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Sommario - notaio-busani.it · 237 La responsabilità professionale tra etica e diritto di Adolfo...

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anno XX n. 6 - Novembre 2007 Sommario 197 Corsivo redazionale PROTOCOLLI ALLA PROVA DEL NOVE 198 Da Milano di Egidio Lorenzi 199 Da Napoli di Giuseppe Di Transo 201 Da Bologna di Mauro Trogu 203 Da Roma di Cesare Felice Giuliani Da Verona di Rosalia Russo 204 Da Brindisi di Lavinia Vacca 205 Da Lecce di Alfredo Cillo 206 Da Torino di Grazia Prevete 207 Protocolli e ideologia di Domenico De Stefano 208 Intervento del presidente di Federnotai al convegno dell’Associazione Giovani Notai di Gennaro Fiordiliso Argomenti 211 La tassazione dei trasferimenti immobiliari tra contratto preliminare e contratto definitivo di Arrigo Roveda 216 Le pubbliche funzioni: tra fedeltà e lealtà (e sicofantia) seconda parte di Franco Treccani 222 Verso la prima nomina, la nostra storia a cura di Anna Polimero 228 Trust: procedure concorsuali e diritto di famiglia di Gian Franco Condò 237 La responsabilità professionale tra etica e diritto di Adolfo De Rienzi Attività sindacali 238 Verbale dell’assemblea dei delegati del 29 settembre 2007 a cura di Romolo Rummo
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anno XX

n. 6 - Novem

bre 2007

Sommario

197 Corsivo redazionale

PROTOCOLLI ALLA PROVA DEL NOVE198 Da Milano di Egidio Lorenzi199 Da Napoli di Giuseppe Di Transo201 Da Bologna di Mauro Trogu203 Da Roma di Cesare Felice Giuliani

Da Verona di Rosalia Russo204 Da Brindisi di Lavinia Vacca205 Da Lecce di Alfredo Cillo206 Da Torino di Grazia Prevete207 Protocolli e ideologia di Domenico De Stefano208 Intervento del presidente di Federnotai

al convegno dell’Associazione Giovani Notai di Gennaro Fiordiliso

Argomenti211 La tassazione dei trasferimenti immobiliari

tra contratto preliminare e contratto definitivo di Arrigo Roveda

216 Le pubbliche funzioni: tra fedeltà e lealtà (e sicofantia)seconda parte di Franco Treccani

222 Verso la prima nomina, la nostra storia a cura di Anna Polimero228 Trust: procedure concorsuali e diritto di famiglia di Gian Franco Condò237 La responsabilità professionale tra etica e diritto di Adolfo De Rienzi

Attività sindacali238 Verbale dell’assemblea dei delegati del 29 settembre 2007 a cura di Romolo Rummo

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Corsivo redazionale

Difesa, autoriforma, protocolli. Crediamo che mai nel notariato sia serpeggiata tanta voglia di discutere intorno ai temi della politica di categoria. Certo la ”lista sigillo” rende più facile intervenire: prima, per fare politica di categoria, si doveva partecipare alle riunioni collegiali, avere il “coraggio” di prendere la parola davanti ai colleghi, oppure impegnarsi in articoli giornalistici. Oggi è tutto più immediato, più facile, più semplice. Tuttavia la lista esiste da diversi anni, ma mai era stata invasa come ora da questi temi, anzi, fino a qualche tempo fa, si insisteva da taluni perché, quando si trattavano temi “giuridici”, si indicasse nell’oggetto il termine “ius” in modo da poter scartare, eliminare, non leggere, gli altri interventi per l’appunto “politici”. Naturalmente noi non possiamo che essere molto soddisfatti di questa inversione di tendenza, visto che il movimento sindacale nel notariato è sorto e si è affermato proprio nel solco di un maggior impegno di tutti di fronte ai problemi di categoria. Tuttavia quel che avviene in questi tempi, mosso e giustificato dalla (legittima) paura del futuro che spinge tutti a cercare la propria ricetta, ha anche degli aspetti curiosi. Si assiste infatti spesso, molto spesso, ad interventi del tutto scoordinati ed (apparentemente, almeno per quanto diremo) del tutto incoerenti. Colleghi che sostengono che l’unica possibile difesa dagli attacchi che ci vengono rivolti sia quella della valorizzazione della qualità e subito dopo si dichiarano del tutto contrari ai protocolli. Colleghi che raccomandano mobilitazione esterna, iniziative anche giornalistiche per essere noi ad “attaccare” e non subire gli attacchi esterni, e che poi, di fronte alle recenti iniziative del Consiglio Nazionale in tema di “autoriforma” si indignano e si oppongono.

Colleghi che ritengono molto valida l’iniziativa del Consiglio Nazionale in tema di aumento dei posti, accorpamento dei distretti, intervallo dei concorsi; ma che ritengono di dover difendere la tariffa fino alle dimissioni generalizzate. Colleghi che invece ritengono tatticamente valido offrire riduzioni tariffarie in situazioni socialmente meritevoli di tutela, ma che negano l’opportunità di qualsiasi apertura alla maggiore concorrenza. In realtà l’incoerenza di tali comportamenti crediamo sia solo apparente: quel che veramente emerge è la grande difficoltà di mettere a punto un’unica strategia, di capire da dove in realtà vengano gli attacchi, di riuscire a mettere in campo una difesa davvero vincente, ma che nello stesso tempo preservi la funzione nei suoi principi essenziali e la professione nei suoi aspetti più validi. Proprio per questo ci sentiamo di essere vicini al Consiglio Nazionale, alle sue iniziative ed alla sua strategia, nella convinzione che, in questa generale incertezza, esso abbia una visione più complessiva, una conoscenza più diretta, un “polso” più immediato della situazione, e sia quindi in grado, pur non essendo certo il solo depositario della verità, di prendere decisioni perlomeno con strumenti migliori di quelli di ciascuno di noi. Il fatto è che è estremamente difficile, per ciascuno di noi, distaccarci da una autoreferenzialità che ci deriva dalla precisa, totale, legittima convinzione di essere davvero utili agli utenti, al sistema, allo Stato, ai cittadini. Lo sforzo, per quanto possibile, dovrebbe proprio essere quello di porci sempre, in qualsiasi situazione, dalla parte del cittadino utente e dell’interesse generale della collettività. E questa affermazione ci dà l’occasione per fare una considerazione finale anche sul tema davvero maggiormente protagonista in questi giorni: quello dei protocolli.

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Dedichiamo, in questo stesso numero, ampio spazio alle cronache dai vari distretti sull’impatto dei protocolli, e noi stessi abbiamo già scritto in materia. Questa volta non vogliamo aggiungere altro alle considerazioni tecniche e giuridiche, ma invitare ad una riflessione in linea con quanto andavamo dicendo. Ci pare infatti che nell’insieme dei protocolli manchi una regola precisa rivolta al “comportamento” nei confronti del cittadino. Il notaio più rispettoso di tutti i protocolli, più attento alla più alta possibile qualità, più consapevole dell’importanza della personalità della prestazione, può benissimo

essere recepito dall’utente in maniera negativa, magari soltanto perché si presenta arrogante e scostante nel rapporto interpersonale; il notaio più pressappochista e disattento può essere considerato molto bene dall’utente, magari soltanto perché i suoi collaboratori sono solerti e disponibili, e perché svolge bene l’attività di spiegazione durante la stipula. Dedicare maggiore attenzione alla percezione da parte dei cittadini utenti del lavoro da noi svolto, a partire dai protocolli, fino alla “difesa” ed all’ “autoriforma” ci pare forse la principale, anche se non sola, “briscola” da giocare in questo difficile momento.

PROTOCOLLI ALLA PROVA DEL NOVE Pubblichiamo qui di seguito le cronache di alcune riunioni tenutesi in vari Collegi d’Italia durante le quali, secondo le indicazioni del Consiglio Nazionale del Notariato, i Consigli Distrettuali hanno presentato ai notai facenti parte del Distretto, i protocolli nel testo loro trasmesso dallo stesso Consiglio Nazionale. DA MILANO

Tanta gente così a Milano per un incontro “politico” non si era mai vista e specialmente alle 18 di un martedì. Ci saranno state 500 persone: la folla di quando si distribuiscono le formulette per gli atti di surrogazione o di quando si decide cosa fare con l’ACE o l’AQUE ! Comincia il presidente che svolge una relazione molto equilibrata, dettagliata e completa sulla genesi, la storia e la attualità dei protocolli, segnalando come si siano perse per strada, per le mutate condizioni normative e di fatto, due delle motivazioni iniziali e cioè la possibilità di incrementare i controlli deontologici e disciplinari e la possibilità di difendere la tariffa, ma come sia tuttora di notevole rilevanza la terza delle grandi motivazioni e cioè quella dell’affermazione e della conoscibilità esterna della qualità della prestazione notarile, che è uno dei modi (anche se certamente non l’unico e non quello determinante) per difenderci dagli attacchi concentrici che ci stanno piovendo addosso. Segnala anche, il presidente, come lo stratificarsi dei diversi protocolli nel corso del lungo tempo trascorso da quando si è cominciato a parlarne, sia del tutto evidente nella diversità della “filosofia”

stessa dei primi rispetto agli ultimi, come ciò necessiti di una attenta revisione e rilettura anche per correggere evidenti anomalie ed infine di come sia assolutamente opportuno che ci si limiti a “massime” il più possibile chiare, sintetiche e precise, lasciando ai commenti (spesso di rilevante valore scientifico) solo la loro funzione di studio ed approfondimento. Si susseguono quindi numerosi interventi, una quindicina, anche questo un vero record tanto è vero che la riunione continua per due ore e mezzo, anche se via via qualcuno non resiste ed abbandona. Anticipando subito un giudizio complessivo, si può dire che la sensazione generale è che parlar male dei protocolli sia vissuto come … “parlar male di Garibaldi” e quindi non si possa farlo apertamente, ma lo si faccia per metafore e giri di parole. Ma per essere più seri e più onesti cronisti, riferiremo che interventi di difesa totale e cioè di accettazione pura e semplice dei protocolli così come sono non ce ne è stato neppure uno; che interventi di netta contrapposizione ed invito a “lasciar perdere” (sia pure nella maniera indiretta di cui si diceva) ce ne sono stati 3 o 4, e che la

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maggioranza invece tendeva a sposare la linea indicata all’inizio dal presidente: piena accettazione dei principi e dello spirito generale dei protocolli; attenta revisione ed approfondimento; riduzione al minimo degli appesantimenti formali e delle menzioni; alleggerimento della funzione precettiva per una grande valorizzazione, invece, della funzione di tendenza alla più alta possibile qualità; eliminazione del rischio di una compressione della autonomia professionale del notaio verso atti standard e da “catena di montaggio” e valorizzazione invece delle scelte qualitative personali. Ancora una notazione cronistica si impone, per quel che vale: se dovessimo giudicare dall’ “applausometro” bisognerebbe concludere che la

grande maggioranza dei presenti non era particolarmente entusiasta dei protocolli, ma forse molti non li avevano neppure letti fino in fondo e poi l’ “applausometro” non fa opinione. La notazione più divertente della serata è stata quella di un collega che per dimostrare come le “grida” in tema di deontologia e di disciplinare non servano a nulla, ha affermato che l’obbligo della indicazione dell’ora di sottoscrizione degli atti ha avuto un unico effetto: l’aumento dei posti di lavoro negli studi / attifici. Si è infatti affermata la figura del “time manager”: colui che, a sera, organizza l’ora in tutti gli atti, coordinandoli con attenzione e intelligenza per evitare incongruenze.

Egidio Lorenzi

DA NAPOLI Napoli, 22 ottobre 2007 Il Collegio di Napoli si riunisce alle 16.30. I colleghi affluiscono lentamente e i lavori non iniziano prima delle 17.30. Sono presenti circa 130 notai. Il Presidente del Collegio riferisce della decisione del Consiglio Notarile di Napoli: nessuno dei Consiglieri prenderà la parola in apertura, e neppure il Consigliere Nazionale di Zona, perché lo scopo della riunione è di ascoltare le voci della base. Dà anche conto dell’ultima comunicazione del Presidente Nazionale: i protocolli non entreranno in vigore prima di aprile, e quindi c’è ancora tempo per metterli a punto. Si apre la discussione. Alcuni colleghi sottolineano l’importanza del progetto dei protocolli quale strumento per garantire la qualità della prestazione, l’unico elemento che giustifica la tutela delle professioni; è un’occasione da cogliere al volo per recepire le sollecitazioni dell’Autorità Antitrust e del decreto Bersani. Molti interventi sollevano questioni su aspetti e punti specifici dei protocolli. Le critiche si concentrano sulla norma che richiede per gli atti di trasferimento immobiliari l’inserimento o l’allegazione della relazione ventennale; si obietta che questa soluzione: - appesantisce l’atto; - altera il tradizionale principio della terzietà del notaio, che viene a definire nell’atto stesso i termini della sua responsabilità;

- è un motivo di tensione tra i notai, chiamati ad esprimere esplicitamente un giudizio sul reciproco operato; - è troppo onerosa per gli atti di modesto importo; - fornisce agli avvocati un’arma pericolosa per la nostra responsabilità. Altre obiezioni riguardano specificamente il protocollo sulle provenienze donative (perché dovremmo dare tante indicazioni per le donazioni?), quello sulla redazione dei verbali (la consulenza resa durante l’assemblea non incrina la terzietà che dovrebbe caratterizzare il controllo successivo?), quello sulla trascrizione dell’accettazione tacita dell’eredità (è possibile, e utile, pretendere la trascrizione di accettazioni ultradecennali? irrigidirci su queste posizioni non mina la solidità di tutto il lavoro svolto in passato?). Molti si lamentano perché a causa di pochi colleghi meno scrupolosi si è costretti a introdurre norme irragionevoli che costringono ad inutili formalismi l’intera categoria. Qualcuno parla di medicina necessaria che - si spera - possa guarire il male. I protocolli complicheranno la vita solo ai piccoli studi, mentre quelli grandi non tarderanno ad organizzarsi per soddisfare ampiamente a quanto richiesto, senza per questo fornire un servizio migliore. Un collega propone di cogliere l’occasione per inserire il “tetto” del numero degli atti che possono essere ricevuti da ciascun notaio; presenta una

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proposta di modifica al protocollo n.2 formulata in questi termini e chiede di metterla ai voti; la proposta resta sul tavolo fino alla fine della riunione, quando il presidente, tenuto conto dell’esito della riunione, suggerisce di soprassedere alla votazione su questo emendamento, rimandandola al momento in cui si discuterà sui singoli protocolli. A un certo punto viene fuori una proposta di deliberato. Sui protocolli, si dice, siamo ormai tutti necessariamente d’accordo: per coerenza quelli che hanno sempre creduto nell’opportunità di introdurre norme che precisino il contenuto della prestazione notarile e facciano trasparire dall’atto l’attività del notaio; per necessità quelli più scettici, ma che ritengono indispensabile per il notariato a questo punto presentarsi all’esterno con uno strumento nuovo che serva a migliorarne l’immagine. La formulazione dei protocolli però non è soddisfacente perché eccessivamente prolissa, poco omogenea e pericolosamente rigida su questioni di carattere scientifico. Si suggerisce pertanto di esprimere soddisfazione per l’introduzione dei protocolli, ma di chiedere al Consiglio Nazionale di procedere in tempi rapidi ad una nuova stesura, più asciutta, che enunci regole chiare e determinate (con rinvio per i dettagli a note esplicative) ed elimini tutte le parti relative a questioni dottrinarie aperte. Si propone anche di invitare il Consiglio Nazionale a considerare la materia dei protocolli come solo parte della più ampia strategia volta a rafforzare la categoria, che deve incentrarsi soprattutto sui temi della revisione della tabella e della ridefinizione delle competenze, sui quali si ritengono necessari uguali impegno e chiarezza col coinvolgimento dell’intera categoria. La proposta è accolta con favore. La discussione a questo punto si sposta sulla questione delle menzioni. Si levano molte voci critiche; molti colleghi sottolineano come alcune menzioni siano assolutamente irragionevoli (quelle sulle fattispecie con elementi di internazionalità, quelle sugli atti con provenienza donativa, quelle sul trasferimento di immobili da costruire, etc.); altri contestano alla radice l’opportunità di inserire menzioni non previste dalla legge. Per un momento sembra che l’assemblea sia orientata ad esprimersi con un voto a favore o contro le menzioni. Chi ha presentato la proposta di delibera chiarisce il suo pensiero, che non è contrario per principio alle menzioni, sempre che servano a far emergere dall’atto l’attività svolta dal notaio, specialmente per quanto riguarda le visure ipotecarie. La discussione prosegue ancora a lungo; si giunge alla fine ad integrare la proposta di deliberato, aggiungendovi l’invito al Consiglio

Nazionale a rifiutare l’adozione del sistema delle menzioni quale criterio generale di controllo, salva l’introduzione in via eccezionale di quelle che vengano valutate strettamente funzionali alla verifica della qualità della prestazione. La proposta viene messa ai voti e approvata quasi all’unanimità (con 2 soli voti contrari); con l’auspicio che a breve ci si possa tornare a riunire per ragionare e discutere sul contenuto dei singoli protocolli in una nuova versione riveduta e corretta. La sala si svuota lentamente in un clima più disteso, come di ritrovata unità; ma la sensazione è che per la gran parte dei colleghi i protocolli restino un oggetto misterioso: una medicina amara, una mina vagante, uno specchietto per le allodole, o invece un moderno sistema di definizione degli standard di qualità? e la delibera approvata è solo un compromesso di fortuna o un documento importante nella linea del giusto percorso verso un nuovo assetto del notariato?

Giuseppe Di Transo notaio in Napoli

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DA BOLOGNA CRONACA DI UN POMERIGGIO AUTUNNALE IN CISPADANIA ****** Lunedì 29 ottobre scorso, alle ore 18, si è tenuta l’Assemblea Straordinaria del Collegio di Bologna. L’ordine del giorno era piuttosto ricco di argomenti d’attualità e giustificava un’aspettativa diffusa ed intensa. Mi sono recato quindi, con buon anticipo, presso la sede della locale Scuola di Notariato, dove di consueto si tengono le riunioni collegiali, con il duplice intento di esercitare il mio diritto-dovere di intervento e di onorare l’incarico di cronista affidatomi da “Federnotizie”. Grazie all’anticipo ed alla mezz’oretta trascorsa in attesa dell’inizio dei lavori, ho scambiato due chiacchiere con alcuni Colleghi: un po’ di convenevoli, qualche parola scherzosa, molti luoghi comuni sulle attuali condizioni del notariato e così via, come - immagino – sarà accaduto in ogni sede distrettuale… La prima impressione non è stata positiva. Quell’atteggiamento, misto di indignazione e di stupore, già percepito in occasione dell’assemblea ordinaria di febbraio, in molti dei Colleghi, si era trasformato in sconforto e rassegnazione e l’argomento che avrebbe dovuto suscitare la maggiore curiosità ed interesse, costituito dalla imminente discussione sui protocolli, veniva da quasi tutti evocato con manifesto scetticismo. La partecipazione, tuttavia, ancorché non massiccia, appariva abbastanza folta, rappresentando quindi un apprezzabile segnale di interesse ed attenzione. I lavori sono iniziati con l’esame e la votazione del bilancio collegiale. I numeri non hanno mai suscitato grandi emozioni, per cui il primo argomento in discussione è filato piuttosto liscio. Non vi sono neppure state proteste quando il Tesoriere ha annunciato la previsione di una voce di spesa, peraltro assai cospicua, da destinarsi alla “comunicazione”, affidata ad organizzazioni esperte. L’esigenza di cominciare a far udire la nostra voce, in modo professionale e mirato, avvertita da tutta la Categoria a livello nazionale, è risultata condivisa, nonostante il connesso onere economico e la conseguente ricaduta sul portafoglio di ciascuno. L’assemblea ha quindi approvato all’unanimità il bilancio.

E’ seguita una discussione assai vivace ed articolata sull’opportunità di avviare iniziative, già in precedenza proposte anche a livello locale e recentemente attuate altrove, volte ad avvicinare la figura del notaio ai cittadini (lasciamo perdere i “consumatori”, per favore; mi ripugna pensare che i miei simili, che, per mia educazione, ho sempre ritenuto “persone”, debbano essere presi in considerazione soltanto sotto il profilo della loro capacità di spesa). I contenuti della proposta, peraltro noti a tutti, prevedono l’istituzione di un servizio gratuito, da svolgersi periodicamente con il contributo di Colleghi disponibili, a disposizione di cittadini che vogliano porre quesiti o richiedere chiarimenti di competenza notarile. Vi sono stati vari interventi – anche critici, ma non manifestamente contrari – sull’opportunità o meno di avviare tale iniziativa, sulle modalità operative, sul luogo di svolgimento (studi privati o sedi istituzionali), sui limiti ed i contenuti dell’attività di consulenza da prestare. Alla fine l’assemblea, con larga maggioranza, ha approvato la proposta, prevedendo che il servizio sia svolto presso il Consiglio Notarile da Colleghi che si offrano liberamente volontari. Le modalità di svolgimento più specifiche sono state rimesse a successivi approfondimenti e determinazioni del Consiglio distrettuale. Si è quindi passati alla disamina, complessa ed estenuante (e – secondo il modesto parere di chi scrive – fondamentalmente inutile) delle tariffe da applicarsi in materia di surrogazioni ex-lege Bersani. Mi sia consentito, sul punto, un intervento personale: le surrogazioni non funzioneranno mai, così come non hanno funzionato quasi tutte le novità normative degli ultimi anni (trascrizione del preliminare, patti di famiglia, modifiche in materia di donazioni, tutela dell’acquirente degli immobili da costruire, certificazione energetica, cancellazione diretta delle ipoteche e così via). I motivi, comuni a tutti questi fallimenti, sono, ovviamente: la scarsissima qualità della produzione legislativa, la farraginosità dei procedimenti, lo scarso interesse concreto delle varie parti sociali, la mancata aderenza alla realtà economico-negoziale e così via. L’unica novità che – ahinoi - ha funzionato é stata l’abolizione dell’autentica notarile per le dichiarazioni di vendita degli autoveicoli. La ragione è facilmente intuibile: a dispetto degli interessi del povero “consumatore”, il quale, meschino, non credo che ne abbia tratto alcun vantaggio, ha consentito a

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qualche lobby economica dei scipparci una discreta fonte di introiti. Nonostante queste mie considerazioni, che molti condividono, la discussione è stata intensa e vivace. Intensa e vivace, ma assai poco costruttiva. Sono state esaminate tutte le sfaccettature (dalla prestazione minimale all’istruttoria completa più complessa di quella necessaria per un mutuo tradizionale), sono state sviscerate tutte le opposte esigenze (dalla tutela della dignità della funzione notarile alla esigenza di andare incontro alle fasce più deboli dei cittadini), dalla distinzione fra l’atto ricevuto dal notaio, che aveva già stipulato il mutuo originario, a quello affidato ad altro notaio (…con buona pace dei colleghi di più recente nomina). Al termine di un dibattito che ha impegnato la gran parte del tempo a disposizione, con dovizia di ripensamenti, di distinguo, di riferimenti di natura politica, di appelli alla sensibilità, finalmente un Collega ha preso la parola per formulare una proposta perfettamente in linea con l’attuale politica governativa: cerchiamo una via di mezzo che possa accontentare (o scontentare – n.d.r.) tutti. La proposta è stata quindi messa ai voti ed approvata con buona maggioranza. Quando ormai l’ora si stava facendo tarda, l’attenzione scemava, e cominciavano le defezioni, è stato introdotto l’argomento clou: i protocolli. La prima impressione è stata che molti ne avessero sentito parlare (grazie anche al serrato dibattito che si sta svolgendo da settimane in Lista sigillo), ma pochi li avessero letti per intero e con attenzione. Mi sarei tuttavia aspettato un confronto appassionato. Di fatto ciò non è avvenuto. Ha esordito un Collega, con tanto di scaletta di appunti, il quale ha parlato a lungo, lodando l’iniziativa, plaudendo al principio e, nella sostanza, demolendo i protocolli l’uno dopo l’altro. L’intervento, peraltro di elevatissima qualità dialettica, mi ha ricordato il discorso di Marc’Antonio ai funerali di Cesare (capolavoro scespiriano – scusate l’italianizzazione - che non mi stancherei mai di leggere o di ascoltare). Mi vorrà perdonare l’ottimo Pasquale Macchiarelli, cui confermo simpatia ed apprezzamento, se, a causa di questo mio accostamento letterario, si sentirà un po’ “Bruto”… La sintesi dell’intervento: i protocolli sono una cosa bellissima, ma è opportuno che siano radicalmente modificati. Ho preso brevemente la parola anch’io, per manifestare la mia totale contrarietà ai protocolli. Da sempre diffido - ho affermato – dell’eccesso di normazione (proprio di regimi totalitaristici) a

fronte dei sistemi “liberali” (nel senso storico-politico del termine), ove la norma si limita ad individuare esigenze e finalità, mentre l’interprete (soprattutto se istituzionale) ha il compito di applicarla secondo la sua coscienza e sensibilità. Un sistema con troppe regole denuncia la propria incapacità di farne rispettare poche e fondamentali (tutti ricordiamo le “grida” di manzoniana memoria). Non ho parlato – perché più volte già intervenuto in Lista sull’argomento – delle mie perplessità in relazione alle ricadute che i protocolli potrebbero avere sull’individuazione delle responsabilità professionali del notaio e, di conseguenza, su tutto il programma assicurativo del Consiglio Nazionale del Notariato. Pur non avendo io fatto quest’ultimo richiamo, lo ha fatto per me il Collega che mi aveva preceduto, condividendone la preoccupazione. Sono seguiti pochi e brevi interventi non particolarmente significativi. Il dibattito non ha certamente goduto dello spazio che l’importanza dell’argomento avrebbe suggerito, tuttavia prima che l’assemblea si disperdesse, poiché tutti cominciavano ad essere preda del richiamo della carne (del pesce o della pastasciutta) , la Presidente ha saggiamente troncato la discussione, ponendo ai voti due mozioni: in prima battuta ci è stato chiesto di esprimere il voto sull’approvazione o meno del principio (in sintesi: i protocolli sono necessari o no?); in seconda battuta avremmo votato sui contenuti (in sintesi: i protocolli vanno bene così o debbono essere “rivisitati”?). Mi scuso di non poter disporre degli esiti precisi della votazione. Avevo chiesto copia del verbale, ma l’urgenza di scrivere e trasmettere questo mio modesto scritto, non mi consentono di attendere. Sul primo punto una maggioranza, non particolarmente ampia, con molti contrari ed un buon numero di astenuti, ha votato a favore del principio (i protocolli sono buona cosa). Sul secondo punto una larga maggioranza, con pochi contrari e qualche astenuto, ha affermato che i protocolli debbono essere “ripensati” (occorre una lunga e meditata riflessione ed una loro sostanziale “riscrittura”). A questo punto, mi sono scusato con la Presidente ed i Colleghi ed ho abbandonato in fretta la seduta, qualche istante prima che venisse dichiarata ufficialmente chiusa l’assemblea. Il 29 ottobre è anche il compleanno di mia figlia e mi attendeva un piccolo festeggiamento casalingo.

Mauro Trogu notaio in Budrio

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DA ROMA TELEGRAMMA DA ROMA …………….dall'incontro collegiale di ieri 17 ottobre 2007 mi pare sia emersa una diffusa perplessità sui protocolli. E' emersa anche la necessità di avere più tempo per un loro maggiore approfondimento ed a tal fine si è stabilito che si creeranno delle commissioni ad hoc, aperte a tutti coloro che lo vorranno.

Si è ritenuto più giusto, pertanto, un rinvio della loro entrata in vigore. Si è apprezzato, comunque, l'enorme lavoro effettuato dal Nazionale per la stesura degli stessi. Un caro saluto

Cesare Felice Giuliani notaio in Roma "

DA VERONA Giovedì scorso si è svolta la riunione del Collegio notarile di Verona, convocata per discutere ed assumere una delibera in tema di protocolli. Mi pare importante premettere che la stessa era stata preceduta da una riunione informale durante la quale la maggior parte dei colleghi aveva espresso un giudizio assai critico sul testo dei protocolli; nella riunione del collegio, mi è parso che tutti i colleghi presenti, 50 su 67 attualmente iscritti a ruolo, fossero informati, ma pochi avessero valutato il significato politico che i Protocolli assumono in questo specialissimo momento della storia del notariato italiano. Durante la discussione è emersa chiaramente la "non" condivisione dei protocolli nella loro attuale stesura, anche da parte di coloro che non sono pregiudizialmente contrari all'iniziativa. In particolare l'insofferenza verso alcune regole che prendono posizione in via definitiva su questioni ancora dibattute, trascendendo lo scopo al quale sono destinate: svolgere una funzione di REGOLAZIONE interna dell'attività dei notai, disegnare i contorni dell'attività del notaio, una sorta di prassi virtuosa. Un altro punto debole di "questi" protocolli, assolutamente condiviso, è costituito dalla fase della verifica, che per essere efficace non può restare affidata alle menzioni in atto. Molti colleghi hanno inoltre espresso la legittima preoccupazione che i protocolli possano essere utilizzati strumentalmente al fine di aumentare la responsabilità del notaio, soggetto notoriamente solvibile, e per di più obbligato a determinati comportamenti che non possono essere definiti di diligenza minima; tuttavia, non è mancato chi, pur condividendo tale preoccupazione, ha sottolineato che la definizione della attività da svolgere in relazione a determinate fattispecie, l'ostensione dell'attività alla quale il notaio è tenuto, potrebbe

al contrario fungere da limite alla ricerca di una responsabilità del notaio che abbia agito nel rispetto dei canoni di diligenza previsti e conosciuti dall'utente. La proposta scaturita quindi dalla riunione di collegio e contenuta nella delibera che segue, approvata all'unanimità da cinquanta colleghi intervenuti su sessantasette iscritti a ruolo, va nel senso di chiedere al Consiglio Nazionale di porre mano ad una revisione del testo dei protocolli, magari per stralci, rivedendo i profili che attengono al sistema di verifica, di espungere dai protocolli tutte quelle regole che presuppongono una presa di posizione in ordine a questioni ancora aperte, verificare l'effettiva ricaduta dell'adozione dei protocolli sulla responsabilità dei notai, e procedere quindi ad una nuova stesura degli stessi, magari in forma più sintetica. Per quel che può contare, la mia impressione assolutamente personale è che la lista sigillo o le assemblee dei collegi non costituiscono luoghi idonei a formulare rilievi concreti sulla stesura dei protocolli, ad analizzare nel merito le singole regole, a proporre nuove stesure, ed è per questo motivo che, in apertura della riunione, con alcuni colleghi abbiamo cercato di spostare l'attenzione dal testo delle singole regole al significato complessivo della operazione, si è cercato di dimostrare che l'idea di procedimentalizzare l'attività notarile non deve essere considerata come una deminutio, non svilisce nè comprime la libertà valutativa del notaio, il quale resta l'unico responsabile della esatta traduzione giuridica della volontà delle parti, egli utilizza la propria sapienza ed esperienza per individuare gli strumenti giuridici che consentano alle parti di realizzare gli effetti voluti e di garantirne la stabilità, ma quegli strumenti dovranno essere utilizzati secondo regole condivise che

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garantiscano qualità e omogeneità della prestazione, che distinguano la prestazione del notaio dalla prestazione di qualsiasi altro professionista legale. L'atto notarile è rito, è procedimento, si può quindi far rientrare nella celebrazione del rito, o se preferiamo, nel procedimento, anche tutto quello che sta prima e dopo l'atto inteso come documento. Non si può sostenere che la pubblica fede risieda solo ed esclusivamente nell'apposizione del sigillo in calce al documento, in qualunque modo lo stesso sia formato. La qualità della prestazione, l'omogeneità dei comportamenti, sono aspetti necessari ed imprescindibili nell'esercizio della funzione pubblica, l'ostensione all'esterno della complessità dell'attività svolta dal notaio garantisce, in uno con la funzione, il mantenimento di una posizione del tutto peculiare rispetto a quella delle altre libere professioni, sicchè si possa continuare a pretendere di mantenere la riserva in determinate attività, il controllo dell'accesso, il numero programmato, e rivendicare l'idoneità a svolgere

altre funzioni che tipicamente appartengono alla magistratura. L'ostensione della regola dotrebbe inoltre contribuire a definire la figura del notaio e l'attività da questi svolta, e quindi riempire di contenuto quel rito che spesso per gli utenti si riduce alla mera apposizione della firma. Ignorare questo punto di vista, rivendicando libertà di determinarsi, dimostrando insofferenza verso una regola che NON È IMPOSTA DALL'ALTO, significa abbandonare la centralità della funzione e quindi il solco fin qui percorso dai nostri organi istituzionali. L'adozione di una regola comune potrebbe inoltre condurre il notariato verso un percorso comune nel quale la concorrenza tanto auspicata dall'antitrust sarebbe esercitata sulla base della maggior preparazione professionale, della migliore organizzazione interna, della maggiore disponibilità nei confronti degli utenti e non già della maggior condiscendenza, o della velocità-superficialità di condotta.

Rosalia Russo notaio in Sommacampagna

DA BRINDISI Brindisi, 9 ottobre 2007 Mi avvio alla riunione di collegio con quella sgradevole sensazione (che pareva ormai seppellita dallo scorrere degli anni) di chi va a scuola sapendo di essere impreparata, non avendo studiato la lezione del giorno. Sì, perchè oggi, oltre che di bilancio, si discuterà di protocolli, che io - ahimè - non ho ancora approfondito, pur avendoli disciplinatamente stampati e messi tra le cose da leggere con priorità, insieme ai... "Mille splendidi soli" di Hosseini ed all'ultimo Campiello. Sono dunque doppiamente impreparata sia sulle politiche del Notariato, sia in letteratura. Il nostro è un distretto piccolissimo, siamo in diciannove su ventisei sedi. Insolitamente puntuali i colleghi che hanno deciso di prendere parte all'Assemblea (undici) sono già tutti li; dopo di me ne arriveranno altri due. Approvato, con l'interesse consueto, il bilancio, il segretario (più attivo del Presidente, devo riconoscere) getta subito sul fuoco la patata bollente: "parliamo dei protocolli". Io ritenevo, nella mia abissale ignoranza della lezione del giorno, che il "parlare" stesse a significare "esprimete il vostro parere in merito a questo o quello dei vari argomenti trattati; aggiungete se vi pare che ci sia da aggiungere qualcosa oppure depennate quel che vi pare superfluo!" e cose del genere. Il discorso del collega che per primo prende la parola (e si tratta di uno dei più bravi e preparati del mio distretto) è

invece categorico, globale e definitivo: "I protocolli sono una iattura, vanno bloccati subito". L'osservazione mi lascia davvero basita. "Ma come? tutti?" - Si tutti - risponde il collega. E poi, con l'eloquio chiaro e ricco di riferimenti che lo contraddistingue, spiega le ragioni di questo suo giudizio negativo. "Se il fine è soprattutto porre un freno al notaio industriale impedendogli di stipulare (...si fa per dire) centinaia di atti al giorno, i protocolli raggiungono proprio l'effetto opposto; la massa di dichiarazioni che va ad incicciottire ulteriormente l'atto -già gravido di menzioni obbligatorie oltre a rendere lo strumento più noioso ed oscuro per gli utenti, che già assistono con rassegnato fastidio alla lettura delle nostre litanie, finirà per favorire i grossi studi che non avranno difficoltà a commissionare ai loro 50collaboratori50 l'inserimento delle nuove formule, mentre danneggerà fortemente il così detto notaio artigiano che con le 2 o 3 segretarie, coeve della miss Money Penny di bondiana memoria, rischia di soccombere precocemente sotto la mole di un esagerato formalismo". Il collega continua la sua esposizione evidenziando anche una sorta di masochismo che serpeggerebbe tra i protocolli. "Qualche anno fa, in ispezione, il Conservatore mi ha contestato la messa a repertorio di un atto che invece non andava. Che grave colpa sarebbe, questa, civilisticamente? Ciò nonostante sono finito in tribunale a spiegare a dei giudici increduli il

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contenuto della mia presunta malefatta. Quante volte in più finiremo davanti ai giudici per mancato rispetto di qualche norma che nessuna rilevanza avrà sul piano civilistico?" Il lucido discorso del collega sfonda una porta già aperta; sono, più o meno, tutti d'accordo nel voler tenere lontano questo spettro. Anche perchè, sostanzialmente, dicono, quanto richiesto dalle regole viene fatto già; tutti fanno visure, tutti trascrivono accettazioni tacite, tutti indagano personalmente sulla volontà delle parti. Ecco perchè alla fine della discussione il Collegio (con l'astensione mia per manifesta impreparazione e di un'altra collega preparatissima, ma scettica) delibera di ritenere che i protocolli siano di dubbia

utilità per far emergere comportamenti deontologicamente scorretti, appesantiscono gli atti con menzioni superflue, possono addirittura essere controproducenti per i notai nel momento in cui saranno conosciuti dall'esterno. Viene dato ampio mandato al nostro Presidente di far conoscere quanto deliberato al CNN. L'adunanza si scioglie, ognuno scivola via verso il proprio studio e la propria vita. Mi sa che i "soli" di Hosseini ed il pluripremiato libro della Venezia dovranno aspettare ancora: è arrivata l'ora di riflettere bene sui protocolli.

Lavinia Vacca

DA LECCE RIUNIONE PER I PROTOCOLLI DEL COLLEGIO NOTARILE DI LECCE Sabato 27 ottobre 2007, in Lecce, presso il Consiglio Notarile, si è tenuta, a margine dell’assemblea per l’approvazione del bilancio preventivo per l’esercizio 2008, una riunione informale per i pareri e suggerimenti vari, da esprimere al Consiglio Nazionale del Notariato, in ordine ai protocolli notarili nella versione provvisoria già deliberata dal Consiglio Nazionale medesimo. Erano presenti quindici colleghi (su trentotto iscritti al Collegio, data anche la concomitanza della riunione del Comitato Regionale in Bari, ove erano presenti tre rappresentanti del Distretto di Lecce). Il collega Sergio dal Verme ha svolto la relazione introduttiva, illustrando ai presenti la funzione dei protocolli e la loro importanza anche ai fini della sopravvivenza e, comunque, del consolidamento, della nostra professione, specialmente alla luce di quanto richiesto al nostro Ordine dalla Commissione Antitrust. Il relatore ha poi esposto una serie di problematiche, di ordine generale e di ordine strettamente tecnico, emerse dalle discussioni svoltesi al riguardo sulla lista “sigillo” negli ultimi tempi, evidenziando anche alcune incongruenze da lui rilevate nella formulazione dei protocolli medesimi (ad esempio quella tra la regola n.6, punto 1, comma 5, in cui si obbliga il notaio all’esame di tutti i titoli nel ventennio e quella della stessa regola, punto 3, comma 2, in cui, invece, lo si obbliga solo all’esame dei titoli dell’ultimo quinquennio). Ne è seguita ampia discussione, alla fine della quale il relatore - rinviando la singola disamina delle varie regole tecniche a successive riunioni di

approfondimento - ha invitato i presenti a manifestare per intanto il proprio parere generale sull’argomento, esprimendo il proprio voto – scritto e segreto -sulle seguenti alternative, precisando che si sarebbe potuto esprimere anche un voto per più alternative. Le alternative proposte hanno riportato i voti a fianco di ciascuna indicati: 1a) I protocolli entrano in vigore così come sono. VOTI 1 1b) I protocolli entrano in vigore così come sono, ma con gradualità. VOTI 1 2) I protocolli NON entrano in vigore. VOTI 1 3) I protocolli entreranno in vigore, ma con molti emendamenti e proposte alternative nei tempi necessari. VOTI 10 4) I protocolli entrano in vigore con una valenza diversa. VOTI 1 4a) I protocolli entrano in vigore con una valenza diversa, secondo la proposta avanzata in lista “sigillo” da Diego Podetti (i protocolli indichino ciò che “DEVE essere fatto” ma NON “COME deve essere fatto”) VOTI 0 4b) I protocolli entrano in vigore con una valenza diversa, secondo la proposta avanzata in lista “sigillo” da Lia Russo (i protocolli diventino il sistema di certificazione della qualità dello studio unito o meno all’aggiornamento della formazione in maniera costante) OVVERO: i protocolli indichino cosa PUO’ essere fatto” con una gradazione di adempimenti che i notai saranno liberi di offrire o meno alla clientela (come è attualmente del resto) ma sapendo che ciò costituirà fonte di determinazione per certificare (da parte di un ente, ad es. l’Archivio in sede di

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ispezione biennale) la qualità del lavoro svolto, resa nota al pubblico che avrà la possibilità di scegliere gli studi di “eccellenza”. VOTI 3 Come chiaramente si evince, la maggioranza dei presenti ha optato per l’alternativa n.3), esprimendosi nel senso di un più meditato studio

ed approfondimento delle tematiche coinvolte, richiedendo altresì al Consiglio Distrettuale una serie di incontri per discutere e confrontarsi a riguardo di un argomento così delicato per la nostra vita professionale.

Alfredo Cillo notaio in Lecce

DA TORINO Torino, 24 ottobre 2007, ore 17 Convocazione del Collegio per discutere i Protocolli. Buona affluenza, sarà perché anche qui si guadagnano punti per i crediti formativi? Breve introduzione del Presidente, diplomatica, ma non troppo, dalla quale traspare la linea peraltro già nota del Consiglio. La modifica dell’art. 47 L.N. e la Regola n. 2 dei Protocolli attenuano la mitica personalità della prestazione, quella che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Gli adempimenti prescritti dai Protocolli esaltano le capacità organizzative dei grossi studi, i c.d. attifici e possono mettere in difficoltà il notaio “artigiano”. Ciascun notaio è dominus delle proprie scelte professionali e non può essere ingabbiato da regole scritte da altri. La platea è per il momento silente. Alcuni colleghi hanno presentato interventi scritti, uno protesta l’inutilità dei Protocolli contro gli attifici e invoca il tetto repertoriale, “notaio dovrei acquistare un immobile…” “torni il prossimo mese, sono già al tetto…………” , un altro esprime il timore che le Regole siano un’ arma nelle mani della magistratura, dei nostri clienti, delle compagnie di assicurazione e perché no dei poteri forti. Finalmente un collega esamina le singole Regole, propone ragionevolmente modifiche tecniche e l’ entrata in vigore per gradi. Un collega tenta di spiegare per l’ennesima volta la funzione e la ragione dei Protocolli, garanzia

della qualità della prestazione del sistema Notariato, comunicazione all’esterno dell’attività misconosciuta del notaio, delimitazione della responsabilità professionale, tutela del cittadino utente. “Ma io mi sono sempre comportato….” “ a me è successo……” La discussione non riesce a volare più in alto delle singole e meritorie esperienze personali. Siamo bravi, preparati, indispensabili tutori della legalità, nessuno può dubitarne o imporre comportamenti a noi che sappiamo benissimo come comportarci. La platea oltraggiata plaude. Non vogliamo menzioni, tanto facciamo già tutto quanto previsto dai Protocolli (ma il notaio artigiano non era in difficoltà per gli adempimenti dei Protocolli? E’ la menzione che causa disagio?) siamo capaci ed esperti, le visure ventennali ad esempio le abbiamo sempre fatte. Bersani, l’Antitrust, la concorrenza, i consumatori si allontanano fluttuando nell’aria. Più tardi al buffet, che segue le riunioni per rinfrancare gli intervenuti, un collega osserva “ma se tutti fanno le visure ventennali, come mai il mio visurista sostiene che sono scarse le richieste di visure ventennali alla Conservatoria?” Mah! Riformare il Notariato: MISSION IMPOSSIBLE

Grazia Prevete notaio in Torino

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PROTOCOLLI E IDEOLOGIA

Negli ultimi giorni il dibattito intorno ai Protocolli dell’attività notarile si è sviluppato con notevole vivacità. Se dovesse prevalere, come sembra, il partito dei contrari ai protocolli, non è difficile prevedere quale potrebbe essere, nel breve periodo, l’esito di questo tentativo di dotare i notai italiani di un vademecum operativo ad alta valenza deontologica: il Consiglio Nazionale del Notariato “dovrà salvare le apparenze” mantenendo in piedi un’operazione di facciata peraltro priva di contenuto e di sostanza. Con il rischio di esporre se stesso e il notariato tutto all’accusa di gattopardismo. E’ un esito che non ci piace. Eppure, non sapremmo come contrastarlo . . . perché nemmeno i protocolli, cosi come sono, ci piacciono. Nel dibattito, molto acceso, che si è svolto in lista sigillo, si è assistito all’emergere di accenti di autentico coinvolgimento personale: qualcuno ha invocato che, in argomento, si ponesse un freno alla ideologia. Francamente non condivido le ragioni di questa richiesta; anzi mi pare che l’analisi della “ideologia dei protocolli” possa essere un utile punto di partenza per il superamento della situazione di stallo nella quale il notariato sembra essersi andato a cacciare. Che i protocolli siano frutto di una ideologia non deve scandalizzare né preoccupare. Credo che qui, per ideologia, si voglia intendere un coerente complesso di idee orientate al miglioramento della realtà: vorremmo intendere, cioè, l’ideologia come lo sforzo di mettere le idee al servizio della realtà, per modificarla. Dopo tanti anni (coincidenti, quanto meno, con le consiliature presiedute da Barone, Laurini, Mariconda, Mascheroni) durante i quali l’organo esponenziale ha sempre rifiutato di prendere in considerazione la necessità di aprire il notariato al cambiamento per renderne la struttura portante (cioè la legge istitutiva) maggiormente solida, i notai italiani si sono trovati in una burrasca che, mentre squassa tanti aspetti della società occidentale, fa sentire sinistri scricchiolii anche a chi naviga su questa nave. Il timore più grande è che la Società non trovi più risposta alla domanda: perché il notaio? Ed allora? Allora, tra tante iniziative – delle quali molte sono innegabilmente utili e appropriate – ecco che nell’estate del 2005 prende il via anche l’operazione protocolli. Le idee che hanno mosso chi ha lavorato ai protocolli sono state queste:

1. se i cittadini sapessero quanto di buono fanno per loro i notai con i loro atti e nei loro atti, il notaio sarebbe più capito, forse anche più amato (scoperta e messa a frutto della utilità sociale del notaio) 2. è necessario che i notai facciano tutti altrettanto bene con i loro atti e nei loro atti perchè altrimenti i cittadini non ne avranno mai la corretta percezione (metafora degli orologi: tutti abbiamo stima per l’orologio che ci dice l’ora esatta, cioè l’ora uguale a quella degli altri orologi; un orologio asincrono può anche essere un bel oggetto, ma è inutile; se tutti gli orologi fossero asincroni, sarebbero tutti inutili) 3. perchè i notai facciano del bene con i loro atti e nei loro atti qualcuno gli deve dire “come” ("protocollo") 4. perchè i notai facciano del bene con i loro atti e nei loro atti qualcuno deve controllarli (controllabilità del "protocollo" e sua valenza deontologica: inclusione del protocollo nel meccanismo dovere/punizione) Sono tutte buone idee. Ma sono idee, non verità assolute. Ora che l’”operazione protocolli” sembra incontrare l’avversione di gran parte dei notai, è necessario un adeguato ripensamento. Visto l’esito, oltre che legittimo, il dubbio pare doveroso: che siano idee buone sì ma non in ugual misura? Che non siano ben coordinate tra loro? Che oltre gli effetti voluti siano foriere di inaccettabili effetti collaterali? In effetti, quella storia degli orologi non sembra proprio un gran che: quale sarebbe, fuor di metafora, l’ora che deve essere uguale per tutti? Inoltre, per quanto buone siano le idee, è necessario verificare se e quanto siano idonee a raggiungere lo scopo per il quale sono state messe in campo e, ancora, se nel passaggio dalla teoria alla pratica non si siano state “tradite” da altre idee che, germinate in corso d’opera, hanno finto per pregiudicarle nei risultati. E forse è successo proprio questo. Più che spiegare vorrei capire. Ho l’impressione che, strada facendo, si sia sviluppata un’idea ulteriore che ha corrotto l’ideologia dei protocolli. L’idea che i protocolli avrebbero moralizzato il notariato. In qualche modo ciò potrebbe avere comportato una contro-rivoluzione copernicana: distolto lo sguardo dall’orizzonte (eravamo partiti dall’idea che al centro dell’intento vi fossero i cittadini cui si voleva “far sapere quanto di buono fanno i notai con i loro atti e nei loro atti”), si potrebbe essere

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finiti – e non sarebbe la prima volta – a rimirare il proprio ombelico. A voler essere maligni si potrebbe anche pensare – ma il dubbio è di rigore – che, una volta abbassato ulteriormente lo sguardo, qualcuno abbia intravisto nei protocolli un strumento utile per regolare la “concorrenza”. Dico questo perché altrimenti non si spiegherebbe l’accentuazione della valenza deontologica dei protocolli il cui valore dovrebbe invece essere circoscritto al risultato che consegue l’utente del servizio notarile e, per sommatoria, la Società. D’altra parte, solo a fini “interni” si spiega la attuale struttura dei protocolli che estendono all’intera attività notarile quella presunzione di incarico che la giurisprudenza ha nel tempo elaborato per la vendita immobiliare. Perché, se non a fini “interni”, si vuole privare il notaio della facoltà di valutare di volta in volta - assumendone la connessa responsabilità – l’opportunità di mettere o meno in atto una certa attività procedimentale? Visti dalla parte del cittadino, i protocolli avrebbero potuto essere (potrebbero ancora essere) lo strumento attraverso il quale si conosce:

a) qual è il risultato – di base – che ci si può attendere dal notaio b) quale può essere il procedimento che ulteriormente si può ottenere dal notaio, volta per volta conformando l’incarico professionale alla natura delle circostanze e alla qualità delle parti, fermo restando che, in ogni caso, compete al notaio di stabilire – assumendone la conseguente responsabilità – il punto di equilibrio tra costi e benefici più adeguato al caso concreto. Non a caso mentre si sviluppavano le critiche ai protocolli e maturavano nei loro confronti sentimenti di diffidenza e delusione, tornava in auge la proposta di introdurre il cosiddetto tetto repertoriale. Un indizio chiaro di quale possa essere stata la ideologia che (per ora) ha tradito (questi) protocolli.

Domenico de Stefano

INTERVENTO DEL PRESIDENTE DI FEDERNOTAI AL CONVEGNO DELL’ASSOCIAZIONE GIOVANI NOTAI

NAPOLI 15 SETTEMBRE 2007 E’ con vero piacere che ho accettato l’invito a partecipare a questo convegno (oltre che per ragioni geografiche ed anagrafiche, perché l’ Associazione Giovani Notai è sempre stato un mio sogno nel cassetto che si è realizzato grazie a Voi), convegno interessante ed innovativo se non altro per la particolarità delle tematiche che affronta, tematiche che toccano sicuramente aspetti di alto livello scientifico, grazie anche alla presenza di qualificatissimi relatori, ma che, al contempo, non trascurano problematiche di carattere sociale e culturale che meritano, sicuramente, risposte nuove ed adeguate ai tempi: già questo rappresenta un modo diverso, intelligente ed utile di rapportarsi con la realtà ed il mondo che ci circonda, un atteggiamento nuovo di essere notai capaci di relazionarsi con la società in cui viviamo e di cui siamo parte; tutto ciò significa fare vera politica del notariato nel modo migliore e nella giusta direzione. Perché la politica non è solo quella realizzata dai vertici delle Istituzioni o del Sindacato, ma è anche e soprattutto, come ho avuto modo di affermare più volte, quella espressa dalla base del notariato, da ciascuno di noi, nella quotidianità del nostro impegno e del nostro lavoro,

nell’entusiasmo e nel rapporto umano con la clientela che soprattutto Voi giovani notai riuscite a manifestare nell’arco della vostra iniziale esperienza professionale; da voi, oggi, il Notariato si attende molto e di più, perché l’epoca dei tempi lunghi per l’assunzione di responsabilità anche politiche è, per fortuna, finito o quasi finito. Voi oggi non rappresentate il futuro su cui scommettere ma il presente su cui basarsi. Certo un discreto bagaglio di esperienza è indispensabile nell’ambito di ogni attività e di ogni iniziativa e nessuno vuole abdicare al proprio ruolo né deresponsabilizzarsi per gettare sugli altri un pesante fardello di responsabilità, ma è pur giunto il momento, particolarmente nell’attuale contesto, che emergano, senza timori reverenziali ed inutili filtri di apparati burocratici abbastanza anacronistici, le vere potenzialità che il notariato, significatamene quello giovanile, sa e può esprimere con umiltà ed un pizzico di coraggio, due doti che andrò a sollecitarVi spesso. Ci vuole coraggio, innanzitutto, per capire la difficoltà del momento che stanno vivendo le libere professioni con particolare riferimento al notariato partendo, da una analisi ed un giudizio francamente negativo sull’inerzia quasi sistematica del notariato negli ultimi trent’anni rispetto ad una società che si evolveva con un

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processo di accelerazione notevolissimo: se il mondo và avanti noi non possiamo restare fermi o, addirittura, andare indietro; ci vuole l’umiltà di comprendere che siamo parte integrante di un sistema complesso, non il centro di un sistema che ruota intorno a noi. Stigmatizzare gli errori gestionali di un passato anche recente, senza nascondere la propria indolenza, con una sana ed equilibrata autocritica legittima aspirazioni concrete per operare meglio da oggi, da subito: ed è quello di cui abbiamo bisogno. Ci vuole il coraggio di innovarsi per migliorarsi, nel rispetto intoccabile della nostra funzione e del nostro ruolo, per essere sempre più il punto di riferimento legale e di certezze in un mondo globalizzato che poco e male sopporta le regole e che sempre più tende a privilegiare le leggi di mercato a beneficio dei grandi gruppi imprenditoriali ed a danno delle fasce economicamente più deboli; occorre l’umiltà di comprendere che il ruolo del notaio, nell’esercizio delle funzioni a lui delegate, è, soprattutto, un ruolo sociale di legalità a garanzia di tutti e, quindi, come tale, patrimonio e risorsa oggettiva della intera collettività. Sono convinto che la lettura in chiave sociale della attività giuridica espletata dal notaio, proprio per il ruolo di garante che è chiamato a svolgere, rappresenta un punto di riferimento irrinunciabile in una società che, paradossalmente, ha bisogno di certezze perché sempre più smarrisce il senso delle regole. Per questi motivi ci vuole il coraggio di un confronto franco e serrato all’interno ed all’esterno della categoria: - all’interno perché emergano, in una capacità di sintesi generale, i valori e le esigenze più genuine del notariato con l’umiltà di ascoltare sempre ed anche apprezzare le proposte di chi è minoranza, di chi è “voce fuori dal coro”, di chi con lo stesso od anche con maggior impegno del nostro si batte per un fine comune, offrendo a tutti quell’ indispensabile “credito di buona fede” che rappresenta il logico presupposto per una corretta dialettica (su questo mi sono già speso nel mio intervento di Taormina); - all’esterno perché relazionarsi con gli altri significa innanzitutto non avere paura di se stessi nè di quello che siamo o che rappresentiamo; non abbiamo bisogno di chiuderci perché non siamo una casta da difendere con i suoi privilegi, ma una categoria professionale al servizio dello Stato e dei cittadini. Su questi presupposti sempre più incalzante deve essere da parte nostra la ricerca del dialogo con le forze politiche, economiche e sociali, perché sappiano di poter offrire, in questi momenti, servizi utili a costi parametrati veramente bassi (vedi i vantaggi enormi, anche in

termini di tempo e di costi, dovuti alla nostra attività antiprocessuale): quando anche l’Unione Consumatori ed i Sindacati Confederati comprendono, grazie ai nostri pressanti contatti ed interventi, la follia giuridica di un “emendamento Lulli”, significa che questa è la strada giusta da seguire, il percorso da intraprendere con l’umiltà che nasce dalla consapevolezza della nostra forza e dal rispetto dovuto agli interlocutori che, comunque (e qui dobbiamo fare anche un grande sforzo di comprensione), sono chiamati a mediare ed a legiferare all’interno di situazioni macrooperative e macroeconomiche di grandissimo respiro. Da qui un invito fermo, pressante, duro (come non è nei miei toni abituali) al Consiglio Nazionale del Notariato ed al suo Presidente Paolo Piccoli affinchè siano operativi e, soprattutto, propositivi da subito per guidare, per gestire per essere protagonisti di quell’indispensabile processo di ammodernamento del notariato in una chiave ovviamente migliorativa e non subirlo con evidenti provvedimenti peggiorativi; uno slancio che, con coraggio, parta dall’interno: è quello che ci chiedono la classe politica più attenta ed equilibrata, le forze sociali veramente interessate ad un sano rilancio economico del paese. Per intenderci occorre licenziare quanto prima i lavori a valenza esterna delle commissioni di recente istituzione consiliare (accesso-incremento numero notai, trasparenza e faciltà di lettura della tariffa, omogeneità dei Distretti Notarili). Ritengo, invece, che sui provvedimenti a valenza interna, di egual se non addirittura di maggior importanza, ci siano i tempi per una più attenta riflessione, per una migliore interlocuzione e sensibilizzazione dell’intera categoria che potrebbe anche sfociare in un congresso straordinario dedicato a questi argomenti; perché quando si parla di tetti repertoriali, di numero di atti rogabili in un giorno o in un mese, di associazionismo quasi obbligatorio, di concorrenza lecita, di personalità della prestazione, di protocolli, di facoltà di rogito, del sistema elettivo delle cariche nazionali, bene, quando si parla di tutto ciò, gli impulsi e gli orientamenti devono partire dal basso per essere recepiti, raccordati e formalizzati da chi ne ha la responsabilità e la incombenza. Su un punto, però, Federnotai è stata chiara fin dal primo momento e ribadisce, oggi, con convinzione la sua posizione: che tutti i provvedimenti siano adottati e finalizzati esclusivamente a migliorare il tasso di qualità delle nostra prestazioni e non ad appesantire, penalizzare o, peggio ancora, cristallizzare in formalismi dogmatici i nostri atti. Siamo notai, siamo giuristi e non ragionieri; a noi e solo a noi individualmente compete, nel rispetto delle leggi, l’indirizzo e la impostazione degli atti,

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l’interpretazione della norma, la formulazione del contratto: spendiamo, con coraggio, più in qualità e professionalità e meno in burocrazia. In fondo sembra facile, ma sono sempre più convinto che il notariato si guida non con le barricate né con i cedimenti ad oltranza o pseudo tali, ma con la disponibilità al dialogo, il buon senso, la propositività; saper contemperare le esigenze primarie proprie con le necessità altrui significa anticipare i tempi e non farsi trovare maldestramente impreparati o addirittura arretrati rispetto ai bisogni dell’intera collettività, perché poi le reazioni possono essere imprevedibili se non catastrofiche (siamo a Napoli e mi vien voglia di ricordare, con termine marinaro, che prevenire le buriane è meglio che navigarci, anche bene, da dentro); credo sia di facile intuizione per tutti che se non si rilancia nei momenti di calma, negoziare nei momenti burrascosi diventa sempre più impresa ardua e poco redditizia. Certo il coraggio maggiore lo vengo a chiedere a Voi giovani notai, perché all’inizio della vostra attività, con legittime aspirazioni di affermarVi nel lavoro, dopo tanti anni di duro sacrificio e studio,di

conseguire un meritato successo professionale, che vi è dovuto dall’alto della vostra indiscussa preparazione, possiate trovare un poco del vostro prezioso tempo da dedicare alla politica del notariato, perché il notariato Vi appartiene, perché avete il polso delle proiezioni temporali molto meglio di me,di noi, perché possiate essere una classe dirigente competente e preparata, perché la partecipazione rappresenta un momento di arricchimento reciproco, con l’umiltà di capire che in questo modo il tempo sottratto ad un rogito rappresenta un investimento solido e sicuro per il vostro (e qui il vostro è d’obbligo) futuro. E concludo questo breve intervento citando una frase detta quasi sottoforma di augurio dal Vostro Presidente Dario Ricolo al Congresso di Riva del Garda, io Ve la ripeto come certezza: ognuno di voi avrà circa quarant’anni e più di professione davanti a sé: Dario disse “li vogliamo fare tutti”, io vi dico li dovete fare tutti, li dovete fare bene e vi dico, anche se molto dipenderà da Voi stessi!

Gennaro Fiordaliso Presidente di Federnotai

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Argomenti

LA TASSAZIONE DEI TRASFERIMENTI IMMOBILIARI TRA CONTRATTO PRELIMINARE E CONTRATTO DEFINITIVO

L’articolo 10 della Tariffa Parte prima allegata al D.P.R 26 aprile 1986 n. 131, Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, è stata norma per lungo tempo trascurata dalla dottrina tributaristica e disapplicata nella prassi perché molto alto era il tasso di disubbidienza all’obbligo di registrare in termine fisso i “Contratti preliminari di ogni specie” (peraltro deve ricordarsi come, ai sensi dell’articolo 1 della Tariffa – Parte Seconda, qualora il contratto preliminare sia formato per corrispondenza, lo stesso sia soggetto a registrazione solo in caso d’uso) La maggior attenzione che ora si è costretti a prestare a tale norma è dovuta a tre sopravvenute novità legislative: 1) il D.L. 31 dicembre 1996 n. 669, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1997 n. 30, che ha introdotto, con l’art. 2645 bis c.c., la possibilità di trascrivere i contratti preliminari con effetti prenotativi; 2) l’articolo 1 comma 497 della L. 266 del 23 dicembre 2005 che, introducendo il mai troppo lodato principio della tassazione sulla base del cosiddetto prezzo-valore e sganciando, in alcune e frequenti ipotesi, la base imponibile dal corrispettivo consente di far emergere i reali valori delle transazioni e, conseguentemente, “neutralizza” molte delle controindicazioni che di fatto impedivano il diffondersi della trascrizione del preliminare; 3) il comma 46 della legge 296/2006 (legge finanziaria per il 2007) che, integrando il contenuto degli articoli 10 e 57 del D.P.R 131/86 (soggetti obbligati a chiedere la registrazione e soggetti obbligati al pagamento) ha introdotto, a carico degli agenti di affari in mediazione, l’obbligo di registrazione delle scritture private non autenticate di natura negoziale stipulate a seguito della loro attività per la conclusione degli affari, nonché l’obbligo solidale al pagamento dell’imposta per dette scritture. Tale ultima novità pone una serie di problemi in gran parte legati ad una prassi contrattuale diffusa tra le agenzie immobiliari, che spezza in tre fasi la contrattazione (proposta/accettazione, preliminare, definitivo). Al riguardo ritengo utile, per poter concentrarmi su altre problematiche più propriamente notarili, rinviare allo studio 13/2007 approvato dalla Commissione studi tributari del CNN il 7 settembre 2007.

LA TASSAZIONE DEL CONTRATTO PRELIMINARE: CAPARRE E ACCONTI PREZZO Nel contratto preliminare sogliono adottarsi, a tutela della parte adempiente, misure di garanzia e/o sanzionatorie preordinate al rafforzamento delle vicendevoli obbligazioni e dei corrispondenti diritti. E’ diffuso l’utilizzo, a fine di incremento della propensione all’adempimento e di dissuasione dall’inadempimento o dal non esatto adempimento o, quanto meno, di significativo sacrificio economico in caso di comportamenti difformi dalle intese raggiunte o con esse non compatibili, dei seguenti istituti: - caparra confirmatoria (art. 1385 cod. civ.) destinata - vero e proprio strumento di "garanzia" - a rafforzare la posizione contrattuale della parte adempiente, con corripondente ed equivalente indebolimento di quella della inadempiente; - caparra penitenziale (art. 1386 cod. civ.) configurantesi come corrispettivo, convenzionalmente e liberamente prestabilito, dello jus poenitendi o diritto di recesso; - clausola penale (art. 1382 cod. civ.) rappresentante la misura, anch’essa convenzionalmente prestabilita, del risarcimento del danno - che perciò non occorrerà provare - prodotto dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempimento; - previsione di anticipato versamento d’una o più frazioni del prezzo (ccdd acconti) portante indubbio aggravamento di posizione della sola parte promittente l’acquisto che, col versamento di tali acconti, viene a risultare anzitempo (in varia misura) adempiente rispetto all’altra parte che risulterà adempiente dell’intera sua obbligazione solo al momento del contratto definitivo. Gli aspetti fiscali oggetto di questo esame sono quelli che si evidenziano in occasione della registrazione del preliminare a norma dell’art. 10 della Tariffa, parte prima, allegata alla vigente legge di registro DPR. n.131/1986. Il quale art. 10 dispone, a questo proposito, che i "contratti preliminari di ogni specie", da registrare in termine fisso, siano soggetti all’imposta di registro nella misura fissa. La nota all’art. 10 della Tariffa predetta specifica che "Se il contratto preliminare prevede la dazione di somme a titolo di caparra confirmatoria

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si applica il precedente art. 6; se prevede il pagamento di acconti di prezzo non soggetti all’imposta sul valore aggiunto a sensi degli artt. 5, comma 2, e 40 del testo unico si applica il precedente art. 9. In entrambi i casi l’imposta pagata è imputata all’imposta principale dovuta per la registrazione del contratto definitivo". Ciò significa che il contratto preliminare sarà assoggettato all’imposta di cui all’art. 6 della stessa Tariffa (0,50%) sulla eventuale caparra confirmatoria e all’imposta proporzionale di cui all’art. 9 della stessa Tariffa (3%) sul o sugli eventuali acconti di prezzo contrattualmente previsti. Lo 0,50% di cui all’art. 6 non sembra invece dovuto nei casi di "clausola penale" o di "caparra penitenziale" destinate a concretizzarsi, ad assumere cioè natura e valore di contenuto economico e fiscalmente significativo, solo con carattere di eventualità e in tempo sicuramente successivo a quello del contratto preliminare del quale si configurano come clausole meramente accessorie e condizionali, non attualmente operanti, le quali, forse, spiegheranno la propria efficacia non prima del verificarsi di un accadimento futuro, incerto e sicuramente non fisiologico né caratteristico della intesa preliminare. Parrebbe inoltre perfino dubbio che il richiamo all’art. 6 della Tariffa, in presenza di caparra confirmatoria, comporti davvero l’assoggettamento del contratto alla ivi prevista imposta di "garanzia" o di "quietanza" in ragione dello 0,50% (sia pure destinata ad essere imputata all’imposta dovuta in sede di registrazione del contratto definitivo). Infatti: - l’imposta di "garanzia" sarebbe bensì dovuta se si trattasse di garanzia prestata a favore di terzi, come consegue alla presenza di tale delimitazione nel richiamato art. 6 della vigente Tariffa di registro (che non figurava nell’omologo art. 6 della Tariffa, parte prima, del previgente DPR n. 634/1972) onde potrebbe forse immaginarsi la tassabilità della caparra confirmatoria nel solo caso (qui ipotizzato per mera astrazione dimostrativa, essendo estraneo alla previsione legislativa dell’art. 1385 cod. civ.) di caparra prestata da un soggetto diverso dalle parti contraenti; - che se invece si tratta di garanzia intercorrente tra gli stessi soggetti titolari del rapporto obbligatorio, nei cui confronti non sia quindi ipotizzabile l’esistenza di un terzo a cui favore sia disposta la garanzia, non sussiste ora alcuna imponibilità ai fini del tributo di registro, come peraltro è stato esplicitamente riconosciuto e dichiarato anche da fonte sicuramente non sospettabile di indulgente condiscendenza verso il contribuente (Verbale n.1-1989 della Riunione dei Capi degli Ispettorati Compartimentali delle Tasse

e delle Imposte Indirette sugli Affari svoltasi nei giorni 7, 8, 9 e 10 marzo 1989); - neppure potrà ritenersi dovuta tale imposta a titolo di "quietanza" o "ricevuta" della dazione della caparra, ostandovi l’art. 21, comma 3, del vigente DPR n. 131/1986, a norma del quale "Non sono soggette ad imposta.......le quietanze rilasciate nello stesso atto che contiene le disposizioni cui si riferiscono"; Le riflessioni sopra svolte seppur basate su argomenti letterali “importanti” non trovano riscontro concreto presso gli uffici dell’Agenzia delle Entrate che implacabilmente applicano l’aliquota dello 0,50%, senza ulteriori distinguo, ogni qualvolta sia prevista la dazione di una caparra confirmatoria, senza distinguere, tra preliminari di definitivi soggetti ad imposta di registro e preliminari di definitivi soggetti ad IVA (per i quali l’imposta pagata per la caparra è definitivamente persa). Sul punto (preliminare di definitivo soggetto ad IVA) occorre peraltro farsi carico della recente Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Normativa e Contenzioso (1 agosto 2007 n. 197) la quale si presenta con una ricostruzione civilistica a dir poco balbettante ("Il contratto preliminare, disciplinato dall'articolo 1385 c.c......") per giungere a conclusioni non del tutto chiare. Se infatti da un lato si ribadisce una risalente ma consolidata affermazione dell'amministrazione finanziaria secondo cui "la caparra confirmatoria versata da una delle parti di un atto di compravendita in sede di stipula di un contratto preliminare è soggetta all'imposta (di registro) in misura proporzionale. In tal senso, non rileva la circostanza che tale somma, versata a titolo di caparra, al momento della conclusione del contratto per atto pubblico divenga parte del corrispettivo soggetto ad Iva, in quanto, al fine del contratto preliminare la somma in questione deve essere considerata caparra e non acconto sul prezzo di futura cessione (...) (risoluzione del 3 gennaio 1985, n. 251127)", dall'altro si afferma che "la previsione nel preliminare del versamento di una somma di denaro mediante imputazione al prezzo a titolo di caparra confirmatoria e acconto prezzo attribuisce alla caparra questa ulteriore funzione". In conclusione, per il fisco, "si renderà, dunque, applicabile il criterio di alternatività Iva-registro previsto dal richiamato articolo 40 del T. U. R. e, pertanto, le disposizioni soggette ad Iva non saranno imponibili agli effetti del registro, risultando dovuta la sola imposta di registro in misura fissa." Da una tale lettura sembrerebbe che una clausola congegnata (ed adattata all'eventuale meccanismo della reverse charge) come quella che sotto si riporta, porterebbe ad evitare l'imposizione proporzionale nella misura dello 0,50%.

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"A titolo di caparra confirmatoria, imputabile al prezzo in sede di adempimento a norma dell'art. 1385 cod. civ., la parte promittente acquirente ha prima d'ora versato la somma di euro............. alla parte promittente venditrice che rilascia corrispondente quietanza. Si precisa che dovendo la somma qui versata a titolo di caparra essere imputata al prezzo di vendita, in caso di adempimento, e fungendo la stessa, in caso di adempimento, da anticipazione del corrispettivo pattuito, la stessa dovrà essere regolarmente fatturata dalla parte promittente venditrice e quindi assoggettata ad IVA, il tutto così come precisato nella Risoluzione Agenzia delle Entrate n 197/E del 1° agosto 2007." Le perplessità sulla correttezza dell'opinione ministeriale nascono dal fatto che l'imputabilità al prezzo della caparra confirmatoria discende "naturalmente" dal testo della norma ("la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta"), mentre il combinato disposto degli articoli 6 e 10 della Tariffa non sembra riferibile alle sole ipotesi (in realtà alquanto astruse) di caparre di cui è prevista esclusivamente la restituzione. Sembra invece corretta la tassazione al 3% (art. 9 della Tariffa) degli acconti di prezzo - non soggetti ad I.V.A. - previsti dal contratto preliminare, non solo per l’importo che risulti contestualmente versato, ma pure per quello o quelli di cui sia previsto il versamento prima della stipulazione del contratto definitivo; invero tal genere di prestazione (l’anticipazione del pagamento del prezzo o di parte di esso e/o la promessa di una o più ulteriori anticipazioni di pagamento) non costituisce disposizione necessariamente connessa o derivante dalla promessa di "facere" in cui consiste il contratto preliminare, soggetto - come tale - alla sola imposta fissa ex art. 10 della Tariffa: si tratta infatti, in deroga allo schema contrattuale tipico del preliminare (negozio obbligatorio contenente la promessa di stipulare il negozio definitivo), di un’anticipata esecuzione parziale o totale di una delle prestazioni in cui consiste il negozio promesso. In effetti ad esempio, nella vendita l’obbligo di pagare il prezzo deriva dal negozio traslativo "vendita" mentre nel contratto preliminare il consenso attiene soltanto alla misura del corrispettivo. Ne consegue che tali pattuizioni di anticipato versamento, in una o più volte, di "acconti" si atteggiano come disposizioni autonome rispetto al contratto obbligatorio cui accedono, e perciò distintamente tassabili ex 1° comma dell’art. 21 della Legge di registro. L’apparente elevatezza di questo esborso tributario è attenuata, dalla successiva prevista imputazione di esso all’imposta dovuta in sede di registrazione, a suo tempo, del contratto definitivo, seppur deve essere fatta estrema attenzione alle ipotesi in cui figurino pagati o promessi acconti prezzo

particolarmente elevati in presenza di agevolazioni per l’acquisto dell’abitazione principale e di un valore catastale modesto rispetto al corrispettivo. Potrà infatti verificarsi l’ipotesi, evidentemente ignota al legislatore del 1986, in cui l’imposta pagata in relazione ad acconti di prezzo risulti superiore, e quindi persa per l’eccedenza, rispetto a quella che sarebbe dovuta applicando l’aliquota agevolata del 3% alla base imponibile costituita dal valore catastale. In questi casi, dovendosi considerare come unitaria l’operazione economica realizzata con la sequenza “preliminare-definitivo”, appaiono condivisibili le conclusioni cui giunge il già citato studio della Commissione Studi Tributari del CNN e cioè che, nel caso in cui la registrazione del preliminare abbia comportato il pagamento dell’imposta di registro in misura superiore a quella che sarebbe stata dovuta per la sola registrazione del contratto preliminare, il contribuente abbia diritto a chiedere ed ottenere il rimborso dell’eccedenza. La questione (attinente al solo tributo di "Registro") non si pone naturalmente quando si tratti di corrispettivo relativo ad operazione compresa nel campo che sarà dunque trattato secondo la disciplina di questa imposta e ciò indipendentemente dal fatto che la fattispecie sia imponibile o rientri nelle esenzioni di cui all’art. 10 n. 8-bis e 8-ter del D.P.R. 633/1972. E’ prassi consolidata delle Agenzie delle Entrate chiedere sempre e comunque il pagamento di un’imposta fissa in sede di registrazione del preliminare cui si aggiungono, senza possibilità di assorbimento, le imposte proporzionali per caparra ed acconti. La prassi di cui è fatto cenno, oltre a risultare penalizzante per una salutare diffusione della trascrizione del contratto preliminare , non risulta corretta sul puro piano dell’interpretazione della norma. Non si rinviene infatti alcun dato testuale per sottrarre il contratto preliminare alla regola generale dettata dall’articolo 41 del T.U. per la quale l’imposta è liquidata mediante applicazione dell’aliquota prevista dalla tariffa salva l’ipotesi in cui l’imposta proporzionale così calcolata non raggiunga la misura fissa. E, d’altra parte, risulta aberrante che caparre ed acconti prezzi pattuiti nel preli¬minare determinino materia impositiva e manifestino capacità contributive diverse rispetto al contratto di cui fanno parte. DAL PRELIMINARE AL DEFINITIVO: L’IMPUTAZIONE DELL’IMPOSTA PAGATA Come si è visto, il meccanismo di imputazione delle imposte pagate in sede di registrazione del contratto preliminare a quelle dovute in sede di registrazione del contratto definitivo è piuttosto semplice, se si pone attenzione alle insidie che derivano dall’applicazione del prezzo valore e

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dall’utilizzo di eventuali crediti di imposta che eccedono il residuo debito nei confronti del fisco. E’ peraltro prassi consolidata, e censurabile per le medesime ragioni sopra esposte, non consentire, da parte delle Agenzie delle Entrate, l’imputazione all’imposta dovuta sul definitivo dell’imposta fissa pagata sul preliminare in aggiunta all’eventuale imposta proporzionale. Qualche problema, sotto il profilo dell’imputazione, potrebbe sorgere nei casi in cui il contratto definitivo introduce varianti rispetto al preliminare, sotto il profilo oggettivo o sotto quello soggettivo. Qualora il definitivo riguardi un immobile solo in parte preso in considerazione nella contrattazione preliminare (ad esempio viene successivamente aggiunto un box o altra pertinenza) nessun dubbio si porrà riguardo all’imputazione dell’imposta, conseguendo le parti un risultato identico rispetto a quello cui sarebbero giunti stipulando un definitivo in esatto adempimento del preliminare ed una seconda vendita per il bene aggiunto in un momento successivo. Alla medesima conclusione si deve giungere qualora il definitivo riguardi solo in parte gli immobili promessi, perché per tali immobili si tratta pur sempre di adempimento, ma tale “riduzione” potrà comportare in concreto l’impossibilità di recuperare l’imposta anticipata su caparra ed acconti. Più complesse, e difficilmente riconducibili ad unità, le questioni relative alle differenze qualitative. La sequenza preliminare/definitivo, e la conseguente imputabilità delle imposte anticipate, non potrà essere considerata interrotta nell’ipotesi in cui la variazione qualitativa sia espressamente contrattualizzata (promessa di vendita di terreno con sovrastante fabbricato da demolire prima del definitivo, promessa di vendita di terreno non edificabile con approvazione di diverso strumento urbanistico in corso, promessa di vendita di porzione di fabbricato per il quale è convenuto un mutamento di destinazione d’uso) o indipendente dalla volontà dei contraenti (promessa di vendita di nuda proprietà cui, nelle more, si consolida l’usufrutto, etc.). Ancor più problematica l’ipotesi di sostituzione transattiva del bene (può essere il caso del preliminare di bene in costruzione, per il quale, a causa di ritardi nell’edificazione le parti si accordino per trasferire dal costruttore al promettente acquirente altro appartamento già esistente di proprietà del costruttore stesso). A me pare di poter affermare che si definiscono nella fattispecie presa in esame transattivamente i diritti e gli obblighi derivanti dal ritardo nell’adempimento e che, comunque, il definitivo di bene diverso non perda il suo collegamento col preliminare registrato con conseguente imputabilità delle imposte già pagate. Identica soluzione, a maggior ragione, richiede l’ipotesi in cui l’accordo transattivo riguardi una diversa quantificazione del prezzo,

salve, in entrambi i casi, le eventuali maggiori tassazioni derivanti, ai sensi dell’art. 29 del T.U., dal negozio transattivo. La risposta pare invece negativa, con conseguente impossibilità di imputare le imposte pagate in sede di registrazione del preliminare, qualora tra preliminare e definitivo muti la causa e, ad esempio, da un preliminare di vendita si passi ad una divisione o viceversa. Restano da esaminare le ipotesi in cui muti uno dei soggetti del contratto preliminare. Nessun problema per il contratto preliminare stipulato a favore di terzo, in quanto il terzo accettante acquista il diritto per (e con) effetto dalla stipulazione, e neppure per il classico contratto per persona da nominare. L’electio amici dovrà peraltro risultare da atto registrato (normalmente troverà sede nelle premesse del definitivo cui dovrà pertanto partecipare lo stipulante) e dovrebbe scontare un’imposta fissa autonoma ed ulteriore rispetto a quanto normalmente dovuto per la sequenza preliminare/definitivo. Anche nel caso di cessione del contratto preliminare è necessario, per evitare di pagare due volte, che la cessione risulti regolarmente registrata o contenuta nel corpo del definitivo. L’articolo 31 del T.U. prevede, in questo caso, che la cessione del contratto sia “soggetta all’imposta con l’aliquota propria del contratto ceduto”. Per la cessione sarà quindi dovuta la sola imposta fissa qualora il cessionario si limiti a rimborsare la caparra e gli acconti prezzo pagati dal cedente al contraente ceduto. Nell’ipotesi in cui il cedente realizzi un utile dalla cessione, e pertanto oltre al rimborso di caparra ed acconti prezzo sia pagato dal cessionario un ulteriore corrispettivo, non pare che il dato letterale consenta di applicare un’imposta proporzionale, se non attraverso una non giustificabile estensione della norma residuale che assoggetta all’aliquota del 3% “gli atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”, non giustificabile appunto perché la cessione del contratto trova nell’articolo 31 una sua autonoma ed esaustiva regolamentazione. Infine, nel caso in cui il contratto ceduto rientri nel perimetro IVA, la cessione sarà considerata, ai fini dell’applicazione di tale tributo, prestazione di servizi ai sensi dell’articolo 3 e quindi soggetta alla regola dell’alternatività. UN CASO PARTICOLARE Accade sovente che una coppia di coniugi si determini all’acquisto di una nuova abitazione senza avere in programma di vendere l’attuale o non riuscendo a realizzare tale progetto prima dell’acquisto della nuova. I notai si trovano pertanto con frequenza ad affrontare in questi casi il tema delle agevolazioni per l’acquisto dell’abitazione principale, suggerendo di concentrare la proprietà della vecchia abitazione

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in capo ad un coniuge e della nuova in capo all’altro. A tale risultato si perviene solitamente con un trasferimento, intitolato vendita o donazione, della quota di metà della vecchia abitazione e con l’acquisto della nuova, nella maggior parte delle ipotesi promesso da entrambi i coniugi, da parte del solo coniuge venditore della quota di metà. Nessuna delle due qualificazioni prospettate e solitamente utilizzate sembra soddisfacente. Non la vendita perché in realtà non corre denaro tra i coniugi (ed oggi la legge Bersani spinge a suggerire pericolose e fittizie dilazioni di pagamento). Non la donazione perché nell’ipotesi non si tratta di liberalità ma semplicemente di un’operazione di programmazione fiscale nell’interesse della famiglia tesa ad ottenere l’assetto tributario più efficiente. Piuttosto sembra che tale negozio possa essere inquadrato nell’ambito della divisione essendo finalizzato ad assegnare ad un coniuge la proprietà di un’abitazione ed all’altro il diritto ad ottenere il trasferimento della proprietà dell’altra abitazione Repertorio n. Raccolta n.

D I V I S I O N E REPUBBLICA ITALIANA

L'anno (), il giorno () del mese di In Milano, nel mio studio in via Mario Pagano n. 65. Davanti a me Arrigo Roveda, notaio con sede in Milano, Collegio Notarile di Milano, sono presenti i signori: * TIZIO coniugato in regime di separazione dei beni; * TIZIA coniugata in regime di separazione dei beni. Detti signori, delle cui identità personali sono certo,

p r e m e s s o - che con atto in data n. di repertorio a rogito notaio registrato presso l'Agenzia delle Entrate di in data al n. e trascritto a con nota i coniugi signori Tizio e Tizia hanno acquistato, per quota di metà ciascuno, un appartamento sito in Comune di catastalmente identificato come segue - che con contratto preliminare in data n. di repertorio a rogito notaio , registrato presso l'Agenzia delle Entrate di in data al n. trascritto a con nota , i coniugi signori Tizio e Tizia hanno promesso di acquistare da Caio un appartamento sito in Comune di catastalmente identificato come segue - che il prezzo di euro

convenuto per l'acquisto, cui i coniugi Tizio e Tizia si sono obbligati con il predetto contratto preliminare è stato prima d'ora dagli stessi pagato per euro (pari al valore della quota di metà dell'appartamento già di proprietà di Tizio e Tizia), utilizzando i seguenti mezzi di pagamento: - che residua pertanto a carico dei coniugi Tizio e Tizia l'obbligo di pagare il residuo prezzo pari ad euro

ciò premesso IN PRIMO LUOGO

Tizio, a titolo divisionale, a s s e g n a a Tizia che accetta: = credito nei confronti di Caio, consistente nel diritto al trasferimento del seguente immobile…… Resta a carico dell'assegnataria Tizia l'obbligo di provvedere al pagamento del residuo prezzo di euro…….

IN SECONDO LUOGO Tizia, a titolo divisionale a s s e g n a a Tizio che accetta: = appartamento nello stabile sito in Comune di ….. così censito al Catasto Fabbricati di ….. Confini…… A migliore identificazione di quanto assegnato le parti fanno riferimento al disegno che si allega sotto Detto disegno ha scopo semplicemente indicativo e non impegna quanto ad esattezza di superfici e distanze. All'appartamento assegnato compete una proporzionale quota di comproprietà sulle parti comuni dell'intero stabile. Ai fini fiscali le parti attribuiscono a quando oggetto di divisione il complessivo valore di Euro …. A ciascun lotto viene attribuito l'identico valore di Euro ….. pertanto non si fa luogo a conguaglio alcuno. CLAUSOLE CONTRATTUALI 1) Gli immobili di cui al secondo luogo vengono assegnati a Tizio, nello stato di fatto in cui si trovano, con ogni diritto, accessione, servitù e pertinenza. 2) Tizia garantisce la proprietà dei beni immobili assegnati a Tizio e la loro libertà da ipoteche e da trascrizioni pregiudizievoli. 3) Dichiarano le parti condividenti di rinunciare a qualsiasi diritto di ipoteca legale che potesse alle stesse competere in dipendenza del presente atto. 4) MENZIONI URBANISTICHE 5) L'assegnazione del credito alla signora Tizia verrà notificata al debitore Caio ai sensi dell.'art. 1264 c.c.

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6) Le spese e le tasse tutte di questo atto, sue annesse e dipendenti, si convengono a carico delle pari condividenti in solido tra loro. 7) Ai fini fiscali Tizio dichiara: a.) di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione nel territorio del Comune in cui è situato l'immobile acquistato col presente atto; b.) di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale, su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso ed abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata con le agevolazioni di cui alla nota II bis articolo 1 della tariffa parte prima allegata al D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 e di cui alle altre disposizioni di legge dalla stessa richiamate; c.) che la casa di abitazione in oggetto non è di lusso secondo i criteri di cui al decreto del Ministro dei Lavori Pubblici 2 agosto 1969. Il presente atto sarà pertanto assoggettato al regime delle imposte indirette previsto per la prima casa. Qualora l'abitazione assegnata col presente atto, venga ceduta, a titolo oneroso o gratuito, prima del decorso del termine di 5 anni da oggi, saranno dovute le imposte nella misura ordinaria, oltre ad una sopratassa del 30% delle imposte stesse e agli interessi di mora e ciò a meno che l'assegnante, entro un anno dalla cessione, proceda all'acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale. Questo atto viene da me letto alle parti, omessa la lettura degli allegati per espressa volontà delle parti medesime. Scritto in parte da me ed in parte dattiloscritto da persona di mia fiducia su …..fogli di cui occupa

le prime ……intere facciate e parte della ……. viene sottoscritto alle ore………….. Un atto così congegnato dovrebbe essere tassato con l’aliquota propria dei negozi dichiarativi (1% ai sensi dell’articolo 3 della tariffa parte prima), se non incombesse su di esso lo spettro della norma nota ai più come regolatrice delle “masse plurime” (articolo 34 comma 4°), che sembra caduta in desuetudine ma che, a stretto rigore, potrebbe essere applicata all’ipotesi in esame. Anche in questo caso, peraltro, la tassazione (ed è per questo che si è ritenuto necessario prevedere la richiesta di agevolazione per l’acquisto dell’abitazione principale) non dovrebbe essere diversa da quella che deriva dal trasferimento tra coniugi a titolo oneroso della quota di metà, con il vantaggio di qualificare correttamente il negozio tra coniugi. La prima parte di questa relazione recepisce, con le modifiche necessarie in relazione alle novità sopravvenute, un articolo di Vittorio Muggia “Il contratto preliminare e l’imposta di registro” pubblicato su FederNotizie marzo 1997, pag 66. E’ altresì debitore, nella seconda parte, di altro articolo di Ugo Bechini, “La trascrizione del contrat¬to preliminare” pubblicato su Rivista del Notariato, marzo-aprile 1999, pag. 241. La clausola proposta a pag. trae ispirazione da una e-mail inviata a Lista Sigillo da Giovanni Rizzi il 9 agosto 2007.

Arrigo Roveda

LE PUBBLICHE FUNZIONI: TRA FEDELTA’ E LEALTA’ (E SICOFANTIA) seconda parte

La prima parte del presente articolo è stata pubblicata sul numero di FederNotizie del settembre 2007 E – Nel diritto amministrativo. L’attuale moderna esigenza economica di contenere i costi di “intermediazione” di qualsiasi vicenda contrattuale a vantaggio delle bipolari categorie, produttiva e dei consumatori (nel costante oblio dei costi della politica e degli sperperi dell’”apparato pubblico”, fautori imperterriti di uno scellerato scempio erariale e di un vizioso connubio ricattatorio tra Potere e

lavoro), in una con la generale latente incultura in ordine allo Stato-di-diritto, hanno in breve convinto la classe politica a scansare le proprie responsabilità ed a cavalcare l’equivoco dell’equiparabilità tra pubblica funzione ed esercizio di pubblico servizio. La possibilità di svolgere attività pubbliche da parte di soggetti privati ha portato all’equivoca commistione tra “pubbliche funzioni” e “servizi pubblici (svolti da privati)”, appunto in nome di una moderna semplificazione amministrativa e di una economicità di gestione dello Stato, a totale scapito e spregio della sovranità dello Stato, del

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sistema ordinamentale che regge lo Stato-di-diritto, delle reali finalità pubbliche, di un simmetrico e paritetico trattamento di tutte le parti (privati e pubblica amministrazione compresa) e quindi della certezza/sicurezza di “qualsiasi traffico”. Il predetto fenomeno equiparativo è stato favorito da un tesi (G. Zanobini, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici, nel Trattato di diritto amministrativo italiano diretto da V.E. Orlando, vol.II parte III, p.424 ss.; G. Zanobini. L’esercizio privato delle pubbliche funzioni e l’organizzazione degli enti pubblici, in Annali delle Università Toscane, vol.V –XXXIX della Collezione-, fasc.I, Pisa, 1920) quasi coeva – come si ricava dalle date – alla nascita del Notariato moderno e che, ora, a distanza di quasi cento anni, si va tendenzialmente e definitivamente consolidando, in considerazione delle esigenze economiche del sistema democratico e della barbarie giuridica dilagante (incapace di stigmatizzare l’equivoco di tale equiparabilità), soprattutto dopo che dottrina e giurisprudenza hanno scivolosamente evidenziato l’esistenza di attività qualificate come “servizi”, evolventisi talora in “pubblici servizi”, dotati di forza autoritativa, con assunzione da parte di privati della qualifica di organo indiretto dell’amministrazione, ossia praticamente di pubblico ufficiale (come nel caso dell’insegnante che è “incaricato di pubblico servizio” quando insegna e diviene “pubblico ufficiale” quando esamina ed emette un giudizio avente efficacia legale). Vale la pena di soffermarsi sull’evoluzione di questa tesi (quella dello Zanobini, sui cui testi amministrativi molti giuristi ormai sessantenni/settantenni si sono formati) per rendersi conto di come una impostazione dottrinaria può portare allo scardinamento dello Stato-di-diritto e di come, diversamente, un’opposta opinione (quella di M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Giuffrè 1970, p.169 e p.448; sapientemente sviluppata da M.A. Carnevale Venchi, Contributo allo studio della nozione di funzione pubblica, Cedam 1974, p.150) può invece condurre alla riqualificazione ed alla reinterpretazione moderna dello Stato-di-diritto e dei suoi organi funzionali. Cercherò di essere succinto, ma il discorso non potrà essere né breve, ne facile. Quantunque la legge notarile (16.2.1913 n.89) e la legge istitutiva del CNN (3.8.1949 n.577) facciano riferimento direttamente e indirettamente ai notai come ad “ufficiali pubblici”, nessun politico e forse pochi giuristi (notai compresi) sono stati mai definitivamente convinti della predetta qualifica attribuita dalla legge alla categoria. Non tanto perché tale qualifica non competesse, quanto e piuttosto perché il comportamento di ogni cittadino è per antica acquisizione culturale ed antropologica, a valenza intimamente privata,

ma anche socialmente pubblica e politicamente collettiva. In fondo la matrice della tesi “zanobiniana” è questa: là dove si manifesti un’organizzazione in qualunque forma strutturata, chi agisce in nome proprio ma nell’interesse della collettività si comporta come gestore di fatto di un pubblico interesse. Quindi ognuno può essere di fatto un gestore di pubblico servizio e quindi, secondo l’esigenza efficientista e produttivista dello Stato, anche un pubblico ufficiale. La tesi “gianniniana”, diversamente, ritiene che il comportamento del pubblico ufficiale sia connotato da un plus di riferimento, per modo che l’agire dell’organo statale non si fonda solo sul fenomeno sostitutivo/rappresentativo dell’Ente cui inerisce per il perseguimento del fine o dei fini, ma anche sul contenuto e sulle modalità sostanziali (non solo formali) di quel riferimento. Occorre quindi evidenziare quel plus di connotazione che caratterizza il munus publicum. E non è facile dire in cosa consista. Vale la pena di prendere le mosse da Zanobini per rendersi conto definitivamente dell'insufficienza e dell'insostenibilità della sua tesi generica e generalizzante. "L'organo dello Stato, tutti sanno che è una parte della personalità dello Stato, una sfera particolare della sua attività e che le persone fisiche, che si dicono organi, debbono rappresentare queste diverse sfere dello Stato, o almeno concretarle o impersonarle in sé: debbono, come si dice, essere titolari di un ufficio" e "non v'è dubbio che i privati che esercitano in nome proprio funzioni pubbliche, siccome sono soggetti di diritto a sé stanti, non sono organi dello Stato... Ma il dubbio può ammettersi, invece, riguardo a un altro aspetto della questione, a un aspetto prevalentemente teorico: se, cioè, sia giusto circoscrivere il concetto di organo in modo che esso comprenda soltanto gli organi intesi nel senso accennato, o se non sia più logico e più utile estendere tale concetto anche ad alcune persone che conseguano fini pubblici, rimanendo fuori dalla personalità dello Stato" (Zanobini, cit. p.20-21). Qui prende avvio lo scardinamento del concetto di organo, di munus publicum, da parte del famoso Autore, che - dimentico del dettato normativo, del riferimento totalizzante alla pluralità di accezioni di Stato cui l’organo fa rimando, della modalità di esplicazione di ogni pubblica funzione ed ovviamente anche di quella notarile, più oltre (p.28) afferma: "Vogliamo soltanto rendere chiaro che il concetto di organo, col quale generalmente si ritiene esaurirsi qualunque forma di organizzazione degli enti pubblici, è unilaterale e coglie soltanto una parte, sia pure la più importante, di questa organizzazione. Di due specie sono gli organi,

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dello Stato, come possono essere quelli di qualunque altro soggetto: diretti e indiretti. Organi diretti sono da considerarsi quelle persone che lo Stato insedia in un proprio ufficio (n.d.r., donde l'importanza, anche se non assoluta, della sede per il notariato!), cioè in una parte della propria personalità, attribuendo loro una parte della propria competenza: esse dispiegano la loro attività (n.d.r.: A) in nome dello Stato e servendosi di mezzi forniti dallo Stato stesso. Sono, invece, organi indiretti quelle persone che lo Stato incarica dell'esercizio dell'attività corrispondente ad uno dei propri fini, senza assumerlo nella sua personalità, lasciandole agire (n.d.r.: B) in nome proprio e con mezzi propri pur collegandole alla sua organizzazione, per mezzo di altri organi diretti incaricati di esercitare su quelli poteri statuali di vigilanza e di disciplina, che sono una continuazione e un complemento dei suoi poteri organici". E' evidente che in tale inquadramento il Notariato, moderno apax giuridico, che agisce (A1) direttamente in nome dello Stato ma con mezzi propri non ha trovato posto nella teorizzazione dell'esimio Autore e tende a non trovare odierna collocazione nei suoi epigoni politici e dottrinari. Mentre trovano ampio riscontro nella realtà giuridico-economica attuale diversi soggetti, che agiscono (B1) in nome proprio e servendosi di mezzi forniti dallo Stato stesso (ad esempio: le imprese confindustriali, con impietosa e netta evidenza di tutti i dissanguanti infiniti sussidi elargiti dello Stato tramite munifiche detassazioni, generosi ammortamenti, inesauribili crediti agevolati, emorragiche provvidenze assistenziali e previdenziali, oltre ad incontrollati rivoli meno noti). Per rendersi definitivamente conto della deviante applicazione del concetto di organo indiretto operata dalla susseguente dottrina, sulla scorta dell'intuizione del suo teorizzatore, vale la pena di riportare quanto lo Zanobini dice alla fine del suo scritto (p.53): “In conseguenza, secondo noi, il criterio adottato dal legislatore riguardo agli organi indiretti, non sarebbe da abbandonarsi: dovrebbe soltanto essere allargata la base - della sua applicazione. Quale dovrebbe essere questa più larga base non è di nostra competenza precisare in proposte concrete", proseguendo poi in nota col dire "Probabilmente nell'enumerazione dovrebbero trovare posto alcuni professionisti, come i notari (a torto adesso compresi fra i pubblici ufficiali, sebbene da questi distaccati con un comma separato), i procuratori, gli avvocati, i liberi docenti universitari, i curatori fallimentari, i mediatori pubblici, i capitani di navi di qualunque specie, ecc. Probabilmente potrebbe essere conveniente indicare anche, come categoria relativamente generica, coloro che sono investiti di funzioni pubbliche al servizio di istituti privati concessionari di pubblici servizi. Dovrebbero, ad

ogni modo, sparire dalla categoria delle persone equiparate ai pubblici ufficiali, giurati che oggi vi sono compresi... Senza dubbio dovrebbero essere equiparati i denunzianti di reati: essi dovrebbero essere protetti dalle leggi penali riguardanti i pubblici ufficiali per lo stesso titolo, per il quale sono sa esse protetti i testimoni..." L'idea dell'organo indiretto è stata certo economicamente e sociologicamente non scorretta ed anzi foriera di talune giuste e pratiche applicazioni, ma la generalizzazione indiscriminata e per così dire "dal basso" delle sue implicazioni, con l'indistinzione delle diverse categorie di organi e con lo scadimento di talune funzioni pubbliche ad esercizio di pubblico servizio, è stata squalificante, destrutturante, totalmente deviante e per certi aspetti assolutamente devastante per lo Stato-di-diritto e soprattutto per la personalità e per la sovranità statale. Si è confuso il 'sacro" col "profano", si è cercato di fare per comodità di teorizzazione di ogni erba un fascio (accreditando direttamente il privato nel pubblico) e si è così arrivati alla soglia dello scardinamento dello Stato-di-diritto. Ora che l'equivoco appare del tutto disvelato ed il “re servizio pubblico” appare nudo, si tratta di risalire la china e recuperare correttamente il concetto di pubblica funzione e di organo pubblico nella sua accezione più vera e qualificante. L'esercizio dell'attività professionale notarile per definizione normativa e per sua intrinseca caratterizzazione è munus publicum, pubblica funzione, espressione dello svolgimento di attività pubblica da parte di soggetti privati: è funzione pubblica in senso enfatico, ossia pubblica funzione in cui vi è una funzione definita da un attributo contenutistico, quello autoritativo dell'attività, in quanto "diretta manifestazione dell'autorità, anzi della sovranità dello Stato", (Giannini M. S., Diritto amministrativo, Giuffrè 1970, p.169 e p.448; Carnevale Venchi M.A., Contributo allo studio della nozione di funzione pubblica, Cedam 1974, p.150). In che senso? Nella logica in cui l’organo è espressione della totalità delle accezioni del concetto di Stato: e questo è il punto fondamentale e qualificante, in base al quale non si accede alla posizione organica statale se non previo concorso. Questa prova misura l’attitudine del soggetto a svolgere l’attività (potenzialmente) demandatagli, nella logica ora illustrata. Questa caratterizzazione comporta la tendenziale "procedimentalizzazione" dell'attività svolta dalla pubblica funzione (ovviamente anche notarile) al fine di salvaguardare la pluralità degli interessi (collettivi ed individuali) sottesi. Ciò che diversifica e caratterizza il pubblico ufficiale professionista e più in generale lo svolgimento - come detto - di attività pubbliche (in nome proprio dello Stato) da parte di soggetti privati, rispetto al potere esercitato

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dall'amministrazione statale, è lo svolgimento dell'attività (da parte del titolare del pubblico ufficio, notaio) con mezzi propri, servendosi non di mezzi forniti dallo Stato stesso, com'è per l'Amministrazione, ma, per l'appunto, di mezzi conseguiti dallo svolgimento della propria attività. Dove per "propria" deve intendersi l'attività svolta con risorse personali, ma sempre in nome dello Stato, cioè dell'ente di cui il notaio costituisce organo, pubblico ufficio. Tutto ciò connota e caratterizza in modo diverso la sensibilità del pubblico ufficiale e la funzione svolta, in quanto maggiore diviene la preoccupazione per il titolare dell'ufficio di adempiere adeguatamente al suo compito, riferendosi non soltanto allo Stato-ente (collettività organizzata e personalizzata, che l'ha preposto nel ruolo a seguito di concorso), ma anche e soprattutto allo Stato-comunità (Carnevale Venchi M.A,, Contributo cit., p.150151), per cui non può non farsi interprete con spirito di lealtà e collaborazione di fronte all'apparato ed all'amministrazione cui necessariamente partecipa delle esigenze, delle istanze e delle sollecitazioni delle persone con cui si relaziona. Ciò evidenzia che la nozione di pubblica funzione vale con riferimento non solo alla qualifica del titolare dell'ufficio, ma soprattutto (ed anche per il notariato) con riferimento all'attività in sé considerata. Dal che emerge che la fedeltà e la lealtà della pubblica amministrazione e dei pubblici funzionari si misurano non solo dalla capacità di rappresentare formalmente le istanze dello Stato-apparato (Stato-collettività organizzata in forma di Ente dotato di personalità), ma anche e soprattutto di rappresentarsi le esigenze sostanziali di equilibrio dello Stato-comunità (interessi collettivi e interessi individuali), in considerazione della struttura generativa (e non creaturale), totalizzante (e non specificante), ossia della struttura organica propria dello Stato. Quello che ancora si deve sottolineare con forza e sembra emergere dall'analisi delle disposizioni contenute nell'ordinamento statuale è che il sistema giuridico, in cui il notariato opera quotidianamente, riconosce in modo tacito ed indiretto (riferendosi ai concetti di fedeltà e di collaborazione) due realtà socio-economico-giuridiche, che caratterizzano l'organizzarsi del gruppo: la collettività e la comunità, non sempre individuate ed identificate normativamente in modo preciso. Ma l'argomento è di stretta pertinenza costituzionale. F - Nel diritto costituzionale. Il concetto di fedeltà è enunciato nell'art.54 Cost., quale norma generale di sistema, che - come già detto - recita:

"Art. 54. - Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzione pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge." Qui compare il famoso giuramento (cui si accennava all’inizio di queste note) di adempiere con disciplina e onore la funzione pubblica affidata al cittadino, per così dire qualificato (e quindi distinto dagli altri cittadini)...! Non è facile individuare le linee comuni di una teoria generale della fedeltà con riferimento all'ordinamento (cfr. L. Ventura, Commentario della Costituzione, art.54, ed. Zanichelli 1994, p.47) ed è senza dubbio "problematico richiamare sotto lo stesso segno la fedeltà nei rapporti di diritto privato, in cui più agevolmente può emergere il nesso tra fedeltà e fiducia (cfr. sopra i doveri che nascono dal matrimonio, dalla tutela, dal lavoro) e la fedeltà nei rapporti di diritto pubblico. Il risultato di tale operazione sarebbe costituito da un minimo comune denominatore al più alto livello di indeterminatezza, che, o si somma alla genericità tipica di alcuni concetti giuridici, ovvero semplicemente la descrive, assumendo esclusivo carattere definitorio." (p.48). Ciò si ha, ad esempio, quando si consideri la fedeltà come clausola generale, simile alla correttezza ed alla buona fede (o alla collaborazione n.d.r.), attribuendo ad essa solo una «funzione integrativo-interpretativa», che inevitabilmente conduce ad un'ampia discrezionalità dell'interprete, certamente pericolosa se riferita all'applicazione della «clausola generale»" di cui all'art.54 Cost.. A taluno pare comunque "improponibile un concetto di fedeltà alla Repubblica ricondotto alla cura o alla realizzazione di interessi altrui, perché non adeguato alla complessità dei rapporti Stato-cittadino nel nostro ordinamento; mentre appaiono più sottili le tesi che accostano la fedeltà alla cura ed al perseguimento di interessi della comunità cui il soggetto partecipa, allo scopo di fornire, ove sia possibile, un criterio unificante le varie ipotesi di fedeltà, ovvero idoneo a spiegarne la coesistenza. In ogni caso, fermo restando il quadro generale dato dallo Stato-di-diritto e dalla forte disomogeneità della società italiana, è necessario individuare un minimo comune denominatore che possa dare contenuto alla fedeltà alla Repubblica, compatibilmente con la diversità delle posizioni ideologiche e politiche individuali e collettive. Una fedeltà che si imponga ai cittadini anche nel caso limite in cui si persegua il fine del mutamento degli assetti istituzionali, con il vincolo del rispetto, anche in quel caso, delle regole della democrazia e quindi dell'osservanza delle regole legali poste a garanzia dei principi democratici.

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In questo quadro un minimo comune denominatore può rinvenirsi nel concetto di lealtà (Rescigno. Persona e comunità cit., pag.55 e segg., 68 e segg., 73 e segg.), sia che lo si intenda come sinonimo di fedeltà, sia che si neghi tale identificazione, in quanto secondo certi autori, la lealtà può presupporre «una istituzionale divergenza di interessi e implica semplicemente che, nel perseguire gli interessi propri, il soggetto si astenga dall'uso di certi mezzi che sono riprovati 'dalla coscienza comune» (Trioni, L'obbligo di fedeltà ne" rapporto di lavoro, pag.9)". E' assai pregevole questa intuizione in ordine alla lealtà, quale minimo comune denominatore della fedeltà alla Repubblica, tale appunto da poter dare un contenuto alla fedeltà, al concetto di fedeltà alla Repubblica, ma necessita forse di qualche puntualizzazione e focalizzazione per coglierne i presupposti e la reale portata. A ben vedere sembra che il legislatore costituzionale abbia spesso fatto ricorso a certi concetti sottesi a determinati istituti in modo non sempre univoco. Così è ad esempio per la collettività e la comunità. Sono realtà ideali ampiamente studiate dalle varie branche scientifiche, ma forse non sempre evidenziate in modo trasparente e chiaro dalla dottrina giuridica nell'approfondimento sistematico dei singoli rami del diritto ed anche dal costituente nelle singole isitituzioni. Realtà soprattutto non illustrate nel loro rispettivo intrinseco modo di funzionamento, che è totalmente divergente. E forse proprio anche qui si annida un equivoco in cui cadono spesso le singole funzioni nel riferirsi alle citate realtà, con inevitabili devianze comportamentali e discredito istituzionale. Infatti la collettività nella sua struttura organizzativa interna si fonda su principi aggregativi, impersonali, maggioritari, simpatici (qualificato o meno che sia il quorum richiesto per l'espressione volitiva, nella quale il singolo poi si dissolve e scompare), mentre la comunità si struttura sulla base di principi compartecipativi, condivisori, personali, individualistici, empatici (che esulano da qualsiasi logica individualizzante pluralistico-collettiva, mantenendo intatto il peso e l'importanza del singolo). Per questo i costituzionalisti parlano del popolo (collettività? comunità?) come di un preelemento costitutivo originario dello Stato, della famiglia di un binomio personale (collettivo?) e/o di una societas naturale (comunità?) ed infine ora anche dello Stato stesso come di una ente collettivo e/o di una entità comunitaria. Ma il pubblico ufficiale e tutte le pubbliche funzioni, a quale delle due connotazioni (collettiva e/o comunitaria) devono riferirsi? Questo sembra essere il vero costante ed insolubile dilemma di fondo che si origina dal

diritto costituzionale e si dipana nel diritto amministrativo, tributario e civile. Trascurare l'esigenza del caso singolo in quanto forzatamente includibile nella normazione ordinamentale collettiva, ovvero divenire portatori dell'esigenza del singolo perché l'ordinamento si evolva, contemplando ed adeguandosi anche all'ultimo dei casi particolari (come avviene in ogni vera comunità)? Qui pare proprio innestarsi la sostanziale divergenza di un'impostazione politica della funzione pubblica, che o si connota per riferimento ad uno Stato-ente collettivo, ovvero in relazione ad un concetto di Stato inteso come ente comunitario. Le implicazioni del comportamento partecipativo (attivo) e più usualmente omissivo di tutte le pubbliche funzioni, così intese, non sono nè piccole, nè certo insignificanti per il cittadino. Il Notariato stesso da questo punto di vista ha attuato un politica non solo miope, ma totalmente suicida, quasi sempre (salvo sporadiche ipotesi - cfr. “il Notaio contro” tra le rubriche di questa rivista -) preferendo il riferimento allo Stato-ente collettivo (o apparato), anziché allo Stato-ente comunitario. L'attenta analisi di un'amministrativista (M.A. Carlassare Venchi, Contributo cit., II, p.144) ha saputo cogliere questa aporia giuridica (irrisolta e mai risolvibile costituzionalmente, pena l'evidenziazione della totale insufficienza dell'azione amministrativa che ne deriverebbe - la vicenda Zanobini insegna!), spostando l'indice di riferimento per le funzioni pubbliche da un concetto all'altro. Dice infatti: "A tale scopo occorre, tuttavia, innanzitutto mutare la prospettiva di fondo (n.d.r. con riferimento sia all'attività degli organi pubblici sia all'attività del pubblico servizio) facendo leva, anziché sul concetto di Stato-ente, sul concetto di Stato-comunità. Sarà quindi possibile… fare riferimento agli interessi dei vari gruppi in cui si articola lo Stato-comunità e ai modi di cura di tali interessi." Ma la connotazione più marcatamente "sociale", che deriva alle pubbliche funzioni da tale interpretazione e da un simile riferimento (allo Stato-comunità), sarà sufficiente a non stravolgere ancora una volta la categoria delle funzioni pubbliche (per le quali si è fatto costantemente e più usualmente riferimento allo Stato-ente collettivo), coinvolgendole nel demagogico degrado politico verso "pubblici servizi"? Forse solo riconoscendo e comminando alle pubbliche funzioni in modo esplicito e palese una responsabilità pubblica (equiparabile ad un compito etico) di riferimento strutturale (come sopra prospettato) si può uscire da un'aporia giuridica diversamente solubile. E forse proprio il Notariato, pubblica funzione, che agisce, quale ultima delle pubbliche funzioni, in proprio per

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l'ente sovraordinato (Stato) di cui è parte, ma con mezzi assolutamente propri e non forniti dallo Stato stesso, può essere il primo stimolo, per tutta l'amministrazione pubblica, a recuperare nella sua azione procedimentale il riferimento allo Stato-comunità ogni volta che l'empatia col cittadino lo sollecita, promuovendo per tale via lo svecchiamento di uno Stato-ente-collettivo diversamente immobile e troppe volte chiuso in se stesso. Non è del tutto moderno, infatti, pensare (come sembra sostenere Carlassare Venchi) che le pubbliche funzioni possano fare riferimento ad uno solo dei due concetti (o allo Stato-ente-collettivo o allo Stato-comunità). Sembra ormai più impellente e necessario che ogni pubblica funzione in uno Stato moderno debba riferirsi sia all'uno (quale ruolo “sacrale”, in certo modo socialmente passivo), sia all'altro (quale ruolo “sociale”, dinamicamente attivo per la persona-Stato), riscoprendo per questa via l'integrità e la totalità dell'adempimento veramente leale (fedele) di ogni singolo compito e finalità pubblica. In quest’ottica gli organi apicali della pubbliche funzioni possono e devono svolgere un ruolo di coordinamento (già loro riconosciuto ed attribuito costituzionalmente o per legge (cfr. CNN) di sensibile raccolta ed unificazione delle esigenze di certezza e sicurezza di singoli cittadini, imponendo all’amministrazione centrale soluzioni univoche ed ai propri funzionari procedure (comportamenti) inequivoci. Sempre in quest’ottica: - se i protocolli notarili dovessero servire solo per una autoreferenziale restaurazione formalistica dell'organo Notariato, meglio sarebbe non divulgarli e non applicarli; - se la tariffa dovesse costituire solo il privilegio di una elitè, meglio sarebbe del tutto abolirla; - se la lettura dell'atto pubblico dovesse costituire la sola formalistica connotazione dell'attività notarile, meglio sarebbe far sottoscrivere alle parti delle scritture private cavillosamente e causidicamente strutturate. …E si potrebbe continuare all'infinito. A questo punto credo si possa ricostruire e ri-orientare la teoria della fedeltà in una prospettiva di sistema, che tenga conto tanto del settore privatistico, quanto di quello pubblicistico, dovendosi riconoscere che la fedeltà privatistica, il cui contenuto minimo è l’affidamento, fa capo al buon costume, mentre la fedeltà pubblicistica, il cui contenuto minimo è la lealtà, fa capo all'ordine pubblico. Quindi se il sistema della fedeltà privatistica è stato giustamente ricostruito (cfr. sopra sub B) in un ordine crescente che va dalle regole del buon costume al principio di solidarietà (buona fede, affidamento e correttezza) sino al dovere di fedeltà, il sistema della fedeltà pubblicistica può

essere pensato come un climax che va dalle regole dell'ordine pubblico (che s'impone anche tra soggetti che non siano legati da alcuna relazione giuridica), al principio di collaborazione (che richiede un rapporto tra privato e pubblico), sino al più cogente dovere di lealtà (scelta individuale critica di prevalenza organizzativa di ogni gruppo in forma collettività e/o comunitaria), che costituisce la cifra minima della fedeltà pubblica. L’indipendenza e l’imparzialità (amministrativa/giurisprudenziale), per chi è parte del sistema amministrativo, oltre che la terzietà (professionale), per chi non ne è parte ma ha ricevuto delega di sovranità, sono allora semplici espressioni di tale lealtà, ossia le modalità in cui si manifesta la predetta lealtà-(fedeltà) del pubblico ufficiale nel complesso procedimento di dis-identificazione richiestogli al fine della validità e vitalità del sistema ordinamentale. La lealtà impone quindi ad ogni pubblico ufficiale non tanto di “far Giustizia da sé” di fronte al caso singolo, quanto di promuovere, rappresentare e conseguire (anche attraverso una unificante procedimentalizzazione dei propri comportamenti) le correzioni normative che realizzano una maggiore e migliore Giustizia dell’ordinamento e del sistema, a favore di tutti i cittadini.

Franco Treccani

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VERSO LA PRIMA NOMINA, LA NOSTRA STORIA

Riportiamo le risposte di cinque vincitori del concorso notarile bandito con D.D.G. 1° settembre 2004, pubblicato nella G.U. n. 71 del 7 settembre 2004 - 4a serie speciale, attualmente in attesa della prima nomina dopo aver sostenuto gli orali nella scorsa primavera, ringraziandoli per la loro partecipazione e disponibilità. La redazione di Federnotizie ha intervistato Annalisa Cignetti (Ivrea), Andrea Dragone (Torino), Manlio Soldani (Stresa), Corrado Malberti (Milano) e Matteo Beranger (Milano) e a tutti loro è stato sottoposto un questionario con le seguenti domande. Quale è stata la più grande rinuncia che hai dovuto fare lungo il cammino per diventare Notaio? Il primo quesito trova Corrado Malberti e Matteo Beranger concordi nell’individuazione della rinuncia più grande nella mancanza di indipendenza economica. Corrado Malberti ammette “senza il supporto della mia famiglia non sarei mai riuscito a raggiungere questo risultato. Secondo il mio parere, questa rinuncia è particolarmente gravosa per chi vive in una città come Milano, dove il mercato degli studi legali offre opportunità di lavoro remunerative e interessanti”. Matteo Beranger attribuisce alla mancanza di indipendenza economica la conseguente impossibilità di costruire una propria famiglia. Annalisa Cignetti e Andrea Dragone palesano entrambi l’esperienza di molte rinunce. Annalisa Cignetti racconta “dopo la Laurea e dopo una parentesi lavorativa di un anno e mezzo di effettiva frequentazione quotidiana dello studio notarile, su suggerimento e consiglio dei Notai presso cui ho lavorato, mi sono dedicata totalmente allo studio. I miei unici momenti di uscita sono stati per andare a scuola e qualche uscita serale. Non ho però vissuto tale scelta come rinuncia, perché sono riuscita a costruire con altri ragazzi, amici, un gruppo di studio che è stato supporto sia nell'attività teorica e pratica delle esercitazioni sia nel morale e nella determinazione. Andrea Dragone conferma: “mentre preparavo il concorso ho vissuto ogni momento come una rinuncia (alle vacanze estive, alle uscite con gli amici, alle feste, ai momenti in famiglia). Oggi, invece, mi accorgo che tutto questo mi ha arricchito dal punto di vista umano, grazie alla consapevolezza che gli sforzi alla fine vengono premiati, al premio che sono stato in grado di dare alle persone che hanno sempre creduto in me nonchè dal punto di vista professionale”.

Manlio Soldani aggiunge che “Parlare di rinuncia è riduttivo. Il concorso notarile mi ha imposto un modus vivendi e un habitus mentale che sicuramente mi hanno segnato e mi condizioneranno fortemente nell’esercizio della professione. Il bilancio è comunque positivo, al di là dell’esito, ho avuto la possibilità di conoscere persone di grande valore e questo è un pregio che riconosco al mondo del Notariato. Il difetto che invece attribuisco a questo mondo è quello di sottostimare in modo grave quegli aspiranti Notai che con grande sacrificio e profonda motivazione affrontano questo difficile percorso. E’ grave e illusorio credere che il concorso, per quanto serio e difficile, possa bastare a creare un buon Notaio. Notai buoni si diventa passando attraverso un processo lento di maturazione nel quale non si può essere abbandonati a se stessi, durante il quale si dà tanto, ma si dovrebbe ricevere altrettanto. Quello del concorso notarile è un problema che mi sta particolarmente a cuore. Credo che il futuro del Notariato dipenda anche dalla nostra capacità di affrontarlo e risolverlo”. Quale è stato il tuo primo pensiero quando lo sei diventato? Manlio Soldani ricorda: “quando ho ricevuto la telefonata tanto attesa quel 15 di marzo 2007 non ho avuto pensieri, ho solo provato un grandissimo sollievo e finalmente, dopo oltre dieci anni, mi sono sentito realmente libero. Dico grazie a Lodovico Genghini per avermi dato, dopo tante ricette, quella giusta, grazie alla cara Andrea per aver reso più sopportabili gli anni più duri, grazie a Raffaele e a Giorgio, supporto insostituibile sia dentro che fuori dall’Ergife, grazie alla mia famiglia che ci ha sempre creduto e grazie a tutti quelli che mi hanno sopportato in questi lunghi anni”. Corrado Malberti concorda relativamente al senso di refrigerio “mi sono sentito sollevato per essere finalmente riuscito ad uscire dai meccanismi del concorso, che appare governato da logiche che in parte prescindono dall’individuazione nei candidati delle qualità necessarie per l’esercizio della professione”. Matteo Beranger ha pensato all’immensa soddisfazione del proprio nonno e del proprio padre, non Notai. Per Annalisa Cignetti e Andrea Dragone è prevalso un senso di incredulità. In particolare, Andrea Dragone confessa di aver pensato: “Cavolo sono diventato Notaio!” e aggiunge “Non proprio cavolo…ma il senso è quello”.

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Cosa pensi di poter fare per il Notariato, soprattutto in campo politico e sindacale? Corrado Malberti e Manlio Soldani concordano sull’opportunità di aspettare per conoscere meglio la professione in attesa di poter dare il proprio contributo al mondo del Notariato. In particolare Manlio Soldani si definisce fiducioso perché – afferma – “vedo intorno a me professionisti di grande spessore, insostituibili punti di riferimento. Sono felice di constatare che, differentemente da quanto accade altrove, spesso si tratta di Notai con 10/15 anni di esercizio della professione alle spalle e quindi “giovani”. Matteo Beranger aggiunge che “promuovere l'immagine del Notaio al servizio del cittadino attraverso un esercizio quotidiano della professione che sia "eticamente" rispettoso delle norme deontologiche è forse l'unica arma che un giovane Notaio ha per contribuire al bene della categoria”. Andrea Dragone ritiene che il contributo si debba dare “come in ogni cosa, partendo dal basso. La politica non si discosta da questa regola. Dal basso, nella nostra professione, significa quotidianamente, con i clienti, dimostrando loro, con la nostra attenzione, con la nostra altissima professionalità, con le garanzie, che l'esercizio della professione notarile porta con sé, quale imprescindibile attività svolgiamo. Solo dopo si potrà salire di un gradino e rivolgersi alle istituzioni di primo livello e via di seguito. In questa direzione ho accettato di buon grado di partecipare all'iniziativa assunta dal Consiglio Notarile di Torino (ora per allora) che mette a disposizione, gratuitamente, i Notai del Collegio per fornire informazioni a chi, avendo necessità di un chiarimento, non si rivolge al Notaio per paura del "costo". Questo è "partire dal basso”. Diversamente dagli altri colleghi, maggiormente propensi a restare ad osservare la situazione per qualche tempo prima di intervenire, Andrea Dragone mostra un temperamento deciso: “parteciperò all'attività politica del Notariato in tempi molto brevi, non perchè io pensi di avere idee migliori di coloro che oggi guidano il Notariato (lungi da me una vanità di questo tipo), ma unicamente perchè voglio evitare che gli impegni lavorativi possano sopraffare la volontà di mettermi a disposizione del Notariato”. Opposta la posizione di Annalisa Cignetti che confessa: “Io non credo molto nella politica, indipendentemente dagli schieramenti. Credo di essere stata contagiata dalla generale sfiducia nei confronti di un complicato meccanismo che non è dato capire più di tanto. Per quanto in special modo riguarda la politica del Notariato, non posso dire di conoscerla a fondo. Rifletto sul fatto che, per quanto concerne la coesione all'interno del Notariato, prerequisito necessario per poter pensare ad una attività, ad una voce, "di categoria", ovviamente senza voler

fare alcuna generalizzazione, ne rilevo poca. Nel Notariato, mi pare, ci sia poco "fare squadra", se si eccettuano coloro che si impegnano nelle varie organizzazioni e commissioni. Mi pare invece che la maggioranza dei Notai sia più in una prospettiva di concorrenza che di cooperazione reciproca. Credo però anche nella necessità di adoperarsi per promuovere una maggiore cooperazione reciproca, sensibilizzando i Notai sull'esigenza di un'unione vera di categoria, di una partecipazione più attiva, per provare a difendere e promuovere, compatti, il Notariato, per provare ad arginare un legislatore schizofrenico che legifera in continuazione e che porta le leggi in vigore senza lasciare il tempo agli operatori del diritto per studiarle e capirle sino in fondo e, ancora, per promuovere una maggiore collaborazione con le altre categorie di professionisti, con i commercialisti, ad esempio, affinché il Notaio non si trovi a dover eseguire un elenco di istruzioni fornite da un commercialista ma collabori con lui nella costruzione dell'operazione societaria”. Cosa ti aspetti che possa fare il Notariato per te, specialmente nei primi anni di esercizio della tua professione? Matteo Beranger auspica una capillare azione sul territorio: “spero che il Notariato riesca a difendere la categoria più efficacemente di quanto ha fatto finora e, inoltre, mi auguro che, dal punto di vista interno, i Consigli Distrettuali sappiano davvero proteggere sul territorio il giovane Notaio (e quindi l'intera categoria) dai comportamenti "deontologicamente scorretti", spesso denunciati, meno spesso perseguiti, di qualche collega”. Annalisa Cignetti e Andrea Dragone sono accesi, invece, dal desiderio di accelerare i tempi della nomina. In particolare Andrea Dragone esprime un timore: “in questo momento possiamo paragonare i vincitori del concorso notarile ad un calciatore: la sua voglia di gettarsi in area per conquistare un rigore da segnare è proporzionale al tempo passato dall'ultimo goal. Ecco, il rischio che il calciatore si lasci cadere goffamente in area e che, analogamente, il vincitore si lasci tentare da modalità di svolgimento della professione non conformi a legge o a principi etici in misura direttamente proporzionale al tempo trascorso tra l’orale e la nomina”. Manlio Soldani con sincerità ammette: “Non so cosa aspettarmi ma, ovviamente, pretendo molto, anzi moltissimo. Mi auguro soprattutto che la politica del Notariato sia principalmente indirizzata verso le istituzioni. Mentre mi pare che oggi il CNN investa risorse ed energie principalmente verso una politica di recupero dell’immagine di fronte all’opinione pubblica. Dobbiamo pretendere che sia lo Stato a difenderci, a richiedere il nostro intervento, a riporre in noi la sua fiducia, a legittimarci nei confronti della società e del

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mercato, altrimenti il nostro ruolo e la nostra funzione si indeboliranno fino all’estinzione. Poi ben vengano gli studi di analisi economica del diritto, diretti a provare che il nostro sistema di regole è la garanzia migliore che si possa offrire oggi al funzionamento del mercato. Quanto alle recenti proposte di autoriforma del Notariato, nello specifico la soppressione dei distretti minori, avrei qualche commento. I distretti minori sono gli unici nei quali il Notaio può ancora dire di essere Notaio, dove non ci sono compromessi né comportamenti accondiscendenti a regolare l’esercizio della professione e la distribuzione del lavoro. Il problema va sotto la voce CONCORRENZA che, invece di respingere fermamente come concetto incompatibile con l’esercizio della pubblica funzione, subiamo in modo passivo, quasi a voler implicitamente ammettere che anche la prestazione notarile, come qualunque altro prodotto o servizio offerto dal mercato, debba e possa essere più o meno buona, più o meno costosa, più o meno rinunciabile. E come se l’esercizio di un potere pubblico fosse un bene negoziabile nell’interesse di chi lo eroga e non già della collettività. Di questo passo abbiamo perso le tariffe minime che erano un valido baluardo a garanzia della qualità della prestazione notarile, e ci ritroviamo a discutere, quasi seriamente, degli atti low cost, che solo pochi mesi fa erano una fantasiosa e provocatoria risposta pubblicata nella lista sigillo. Sempre per parlare di tariffe, proponiamo la svendita di determinati atti, dimenticandoci che la politica sociale compete allo Stato e che è compito di quest’ultimo accollarsi gli oneri delle spese socialmente utili. E dimentichiamo che questo risultato si può ottenere creando una “zona franca” per questa tipologia di atti, nella quale lo Stato rinunci al prelievo fiscale sui compensi percepiti dal Notaio e, quindi, debitamente ridotti senza ingiustificato aggravio per quest’ultimo. Chè diversamente si finisce per ammettere che fino ad oggi abbiamo fatto i furbi”. Hai sentito parlare di Notai “artigiani” e Notai “industriali”? Verso quale modalità di esercizio della professione pensi che si stia muovendo il Notariato? E tu in particolare in quale di questi due modi vorresti esercitare il tuo Ministero? Corrado Malberti esordisce con una precisazione “non ritengo che sia corretta la distinzione tra Notai “artigiani” e Notai “industriali”: nella pratica ho visto atti in cui venivano adottate scelte discutibili stipulati da Notai artigiani e ho visto atti complessi e ineccepibili stipulati da Notai industriali. A mio avviso, la stella polare di un Notaio deve essere quella del rispetto della legge. Per quanto mi riguarda, mi basterebbe diventare un Notaio che, nel rispetto della legge, riesce a

fornire un servizio di cui i miei clienti possano dirsi soddisfatti”. Andrea Dragone non ha dubbi. Con riferimento al metodo di approccio nella ricezione degli atti vuole essere un Notaio Artigiano ed afferma “io ho avuto un maestro che fin dall'inizio mi ha insegnato ad essere "artigiano" e mi dispiacerebbe molto deluderlo”. Matteo Beranger teme che “purtroppo la tendenza prevalente sia quella del Notaio industriale” e in merito sostiene: “questa figura del Notaio Imprenditore è a mio parere negativa per la categoria e in questo periodo ci espone facilmente agli attacchi esterni, conseguentemente sono personalmente indirizzato alla figura del Notaio Artigiano” Manlio Soldani interviene con una considerazione: “E’ oggettivo il fatto che il Notaio si trovi ad operare in realtà territoriali profondamente disomogenee ed è quindi fisiologico che ciò abbia generato approcci così differenti all’esercizio della professione. Non ho ben chiare però le reali conseguenze di tale processo e in particolare se davvero la genesi dell’attificio abbia avuto riflessi negativi sull’immagine del Notariato. Non nego che il modus operandi dell’attificio sia a me poco congeniale, perché non rispecchia l’idea del Notaio che mi sono costruito durante questi anni di impegno e di frequentazione dello studio di mio padre. Mi rendo conto inoltre che legittimare la posizione del Notaio attificio significa rendere molto “vulnerabile” la figura del Notaio “tradizionale” o artigiano, nel contesto economico e sociale di oggi. D’altro canto per delegittimare il Notaio attificio, occorre una norma di legge innanzitutto e un organo in grado di garantirne il rispetto. Credo in tutta onestà che per affrontare questo problema, come quello connesso dei Protocolli, sia necessario abbandonare la dimensione individuale dei nostri studi del nostro modo di fare il Notaio. La bontà di una regola va valutata con riferimento all’intera categoria e non al nostro modo di operare. In questo senso comprendo perfettamente la delusione manifestata dal Notaio Petrelli di fronte a quella che Egli definisce “insofferenza verso le regole” da parte di molti Notai. Il fatto che il rispetto di una regola nuova non aggiunga nulla al mio lavoro non significa che non possa giovare alla categoria. In ultima analisi, ritengo che il Notariato debba impegnarsi per dare un immagine del Notaio essenzialmente unitaria, pur operando in realtà profondamente eterogenee”. Decisamente per il Notaio Artigiano propende Annalisa Cignetti che racconta: “La professione che fin da bambina conosco e che ho sempre voluto fare è fatta di tanti colloqui con le persone, che spesso arrivano in ufficio cercando non solo un efficiente professionista ma anche una persona che sappia ascoltare e dare consigli

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sull'intero assetto patrimoniale del cliente, spesso in previsione della morte, che sappia calmare animi litigiosi o anche solo spiegare in modo chiaro ed accessibile tutti i tecnicismi del nostro diritto. Il Notaio deve saper spiegare i passaggi più difficili degli atti che legge e non deve avere remore nel cercare soluzioni che contemperino al meglio le varie esigenze, nell'espletamento della sua funzione di adeguamento della volontà delle parti, con un’attenzione particolare alla tutela delle parti contraenti deboli. Il Notaio artigiano è quello che non esita a dedicare ai colloqui tutto il tempo necessario e che non entra in sala stipula con il cronometro in mano. La tendenza, per quanto posso sapere, ritengo che, principalmente nei distretti grandi, sia quella del Notaio Imprenditore. Temo che stia prendendo piede sempre più il Notaio da "catena di montaggio", con bassa qualità della prestazione professionale, che vede il cliente solo quando si siede per firmare un atto, in cui molto, troppo, viene delegato ai collaboratori: validissimi ed indispensabili, ma non fungibili con il Notaio. Se questa tendenza finirà per prevalere, sarà la morte del Notariato”. Quanto ritieni siano importanti i collaboratori per un Notaio? In base a quali criteri pensi di selezionare i tuoi collaboratori? Matteo Beranger li definisce fondamentali e manifesta la volontà di selezionarli in base alla serietà, all’attitudine al lavoro, alla voglia di imparare e di crescere. Anche per Andrea Dragone i collaboratori sono importanti e tra i criteri di selezione valuta la possibilità che una pregressa esperienza lavorativa in ambito notarile possa essere considerata titolo preferenziale. Concorda anche Annalisa Cignetti che definisce essenziali i collaboratori perché “nonostante la supervisione necessaria del Notaio, ai collaboratori è demandata la preparazione degli adempimenti per la stipula e la materiale stesura degli atti. In loro il Notaio deve avere grande fiducia. Annalisa Cignetti aggiunge che, a suo parere, “la qualità ormai indispensabile per un collaboratore sia il dinamismo mentale, il sapersi adeguare apprendendo tutti i mutamenti burocratici, amministrativi ma anche legali. Per questo diventa essenziale che il Notaio "aggiorni" in tempo reale i propri collaboratori sui mutamenti giuridici sempre più frequenti”. Parimenti Manlio Soldani ritiene che la qualità della prestazione notarile debba essere valutata anche sotto l’aspetto organizzativo e aggiunge che l’informatica e la presenza di validi collaboratori contribuiscono in modo rilevante a dare un’immagine positiva del Notariato. Quale è la prima cosa che farai quando, a breve, dovrai allestire il tuo primo studio notarile? Quali difficoltà temi maggiormente?

Corrada Malberti è dell’opinione che “l’organizzazione di uno studio notarile è probabilmente uno dei punti più importanti dell’esercizio della professione, dal momento che in uno studio ben organizzato l’individuazione e la soluzione dei problemi è più efficace ed anche il servizio offerto alle parti risulta essere più rapido e, per certi versi, più sicuro. A tale fine – dichiara - in questo periodo mi sto documentando su come diversi Notai hanno organizzato il loro studio in modo da comprendere quali siano le esigenze che li hanno portati ad adottare determinate soluzioni e quali possano essere i problemi che io stesso mi troverò ad affrontare nell’esercizio della professione”. Andrea Dragone ritiene prioritaria la scelta del personale, mentre Matteo Beranger sta incominciando a vagliare i sistemi informatici per la gestione dello studio e teme maggiormente l’organizzazione interna ed il rispetto delle scadenze. Manlio Soldani si dimostra sereno ed afferma “non ho timori e credo che affronterò questa esperienza con grande entusiasmo”. Pensi che essere Notaio ti cambierà interiormente, nella personalità e nei valori? In che modo? Matteo Beranger confida che il Notariato non lo cambierà interiormente. Corrado Malberti condivide questo auspico ed afferma: “non credo che il Notariato mi cambierà come persona. Da questo punto di vista non aver superato il concorso notarile al primo tentativo è stata una grande lezione di vita. Il fatto che il Notaio sia nella concezione generale uno stimato professionista non lo rende di sicuro una persona migliore degli altri. Ed in particolare, essere riusciti a superare il concorso notarile non mi rende migliore di tanti compagni di studio che, pur essendo preparati quanto me, non hanno avuto ancora la fortuna di superare questa prova”. Anche Andrea Dragone pensa di non cambiare interiormente “Continuerò a vivere in provincia, a frequentare gli amici dell'infanzia” dichiara con convinzione. Della stessa opinione è Manlio Soldani “Non credo che cambierò, avendo già lavorato in studio e sentendomi Notaio già da qualche concorso. Mi auguro che l’esperienza lavorativa mi arricchirà ulteriormente” Come ti relazionerai con i Notai del tuo Distretto? Come ti piacerebbe che loro si relazionassero con te? Corrado Malberti spera di emergere gradatamente “pur muovendo, per il momento, soltanto i miei primi passi nel mondo del Notariato – afferma - mi auguro di poter guadagnare la stima e il rispetto dei miei futuri colleghi”. Andrea Dragone confida in una reciproca collaborazione e dichiara “Spero di poter contare sempre sul sostegno dei colleghi del Distretto così

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come loro potranno sempre contare su di me, soprattutto, in stipula, se c’è bisogno di un chiarimento”. Parimenti Matteo Beranger manifesta l’intenzione di improntare i rapporti con i colleghi ad uno spirito di massima solidarietà e cooperazione. Manlio Soldani avrebbe piacere di poter continuare a relazionarsi come quand’era studente: “vorrei continuare ad essere un “Notaio studente” e poter affrontare la professione con lo stesso spirito critico di quando studiavo per il concorso, anche quello spirito critico che, per “prudenza concorsuale”, sono stato costretto negli ultimi anni a mettere da parte”. Annalisa Cignetti racconta la sua esperienza a Ivrea e spera di continuare in questa direzione. “Attualmente vivo la realtà di un piccolo distretto, dove i Notai si conoscono tutti da anni e dove tutto, nel bene e nel male, ha una dimensione umana. Questo forse significa meno dinamismo del Consiglio, soprattutto nell'organizzazione di approfondimenti e iniziative culturali varie, d'altra parte significa anche forte personalizzazione della struttura, accessibile a tutti e profonda conoscenza del territorio e delle problematiche locali. Per un neo Notaio questo significa, in particolar modo, inserirsi in un ambiente che lo agevola maggiormente, sia dal punto di vista pratico che morale. Invece la tendenza oggi è quella verso i grandi distretti, di centinaia di Notai. Personalmente guardo con preoccupazione a tale evenienza, che temo significherà passaggio da una situazione fortemente personalizzata e, per quanto mi consta, "artigianale", una sorta di oasi felice, ad un essere "terra di conquista" da parte dei grandi studi che apriranno recapiti e sedi secondarie e, credo, determineranno una svolta a favore dei cosiddetti "attifici". Conscia di andare contro gli attuali orientamenti del Notariato, ritengo che la creazione di macro-distretti non aiuti lo sviluppo della concorrenza, che peraltro anche nelle piccole realtà sussiste, ma spinga inevitabilmente verso la spersonalizzazione della professione, andando ad accentuare la prassi, già molto diffusa, della corsa al preventivo più basso, a discapito di tanti altri elementi caratterizzanti la professione, preventivo che, inevitabilmente, sarà più basso in grandi studi che proprio in virtù dell'ampio volume di affari possono abbassare ancora i prezzi”. I vincitori di concorso intervistati non nutrono particolare fiducia nell’introduzione del cosiddetto “tetto repertoriale”, all’infuori di Andra Dragone disposto a caldeggiare questo rimedio in quanto utile a garantire la qualità della prestazione notarile ed a cercare di debellare comportamenti frettolosi. Se si potesse chiedere agli organi nazionali competenti un’attività di tutoring per i giovani Notai, in quale settore la riterresti appropriata

ed opportuna? Se la ritieni utile, come vorresti che fosse organizzata? Manlio Soldani confessa: “Non ci ho mai pensato considerata la mia situazione privilegiata: sono figlio di Notaio, quindi già esperto di prassi notarili”, mentre Corrado Malberti, parimenti figlio di Notaio, ritiene che “un’attività di tutoring potrebbe essere sicuramente auspicabile per quanto riguarda la soluzione dei problemi relativi all’organizzazione dello studio e che, in particolare, potrebbero trarre giovamento da questa attività quei Notai che si troveranno ad operare in distretti diversi da quelli in cui hanno compiuto la pratica. Anche se questo problema non dovrebbe riguardare i Notai di prossima nomina, per il futuro sarebbe interessante coordinare questa attività con quella di tirocinio recentemente introdotta nella legge notarile.” Annalisa Cignetti, parimenti figlia di Notaio, ritiene che “la difficoltà più grande per i neo Notai consista principalmente nell'aspetto fiscale della tassazione dell'atto. Innanzitutto perché, non costituendo il diritto tributario materia delle prove scritte, non viene approfondito ed il suo studio per un paio di mesi in vista dell'orale non può consolidare una preparazione che deve necessariamente essere super specializzata. Molto spesso, infatti, una determinata tassazione può far propendere il cliente per un determinato negozio giuridico invece di un altro. La preparazione poi risulta di elevata difficoltà per la continua introduzione di nuove normative, spesso immediatamente esecutive, senza tempestive indicazioni esecutive d'orientamento degli organi del Notariato. Pertanto, accoglie favorevolmente l’idea che, in questo ambito, il Notariato possa predisporre strumenti, magari sotto forma di corsi od aggiornamenti sulle materie di maggiore attualità e dibattito, accentuando l'aspetto pratico, operativo, di tali tematiche”. Andrea Dragone ritiene l’attività di tutoring positiva in molteplici settori ed auspica “qualche corso sullo svolgimento dei colloqui con gli aspiranti collaboratori oppure sugli adempimenti non prettamente notarili: fiscalità, tenuta della contabilità, dichiarazione dei redditi etc”. In questo momento i Notai sono soggetti a continui attacchi e critiche da parte dei media, delle altre professioni, dei politici e sembrano essere maltollerati in genere. Secondo te per quali motivi? Corrado Malberti manifesta consapevolezza per la situazione ed afferma che “il notariato deve comprendere quale sia il contesto economico e sociale in cui si trova ad operare e quale sia la sua effettiva funzione in ogni specifico contesto perché soltanto in questo modo sarà possibile rispondere con efficacia alle sempre più numerose critiche che vengono rivolte a questa funzione”.

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Andrea Dragone esprime un parere in merito e suggerisce la sua personale visione del problema “forse dovremmo farci spiegare i motivi dai non addetti ai lavori. Mi pare che sia, però, assolutamente fuori dubbio che solo il Notaio è in grado di garantire la funzione antiprocessuale. I Notai guadagnano troppo ma è anche altrettanto vero che io tengo il repertorio con l'elenco delle attività che ho svolto. Siamo pochi? Forse è vero, ma il numero ridotto consente di avere per la maggior parte giuristi di altissimo livello; inoltre prima di aumentare il numero dei Notai occorre eliminare gli "attifici", altrimenti creeremmo un esercito di nullafacenti. Chiunque può fare ciò che fa il Notaio? Qualunquismo tipico dei politici. Ad evitare alle parti giudizi lunghi 20 anni è meglio che sia destinato un professionista nato per questo. La gente che dice "l'assegno lo lasciamo al Notaio" ha completa fiducia. La gente non è lontana dall'ideale del Notaio: occorre che noi ci riavviciniamo a quell'ideale”. Annalisa Cignetti esamina a fondo la situazione ed afferma: “Ritengo che, a causa di comportamenti protratti nel corso di molti anni, il Notaio abbia sempre fatto trasparire all'esterno poco di quell'impegnativa attività che sta dietro ad un atto: il Cliente si è trovato davanti un professionista che, per leggere qualche paginetta, si faceva pagare, e molto anche. I Notai poi sono facile bersaglio per coloro che vogliono propinare populistiche visioni di disparità sociale e privilegi. Del Notariato vengono sempre accentuati i benefit, i guadagni, l'essere una casta. Ma si glissa sempre, con eleganza, sui profili di responsabilità, che peraltro aumentano sempre di più grazie ad un nuovo corso politico degli ultimi anni, che dice di snellire la burocrazia e invece aumenta esponenzialmente le incombenze (vedi la normativa antiriciclaggio). Nella mia realtà, poi, ho constatato che la politica di rilancio tentata dal Notariato, con le pubblicità radiofoniche e sulla carta stampata, non è stata molto efficace nei confronti del "pubblico". Non ho una soluzione istituzionale da proporre. L'unico atteggiamento che mi pare da seguire, oggi, è quello di rapportarsi coi clienti in modo trasparente, raccontando loro tutto quello che sta dietro un atto, cercando di fornire un'attività di consulenza in sede di colloqui preliminari e redigendo preventivi e parcelle chiari e dettagliati. Il che sa un pò di battaglia contro i mulini a vento: occorre esser consci che c'è tutto un Notariato cui non importa muoversi in questa direzione”. Anche Matteo Beranger ravvisa la causa di questa situazione nella “cronica incapacità di trasmettere quotidianamente al cliente la portata della nostra prestazione professionale, e correlativamente nell'impunità con cui alcuni Notai hanno per anni esercitato la professione in spregio delle regole deontologiche, facendo

apparire "normale" apporre una firma e fatturare cifre astronomiche”. Nello stesso senso risponde anche Manlio Soldani secondo il quale “la sensazione è che abbiamo tantissime medicine buone, ma non sappiamo ancora quale sia il male che affligge il Notariato. Leggo mille proposte e soluzioni pregevoli, ma io ancora non ho capito la responsabilità della difficile situazione di oggi a chi sia da imputare. Preferisco pensare che nella situazione di oggi il Notaio si sia ritrovato senza responsabilità diretta, complice la scarsa coesione della categoria che con comportamenti spesso irresponsabili ha offerto il destro ai nostri detrattori per delegittimare il nostro ruolo”. Nelle scelte che ti troverai a fare durante il tuo lavoro credi di dover fare prevalere l’interesse della società o quello delle parti? Andrea Dragone sostiene che la risposta non possa essere univoca bensì ancorata ad una valutazione caso per caso. Annalisa Cignetti esprime un parere articolato sul punto ritenendo che “l'interesse da tutelare nell'esercizio della professione non sia quello, generico, della "società" in sé e per sé considerata, concetto troppo vago e sfuggente e soggetto ad ogni tipo di interpretazione. L'interesse che il Notaio deve avere presente è quello delle parti, con la necessaria attività di adeguamento della loro volontà e nell'imprescindibile rispetto del principio di legalità. Aggiunge, inoltre, una presa di posizione a favore del rispetto della legalità: “non penso che le valutazioni etiche e sociali sulla giustezza di una determinata normativa possano legittimare il Notaio ad ignorare tale principio” afferma con decisione. Manlio Soldani propone una riflessione: “non credo che ci debba essere un rapporto di prevalenze fra i due interessi. Come professionista al servizio dello Stato ho il dovere di realizzare l’interesse delle parti nei confini dettati dall’ordinamento giuridico. Questo cercherò di fare e per fare questo mi attendo leggi che sappiano individuare in modo corretto l’interesse della società” In questo momento con la tua preparazione ti senti adeguato a fare qualsiasi operazione, di qualsiasi valore? Corrado Malberti risponde ammettendo che “i candidati risultati idonei possono essere talvolta pervasi da un senso di insicurezza che soltanto con il tempo e con l’esperienza scomparirà” Aggiunge: “Sicuramente reputo che la mia preparazione sia buona. Questo, tuttavia, non mi impedisce di nutrire una legittima ansia per l’inizio della mia attività professionale”. Matteo Beranger è, invece, restio a ritenere la propria attuale preparazione idonea ad operazioni di qualsiasi valore, mentre Manlio Soldani ritiene di potercela

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fare: “dopo aver affrontato prove concorsuali nelle quali mi giocavo tutto in una frazione di tempo millesimale rispetto a quella che avrò nell’esperienza lavorativa, risolvevo casi che sfuggono a qualsiasi valutazione di tipo economico, l’esercizio prossimo della professione non riesce a intimorirmi realmente. Il fatto di sentirsi adeguato è un altro discorso: credo comunque di avere i mezzi, se non la preparazione, per adeguarmi a qualunque operazione. Il valore dell’operazione pone a mio avviso un problema serio: la capacità di percepire il giusto valore della prestazione notarile. E su questo punto a me pare che il Notariato dovrebbe

provvedere quanto prima ad adottare una tariffa più coerente di quella attuale” Andrea Dragone, reduce da una pluriennale esperienza lavorativa in studio, risponde di sentirsi pronto: “non vedo, soprattutto, perchè il valore della pratica dovrebbe avere influenze sul mio "sentirmi adeguato". Probabilmente dovrò chiedere alle parti di attendere un po’ di tempo in più per poter valutare al meglio gli aspetti più problematici del contratto, ma direi che, in linea di massima, sono pronto a fare il Notaio come deve essere fatto”.

A cura di Anna Polimero notaio in Torino TRUST: PROCEDURE CONCORSUALI E DIRITTO DI FAMIGLIA RAPPORTO TRA ISTITUZIONE DI UN TRUST E NORMATIVA IN MATERIA DI SUCCESSIONE Relazione tenuta ad Ancona Università Politecnica delle Marche, 21 – 22 settembre 2007 Sommario 1. Introduzione. 2. Trust e articolo 627 c.c. 3. Trust testamentario e legittimari, trust e patti successori, trust e fedecommesso. 4. Trust e patto di famiglia. 5. Trustee ed esecutore testamentario. 6. Trust interno nel quale il disponente si riserva di indicare i beneficiari nel suo testamento. 7. Clausola che vieta al trustee di alienare i beni in trust o ai beneficiari di alienare la propria posizione soggettiva. 8. La successione del trustee. 9. L’articolo 2645 ter c.c. 1. Introduzione Il tema a me affidato rientra nel più ampio tema della successione mortis causa che presenta sempre aspetti complessi e variegati. Tali aspetti vanno da quelli giuridici, a quelli fiscali, economici, sociologici, psicologici, di interesse pubblico. Il codice civile italiano sulle successioni mortis causa é ancora basato su una esasperata tutela della famiglia (legittima e naturale), contiene il divieto dei patti successori e non prevede norme che consentano una efficace pianificazione della successione di un soggetto soprattutto perché vieta la partecipazione dei successibili alla formazione della volontà del de cuius se si esclude il caso del nuovo patto di famiglia (legge 14.02.2006, n. 55). Secondo alcuni dovrebbe, invece, prevalere l'interesse della circolazione dei beni sulla tutela dei legittimari.

L’articolo 457 c.c. delinea il sistema delle successioni mortis causa: le vicende di un patrimonio dopo la morte del titolare devono dipendere dalla sua ultima volontà; solo quando questa manca in tutto o in parte o viola i diritti dei legittimari, subentra la regolamentazione per legge. La Convenzione de L’Aja ratificata con legge 16.10.1989 n. 364, contiene alcuni espressi riferimenti alla materia successoria. L’articolo 2 comma 1 afferma che il trust può essere istituito con atto mortis causa, l’articolo 4 prevede che la convenzione non si applica a questioni preliminari relative alla validità dei testamenti, l’articolo 11 lettera c) prevede che il riconoscimento implica che i beni del trust non facciano parte della successione del trustee, l’articolo 15 fa riferimento ai testamenti e alla devoluzione dei beni successori, in particolare la legittima; inoltre l’articolo 18 prevede le disposizioni della Convenzione potranno essere non osservate qualora la loro applicazione sia manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico. Noto, per inciso, che la legge 17.03.2005, n. 37 e la legge 17.03.2005, n. 38 della Repubblica di San Marino che regolano l’istituto del trust e il regime fiscale di esso, non prendono in considerazione gli aspetti successori in quanto soggetti al diritto comune. Prima della Convenzione de L’Aja e della legge di ratifica italiana, si ritenevano strumenti negoziali idonei a trasmettere la ricchezza tra vivi con effetto post mortem, l’assicurazione sulla vita, la rendita vitalizia a favore di terzi, determinati contratti bancari di conto corrente a firma disgiunta, i contratti di società contenenti clausole adatte a realizzare la successione di uno o più

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soci (prelazione, gradimento, patti parasociali, ecc.), le società fiduciarie ; sono state anche utilizzate le norme degli articoli 706, 733, 734, 735 c.c. Dopo la Convenzione e la ratifica di essa, si è parlato del trust segreto e semisegreto e dei suoi vantaggi rispetto all’art. 627 c.c. , si è paragonato il trust al fedecommesso, all’esecutore testamentario, alle fondazioni Va tenuto presente, come impostazione generale, che la scuola e l'associazione Il trust in Italia rifuggono dal considerare il trust come mezzo elusivo ed evasivo delle imposte o di norme cogenti e lo vedono piuttosto come uno strumento per tutelare una serie di legittimi interessi che le norme del nostro ordinamento non tutelano. 2. Trust e articolo 627 c.c. L’articolo 627 c.c. dispone non è ammessa azione in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano altra persona, anche se espressioni del testamento possono indicare o far presumere che si tratta di persona interposta. Tuttavia la persona dichiarata nel testamento, se ha spontaneamente eseguito la disposizione fiduciaria trasferendo i beni alla persona voluta dal testatore, non può agire per la ripetizione, salvo che sia un incapace. La norma, che può considerarsi applicazione dell’art. 626, sembra considerare la fiducia come un motivo, nega in generale la possibilità dell’accertamento di essa, salvo la previsione del terzo comma che ammette l’azione nel caso in cui l’istituto sia utilizzato in violazione di norme inderogabili in materia di incapacità a ricevere. Il secondo comma implica che il fiduciario sia erede, che esso per adempiere alla disposizione debba trasferire il bene alla persona voluta dal testatore, che l’esecuzione dell’incarico fiduciario è atto dovuto (obbligazione naturale) e non liberalità, che la indicazione del beneficiario (ovviamente non contenuta nel testamento ma nel patto fiduciario) non può essere considerata nulla per difetto della forma testamentaria. Il punto centrale della norma è che il trasferimento non è coercibile ma, una volta effettuato, ne è preclusa la ripetizione (soluti retentio). La dottrina ritiene che l’art. 627 vieti sia la fiducia testamentaria propria (in cui il carattere fiduciario risulta dal testamento) sia quella impropria (che non risulta dal testamento); che è nulla la nomina di un mero fiduciario, né erede, né legatario, o di un esecutore testamentario gravato da obblighi fiduciari (nullità derivante dalla carenza della forma testamentaria e dall’art. 631 c.c. che dispone la nullità delle disposizioni testamentarie

che fanno dipendere dall’arbitrio di un terzo l’indicazione dell’erede o del legatario). Qualche autore ritiene che nel caso dell’art. 627 c.c. non si debba parlare di obbligazione naturale ma di una ipotesi di simulazione relativa soggettiva. Il trust testamentario consente di superare la norma dell’art. 627 con la istituzione dell’erede come trustee , la regolamentazione del trust e la designazione dei beneficiari, oppure con la istituzione dell’erede o del legatario come trustee nel testamento e la indicazione del “programma” del trust in un documento distinto. Il primo comma della norma potrebbe essere utile ad escludere una azione diretta ad affermare che con l’istituzione del trust si è voluta interporre una persona, il trustee, mentre erede effettivo sarebbe il beneficiario finale del patrimonio. Mentre nel caso dell’art. 627 siamo di fronte ad una obbligazione naturale, nel caso di trustee siamo di fronte ad obbligazioni coercibili derivanti dalle norme del trust e dalla legge ad esso applicabile. Nonostante si sostenga in dottrina la opponibilità della fiducia romanistica cum amico (il fiduciante trasferisce un proprio bene ad un fiduciario il quale si obbliga nei confronti del fiduciante a destinare il bene nel modo indicato dal fiduciante o a trasferirlo al fiduciario) ad aventi causa, ai creditori del fiduciario, al fallimento del fiduciario, sono evidenti le ragioni che possono portare alla scelta del trust. 3. Trust testamentario e legittimari, trust e patti successori, trust e fedecommesso. Alessandro De Donato afferma nel caso di trust costituito per testamento, il trustee non assume mai la figura di erede o legatario; il trust stesso non assume la veste di erede o legatario . Contaldi ritiene che non sarebbe giustificato riconoscere al trustee le prerogative tipiche di un erede: il trustee si limita ad assolvere a funzioni di carattere esecutivo mentre gli eredi effettivi sono i beneficiari anche se privi della disponibilità dei beni fino a quando essi non vengano loro trasferiti. Bartoli , rilevato che la dottrina ritiene che il trustee destinatario della totalità dell’asse o di una quota indivisa deve essere qualificato erede mentre quello destinatario di uno o più beni determinati, deve essere qualificato legatario, non condivide tali tesi. Bartoli rileva come l’erede acquisti beni a seguito dell’accettazione e il legatario ipso iure, mentre il trustee testamentario acquista i beni a seguito dell’accettazione dell’incarico, come le obbligazioni del trustee differiscano da quelle che il testatore può imporre ai suoi eredi (legato, modus), finisce col parlare di un tertium genus di attribuzione patrimoniale mortis causa.

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Poiché il trustee è soggetto necessario del trust, poiché non è possibile ricoprire l’ufficio di trustee senza essere titolare dei beni in trust e quindi i beni in trust devono essere trasferiti al trustee, non vedo come, nel caso di istituzione di trust testamentario, si possa ipotizzare un trustee che non sia erede o legatario. Per un esame del trust testamentario conviene partire dalla convenzione: art. 2 per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente - con atto tra vivi o mortis causa ...; art. 15: La Convenzione non ostacolerà l’applicazione delle disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro ........in particolare nelle seguenti materie.........c) i testamenti e la devoluzione dei beni successori, in particolare la legittima; l’art. 18: le disposizioni della Convenzione potranno essere non osservate qualora la loro applicazione sia manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico. Emergono da tali norme alcuni principi: in Italia il testamento può essere strumento per istituire un trust; tale strumento non potrà superare le norme in materia di successione necessaria; l’istituzione di un trust sarà nulla se contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Come primo mezzo di indagine possiamo utilizzare la sentenza del Tribunale di Lucca del 23.09.1997 (confermata dalla Corte d’Appello ): dalla quale emergono alcune importanti considerazioni ed affermazioni: nel diritto angloamericano la trasmissione ereditaria ha luogo ordinariamente tramite l’interposizione di un fiduciario (personal representative) tra il de cuius e i beneficiari con la particolarità che il fiduciario è titolare dei beni relitti con poteri dispositivi fino alla estinzione delle passività; che la ratio dell’art. 15 Convenzione è quella di far salva l’applicazione delle norme di diritto interno a tutela dei legittimari e cioè che in simili casi il trust non determina la nullità della scheda testamentaria, neppure per la parte costituente lesione delle aspettative del legittimario, ma semplicemente “non è di ostacolo” alla possibilità di applicare le disposizioni di diritto interno strumentali alla reintegrazione della quota riservata ai legittimari; e ciò è tanto vero che, nel comma conclusivo, lo stesso art. 15 così si esprime: “qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici. La sentenza del Tribunale di Lucca è utile anche per identificare i possibili contrasti del trust con norme dell’ordinamento italiano nel senso che (superate ormai le obiezioni che negano validità al trust nel nostro ordinamento e quelle che negano la possibilità di un trust interno) le norme da

prendere in considerazione sono quelle relative al divieto dei patti successori e quelle sulla sostituzione fedecommissaria (oltre all’art. 549 c.c.). Prima di passare rapidamente all’esame degli accennati possibili casi di contrasto del trust con norme imperative, voglio ricordare come, nell’attuale momento storico, molte siano le critiche rivolte all’intero sistema di norme in materia di successione. Sulla base di considerazioni di tipo sociologico come quelle sul superamento dell’indissolubilità del matrimonio con la conseguenza che un soggetto può, nella sua vita, costituire e sciogliere più famiglie e quindi avere una complessa situazione successoria, o come quelle sul diffondersi delle famiglie di fatto e naturali, si critica la impalcatura del codice civile diretta a proteggere determinate categorie di successibili; sulla base di considerazioni di tipo storico e sociale, si critica il divieto dei patti successori; sulla mutata configurazione della ricchezza si basa la critica della normativa fiscale (come noto tornata in auge), irta di inaccettabili presunzioni, capace ormai di colpire solo i patrimoni immobiliari medio bassi e di fornire all’Erario un gettito inferiore al costo di esazione. Ben si comprende quindi come continua sia la ricerca di strumenti che consentano di risolvere, in modi più adeguati alla realtà di oggi, i problemi successori. Il testamento è poco utilizzato in Italia sia perchè molto spesso sono ritenute sufficienti le norme sulla successione legittima, sia perchè esso è giudicato inidoneo a risolvere le problematiche attuali, sia perchè la unilateralità di esso e il divieto dei patti successori, escludono la partecipazione dei successibili alla formazione della volontà del testatore, sia perchè le norme sulla successione necessaria sono praticamente insuperabili con l’atto testamentario. Conviene innanzitutto sgombrare il campo da ogni dubbio sul divieto dei patti successori: nel caso di trust testamentario non possono nemmeno prospettarsi i dubbi avanzati con riferimento a trust istituiti per atto tra vivi. Il testamento esclude che possa parlarsi di patti successori il cui divieto tende proprio ad evitare che di una successione si disponga con strumenti di tipo contrattuale. Si pone, invece, la necessità di verificare se la istituzione di un trust per testamento possa violare il divieto della sostituzione fedecommissaria attualmente ammesso in ristretti limiti degli artt. 692 e seguenti c.c. Le caratteristiche della sostituzione fedecommissaria possono essere così esemplificate:

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- doppia istituzione con ordine successivo: il testatore nomina erede Caio e vuole che alla morte di Caio i beni passino a Mevio; - il vincolo di conservare per restituire: il primo chiamato Caio non può disporre dei beni ma ne ha solo il godimento. Nel caso di trust testamentario il trustee potrebbe ricevere l’incarico di destinare il reddito dei beni successivamente ad A - B - C e di attribuire la proprietà all’ultimo nato di C. In nessun modo può ravvisarsi nella struttura del trust il meccanismo della doppia istituzione e del vincolo di conservare e restituire: se è vero che il trustee ha l’obbligo di devolvere le rendite successivamente a più soggetti, è altrettanto vero che la triplice istituzione è del tutto diversa da quella della sostituzione fedecommissaria. Il trustee non è un primo istituito perché può disporre dei beni; non sono istituiti i primi beneficiari delle rendite proprio perchè non ricevono la proprietà dei beni e perchè non hanno, quindi, nessun obbligo di conservazione; non è secondo istituito il beneficiario finale della proprietà dei beni che potranno anche non essere i medesimi caduti nella successione ... perchè il trustee non è il primo istituito e primi istituiti non sono i beneficiari delle rendite, perchè il passaggio dal trustee al beneficiario finale non avverrebbe mortis causa. Le considerazioni fatte valgono a maggior ragione quando si tratti di trust discrezionale nel quale è il trustee a scegliere i beneficiari. Le differenze tra i due istituti sono evidenti: - nel fedecommesso alla morte dell’istituito, il sostituito acquista dal testatore, mentre nel trust il beneficiario acquista dal trustee e non dal disponente; il trustee potrebbe sostituire l’originario bene con un altro (peraltro l’art. 644 c.c. prevede la possibilità dell’alienazione dei beni oggetto della sostituzione); - la segregazione derivante dall’istituzione di un trust è ben più incisiva di quella prevista dall’art. 645 c.c.; - nel fedecommesso i beni sono attribuiti all’istituito per la durata della sua vita (art. 692 e 696 c.c.), mentre la durata della vita del trustee è normalmente irrilevante nel trust; - l’istituito può godere dei beni; il trustee esercita i poteri del titolare del diritto ma non può approfittarne; i beni non entrano, per l’effetto segregativo, nella successione del trustee, e quindi non si può prendere in considerazione per il trust l’argomentazione secondo cui il fedecommesso sarebbe vietato perché lesivo della libertà di testare dell’istituito; - il trustee, come già accennato, può normalmente “surrogare” i beni in trust e ciò non consente di prendere in considerazione le argomentazioni che fondano la nullità del fedecommesso sull’ostacolo alla circolazione dei beni.

Come può essere inquadrato il trust testamentario nel nostro ordinamento? L’erede può certamente essere gravato anche oltre il valore dei beni ricevuti e contro il rischio di dover rispondere col proprio patrimonio dei debiti ereditari e dei legati potrà ricorrere alla accettazione col beneficio di inventario: si può, quindi, in linea di principio, immaginare un erede al quale vengono attribuite le funzioni di trustee per cui dovrà destinare l’intero attivo ereditario alle finalità perseguite dal testatore. L’istituzione del trust consisterebbe nella imposizione sulla quota dell’erede o sul legato di un peso (il legatario è tenuto all’adempimento del legato e di ogni altra onere a lui imposti entro i limiti del valore della cosa legata - art. 671 c.c.), il trust sarebbe regolato dalla legge straniera scelta dal testatore. È innegabile che le norme sulla successione necessaria costituiscono un importante limite all’utilizzazione del trust testamentario nel nostro ordinamento; Lupoi conferma che il trust è lo strumento meno adatto ad eludere le norme sulla successione necessaria. L’art. 457 secondo comma c.c. afferma il principio (che trova poi applicazione nelle norme successive) che … Le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari. Ma proprio la ricostruzione fatta prima può porre il trust testamentario in contrasto con l’art. 549 c.c. La norma costituisce esplicazione del principio enunciato nell’art. 457 c.c. della intangibilità della riserva che opera, da un lato con la riducibilità delle disposizioni lesive (art. 554 e seguenti), dall’altro con l’originaria inefficacia delle disposizioni limitative prevista dall’art. 549. La norma considera un peso qualunque sacrificio del diritto del legittimario a conseguire la sua quota e si ritiene sia sanzionata dalla nullità delle disposizioni in contrasto con essa. Va tenuto presente che l’art. 703 c.c. prevede che il possesso dell’esecutore testamentario può avere durata di un anno (prorogabile dal giudice di un altro anno) e questo può essere considerato un peso, previsto dalla legge, che può gravare sulla riserva. Si potrebbe quindi ritenere che un trust che abbia durata di un anno possa non essere considerato un peso sulla quota di riserva. Bartoli e Muritano tendono ad escludere una violazione dell’articolo 549 c.c. quando, attraverso la istituzione del trust testamentario, si ponga in essere un meccanismo analogo a quelli previsti dagli articoli 713, 733, 734 c.c. Un esempio vale a chiarire il problema. Tizio nomina erede – trustee Caio disponendo che egli attribuisca (divida) i beni ai beneficiari – legittimari minori quando sia trascorso un anno

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dal raggiungimento della maggiore età da parte dell’ultimo nato (art. 713 c.c.). A mio parere, invece, l’istituzione del trust testamentario viola l’articolo 549 c.c., nonostante esso faccia salva l’applicazione delle norme sulla divisione. Mi sembra chiaro che l’istituzione del trust, almeno secondo la mia ricostruzione, faccia diventare erede il trustee; che i beneficiari – legittimari riceverebbero i beni non dal defunto ma dal trustee; che sia innegabile il peso imposto sulla quota dei beneficiari - legittimari. Altro caso proposto da Bartoli e Muritano, è quello di un trust testamentario che destini i beni, alla fine del trust, ad un beneficiario esattamente individuato, al quale, come è noto, spetterebbe la facoltà di richiedere al trustee l’attribuzione dei beni prima della scadenza della durata del trust. La mancata violazione dell’articolo 549 c.c. deriverebbe proprio dalla possibilità per il beneficiario individuato di porre fine al trust in qualunque momento. A mio parere, invece, anche nel caso in esame, si avrebbe violazione dell’articolo 549 c.c.: per le ragioni già dette, per la considerazione che il beneficiario – legittimario vedrebbe apposto un peso sulla propria quota costituito proprio dalla esistenza del trust e dalla conseguente necessità di dover chiedere la anticipata fine del trust, per la specificità del caso (unicità o consenso dei beneficiari) non estensibile ad altri, perché si potrebbe dire che il peso non c’è … perché è possibile l’azione di nullità. Il trust testamentario può porsi in contrasto anche con le norme che prevedono la riducibilità delle disposizioni fatte dal testatore in favore di soggetti diversi dai legittimari (art. 554 e seguenti). Possiamo fare qualche esempio. * Tizio, che non ha eredi legittimari, nomina erede Caio attribuendogli le funzioni di trustee. Non vi è collisione né con l’art. 549, nè con le norme sulla riduzione. * Tizio nomina erede Caio, suo figlio, attribuendogli le funzioni di trustee: la quota attribuitagli sarà gravata di pesi vietati dall’art. 549 e la disposizione istitutiva del trust sarà nulla. * Tizio nomina erede Mevio estraneo attribuendogli le funzioni di trustee e ledendo così la quota di riserva del figlio Caio che potrà esperire l’azione di riduzione. * Tizio nomina erede Mevio estraneo attribuendogli le funzioni di trustee e incaricandolo di assegnare al figlio Caio la rendita del patrimonio che andrà poi ai nipoti. * Tizio nomina erede Mevio estraneo attribuendogli le funzioni di trustee e incaricandolo di attribuire al coniuge il reddito del suo patrimonio che andrà poi al figlio Caio.

Negli ultimi due esempi, mi sembra vi sia lesione di riserva per cui il figlio (ma anche il coniuge) potrà agire in riduzione. Ho detto prima che all’erede (ma anche al legatario) possono essere attribuite le funzioni di trustee: quindi a me sembra, come ho già detto, si possa affermare che è l’erede o il legatario ad essere trustee, non il trustee ad essere erede o legatario. Ma mi sembra anche che da una imprecisa formulazione di un testamento si possa arrivare in via di interpretazione alla medesima conclusione: se si tengono presenti la dottrina e la giurisprudenza che sottolineano la esigenza della più penetrante ricerca della effettiva volontà del testatore, si potrà tranquillamente concludere che un testatore che abbia nominato Tizio come trustee del suo patrimonio o abbia costituito in trust il suo patrimonio nominando Tizio trustee, abbia inteso nominare erede Tizio, attribuendogli le funzioni di trustee. L’istituzione di un trust testamentario non esclude l’applicazione delle norme sulla accettazione, la rinuncia, la rappresentazione, l’apposizione di condizioni e modi, la sostituzione. Quindi l’erede-trustee potrà accettare l’eredità, ma potrà anche rinunziarvi o potrebbe premorire al testatore: il testatore, quindi, se vorrà escludere la rappresentazione e se vorrà comunque avere la certezza che la sua volontà venga attuata, dovrà ricorrere alla sostituzione ordinaria nominando altri eredi trustee per il caso che il primo chiamato non possa o non voglia venire alla successione. Considerazioni parzialmente diverse si possono fare nel caso in cui trustee sia un legatario: anche se il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziarvi (art. 649 c.c.), l’accettazione non è vietata e sembra opportuna (per non dire necessaria) quando alla istituzione a titolo particolare è connessa la funzione di trustee. Valgono, invece, le considerazioni già fatte in tema di rappresentazione e sostituzione ordinaria che operano anche in tema di legati (art. 467 e 691 c.c.). Ci si può chiedere se l’erede-trustee debba porsi o meno il problema dell’accettazione con beneficio di inventario, ci si può chiedere, in altre parole, se l’istituzione del trust per testamento abbia i medesimi effetti, o effetti analoghi, del beneficio di inventario. Va innanzitutto ricordato che se erede-trustee fosse una persona giuridica scatterebbe l’obbligo di accettazione con beneficio di inventario di cui all’art. 473 (che non si applica alle società). Non mi è possibile approfondire qui il confronto tra accettazione beneficiata e trust testamentario anche perché pochi riferimenti ho rintracciato in dottrina al di là di qualche accenno.

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Mi limito quindi a segnalare qualche punto, azzardando poi una conclusione: il beneficio di inventario limita la responsabilità dell’erede per il pagamento dei debiti ereditari e l’adempimento dei legati entro il valore dei beni ereditati, impone un rigoroso formalismo sanzionato dalla decadenza, pone in essere un patrimonio separato sottoposto ad una rigorosa amministrazione controllata dal giudice (art. 493 c.c.), prevede un sistema concorsuale (artt. 490 n.3, 495 e seguenti); l’effetto di separazione riguarda il patrimonio del defunto rispetto a quello dell’erede i cui creditori si trovano in posizione deteriore rispetto a quelli dell’eredità (art. 490 n. 3). L’effetto della istituzione del trust è che il diritto affidato al trustee è segregato nel patrimonio di questi, come conseguenza dell’affidamento; è che il diritto non cade nella successione del trustee, non risente del regime matrimoniale e non può essere aggredito dai creditori del trustee; l’effetto di segregazione riguarda il “patrimonio del trust” rispetto a quello del trustee i cui creditori non possono aggredire i beni in trust. Trovo notevole difficoltà (anche perchè intravedo due momenti quantomeno logici successivi: successione ed istituzione del trust, ma la questione merita ben altro approfondimento) ad identificare il patrimonio ereditario separato per effetto dell’accettazione con beneficio di inventario con quello del trust istituito per testamento da considerare segregato rispetto a quello dell’erede-trustee; a considerare uguali o solamente simili gli effetti della istituzione del trust e quelli della accettazione beneficiata. Le difficoltà sorgono dalla identità erede-trustee, dalla ricostruzione fatta della disposizione testamentaria istitutiva del trust, dalla diversa tutela attribuita ai creditori (e all’erede) dalle disposizioni degli artt. 474 e seguenti c.c., dalla palese lesione delle aspettative dei creditori dell’erede i quali in assenza della istituzione di trust o della accettazione beneficiata potrebbero aggredire i beni ereditari confusi nel patrimonio dell’erede. Azzardo la conclusione che l’erede-trustee dovrà accettare l’eredità col beneficio d’inventario, forse anche per evitare che l’istituzione di trust testamentario coi suoi effetti segregativi possa essere visto come violazione di norme imperative che solo al beneficio di inventario collegano gli effetti accennati a tutela dell’erede, ma anche dei creditori dell’eredità, con pesanti effetti sui creditori dell’erede; forse persino per parare la tesi di chi volesse attribuire al trust una “personalità giuridica” e quindi lo ritenesse soggetto alla norma dell’art. 473 c.c. Anche il tema della separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede andrebbe approfondito sia per la sua relazione col beneficio

di inventario (art. 490 n. 3) sia per le possibili relazioni col trust. Potrebbe succedere che l’erede trustee pretenda di accettare l’eredità.....ma non la funzione di trustee. Non è possibile affrontare qui la tematica della presupposizione e del motivo in relazione al testamento e alla interpretazione di esso e mi limito a sottolineare la opportunità che il testatore sottoponga la disposizione alla condizione che l’erede o legatario accetti la funzione di trustee. In particolare mi sembra idonea una condizione risolutiva possibile ex art. 633 c.c Ovviamente una simile disposizione dovrà essere completata con opportune sostituzioni e dovrà tener presente il divieto dell’art. 549 (peraltro da prendersi in considerazione, come si è visto, per la istituzione stessa del trust). Concludendo: è possibile istituire un trust testamentario che manifesta chiaramente la natura unilaterale del trust e la sua tendenziale distanza dal campo contrattuale e costituisce una ipotesi di coincidenza tra istituzione del trust e attribuzione di beni al trustee; è vietata dall’art. 549 c.c. la istituzione di un erede legittimario con funzioni di trustee; il testatore dovrà prevedere opportune sostituzioni per il caso in cui l’erede-trustee non volesse o non potesse accettare l’eredità; il testatore, quantomeno per ragioni di chiarezza, opportunità, certezza che le sue volontà vengano rispettate, dovrà sottoporre la istituzione alla condizione risolutiva della accettazione della funzione di trustee e prevedere opportune sostituzioni per il caso di mancato verificarsi della condizione; il testatore dovrà indicare nel testamento tutte le regole del trust e, ovviamente, scegliere la legge regolatrice; l’erede trustee dovrà accettare l’eredità ex art. 470 c.c. e, in assenza di sue limitazioni, peraltro molto opinabili perchè è nulla la dichiarazione di accettazione sotto condizione o a termine (art. 475 II comma c.c.), l’accettazione implicherà l’accettazione della funzione di trustee; l’accettazione stessa consentirà la trascrizione; il legatario-trustee, nonostante l’art. 649 I comma c.c., potrà accettare espressamente la disposizione testamentaria; l’erede trustee dovrà accettare l’eredità con beneficio di inventario se vorrà giovarsi delle norme in materia; i legittimari avranno, se eredi-trustee, l’azione di nullità ex art. 549 c.c.; se lesi da disposizioni a favore di altri eredi o legatari-trustee, l’azione di riduzione. 4. Trust e patto di famiglia

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È evidente che il patto di famiglia, quando ne saranno stati approfonditi i contenuti e risolti i molti dubbi interpretativi, potrà essere utilizzato, nei casi previsti dalla nuova normativa, in alternativa alla istituzione di un trust. 5. Trustee ed esecutore testamentario Possono essere identificati alcuni tratti comuni alle due figure. Sia l’esecutore testamentario (art. 710 c.c.), sia il trustee possono considerarsi titolari di un ufficio privato che può essere assunto da chi è provvisto della capacità di agire, l’ufficio può essere assunto anche da chi è erede o legatario (art. 701, secondo comma c.c.), può essere o meno gratuito (art. 711 c.c.), ha connotazioni fiduciarie (vedi l’art. 710 c.c. che prevede l’esonero dell’esecutore testamentario dal suo ufficio per il venir meno della fiducia), è possibile in entrambi i casi prevedere la sostituzione (vedi, per l’esecutore testamentario, l’art. 700 c.c.), entrambi devono curare che venga eseguita la volontà del testatore (art. 703 c.c.) o del disponente, entrambi devono amministrare e gestire i beni e li possono alienare (art. 703 quarto comma c.c.), entrambi devono rendere conto della gestione (art. 709 c.c.), in entrambi i casi si ha un effetto segregativo. Ma notevoli sono le differenze tra le due figure. La gestione dell’esecutore testamentario può essere esclusa (art. 703 secondo comma c.c.), si ritiene che il potere di disporre dell’esecutore testamentario subisca la concorrenza dell’uguale potere dell’erede, l’esecutore testamentario è soggetto ad un controllo di volontaria giurisdizione (art. 703 quarto comma c.c.), il trustee è proprietario dei beni mentre l’esecutore testamentario ne ha il possesso, il trustee non è soggetto ai limiti di durata previsti per l’esecutore testamentario (art. 703 terzo comma c.c.), il trustee è soggetto fondamentale del trust mentre l’esecutore testamentario è meramente eventuale. Evidente, poi, è la maggiore complessità del trust rispetto all’istituto dell’esecutore testamentario. Un caso interessante è il seguente: un soggetto dispone per testamento della quota disponibile dei suoi beni a favore degli anziani di una determinata città, nomina un esecutore testamentario incaricandolo di istituire un trust di cui individua il trustee. Il testatore, quindi, non ha istituito il trust ma ha incaricato della istituzione l’esecutore testamentario evitando così di regolare compiutamente nel testamento gli aspetti organizzativi del trust. Il facere imposto all’esecutore testamentario ha come obbligati finali gli eredi che sarebbero tenuti ad istituire il trust in caso di inerzia o di inadempimento dell’esecutore testamentario .

P. Manes ipotizza che qualora mediante il trust si conferiscano ad un soggetto esattamente gli stessi poteri che detiene l’esecutore testamentario in diritto italiano … questa particolare figura di trustee sarà necessariamente un esecutore testamentario in quanto trustee …, supera l’obiezione della durata dell’ufficio di esecutore testamentario affermando che lo stesso risultato si può ottenere rendendo trustee l’erede o il legatario. 6. Trust interno nel quale il disponente si riserva di indicare i beneficiari nel suo testamento. L’ipotesi è la seguente: Tizio istituisce un trust, trasferisce i beni al trustee nominato ma si riserva, nell’atto istitutivo, di indicare i beneficiari nel suo testamento. Bartoli e Muritano ipotizzano che, nel caso in esame, si possa vedere un patto successorio istitutivo indiretto e quindi vietato ex art. 458 c.c. e art. 15 della Convenzione. A mio parere, senza qui approfondire la questione, la figura del patto successorio istitutivo indiretto è di difficile e alquanto evanescente definizione. Ma, anche a voler prendere in considerazione tale figura, non riesco a vedere come, attraverso l’istituzione di un trust interno, il trasferimento di determinati beni al trustee, la regolamentazione del trust con la esplicita riserva del disponente di voler indicare i beneficiari nel proprio testamento, si possa porre in essere una convenzione con cui taluno dispone della propria successione (art. 458 c.c.). E’ evidente, infatti, che il disponente, nell’atto istitutivo del trust, non prende in considerazione la propria successione impegnandosi convenzionalmente (col trustee?) a destinarla in un certo modo, ma si limita ad istituire il trust, a nominare il trustee, a definire il programma del trust. Non mi sembra che, a configurare il patto successorio vietato, sia determinante la riserva di indicazione dei beneficiari nel testamento del disponente. Il trust è stato istituito, il trustee è stato nominato, i beni sono stati attribuiti al trustee, è stato definito il “programma” del trust con atto tra vivi; la riserva contenuta nell’atto istitutivo non ha nulla a che vedere con la successione del disponente se non per la scelta del testamento come strumento di indicazione dei beneficiari, attiene al regolamento del trust e non alla successione del disponente, i beneficiari, seppur indicati nel testamento, non saranno eredi del disponente in quanto i beni sono stati in vita attribuiti al trustee che li dovrà poi attribuire ai beneficiari stessi, nessuna limitazione della volontà testamentaria deriva dalla riserva.

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Bartoli e Muritano, parlando di una fattispecie a formazione progressiva, ipotizzano che il trust contenente la riserva indicata, non produrrebbe l’effetto segregativo: ma l’affermazione è priva di motivazione e non indica le conseguenze di tale mancata produzione (nullità, mancanza degli effetti previsti dall’art. 11 della Convenzione, non riconoscibilità del trust?). Non vedo differenze tra la riserva di indicare i beneficiari con un atto tra vivi successivo alla istituzione del trust (del tutto pacifica come la possibilità attribuibile al trustee o ad un beneficiario di designare altri beneficiari ) e la riserva di indicarli per testamento, non vedo alcuna ragione per cui il trust non debba produrre gli effetti segregativi suoi propri. Ritengo, quindi, perfettamente possibile la riserva contenuta in un atto istitutivo di trust interno di designare i beneficiari di esso nel testamento. Piuttosto bisogna esaminare le possibili conseguenze della mancata indicazione dei beneficiari nel testamento e della destinazione dei beni in trust alla fine di esso in tale caso. Si possono fare alcune ipotesi: - il disponente si limita ad esprimere la sua volontà di voler indicare i beneficiari del trust nel suo testamento; - il disponente esprime la sua volontà di voler indicare i beneficiari del trust nel suo testamento, ma indica la categoria entro la quale sceglierà i beneficiari (la clausola potrebbe essere il disponente si riserva di indicare nel suo testamento quale o quali dei suoi discendenti saranno i beneficiari del trust). Nella prima ipotesi Lupoi ritiene che operino le norme del diritto del trust sui resulting trusts: beneficiario diviene il disponente o, qualora fosse defunto, l’interest cadrebbe nella successione del medesimo. Nella seconda ipotesi Lupoi ritiene che beneficiari diventino tutti gli appartenenti alla categoria (nell’esempio fatto sopra, tutti i discendenti del disponente). Noto che nulla vieta di prevedere nell’atto istitutivo di trust quale debba essere la destinazione dei beni nel caso di mancata indicazione di essi nel testamento. 7. Clausola che vieta al trustee di alienare i beni in trust o ai beneficiari di alienare la propria posizione soggettiva. La prima clausola in esame è quella con la quale nell’atto istitutivo di trust (per atto tra vivi o per testamento) il disponente vieti al trustee di alienare i beni in trust. La seconda clausola in esame è quella con la quale nell’atto istitutivo di trust (per atto tra vivi o per testamento) il disponente vieti ai beneficiari la alienazione della loro posizione soggettiva .

Nell’esame delle due clausole si pongono i seguenti problemi: - se il divieto di alienazione debba essere contenuto nei limiti previsti dall’art. 1379 c.c.; - se il divieto di alienazione abbia natura obbligatoria o reale; - quali sono le conseguenze dell’inosservanza del divieto a carico del trustee o dei beneficiari inadempienti; - quali sono le conseguenze a carico degli acquirenti dal trustee o dai beneficiari che abbiano violato il divieto di alienazione. L’articolo 1379 c.c. prevede che il divieto di alienazione è valido se contenuto entro convenienti limiti di tempo e se risponde a un apprezzabile interesse di una delle parti. E’ evidente che la durata del trust prevista nell’atto istitutivo persegue un interesse del disponente e dei beneficiari; che la convenienza del termine è rapportabile a tale interesse; che l’intera costruzione del trust tende ad attribuire al trustee i beni per conseguire l’interesse voluto dal disponente nel tempo della durata del trust; che il divieto di alienazione può essere espresso (il trustee non può alienare i beni in trust) o implicito (ad esempio quando “scopo” del disponente è mantenere un determinato bene in trust finchè vive un certo beneficiario disabile). Discusso è se il divieto abbia natura obbligatoria o reale: nel primo caso sarebbe valido e potrebbe dar luogo solo ad azioni nei confronti del trustee o dei beneficiari inadempienti; nel secondo caso la clausola inficerebbe l’atto di alienazione e sarebbe opponibile ai terzi acquirenti. L’articolo 1379 c.c. prevede espressamente che il divieto di alienazione ha carattere obbligatorio. A mio parere, invece, la clausola contenuta nell’atto istitutivo di trust ha natura reale derivante dalla natura stessa del diritto del trustee, proprietario con vincolo di destinazione apposto nell’atto istitutivo e con l’effetto segregativo previsto dall’art. 11 della convenzione; dalla trascrivibilità dell’atto istitutivo e dell’atto di trasferimento al trustee; dalla inapplicabilità, affermata in dottrina, dell’articolo 1379 c.c. alla proprietà affetta da un vincolo di destinazione; dal disposto dell’articolo 2645 ter c.c. che, oltre a prevedere il termine di novanta anni o una durata pari alla vita della persona fisica beneficiaria, prevede l’opponibilità del vincolo di destinazione ai terzi. Di conseguenza l’alienazione posta in essere dal trustee, in violazione del divieto, sarebbe inopponibile ai beneficiari, ferma l’esigenza di tutelare l’eventuale acquirente di buona fede . Con riferimento alla clausola dell’atto istitutivo di trust (per atto tra vivi o per testamento) che vieti ai beneficiari il trasferimento della loro posizione soggettiva, va tenuto presente che beneficiari possono normalmente disporre, per atto tra vivi, della loro posizione soggettiva e che essa è

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trasmissibile mortis causa, che il diritto inglese non consente che l’atto istitutivo di trust vieti le alienazioni, divieto invece ammesso da altre legislazioni. Sono quindi possibili clausole dell’atto istitutivo che vietino ai beneficiari di disporre della loro posizione soggettiva purché la legge regolatrice scelta consenta tale divieto . 8. La successione del trustee Normalmente il trustee accetta l’incarico o nell’atto istitutivo o successivamente: ciò è consigliabile nei trust interni ed è previsto nella legge di San Marino. Un trustee cessa di essere tale: - per rinuncia; - per revoca; - per morte; - per impossibilità a continuare nell’incarico (ad esempio incapacità); - per fine del trust. Dall’elenco risulta evidente che la cessazione del trustee può derivare da una propria manifestazione di volontà, da una manifestazione di volontà di altri soggetti, da un fatto (morte o incapacità), da un fatto inerente al trust. Si prospettano quindi almeno due possibilità: cessazione del trustee ma continuazione del trust; fine del trust che implica cessazione del trustee. Nel caso di cessazione di un trustee con continuazione del trust, si pone il problema della sostituzione del trustee. Negli atti istitutivi, per atto tra vivi o per testamento, è opportuno inserire clausole sulla sostituzione del trustee e sul trasferimento di beni al nuovo trustee. E’ generalmente consigliabile prevedere più trustee con la previsione che, al venir meno di uno di essi, gli subentri un altro. La sostituzione di un trustee implica, da un lato il venir meno della sua posizione (titolarità, poteri, obblighi, responsabilità), dall’altro un trasferimento di tale posizione ad altro trustee. La sostituzione del trustee è un effetto giuridico che, a prescindere dai meccanismi di sostituzione, non implica alcuna manifestazione di volontà. Nel caso di trust interno bisognerà tener conto delle norme in materia di possesso e delle norme sulla pubblicità (libro soci, registro imprese, trascrizione). Qualche decisione italiana ha affermato che il giudice può revocare i trustee quando essi non abbiano adempiuto ai loro doveri. Nel caso di morte del trustee, i beni in trust sono esclusi dal suo patrimonio (art. 11 lettera c) Convenzione). Parte della dottrina ritiene, in aderenza alle previsioni del diritto inglese che prevedono il

passaggio dei beni al personal representative , che i beni passino dal trustee deceduto ai suoi eredi (che non ne hanno nessun godimento) e da questi al nuovo trustee; altra parte della dottrina ritiene invece che il passaggio avvenga dal trustee deceduto al nuovo trustee che accetti l’incarico. Per risolvere il dubbio, anche di natura tributaria, se il passaggio da un trustee ad un altro implichi un effettivo trasferimento, vanno tenuti presenti gli articoli 2 lettera a), 8 lettera a), 11 lettera c), della Convenzione e la natura di ufficio del trustee. Un caso particolare è quello di morte di un trustee di un trust il cui atto istitutivo prevedeva che il trustee nominasse il suo successore. Alla morte del primo trustee si è posto il problema della pubblicità nei registri immobiliari del passaggio dei beni dal vecchio al nuovo trustee nominato, problema che è stato risolto con la stipula di un atto unilaterale nel quale è intervenuto il nuovo trustee ad accettare la nomina fatta dal precedente trustee. E’ stato trascritto prima l’atto di accettazione dell’ufficio, poi, a favore del nuovo e a carico del vecchio trustee, è stato trascritto il trasferimento dei beni del trust. 9. L’articolo 2645 ter c.c. Sulla tematica dei trust interni è intervenuto il nuovo articolo 2645 ter del codice civile. La nuova norma, a proposito della quale posso qui fare solo un accenno tenendo presente che si può ipotizzare la istituzione del vincolo per testamento e che il tema è trattato da altro relatore, ha importanza straordinaria perché, volutamente o per caso, incide su numerosi istituti e principi del nostro ordinamento: vincoli di destinazione, numerus clausus dei diritti reali, mandato senza rappresentanza, negozi fiduciari, trust e sua trascrivibilità, art.2740 c.c. Limitandomi a qualche cenno sui rapporti della norma col trust, vi segnalo il dubbio se, nonostante la dizione letterale che potrebbe dipendere dalla collocazione della norma nel campo della trascrizione, il vincolo possa avere per oggetto (come nel trust) anche beni diversi dagli immobili e dai beni mobili registrati; che il termine di durata previsto sembra riecheggiare quelli previsti da talune legislazioni in tema di trust; che, come nel trust, non esiste nella norma alcuna limitazione soggettiva; che, a differenza della Convenzione de L’Aja, prevede la forma pubblica degli atti (forse anche del testamento); che, come nel trust, sembra possibile un vincolo di destinazione autodichiarato; che il fulcro della norma è la realizzazione di interessi meritevoli di tutela come avviene nel riconoscimento dei trusts; che la previsione normativa rafforza la tesi sulla piena legittimità dei trust interni (in particolare con

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riferimento all’art.2740 c.c.) e sulla trascrivibilità di essi; l’azione a tutela del vincolo può essere avvicinata all’azione di tracing (l’alienazione dei beni in trust in violazione dei suoi obblighi da parte del trustee, consente l’azione nei confronti dell’acquirente). La scelta tra l’istituto abbozzato nell’art. 2645 ter e il trust della Convenzione dovrà essere fatto, di volta in volta, tenendo conto della situazione di

fatto e degli scopi perseguiti. Non si può, tra l’altro, ignorare che la segregazione attuata con il trust e quella attuabile in applicazione della nuova norma, sono differenti quantomeno perché gli effetti segregativi del trust sono riferibili anche al regime matrimoniale e alla successione del trustee, del che non vi è traccia nel 2645 ter.

Gian Franco Condò LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE TRA ETICA E DIRITTO Asiago 7 settembre 2007 Eccoci, ancora una volta ad Asiago, un classico del mondo civile che si confronta. Devo riconoscere che, per l’interesse dei temi svolti e per il contesto ambientale e amicale, è un appuntamento irrinunciabile per il quale ringrazio i “cugini” magistrati. Il mio è solo un indirizzo di saluto a nome dell’Accademia del Notariato. Ma, come è ovvio, mi sono documentato sull’argomento cercando di ampliare i confini della mia esperienza lavorativa. La responsabilità professionale è la seconda pelle del notaio se la prima è l’eccellenza professionale. Sono le due facce della medesima medaglia assolutamente inscindibili l’una dall’altra: tanto più si affina la qualità della professione e tanto più aumenta il carico di responsabilità che ciascun notaio sente fortissima e che, personalmente, ritengo giusta e doverosa in quanto connaturata alla necessarietà della nostra funzione. Ma lasciamo questi argomenti a chi svolgerà le relazioni tecniche. In questo intervento mi piacerebbe solo, brevemente, guardare all’argomento da una diversa angolazione. Ho iniziato le mie ricerche inserendo le parole chiave : “responsabilità professionale” nel motore di ricerca Google ed ho scorso le circa quaranta pagine di links di rinvio sull’argomento. Incredibile, a parte rari rinvii alla responsabilità degli avvocati, dei commercialisti e dei geometri, le pagine rinviano quasi esclusivamente alla responsabilità professionale dei medici e dei notai . Forse in Italia non c’è altra responsabilità professionale che meriti l’interesse del ricercatore? Forse tutto funziona così bene che non è necessario indagare sulle responsabilità di un costante degrado delle funzioni, anche di controllo, che è sotto gli occhi di tutti? Forse il lavoratore dipendente, il ministeriale, l’artigiano, i grossi poteri economici e lo stesso cittadino – consumatore non sono anche portatori di doveri oltre che di diritti?

Se vogliamo dare il giusto peso alle parole, il dizionario Zanichelli definisce la responsabilità come il “dovere di rendere conto di ciò che avviene”. Ne consegue che la responsabilità professionale è il rendere conto a chi ci ha investito della funzione ed a chi è destinatario del servizio. Allora, forse, la mancanza di interesse per la responsabilità professionale, rectius, per la totale mancanza di responsabilità professionale, da parte di intere categorie di operatori è il più grosso attrito alla crescita civile di una nazione! Già trent’anni fa, da studente, a Londra mi meravigliava la cura nella manutenzione dei luoghi pubblici o aperti al pubblico. La stessa cura che ancora oggi mi sorprende favorevolmente quando vado in Svizzera, in Austria, in Olanda, in Danimarca. Forse perché la civiltà va di pari passo con la responsabilità del lavoro che si compie. Dal più semplice al più complesso. Proviamo un po’ tutti a pensare al lavoro in chiave di responsabilità. Ben vengano, quindi, i riflettori che, in questo convegno, si puntano sulla responsabilità professionale. Perché è etico tutto ciò che è fatto con senso di responsabilità al di là e al di fuori della legge e della sanzione. La responsabilità non diventa professionale perché riferita ad un “professionista”. Occorre invertire la tendenza al degrado e questi incontri sono quanto di più prezioso ci possa essere. Noi siamo qui per dimostrare quanto il confronto sinergico tra attività, professioni ed istituzioni possa diventare la chiave di questa auspicata inversione di tendenza per il progresso del nostro Paese. L’Accademia del Notariato ne fa la sua ragione di vita. Il mondo civile, il mondo che lavora, che sa assumersi, appunto, le proprie responsabilità non deve chiedere favori alla politica. Forse è vero il

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contrario : la politica deve saper cogliere gli orientamenti del mondo civile che emergono anche da questi confronti. Occorre che il mondo politico prenda sempre più esempio da quei rappresentanti che, come quelli presenti a questo convegno, dimostrano, anche

con la loro costruttiva partecipazione, di considerare la politica come il più nobile dei servizi per il progresso ed il benessere degli elettori.

Adolfo de Rienzi Notaio in Roma

Attività Sindacali

VERBALE DELL'ASSEMBLEA DEI DELEGATI DEL GIORNO 29 SETTEMBRE 2007. Roma, presso la sede sociale alla via Flaminia, civico 158. L'assemblea si apre alle ore 10,45. Sono presenti: per il Triveneto: Bidello, d'Argenio, Finelli; per la Campania: Fiordiliso, Gaeta, Miranda, Nastri, Pappa Monteforte, Pesiri, Scarfò; per la Lombardia: Umberto Ajello, Binacchi, De Stefano, Guerra, Iannaccone, Munafò, Setti; per il Lazio: Bellelli, D'Errico, Falessi, Germani, Cesare Felice Giuliani, Giovanni Giuliani, Perna, Rummo; per il Piemonte: Re; per le Marche: Colangeli, De Angelis; per l'Emilia: Iannello, Manzini, Spadola. Prende la parola il presidente Fiordiliso per ricordare i temi all'ordine del giorno: Congresso Nazionale del Notariato del 23/24 novembre 2007 ed azione di Federnotai; Congresso nazionale di Federnotai 2008 ed individuazione delle relative tematiche di carattere politico; recente iniziativa dell'associazione sindacale dei notai delle tre Venezie in tema di forme di protesta da attuare nel caso di nuovi attacchi politici alla categoria. Interviene Finelli per chiarire che l'iniziativa del Triveneto che ipotizzava la registrazione di tutti gli atti con il pagamento di un solo euro era un semplice sondaggio tra colleghi. d'Argenio precisa che su 400 colleghi sono pervenute 150 risposte, delle quali il 35%-40% circa di contenuto negativo. Invita, poi, il sindacato ad attivarsi ed a contattare i politici per un serio confronto sulla funzione ed i servizi che il notariato rende allo Stato. Fiordiliso risponde ricordando che i contatti politici sono costanti, ma che nell'ultimo incontro anche il Sottosegretario Scotti ha chiesto ai notai di essere propositivi e di non limitarsi al dialogo. Conclude l'intervento ribadendo, quanto al sondaggio sullo "sciopero fiscale", che la libertà di iniziativa delle associazioni sindacali regionali non è mai stata messa in discussione.

Finelli riconosce che la proposta "oltranzista" offriva al C.N.N. la possibilità di presentarsi ai politici come colui che media tra colombe e falchi del notariato. Giovanni Giuliani afferma che il Governo ha le sue difficoltà a sopravvivere. Esistono problemi seri che riguardano il Paese e non i notai. Se è vero che ci chiede di "bussare con i piedi", l'azione sinora svolta dalla categoria non brilla per efficacia: l'emendamento "Lulli" non è passato solo perchè tecnicamente scritto male e non per la nostra risposta politica. Il notariato deve proporre per il paese e questo potrebbe essere il tema di un prossimo congresso. Anzi, proprio il sindacato dovrebbe cominciare una seria "trattativa" con i politici. Anche per Bidello, Federnotai deve ritagliare il suo spazio politico. Quello del Triveneto era un semplice sondaggio, un'iniziativa - in un certo senso "immediata" - da non confondere che le azioni a medio e lungo termine che devono caratterizzare il sindacato. Fiordiliso concorda sulla necessità di una maggiore autonomia dell'azione sindacale rispetto a quella svolta dal C.N.N. Colangeli chiede perchè il documento organico di riforma della categoria promesso a Cascina Bergamina dal Presidente Piccoli non abbia ancora visto la luce. Prende la parola Setti premettendo di non avere alcun interesse a difendere il Consiglio Nazionale. Ricorda, però, che le proposte del Consiglio devono tener conto degli equilibri politici: per avere qualche speranza di essere "vagliate" devono apparire come idee degli stessi politici. Il Consiglio, ciò nonostante, non è rimasto inerte; esiste un quaderno di proposte offerto ai politici - che doveva essere pubblicizzato con una conferenza stampa, non tenutasi per motivi di opportunità - su territorio ed accorpamento di alcuni distretti, tariffe, protocolli, numero delle sedi notarili, accesso. Proprio sull'accesso - tema di sicuro interesse generale, da sempre terreno di scontro anche

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all'interno della categoria - precisa che il Consiglio non ha competenze sul concorso. Quanto all'iniziativa del Triveneto resta censurabile, anche per il contenuto del documento diffuso che ipotizzava "alcuni accorgimenti" da seguire per evitare le "criticità" penali, disciplinari e civili. Conclude ribadendo che se è vero che dobbiamo chiedere il confronto con i politici, la concertazione, non possiamo dimenticare che attualmente il ministro Bersani rifiuta di incontrare il Presidente Piccoli. Iannello si dichiara d'accordo con Giuliani: è necessario fare proposte ai politici, proposte sindacali autonome rispetto a quelle del Consiglio. Troppo facile è limitarsi a criticare le iniziative altrui. Non ritiene eversiva l'iniziativa del Triveneto ma considera la restituzione del sigillo l'unica forma di protesta idonea nel caso di nuovi attacchi politici alla funzione. Il notariato non deve rimanere immobile: come si può parlare di liberalizzazioni quando ancora esistono distretti di pochi notai? Servono alla funzione i protesti? Le cessioni di quote o aziende rientrano tra le competenze notarili socialmente utili? Bisogna chiedere nuove competenze sulla base di una riorganizzazione territoriale del notariato che resta un passaggio fondamentale. Rummo invita il Vice Presidente del Consiglio Nazionale ad evidenziare perchè le proposte del Consiglio non sono siano state pubblicizzate. Setti risponde ricordando che il testo viene rielaborato continuamente. A questo punto, Fiordiliso presenta gli "ospiti": Maurizio D'Errico - Presidente del Consiglio Notarile di Roma, Tommaso Gaeta - Presidente del Consiglio Notarile di Napoli, Gianfranco Re - Presidente del Consiglio Notarile di Torino Gianfranco Re e, per il Consiglio Notarile di Milano, Domenico De Stefano. Ricorda che proporrà due domande ad ognuno degli illustri "ospiti", da subito dichiaratisi felici di intervenire all'assemblea dei delegati, al fine di un utile scambio di opinioni. Prima domanda: Quali ritenete siano le iniziative immediate da adottare per la difesa del notariato? - D'Errico: Roma vive una situazione particolare. E' la città più "vicina" ai politici e si è "attivata" per l'emendamento Lulli, così come ha fatto il C.N.N. Il vero pericolo oggi può arrivare dalla legge finanziaria, bisogna stare attenti. Certo se il notariato si muovesse verso il sociale (una iniziativa in tal senso è stata voluta a Roma), verso la qualità della prestazione, potrebbe meglio organizzare una strategia di difesa. Resta il problema tariffa, che in qualche modo dovrà essere risolto. - De Stefano: Se il notariato è sopravvissuto sino ad oggi una qualche ragione ci dovrà pur essere.

Ma non è possibile continuare a guardare solo dentro di noi: bisogna capire cosa la società ci chiede. Due esempi per rendere più chiaro il discorso sulle "difficoltà relazionali" tra "notai" e "società". Il delicato tema dei protocolli va ben interpretato. Sono nati per giustificare la tariffa, ma adesso sembra che siano l'unico strumento di tutela verso l'esterno. Il disciplinare ha mosso i primi passi sulla base della sensazione che la magistratura non avesse la giusta sensibilità per i "nostri" problemi, ma oggi ha una "natura indefinita". In realtà, deve tutelare gli altri e non noi. La sopravvivenza della categoria è legata alla comprensione delle istanze dei cittadini. Partendo dalla specificità della nostra funzione dobbiamo farci interpreti delle ragioni della collettività. Proprio in quest'ottica si inquadra la proposta lombarda sul progetto per "comprare casa senza rischi": studi notarili aperti - consulenze gratuite per acquistare casa in sicurezza. - Gaeta: Non sono ottimista. Credo che i grandi poteri assicurativi, bancari, industriali vogliano occupare lo spazio delle libere professioni. Il problema è politico e non riguarda solo il notariato. Esisteremo solo se riusciremo a trasmettere all'esterno l'essenza del nostro ruolo, anche nella società dell'apparenza. Il Presidente Piccoli è ben consapevole di tutto ciò e si muove in sintonia con il Consiglio Nazionale nel migliore dei modi. Personalmente condivido anche la proposta di una task force avanzata da Gennaro Fiordiliso. E' un'idea da non accantonare. Anzi! Non possiamo, poi, fare a mano di curatori d'immagine: la deontologia è importante ma devono prima di tutto conoscerci all'esterno. - Re: Non ho le idee chiare. Noto con piacere che il sindacato ha cambiato pelle, è diventato più "istituzionale". Sul quaderno di proposte confesso di non saperne nulla. Forse la strategia scelta dal Consiglio Nazionale è quella di comunicare prima con i politici e poi con la categoria. Ma, come diceva Cavour, le riforme bisogna farle prima che il popolo le chieda. Lasciatemi dire che molte delle ultime scelte di politica del notariato non mi trovano consenziente: la posizione del Consiglio sulla lettura dello statuto; la riforma dell'articolo 47 legge notarile; l'abolizione della tariffa quando la normativa europea andava (e va) nella "nostra" direzione; il ruolo del notaio, quando (prima) abbiamo snobbato l'atteggiamento più commerciale del notariato francese per (poi) utilizzarlo come modello; la debolezza - non denunciata abbastanza - della posizione notarile nella legge sugli immobili da costruire ed in quella sul preliminare.

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I distretti riuniti di Torino e Pinerolo, comunque, hanno già ipotizzato varie iniziative: l'acquisto di una pagine di un importante quotidiano per spegare alla gente il ruolo del notaio; un turno di disponibilità notarile per consulenze gratuite. Seconda domanda: Congresso Nazionale di novembre. Si parlerà di politica del notariato. Quali tematiche affrontereste? - Re: La mia risposta precedente vale anche per la nuova domanda. Aggiungo soltanto che condivido lo spirito dei protocolli, per i quali consiglierei - però - una sorta di Bignami. - Gaeta: E' necessario valutare attentamente i protocolli. A cosa servono? Se hanno valenza esterna, se servono a giustificare la nostra sopravvivenza, se la loro approvazione ha un significato politico, non lo so. In ogni caso, non devono prevedere menzioni; al limite, solo in negativo. Nascono a difesa della qualità e della personalità della prestazione, cavalli di battaglia di Federnotai già 20 anni or sono. Sono diventati, però, regole deontologiche, tant'è che la loro violazione dà luogo all'applicazione dell'articolo 147 legge notarile. Sarebbe interessante interrogarsi, invece, sul limite dell'attività notarile delegabile ed i Consigli potrebbero stabilire i "parametri" da applicare. - De Stefano: Vorrei che al Congresso si toccassero temi che interessino la società. Famiglia e impresa sono i protagonisti, spesso in contrapposizione tra loro, del mercato. Gli interessi possono divergere e lo stesso intervento notarile assume connotazioni differenti se "si stipula per l'una o per l'altra". Una dualità si ritrova anche nell'"interpretazione" dei protocolli, sicuramente da leggere a tutela del "cittadino - impresa" e del "cittadino - famiglia". Un argomento di sicuro interesse è, poi, quello del tetto repertoriale: così come il sindaco di società quotate in borsa non può superare un certo numero di incarichi, per il notaio si potrebbe ipotizzare un limite alla capacità di rogito. Infine, vorrei che al Congresso facessero sentire la loro voce i giovani, coloro che hanno un'aspettativa di vita professionale maggiore. - D'Errico: Comincio con alcune semplici domande: cosa manca al notaio per essere competitivo? I colleghi eletti alle cariche istituzionali sono politicamente capaci? Si è mai pensato ad alleanze strategiche, ad es., con la magistratura, che ha un percorso formativo simile al nostro? C'è ancora spazio nella società attuale per lo studio notarile di piccole dimensioni? Come deve presentarsi all'esterno il notariato? Non è giunto il momento di interrogarsi sui sistemi di accaparramento del lavoro, sulle "mazzette"? E' proprio a queste domande che la platea congressuale dovrebbe rispondere per orientare l'azione politica futura del Consiglio nazionale.

Interviene Paolo Setti per ricordare il carico di lavoro sopportato dal Consiglio nazionale, sempre pronto a reagire agli attacchi esterni, nell'ultimo periodo aumentati in maniera esponenziale. Chiarisce che i protocolli sono frutto di un compromesso, ma servono anche all'esterno per difendere - grazie alla qualità della prestazione - la stessa tariffa. Non vanno visti in funzione deontologico - punitiva: la qualità superiore legittima la tariffa. Se l'economia va in un certo modo, se il mercato è orientato, il mondo delle professioni deve tenerne conto. In rapida successione intervengono d'Argenio (la dialettica tra sindacato e consiglio è uno stimolo insostituibile), Pesiri (è incoraggiante notare la "comunanza" tra associazione ed istituzioni), Germani (i protocolli non possono elevare il livello della prestazione professionale offerta: già oggi le contestazioni sugli atti sono quasi nulle. Il congresso deve avere valenza politica), D'Errico (è necessario aiutare il C.N.N. sotto il profilo politico; siamo come la Fiat, possiamo recuperare), De Stefano (così come è cambiato il mondo, il notariato del futuro sarà diverso. La nostra stella polare è la società), Gaeta (bisogna superare i contrasti interni, non è possibile personalizzare le questioni; dobbiamo riuscire a separare gli aspetti interni da quelli esterni: agli altri non interessano gli "attifici"), Re (sono da condividere le priorità evidenziate). Bidello richiama l'attenzione dei presenti sulla circostanza che nella riunione non sono stati trattati tutti gli argomenti all'ordine del giorno. Chiede che venga fissato un nuovo incontro per completare la discussione. Chiuso alle ore 15,30 con i ringraziamenti di Gennaro Fiordiliso a tutti gli intervenuti.

A cura di Romolo Rummo

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