da cintura nera? Paolo Gissi: Capii che ero lì per

sostenere l'esame di cintura nera solo quando, dopo la prima parte dell'esame, gli altri kyu furono man-dati a posto ed Hosokawa chiamò chi doveva fare gli esami Dan… Eravamo così pochi…Dopo il brivi-do iniziale di questa realizzazione, le emozioni si interruppero, sostitu-te da sudore e fiatone, per ripren-dere alla fine di tutto quando Hoso-kawa ci congedò. Ad accogliermi fuori dal tatami c'e-rano mia madre, Roberto, e la mia amica Yana, che mi comunicarono con i loro sorrisi che un'importante fase della mia vita si era appena conclusa. Redazione: Come ci si sente da cinture nere? Paolo Gissi: L’inconfondibile sen-sazione di inciampare nell'hakama mentre il Maestro ti chiama come Uke per mostrare la ventisettesima variante della versione estiva di ik-kyo, è un'esperienza che potrete scoprire solo quando ci arrivere-te…. Redazione: Com’è nata l’idea dell’Aikido per ragazzi? Paolo Gissi: Cinque anni fa, Fabri-zio mi propose di mettere su un corso di Aikido per ragazzi. Inizialmente, fui molto contento del-la possibilità, poi, l'incombenza de-gli esami universitari mi fece ten-tennare. Fortunatamente, ci fu una persona (grazie mamma!) che mi convinse a fare almeno un tentativo. La prima lezione fu un'esperienza di puro terrore, del tipo "Ed ora co-sa gli faccio fare per 60 minuti?".... Quando scoprii che i piccoli si di-vertivano molto a picchiare gli inse-gnanti con dei bastoni di gomma, il problema si risolse felicemente.... Redazione: Come imposti una classica lezione per ragazzi e quali principi ci tieni apprendano soprat-tutto? Paolo Gissi: L'obiettivo tecnico del corso è che i ragazzi imparino gli elementi fondamentali dell'Aikido, i principi, le tecniche e l'etichetta che lo contraddistinguono, alternando i momenti di studio a momenti di gio-

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co in grado di alleggerire e rende-re divertente la pratica…. L'obiettivo formativo, quello che mi sta più a cuore, è trasmettere l'essenza degli insegnamenti di O’ Sensei, ossia che un modo dif-ferente di vivere è possibile e rea-lizzabile, qui ed ora, in mezzo ad altri esseri umani e non solo nel mondo immateriale dei pensieri e delle professioni d'intenti. Così, attraverso giochi dai quali è stata bandita ogni forma di compe-tizione interna, cerchiamo di tra-smettere loro il piacere ed il diver-timento di lavorare insieme, invece che gli uni contro gli altri; con lo studio della lingua giapponese, delle culture e delle filosofie dell'e-stremo oriente, hanno la possibilità di scoprire che modi di vivere e di pensare distanti anni luce dai no-stri, non sono sinonimi di folclori-stico o di anormale, ma soluzioni diverse e creative che popoli lonta-ni hanno dato agli stessi problemi, con i quali, i nostri antenati si con-frontarono migliaia di anni fa; infi-ne, con la pratica delle tecniche elaborate da O Sensei, i ragazzi hanno modo di scoprire il piacere che dà neutralizzare un'energia aggressiva, senza necessariamen-te fare polpette del proprio aggres-sore…. Redazione: Cosa hai maggior-mente apprezzato negli insegna-menti del Maestro Ruta? Paolo Gissi: Il Dojo è un luogo davvero speciale. L'atmosfera è tradizionale, calda e raccolta, ma anche rilassante, giocosa e legge-ra. E' un luogo dove la cultura o-rientale può vivere e sentirsi a ca-sa. Lo stesso rapporto che c'è tra i praticanti, disteso, spesso di ami-cizia, l'ho trovato in pochi altri posti dedicati alla pratica delle arti mar-ziali. Tutto questo è frutto del lavoro e della passione di Fabrizio e, tra tutti i suoi insegnamenti, è per me quello più importante, perché mi ha dato la dimostrazione e la fidu-cia che è possibile realizzare un posto come questo. Redazione: Perché consiglieresti

Segni Particolari: Cintura Nera

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la pratica dell’Aikido? Paolo Gissi: Perché è un modo in-telligente di avvicinarsi alla cultura orientale, vivendola oltre che stu-diandola; perché le tecniche indiriz-zano il corpo verso movimenti natu-rali e fluidi, garantendo divertimento oltre che una bella sudata; perché l'attenzione all'aspetto mentale per-mette di esplorare qualità che diffi-cilmente emergerebbero spontanea-mente nella vita di tutti i giorni; per-ché si conosce tanta bella gente… Redazione: Sappiamo che hai altre passioni oltre l'Aikido: quali sono gli interessi che coltivi? Paolo Gissi: Arti Marziali a parte, sono interessato alle radici del pen-siero filosofico orientale ed alla lin-gua cinese. Per il resto, amo le dan-ze popolari, quelle del Sud Italia in particolare, mi piace seminare il pa-nico nella memoria del mio PC e, essendo un tipo molto curioso, di solito la quantità di libri sparsi per le mie stanze eccede di molto le buo-ne intenzioni di metterle in ordine.… Redazione: Ritieni che qualcuno di essi abbia migliorato la tua pratica

dell’Aikido? Paolo Gissi: Ritengo che tutti ab-biano contribuito al mio sviluppo come persona. Aikido compreso Redazione: Cosa trovi nelle altre arti marziali che non trovi nell’Aikido? Paolo Gissi: Il mio amore per le arti marziali iniziò a 6 anni, a causa della stessa persona che ha acce-so la scintilla in tanti altri praticanti (un indizio… usa il kiai dello scoiat-tolo ma non ha niente a che fare con Cip&Ciop …). Dall'età di 10, ho iniziato a praticarle e, da allora, non ho più smesso. Per questo motivo mi sento un praticante di Arti Mar-ziali, prima ancora che un pratican-te di Aikido. L'Aikido mi fornisce una cornice spirituale che non ho trovato in nes-sun'altra arte marziale, ed anche una meta molto difficile da raggiun-gere ma altrettanto bella, protegge-re e proteggersi, senza ferire… In quanto praticante di arti marziali, però, non posso separare quest'a-spetto dallo scalino che lo precede, l'efficacia del proprio bagaglio tecni-co. Questo percorso non può che

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essere personalizzato, richiede la ricerca di ciò che ti manca all'inter-no di altri patrimoni marziali, alcu-ne particolari metodologie di alle-namento e qualche livido in più. ….però ne vale la pena… Redazione: Cosa ti auguri per il futuro? Paolo Gissi: ...che il ciliegio conti-nui sempre a fiorire... Ed ora passiamo alle domande "disinteressate": Redazione: Hai letto il numero ze-ro del giornalino? Se sì, che ne pensi? Se no, PER-CHE?!?! Paolo Gissi: Ma certo! ed anche il numero 1! Sono davvero ben fatti e divertenti!! Redazione: Che ne pensi dei componenti della redazione? Paolo Gissi: Sono tanto tanto simpatici….e so che mi perdone-ranno per il ritardo geologico con cui ho consegnato quest'intervista.

Cognome: Gissi Nome: Paolo Giuseppe Data di nascita: 9/10/76 Professione: Dottorando, per il prossimo anno e mezzo. Poi non so.... Grado di Aikido: II Dan Hobbies: Leggere, ballare, pasticciare con tutto ciò che usa un siste-ma binario, ed altro ancora… Un mio pregio: Sono veloce come una lumaca artritica dopo una scorpacciata di insalata. Un mio difetto: Sono lento come una lumaca artritica dopo una scorpacciata di insalata. Segni particolari: Uno sguardo di lucida follia in presenza di cioc-colate e dolci di vario tipo….

Dicono di lui… “Quando insegna ai bambini è all’altezza della situazione… (Fabrizio) “Paolo? Cintura nera di tarantella!” (Salvatore) “Sul mio cellulare è segnato sotto la voce di Don Corleone” (Valeria) “Insegna con fermezza senza mai perdere la dolcezza” (Alessandro A.)

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Pensieri di un principiante

Combattuto per un po’ (perché do-vrei…cosa scrivere…come scriver-lo…a chi interesserebbe…), mi sono ritrovato a cedere all’istinto irrazionale di accogliere l’invito (so di chi è la colpa!) a raccontare le mie esperienze di principiante di Aikido. In fondo, questa è occasio-ne di Pratica, seppure in altra for-ma. Da pochissimo, mi sono accostato a questa disciplina, perciò, se le mie prime impressioni dovessero risultare molto distanti dal vero spi-rito dell’Arte, siano bonariamente scusate. L’Aikido. Mi capita di paragonarlo ad una finestra, dalla quale entra-no raggi luminosissimi di sole. Da fuori, filtra un nuovo profumo. Il davanzale è in alto, ma, con un po’ di sforzo, in punta di piedi o a sal-telli, posso raggiungerlo, talvolta. Allora mi appare, a tratti, un pano-rama bellissimo, sconosciuto. A prima vista, posso osservare un’Arte che insegna un sistema di difesa, mediante movimenti ele-ganti, misurati e ritmati, dotato del-la peculiarità di garantire, consa-pevolmente, il minor impatto in ter-mini di danni fisici, sia per l’aggredito che per l’aggressore. Se lo sguardo, poi, si sofferma un po’ di più sui particolari, mi accor-go che i praticanti si rivolgono gli uni agli altri con costante rispetto, al di là di ogni suddivisione basata sull’esperienza, anzianità, bravura. Questo mi fa supporre che una delle conseguenze della Pratica possa essere imparare ad accetta-re chi (e ciò) che ci circonda, a tentare di capirne i punti di vista (pur non necessariamente facen-doli nostri), di dialogare insieme, di convivere anche con le differenze e con gli eventuali fastidi (…) che da ciò possano derivare. Quando la vista riesce a farsi acu-ta e profonda e osserva lontano, scorgo negli aikidoka persone in costante ricerca e conoscenza del proprio Io. Senza altri avversari,

senza gare, senza vincitori e scon-fitti. Ognuno, in realtà, è senza al-cuna maschera davanti a sé stes-so, al suo sudore, ai suoi progressi e ai suoi fallimenti. Ognuno, se lo vuole, attingendo a tutte le ricchez-ze e le risorse che porta dentro sé, può essere e migliorare. Quale incredibile possibilità, oggi quanto mai rara e preziosa !!! …Ma, a me, nel frattempo, cosa sta succedendo ? Provo a descriverlo, ricorrendo, ine-vitabilmente, ad un elenco di aspet-ti, che, però, devono intendersi in-terrelati ed interconnessi. Innanzitutto ho più “fiato”. Ad esem-pio, mi capita mantenere regolare il ritmo della mia respirazione pur do-po diverse rampe di scale (che pri-ma mi imponevano di arrivare in sommità quasi boccheggiante). E ciò, non solo per un aumento delle capacità aerobiche, acquisito con l’allenamento atletico, ma perché… respiro meglio: le mie inspirazioni ed espirazioni si sono fatte più len-te ma più profonde! Inoltre, un minor affaticamento deri-va anche dal cercare di mantener-mi il più possibile rilassato, evitan-do contrazioni muscolari inutili, “parassite” di energia e di ossigeno. Infatti mi accorgo di essere più sciolto, non solo in termini di allun-go muscolare. Gradualmente, di-vento più consapevole dello stato del mio corpo, e, talvolta, mi capita di avvertire contrazioni muscolari involontarie (il più delle volte spalle e collo, ma anche gambe e polpac-ci), magari in occasione di momenti della giornata di particolare tensio-ne, che provvedo subito ad allenta-re. Un ulteriore fatto è il miglioramento dell’equilibrio e una maggiore atten-zione alle percezioni sensoriali, in particolare, per quanto riguarda il tatto e la vista. Ad esempio, qual-che giorno fa, la mente serena e non affollata da tumultuosi e inutili pensieri come era mio solito…, mi sono accorto di camminare, con l’impressione che i piedi affondas-

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sero in un tappeto sabbioso, su un marciapiede pavimentato da mat-tonelle sconnesse in qualche pun-to e non posate perfettamente in piano (lo ho percepito attraverso la suola delle scarpe) mentre guar-davo, tra le cime degli alberi, un colorato e frizzante panorama, in cui il giallo dell’intonaco di un edifi-cio storico si accostava al rosso del rivestimento di un palazzo vici-no, sotto un cielo azzurrissimo di primo mattino. Eppure, da sette anni percorro, quotidianamente, quella strada…Non ci avevo fatto mai caso, pri-ma. Vi è, poi, anche un miglioramento dei “riflessi”. In realtà, non è pro-prio che io sia diventato più velo-ce. Anzi, la sensazione che provo è esattamente opposta: se capita una circostanza eccezionale che richiede una mia reazione, a volte, mi sembra che sia il ritmo delle cose a rallentare, ed io mi ritrovo ad agire in tutta calma, con natura-lezza. Questo può accadere per strada, alla guida della macchina, quando, improvvisamente, sbuca da una traversa un autoveicolo oppure si apre incautamente una portiera da una vettura in sosta. C’è TUUUUUTTO il tempo di ac-corgersi dell’avvenimento, di fre-nare e/o deviare senza che nulla sia stato turbato da questo episo-dio. Anche prima, in tali circostan-ze, riuscivo ad evitare conseguen-ze dannose, ma a prezzo di un improvviso picco di attenzione e di ansia, a volte perfino con i battiti cardiaci accelerati (e senza conta-re gli eventuali improperi rivolti all’indirizzo altrui). Ma andando più a fondo, ci sono anche altri benefici. Infatti, la mia attitudine ai rapporti interpersonali risulta migliorata. Un po’ drastico e solitario introverso, inizio ad imparare l’apprezzare e il coltivare l’incontro e il confronto con le persone che mi circondano. In famiglia, con il partner, con gli amici, con i colleghi e con il capo sul lavoro, con il passante che for-

Il Praticante (si) racconta di Alessandro Alboreto

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tuitamente si trova accanto a me in un certo posto in un certo momen-to. So di avere ancora molto da fare, ma, forse, ho individuato la giusta direzione verso la quale in-dirizzarmi. Infine, risulta differente il mio at-teggiamento, in generale, di fronte alle cose e alle circostanze. Pro-g r a m m a z i o n e - R a z i o n a l i t à -Rigidezza nelle posizioni e nelle scelte potevano, in forte sintesi, descrivere i miei comportamenti. Ora qualcosa è cambiato. Sto provando, talvolta, ad affronta-re le situazioni con un’ ottica più flessibile, tentando di adattarmi e di improvvisare senza drammatiz-zare troppo se le cose prendono una piega (da me) imprevista. Sto provando, talvolta, a non pre-

tendere (dalle cose, dagli altri e da me), ma gustarmi ciò che accade. Sto provando, talvolta, ad avere il coraggio di seguire la via del cuore e di fare quello che sento di volere e non solo quello che ritengo sia “giusto”, “meglio”, “doveroso”. Quale è il risultato? Forse, sono un po’ più felice. Per questi primi passi e per quelli che potrò ancora muovere su que-sta via, colgo l’occasione per rin-graziare i miei compagni e i miei Senpai del loro costante ed insosti-tuibile aiuto, e il Maestro… Durante un giorno di Pratica, nel Dojo: …un volto sorridente mi invita ad arrampicarmi sul davanzale di quel-

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la finestra, a scavalcarlo e ad an-dare dall’altra parte. Mi lancio, al-lungando la mano che mi viene afferrata con ferma dolcezza, mi sento quasi cullato in un abbraccio materno, un senso di libertà mi pervade e, per un istante, non so-no più vincolato alla terra … Mi rialzo, riconoscente al Maestro che, poco prima, ha eseguito Irimi-nage. Ed io ero Uke… “Che fortuna averti incontrato!” – penso, guardandolo con la coda dell’occhio per non farmene accor-gere - “Chissà quando sarò capa-ce di esprimerti la mia vera stima e gratitudine, perché stai insegnan-domi a cambiare, pur essendo sempre me stesso. Anzi, ancora più di prima.” Oggi, è giorno di Pratica, nel Dojo.

RUTA DIXIT: Nelle arti marziali si inizia con ripetto e gentilezza e si conclude con rispetto e gentilezza. Nel mezzo ci si scan-na! Durante una lezione, prima del saluto finale

RUTA DIXIT: Gesù Cristo in croce disse “Minchia! Proprio a me! E meno male che sono il prediletto!”

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Spesso, nella pratica dell’aikido, si ricorre ad eseguire tecniche legate anche all’aikiken. Per questo, durante i nostri allena-menti, ci facciamo supportare dai bokken fornitici dalla palestra o personali per chi li possiede. Ma pochi sanno che quel pezzo di legno, modellato con le fattezze di una spada, racchiude in sé u-na storia affascinante…

(In giapponese, Bo significa le-gno e Ken spada. Bokken, quin-di, significa spada di legno. Ma attenzione: non è un giocattolo! Dentro quel pezzo di legno, c'è l'arte e l'esperienza dei samurai e la cultura dell'intero Paese del Sol levante.) La tradizione delle armi in legno, in Giappone, era decaduta con l'avanzare delle tecniche di fusio-ne dei metalli e la costruzione delle prime spade, in cui, presto, i maestri artigiani giapponesi e-rano diventati molto abili e raffi-nati. Fu il diffondersi delle scuole (kenjitsu ryu) che permise, al bokken, una prima importante rivalutazione. Negli allenamenti, era pericoloso impugnare una vera spada e, spesso, anche nelle simulazioni rallentate c'era il rischio di rovinare l'arma o di farsi male. L'alternativa era l'uso di una spada di legno modellata e sagomata che aveva le stesse caratteristiche di maneggevolez-za e somiglianza. Tra i vari tipi di legno, a principio, si preferì usa-re la quercia rossa e bianca, un

legno ottimale per la durezza e il peso. Furono le scuole a diffe-renziarlo sempre di più: ogni Ryu aveva i suoi metodi e i suoi stili che incidevano anche nella for-ma e nella fabbricazione dei Bokken. Nel periodo dello Shogun, le va-rie scuole di Kenjitsu verificava-no l'efficacia delle loro tecniche in veri e propri duelli con le spa-de vere (Shinken Shobu). Que-sta pratica comportava la morte del perdente o, talvolta, di en-trambi i contendenti. Furono quindi emanati editti che proibi-rono lo Shinken Shobu. Fu così che il Bokken rimpiazzò la spa-da, in questi duelli fra le varie scuole. Tuttavia, quest'arma, in apparenza non letale e priva di taglio, poteva procurare gravi fe-rite e, in alcuni casi, anche la morte. Col tempo, il bokken mi-gliorò la sua efficacia fino a di-ventare un'arma vera e propria, tanto che alcuni samurai finirono col preferirla alla vera spada. Tra questi Myamoto Muschi, noto per aver vinto più di 60 duelli, in alcuni casi, affrontò l'avversario usando il bokken anche contro armi reali. La tendenza produsse un'ulteriore irrigidimento delle leggi e anche quest'arma fu vie-

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tata ed il suo uso fu ristretto ai Kata (forme di apprendimento figurato). Nei duelli tra scuole, fu introdotta una spada fatta da strisce di bambù tenute insieme da legacci di cuoio (shinai), usata anche dal Kendo moderno, che consentiva un certo margine di incolumità. Strumento ideale per la pratica sportiva, lo shinai, tuttavia, non dà la piena sensazione di una spada vera, per cui i kata di Ken-do e la pratica delle armi in Aiki-do sono ancor oggi eseguiti con il bokken. Il praticante di oggi acquista un bokken commerciale fatto con legni comuni, ma procurarsi o fare un buon bokken è difficile. Conoscenza della tecnica, utiliz-zo di un ottimo legno, una buona levigatura e una concentrazione di tipo spirituale sono le condi-zioni indispensabili per la costru-zione di un bokken degno di questo nome. E ormai, anche in Giappone, questa antica arte vi-ve un inesorabile declino e gran parte della produzione è di tipo industriale. Comunque sia, il bokken resterà, per tutti i praticanti, la migliore arma da studio e, anche se esso è fabbricato con metodi indu-

striali, il suo spi-rito intrinseco può emergere solo dalla pas-sione e dalla determinazione del praticante che lo utilizza per allenarsi.

Storia del Bokken di Francesco Magrone e Riccardo Solito

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mani prima in gassho (dis. Il) e poi verso il basso tenendo i palmi ben chiusi finchè si riesce (dis. 12), poi allontanarle spontaneamente. A questo punto inizia la espirazione mentre le braccia si allontanano e vanno in fuori (dis. 13). 7- Esercizio per il sistema respira-torio (per aprire la parte media e alta dei polmoni). Inspirare alzando le braccia diritte in avanti finchè non raggiungono quasi l'altezza delle spalle. Esegui-re osoku chiudendo i pugni e con-temporaneamente portando l'arti-colazione scapolo-omerale all'in-dietro (dis. 14). Trattenendo sempre il respiro, "aprire il petto" portando le braccia, con un movimento secco ma ela-stico, all'indietro e contemporanea-mente piegare anche i polsi verso l'esterno e all'indietro (dis. 15). Si riportano poi le braccia sempre te-se davanti al petto (dis. 16). L'intera sequenza va eseguita con un movimento continuato e fluido per tre volte di seguito (per i bam-bini è consigliata una sola ripetizio-ne, mentre gli adulti possono arri-vare fino a cinque con un unica ritenzione del respiro). Infine si a-prono i pugni estendendo le dita in avanti e si espira riportando le braccia nella posizione di partenza ai lati del busto. 8- Esercizio per migliorare la circo-lazione sanguigna. Aprire le gambe ad una distanza pari a due volte l'ampiezza delle spalle e piegarsi leggermente in avanti immaginando di impugnare un bastone tenuto orizzontalmente sopra le ginocchia (dis. 17). Inspi-rando si riavvicinano le gambe e le mani le quali vengono richiuse a p u g n o . E s e g u i r e o s o k u " c o n t r a e n d o " c o n t e m p o-raneamente i muscoli delle gambe e delle braccia allo scopo di "pompare" il sangue verso l'hara (dis. 18). Espirando si riportano lentamente le braccia e le gambe alla posizio-

Kokyu soren di Fabrizio Ruta, disegni di Fabio Fucilli

Descriviamo una serie di esercizi di respirazione del kinorenma, chiamati "kokyu soren" che an-drebbero praticati al mattino pre-sto. Queste respirazioni apprese in India dal Maestro Nakamura Tempu, furono trasmesse al Mae-stro Hiroshi Tada quando que-st'ultimo studiò presso la sua scuola, la Tempukai. Normalmen-te vengono proposte dal nostro Direttore Didattico, durante i suoi stage all'inizio di ogni sessione di allenamento. Si inizia la sequenza partendo sempre da gassho. Si portano co-sì i piedi uniti e le mani giunte al-l'altezza del petto "prendendo il ki dell'universo con ringraziamento" così come il Maestro Tada descri-ve l'atteggiamento da tenere. 1- Esercizio per il sistema nervo-so centrale. Partire dalla posizione eretta con i talloni a contatto tra di loro e la schiena diritta. Inspirando solle-varsi sulla punta dei piedi portan-do il mento verso il petto ed e-stendendo la nuca verso l'alto. Immaginate e sentite il ki che risa-le lungo la colonna vertebrale fino all'apice della testa. Mantenendo-si sulla punta dei piedi trattenere il respiro rilassando le spalle e chiu-dendo l'ano (osoku) e contando dai 3 ai 5 tempi. Espirare tor-nando nella posizione di partenza. 2- Esercizio per il sistema nervoso periferico. Si parte sempre dalla posizione eretta con le gambe aperte ad u-na distanza pari alla larghezza delle spalle (questa è la posizione di partenza anche per tutti i suc-cessivi esercizi). Inspirare portan-do le braccia in alto e avanti poco oltre l'altezza delle spalle (dis. 2). Continuando il movimento portare i pugni chiusi vicino al petto pie-gando i gomiti (dis. 3). Alla fine di questo movimento si fa osoku e successivamente si aprono di scatto le dita delle mani partendo

dal mignolo e arrivando fino al pollice. E possibile anche aprire con forza tutte le dita contemporaneamente. Infine si lanciano le braccia verso l'alto (dis. 4) ed espirando si portano in basso e verso l'esterno (dis. 5). 3- Ibuki Dalla posizione di partenza inspi-rare e poi eseguire osoku. Duran-te l'espirazione, inviare il ki dal-l'hara in tutto il corpo verso le e-stremità mettendo una certa "pressione" (dis. 6). 4- Esercizio per il sistema respira-torio (per aumentare l'apertura degli alveoli polmonari). Inspirare "aprendo" il petto acca-rezzandolo con le mani partendo dalla linea centrale del corpo e andando verso l' esterno (dis. 7). Fare osoku e tamburellare con la punta delle dita sul petto (dis. 8). Infine espirare lanciando le brac-cia prima in alto e poi in basso e verso l' esterno. 5- Variazione dell'esercizio nu-mero 4 Rispetto all'esercizio precedente questo risulta più intenso ed asso-cia all'apertura degli alveoli pol-monari la stimolazione del siste-ma nervoso. In questo caso durante l'inspira-zione si tamburella sul petto con le dita poi, dopo aver fatto osoku, si batte, con il palmo delle mani aperte, sul petto per tre volte. Ed infine si espira sempre lanciando le braccia in alto e verso l'esterno e in basso. 6- Esercizio per il sistema respira-torio (per la mobilizzazione del diaframma e della parte bassa dei polmoni). Mettere le mani sui fianchi siste-mando i pollici al lato della colon-na vertebrale con le altre dita pun-tate verso l'alto (dis. 9). Inspiran-do far scivolare le mani verso l'al-to fino all'altezza del petto (dis. 10). Facendo osoku portare le

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aria rimasta nei polmoni. Alla suc-cessiva e spontanea inspirazione si fa seguire osoku e poi un' emis-sione sonora (kiai) che parte dal-l'hara. Il suono da emettere consi-gliato per i principianti è "ve-ei".

ne di partenza (dis. 19). Dopo questa sequenza, la cui successione non è fissa, può cioè essere modificata a seconda delle esigenze individuali, normalmente il Maestro Tada fa eseguire una respirazione di purificazione (kiyo-

me). Questa inizia con una inspi-razione cui segue una espirazione durante la quale si espira l'aria velocemente con forza e a "scatti", Alla fine dell' espirazione si esala dalla bocca con energia l'ultima

GLOSSARIO: Haku = espirare Hara = ventre Ka-tanden = baricentro dell'essere umano Ki = energia vitale Kiyome = purificazione Kokyuu = respirazione (intesa come controllo del ki) Osoku = fermare il respiro e contemporaneamente rilassare le spalle e la nuca, chiudere l'ano e concentrarsi sul ka-tanden Soren = esercizio concentrato Suu = inspirazione

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Durante il seminario di Ki-no-renma che si è tenuto, allo Shin-bu dojo, nel week end del 12-13 mar-zo 2005, il Maestro Ruta ha impo-stato l’intero lavoro sul paralleli-smo esistente tra Aikido e raja e karma yoga. In questo articolo, mi propongo di interpretare questa stretta corrispondenza, al fine di mettere in risalto il modo con cui queste due forme di yoga sono i n t r i n s e c he n e l l a p r a t i c a dell’Aikido. Il karma yoga è lo yoga dell’azione disinteressata cioè è la via di rea-lizzazione, per mezzo delle opere, senza l’attaccamento ed il deside-rio di un possibile successo. Ab-bandonando ogni atteggiamento egoistico, ogni ansiosa attesa del risultato, l’azione diventa pura. L’uomo deve portare un contributo al mondo attraverso la propria o-pera ma, allo stesso tempo, deve rinunciare all’idea del risultato e del successo. Questo vuol dire an-che distaccarsi dall’ansia provoca-ta dalla competitività, dalla brama di arrivismo, dall’ossessione del trionfo. L’Aikido può essere, quindi, consi-derato una forma di karma yoga perché si basa soprattutto sull ’azione, sul movimento, sull’uso del corpo. Inoltre, la prati-ca di quest’arte marziale contiene, intrinsecamente, il concetto di as-senza di competitività: non sono previste gare anzi vi è un continuo aiutare e sostenere chi ha meno esperienza, una costante messa in gioco, un ricorrente prendere consapevolezza dei propri errori, dei propri limiti, delle proprie debo-lezze. L’azione, in questo caso, non è un mezzo per affermare il proprio io in maniera egoistica ma diventa un momento di crescita individuale e di confronto con le altre persone: si svincola, cioè, dalla sete di successo per diventa-re una via di realizzazione più pro-fonda, una forma di meditazione in movimento. Il raja yoga, invece, è stata codifi-

cato da Patañjāli nei suoi famosi sutra in cui ha enumerato otto sta-di dello yoga nella ricerca dell’anima: 1) Yama: comandamenti morali

universali. 2) Niyama: comandamenti morali

individuali. 3) Āsana: posizione. 4) Prānāyāma: controllo ritmico

del respiro. 5) Pratyāhāra:controllo della

mente dal dominio dei sensi. 6) Dhārana: concentrazione. 7) Dhyāna: meditazione. 8) Samādhi: stato di concentra-

zione supercosciente ottenuto con profonda meditazione in cui l’aspirante individuale di-venta uno con l’oggetto della meditazione.

Spiega Iyengar, il maestro indiano di Yoga più conosciuto in Occiden-te:"Un albero ha radici, rami, fo-glie, corteccia, linfa, fiori e frutti. Ognuna di queste componenti ha una identità separata, ma ognuna di esse, da sola, non può diventa-re un albero. Lo stesso avviene con lo Yoga. Come tutte le parti, unite insieme, divengono un albe-ro, gli otto stadi messi insieme for-mano lo Yoga. I principi universali di Yama sono le radici, e le disci-pline individuali di Niyama formano il tronco. Le Asana sono come i vari rami che si allargano in diver-se direzioni. Il Pranayama che provvede ad areare il corpo con l'energia, è come le foglie che for-niscono l'aria all' intero albero. Il Pratyahara impedisce che le ener-gie dei sensi fluiscano verso l'e-sterno, proprio come la corteccia protegge l'albero dalla putrescen-za. Dharana è la linfa dell'albero e mantiene saldi la mente e l' intel-letto. Dhyana è il fiore, che matura nel frutto del Samadhi. Come il frutto è il più alto punto di sviluppo di un albero, la realizzazione del proprio IO (Atma) è il culmine della pratica dello Yoga” Yama rappresenta le discipline etiche, comandamenti della mora-

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lità nella vita individuale e sociale. Essi sono: ahimsā (non violenza), satya (verità), asteya (non rubare), brahmacharya (continenza) e apa-rigraha (non ricevere). Niyama rappresenta regole di condotta di applicazione individua-le (e non universale come yama). Tali comandamenti sono: saucha (purezza), santona (il contentarsi), tapas (austerità), svādhyāya (studio dell’Io) e Īsvara Pranidhāna (consacrazione al Signore). Āsana: Posizione che dona fer-mezza, salute e leggerezza al cor-po; una posizione ferma e piace-vole crea equilibrio mentale e pre-viene l’incostanza della mente. Prānāyāma: Estensione del respi-ro e suo controllo. Prānā significa fiato, respirazione, vita, vitalità, energia, vento. Ayāma significa espansione, lunghezza, stiramento o controllo. Tale controllo si esplica in ogni fa-se della respirazione: - pūraka (riempimento dei polmo-ni): inalazione o inspirazione; - rechaka (svuotamento dei polmo-ni): esalazione o espirazione; - kumbhaka: trattenimento o pos-sesso del respiro Kumbha è una brocca, un reci-piente per l’acqua e come tale può essere svuotato dall’aria che è al suo interno e riempito di acqua completamente oppure può essere svuotato dall’acqua e riempito completamente di aria. Esistono, quindi, due stati di kumbhaka: 1) antara kumbhaka: il respiro vie-ne sospeso dopo una profonda inspirazione; 2) bāhya kumbhaka: il respiro vie-ne trattenuto dopo una espirazione completa. La maggior parte della gente, per abitudine (cattiva), non dà la dovu-ta importanza alla respirazione, che, secondo lo yoga, ha un ruolo fondamentale per il benessere psi-cofisico e spirituale. Nel respiro, non ci limitiamo ad inspirare ossi-geno, elemento fondamentale per la vita delle cellule e il manteni-

Raja Yoga e Kinorenma di Jacqueline Gentile

"Finché c'è respiro, nel corpo, c'è vita. Quando si diparte il respiro, si diparte anche la vita. Perciò regola il respiro."

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mento della vita, ma possiamo as-sorbire il Prana, la forza vitale es-senziale presente in quantità illimi-tata nell'universo attraverso una respirazione controllata. Il nostro corpo è percorso da più di settan-tamila canali energetici, chiamati nadi nella fisiologia dello Yoga, i quali possono essere purificati ed attivati attraverso la corretta ese-cuzione delle Āsana e del Prānāyāma. I Nadi corrispondono ai Meridiani della medicina cinese, sono canali energetici che percor-rono l'intero corpo, dalla testa ai piedi. Quando assorbiamo libera-mente il Prana, ci sentiamo forti, euforici, soddisfatti e creativi; rag-giungiamo facilmente uno stato di pace e di armonia che ci sembra molto naturale e spontaneo. Quan-do i Nadi sono bloccati da contra-zioni fisiche ed ostruiti da emozioni negative, l'energia vitale non scor-re in modo sciolto e naturale ed allora saremo più inclini alla malat-tia e alla depressione. I Nadi prin-cipali sono tre: il più importante si chiama Sushumna ed è localizzato nel midollo spinale, gli altri due, Ida e Pingala, sono disposti a spi-rale ai lati dello Sushumna lungo la spina dorsale. Pingala, chiama-to il Nadi del Sole, passa attraver-so la narice destra ed esprime l'e-nergia dinamica maschile. Ida, il Nadi della luna, attraversa la nari-ce sinistra ed attiva l'energia fem-minile, più riflessiva e creativa. Con una corretta respirazione na-sale alternata, si raggiunge uno stato di pacifico equilibrio tra le forze opposte che si muovono in noi: raggiungiamo, quindi, quello che i cinesi chiamano lo stato di beatitudine del Tao in cui le qualità dello Yin (il femminile) e dello Yang (il maschile) si bilanciano mescolandosi con amore. La durata della vita di uno yogi non viene misurata con il numero dei suoi giorni ma con quello dei suoi respiri per cui egli segue i giu-sti modelli ritmici della respirazione lenta e profonda che rafforzano il sistema respiratorio, calmano il sistema nervoso e riducono la bra-mosia. Man mano che i desideri diminuiscono, la mente si libera e diventa un mezzo adatto alla con-centrazione. Pratyāhāra: Effettuando un con-

trollo ritmico sul respiro, i sensi, invece di correre dietro agli oggetti esterni del desiderio, si introverto-no e l’uomo si libera dalla loro ti-rannia. Questa fase dello Yoga, letteralmente il "distacco", aiuta a portare le funzioni dei sensi sotto il controllo della coscienza vigile. Lo yogi impara a ritrarre i sensi all'in-terno, si allontana dagli oggetti e-sterni ed esercita così un distacco cosciente e volontario dalla realtà esterna che spesso è causa di di-strazione e confusione mentale. Questa fase apre la via all'espe-r i e n z a i n t e r i o r e . Dhāranā: Forgiato il corpo con la pratica delle āsanas, purificata la mente dal fuoco di prānāyāma e portati, con pratyāhāra, i sensi sot-to controllo, viene raggiunto lo sta-to di assoluta concentrazione. Dharana è la concentrazione, che significa mettere la propria atten-zione cosciente su un solo punto, una persona, un oggetto o un fat-to. Senza la padronanza totale di Dharana, non si può praticare cor-rettamente la meditazione e di conseguenza raggiungere l'illumi-nazione che è l'obiettivo finale del-lo Yoga. La concentrazione aiuta ad allentare la tensione emoziona-le e dissipa le nebbie che spesso avvolgono le nostre capacità men-tali. Dhyāna: Come l’acqua assume la forma del recipiente che la contie-ne, la mente, quando contempla un oggetto, si trasmuta nella forma di tale oggetto. Quando il flusso della concentrazione è continuo, nasce lo stato di dhyāna (meditazione). Dhyāna è la medi-tazione, ed è l'anticamera dell'illu-minazione, dell'estasi e della felici-tà. Samādhi: Compimento della ricer-ca, culmine della meditazione. Corpo e sensi sono in stato di ripo-so, mente e ragione vigili. La per-sona in stato di samādhi è conscia e vigile. E' uno stato supercoscien-te di illuminazione dello spirito, u-na situazione di pura estasi in cui l'essere individuale raggiunge l'es-senza dell'Amore Eterno Incondi-zionato; in questo stato di beatitu-dine, il vero IO percepisce la sua identità originale, che non ha né inizio né fine, ed il suo eterno lega-me con lo Spirito Cosmico. Pata-

ñjāli, il grande maestro spirituale dell'India antica, spiega che la causa primaria della sofferenza che affligge gli uomini è l'ignoran-za della propria natura spirituale. La consapevolezza della propria identità rimuove il velo illusorio (Maya) che offusca la nostra visio-ne e sradica progressivamente il dolore dal nostro essere. Noi non siamo esseri umani che devono sforzarsi di avere saltuariamente delle esperienze spirituali. E' vero esattamente il contrario: siamo es-seri spirituali eterni e stiamo viven-do, in questo momento, una mera-vigliosa esperienza umana sul pia-neta Terra. La paura e l'ansietà impediscono l'illuminazione del Samādhi. Queste due emozioni, che generalmente vengono consi-derate negative, hanno una loro funzione naturale: sono due spie a luce rossa che ci segnalano che qualcosa non funziona bene nel nostro campo energetico. La pau-ra rivela che la nostra capacità di amare si è abbassata. Nell’Aikido, è possibile ritrovare gli stessi anga: Yama e Niyama sono concetti che dovrebbero essere intriseci, nella natura di ogni individuo, anche se la realtà quotidiana, il condiziona-mento del progresso, le dinamiche interpersonali ci portano spesso a trasgredirle. La violenza, la paura, l’irrequietezza, la debolezza, la collera avviliscono la mente, con-ducono ad una eccessiva esalta-zione del proprio io, ad un pro-gressivo districarsi dagli altri esseri viventi con cui siamo, invece, per natura, strettamente interconnessi, portano ad un allontanamento dal-la verità, lasciano il posto alle menzogne, alla mancanza di fidu-cia. Queste pericolose direzioni che l’animo umano può intrapren-dere si riflettono negativamente nella esecuzione delle tecniche: per praticare serenamente l’aikido, sono necessarie trasparenza, fidu-cia nel prossimo, rilassamento, stabilità, energia. Queste peculia-rità diventano irraggiungibili in uno stato di perenne allerta, di costan-te paura di tradirsi, di mostrare le debolezze, di rifiuto della discipli-na. In ogni momento di meditazio-ne, la mente sarebbe facile preda di pensieri caotici e disordinati, di

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preoccupazioni, di stati d’animo contraddittori. Āsana: corrispondono, nell’Aikido, all’aikitaiso cioè alla ginnastica che serve a riscaldare il corpo, a ren-derlo forte, tonico ed elastico e pronto per una pratica rilassata, consapevole e centrata. Una sem-plice ginnastica determina il mi-glioramento della circolazione san-guigna, della capacità respiratoria, l’eliminazione di molte tensioni, il riequilibrio della struttura scheletri-ca e muscolare, una maggiore flessibilità, armonia e coordinazio-ne. Prānāyāma: trova il suo immedia-to riscontro nelle tecniche di respi-razione (kokyu-ho), durante le quali, è essenziale trovare e man-tenere il giusto ritmo che è diverso per ogni individuo. Durante l’esecuzione del kokyu-ho, è possibile associare una serie di suoni pronunciando una vocale, durante la fase di espirazione, op-pure vocalizzando le cinque vocali nella sequenza: A-I-U-E-O-M. Al risveglio, è consigliabile esegui-re una serie di esercizi di respira-zione che vanno sotto il nome di kokyu-soren di cui troverete spie-gazione alle pagine 13-14 di que-sto numero dello Shinbunews. Sono, inoltre, fondamentali le tec-niche di circolazione del ki che si eseguono durante il kokyu-ho vi-sualizzando un particolare percor-

so del ki e cercando di “sentire” realmente la sua circolazione per-cependolo come calore, vibrazio-ne, suono, luce etc. Pratyāhāra: consiste nella capaci-tà di recepire tutti gli stimoli senso-riali senza farsi condizionare o in-fluenzare o, meglio, di avvertire rumori, odori, senza formulare im-pressioni e giudizi in merito. Que-sto si riflette nella pratica dell’Aikido in quanto, durante le tecniche, è necessario percepire con chiarezza gli stimoli sensoriali dell’ambiente che ci circonda sen-za che la mente intervenga con una risposta difensiva. Ad esem-pio, nel momento in cui il partner ci afferra, è necessario prendere atto di ciò senza irrigidire i muscoli o, quando si riceve un attacco, non bisogna decidere preventivamente quali tecniche di difesa sarebbero più efficaci. Dhāranā: concentrazione che si sviluppa naturalmente durante la pratica. Per sviluppare tale concentrazio-ne, è possibile camminare per strada fissando un punto lontano senza farsi distrarre dal contesto circostante (è un buon allenamen-to anche per metsuke), oppure mettere la propria attenzione sul contatto della pianta dei piedi sul pavimento mentre si cammina op-pure, durante l’esecuzione di tec-niche, essere coscienti di ogni sin-

golo aspetto come la propria po-stura, il proprio ritmo respiratorio, etc. Dhyāna: meditazione che va alle-nata separatamente, mediante tecniche particolari, allo scopo di mantenere una condizione di “vuoto mentale” (anjodaza) duran-te l’esecuzione di movimenti e di tecniche. All’allenamento del cor-po, è fondamentale affiancare an-che l’allenamento dello spirito mi-rando ad andare oltre le sensazio-ni, oltre i pensieri, oltre i sentimenti allo scopo di far emergere il nostro “Se” più profondo. Secondo il Maestro Tada, biso-gnerebbe praticare continuamente in uno stato meditativo realizzando l’aikido come forma di moving zen mantenendo l’anjodaza come con-dizione della mente facendo entra-re uke nella nostra corrente di ki. “Tori è il padrone di casa che per-mette ad uke di entrare nel suo giardino come semplice ospite.” ( H. Tada) Samādhi: non rappresenta qual-cosa di raggiungibile mediante specifiche tecniche ma, piuttosto, rappresenta il coronamento di tutti gli sforzi compiuti nella pratica dei primi sette gradini o anga.

Riferimenti bibliografici: - “Teoria e pratica dello yoga”; B.K.S. Iyengar Ed. Mediterranee - “Meditare per guarire” ; F. Ruta-R.Tursi Ed.Hermes - “L’albero dello yoga”; B.K.S. Iyengar Ed. Astrolabio - Altri scritti di Fabrizio Ruta

RUTA DIXIT: Qualcuno ha messo in giro la voce che gli uomini calvi sono più vigorosi...Non è vero!

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La nascita dell’analisi bioenergeti-ca Nel 1940, Lowen ebbe l’occasione di ascoltare Wilhelm Reich alla New School for Social Research di New York e questo incontro cam-biò la sua vita. Il corso di Reich era dedicato alla comprensione dell’antitesi e dell’identità tra pro-cessi psichici e somatici. L’antitesi tra questi due aspetti era cosa no-ta; invece la loro identità, almeno nel mondo occidentale, non inco-minciò a venire compresa fino a quando Reich non la affrontò e la riformulò in termini clinici, vale a dire sulla persona viva. Per far questo, modificò in termini molto più concreti il concetto di energia (la libido) del pensiero analitico. Reich sosteneva che l’essere u-mano è una unità psico-somatica, che esiste una energia (che più tardi Lowen chiamerà “vitale”) e che questa energia può venire “bloccata” difensivamente creando una sorta di struttura: questa strut-tura costituisce il carattere dell’individuo. Per Reich, infine, il carattere può venire compreso sia nelle modalità con cui insorge sia nelle modalità con cui imprigiona l’individuo. Il carattere denota un modello ripetitivo di comportamen-to, un ripetersi di emozioni e di pensieri (meglio, di “modi di pen-sare”). Il carattere, in una parola, è responsabile delle nostre stereoti-pie. Ma il carattere, con questa unicità fortemente strutturata, ci fornisce anche una identità, ci sug-gerisce scopi nella vita e ci dà cer-to un senso di sicurezza. E’ un meccanismo di sopravvivenza e per questo, anche se è responsa-bile di molte sofferenze, resiste al cambiamento. La terapia, come la considerava Reich, contemplava la resa ai “processi involontari” del corpo, rappresentati essenzialmente da una respirazione spontanea e pro-fonda. L’incitamento di Reich era: “Non farlo, lascia che avvenga”, ammonimento che richiama da vicino alcuni insegnamenti dei ma-estri orientali, come i taoisti. Le

innovazione che Lowen apporta alle intuizioni di Reich hanno a che fare con diversi aspetti teorici, tec-nici e probabilmente ideologici, ma, forse, la principale di queste innovazioni riguarda il cosiddetto grounding (radicamento a terra): il paziente viene portato dal terapi-sta a scoprire quanto egli viva “con i piedi per terra”, nel senso reale dell’espressione e come questa mancanza di “messa a terra”, in senso energetico, agisca negativa-mente su molti fattori che vanno dalla sessualità allo stesso funzio-namento del pensiero. Per Lowen, diventa importante portare il pa-ziente a muoversi, a scalciare, a gridare, a vivere concretamente le paure, la rabbia; diventa importan-te insegnargli come può arrivare a dire “no” e ad asserire la propria personalità. Tutto ciò per poter sperimentare il piacere. Per Lowen, il pianto è il primo meccanismo di liberazione, po-tremmo dire di “scarcerazione” del corpo umano: dissolve la tensione, che in questo modo “si scioglie in lacrime”. Il pianto è anche un ar-rendersi al corpo e un permettere al processo di guarigione di instau-rarsi. Molti esseri umani “si conce-dono” di piangere con moderazio-ne, ma un pianto profondo è per molti un evento fortemente temuto: spaventa perché mette in contatto con la disperazione e con il desi-derio di morire. D’altro canto, se un individuo riesce a piangere smuovendo questo livello profon-do, scopre di provare un sollievo che lo porta a sperimentare la gioia. La bioenergetica è un modo di comprendere la personalità nei termini dei suoi processi energeti-ci. Questi processi, cioè la produ-zione di energia attraverso la re-spirazione e il metabolismo e la scarica di energia nel movimento, sono le funzioni basilari della vita. La quantità di energia di cui si di-spone e l’uso che se ne fa deter-minano il modo in cui si risponde alle situazioni della vita. Ovvia-mente, le si affronta con più effica-

cia se si dispone di più energia da tradurre liberamente nel movimen-to e nell’espressione. Una tesi fondamentale della bioe-nergetica è che, dal punto di vista funzionale, il corpo e la mente so-no identici: quello che succede nella mente riflette quello che suc-cede nel corpo e viceversa. La mente e il corpo si possono in-fluenzare reciprocamente: ciò che si pensa può influenzare il modo in cui si sente e il contrario è ugual-mente vero. Questa interazione, tuttavia, è limitata agli aspetti con-sci o superficiali della personalità. A un livello più profondo, cioè al livello dell’inconscio, il pensare e il sentire sono condizionati da fattori energetici. Per esempio, è quasi impossibile per una persona de-pressa emergere dalla sua de-pressione con l’ausilio di pensieri ottimisti. Questo perché il suo livel-lo di energia è depresso. Quando il livello energetico aumenta trami-te la respirazione profonda (anche la respirazione era depressa come tutte le altre funzioni vitali) e la li-berazione del sentire, allora la per-sona esce dal suo stato depressi-vo. I processi energetici del corpo sono in relazione con lo stato di vitalità del corpo. Più si è vivi, più si ha energia e viceversa. La rigidi-tà o la tensione cronica diminui-scono la vitalità e abbassano l’energia. Alla nascita, un organi-smo è nel suo stato più vivo e flui-do; alla morte la rigidità è totale, si ha il “rigor mortis”. Ciò che possia-mo evitare è la rigidità dovuta alle tensioni muscolari croniche risul-tanti da conflitti emotivi irrisolti. Ogni stress produce uno stato di tensione nel corpo. Normalmente la tensione scompare quando lo stress è eliminato. Le tensioni cro-niche, tuttavia, persistono, come atteggiamento corporeo o assetto muscolare inconsci, anche dopo la scomparsa dello stress che le ha provocate. Simili tensioni muscola-ri croniche disturbano la salute e-motiva abbassando l’energia di un individuo, limitandone la motilità (il naturale e spontaneo gioco e mo-

Bioenergetica Terza puntata: Lowen e l’analisi bioenergetica

di Maria Martinelli

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vimento della muscolatura) e l’autoespressione. Secondo Lowen, tutta la storia di una persona è “strutturata” sul suo corpo: ogni emozione e aspetto del carattere, cioè, si addensano ne l la s t ru t t u ra musco la re dell’individuo e ne determinano la postura e l’aspetto. Per questo motivo, le sofferenze psicologiche causano il più delle volte disagi fisici come tensioni muscolari, posture scorrette e tal-volta addirittura vere deformazioni. Per rimuovere questa corazza ca-ratteriale e i blocchi che impedi-scono un flusso energetico vitale continuo, Lowen propone esercizi basati sul movimento, sulla respi-razione e sul grounding, cioè la riconnessione col nostro contatto primario costituito dai piedi che poggiano sulla terra. Lowen parte dal presupposto di una unità che coinvolge l’intero organismo, il quale funziona, ap-punto, come un tutto unico: ogni disturbo coinvolge l’intera persona e perciò non sussiste la distinzione tra malattia fisica e mentale, tra dolore fisico e mentale. Se una persona ha una malattia di cuore, la persona è malata, non solo il cuore. Allo stesso modo, se una persona soffre di ansia, de-pressione, fobia o compulsione, il corpo ne viene coinvolto così co-me la mente. Un trauma fisico coinvolge la psiche così come un trauma psichico coinvolge il corpo. Il dolore del desiderio ardente in-soddisfatto che un bambino prova nei confronti della madre non è soltanto un dolore mentale, è strut-turato fisicamente nella tensione e costrizione della gola e della boc-ca tramite le quali quel desiderio sarebbe espresso in pianto o nel protendersi per succhiare o bacia-re. La presenza di questa tensione e di questa costrizione è la prova del trauma primario e della sua persistenza nel presente. Parlare di unità significa affermare che l’intero corpo è coinvolto nel trauma. Il desiderio insoddisfatto del bambino disturba la sua respi-razione, il suo senso di sicurezza nelle gambe e il suo senso di fidu-cia in se stesso. Ogni trauma di-sturba i movimenti di pulsazione di base del corpo, vale a dire le com-

plessive espansioni e contrazioni dell’organismo (che, a questo livel-lo, funziona come una cellula sin-gola) e i movimenti ondulatori lon-gitudinali che fluiscono in su e in giù lungo il corpo. La pulsazione è una qualità di ogni cellula del corpo. Quando la pulsa-zione è forte, la vita è forte. Alla morte, cessa tutta l’attività pulsato-ria. Quando la pulsazione è piena e libera, la persona sperimenta, una sensazione di gioia e di piace-re nel corpo; qualsiasi disturbo di questi naturali movimenti pulsatori causa una perdita di sensazioni piacevoli e, se intenso, produce dolore. La qualità della pulsazione nel corpo si manifesta al massimo nella respirazione, che combina i movimenti di espansione e di con-trazione con quelli dell’onda longi-tudinale. Il respiro non è limitato ai polmoni; al contrario, tutto il corpo partecipa ai movimenti respiratori. Il respiro è accompagnato da un’onda che inizia in profondità nella pelvi e si muove in su verso la bocca. Durante la espirazione, l’onda si muove al contrario. Dato che il re-spiro è disturbato in presenza di tutti i casi di problemi emozionali o nevrotici, si può determinare l’esistenza di questi problemi dalla natura del disturbo respiratorio. Quando si va risolvendo il proble-ma del paziente, il respiro diventa completamente libero e il proble-ma scompare. Il modo in cui ci si siede, si sta in piedi, si respira e ci si muove: tutto ciò è in grado di rivelare problemi e conflitti. C’è sempre accordo tra quello che rivela il corpo e quello che dice il paziente (se questo non accade, la verità è sempre quella espressa dal corpo). Così, se una persona si lamenta di essere depressa, quella lagnanza può essere messa in relazione al livello di funziona-mento energetico, che in quella persona sarà depresso. Se il re-spiro è superficiale, vuol dire che l’espressione dei sentimenti è ini-bita. A colui che si lamenta di pro-blemi sessuali, può essere dimo-strato che ha gravi tensioni nella pelvi, il che riduce la potenza ses-suale. Ogni contrattura blocca un flusso di eccitazione o all’insù fin

dentro la testa e gli occhi o all’ingiù fin dentro la pelvi, i genitali e le gambe. In questi blocchi, tro-viamo sempre dolore. Da un certo punto di vista, il trattenimento o la contrazione sono manovre per al-leviare il dolore, il dolore di una ferita o di una umiliazione o il do-lore di una perdita o di una frustra-zione. La contrazione diminuisce il dolore riducendo la sensazione e rendendo la persona insensibile: si rende la parte insensibile. Rila-sciare ciò che si trattiene è dappri-ma sperimentato, perciò, come doloroso. Il passaggio di una forza energetica (sangue) attraverso un’area compressa è doloroso. Nessuno può raggiungere alcun cambiamento caratteriale significa-tivo senza sperimentare il dolore del cambiamento. Secondo Lowen, 1) qualsiasi limitazione della moti-

lità è sia il risultato sia la causa di difficoltà emozionali. I limiti si creano in quanto esiti di conflitti infantili irrisolti, ma la persisten-za della tensione crea nel pre-sente difficoltà emozionali che si scontrano con le richieste della realtà adulta. Ogni rigidità fisica interferisce con la vita e-motiva e impedisce una rispo-sta unitaria alle situazioni;

2) qualsiasi restrizione della respi-razione naturale è sia il risultato sia la causa dell’ansia. L’ansia nelle situazioni infantili disturba la respirazione naturale. Se la situazione che produce l’ansia persiste ed è prolungata, il di-sturbo della respirazione si struttura in tensioni toraciche e addominali. L’incapacità di re-spirare liberamente sotto stress emozionale è la base fisiologi-ca dell’esperienza di ansia in tali situazioni stressanti. L’unità e la coordinazione delle rispo-ste fisiche dipende dalla inte-grazione dei movimenti respira-tori con i movimenti aggressivi del corpo, al punto che, quando la respirazione e la motilità so-no liberate dalle restrizioni e dalle tensioni croniche, il fun-zionamento fisico della persona migliorerà. A quel punto, il con-tatto con la realtà a livello fisico si espanderà e si approfondirà, ma ciò accadrà soltanto a con-

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dizione che vi sia un migliora-mento concomitante e corri-spondente della comprensione della realtà da parte del pazien-te, sia sul piano psichico sia su quello interpersonale. La nega-zione del corpo è un rifiuto del bisogno di amore e questa ne-gazione viene usata per evitare di essere feriti e disillusi.

Poiché il corpo è la base di tutte le funzioni di realtà, qualsiasi accre-scimento del contatto di una per-sona con il corpo produrrà un mi-g l i o r a m e n t o s i g n i f i c a t i v o dell’immagine di sé (immagine cor-porea), nelle relazioni interperso-nali, nella qualità del pensare e del sentire e nella gioia di vivere. Con questa comprensione energe-tica, si procede a interpretare il trattenersi o il contrarsi in termini di sentimenti soppressi. Poiché il sentire è stato soppres-so, l’individuo non ne è consape-

vole. Ad ogni modo, la natura del trattenimento (linguaggio del cor-po) ne identificherà il sentimento. Generalmente la sensazione può essere portata alla coscienza atti-vando il movimento espressivo. Per esempio, una mascella che viene rigidamente trattenuta da muscoli tesi, può trattenere impulsi a mordere. Far mordere un asciu-gamano a qualcuno può attivare questi impulsi, cosicché il deside-rio soppresso di mordere diventa conscio. Una gola rigidamente contratta inibisce l’espressione del pianto o le urla, ma la persona può non es-sere conscia di questa inibizione fino a quando non cerca di piange-re o urlare. Spalle rigide possono bloccare impulsi a colpire con rab-bia. Spesso far sì che la persona colpisca il letto con i pugni evoca una sensazione di rabbia. Allo stesso modo, si può identificare in

un individuo la mancanza di ag-gressività sessuale dalla immobili-tà della pelvi. Ciascun corpo ha una espressione unica, che rivela la personalità e il carattere dell’individuo. La struttura del carattere può es-sere fatta rientrare, in una certa misura e per facilitare la compren-sione, in una tipologia; ognuno è un individuo molto specifico, ed è quella specificità che si deve capi-re dalla lettura del corpo. Le parti hanno senso rapportate al tutto, ma il tutto non può essere determi-nato dalle parti.

(Continua…)

RUTA DIXIT: Per imparare a chiudere il perineo, durante la minzio-ne provate a fare: pisc-stop, pisc-stop, pisc-stop…. Durante un seminario di kinorenma

Maria Martinelli DIXIT: Fabrizio, mi fai vedere come riesci a farlo alzare? Durante l’allenamento pre-esame? Mah!

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TENGU di Roberto Vinciguerra

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Storie Zen a cura di Vincenza Patruno

Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino. Il suo insegnante aveva una preziosa taz-za da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo i passi dell’insegnante, nascose i cocci della tazza dietro la schiena. Quando comparve il maestro, Ikkyu gli domandò: "Perché le gente deve morire?" "Questo è naturale" spiegò il vecchio. "Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è destinato." Ikkyu, mostrando la tazza rotta, disse: "Per la tua tazza era venuto il tempo di morire".

RUTA DIXIT: Marianna non è molto diplomatica ma è molto efficien-te. MARIANNA DIXIT: Fabrizio è fatto vecchio: si vede e si sente

“Maestro Nano” disse Chu “perché quando tutti trovano refrigerio e diletto andando in spiaggia, tu ti i-soli sul monte Krabamubra-no-suburi?”. “Perché se mi girano le palle mi va la sabbia negli occhi.” rispose il Maestro Nano.

Il Koan del Maestro Nano di Gennaro Takeda

In un normale giorno di pratica allo Shin Bu si poteva assaporare il gradevole odore dell’incenso spargersi per tutto il dojo….

Qualcuno allora chiese “ma cos’è...hanno acceso l’incenso?”

E Salvatore, guardandolo dolcemente negli occhi, rispose “no...sono io che ho mangiato fave…”

Successe al dojo...

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Per non dimenticare... di Maurizia Sforza

Un tuffo dal molo insieme agli amici, il fondale troppo basso, la botta alla nuca, il tentativo di risalire, ma, il brevetto di istruttore di nuoto, in certi casi, serve a ben poco. All’amico che lo aveva soccorso, più tardi, comunicheranno la diagnosi: paralisi dal collo in giù che, però, non dice nulla di nuovo perché lui, Miky; questo l’aveva già capito: “Non sento più le gambe” erano state le sue prime parole. Da allora, sono passati alcuni mesi e qualcosa è cambiato: una costosa clinica straniera, l’aiuto di tante persone, i polmoni che respirano da sé, le braccia che si muovono, le gambe no però ora sentono gli sti-moli. Forse, anche in Italia, si potrà fare qualcosa. Michelangelo Romito è stato trasferito al Centro di riabilitazione di Imola, il 1° marzo 2005. Se volete dare una mano a lui ed alla sua famiglia, mandate un contributo al CCP: C.C. 01055300 ABI 05424 CAB 04010 INTESTATO A PASQUALE ROMITO

C/O "BANCA POPOLARE DI BARI" CAUSALE: "PERCHÉ MICHELANGELO POSSA CORRERE ANCORA" Per molti di voi sarà solo un’opera di bene ma, sapete una cosa? Io, Michelangelo lo conosco: per me è uno degli “amici del dojo” perché è qui che l’ho conosciuto. Buon keiko e … non perdete l’entusiasmo!

Inferno e Paradiso tratto da "Il Drago non vive più qui" di Alan Cohen

C'è una storia di un uomo che lasciò questa terra e prese parte a un viaggio all'interno del regno dei cieli. Gli venne mostrata una stanza dove vide un gruppo di persone affamate che si apprestavano a consumare una cena, ma, poichè i cucchiai con cui cercavano di mangiare erano più lunghi delle loro braccia, essi rimane-vano frustrati ed affamati. "Questo," gli disse la Guida, "è l'Inferno." "È terribile!" esclamò l'uomo. "Per favore fammi vedere il Paradiso!" "Molto bene," concordò la Guida e si incamminarono. Aperta la porta del paradiso, l'uomo fu perplesso nel vedere quella che sembrava la stessa scena: c'erano un gruppo di persone con i cucchiai più lunghi delle loro braccia. Tuttavia, guardando più da vicino, vide facce felici e pance piene. Con una differenza importante: la gente in Paradiso aveva imparato a imboccarsi l'un con l'altro.

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Preliminari di rito: Prima di mangiare i commensali ricevono gli oshibori, piccoli asciugamani inu-miditi che fungono sia da lavamani che da tovaglioli. Vengono serviti caldi in inverno e freschi d'e-state. Itadakimasu: equivale al nostro "buon appettito" Kanpai: equivale al nostro "cin cin" Gochisosama: si dice alla fine del pasto e significa "il pasto era delizioso e nutriente" L'uso delle bacchette (HASHI): È cattiva educazione conficcare verticalmente le bacchette nella ciotola del riso. Le bacchette giapponesi sono più piccole e sottili di quelle cinesi, sono presenti ad ogni pasto e vengono adoperate per quasi tutti i cibi; quando non si usano bisogna appoggiarle sul-l'apposito sostegno (hashioki) o adagiarle sulla ciotola più bassa. Non si prende in modo più assoluto un piatto mentre in mano si hanno le bacchette. E' maleducazione usarle per indicare qualcuno o qualcosa. Per servirsi da un piatto di portata si devono girare e usare dalla parte che non si è porta-to alla bocca. Porta sfortuna incrociare le bacchette ed è maleducazione appoggiarle sul tavolo. Bevande: tradizionalmente durante il pasto si beve solo il brodo; bere il tè mentre si mangia è un'usanza di origine cinese. Zuppe: si bevono direttamente dalle ciotole in cui sono servite mentre gli ingredienti solidi che ne fanno parte devono essere presi con le bacchette. Tradizionalmente durante il pasto si beve solo il brodo; bere il tè mentre si mangia è un'usanza di origine cinese. I giapponesi non vuotano mai il bicchiere, ma lo riempiono dopo ogni sorso. Se per caso decidono di non bere più allora lo vuotano e lo capovolgono. È molto scortese versarsi da bere a tavola; sono i vostri commensali che riempiran-no il vostro bicchiere, e voi lo riempirete a loro qualora sia vuoto. Noodles: per mangiarli non si deve essere inibiti. Devono essere gustati bollenti direttamente dal brodo e quindi rissucchiati rapidamente aspirando contemporaneamente aria per fraffreddarli. Se mangiati correttamente si emette un forte rumore, così come per bere il rimanente brodo. Questo "rumore", sgradevole a noi occidentali, è invece gradito ai giapponesi perchè significa che la pietan-za è molto gustosa. Ciotola: può essere portata tranquillamente all'altezza del petto Sake: mai con la sinistra. Il padrone di casa, prima dei pasto, serve il sake (vino di riso) ai com-mensali, ma non deve mai servirsene. Sarà un ospite a provvedere. Non si deve mai bere il sakè con la mano sinistra, perché è considerato un segno di maleducazione. Mai riempire il piatto: Le porzioni che vengono servite in una "tavola giapponese" sono solitamen-te molto scarse. È sconveniente rivelare agli altri commensali che si ha farne, si può ovviare con una serie di bis, ma è da maleducati riempirsi il piatto. L'ordine delle portate: Tutte le portate vengono servite contemporaneamente, in quanto non esi-ste la divisione occidentale in primi piatti, antipasti ecc. Di solito si inizia il pasto bevendo il brodo e successivamente si mangiano i cibi via via più saporiti, partendo dal riso bianco. A fine pasto: Alla fine del pasto solitamente i giapponesi emettono un enorme sospiro, come di sol-lievo, che serve a far capire a chi li ha invitati che hanno molto gradito il pasto. Un errore imperdonabile: E' assolutamente disdicevole soffiare il naso a tavola: i giapponesi lo considerano un atto così disgustoso che, se fatto al ristorante, può spingerli a uscire.

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Cucina giapponese: comportamento da tenere a tavola a cura di Gaetano Nevola

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Serata in pizzeria

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L’estate marcia, i piedi marciscono…

Visto l’avvicinarsi dell’estate, vi alletiamo con questo revival tratto da “L’Eco dello Shin Bu” maggio 1999. Quanti di voi lo ricordano?

Un acuto lettore ci invia la seguente lettera: "Caro Eco, complimenti. Siete bravissimi e sicura-mente bellissimi. Durante quale periodo dell'anno i piedi di uno shinbuista emanano la fragranza più persistente? Esiste in commercio un profumo che riproduca tale fragranza?". Caro lettore, la dottrina si dibatte. Alcune scuole di pensiero vogliono che durante l'inverno la commistione di scarpe pesanti e calzettoni di lana produca un aroma fruttato più marcato di quello estivo. Ma non si può certo negare che una passeggiata di due chilometri con sandalo ci restitui-sca quello che la scuola di Oxford chiama "aikidoist's french cheese flavour". Non possiamo quin-di dare una risposta certa, ma un comitato scientifico è in arrivo allo Shin Bu per effettuare accu-rate misurazioni ed analisi. Quindi non lavatevi, mi raccomando!

RUTA DIXIT: Io Dionino lo conosco bene: con lui ho dormito...ci ho fatto di tutto! Il maestro si confida

Ed ora...il contributo di una simpatizzante…

Fiori di Bach di Maria Chirico

I rimedi scoperti sessant'anni fa dal dottor Edward Bach stanno ottenendo sempre più successo , tra chi li usa, grazie alla semplicità con cui si individuano i disturbi e si somministrano i rimedi. Il dottor Bach che convinto che la salute di ognuno di noi dipendesse dal nostro modo di pensare, dai nostri sentimenti e dalle nostre emozioni. Obiettivo del dottor Bach era "curare il paziente e non la sua malattia", perchè una volta superati i pensieri negativi anche l'organismo si sarebbe ripreso. Così si rivolse alla natura ed ai fiori, perchè è proprio dalla natura che si estrae la forza vitale che ci aiuta ad uscire dallo sconforto. Riuscì a scoprire 38 fiori per combattere 38 stadi d'animo negativi in cui l'uomo può trovarsi e che so-no all'origine di ogni malattia. Li divise in 7 gruppi: quelli per la paura, l'incertezza, la solitudine, l'iper-sensibilità, l'apatia, lo scoraggiamento o la disperazione, la cura eccessiva per il benessere degli altri. I 38 rimedi costituiscono un sistema terapeutico completo e ogni pianta è stata scelta per la sua pro-prietà principale: la capacità di curare la mente. Alcuni potrebbero affermare che hanno un effetto placebo. Ma viene smentito dall'efficacia dei rimedi sui bambini anche di pochi anni, su animali o piante. Nonché su soggetti dal temperamento irritabile o in preda all'ira, che non sono sensibili all'auto suggestione.

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Facile a dire; difficile a fare

Allenatevi a porre la mente in armonia con l'attività dell'Universo.

Allenatevi a porre il corpo in armonia con il moto dell'Universo.

Allenatevi a porre il KI, che lega mente e corpo, in armonia con l'opera dell'Universo.

Questi tre tipi di allenamento devono essere realizzati allo stesso tempo al fine di

comprendere la realtà dell'Universo, dare gioia alla mente e salute al corpo.

Perché la mente possa essere in accordo con lo spirito dell'Universo le parole, che

sono espressione della mente, devono essere in armonia con il moto dell'Universo

ed è così che "le parole si uniscono a Dio".

Per far sì che le parole siano unite ai fenomeni della natura, i movimenti del corpo

devono essere in armonia con le parole.

Mi sono allenato nelle arti marziali per molti anni ed, alla fine, ho scoperto il segreto

del KI. Ho scoperto che mente, corpo e KI devono essere "uno" in completa armonia

con l'Universo.

Quando il KI è usato correttamente, la mente ed il corpo divengono una cosa sola ed

anche l'individuo e l'Universo si fondono in unità.

Se il KI è usato in modo scorretto, la mente ed il corpo si ammaleranno e, di conse-

guenza, il mondo cadrà nel disordine spingendo l'intero Universo nel caos.

Allenatevi, quindi, duramente per mantenere mente, corpo e KI in buona armonia

con lo spirito dell'Universo.

Praticare l'Aikido è effettuare insieme questi tre allenamenti.

L'Aikido è la via verso la verità della vita. Facile a dire però difficile a fare.

Voi però, non dovete teorizzare, ma solo praticare.

I Pensieri di O’ Sensei a cura di Gaetano Nevola

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L'Aikido indica una via

L'Aikido indica una via per guidare il mondo a divenire unito come una sola famiglia.

Si conforma allo scopo divino di costruire il paradiso sulla terra.

L'unità del mondo deriva dall'unità di ciascuna Nazione e questa, a sua volta, dipende

dalla coesione di ogni famiglia.

Come parte dell'Universo e come membro di una famiglia, ciascuno dovrebbe compiere

il proprio dovere per l'unione del mondo.

Per prima cosa, però, ciascuno deve allenarsi per essere in grado di perseguire questo

scopo.

Senza perfezionare il proprio allenamento è impossibile servire Dio.

Ogni creatura sulla terra persegue una sua propria via: si tratti pure di un animale o di

una pianta, la sua via non dovrebbe essere ostacolata.

Questa è la legge della Natura.

Obbedire alle leggi della Natura ed a Dio, rispettare gli altri e se stesso, questo è lo

spirito dell'Aikido.

L'uomo e l'Universo sono un tutto unico.

Senza comprendere questo non si può comprendere l'Aikido perché l'Aikido è formato da

ogni palpito del moto dell'Universo.

Quando vi sarete resi padroni dell'Aikido, sarete incapaci di fare il male anche se lo

desideraste.

Inoltre non potrete più albergare in voi sentimenti malvagi perché non avrete più desideri

mondani.

Però dovrete mantenere ben ferma la vostra determinazione di allenarvi per tutta la vita

così da riuscire a compiere la missione che ciascuno di voi ha ricevuto da Dio.

Cercate di comprendere ciò che l'Universo è e che voi stessi siete.

Conoscere se stesso è conoscere l'Universo.

Il segreto dell'Aikido consiste nell'estirpare il male da noi stessi per unirci con il cuore

dell'Universo.

Coloro che hanno compreso questa verità hanno raggiunto un perfetto equilibrio. Come

il cuore dell'Universo estendono il loro amore in tutte le direzioni.

L'amore non combatte, l'amore non ha nemici.

Una vera arte marziale non combatte perché è unita all'eterna vita d'amore dell'Universo.

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Caro SENSEI,

sono qui a scriverti per comunicarTi che, dopo l'ennesimo incidente avuto nel dojo la scorsa settimana con conseguente frattura del 4° dito del piede destro che mi ha relegato agli arresti domiciliari per 25 gg, ahimè, sento purtroppo di essere arrivato al capolinea con l'Aikido. Non è un volersi arrendere di fronte al problema o all'evidenza che, con l'incalzare de-gli anni, purtroppo si perde molto dello smalto che si ha in giovanissima età ma è solo un voler prendere seriamente co-scienza che, con un lavoro che non mi consente assolutamente di poter rimanere fermo 25 gg, una famiglia alle spalle alla quale spetta tutta la mia attenzione e dedizione, credo, oggi, sia opportuno pensare ad un cambio di rotta, e queste parole sento di scriverle sinceramente con grande sofferenza nel mio cuore.

Avevo riposto nell'Aikido la speranza di un piccolo/grande progetto per il mio futuro e, quello, così speravo di molti altri, ma evidentemente il nostro buon Dio così non ha voluto.

Credo che tu mi abbia conosciuto sufficientemente sotto il profilo umano e religioso e mi rifaccio ad una tua frase detta durante una delle mie prime lezioni di aikido, da te condotte, che riflettevano questo pensiero: " ragazzi, l'Aikido non se-gue un credo o una religione ben definita pur essendo una disciplina orientale, ma, per chi crede o ha fede in qualcosa, l'aikido aiuta in qualche modo a rafforzare il proprio credo". Questo per dire che, a distanza di quel lontano settembre 1998, giorno in cui iniziai, oggi, sulla scia di questa meravigliosa esperienza fatta, posso e sento tranquillamente di asse-rire che quelle parole avevano un grande fondamento.

L'aikido, per me, ha rappresentato, in questi anni, veramente tanto e credo che non sia stato un caso l'incontro con questa meravigliosa disciplina: infatti, ho sempre desiderato praticare arti marziali ed, ecco, che, un bel giorno, passeggiando per le vie, incontro così per caso l'insegna del dojo: perché proprio l'AIKIDO (arte della quale non conoscevo minimamente l'esistenza) e non altre arti che ben conoscevo sin dall'infanzia ? La nostra vita è un percorso ben designato che, però, a nessuno è dato di conoscere e ognuno di noi deve sapersi porre le giuste domande, deve saper ascoltare molto attenta-mente e cogliere, attimo per attimo, quello che il nostro buon Dio ha deciso di donarci per il bene proprio e di chi ci sta intorno.

L'Aikido è stato un coktail di straordinari ingredienti: simpatici amici, tanti buoni e sani valori da te trasmessi, la straordi-naria armonia di tutte le tecniche, compostezza e rispetto di tutti e tra tutti, essere a contatto con gli altri armoniosamente durante le lezioni (cosa che, oggi giorno, nella società attuale è quasi utopistico pensare) e la lista potrebbe continuare ancora a lungo ma preferisco fermarmi qui per non annoiare.

Sento,al di là di tutto, di volerti fortemente ringraziare per tutto quello che ho imparato dalle tue lezioni e ti esorto a non mollare l'insegnamento dell'Aikido che tu sai ben fare, con molta naturalezza; un affettuoso e caloroso saluto chiara-mente va a tutti gli amici del dojo e al piccolo Raffaello che, come tutti i bambini, sono il futuro della società.

Il mio, chiaramente, non vuole essere un addio: sicuramente, ci vedremo qualche volta non appena avrò smaltito le natu-rali crisi di astinenza che mi perseguiteranno, spero, non per lungo tempo.

Bravi tutti: siete una gran bella famiglia !!!!!!

Ciao affettuosamente,

Pasquale Tufano

Lettera a Sensei di Pasquale Tufano

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Ciao Pasquale,

ho letto la tua lettera, alcuni giorni fa, e sono rimasto molto dispiaciuto della tua decisione che comunque capisco e ri-spetto. Mi era piaciuto il "lento avvicinamento" che avevamo avuto in questi anni. Anche a me, ha fatto molto piacere ricevere i tuoi scritti, i commenti, i consigli e i complimenti. Sono molto onorato di avere la tua stima e sono convinto che la nostra amicizia rimarrà intatta e profonda. Quindi ... ti abbraccio con calore e ti auguro di continuare il cammino sacro che hai scelto con coraggio, determinazione e amore. Un caloroso abbraccio a tutta la tua famiglia.

Fabrizio

“Una lettera vale assai di più d'una semplice conversazione. Le parole, è vero, hanno il vantaggio di avvicinare gli amici, ma le lettere possono superare i limiti dello spazio e del tempo, e ciò dà loro un potere quasi magico. Chi scrive rimane lontano, ma sa che le sue parole lo metteranno in breve tempo in contatto con il cuore del destinatario. Le parole di una lettera, come un arco in cielo, possono abolire le distanze. Le lettere sono fogli volanti che riescono ad unire le anime. Il loro fascino proviene da questo misterioso fluido, lontano e pur meravigliosamente vicino. Il loro aroma è così penetrante che ogni uomo, degno di questo nome, lo respira con gioia. Questo spiega il nostro piacere anzi il nostro bisogno di ricevere lettere dagli amici.”

RUTA DIXIT: La domanda è: ho pagato 50 euro per fare ‘ste cazza-te? Ad un suo seminario costato 50 euro….

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CRUCIVERBA

Orizzontali: 1: Il nome del Maestro Tada; 5: Bastone; 8: Torsione; 11: Due giapponese;13: Spada di legno; 17: Spada giapponese; 19: Canto; 20: Parte del corpo che comprende le anche; 23: Sette giapponese; 26: Quarta nota musicale; 27: Destra; 28: Iniziali di O’Sensei; 30: Nel caso in cui; 31: Sinistra; 32: Le iniziali dell’attore del nostro dojo; 33: Afferma-zione; 34: Colpo ai punti vitali; 36: Guardia Nazionale; 37: Salerno; 38: Iniziali del Maestro Hosokawa; 39: Il nome del Maestro 4°Dan amato dalle donne; 43: Camminata in ginocchio; 45: Movimenti; 48: Milano; 49: Arte, via; 50: Retro, opposto rispetto all’avversario; 52: Quinta immobilizzazione; 56: Cinque giapponese; 57: Colui che esegue la tecnica; 59: Quattro giapponese; 60: Spalla; 62: Arte per gli antichi Romani; 63: Parte del saluto che precede la lezione; 65: Tre giapponese; 66: Componimenti poetici; 68: Indietro; 71: Le prime dell’embukai; 72: Le prime di istrice; 73: Il “kimono” dell’aikido; 74: Millilitro; 76: Chi ha conseguito la cintura nera; 78: Arte dell’estrazione e dell’uso della kata-na; 82: Pestandola si ottiene il vino; 83: Immobilizzazione; 84: Un tipo di farina; 86: Suono onomatopeico usato dal M°Ruta durante le spiegazioni; 89: Zoom senza l’om; 91: Alessandria; 92: Media Frequenza; 93: Radiazioni infrarosse; 94: Avverbio palindromico usato per negare; 95: Ventre; 96: Le ukemi incrociate. Verticali: 1: Gonna pantalone caratteristica delle Cinture Nere; 2: Il cognome del responsabile didattico dello Shin-Bu Dojo; 3: Maestro; 4: Dentro; 6: Cintura del gi; 7: Cambio di posizione con movimento circolare della gamba posteriore; 9: Ente morale a cui è affiliato il nostro dojo; 10: Entrata; 12: Uno giapponese; 14: Il ki manifestato attraverso un urlo; 15: Il Kendo privo di edo; 16: Negazione; 18: Armonia; 21: Le prime di oggetto; 22: Affermazione; 24: Sigla di Chieti; 25: Con “gramma” costituisce un carattere grafico; 26: Iniziali del nostro Sensei; 29: Do…des; 30: Iniziali della proprie-taria dell’hara in relax in copertina; 33: Arte della calligrafia giapponese; 35: Manifestazione aperta al pubblico; 36: Go-rizia; 37: Quattro giapponese o dito; 38: Hong Kong; 40: Italia sul web; 41: Proiezione, lancio; 42: Seconda immobiliz-zazione; 43: Sumo senza pari; 44: Knock Out; 45: Taglio in quattro direzioni; 46: Arezzo; 47: Nome del salvadanaio dello ShinBuNews; 49: Prima nota musicale; 51: Iniziali dell’erede del nostro Sensei; 53: Quarta tecnica di immobiliz-zazione; 54: Uno per gli inglesi; 55: Club Alpino Italiano; 56: Posizione di concentrazione con le mani congiunte; 58: Higi senza inizio; 60: Guardia; 61: Suffisso per i vezzeggiativi; 64: Uno tsuki al basso ventre; 67: Diapositiva in breve; 69: Nelle bibliografie, indica Senza Luogo; 70: Scuola; 72: Tratto di terra emersa circondata in ogni parte dall’acqua; 75: Tecniche; 77: Ultimo Scorso; 79: Le prime di ippopotamo; 80: Gradi delle cinture nere; 81: Ente Autonomo; 85: Le iniziali del Maestro Fujimoto; 87: Pordenone; 88: Mano, braccio; 90: Oristano; 91: Le prime di ayumi; 92: Lo sono gli allievi che non hanno ancora conseguito alcun grado kyu.

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Una bionda partecipa ad un quiz d'intelligenza. Il presentatore le pone i seguenti quesiti: 1. Quanto durò la "Guerra dei cent'anni"? 116 anni 99 anni 100 anni 150 anni La bionda utilizza il jolly e non risponde alla domanda. 2. In qual paese di trova il "Cappello di Panama"? Brasile Cile Panama Ecuador La bionda chiede l'aiuto del pubblico. 3. In quale mese dell'anno i russi festeggiano la "Rivoluzione d'ottobre"? Gennaio Settembre Ottobre Novembre La bionda decide di telefonare ad una sua amica (bionda). 4. Qual era il nome del re "Giorgio V"? Alberto Giorgio Manuele Giona La bionda utilizza il suo diritto a dare una riposta ironica. 5. Da quale animale prendono il nome le Isole Canarie? Canarino Canguro Cavallo Foca La bionda risponde in modo errato e viene eliminata. *************************************************** Per tua informazione, ecco le risposte esatte: 1. La "Guerra dei cent'anni" duro 116 anni, dal 1337 al 1453. 2. Il "Cappello di Panama" si trova in Ecuador. 3. La ricorrenza della "Rivoluzione d'ottobre" cade il 7 novembre. 4. Il vero nome di re Giorgio IV era Alberto, il re cambio nome nel 1936. 5. Le Isole Canarie prendono il nome dalla foca, in latino: "Isole della foca". Allora, ci tingiamo i capelli?

Quiz d’intelligenza

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Secondo la tradizione, un monaco buddhista, vissuto a cavallo tra il XIII° ed il XIV° secolo nell’antica città imperiale di Kyoto, avrebbe (come egli stesso cita nel preambolo) “passato intere ore davanti al calamaio, senza aver nient’altro di meglio da fare, annotando a casac-cio tutti i pensieri strampalati che mi frullavano per il capo.” Da qui, il nome dell’opera: Tsurezuregusa reso, in lingua italiana, con “Momenti d’ozio” (o “Ore d’ozio” per chi si volesse cimentare con la versione edita dalla casa editrice ES), testo che racchiude, forse più di qualunque altro, il maggior ed essenziale concentrato dell’animo giapponese. Il libro, che ci tengo subito a precisare, non necessita di alcuna preconoscenza in ambito fi-lo-buddhistico, non nasce come libro; difatti, il monaco Kenkō, più comunemente noto con il suo nome da laico Urabe no Kaneyoshi, da maestro indiscusso del metodo letterario di composizione chiamato zuihitsu (ossia: “segui il pennello”), scriveva e scarabocchiava i suoi pensieri su striscioline di carta con cui poi addobbava l’interno della sua capanna, incollandole, appunto, sulle pareti della medesima. Poi, un bel giorno, circa cento anni dopo il trapasso di Kenkō, il grande generale e poeta Imagawa Ryōshun (bravo a chi lo conosce!), venendo a conoscenza di questa insolita carta da parato, decise di staccarli e raccoglierli tutti, dando così alla luce una summa di saggi che spaziano da acute riflessioni, generalmente collegate (il più delle volte implicitamente) con l’annunciazione di qualche verità dottrinale sulla transitorietà e, al contempo, sublimità di tutte le cose (il tanto ormai menzionato mono no aware, linfa vitale, imprescindibile per la vena poetica di ogni scrittore noto e non del Paese del Sol Levante), dalla nascita alla vita, alla crescita, alla malattia e, quindi, decadenza e morte (uno dei, se non il più importante, “oggetto” di contemplazione per i nostri cari amici dotti giapponesi) anche se, dalle parole stesse dell’autore, “di ogni cosa sono interessanti solo gli inizi e le fini”. Tuttavia, non ci deve sconcertare il fatto che uno che abbia rinunciato al mondo per farsi prete, non rimanga totalmente estraneo agli usi di corte e alle tradizioni del tempo: questo è, infatti, il caso di Kenkō, il quale coltivò una non indifferente curiosità verso le normali vicende della gente del popolo, in quanto egli non decise mai di abbracciare uno stile di vita ere-mitico (fatta eccezione dei suoi ultimi anni trascorsi in un romitaggio a Kunimiyama, provincia di Iga, dove scrisse appunto Tsurezuregusa), cosa che era del tutto inusuale per i monaci asceti suoi contemporanei. E’ perciò facile trovare, nei suoi 243 episodi numerati che compongono il manoscritto, diversi e spesso divertenti aneddoti sull’andazzo della vita mondana, nonché dicerie e pettegolezzi di persone appartenenti specialmente alla classe sociale me-dio-bassa su cui, infatti, le critiche di Kenkō riescono a dare il meglio della loro puntigliosità e pungente spigliatezza, non meno alle pie considerazioni sulla vanità di questo mondo, cui sembra ritornare e far capolino l’intero pensiero del maestro. Quindi, ciò fa del presente, come ho detto all’inizio di questa recensione, un tomo assolutamente non dottrinale ma, al con-trario, un pregiabilissimo manuale sul comportamento dei “quattro gentiluomini”; ed è in questa prospettiva che lo consi-glierei, non perché è catalogato in qualunque elenco tra le dieci opere più prestigiose di tutto il curriculum letterario nippo-nico (secondo solamente, si dice, al monumentale capolavoro della poetessa e dama di corte Sei Shōnagon, autrice del dia-rio intitolato “Makura no sōshi”, “Il libro del guanciale”. Primo scritto in stile zuihitsu, che influenzò molto l’autore, o perché Kenkō ben lungi da ogni attaccamento a qualsiasi im-periosità dello scrivere, di fissare, di ritualizzare grottescamente, ma, viceversa, impareggiabile esecutore di stile ed elegan-za, che non si lascia subordinare dalla volontà di concettualizzare ed intrappolare le parole in un inerte “guscio morto”, ma abbondante e generoso, a modo suo, di brio ed umorismo (il più delle volte nero), geniale e ancora feroce di sprezzature tanto che di lui si vociferasse essere uno dei “Quattro Dirini Re” della poesia e dal sottoscritto essere convalidato per la vi-vacità di spirito e freschezza delle sue mordaci affermazioni scaturite da un “estremo Samadhi” paragonabile senza indugio a quello di un Maestro Zen avvalorando quella splendida massima del Patriarca Hakuin Roshi (Saggio zen del XVIII° seco-lo) la quale recita: “L’annullamento della barriera mentale equivale al momento in cui la Fenice sfugge alla Rete d’oro e la Gru rompe le sbarre della sua Gabbia”. Suggerirei, però, di leggere le sue pagine a chi si sentisse affine o quanto meno trascinato dalla solennità e dal carattere encomiabile rappresentati dall’orchidea, dal pruno, dal bambù e dal fiore di crisan-temo, i Quattro Gentiluomini, ritornando all’asserzione fatta precedentemente, della tradizione popolare. Ora concluderei lasciando spazio, se me ne è rimasto, ad un breve passo estrapolato direttamente dallo Tsurezuregusa (n° 97) che, tra gli altri, ha suscitato un particolare visibilio nel cuore del recensore: Ci sono un’infinità di cose che si attaccano a qualcos’altro e poi finiscono col rovinarlo e distruggerlo. Il corpo umano ha i pidocchi, una casa ha i topi, un paese ha i predoni, gli uomini inferiori hanno la ricchezza, gli uomini superiori hanno la benevolenza e rettitudine, i preti hanno la legge buddhista.

Momenti d’Ozio Kenkō, Biblioteca Adelphi 60 Recensione di Piero Campanale

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Shin Bu: dietro le quinte

Approfittiamo di questo piccolo angolo per parlare del “lavoro invisibile” di una shinbuista: Rossella Capriati, detta dal Maestro “Rosa mafiosa”. Sì, perché non tutti sanno che, mentre la maggior parte di noi è ancora a letto a sognare un favoloso yonkyo del maestro (mah...ognuno ha i suoi gusti in fatto di sogni…) Rossella si arma di mazza e bokken e si occupa volontariamente della pulizia del dojo. Grazie Rossella, da parte di tutti noi! Ovviamente, tutti gli shinbuisti sono invitati (leggi obbligati) a collaborare, cercando di evitare di sporcare, bagnare, lasciare in giro capelli, e fare tutte quelle cose che, già si sa, non bisogna fare. E per chi sgarra...ci pensa Rossella! E visto che siamo in tema di pulizie, vi ricordiamo che dal 25 al 31 agosto ci saranno le pulizie generali del dojo. Cercate di non attuare il detto “agosto….dojo mio non ti conosco” e partecipate numerosi!

Pagina 38 SHINBUNEWS

SHIN BU DOJO VIA G . PETRONI TRAV.39 N.5

T EL . :080/5574488 E -MAIL: [email protected]

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SHI NB UN EWS E -MAI L: RE DAZIONESHI NB UN @YAHOO.I T


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