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UNIVERSITÀ DI MACERATA
DISPENSE PER IL CORSO DI FILOLOGIA ARABA A.A. 2018-2019
Dott. Marco Lauri
Sommario
INTRODUZIONE ............................................................................................................................................ 3
PARTE I: LA POSIZIONE LINGUISTICA DELL'ARABO
Sezione 1: Cenni generali di linguistica storica. Il metodo comparativo ............................................................ 5
Lingue e dialetti ........................................................................................................................................... 8
Linguistica di area e di contatto .................................................................................................................... 9
Sezione 2: Le lingue afroasiatiche .................................................................................................................. 10
Modelli di classificazione ........................................................................................................................... 11
Casi particolari ........................................................................................................................................... 14
L'urheimat afroasiatico e i modelli di diffusione ......................................................................................... 15
Sezione 3: Le lingue semitiche: documentazione, classificazione e caratteri generali. La posizione
dell'arabo. ...................................................................................................................................................... 16
Il concetto di “semitico”: qualche nota storica ............................................................................................ 17
Caratteri generali ........................................................................................................................................ 19
Modelli di classificazione delle lingue semitiche ........................................................................................ 20
Alberi e onde .............................................................................................................................................. 34
La posizione dell'arabo nel semitico ........................................................................................................... 35
Sezione 4: L'arabo .......................................................................................................................................... 35
L’arabo pre-islamico .................................................................................................................................. 35
La diffusione dell’arabo e le varietà neo-arabe parlate ................................................................................ 38
PARTE II: IL PENSIERO LINGUISTICO ARABO
Sezione 1: Formazione storica della tradizione grammaticale araba ................................................................ 41
Lessicografia .............................................................................................................................................. 43
Sezione 2: Principi e meccanismi fondamentali .............................................................................................. 43
Sezione 3: Grammatica e logica ..................................................................................................................... 46
Sezione 4: Ibn Jinni, Ibn Mada, al-Gharnati .................................................................................................... 47
PARTE III: SCRITTURA, PALEOGRAFIA E CALLIGRAFIA
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Sezione 1: Evoluzione e tipologia della scrittura ............................................................................................. 50
Sezione 2: L’evoluzione dell’alfabeto............................................................................................................. 52
Sezione 3: Cenni di calligrafia e paleografia arabe.......................................................................................... 62
PARTE IV: LINGUAGGIO E NAZIONALISMO ......................................................................................... 72
Sezione 1: Nazionalismo e linguaggio ............................................................................................................ 72
Sezione 2: Lo sviluppo del nazionalismo arabo .............................................................................................. 73
Sezione 3: Lingua araba e nazionalismo ......................................................................................................... 75
Satiʼ al-Ḥuṣrī .............................................................................................................................................. 75
Zakī al-Arsūzī ............................................................................................................................................ 75
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INTRODUZIONE
Finalità del corso
Scopo primario del corso è quello di offrire una panoramica del linguaggio nelle società arabe, e
della storia intellettuale delle società arabe attraverso il linguaggio.
Argomenti principali del corso
Parte 1: la posizione linguistica dell'arabo
Che cos’è la filologia. Cenni generali di linguistica storica. Il metodo comparativo. Le famiglie
linguistiche.
Cenni di storia degli studi. La tavola dei popoli biblica. L'uso politico e razziale del “semitico”.
Le lingue afro-asiatiche: genealogia e classificazione.
Distribuzione, documentazione e classificazione delle lingue semitiche.
Le lingue semitiche nord-occidentali
Le lingue semitiche dell’Etiopia
La posizione dell'arabo nelle lingue semitiche.
Il panorama linguistico dell'Arabia preislamica.
La più antica documentazione dell'arabo.
L'espansione dell'arabo come lingua di cultura e la frammentazione delle lingue parlate.
I modelli di formazione del neo-arabo. La diglossia.
Parte 2: il pensiero linguistico arabo
Il pensiero linguistico arabo: caratteri generali e basi concettuali. Al-Khalīl e Sībawayh.
Le “scuole” di Baṣra e di Kūfa.
Strutture soggiacenti e teoria del governo nella grammatica araba.
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La riflessione speculativa sul linguaggio nel suo contesto intellettuale. (Ibn Ğinnī, Ibn Maḍā‘,
Abū Ḥayyān al-Ġarnāṭī)
Grammatica e filosofia. Grammatica e logica.
Parte 3: scrittura, paleografia e calligrafia
Funzioni cognitive della scrittura. Tipologie di scrittura in ottica comparativa.
Evoluzione della scrittura nel Vicino Oriente antico; evoluzione delle scritture antiche
dell'Arabia. Origine dell'alfabeto.
Scrittura e oralità. Il libro e la trasmissione del sapere nel Medioevo islamico.
L'evoluzione della scrittura araba nei primi secoli. Cenni di paleografia e calligrafia arabe del
Medioevo e in epoca ottomana.
Parte 4: lingua e identità
Lingua, identità e nazionalismo. Problemi generali.
La formazione del nazionalismo arabo nel suo contesto storico.
Il ruolo politico della lingua araba negli Stati moderni.
Sāṭi‘ al-Ḥuṣrī e Zakī al-Arsūzī.
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PARTE I: LA POSIZIONE LINGUISTICA DELL'ARABO
Sezione 1: Cenni generali di linguistica storica. Il metodo comparativo
Filologia e linguistica.
Filologia significa, etimologicamente, “amore per il lógos” (“discorso, parola, conoscenza
discorsiva”). Il termine è impiegato già in greco classico, e in latino in epoca romana, nel senso
generale di “varia e molteplice dottrina” (Enciclopedia Italiana Treccani, s.v.). A partire dal
Rinascimento si comincia a usare questo termine per indicare una disciplina più o meno
chiaramente definita: lo studio e la ricostruzione dei testi e delle letterature del passato, in
particolare di quelli greci e latini trasmessi dall'antichità, primariamente attraverso l'analisi
comparativa dei manoscritti. Questo implicava lo studio del linguaggio scritto nel suo sviluppo
storico, l'analisi etimologica delle singole parole, lo studio, più in generale, del passato attraverso il
linguaggio. Nel corso dell'Età Moderna, il campo di azione dello studio filologico si estende a testi
in lingue europee volgari e alle lingue “orientali” - prima di tutto quelle dell'Asia Occidentale e del
Nord Africa come l'arabo, l'ebraico, il copto e le diverse forme di aramaico, all'inizio con
motivazioni prevalentemente religiose.
I metodi filologici moderni implicano un approccio storico-critico ai testi, che ne esamina la forma
linguistica e quando possibile la modalità di trasmissione scritta. Negli ultimi decenni del
Settecento, lo studio filologico acquista nuove dimensioni in collegamento alla nascita della
linguistica storica comparata, da un lato, e della nascente, quasi rivoluzionaria convinzione che sia
possibile ottenere un sapere di carattere generale dalla conoscenza della storia, dall'altro.
La filologia si pone dunque, nell’Ottocento, con l’ambizione di rappresentare una disciplina
scientifica dello spirito umano, specialmente nelle correnti di ispirazione storicistica formatesi in
particolare in Germania (Herder, Schelling). La filologia rivendica centralità come elemento
fondante del sapere storico e base epistemologica di una conoscenza che è vista, appunto, come
radicata nella storia, secondo una visione ben rappresentata dal sistema filosofico di Hegel.
Bisogna però sottolineare che, anche in questo clima, ogni genere di indagine filologica ha pur
sempre carattere particolare: si studiano determinati testi o gruppi di testi, sistemi linguistici o
gruppi di essi. Nel contesto intellettuale ottocentesco il discorso filologico si connette molto spesso
alle aspirazioni nazionali dei popoli europei, allora in pieno sviluppo.
La linguistica scientifica moderna si forma in quest'epoca, in stretta relazione con la filologia.
Linguistica o glottologia è lo studio del fenomeno linguistico in quanto tale. A partire dalla
rivoluzione intellettuale storicista dei primi anni dell'Ottocento, questa si può distinguere in due
ambiti principali. La linguistica sincronica analizza la lingua nel suo funzionamento e nelle sue
articolazioni strutturali interne, continuando all'incirca, con modalità sempre più rigorose e spesso
più astratte, la tradizione di studio della grammatica. La linguistica storica o diacronica è, almeno
come studio scientifico e sistematico, una innovazione del periodo tra gli ultimi anni del Settecento
e i primi dell'Ottocento. Essa può essere considerata una estensione sistematica della tradizione di
studi filologici, e in alcuni casi può essere considerata, almeno ai suoi inizi, indistinguibile dalla
filologia, se non addirittura un suo strumento; così ad esempio per Friedrich Max Müller (1823-
1900), uno dei padri degli studi sanscriti, che vedeva la filologia come la “scienza naturale” del
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linguaggio. Lo scopo della linguistica storica è l'analisi del linguaggio nel suo mutamento temporale
e la ricostruzione dei rapporti storici tra le varie lingue.
In linea generale, anche se con qualche forzatura, si potrebbe dire che la filologia si concentra sullo
studio di testi, e in particolare di testi letterari, mentre la linguistica, muovendosi solitamente su un
livello più astratto, analizza (in termini diacronici o sincronici) il linguaggio umano come sistema
in quanto tale. Dato che le attestazioni del linguaggio sono, in senso lato, appunto dei testi, questi
due gruppi di discipline risultano comunque strettamente collegati. D'altra parte, mentre esiste una
linguistica generale, che si preoccupa dei principi e dei metodi del linguaggio in sé, è molto raro
sentir parlare di “filologia generale”, se non in termini di metodi. La filologia è pressoché sempre
legata a uno o più corpi testuali definiti, e ai relativi ambiti culturali.
La linguistica storica
La nascita della linguistica storica si può far risalire al lavoro di William Jones (1786), di Rasmus
Rask (1814), e di Franz Bopp (1816) sulla comparazione, soprattutto morfologica e lessicale, tra le
antiche lingue europee (greco, latino, gotico, ecc.), il persiano (avestico e pahlavi) e il sanscrito. La
definizione della parentela linguistica indeuropea, coincidendo con la fase di dominio globale
dell'Europa e precedendo di poco lo sviluppo dell'antropologia razziale, fu accolta con grandissimo
interesse ed entusiasmo nei circoli intellettuali europei (si veda la sezione 3).
La comparazione linguistica era vista come una chiave per ricostruire la storia oltre i limiti di spazio
e di tempo della documentazione scritta disponibile. Già si sapeva che le lingue si modificano nel
corso del tempo, ma ora questo mutamento poteva essere indagato scientificamente, specialmente
attraverso il metodo comparativo. Il metodo comparativo consiste nel confronto sistematico di
forme linguistiche storicamente attestate per verificarne la relazione e ricostruire le eventuali proto-
forme da cui deriverebbero (ma che vanno comunque intese come ipotetiche). Centrale è
l'individuazione e l'applicazione di leggi fonetiche regolari. In questa forma, il metodo si deve
specialmente ai grandi indeuropeisti della scuola filologica tedesca nella seconda metà
dell'Ottocento: dapprima Grimm, Schleicher e i neogrammatici.
Schleicher in particolare elaborò un modello genealogico di evoluzione linguistica per divergenza
da una “lingua madre” verso “lingue figlie” (Stammbaumtheorie).
Pochi anni dopo Padre Joseph Schmidt propose il modello alternativo della Wellentheorie, della
diffusione cioè di caratteristiche e forme linguistiche per “onde” da uno o più centri innovatori,
anche attraverso aree linguistiche diverse.
Questi due modelli sono stati spesso visti come competitivi, ma vanno più correttamente pensati
come complementari ed entrambi utili a spiegare storicamente i fatti linguistici attestati. Questa
complementarità è particolarmente pertinente nello studio dello spazio linguistico semitico, come si
vedrà.
Le famiglie linguistiche
La linguistica storica, individuando forme ancestrali, consente di costruire modelli genealogici di
relazioni tra forme linguistiche simili. Alcune forme linguistiche sono così raggruppate in famiglie
in cui determinate forme morfologiche e lessicali si trasformano in altre con il tempo.
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In generale, uno dei modi più sicuri e generalmente accettati per stabilire la parentela genetica tra le
lingue è stata storicamente definita sulla base di corrispondenze paradigmatiche regolari nella
morfologia. Ad esempio, la base dello studio di Bopp sulla parentela genetica dell'indeuropeo è
fornita da corrispondenze nella coniugazione verbale greca, latina e sanscrita, in cui si potevano
mostrare corrispondenze regolari tra le desinenze delle diverse forme nelle varie lingue. Uno dei più
affidabili indicatori dell'esistenza di una famiglia linguistica è la presenza di una serie di
innovazioni condivise rispetto alle proto-forme, quando sia possibile individuarle. Nelle parole
della semitista Na'ama Pat-El:
“Le relazioni fondamentali tra lingue sono stabilite attraverso corrispondenze regolari di suoni
(fonemi), ma, per valutare l'esatta ramificazione di una famiglia linguistica, il principio più
importante è quello delle innovazioni condivise. Le innovazioni condivise sono tratti che emergono
in certe lingue e non sono, di conseguenza, parte del repertorio di tratti della lingua ancestrale
comune (o di quelli di altre lingue discendenti della stessa lingua ancestrale). Se due lingue
condividono una caratteristica innovativa, questa caratteristica è indicazione della loro vicinanza
genetica, ovvero entrambe condividono un antenato comune in cui ha avuto luogo l'innovazione.”
(The basic relationships between languages are established through regular sound correspondences, but in order to
evaluate the exact branching of a family the most important principle is shared innovations. Shared innovations are
traits that arise in certain languages and are not, therefore, part of the repertoire of traits of the common ancestral
language (or, consequently, those of other languages descending from the same ancestral language). If two languages
share an innovative feature, that feature is indicative of their genetic closeness, i.e., they both share an ancestor in
which the innovation occurred.)” (Hackett e Pat-El 2010, traduzione mia).
Di grande importanza sono anche le corrispondenze lessicali a partire dalle quali è possibile
mostrare regolarità fonetiche nella corrispondenza tra diverse lingue. Si tende a considerare più
significative le corrispondenze nel lessico di base, che sono generalmente meno soggette a prestiti;
tuttavia, le sole corrispondenze lessicali non vanno normalmente considerate indicative di parentela
linguistica, in quanto il lessico è la componente della lingua più comunemente soggetta a
cambiamenti, specie in caso di contatto linguistico. Questo è particolarmente rilevante nei casi di
contatto continuo tra lingue geneticamente correlate e geograficamente prossime, come sono state
molte lingue semitiche per gran parte della loro storia. Esistono comunque diverse strategie per
distinguere il prestito linguistico dagli elementi ereditati (Bowern 2011).
Con alcuni antecedenti, l'individuazione di alcune delle principali famiglie genealogiche di lingue
del Vecchio Mondo è avvenuta nel corso del diciannovesimo secolo. Il lavoro comparativo
sull'indeuropeo è stato particolarmente precoce e fecondo, grazie alla ricchezza, disponibilità,
varietà e relativa antichità della documentazione scritta. La possibilità di usare per la comparazione
queste varietà più antiche della lingua agevola il lavoro di ricostruzione. Le corrispondenze
paradigmatiche tra latino e sanscrito, ad esempio, sono quasi completamente oscurate nelle moderne
lingue “figlie” come il francese e la hindi, la cui parentela, in assenza di documentazione scritta,
sarebbe assai più difficile da documentare.
Da tempo esiste in linguistica storica una divisione approssimativa tra studiosi lumpers e splitters:
ricercatori che tendono rispettivamente a favorire raggruppamenti ampi, con ricostruzioni sempre
più ipotetiche che si spingono indietro nel tempo, o quelli che accettano come validi solo i
raggruppamenti genetici meglio fondati e più piccoli, reagendo con scetticismo a comparazioni ad
ampio raggio.
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Entrambi gli atteggiamenti possono essere considerati utili, forse necessari alla ricerca linguistica
storica. Tra i lumpers si possono segnalare quelli legati alla scuola di Mosca, particolarmente
impegnata nelle comparazioni linguistiche in profondità e nella ricostruzione di proto-forme molto
antiche. Tra i suoi principali rappresentanti si ricordano il grande comparatista Igor' D'jakonov
(Diakonoff) e Sergej Starostin.
Tra le grandi famiglie linguistiche generalmente accettate si segnalano quella indeuropea, quella
sino-tibetana, comprendente il cinese, il tibetano, il birmano e molte altre lingue dell'Asia
Orientale, quella austronesiana, che abbraccia la grande maggioranza delle lingue parlate in
Indonesia, Polinesia e Madagascar. La grande maggioranza delle lingue dell'Africa a sud del Sahara
sono considerate parte della grande famiglia Niger-Congo (o Niger-Kordofan), che è stata
riconosciuta alla metà del Ventesimo secolo; la sua precisa composizione è però ancora in parte
incerta, e diverse lingue africane potrebbero esibire caratteristiche comuni con quelle della famiglia
Niger-Congo a causa di prolungato contatto anziché di derivazione genetica.
Altre famiglie linguistiche sono state considerate valide per molto tempo ma sono attualmente
discusse: è il caso ad esempio della famiglia altaica, che comprenderebbe il turco, il mongolo e
forse il coreano ed il giapponese, la cui esistenza è al centro di una importante controversia.
Pochissimi oggi accettano la più ampia famiglia uralo-altaica, che raggruppava le lingue altaiche
con quelle “uraliche” dell’Europa settentrionale (finlandese, ungherese, ecc…) su base
prevalentemente di somiglianza tipologica.
La distribuzione storica e attuale delle relazioni genealogiche tra le lingue può essere un importante
indicatore di fenomeni storici, in particolare in relazione al movimento e alla diffusione di gruppi
umani. Non vi è infatti diffusione linguistica senza contatto; d'altra parte, la sostituzione di una
lingua non implica necessariamente una sostituzione di popolazione (anche se questo può avvenire,
come nel caso dell'attuale predominio di lingue indeuropee in Nord America).
Lingue e dialetti
“Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”. Questa facezia è popolare tra i linguisti,
anche se inesatta. Il linguaggio umano presenta una immensa ricchezza e variabilità di forme, che
spesso si presentano in un continuum di variazioni, solitamente geografiche o sociali. Non esiste
una definizione univoca e condivisa di cosa costituisca una “lingua” in opposizione a un “dialetto”.
In linea di massima i linguisti tendono a fare riferimento alla comprensibilità reciproca tra due
sistemi linguistici come criterio approssimativo, assieme a caratteristiche strutturali (affinità
grammaticali, cambiamenti fonetici, ecc…). È inoltre rilevante l’autocoscienza linguistica delle
comunità parlanti. Quest’ultimo fattore è particolarmente problematico, in quanto spesso riflette
fattori normativi (storici, sociali, di prestigio, politici, etc.) non direttamente legati alla struttura
interna del sistema linguistico.
Nell’uso comune, comunque, “l’esercito e la marina” e più ancora l’esistenza di una tradizione
scritta (in particolare una tradizione scritta normativa e codificata) sono spesso considerati elementi
fondamentali per definire una lingua. L’epoca moderna è segnata dal nazionalismo, in cui è spesso
importante l’associazione tra lingua e Stato (si veda la parte 4). Le forme linguistiche che non
godono del sostegno ufficiale dello Stato sono così relegate nella coscienza a dialetti
indipendentemente dai propri caratteri linguistici veri e propri (è questo ad esempio, storicamente, il
caso della situazione del provenzale e del bretone in Francia, nessuna delle quali può essere
classificata come una variante dialettale del francese sul piano strettamente linguistico).
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In questa sede si parlerà normalmente di “varietà linguistiche” e si considereranno in linea di
massima “lingue” quelle che presentano sufficienti caratteri di differenziazione interna (inclusa,
quando documentata, l’eventuale autocoscienza delle comunità parlanti) senza riguardo per i fattori
politici ed ideologici o per l’esistenza di una tradizione scritta. È inevitabile che questo uso implichi
un certo grado di approssimazione.
Tipologia linguistica
Non tutte le affinità tra lingue sono spiegabili in termini genealogici, specialmente nel caso delle
caratteristiche sintattiche. Fin dal tardo Settecento, sono state tentate classificazioni delle lingue per
tipi che non implicano, in linea di massima, una parentela. Tradizionalmente, si sono indicate
quattro grandi categorie di tipi linguistici, su base morfosintattica: le lingue flessive, agglutinanti,
isolanti, e incorporanti (o polisintetiche). Un'altra categoria tipologica generale è quella delle
lingue sintetiche o analitiche. Queste distinzioni riguardano il modo in cui le parole incorporano al
loro interno informazioni sui propri rapporti nella frase. L'opera di Edward Sapir negli anni '20 e '30
ha offerto una revisione e un raffinamento delle categorie tipologiche, anche se quelle elencate qui
sono ancora occasionalmente utilizzate a fini didattici.
Contrariamente a quanto si è creduto in passato, i fatti tipologici non hanno di per sé valore ai fini
della classificazione linguistica, anche se possono risultare utili in questo senso laddove associati ad
altre indicazioni.
Linguistica di area e di contatto
Il contatto tra lingue è un fenomeno universale nell'evoluzione linguistica, ed è ritenuto un fattore
importante nel cambiamento linguistico. Il lessico è l'elemento di una lingua più comunemente
soggetto a fenomeni di contatto (prestiti lessicali). Tuttavia, non esiste parte di un sistema
linguistico che non possa essere trasferita ad un altro in caso di contatto.
Contatti linguistici prolungati possono portare a importanti convergenze tra le caratteristiche
(specialmente fonologiche e sintattiche oltre che lessicali) di lingue geograficamente vicine ma non
strettamente imparentate dal punto di vista genealogico. Questa situazione è stata documentata per
molto tempo in alcune aree specifiche come la penisola balcanica, l'India, e l'Australia. Si parla in
questi casi di “leghe linguistiche” o Sprachbund. Si è sostenuto autorevolmente, ad esempio, che le
lingue dell'Europa centrale ed occidentale condividano alcune caratteristiche sintattiche specifiche
che permettono di parlare di un'area linguistica europea, indipendentemente dall'appartenenza ai
rami germanico, italico (neolatino) o slavo della grande famiglia indoeuropea o, nel caso
dell'ungherese, a una famiglia linguistica non indeuropea, quella uralica.
Il contatto tra lingue diverse nella stessa area può oscurare le relazioni genealogiche e far
considerare lingue geograficamente prossime più strettamente imparentate di quanto non fossero in
origine.
In alcuni casi, un contatto particolarmente intenso e asimmetrico può portare a fenomeni di
pidginizzazione e creolizzazione. Questi fenomeni, particolarmente documentati in contesti
coloniali nei Caraibi e in Oceania, sono stati a lungo ritenuti casi estremi ed eccezionali di
mutamento linguistico. Più di recente, tuttavia, alcuni linguisti hanno osservato che fenomeni del
genere siano molto più comuni di quel che si pensasse, inducendo un certo scetticismo verso alcuni
raggruppamenti genealogici.
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Un pidgin è una interlingua, una forma semplificata di una o più varietà linguistiche, usata per la
comunicazione di base tra gruppi linguisticamente diversi; molti pidgin sono stati usati come lingue
commerciali, anche se il fenomeno delle “lingue franche” di commercio non è perfettamente
identico a quello dei pidgin.
Un creolo è una forma linguistica “ridotta” e semplificata che si stabilisce come madrelingua di
una comunità (normalmente traendo origine da un pidgin). Un caso tipico di creolizzazione è quello
in cui una lingua dominante viene (imperfettamente) acquisita da una popolazione linguisticamente
diversa in poco tempo e in condizioni di asimmetria gerarchica (ad esempio nel caso delle
piantagioni dei Caraibi, dove la popolazione schiava acquisì imperfettamente la lingua dei padroni).
In seguito, con la trasmissione alle generazioni successive, si ha una ristrutturazione degli
elementi linguistici d'origine in una nuova forma linguistica propria dei gruppi dominati. Il lessico è
preso in gran parte dalla lingua dominante, ma le forme grammaticali sono ricreate in modo
originale. Della lingua sorgente si perde di solito gran parte della complessità morfologica; alcune
forme tipiche che vengono mantenute sono i verbi all'imperativo. Nel caso in seguito diventi
disponibile un migliore accesso alla lingua-sorgente, si può avere una decreolizzazione, ovvero
l'apparizione di caratteristiche grammaticali precedentemente perdute, più vicine a quelle delle
forme standard della lingua “d’origine”.
Sezione 2: Le lingue afroasiatiche
L’afroasiatico
L'arabo appartiene al ramo semitico della grande famiglia linguistica afroasiatica, (Afro-asiatic o
Afrasian in inglese; la seconda forma è preferita nella tradizione accademica russa che fa
riferimento alla Scuola di Mosca) in passato nota anche come camito-semitica.
L'affinità piuttosto stretta tra le lingue semitiche è stata riconosciuta da molto tempo (si veda la
sezione 3). La relazione tra le lingue afroasiatiche è più complessa, ma già nel Medioevo alcuni
grammatici avevano individuato rapporti tra lingue semitiche e berbere, e a partire dalla metà
dell'Ottocento, la parentela “camito-semitica” aveva un largo consenso in linguistica storica. Già il
nome mette in evidenza la posizione particolare attribuita, all'interno di questa famiglia linguistica,
al ramo semitico; una situazione dovuta in parte a preconcetti degli studiosi europei dell'epoca, in
parte alla natura della documentazione, assai più variegata, antica e ricca per il semitico che per
qualsiasi altra branca dell'afro-asiatico, o in effetti, di qualsiasi altra famiglia linguistica conosciuta:
l'unico possibile termine di paragone in questo senso, l'indeuropeo, non dispone di documentazione
altrettanto antica nel tempo; altra documentazione molto antica di famiglie linguistiche come il
sumerico, l'egizio e il sino-tibetano (rappresentato dal cinese arcaico delle iscrizioni oracolari di
epoca Shang) è limitata sostanzialmente ad una sola lingua e non consente perciò indagine
comparativa. Si noti che la famiglia afroasiatica nel suo insieme, associando la documentazione
scritta mesopotamica ed antico-egizia, offre alla comparazione una profondità storica ancora
maggiore e priva di paralleli conosciuti altrove. La posizione privilegiata del semitico, ipotizzata
forse più sulla base di pregiudizi razziali e geografici che sulla realtà linguistica (si veda sezione 3),
è stata in seguito messa in discussione: si accetta oggi che non esista nessun gruppo linguistico
“camitico” con caratteri condivisi dai rami africani della famiglia in opposizione al semitico.
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Tuttavia, solo verso la metà del Novecento il termine “afro-asiatico” o “afroasatico” entra in uso,
grazie soprattutto al lavoro del grande e controverso comparatista Joseph Greenberg.
Modelli di classificazione
La famiglia afroasiatica mostra una considerevole varietà interna, che indica una diversificazione
precoce, stimata variamente dagli studiosi ma riconducibile con buona probabilità alle prime fasi
del Neolitico (ca. 12.000-9.000 anni a.C.); si considera di solito essere la più antica tra le grandi
famiglie linguistiche generalmente accettate.
Esistono sei branche frequentemente accettate dell'afroasiatico:
1) Semitico: (si veda sotto).
2) Egiziano: la forma linguistica attestata in diverse fasi storiche dalla documentazione scritta
della civiltà faraonica e dell'Egitto ellenistico e romano. Si possono distinguere sei fasi di
sviluppo, corrispondenti a “lingue” diverse più o meno in successione:
1. Egizio arcaico è la lingua, piuttosto mal documentata, delle più antiche iscrizioni
geroglifiche, trovate soprattutto in contesti funerari, risalenti all'ultimo periodo
predinastico e alle prime due dinastie (attorno al 3000 a.C.)
2. Antico Egizio (Old Egyptian) è la lingua dell'Antico Regno, documentata in modo
abbastanza completo dai testi delle Piramidi e dai primi papiri nel terzo millennio a.C.
3. Medio Egizio è la lingua classica dell'Egitto faraonico. Si tratta della forma letteraria
della lingua probabilmente parlata nel Primo Periodo Intermedio (c.a. 2000 a.C.) e
codificata nel Medio Regno (c.a. 1900-1700 a.C.). Rimane in uso scritto quasi esclusivo
fino al regno del faraone Akhenaten attorno al 1300 a.C., e continuerà ad essere
impiegata nelle iscrizioni geroglifiche per tutta la successiva storia della civiltà
faraonica, come forma linguistica di prestigio. Si trova attestata da un ricchissimo corpus
di iscrizioni geroglifiche e di papiri, anche di contenuto letterario, in scrittura geroglifica
corsiva o ieratica.
4. Tardo Egizio è la lingua parlata nel Nuovo Regno. Emerge alla documentazione scritta,
su iscrizioni e papiri, in conseguenza della rivoluzione religiosa promossa dal faraone
Akhenaten. Presenta differenze importanti dal Medio e dall'Antico egizio, sia nella
pronuncia che nella grammatica (presenza dell'articolo determinativo). La
documentazione, anche letteraria, è molto ricca (ad esempio il Grande Inno ad Aten).
5. Demotico la lingua usata in Egitto in epoca tarda. Non va confusa con la forma di
scrittura dallo stesso nome, che è una forma altamente abbreviata e perlopiù logografica
derivata dallo ieratico usata per scrivere documenti su papiro. Tuttavia, la scrittura e la
forma linguistica demotiche appaiono più o meno contemporaneamente a partire dalla
XXVI dinastia (c.a. 650 a.C.) e restano in uso in epoca persiana, ellenistica e romana. Le
ultime documentazioni risalgono al V secolo d.C.
6. Copto è la forma finale dell'egiziano, che esprime la cultura scritta dell'Egitto cristiano.
A differenza di tutte le varietà precedenti, è documentato in una scrittura alfabetica, che
utilizza un alfabeto greco a cui sono aggiunti alcuni segni derivati, sembra, da quelli
della scrittura demotica. La documentazione è molto ricca, in particolare in campo
religioso. Il copto è documentato in sei principali varietà dialettali che presentano
variazioni fonologiche e grammaticali, e risente di una forte influenza linguistica del
greco. Attestato a partire dal III-IV secolo d.C., come lingua parlata entra in rapido
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declino tra nono e decimo secolo a favore dell'arabo. Rimane nell'uso parlato tra i le
comunità cristiane dell’Egitto meridionale probabilmente fino al XIV o forse al XVII
secolo. Tuttora è in uso come lingua liturgica e culturale della chiesa copta d'Egitto.
3) Le lingue libico-berbere parlate nell'Africa del Nord ad ovest della valle del Nilo.
Nell'antichità sono documentate da un grande numero di brevi iscrizioni dette iscrizioni
libiche, di epoca tardo-cartaginese e romana, in alfabeto fenicio modificato (punico) o in
alfabeto latino a partire dal III secolo a.C. Alcuni testi in lingue berbere scritte con l’alfabeto
arabo sopravvivono dal periodo medievale. Le diverse forme moderne sono diffuse in aree
sparse attraverso tutto il Nordafrica ad ovest del Nilo e gran parte del Sahara centrale e
occidentale, particolarmente in Algeria e Marocco, e sono spesso indicate collettivamente
come Tamazight. Anche se strettamente imparentate tra loro, le diverse varietà non sono
mutualmente comprensibili. Si fa uso per scriverle a volte dell'alfabeto latino, altre volte di
quello arabo, o, più spesso, di diversi adattamenti moderni delle Tifinagh, un alfabeto
consonantico tradizionale, rimasto in uso sporadico e soprattutto decorativo in epoca
islamica, che sembra derivato dal fenicio e forse continua quello delle iscrizioni libiche.
Quasi certamente apparteneva al gruppo libico-berbero la lingua estinta parlata dai
Guanchos, la popolazione nativa delle isole Canarie prima della conquista spagnola alla fine
del quindicesimo secolo, di cui sembra esistere una scarsa documentazione in iscrizioni di
epoca punica e romana di non sicura decifrazione.
4) Le lingue chadiche, parlate in una vasta fascia di territorio nel Sahel centrale a sud del
Sahara, attorno al lago Chad e nelle savane tra Nigeria e Niger. L'appartenenza delle lingue
chadiche all'afroasiatico è oggi generalmente accettata ma rimase a lungo controversa. La
più importante tra queste lingue è lo Hausa (oltre 30 milioni di parlanti) che è usato come
lingua franca in una vasta regione del Sahel comprendente il Niger e quasi tutta la metà
settentrionale della Nigeria, ed è uno dei principali veicoli della cultura islamica nella
regione. Le lingue chadiche si dividono in quattro sottogruppi principali:
1. Chadico occidentale, comprendente lo Hausa. Copre una vasta area centrata sulla
Nigeria settentrionale e il Niger centrale.
2. Chadico centrale o Biu-Mandara, un insieme di numerose lingue prive di tradizione
scritta parlate tra il nord-est della Nigeria, il Chad e il Camerun settentrionale.
3. Chadico orientale, anch'esso articolato in numerose lingue non scritte, diffuse nelle
savane centrali del Chad.
4. Masa, un piccolo gruppo di lingue strettamente imparentate diffuse tra il sudovest del
Chad e l'estremo nord del Camerun.
5) Le lingue cuscitiche, parlate soprattutto sulle coste africane del Mar Rosso e in gran parte
del Corno d'Africa: tra esse vanno ricordate l'Oromo, un gruppo di varietà linguistiche molto
diffuso in Etiopia, e il somalo. Il cuscitico prende il nome da Kush, nome antico della Nubia,
all'incirca l'odierno Sudan ma in passato riferito a volte anche all'Etiopia (“Etiopia” era usato
in greco antico per entrambe le regioni). Si noti che non sono attestate con certezza lingue
cuscitiche nella Nubia storica. Si tratta di una famiglia linguistica molto variegata. È
complessivamente accettata una suddivisione in tre o quattro sottogruppi principali, ma
alcuni, negando l'unità del cuscitico, hanno proposto di ritenere questi sottogruppi
direttamente come divisioni dell'afro-asiatico. I quattro sottogruppi sono:
13
1. Cuscitico settentrionale: Beja o Beḍawye, un gruppo di varietà parlato nella regione
desertica tra la valle del Nilo e il Mar Rosso, tra l'estremo sud-est dell'Egitto e il
nordovest dell'Eritrea. Non esiste una tradizione scritta se non in tempi recenti.
2. Cuscitico centrale: è rappresentato dalle lingue Agaw, parlate in varie isole linguistiche
all'interno dello spazio linguistico etio-semitico nell'altipiano dell'Etiopia settentrionale e
dell'Eritrea. Le principali sono il Bilin parlato in Eritrea, l’affine Xamtanga, il Qiment,
e lo Awngi. Si ritiene rappresentino quanto resta del substrato cuscitico delle lingue
semitiche dell'Etiopia centro-settentrionale. Esiste una letteratura moderna, soprattutto in
Bilin. Parte dell’antica comunità ebraica d’Etiopia, i Beta Israel, parlava fino a tempi
recentissimi varietà affini al Qiment, attualmente in fortissimo declino, di cui resta anche
una documentazione in manoscritti medievali. Tutte queste lingue sono solitamente
scritte con adattamenti dell’alfasillabario etiopico, tranne il Bilin, che ha adottato
l’alfabeto latino di recente.
3. Cuscitico orientale: occupa una vasta parte del Corno d'Africa a sud e a est
dell'etiosemitico, e include una ampia varietà linguistica. Si suddivide a sua volta in:
cuscitico orientale delle pianure, rappresentato ad esempio dalle varietà Oromo, dallo
Afar e dal Saho (coste meridionali del Mar Rosso tra Etiopia ed Eritrea), e dal somalo;
e cuscitico orientale dell'altopiano, rappresentato da numerose lingue locali di cui le
più importanti sono le lingue Sidama. Nessuna di queste lingue presenta una
significativa tradizione scritta prima della fine del diciottesimo secolo, ma attualmente il
somalo e l'oromo possiedono ricche letterature e sono standardizzate come lingue
ufficiali. Il somalo, in passato scritto di solito con adattamenti dei caratteri arabi,
attualmente utilizza l’alfabeto latino, mentre l’oromo impiega l’alfasillabario etiopico.
Inoltre, nel Ventesimo secolo ci sono stati tentativi di ideare un alfabeto specifico per il
somalo, uno dei quali per qualche anno ha avuto carattere ufficiale.
4. Cuscitico meridionale: diffuso in alcune isole linguistiche in Kenya e Tanzania,
presenta alcune affinità con cuscitico orientale, assieme al quale è a volte classificato. È
fortemente influenzato dalla vicinanza con l'ambiente linguistico Bantu (Niger-Congo)
in cui è immerso. La lingua più importante è l'Iraqw. Manca una tradizione scritta.
6) Le lingue omotiche, diffuse in una regione relativamente piccola (si stima circa un milione
di parlanti in totale) nel Sud-ovest dell'Etiopia, attorno alla valle del fiume Omo. Sono
usualmente suddivise in omotico settentrionale e omotico meridionale.
La posizione dell'omotico all'interno della famiglia afro-asiatica è più controversa di quella
degli altri gruppi, anche a causa della difficoltà di documentazione di queste lingue, alcune
delle quali sono estinte o minacciate di scomparsa. L'omotico è stato considerato
inizialmente una sotto-branca di cuscitico (il “cuscitico occidentale”); in seguito è stato
suggerito da alcuni che esso non costituisca una branca unitaria, ma che omotico
settentrionale e omotico meridionale siano gruppi indipendenti, con relazioni genealogiche
distinte; altri infine (Theil 2003) propongono di vedere la famiglia o le famiglie omotiche
come isolate e non appartenenti all'afroasiatico fino a prova del contrario.
L'esatta relazione dei rami principali dell'afro-asiatico tra di loro non è ancora definitivamente
compresa. Molte delle proposte attualmente diffuse postulano un “nord-afro-asiatico” o “eritreo”
che esclude l'omotico e, in molti autori il cuscitico. Sembra che una relazione più stretta esista tra
libico-berbero e chadico, e tra semitico, libico-berbero ed egiziano.
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Casi particolari
Alcune lingue afroasiatiche pongono problemi specifici e non rientrano facilmente nello schema di
classificazione delineato sopra: si accennerà qui ai casi del Dahalo, dell'Ongota e della lingua delle
iscrizioni meroitiche.
Il Dahalo è classificato come una lingua cuscitica, probabilmente della branca cuscitica orientale (o
meridionale secondo altri), parlata da una piccola comunità di cacciatori-raccoglitori nel nord-est
del Kenya. Essa presenta caratteristiche particolari: in particolare, in campo fonologico, è una delle
poche lingue a presentare i “clicks”, dei suoni prodotti attraverso uno movimento degli organi vocali
che fa entrare aria nei polmoni, come uno schiocco della lingua. La grande maggioranza delle
lingue del mondo dispone di meccanismi sonori basati sull'aria che esce dai polmoni (o a volte dalla
glottide). I clicks sono tipici di alcune lingue dei gruppi tradizionalmente classificati nella famiglia
Khoi-san (la cui unità genetica oggi non è solitamente riconosciuta), attualmente diffuse nelle aree
più aride dell'Africa meridionale, ma presenti in isole linguistiche (Sandawe) nell'attuale Tanzania. I
clicks sono inoltre presenti in numerose lingue del gruppo Bantu (Niger-Congo) parlate anch'esse
nell'Africa meridionale, come lo Xhosa e il Sotho; è praticamente certo che siano stati incorporati in
esse a partire da un substrato “Khoi-san”, supportando l'idea che lo spazio linguistico “Khoi-san”
fosse in passato assai più esteso su una larga parte dell'Africa orientale e meridionale.
C'è ragione di credere che i parlanti Dahalo anch’essi parlassero in passato una lingua diversa, forse
appartenente ad uno dei gruppi classificati in passato come “Khoi-san”, prima di adottare una forma
parzialmente creolizzata di cuscitico, probabilmente orientale; tuttavia le caratteristiche del
substrato precedente hanno agito fortemente sul Dahalo, dandogli delle caratteristiche divergenti
rispetto al resto del cuscitico.
L'Ongota è una lingua parlata da una piccola comunità nel sud-ovest dell'Etiopia; è parlata
attualmente solo dagli anziani della comunità ed è considerata prossima all'estinzione. Questa lingua
presenta caratteristiche in comune con l'omotico, con il cuscitico orientale e con le lingue Nilo-
Sahariane (in particolare nei pronomi), una grande e molto diversificata famiglia linguistica
africana che occupa, sebbene in modo frammentario, un vasto spazio tra i Grandi Laghi Africani,
l'altopiano etiopico e il medio corso del Niger. Va sottolineato che l'unità genetica del Nilo-
Sahariano (tra i cui primi fautori era J. Greenberg) non è universalmente accettata. La posizione
genetica dell'Ongota non è chiara ed è considerata uno dei più importanti problemi della linguistica
storica dell'Etiopia. La relativa semplicità della morfologia ha indotto alcuni a ritenere che l'Ongota
fosse originariamente un creolo prodotto dall'incontro tra gruppi di lingua afroasiatica e nilo-
sahariana. In uno studio dettagliato, Harold Fleming ha recentemente sostenuto che l'Ongota
rappresenti una branca a sé stante dell'Afro-asiatico, separata da tutte le altre e particolarmente
conservativa. Questo punto di vista non ha però ottenuto un consenso generale. Vaclav Blažek ha
sostenuto che l'Ongota vada considerato Nilo-Sahariano; altri studiosi tendono a vedere nell'Ongota
una lingua cuscitica o omotica, quindi parte del gruppo Afro-asiatico ma senza occupare in esso una
posizione speciale.
Le iscrizioni meroitiche sono una documentazione epigrafica, perlopiù su pietra risalente all'antico
regno di Meroe (chiamato anche Kush), uno stato che comprendeva gran parte dell'attuale Sudan tra
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il sesto secolo a.C. e il terzo secolo d.C. Il sistema di scrittura, derivato probabilmente dallo ieratico
egizio ma semplificato in un sistema alfasillabico, è stato decifrato da oltre un secolo, ma la lingua
in cui le iscrizioni sono redatte, chiamata convenzionalmente meroitico, è attualmente in gran parte
incomprensibile.
La scoperta di una relazione genetica con altre lingue potrebbe essere d'aiuto alla sua comprensione;
la ricerca si è concentrata sulle due grandi famiglie linguistiche geograficamente vicine, quella
Nilo-Sahariana (di cui fa parte il nubiano, la lingua usata nella stessa area in epoca successiva, con
la quale il meroitico non sembra però avere una relazione stretta) e quella afroasiatica; recentemente
una analisi della struttura fonetica del meroitico (Rowan 2006) ha rivelato schemi coerenti con un
rapporto stretto con l'afro-asiatico (è stata suggerita in particolare una relazione col semitico, che
non è però comunemente accettata). Il meroitico potrebbe dunque rivelarsi una nuova branca
dell'afroasiatico, o parte di una delle branche già note. Tuttavia, le restrizioni fonetiche individuate
da Rowan non sono esclusive dell'afroasiatico e costituiscono dunque solo un'indicazione, non una
prova certa, della parentela proposta.
L'urheimat afroasiatico e i modelli di diffusione
L'antichità della documentazione afroasiatica e la grande varietà linguistica presente all'interno di
una famiglia linguistica così estesa e numerosa hanno reso possibile proporre date approssimative
per la proto-varietà linguistica ricostruita (“proto-afro-asiatico”) da cui le diverse branche
deriverebbero. Questa sembrerebbe potersi ricondurre al primo Neolitico, un'epoca particolarmente
significativa per la preistoria umana in quanto coincidente con gli inizi dell'agricoltura.
Alcune delle più antiche tracce archeologiche di agricoltura sono state trovate in aree come la
Mezzaluna Fertile e l'Egitto, dove in epoca storica sono attestate lingue afro-asiatiche. Secondo il
linguista russo Alexandr Militar'ev, autorevole esponente della Scuola di Mosca, il proto-
afroasiatico potrebbe essere stata la lingua dei primi agricoltori del Levante, avrebbe quindi
un'origine asiatica: il semitico rappresenterebbe la continuazione locale dell'afro-asiatico, mentre le
altre branche principali si sarebbero diversificate in Africa da successive ondate migratorie
provenienti da Nord-Est. La posizione appartata del cuscitico (e dell'omotico) si spiegherebbe
secondo Militar’ev con una via di migrazione distinta, giunta in Africa attraverso la penisola araba e
attraversando il Mar Rosso dallo Yemen, mentre le altre branche (l'egiziano, il chadico e il libico-
berbero; queste ultime due sarebbero più strettamente imparentate tra loro secondo Militar'ev)
sarebbero giunte attraverso il Sinai e la valle del Nilo.
Questo modello è suggestivo e in certa misura riflette a grandi linee il paradigma di diffusione, assai
meglio documentato, che si ritiene abbiano avuto in seguito le lingue semitiche stesse.
Tuttavia, la diversità linguistica dell'afro-asiatico al più alto livello di ramificazione è concentrata in
Africa; questa è considerata in linguistica storica una indicazione dell'area più probabile in cui
cercare il centro di diffusione di una famiglia linguistica; in altre parole, se l'afro-asiatico avesse
avuto origine in Asia, ci si potrebbero aspettare maggiori tracce di caratteri linguistici perduti in
semitico e conservati in altri rami della famiglia, e quindi una diversità considerevolmente maggiore
dell’afroasiatico documentato in Asia. Di conseguenza un buon numero di specialisti tende a
considerare l'Africa nord-orientale (il Corno d'Africa o la Valle del Nilo o, secondo un'ipotesi di
D'jakonov, il Sahara orientale) come l'urheimat, il centro originario di diffusione.
Va infine ricordata la prospettiva del semitista italiano Giovanni Garbini. Secondo Garbini, una
ricostruzione genealogica dell'afroasiatico (così come del semitico) rappresenta una impostazione
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fondamentalmente sbagliata del problema del rapporto dei vari rami della famiglia; è in effetti
perfino discutibile, dal suo punto di vista, che l’afroasiatico si possa considerare in senso proprio
una famiglia linguistica. Facendo riferimento alla Wellentheorie di Schmidt e ai fenomeni di
pidginizzazione e contatto linguistico citati sopra, Garbini ritiene che le affinità tra le lingue
afroasiatiche possano essere meglio comprese come “onde” di influenza, soprattutto semitica, che
hanno operano su altri gruppi linguistici africani originariamente non imparentati, a partire da uno o
più centri (come nel modello di Militar’ev, il centro principale sarebbe da cercare nel Levante).
Anziché un “albero” ramificato da un tronco comune, Garbini propone di vedere l'afroasiatico come
una “bougainvillea” di radici, tronchi e rami distinti e variamente intrecciati. Questo punto di vista
tuttavia rimane largamente minoritario.
Diffusione delle lingue afro-asiatiche secondo una approssimazione del modello di Militar’ev
Sezione 3: Le lingue semitiche: documentazione, classificazione e caratteri generali. La
posizione dell'arabo.
«If we imagine a traveller going from oasis to oasis, from village to village from the Northern Hijaz
to the upper Euphrates let us say in the time of Alexander the Great, he would most likely never be
aware of passing from ’Arabic’-speaking areas into ’Hebrew’-speaking ones, then passing the
border to the people speaking ’Aramaic’. He would instead notice continuous small differences in
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the speech of the locals on his way. Today, a similar picture would be created by a similar journey
from Mauritania to Oman through the Arabophone areas.» (Retsö 2006)
L’Arabia e le regioni vicine, da Hoyland 2001.
Il concetto di “semitico”: qualche nota storica
L'espressione “lingue semitiche” viene coniata nel 1781 dall'influente storico e linguista tedesco
August von Schlözer per indicare l'ebraico, l'arabo, l'aramaico e l'etiopico; le somiglianze tra queste
lingue erano già ben note (e sono in effetti evidenti anche una prima analisi). Erano state osservate
ad esempio dal grammatico ebreo nordafricano Ibn Quraysh già nel decimo secolo. Lo stesso Ibn
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Quraysh aveva osservato le affinità col berbero. Ma fino alla fine del Settecento, non risulta che
queste somiglianze fossero mai state oggetto di una vera e propria analisi scientifica comparativa.
La parola “semitico” fa riferimento a Sem (Šām in arabo) uno dei tre figli di Noé nella Tavola dei
Popoli della Genesi biblica (Gen. 10); secondo la Bibbia da lui discenderebbero Ebrei, Arabi,
Aramei e parte degli abitanti della Mesopotamia, ma anche gli Elamiti, che storicamente non
parlavano una lingua semitica (è stato proposto da alcuni che l’antico Elamita sia da collegarsi
lontanamente all’afroasiatico, ma questa ipotesi è molto dubbia e manca di consenso). Va
sottolineato che il concetto di semitico nell’uso attuale è unicamente linguistico e non fa riferimento
ad una cultura o una discendenza comuni.
Non è però sempre stato così.
Nel corso dell’Ottocento è avviata l’esplorazione archeologica del Medio Oriente e la
documentazione etnografica sistematica delle società extra-europee; questo allarga enormemente la
documentazione “semitica” disponibile. È in quest’epoca che si delinea una concezione
essenzialista del “semitico”, sentito come contrapposto o complementare all’ “indeuropeo” (o,
comunemente nel linguaggio dell’epoca, “ariano”). In particolare, va segnalata l’opera del grande
studioso francese Ernest Renan, il “padre” della filologia semitica sistematica. Riassumendo
all’estremo, Renan vedeva nel “semita” e nell’ “ariano” i due poli della storia significativa della
civiltà umana (fondamentalmente, a suo modo di vedere, la civiltà europea).
In questa visione, all’ “ariano” (come “razza”, cultura e lingua) si attribuiscono caratteristiche di
creatività, concretezza, fantasia. Le lingue indeuropee, rappresentate tipicamente dal greco e dal
sanscrito, si prestano all’espressione del mito e della filosofia, più in generale alla rappresentazione
del molteplice, anche sulla base di presunte caratteristiche morfologiche quali la fusione di
informazioni grammaticali nella struttura fonetica della parola.
Il “semitico”, con la sua tipica struttura di radici consonantiche, viene in questo tipo di discorso
presentato come una forma linguistica rigida, che tende verso l’unità e l’astrattezza (Renan para di
lingue “metalliche). Se le lingue indeuropee si prestano a rendere la molteplice varietà del mondo
naturale, le lingue semitiche, formate nella monotonia del deserto, porterebbero il pensiero a
concepire il monoteismo. L’elemento intellettuale semitico è dunque, da solo, sterile. Capace di
produrre un Dio trascendente e lontano, ma non di raffigurarlo o di rapportarlo all’umanità.
Questo genere di discorsi, come studiato recentemente da Maurice Olender, tendevano a
rappresentare la tradizione culturale europea come l’unione, operata dal cristianesimo, degli aspetti
migliori dell’elemento dominante ariano e di quello semitico, giustificando la “superiorità” europea
che emergeva in quest’epoca nelle conquiste coloniali. Naturalmente, questi stessi discorsi potevano
facilmente essere impiegati per escludere dall’Europa “ariana” la tradizione ebraica (e quella
islamica), fornendo una premessa intellettuale per i ben noti esiti storici alla metà del Ventesimo
secolo. È per questo motivo che, alla fine dell’Ottocento, l’ostilità verso gli Ebrei viene chiamata
“antisemitismo”. Almeno implicitamente, essa include l’ostilità verso gli Arabi e i musulmani,
sentiti come portatori anch’essi dell’estraneità culturale (e linguistica) alla vera civiltà “ariana” che
si attribuisce agli Ebrei. L’antisemitismo moderno trova dunque in parte alimento in una
opposizione non solo all’ebraismo e agli Ebrei (contro i quali l’Europa aveva una lunga storia di
persecuzione e discriminazione su base religiosa) ma contro il monoteismo in genere; nel caso di
Renan, questo non si esprime in una opposizione diretta al Cristianesimo, e certamente vi furono
moltissimi antisemiti che si definivano cristiani. Non va però dimenticato che la base concettuale
dell’antisemitismo è, almeno in potenza, anche ostile all’etica e al messaggio cristiani.
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Questi discorsi vanno considerati come un avvertimento a quel che può accadere quando i concetti
linguistici e filologici vengono trasformati in strumenti di categorizzazione dei gruppi umani,
quando dallo studio delle forme linguistiche si pretende di definire “razze” o “forme culturali”.
Oggi si sa che, in linea di massima, la lingua non condiziona in modo determinante il pensiero
(anche se in certi casi può “colorare” certe categorie) e che non esistono rapporti diretti tra gruppi
linguistici, forme culturali e discendenza. “Semitico” è unicamente un gruppo di lingue strettamente
affini tra loro, parte della più ampia famiglia afroasiatica. Queste lingue hanno una grande
importanza storica e documentaria, per essere state scritte e parlate in regioni del mondo di antica
urbanizzazione e alfabetizzazione; è a persone che parlavano una lingua semitica che si deve quasi
certamente l’invenzione dell’alfabeto. Non esiste nessuno “spirito semitico”, nessuna forma
culturale intrinseca ed esclusiva ai parlanti queste lingue, nessun “destino” storico iscritto nelle loro
strutture linguistiche, come invece ritenevano alcuni linguisti ottocenteschi.
Caratteri generali
La caratteristica generale delle lingue che più colpisce chi le studia è la radice triconsonantica. In
parte, si tratta di un fatto comune a tutto l’afro-asiatico, che nel semitico si manifesta con particolare
chiarezza anche a causa della profondità storica della documentazione e del fatto che, in moltissime
lingue semitiche, questa documentazione ci è pervenuta in una forma di scrittura consonantica.
Va inoltre ricordato che il pensiero grammaticale arabo, e quello ebraico che in gran parte ne deriva,
ha fatto della radice consonantica uno dei pilastri della descrizione linguistica, dandogli ulteriore
centralità. C’è un consenso comunque sul fatto che nel semitico si sia avuta storicamente una
tendenza a generalizzare il triconsonantismo, mentre nell’afro-asiatico erano probabilmente
possibili radici sia bi-consonantiche che tri-consonantiche; alcuni linguisti sospettano che
l’elemento radicale potesse essere in origine una sillaba del tipo CvC, consonante-vocale-
consonante.
Più difficile è la ricostruzione storica della situazione delle vocali; c’è qualche motivo di credere che
il sistema vocalico dell’arabo classico, con tre vocali brevi e tre lunghe, sia molto vicino a quello
comune per il semitico (e per l’afroasiatico, secondo D’jakonov).
La fonetica del semitico è ricca in sibilanti e suoni laringali; un ricco inventario si trova in arabo e
nelle lingue sud-arabiche; anche questi suoni sono probabilmente da ricondurre all’eredità
afroasiatica, sebbene ci sia incertezza sulle esatte corrispondenze fonetiche. La ricostruzione delle
sibilanti è particolarmente problematica; la loro probabile corrispondenza con occlusive palatali in
egizio, e alcuni dati provenienti dall’uso dei caratteri cuneiformi per scrivere lo hittita (una lingua
indeuropea, il cui sistema di scrittura deriva da quello usato per una lingua semitica, l’accadico)
fanno ritenere che alcune in origine potessero essere delle affricate. In effetti la realizzazione della
“sibilante” enfatica sorda ṣ in ebraico moderno è l’affricata /ts/; questa potrebbe essere la situazione
originaria.
Tipica dell’afroasiatico, e specialmente preservata semitico, è la presenza dei suoni detti “enfatici”.
La ricostruzione più diffusa suggerisce che la cosiddetta enfasi fosse originariamente un suono
eiettivo (realizzato spingendo l’aria dalla gola anziché dai polmoni) che può essere solamente sordo.
Questa è la forma di enfasi che esiste anche oggi nelle lingue semitiche d’Etiopia; anticamente, in
effetti, le consonanti enfatiche semitiche sembrano essere state solamente sorde, anche nelle forme
più antiche di arabo pre-islamico recentemente studiate, in particolare, da Ahmad al-Jallad.
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In seguito, una parte delle lingue semitiche ha sviluppato una articolazione diversa delle enfatiche,
quella glottalizzata, tipica dell’arabo classico e moderno. In arabo infatti esistono enfatiche sorde ed
enfatiche sonore; la realizzazione prevalente delle enfatiche, almeno in alcune varietà di arabo,
potrebbe essere diventata solo sonora in epoca medievale.
Molti semitisti avevano ritenuto quindi che il sistema consonantico originario del semitico fosse
basato su triadi composte da una consonante sonora, una sorda ed una enfatica, una ipotesi suggerita
in particolare da Cantineau; tuttavia, vi sono diverse critiche a questa visione, che attualmente resta
discussa.
Molti studiosi ritengono, sulla base dell’arabo, dell’accadico e di quel che è stato possibile derivare
dai dati dell’ugaritico, che il semitico possedesse un sistema di tre casi (nominativo, accusativo e
genitivo) molto simile a quello dell’arabo classico. Altri (ad esempio Jonathan Owens, sulla base
del suo lavoro con le varietà arabe parlate) hanno suggerito che i casi siano uno sviluppo successivo
che non si applica a tutto il semitico. Questo secondo punto di vista rimane minoritario, e l’evidenza
che i casi dell’arabo conservino la situazione più antica, che altre lingue semitiche sembrano aver
perduto molto prima, è molto forte (Al-Jallad e Van Putten 2017).
Modelli di classificazione delle lingue semitiche
Tradizionalmente, le lingue semitiche erano raggruppate in tre sottogruppi su base geografica:
- il semitico nord-orientale comprendente l’accadico, la lingua semitica della Mesopotamia antica
nelle sue varietà babilonese ed assira.
- il semitico nord-occidentale comprendente l’ebraico, il fenicio, l’aramaico e l’ugaritico.
- il semitico meridionale o sud-occidentale comprendente l’arabo, le lingue sud-arabiche
(dell’antico Yemen) e le lingue semitiche del Corno d’Africa.
Si tendeva a riconoscere una parentela più stretta tra semitico nord-occidentale e meridionale, che
insieme avrebbero costituito il semitico occidentale.
Questo schema non è più generalmente considerato valido. È stato sempre più criticato e
discusso, anche grazie alla scoperta e alla decifrazione di documentazione nuova, come quella
ritrovata negli anni Settanta nell’archivio di tavolette cuneiformi dell’antica città di Ebla, in Siria,
risalente a circa il 2400 a.C. Tra il 1974 e il 1976, Robert Hetzron ha proposto un nuovo modello di
classificazione, che attualmente, anche se rimangono differenze nei dettagli ed è stato modificato in
alcuni punti (per quanto riguarda il sudarabico in particolare), gode di largo consenso ed è accettato
come la base di lavoro da quasi tutti i semitisti.
La seguente lista di lingue semitiche è data secondo una versione modificata dello schema di
classificazione genealogica di Hetzron, ed è per quanto possibile completa. Alcune forme
linguistiche restano di incerta classificazione a causa della scarsità di documentazione. Il seguente
schema riflette una visiona aggiornata e perlopiù condivisa della classificazione delle lingue
semitiche, anche se alcuni dettagli restano incerti.
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1) Semitico Nord-Orientale:
a) Accadico: La lingua di Akkad, città della Mesopotamia nel terzo millennio a.C., per un
certo periodo capitale del primo grande impero mesopotamico. Scritta in caratteri logosillabici
cuneiformi (si veda la sezione sulla scrittura), derivati da quelli usati per il sumerico. Le due varietà
principali (“dialetti”) sono l’assiro e il babilonese. L’accadico babilonese è la lingua franca
dell’Antico Oriente nel secondo millennio a.C (il “babilonese internazionale”). Nelle sue due
varietà, l’accadico è la grande lingua di cultura della Mesopotamia per circa duemila anni (le ultime
tavolette cuneiformi di sicura datazione risalgono al primo secolo d.C.). Nel corso della sua storia
l’accadico cambia notevolmente si distinguono un antico accadico e tre fasi di sviluppo (antico,
medio e tardo) sia per l’assiro che per il babilonese.
b) Eblaita: la lingua degli archivi cuneiformi trovati a Tell Mardikh in Siria, l’antica Ebla,
risalenti a circa il 2400-2300 a.C; attestata anche in alcune regioni vicine. Ebla fu distrutta
dall’impero di Akkad. La collocazione dell’eblaita nel semitico nord-orientale non è stata accettata
da tutti; alcune caratteristiche sembravano collegarlo al semitico occidentale. Tuttavia, studi
successivi hanno messo in luce la vicinanza all’accadico, tanto che alcuni definiscono l’eblaita un
“dialetto” di esso. C’è qualche ragione (legata soprattutto ai nomi propri) di ritenere che l’eblaita
fosse la lingua scritta di Ebla, ma non quella parlata, e che possa aver avuto diffusione in parti della
Mesopotamia, ad esempio a Mari sull’Eufrate.
2) Semitico Occidentale:
Ad eccezione dell’accadico e dell’eblaita, tutte le lingue semitiche note sono classificate nella
sottofamiglia semitica occidentale, che a sua volta ha varie suddivisioni. Questa famiglia si
distingue per la presenza di una importante innovazione assente in accadico ed eblaita: la
coniugazione verbale a suffissi (derivati da pronomi, e tuttora considerati tali nella grammatica
araba) per indicare l’azione compiuta (come il māḍī del’arabo).
a) Semitico d’Etiopia (o Afro-Semitico o Etio-semitico): popolazioni di lingua semitica si
stabiliscono nel Corno d’Africa dal sud della penisola araba, apparentemente alla fine del II e nel
corso del I millennio a.C., occupando gran parte degli altopiani delle attuali Eritrea ed Etiopia. Il
semitico d’Etiopia si diffonde su una precedente popolazione parlante lingue cuscitiche (quasi
certamente cuscitico centrale). Questa presenza (substrato) che come si è visto rimane ancora oggi
nella regione, ha avuto un considerevole impatto sull’evoluzione delle lingue etio-semitiche. L’etio-
semitico si distingue nettamente in due branche principali:
1. Etio-semitico Settentrionale:
a. Ge’ez (Etiopico): è la lingua classica e liturgica della letteratura dell’antico regno di
Aksum e dell’Etiopia cristiana medievale. Documentata da iscrizioni in grafia
sudarabica dal III-IV secolo d.C. e da manoscritti medievali in un alfasillabario
derivato da questa. Rimane la lingua di cultura dominante in Etiopia fino al XIX
secolo. Attualmente usata solo come lingua liturgica. Da varietà parlate
estremamente simili al ge’ez derivano il tigré e il tigrino.
23
b. Tigré: parlata, in diverse varietà, da alcune popolazioni in prevalenza musulmane nel
nord dell’Eritrea. Pur essendo la lingua veicolare di questa regione (dove sono
presenti anche lingue cuscitiche e nilo-sahariane) non possiede una tradizione scritta
fino a tempi molto recenti.
c. Dahalik: lingua molto affine al Tigré (e spesso considerata una sua varietà), parlata
da un piccolo numero di persone nelle isole Dahlak nel Mar Rosso, in Eritrea
(Simeone-Senelle 2005). Presenta influssi, specialmente fonologici, dell’arabo,
lingua scritta dell’arcipelago. Non risulta una letteratura scritta.
d. Tigrino: lingua ufficiale dell’Eritrea assieme all’arabo, e lingua della regione del
Tigray in Etiopia. Possiede una ricca letteratura moderna, scritta in una variante
dell’alfasillabario etiopico.
2. Etio-semitico Meridionale:
a. Trasversale:
i. Amharico: la lingua parlata storicamente dominante in Etiopia (in
particolare tra i cristiani), documentata a partire dal XIV secolo, con una
letteratura moderna a stampa dal XIX. Scritta in una versione lievemente
modificata dell’alfasillabario etiopico. È parlata in tutta la parte
centro.settentrionale dell’altopiano etiopico. Strettamente imparentata è
l’Argobba, che possiede una modesta letteratura ma è attualmente in
declino.
ii. Hararino: la lingua della città di Harar nell’Etiopia orientale,
tradizionalmente centro dell’Islam nel Corno d’Africa. Documentata da
manoscritti in caratteri arabi nel XVI secolo e da una letteratura moderna, in
una varietà linguistica piuttosto diversa solitamente scritta con
l’alfasillabario etiopico. Probabilmente rappresenta, assieme al Gurage
orientale, quanto rimane di una più ampia area linguistica semitica poi
ritrattasi alla fine del Medioevo per l’arrivo di Somali e Oromo, di lingua
cuscitica.
iii. Gurage orientale: con il nome di Gurage si indicavano tradizionalmente
diverse lingue semitiche parlate in varie zone dell’altopiano etiopico
centromeridionale. In realtà le lingue raccolte sotto l’etichetta di Gurage non
risultano strettamente imparentate tra loro. Il Gurage orientale, la cui
varietà più importante è il Silt’e, è strettamente connesso con lo Hararino,
mentre le altre varietà in passato indicate come Gurage rappresentano,
assieme al Gafat, un diverso raggruppamento dell’etiosemitico meridionale.
Nessuna varietà di Gurage possiede una significativa documentazione scritta
prima del diciannovesimo secolo. Attualmente si scrivono con l’alfasillabario
etiopico modificato.
b. Esterno:
i. Gafat: una lingua estinta usata nel Gojjam, (Etiopia centro-occidentale) di
cui sopravvive una limitata letteratura religiosa cristiana di età moderna.
ii. Gurage Settentrionale (Soddo): il Soddo sembra mostrare una stretta
parentela con il Gafat.
iii. Gurage Occidentale: una serie di varietà linguistiche imparentate tra loro, in
isole linguistiche nel sud dell’altopiano etiopico, circondate da un’area
24
linguistica prevalentemente cuscitica. Costituiscono l’estremità sud-
occidentale dell’area linguistica semitica storica.
Distribuzione approssimativa dei gruppi linguistici in Etiopia e Eritrea
b) Sud-arabico moderno: Con questo nome geografico si indicano le lingue semitiche parlate, in
prevalenza da seminomadi e pescatori in alcune regioni del sud della penisola araba, sulla costa
arida tra Yemen ed Oman e nelle isole vicine, che non sono direttamente connesse all’arabo.
Contrariamente a quanto si è pensato a lungo (e si può ancora trovare nei manuali più datati)
queste lingue non sono attualmente ritenute la continuazione dal sud-arabico epigrafico
(Sayhadico; si veda sotto) documentato nelle iscrizioni antiche: l’area del sud-arabico moderno
si trova perlopiù a nordest di quella dove sono attestate iscrizioni Sayhadiche, anche se c’è una
parziale sovrapposizione (si veda sotto). Alcune centinaia di brevi iscrizioni antiche in quello che
sembra essere una derivazione dell’alfabeto sudarabico sono state individuate nella regione in cui
si parlano oggi forme di sud-arabico moderno; è possibile che ne documentino una forma antica
(non sembrano essere in una forma di Sayhadico) ma quelle che sono decifrate consistono quasi
unicamente di nomi propri.
Sono documentate, a partire dalla fine dell’Ottocento, sei lingue sud-arabiche moderne, per un
probabile totale di poco più di 200.000 parlanti. Esiste una ricca letteratura orale, trascritta da
studiosi moderni, ma nessuna lingua sud-arabica moderna possiede una rilevante letteratura
scritta. Nell’uso formale e pubblico, la maggior parte dei parlanti sud-arabico moderno fa ricorso
all’arabo. Il sudarabico moderno è considerato una forma particolarmente conservativa di
semitico, in particolare nella fonologia. Vi sono diverse isoglosse in comune con l’etiosemitico,
25
che potrebbero rappresentare il mantenimento condiviso di caratteri antichi, o giustificare un
raggruppamento “semitico meridionale” (che escluderebbe però, a differenza del raggruppamento
tradizionale con lo stesso nome, l’arabo e probabilmente anche il sayhadico).
1. Il Mehrī è la lingua più diffusa e importante. È parlata nelle zone più orientali dello Yemen
e nelle aree confinanti dell’Oman, con 100.000/150.000 parlanti circa. Presenta marcate
differenziazioni dialettali.
2. Strettamente imparentato col Mehri è lo Harsūsī, parlato da una piccola popolazione
nomadica nei deserti centrali dello Oman.
3. Affine al Mehri è anche il Batharī, parlato in alcuni villaggi del Dhofar, nell’Oman.
4. Lo Hobyot, parlato da poche centinaia di parlanti, sembra rappresentare una varietà che
condivide caratteristiche sia col Mehri che con il vicino
5. Jibbali (in passato chiamato Shehri o in altri modi) diffuso nel Dhofar, con circa 20.000
parlanti.
6. Il Soqotri è parlato nell’isola di Socotra e nelle isolette vicine, con circa 50/60.000 parlanti.
Presenta anch’esso una significativa differenziazione in dialetti.
c) Semitico Centrale:
Il Semitico centrale è la grande innovazione classificatoria introdotta da Hetzron rispetto ai
sistemi di classificazione tradizionali. Sulla base di alcune importanti innovazioni morfologiche
nell’uso dei tempi verbali, Hetzron mostra come molte delle lingue della penisola araba e quelle
già classificate come semitiche nord-occidentali (ugaritico, cananaico, aramaico) derivino da
una branca distinta del semitico (in precedenza, la penisola araba era collocata nello spazio
“semitico meridionale” assieme all’Etiopia).
1. Semitico Nord-Occidentale:
a. Amorreo: Si sa poco della lingua degli Amorrei, un gruppo di popolazioni
seminomadi della media valle dell’Eufrate che attorno al 2000 a.C. si diffonde in
gran parte della Mezzaluna Fertile. La lingua è attestata quasi unicamente da nomi
propri in testi in altre lingue come l’accadico. Molti di questi nomi sono però brevi
frasi (Samsu-iluna, “Il Sole è il nostro Dio”) che permettono di ricostruire alcuni
aspetti della grammatica, pur con molti dubbi.
b. Ugaritico: La città di Ugarit, oggi Ras Shamra sulla costa della Siria, era un centro
commerciale importante nella tarda età del Bronzo, tra 1500 e 1200 a.C. Dipendente
dai grandi imperi dell’epoca (prima l’Egitto, poi lo stato Hittita) forniva loro una
interfaccia col mondo del commercio mediterraneo, allora dominato dai Micenei (un
ruolo simile, anche se con maggiore autonomia, sarà assunto dalle città fenicie
nell’età del Ferro). La scoperta degli archivi di Ugarit negli anni Trenta ha
modificato profondamente la conoscenza sia della storia dell’Antico Oriente che
della filologia semitica. I testi di Ugarit sono redatti in una scrittura consonantica
cuneiforme (con due varietà alfabetiche diverse), che rivela tuttavia una relazione
con quello, a base geroglifica, chiamato “lineare” o “proto-cananaico”, che si ritiene
derivato da quello “proto-sinaitico” e a sua volta all’origine di quelli fenicio e sud-
arabico (come discusso nella parte III del corso). Linguisticamente le tavolette di
Ugarit offrono una documentazione archivistica e letteraria ricchissima, che permette
di documentare dettagliatamente questa fase antica del semitico nord-occidentale.
26
L’ugaritico sembra presentare caratteri “arcaici” rispetto al vicino cananaico (la cui
documentazione per quest’epoca è scarsa), come ad esempio la presenza di un
sistema di casi simile a quello dell’accadico e dell’arabo classico; ma in parte questo
potrebbe dipendere dalla maggiore esattezza con cui la scrittura ugaritica nota alcune
differenze fonologiche.
c. Cananaico: Il Cananaico è l’insieme delle varietà linguistiche semitiche,
strettamente imparentate tra loro, parlate in Siria meridionale e Palestina nel secondo
e in buona parte del primo millennio a.C.
Le attestazioni più antiche, decifrate solo di recente, risalgono però al terzo millennio
a.C: si tratta di alcune righe nei testi magici sulle pareti della piramide egizia di Unas
(verso il 2500 a.C.), scritte dunque in caratteri geroglifici egizi. Si tratta però di una
documentazione di consistenza minima, che non consente una conoscenza
approfondita del cananaico in questa fase. Sempre dall’Egitto provengono:
i. le iscrizioni “proto-sinaitiche” e l’iscrizione trovata a Wadi el-Hol (c.a. 1900
a.C.) nel medio Egitto, che sembrano documentare una tendenza ad utilizzare
forme semplificate dei geroglifici egizi per scrivere una lingua semitica con
una scrittura consonantica. La grande brevità dei testi, la difettività della
scrittura e le difficoltà di lettura rendono l’attribuzione di questi testi al
cananaico non del tutto certa.
ii. brevi testi in cananaico all’interno delle lettere (scritte in accadico babilonese
con caratteri cuneiformi) trovate nell’archivio diplomatico di Tell el-Amarna
(attorno al 1330 a.C.). Questi testi sono importanti perché, grazie alla scrittura
logosillabica del cuneiforme, permettono una parziale ricostruzione del
vocalismo antico.
La documentazione cananaica, in alfabeti consonantici lineari di elaborazione locale,
diventa più cospicua sul finire del secondo millennio a.C. (prima età del Ferro) e nel
corso del primo, consentendo di individuare diverse varietà differenziate, anche se
probabilmente mutualmente comprensibili (è dunque difficile, e in un certo senso
arbitrario, dire se fenicio ed ebraico siano due “dialetti” della stessa lingua o due
“lingue” strettamente imparentate tra loro). Alcune brevi iscrizioni risalenti al
1200/1000 a.C. trovate in Palestina, (la più importante è il cosiddetto “calendario di
Gezer”) documentano una forma di cananaico che molti studiosi definiscono
“protoebraico”.
Il fenicio, è attestato da numerose iscrizioni sulle coste siriane, libanesi e cipriote
dopo il 1100 a.C., e si è diffuse verso ovest attraverso il Mediterraneo al seguito del
movimento di colonizzazione delle città fenicie, in particolare sulle coste del
Nordafrica, della Sicilia, della Sardegna e della penisola iberica nel primo millennio
a.C.; una forma di semitico derivata dal fenicio, il punico, documentato da numerose
iscrizioni sia in alfabeto fenicio che in alfabeto latino, era ancora parlato in parti
delle attuali Algeria e Tunisia all’epoca di Sant’Agostino (IV secolo d.C.). Inoltre,
alcune frasi in punico sono riportate, in caratteri latini e quindi con le vocali, nel
Poenulus di Plauto.
L’ebraico è il gruppo di varietà storicamente più importante e meglio documentata
del cananaico, grazie all’Antico Testamento, quasi interamente redatto in questa
27
lingua (solo poche parti sono in aramaico o in greco). L’ebraico antico (di epoca
biblica se non pre-biblica) è inoltre attestato da un certo numero di iscrizioni trovate
nel corso delle dettagliate esplorazioni archeologiche dell’area palestinese, che lo
stato di Israele ha attivamente promosso, e da vari testi non confluiti nel canone
biblico. L’ebraico cessa di essere usato come madrelingua parlata dagli Ebrei al più
tardi in epoca romana, ma probabilmente in buona misura già all’epoca della
cattività babilonese nel sesto secolo a.C; era quindi forse già solo lingua scritta
all’epoca in cui viene redatta buona parte del corpus biblico, che si ritiene risalire in
gran parte al periodo tra il 600 e il 200 a.C. (alcuni testi biblici sono quasi
certamente più antichi, e i libri dei Maccabei, tra gli altri, ovviamente più recenti).
Rimane tuttavia in uso come lingua scritta, indissolubilmente legata alla religione.
Nell’alto Medioevo, tra settimo e decimo secolo d.C., si ha una radicale
sistematizzazione del corpus testuale biblico, che viene vocalizzato da studiosi ebrei,
i masoreti, basandosi sulle tradizioni di recitazione orale dei testi. Su impulso dello
sviluppo della grammatica araba, anche quella ebraica viene codificata, e l’ebraico
ha un grande sviluppo come lingua di cultura, in cui sono scritti o tradotti dall’arabo
testi poetici, filosofici ecc… In età moderna, nel coso del Ventesimo Secolo
soprattutto, l’ebraico rinasce come madrelingua parlata grazie agli sforzi del
movimento sionista. Si tratta di un caso quasi unico di rinascita di una lingua che
esisteva solo in tradizione scritta, grazie all’impegno deliberato di una comunità
politica e, in seguito, di uno stato. L’ebraico moderno risente fortemente, nella
pronuncia e nella sintassi, del background linguistico dei suoi “creatori”, in
maggioranza ebrei provenienti dall’Europa orientale di madrelingua yiddish,
polacca, tedesca o russa, e ha così perso alcuni elementi tipicamente “semitici” come
la pronuncia “enfatica” di alcune consonanti. Attualmente l’ebraico è parlato da circa
sei milioni di cittadini di Israele, di cui è lingua ufficiale assieme, in linea di
principio, all’arabo.
Ad est del Giordano sono documentate alcune varietà di cananaico molto vicine
all’ebraico: il moabita è documentato principalmente da una stele, detta stele di
Mesha, risalente al nono secolo a.C. La sua importanza non è dovuta solo alla
documentazione di una varietà linguistica di cananaico meridionale altrimenti nota
solo da pochi frammenti, ma anche al suo contenuto: essa infatti riferisce, dal punto
di vista dei Moabiti, alcuni episodi a cui la Bibbia fa riferimento invece nella
prospettiva degli Ebrei, all’epoca loro nemici. Ad esso sono associate le varietà di
cananaico usate dagli Ammoniti (nell’attuale Giordania) e dagli Edomiti (nel Negev
in Israele) sono poco note e attestate su un piccolo numero di iscrizioni
frammentarie, scoperte negli ultimi decenni. Queste tre varietà sono
convenzionalmente indicate come “corpora della Transgiordania”, assieme
all’iscrizione di Deir Alla (vedi sotto).
d. Aramaico:
i. Aramaico antico: le popolazioni parlanti aramaico hanno probabilmente origine nella
steppa dell’entroterra siriano e si insediano nella Mezzaluna Fertile nel corso dell’età del
Ferro, dando vita a regni (il più importante dei quali ha per capitale Damasco) che
verranno poi assorbiti dall’impero assiro tra l’800 e il 700 a.C. Alcuni di questi regni
28
hanno lasciato iscrizioni documentate, nel due varietà dell’aramaico antico della Siria
centrale e in quella leggermente diversa dell’iscrizione di Tell Fekheriye sull’Eufrate.
La politica assira di deportazioni, e quella del successivo impero neo-babilonese renderà
l’aramaico la lingua parlata più diffusa nella regione. Fin dall’inizio l’aramaico, parlato
da popolazioni inizialmente pastorali diffuse su una vasta area, si mostra differenziato.
La varietà linguistica definita dagli studiosi sam’aliano o “ya’udico”, (a Zincirli nel sud
della Turchia, c. 800 a.C.),”, documentata da pochissime iscrizioni, sembra mostrare
alcune caratteristiche tipiche dell’aramaico, ma a differenza di esso mantiene un sistema
ridotto di casi; può essere considerata una lingua “ai margini” dell’area linguistica
aramaica, e più conservativa, oppure una lingua semitica nordoccidentale a sé stante.
L’importante iscrizione di Deir Alla in Transgiordania è scritta in una lingua che mostra
una mescolanza di caratteristiche aramaiche e cananaiche, ed è di incerta classificazione;
in essa è citato un personaggio biblico, l’indovino Balaam.
Il tardo impero assiro, quello neo-babilonese e specialmente quello persiano impiegano
una forma sempre più codificata di aramaico, l’aramaico d’impero, insieme
all’accadico, come lingua ufficiale dell’amministrazione nei territori della Mezzaluna
fertile e altrove (testi amministrativi in aramaico dell’epoca persiana sono stati trovati in
Afghanistan e si pensa che dalla scrittura aramaica possano derivare gli alfabeti indiani).
L’aramaico diventa dunque, nelle sue numerose varietà, la principale lingua veicolare e
di cultura del Vicino Oriente per oltre un millennio, sostituendo gradualmente l’accadico
e il cananaico, anche se nell’uso scritto viene eclissato dal greco in epoca ellenistica e
romana, a seguito delle conquiste di Alessandro.
ii. “Aramaico medio”: La diversificazione delle varietà scritte di aramaico permette di
distinguere due raggruppamenti principali, l’aramaico orientale e quello occidentale,
rispettivamente grosso modo ad est e ad ovest dell’Eufrate. Le varietà di aramaico
documentate nel periodo ellenistico e romano sono variamente classificate come Tardo
Aramaico d’Impero o Aramaico Medio.
L’aramaico affianca inoltre l’ebraico come lingua degli Ebrei anche nella produzione
scritta, nelle varietà, piuttosto diversificate, raggruppabili con l’etichetta di aramaico
giudaico (samaritano, la lingua dei Talmud, quella delle parti in aramaico della Bibbia,
etc.). In epoca romana, alcuni Stati vicino-orientali adottano l’aramaico come lingua
ufficiale, marcando una identità propria, che si richiama alla tradizione scribale
dell’Aramaico d’Impero di età persiana, pur mantenendo in genere relazioni cordiali con
le potenze imperiali di Roma e della Partia, tra le quali fungono da “cuscinetti” in alcuni
casi. Sono così ben documentate in iscrizioni, tra il II secolo a.C. e il III-IV d.C. quattro
varietà distinte (con alfabeti graficamente molto diversi): 1) il palmireno, un dialetto
aramaico occidentale, è impiegato nel deserto siriano intorno alla città/oasi di Palmira e
nella vicina Dura Europos sull’Eufrate, con attestazioni sparse in tutto l’Impero Romano
di cui Palmira era una dipendenza (ne sono state trovate anche in Britannia) fino al tardo
III secolo d.C. 2) il nabateo, anch’esso una varietà occidentale, linguisticamente molto
simile all’aramaico d’Impero, è la lingua di prestigio del regno dell’omonima
popolazione, con capitale a Petra, che si estendeva tra il nord dello Hijaz, gran parte
della Giordania, il Sinai e il sud della Siria, fino alla conquista romana nel 107 d.C.; la
lingua rimane in uso dopo la conquista romana come forma locale di prestigio (accanto
al greco), e il sistema di scrittura verrà in seguito adottato con modifiche per scrivere
29
l’arabo; in alcune iscrizioni, appaiono nomi di persona e usi linguistici nord-arabici o
arabi. A lungo è stato oggetto di discussione se la lingua parlata dai Nabatei fosse
l’aramaico che scrivevano o, come ha pensato la maggioranza degli studiosi, una varietà
araba o nord-arabica. Oggi si pensa che una forma di nord-arabico, il Saifaitico (vedi
sotto) fosse parlata da gran parte degli abitanti dello stato nabateo, che comunque era
certamente plurilingue; l’aramaico nabateo era dunque essenzialmente lingua scritta. 3)
lo hatreno, una varietà aramaica orientale in uso nella città e nel regno di Hatra, una
dipendenza dell’impero partico nella Mesopotamia settentrionale. 4) meno documentata
è la quarta varietà, l’antico siriaco della regione di Edessa (oggi Urfa in Turchia), che
però diventerà importante in periodi successivi.
iii. Aramaico “tardo”: Col Cristianesimo, a partire dal II-III secolo d.C., si affermano
delle letterature religiose cristiane in diverse forme di aramaico “medio”. Queste varietà
sono classificate da alcuni autori come “aramaico medio” e da altri come “aramaico
tardo”. La più importante è il siriaco, forma letteraria assunta dall’aramaico orientale
parlato ad Edessa (oggi Urfa in Turchia) che diventerà dal terzo secolo in poi la lingua
liturgica delle grandi chiese siro-ortodossa e nestoriana del Vicino Oriente (con due
varianti di alfabeto) e si diffonderà, grazie alla loro attività missionaria, fino all’India e al
nord-ovest della Cina, dove è stata trovata una iscrizione bilingue in siriaco e cinese
dell’ottavo secolo d.C. Un’altra varietà aramaica orientale ben documentata è il
mandaico, la lingua dei testi religiosi dei Mandei (III-VI secolo d.C.) I Mandei sono una
comunità religiosa monoteista, nelle cui credenze entrano numerosi elementi gnostici,
caratterizzata da una speciale venerazione per San Giovanni Battista. Comunità mandee
esistono ancora in Iraq, e il mandaico moderno è ancora utilizzato.
iv. Aramaico moderno: L’aramaico declina gradualmente come lingua parlata in
seguito alle conquiste arabe del settimo secolo. Il siriaco e l’aramaico giudaico
rimangono uso come lingue letterarie e liturgiche delle rispettive comunità religiose,
mentre in gran parte della Mezzaluna Fertile le varie forme di arabo parlato lo
rimpiazzano come madrelingua, con un processo simile a quello con l’aramaico stesso
aveva sostituito il cananaico e l’accadico oltre un millennio prima (ma senza
deportazioni). Tuttavia, alcune forme moderne, le lingue neo-aramaiche, sono tuttora
parlate dalle comunità cristiane (i cosiddetti Assiri e Caldei) ed ebraiche del Kurdistan,
dai Mandei, e in alcune località della Siria. Le lingue neo-aramaiche orientali che
possiedono una tradizione letteraria (a partire dal diciottesimo secolo, in alfabeti derivati
da quello siriaco o da quello latino) sono il neo-mandaico, la lingua Turoyo, e le varietà
neo-aramaiche nord-orientali dette Suret: il neo-aramaico caldeo e il neo-aramaico
assiro (basato sul dialetto dei cristiani di Urmia in Iran). Esistono numerose altre varietà
locali, giudaiche o cristiane, di neo-aramaico nord-orientale, non sempre intelligibili tra
loro, alcune con poche centinaia di parlanti. Queste lingue riflettono una forte influenza
del circostante ambiente linguistico, arabo, kurdo, turco, armeno, in qualche caso
georgiano, che le porta a differenziarsi in modo marcato dalle altre lingue semitiche, in
particolare nel sistema verbale.
Il neo-aramaico occidentale è parlato a Ma’lula in Siria e in alcune località vicine, in
prevalenza ma non esclusivamente dalla popolazione cristiana.
Nel corso del Novecento, i conflitti medio-orientali hanno colpito duramente molte delle
comunità linguistiche neo-aramaiche, che al momento in cui scrivo sono recentemente
30
state obiettivo specifico di violenza nelle guerre civili siriana e irachena. Di
conseguenza, attualmente le varietà neo-aramaiche sono parlate e stampate spesso da
comunità anche in diaspora stabilite in Europa (specialmente in Svezia e in Germania),
negli Stati Uniti, in Libano, in Israele (per le comunità ebraiche), in America Latina e
altrove.
2. Sayhadico (o Sudarabico Epigrafico): È l’insieme di varietà linguistiche, strettamente
imparentate ma distinguibili, attestate dalla quasi totalità delle iscrizioni sud-arabiche,
ritrovate nell’attuale Yemen e nelle regioni vicine dell’Arabia Saudita e dell’Oman, otre che
nel Corno d’Africa. Testi scritti sono attestati dal X secolo a.C. (o forse dal XII) fino al VI
secolo d.C. La documentazione è di due tipi: una vasta documentazione di iscrizioni in una
scrittura sudarabica “monumentale” (musnad), quasi tutte su pietra, e una un certo numero
di iscrizioni di natura privata (lettere, contratti), in una scrittura leggermente diversa
chiamata “corsiva” (zabur) incise su legno, steli di palma ecc… Inoltre, sono state trovate
poche iscrizioni su ceramica e altri materiali. La documentazione in zabur è nota solo da
pochi decenni e di difficile decifrazione. L’importanza dell’attività commerciale degli stati
sud-arabici ha fatto sì che si conoscano iscrizioni al di fuori dell’area sud-arabica (in
Mesopotamia, altre parti dell’Arabia, Corno d’Africa, ecc.; una è stata trovata nell’isola
greca di Delo). L’appartenenza del Sayhadico al gruppo semitico centrale non è
universalmente riconosciuta: diversi studiosi continuano a ritenere più significativi i
collegamenti linguistici con l’etiosemitico o col sud-arabico moderno, e considerare quindi
plausibile l’inclusione nel raggruppamento “semitico meridionale” (per quanto non più
comprendente l’arabo e il nord-arabico, e comunque non accettato da molti). Si
riconoscono quattro varietà Sayhadiche principali:
a. Madhabico o Mineo: chiamato Mineo perché documentato soprattutto nell’antico
regno di Ma’in, è però attestato anche nei centri della valle del Wadi Madhab (Jawf),
nello Yemen settentrionale, che facevano parte di altri stati. Si ritiene che la tribù di
Ma’in possa aver adottato il madhabico come lingua scritta pur parlando una forma
di semitico diversa, non direttamente documentata in modo certo. La
documentazione va dall’ottavo al secondo secolo a.C. Iscrizioni minee sono state
trovate anche fuori dall’Arabia, riflesso delle attività commerciali lungo la Via
dell’Incenso tra lo Yemen e il Mediterraneo.
b. Sabeo: è la varietà di sudarabico epigrafico meglio attestata e culturalmente
dominante. Lingua ufficiale del regno di Saba dall’VIII secolo a.C., è la principale
lingua scritta di cultura di tutto lo spazio culturale sud-arabico, tanto da essere
impiegata per le iscrizioni monumentali del regno di Ḥimyar (circa II secolo a.C.- V
secolo d.C.), anche è possibile gli Himyariti parlassero una lingua diversa. L’ultima
iscrizione datata risale al 569 d.C.
Il sabeo presenta alcune differenze rispetto all’insieme delle altre lingue sayhadiche,
come il passaggio della s ad h in inizio di parola o tra vocali (un fenomeno che si
vede anche in altre lingue semitiche centrali ma non nelle altre lingue sudarabiche).
Viene inoltre usato come lingua scritta, con varianti locali, in altre regioni della
penisola araba e del Corno d’Africa, da gruppi che non lo usavano come lingua
31
parlata. Le iscrizioni in sabeo realizzate da scribi di lingua etiosemitica, nell’età del
Ferro, sono dette “pseudo-sabee”.
Il sabeo presenta tre fasi linguistiche distinte nel corso degli oltre 1400 anni della sua
documentazione: antico, medio e tardo. Si possono inoltre individuare dei “dialetti”:
la variante detta “amiritico”, nel nord dello Yemen, riflette influenze di una lingua
più vicina all’arabo. Un altro dialetto, il radmanita, è influenzato al Qatabanico.
c. Qatabanico: la lingua del regno di Qataban, documentata soprattutto in iscrizioni
monumentali della seconda metà del primo millennio.
d. Hadramutico o Hadramico: la lingua del regno di Hadramawt, attestata nella parte
orientale dello Yemen e nelle regioni confinanti dell’Oman. Alcune caratteristiche
sembrano in comune con il sudarabico moderno, e in generale presenta alcune
differenze rispetto alle altre varietà di Sayhadico. È però la forma di sudarabico
antico meno documentata. Si potrebbe immaginare, in analogia al possibile uso del
madhabico da parte dei Minei e del sabeo da parte degli Himyariti, che la lingua
parlata nello Hadramawt o in alcune sue parti fosse una forma antica del sudarabico
moderno, diversa dallo Hadramutico scritto. Tuttavia, al momento non esiste nessuna
evidenza che dimostri questa ipotesi.
Sempre in area sud-arabica si hanno alcune indicazioni per la presenza di lingue semitiche
che potrebbero non essere sayhadiche. L’iscrizione di Qāniya potrebbe rappresentare una
attestazione dello Himyarita, una lingua altrimenti nota solo per via indiretta (nei cenni
forniti dall’autore yemenita al-Hamdani, che scrive in epoca abbaside). Altri studiosi
pensano che questa iscrizione rappresenti invece un registro poetico del sabeo e vada quindi
considerata sayhadica, e che lo stesso himyarita si possa ricollegare a questa sotto-famiglia.
Le poche informazioni fornite dagli autori arabi successivi sullo Himyarita fanno pensare ad
una forma linguistica più vicina all’arabo che alle lingue sayhadiche, ma in assenza di altra
documentazione è difficile definire una attribuzione chiara di queste varietà linguistiche; è
comunque ragionevole supporre che vadano classificate come lingue semitiche centrali.
3. Arabo e “Nord-arabico”:
La parte centrale e settentrionale della penisola araba ospita, nel corso dell’età del ferro,
diverse società urbane, nomadiche o semi-nomadiche, impegnate nel commercio a lunga
distanza ed evidentemente in possesso di scrittura. Circa dall’VIII secolo a.C., fino al IV
d.C. è attestato un corpus di decine (o centinaia) di migliaia di brevi iscrizioni che ci
testimoniano le varietà linguistiche usate da questi gruppi. La grande maggioranza di queste
iscrizioni sono estremamente brevi, consistendo anche solo di nomi propri. Fino a poco
tempo fa, una conoscenza precisa delle forme linguistiche era problematica, ma le varietà
nord-arabiche erano considerate molto simili.
La grande maggioranza delle iscrizioni in questione sono in un alfabeto originariamente
simile, ma non identico, a quello sud-arabico (con qualche differenza nel numero delle
lettere, anche tra le diverse varietà). Alcune iscrizioni nord-arabiche sono state trovate fuori
dalla penisola araba (una in un graffito su un muro a Pompei).
Le somiglianze nel sistema di scrittura hanno indotto in passato molti ricercatori a ritenere
che esprimesse una sola lingua “nord-arabica” pur con diversi dialetti, distinta dall’arabo ma
affine ad esso.
32
Rispetto all’arabo, la differenza più evidente (anche se attestata poveramente in alcuni
gruppi di iscrizioni) era ritenuta essere l’articolo determinativo h(n) (la n finale appare solo
in alcuni contesti fonetici e in alcune varietà) anziché al. Negli ultimi anni la nostra
conoscenza delle varietà nord-arabiche si è molto arricchita, e non è più possibile
parlare del “nord-arabico” come di una sola lingua unitaria e distinta dall’arabo. Solo per
comodità si elencano qui le lingue precedentemente etichettate come nord-arabiche
assieme, dato lo stato ancora fluido degli studi. Alcune varietà principali sono riconosciute
primariamente sulla base del tipo di scrittura (che varia molto) e associate
convenzionalmente con le aree dei primi o maggiori ritrovamenti. La ripartizione che segue
(basata perlopiù sul lavoro di Michael Macdonald, Ahmad al-Jallad e Fokelien Kootstra) è
convenzionale e provvisoria, e tiene conto di fattori linguistici, grafici e geografici.
i. Taymanitico: è usato per indicare la scrittura e la lingua di alcune centinaia di
iscrizioni, sia graffiti su rocce che iscrizioni monumentali, ritrovate nella regione
dell’oasi di Tayma’ nello Hijaz settentrionale, almeno a partire dal VII secolo a.C.
Una iscrizione proveniente dalla città neo-hittita di Karkemish nomina la scrittura
“taimaniti” verso l’800 a.C., e probabilmente è da intendersi come riferita a
questa forma. Tayma’ doveva essere un centro carovaniero molto importante nella
tarda età del Ferro; per alcuni anni a metà del VI secolo a.C., il re babilonese
Nabonedo ne fece la sua capitale. In seguito a questa presenza babilonese l’oasi
adottò anche l’aramaico come lingua scritta. Studi recenti hanno mostrato le
profonde differenze linguistiche tra taymanitico e altre lingue nord-arabiche, al
punto di spingere alcuni a suggerire che esso rappresenti o una branca distinta del
semitico centrale, intermedia tra il semitico nord-orientale e le varietà “arabe”, o
sia essa stessa una lingua semitica nord-occidentale.
ii. Dadanitico: usato nello Hijaz settentrionale, attorno all’oasi di al-Ulà,
anticamente chiamata Dadan (Dedan in ebraico); in passato si usava distinguere la
sua fase più antica, chiamata “Dedanico”, da una più recente associata con il
regno tribale di Lihyan, chiamata quindi “Lihyanitico”; attualmente sono ritenuti
sviluppi successivi della stessa scrittura e lingua. Alcune delle più lunghe
iscrizioni nordarabiche sono in questa varietà. La classificazione è ancora in parte
incerta, ed è probabile che il regno d Dadan fosse multilingue. La
documentazione, di parecchie centinaia di testi, va all’incirca dal VII al I secolo
a.C., quando l’area entra nella sfera linguistica e politica dei Nabatei.
iii. Dumaico: la scrittura e la varietà linguistica dell’oasi di Dumat al-Jandal,
antica Duma (oggi al-Jawf, nell’ estremo nord dell’Arabia Saudita sulla
carovaniera tra Hijaz e Mesopotamia; chiamata Adummatu in accadico assiro)
documentata da pochissime iscrizioni.
Questi primi tre tipi riflettono forme grafiche affini e sono dunque classificati,
sulla base del sistema di scrittura, assieme ad alcune iscrizioni trovate in
Mesopotamia e in passato chiamate impropriamente “caldee” (da attribuire ai
contatti commerciali e politici costanti tra quest’area e la Mesopotamia), come
“Nordarabico delle oasi”. Dal punto di vista linguistico vanno ora considerate
lingue distinte.
33
iv. Safaitico: è il nome convenzionale moderno per una grande quantità di
iscrizioni (oltre trentamila note, qualcuno ha ipotizzato possa esisterne un
milione), quasi tutte molto brevi, trovate perlopiù in una regione compresa tra
Siria, Arabia Saudita e Giordania nei pressi dell’altopiano lavico chiamato Safa’.
Sono databili perlopiù tra il I secolo a.C. e il IV d.C, ma alcune sembrano più
antiche. Una recente grammatica della lingua di queste iscrizioni ne rivela la
vicinanza all’arabo classico, anche se non può esserne considerato l’antenato
diretto. Il safaitico è ormai da considerare una varietà di arabo, anche se distinta
dalle altre.
vi. Hismaico: la lingua e la scrittura usate nella regione desertica di Hisma, tra
Ḥijaz e Giordania, all’incirca a cavallo dell’era cristiana. Tradizionalmente
classificato all’interno del Thamudico, presenta sufficienti caratteri linguistici ed
epigrafici per essere considerato un gruppo autonomo. La lingua sembra affine al
vicino safaitico, e quindi va anch’essa considerata piuttosto strettamente
imparentata con l’arabo, anche se più lontanamente del safaitico.
v.“Thamudico”: anche questa categoria, basata su una associazione abbastanza
arbitraria con la tribù araba preislamica dei Thamud, citata anche nel Corano, è
fortemente convenzionale. Copre decine di migliaia iscrizioni, spesso molto brevi
e di difficile decifrazione, trovate in tutta la metà occidentale della penisola araba;
presenta una grande varietà ed irregolarità di forme delle lettere e una
considerevole profondità temporale (circa dal VI secolo a.C. al III d.C.) e
geografica (dalla Siria allo Yemen). Va considerato una classificazione di
comodo che non indica un gruppo coerente di forme grafiche o linguistiche. Sulla
base della forma della scrittura e della distribuzione geografica, il Thamudico è
stato diviso i vari sottogruppi convenzionalmente indicati da lettere (Thamudico
B, C, D e così via). Studi più approfonditi sono in corso per la conoscenza delle
diverse varietà attestate in queste iscrizioni, che presumibilmente riflettono tre o
quattro lingue diverse, presumibilmente tutte appartenenti al gruppo semitico
centrale.
vii. Haseo o Hasaitico o Hagarico: si riferisce a poche decine di iscrizioni
funerarie, provenienti dalla costa del Golfo Persico, scritte in alfabeto sabeo ma in
una lingua chiaramente diversa. È comunque decisamente distinto dal resto del
nord-arabico sul piano geografico ed epigrafico, ed apparentemente anche
linguistico. La classificazione linguistica rimane incerta; gli studi più recenti
sembrano indicare una branca distinta del semitico centrale.
34
L’area di sviluppo della civiltà sud-arabica con i principali siti noti, da Hoyland 2001.
Alberi e onde
Come ricordato sopra, diversi autori hanno proposto di abbandonare l’intera idea di classificazione
genealogica interna al gruppo semitico schematizzata qui sopra, per vedere invece nel semitico (se
non nell’afroasiatico) una successione di “onde” linguisticamente innovative che si diffondono da
un nucleo centrale presumibilmente nella steppa della Siria interna. Questo punto di vista, proposto
in particolare da Giovanni Garbini, non è inconciliabile con l’idea di Hetzron di un “semitico
centrale”, ma ne vede in modo diverso la “centralità”: non puramente geografica ma storica, come
“area innovativa” sul piano linguistico, e connessa a società di tipo nomadico (o comunque più
mobile) che da un centro d’irradiazione nell’area della steppa interna siriana (punto d’origine delle
35
migrazioni amorree ed aramaiche) diffonde innovazioni linguistiche su vari spazi vicini (non
esclusivamente, nella visione di Garbini, su quelli linguisticamente semitici, come detto sopra).
In realtà, come detto sopra, i modelli “ad albero” e “ad onde” di diffusione di caratteri linguistici,
specie in un’area geografica come il Medio Oriente caratterizzata da una vasta e continua
interazione interna documentata per millenni, sono da vedere come complementari e non esclusivi.
La posizione dell'arabo nel semitico
Il modello ad albero tradizionale e quello di Hetzron differiscono principalmente per la
classificazione dell’arabo (e delle varietà di nordarabico); nelle versioni modificate del modello di
Hetzron, questo vale anche per il “sayhadico”, che non va però per questo raggruppato assieme ad
arabo e nord-arabico.
L’arabo ha a lungo rappresentato un problema per i semitisti, a causa della sua posizione centrale a
livello sia geografico che di documentazione. Diverse caratteristiche dell’arabo appaiono “arcaiche”
o perlomeno conservative (ad esempio il sistema di casi e, in parte, i plurali fratti) e in effetti i primi
tentativi di ricostruzione del proto-semitico lo supponevano estremamente simile all’arabo classico.
Inoltre, nello schema tradizionale di classificazione genetica, l’arabo sembrava presentare
caratteristiche comuni sia al “semitico meridionale” che al “semitico nord-occidentale”.
Una migliore comprensione delle relazioni tra le lingue semitiche, l’arricchimento della
documentazione (in particolare di quella sud-arabica moderna, sayhadica ed etiosemitica, e ancora
più recentemente, nord-arabica) e il raffinamento delle metodologie di analisi linguistica hanno
portato una profonda revisione di questa immagine.
Attualmente c’è accordo sulla classificazione dell’arabo come una lingua semitica centrale che però,
anche per prossimità geografica, condivide con il “semitico meridionale” (etiopico e in misura
minore sud-arabico moderno) alcuni caratteri “conservativi” ereditati dal proto-semitico, che si sono
persi in altre lingue. Questo contribuirebbe a spiegare la compresenza di caratteristiche “arcaiche” e
di altre più innovative.
Sezione 4: L'arabo
L’arabo pre-islamico
La penisola araba prima dell’Islam presenta un panorama linguistico piuttosto variegato. Una
qualche documentazione scritta è disponibile per quasi tutte le zone della penisola dall’inizio del I
millennio a.C., (l’Oman è la principale eccezione; l’area sembra essere stata nella sfera d’influenza
politica e culturale della Mesopotamia e dell’Iran, e la pochissima documentazione scritta che vi è
stata trovata finora riflette le lingue di queste aree), ma varia molto per quantità e qualità.
In base alla documentazione attualmente disponibile, tre gruppi di varietà linguistiche semitiche
centrali, ben distinti tra loro, sembrano dominare: il “sayhadico”, le varie forme di “nordarabico” e,
ai confini con la Mezzaluna fertile verso nord, l’aramaico (specie nella sua variante nabatea).
L’antenato delle lingue sudarabiche moderne probabilmente era già parlato nel Dhofar e nelle aree
vicine (e forse in altre parti dell’attuale Oman), ma non ne esiste documentazione accertata.
36
Fino alle esplorazioni archeologiche in Arabia Saudita negli ultimissimi anni, le iscrizioni pre-
islamiche note che attestano l’arabo antico, se si esclude la documentazione safaitica ed hismaica,
erano all’incirca una dozzina. Negli ultimi anni, diverse ricerche hanno portato alla luce diverse
decine di nuove iscrizioni in diversi alfabeti, sia nel nord-ovest che nel sud-ovest della regione, ed è
probabile che le nostre conoscenze di queste fasi linguistiche cresceranno notevolmente in futuro.
Anche in questo caso, il quadro dato qui va considerato provvisorio.
La caratteristica distintiva fondamentale dell’arabo, nelle iscrizioni, era considerata la presenza
l’articolo determinativo alif+lam. Questo appare in nomi propri, attestati anche in epoca molto
antica, all’interno di iscrizioni in lingue diverse. Su questa base, la prima attestazione dell’”arabo”
era considerata quella del nome della divinità “Alilat” (da interpretarsi come una variante antica di
al-Lāt, “la Dea”) venerata dagli “Arabi” secondo Erodoto (quindi risalente al V secolo a.C.).
Attualmente la forma dell’articolo è considerata meno determinante, vista la varietà riscontrata
nelle diverse forme di nordarabico, e la possibilità che al fosse in origine una variante dell’articolo
determinativo più comune in safaitico, ha(n).
È importante ricordare che la penisola araba è area di antica e diffusa alfabetizzazione per oltre un
millennio e mezzo prima dell’Islam. La grande maggioranza delle iscrizioni pervenuteci sono
piuttosto povere di elementi linguistici – spesso consistono di una sola frase, a volte formulare – ma
il loro numero, nell’ordine delle decine se non centinaia di migliaia, non lascia dubbi sul fatto che la
scrittura alfabetica fosse di uso corrente tra le popolazioni della penisola, sia nomadi che sedentarie.
Si può ancora trovare riportato in manuali datati che l’iscrizione detta di Nemāra o di Imru al-Qays,
trovata nel sud della Siria e datata al 328 (o 332) d.C., sia il primo documento dell’arabo, come è
stato ritenuto a lungo. Negli ultimi decenni sono state trovate documentazioni più antiche;
l’iscrizione di En Avdat nel Negev, scoperta negli anni Ottanta, include due righe poetiche in arabo
(il resto del testo è in aramaico nabateo), e si pensa che possa risalire al I o al II secolo d.C.
Altri due testi in versi sono stati ritrovati in caratteri safaitici.
A Qaryat al-Faw, un importante centro carovaniero nell’Arabia Saudita meridionale, è stata trovata
l’iscrizione funeraria detta “di ‘Igl bin Haf’am” (nome del committente, fratello del defunto),
scoperta alla fine degli anni Settanta. Questa presenta ha pure importanti elementi linguistici in
comune con l’arabo, incluso l’articolo al (scritto l). Alcuni studiosi chiamano la varietà linguistica
documentata in questa iscrizione “qahtanico”, dal nome di una delle tribù arabe che sappiamo essere
state insediate nella regione di Qaryat al-Faw. Ne è stata proposta una data alla fine del I secolo
a.C., che ne farebbe il più antico testo “arabo” noto, ma è anche possibile una datazione più tarda,
verso il III secolo d.C. In ogni caso, il “qahtanico” non è più considerato una forma di arabo antico.
Altre possibili occorrenze dell’articolo al e altri elementi lessicali di tipo arabo si trovano in un
piccolo numero di iscrizioni dadanitiche, thamudene e nabatee, e in due iscrizioni madhabiche; i più
antichi di questi testi potrebbero risalire al III secolo a.C., anche se si tratta di datazioni dubbie. Più
che di testi “in arabo”, si dovrebbe parlare di testi che mostrano la presenza di “caratteri linguistici
arabi”.
Sembra che questi caratteri siano più comuni dopo il II-III secolo d.C., un’epoca in cui la penisola
araba appare aver attraversato mutamenti etnici, politici e sociali significativi, in parte, forse, come
conseguenza della conquista romana del regno nabateo.
Alcune fonti musulmane sembrano indicare che popolazioni di lingua araba, precedentemente
insediate in una parte della penisola (forse nel sud-ovest), si siano diffuse su un territorio più ampio.
Le iscrizioni trovate nel sud-ovest della penisola apparivano confermare quest’idea, ma oggi
37
sappiamo invece, sulla base della documentazione safaitica e sucessiva. che la regione più probabile
di formazione e diffusione dell’arabo, in cui si trova la documentazione più antica, è nell’area nord-
occidentale, circa la regione del regno nabateo e della provincia romana di Arabia.
Le prime documentazioni di forme linguistiche arabe (non contando il safaitico) pongono
generalmente difficili problemi di lettura e interpretazione, in parte a causa della scrittura
consonantica impiegata e delle gravi ambiguità della scrittura nabatea per rendere i suoni arabi per
quanto riguarda ‘En ‘Avdat e Nemara.
Un piccolo numero di iscrizioni in arabo provenienti dalla Giordania e dal sud della Siria, risalenti
al VI secolo d.C., sembra attestare gli inizi di una tradizione scritta, per quanto assai ridotta, in
lingua araba con l’uso di caratteri derivati da quelli nabatei; la più antica è quella di Zebed, datata al
512 d.C. Altre iscrizioni datate di questo tipo sono state trovate a Jabal Usays (528 d.C.) e Harran
(568) nel sud della Siria. Si tratta di una documentazione ridottissima, quasi tutta proveniente da
contesti cristiani.
Nell’estate del 2014 una missione archeologica francese ha annunciato il ritrovamento, sempre a
Qaryat al-Faw, di iscrizioni, databili alla fine del V secolo d.C. che attesterebbero il passaggio dalle
forme grafiche del nabateo (quelle che si hanno ad ‘En ‘Avdat e Nemara), a una fase antica della
scrittura araba. Ulteriori ritrovamenti analoghi sono stati fatti in seguito a Najran, presso il confine
tra Arabia Saudita e Yemen, e a Dumat al-Jandal.
Allo stato attuale, il seguente quadro generale appare il più plausibile, per quanto ancora da definire:
Tra le varietà linguistiche semitiche centrali, presumibilmente nel nord-ovest della penisola araba e
nelle regioni adiacenti, alcune possono essere definite linguisticamente “arabe”, e sono riflesse nella
documentazione (perlopiù in safaitico e forse hismaico, ma non nelle altre forme di “nordarabico”).
Queste varietà presentano una certa differenziazione, ma devono essersi diffuse in gran parte della
penisola, sostituendo o mescolandosi ad altre varietà (come quelle attestate dal “thamudico”?) forse
in epoca romana e tardoantica. Sembra probabile che esistesse un dialetto di prestigio in epoca pre-
islamica, usato per la poesia e, a quanto suggeriscono le scoperte recenti, associato alla attività
missionaria cristiana in epoca tardo-antica, che potrebbe averne agevolato la diffusione e la messa
per iscritto in un alfabeto derivato da quello dell’aramaico nabateo: le iscrizioni del quarto-quinto
secolo a Najran e dintorni sono associate alla presenza di monaci probabilmente provenienti dalla
ex provincia romana d’Arabia e sono scritte in un alfabeto intermedio tra il nabateo e l’arabo.
La scarsità di documentazione e la difficoltà di interpretare quella esistente (non c’è ad esempio
pieno consenso sulla lettura della più importante iscrizione preislamica, quella di Nemara, per
quanto sia certo che si tratti di una varietà linguistica vicina all’arabo classico) rende anche
problematico sapere quanto la forma linguistica di queste iscrizioni sia unitaria, e quanto rifletta
l’arabo classico codificato nel periodo islamico.
Sappiamo, anche sulla base di quanto attestato dagli autori musulmani, che le diverse comunità
arabe della penisola presentassero in epoca preislamica una certa diversità linguistica, in particolare
secondo una divisione est-ovest. La lingua comune e di prestigio, riflessa dalla poesia preislamica
(sulla cui autenticità sussiste comunque qualche dubbio), sembra essere stata basata in gran parte su
quella impiegata nell’Arabia centro-orientale; sono attestate, anche da osservazioni delle fonti
musulmani, differenze, rispetto all’uso linguistico dello Ḥijāz, in particolare nella fonetica. Un
riflesso di questa variazione è probabilmente l’ortografia della hamza, un suono che molto
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probabilmente non era pronunciato dalle tribù arabe nord-occidentali (incluse quelle dell’area della
Mecca).
Molte questioni riguardanti l’arabo pre-islamico, la sua diffusione e documentazione, il suo status
come lingua poetica di prestigio o come lingua parlata, il suo rapporto con l’arabo parlato e scritto
delle epoche successive, e anche alcune sue caratteristiche grammaticali fondamentali (ad esempio
il tanwin, di cui non sembra esserci evidenza chiara nelle iscrizioni più antiche, né in varietà nord-
arabiche affini), restano per il momento aperte ed oggetto di controversia.
La diffusione dell’arabo e le varietà neo-arabe parlate
Nella prima metà del settimo secolo, i gruppi parlanti arabo conoscono una straordinaria espansione.
Conquistano l’intera penisola araba, gran parte dell’Impero Romano d’Oriente, tutto l’impero
persiano sassanide, quasi tutta la Spagna visigota, e diversi altri territori. Questa serie di conquiste
avviene, a quanto risulta dalla grande maggioranza delle testimonianze storiche disponibili, nel
nome di una coesione comunitaria basata su un messaggio religioso – l’Islam.
Le conquiste portarono l’arabo su uno spazio immenso come lingua parlata, e su uno ancora più
grande come lingua della religione, della cultura, del governo, tramite l’Islam, il Corano e
l’estensione imperiale del Califfato. Ne risulta una tensione tra la spinta unitaria esercitata dallo
standard, e la varietà delle lingue locali.
Le origini dell’Islam, così come quelle della lingua araba classica alle quali appaiono strettamente
legate, sono oggetto di una discussione molto articolata tra gli studiosi contemporanei.
Possiamo dare per certi alcuni dei dati fondamentali dalla tradizione musulmana successiva: anche
tra gli studiosi più orientati alla critica e alla revisione, c’è consenso quasi generale che un profeta
di nome Muhammad abbia predicato un articolato messaggio di monoteismo nel nord-ovest della
penisola araba, e che questo messaggio sia stato redatto non molto tempo dopo la sua morte in un
corpo testuale in lingua araba, noto come Qur’an – il Corano. C’è però qualche motivo per pensare
che la fissazione del testo coranico sia stato un processo più lungo e più complesso di quello
presentato dalla corrente principale della tradizione musulmana.
Così come non c’è ragione di dubitare che la lingua araba possedesse un sistema di scrittura quasi
certamente derivato da quello nabateo, che i suoi parlanti avessero in linea di massima una
familiarità con la scrittura, e che esistesse un corpo letterario di poesia orale, di cui, seppure
attraverso trascrizioni di epoca islamica la cui autenticità è a volte dubbia, ci è giunta
documentazione.
Sappiamo che esistevano diverse varianti linguistiche dell’arabo, secondo i gruppi “tribali2 e le aree
geografiche; su questo le fonti musulmane e la critica moderna concordano. In particolare, c’è
ragione di ritenere che esistesse una differenza tra Est ed Ovest della penisola – col problema però
della quasi totale assenza di documentazione scritta preislamica per l’Est.
Il significato di questa variazione in rapporto alla successiva storia linguistica dell’arabo, tuttavia, è
profondamente controverso. Semplificando si può dire che esistano due punti di vista fondamentali
e contrapposti:
1) Il primo vede l’arabo classico, così come si forma in quanto lingua letteraria della poesia e
del Corano, ed è codificato dal pensiero linguistico arabo medievale, come una standardizzazione e
una cristallizzazione delle varietà, tutto sommato simili, parlate nella parte centrale della penisola
araba all’epoca di Muhammad e delle prime conquiste. Questo arabo sostanzialmente (anche se
39
certo non interamente) unitario si sarebbe frammentato, dopo le conquiste, in un gran numero di
forme parlate vernacolari, anche molto distanti tra loro e dalla lingua classica, in un processo
abbastanza simile a quello della formazione delle lingue neolatine. Questo punto di vista è
autorevolmente rappresentato oggi da Kees Versteegh.
2) Il secondo modello ritiene che la situazione di alta diversificazione della lingua parlata nota
nel mondo arabo odierno sia da applicare anche al periodo preislamico. Una varietà linguistica
specifica, già in uso nella poesia orale, sarebbe stata selezionata come lingua letteraria e religiosa,
ma non rappresentava già più il tipo linguistico parlato dalla maggioranza degli arabi, e non è quella
da cui derivano le forme parlate moderne. Questa posizione è articolata in modo dettagliato in
particolare nel recente lavoro di Jonathan Owens.
Esistono diverse sfumature possibili tra le due posizioni. In particolare, va ricordato che Owens
sottolinea sempre nel suo lavoro l’unitarietà sostanziale dell’arabo, sostenendo d’altra parte che una
comprensione complessiva della storia linguistica dell’arabo sia possibile sono considerandone la
documentazione nella sua interezza, e quindi attribuendo alla varietà classica scritta il ruolo di una
variante tra le altre.
In modo in un certo senso contro-intuitivo, è invece Versteegh a mettere in risalto la forte differenza
tra la lingua letteraria standard e le forme parlate. Versteegh teorizza infatti una cesura
relativamente brusca nella trasmissione della lingua in coincidenza delle conquiste, che avrebbe
portato ad una parziale creolizzazione, in seguito arrestata o anche invertita dalla pervasiva e
crescente influenza culturale della lingua standard.
Le varie forme parlate di arabo attuali non sono reciprocamente comprensibili e presentano
considerevoli differenze tra loro; tuttavia, la maggior parte di esse hanno dei tratti in comune che le
differenziano dall’arabo classico, come un ordine delle parole prevalente Soggetto-Verbo-Oggetto
anziché Verbo-Soggetto-Oggetto, l’assenza di declinazione dei casi, la diffusa presenza di prefissi
temporali nella coniugazione dei verbi, ecc…
La diglossia è la coesistenza in una comunità linguistica di due forme linguistiche connesse, ma
nettamente differenziate sul piano grammaticale, in condizioni di marcata differenza di prestigio
(normalmente, tra una lingua standard letteraria di alto prestigio e una madrelingua parlata). Il
termine è stato coniato per descrivere la situazione della Grecia moderna fino agli anni Settanta –
quando la varietà colta ufficiale, la katharevousa, fu ufficialmente abbandonata in favore della
lingua colloquiale, la demotiki. Il termine è stato poi impiegato per descrivere altre situazioni più o
meno analoghe – ad Haiti, nella Svizzera di lingua tedesca, nel mondo arabo.
Il caso arabo è particolarmente complesso – alla varietà standard, sostenuta da un prestigio immenso
di tipo letterario e religioso, non si contrappone un insieme omogeneo di varietà parlate, ma
numerose parlate piuttosto diverse tra loro, e anche di prestigio variabile. Ad esempio, le varietà
parlate nelle capitali dei singoli Stati arabi esercitano un’influenza su quelle, anche molto diverse,
del resto del territorio, per cui ad esempio il colloquiale “egiziano” è in realtà la forma del diletto
del Cairo delle classi colte.
Anziché parlare di una dicotomia tra lingua standard e lingua parlata, gli studi recenti mettono in
luce una gradazione di livelli e registri all’interno di un continuum; questi possono variare tra l’uso,
anche nello stesso discorso, di forme tipiche del parlato colloquiale locale, di quello di prestigio
locale o della lingua scritta, variabili a seconda del contesto comunicativo, della collocazione
40
sociale e dell’educazione dei parlanti, e della regione. In molte zone, particolarmente in Nordafrica,
il quadro è complicato dall’importante presenza nella società delle lingue coloniali (inglese e
francese). Infine va tenuto presente il ruolo crescente della scuola e dei media nel diffondere la
lingua standard, basata sull’arabo classico.
Va infine citata l’esistenza di quelle varietà scritte, attestate soprattutto in epoca post-classica e nella
produzione di ebrei e cristiani, tradizionalmente indicate con l’etichetta infelice di “medio-arabo”.
Il “medio-arabo” non è la documentazione di una fase linguistica cronologicamente o
socialmente intermedia tra l’arabo classico e i “dialetti” moderni, ma il risultato
dell’interferenza del parlato, o di una insufficiente padronanza della lingua scritta standardizzata,
così come descritta dalla tradizione grammaticale. in testi formalmente meno curati. I testi medio-
arabi presentano così iper-correttismi accanto a forme tipiche dell’arabo parlato.
41
PARTE II: IL PENSIERO LINGUISTICO ARABO
Sezione 1: Formazione storica della tradizione grammaticale araba
La riflessione sul linguaggio è un fatto comune nelle società umane, e in particolare in quelle dotate
di scrittura. Il linguaggio è una un elemento fondamentale nell’identità dei gruppi umani, strumento
e oggetto al tempo stesso di discorsi.
Sappiamo ad esempio che nell’antica Mesopotamia, la necessità per gli scribi di acquisire
familiarità con un sistema di scrittura complesso e con diversi sistemi linguistici ha prodotto
dapprima dizionari (o meglio, liste di parole ad uso di scribi-traduttori) e in seguito esercizi
standardizzati per le scuole scribali, in cui elementi della grammatica sumerica sono analizzati e
descritti. Questa tradizione di analisi linguistica sumero-babilonese non sembra aver lasciato una
eredità diretta alle culture successive. Sono conosciute tre grandi tradizioni autonome di pensiero
linguistico, che hanno lasciato in vario modo il segno sulla linguistica moderna: l’indiana, basata
sulla descrizione del sanscrito, la greco-latina, nata per codificare la grammatica greca (su cui si
fonda la descrizione di quella latina e che resta, pur con modifiche, la base dell’insegnamento
grammaticale delle lingue europee) e quella araba.
L’emergere storico del pensiero grammaticale arabo è circa un millennio successivo (e
geograficamente intermedio) rispetto alle altre due tradizioni. Questo ha indotto diversi studiosi a
cercare nell’influenza della tradizione grammaticale greca, o più raramente del pensiero linguistico
indiano, le radici storiche della sua nascita.
Ci sono buone ragioni per ritenere che alcuni elementi del pensiero linguistico greco (su quello
indiano, la questione è più controversa) possano essere confluiti nella tradizione grammaticale
araba. È inoltre notevole come la descrizione grammaticale dell’arabo ci appaia documentata, già
alla fine del secondo secolo dell’Egira (ottavo secolo d.C.) come un sistema piuttosto coerente e
organico sostenuto da una riflessione teorica. La rapidità con cui questo sistema si sviluppa è
eccezionale, e contribuisce a far pensare ad apporti dall’esterno. Tuttavia, proprio come sistema
concettuale nel suo insieme il pensiero linguistico arabo manifesta una pressoché completa
autonomia rispetto alle tradizioni greche ed indiane, indipendentemente dall’eventualità che alcuni
elementi di queste vi siano stati forse incorporati.
La tradizione araba medievale racconta le origini del pensiero linguistico e grammaticale attraverso
la contrapposizione di due scuole, quella di Baṣra e quella di Kufa, attive tra ottavo e nono secolo.
A partire dal nono secolo, il punto di vista “della scuola di Baṣra” sembra dominare l’intero
pensiero grammaticale. Della scuola di Kufa abbiamo scarsa documentazione; è improbabile che sia
esistita storicamente come gruppo unitario.
Versteegh afferma “it is true that the resulting differences of opinion were mainly concerned with
points of detail, and it is also true that the respective methods were not so different as they were
made out to be in reciprocal accusations” (Versteegh 1977: 111). Carter ha presentato la teoria
secondo la quale l’esistenza delle due scuole è un’idea creata a posteriori dai linguisti del decimo
42
secolo (vedi Ṣarf et Ḫilāf, contribution à l’histoire de la grammaire arabe). Così sintetizza Owens:
“ I think the reality is somewhere between these two positions, probably closer to Carter’s, though I
think a clarification will depend to a large degree on a more careful charting of the differences
between the two schools and their origins in the ninth century linguists themselves than has yet been
made” (Owens 1988: 9)
Sembra in generale che la tradizione grammaticale araba successiva attribuisca alla scuola di Kufa
riflessioni linguistiche meno sistematiche ed astratte di quelle della scuola di Baṣra, che riflettono
probabilmente la fase più antica dello sviluppo delle teorie grammaticali; la “scuola di Kufa”
sarebbe dunque orientata al commento linguistico e all’analisi del testo (in particolare del Corano)
mentre a quella “di Baṣra” si dovrebbe attribuire l’elaborazione di una teoria grammaticale ad un
livello più astratto, che dia conto del sistema linguistico del suo insieme (pur sempre però in
riferimento alle forme attestate da un definito corpo testuale).
Il ruolo della parola nella cultura arabo-islamica del Medioevo è assolutamente centrale; attraverso
di essa, nella riflessione islamica, Dio si manifesta agli esseri umani e fa conoscere la sua volontà,
attraverso di essa si trasmette la conoscenza.
I fondatori del pensiero linguistico arabo, tradizionalmente ascritti alla “scuola di Baṣra”, sono al-
Khalīl e il suo allievo, il grande Sībawayh (morto probabilmente nel 796 d.C.). La corrente
principale del pensiero grammaticale arabo si fonderà sull’opera di Sibawayh, il Kitāb (il “libro” per
eccellenza, per i grammatici). I grammatici successivi daranno alle sue intuizioni una sempre
maggiore sistematicità e coerenza intellettuale, anche grazie all’acquisizione degli strumenti teorici
della logica aristotelica.
Sibawayh si trasferisce a Baghdad, che diventa il centro dell’attività di elaborazione del pensiero
linguistico nei due secoli successivi; qui la distinzione, se mai vi era realmente stata, tra le scuole di
Basra e di Kufa si riduce, con l’affermarsi della “Scuola di Baghdad” basata sulle teorie attribuite
agli studiosi “di Basra”.
Una parte importante del lavoro della successiva tradizione grammaticale araba, a partire dall’ultima
parte del nono secolo, sarà quella di approfondire, sistematizzare e formalizzare le analisi di
Sibawayh, specialmente attraverso una definizione sempre più rigorosa della terminologia tecnica e
della teoria delle “cause” (‘ilal) e dei fondamenti (uṣūl) del sistema grammaticale.
In particolare, al-Mubarrad (m. 898) renderà popolare l’opera di Sibawayh attraverso il suo
insegnamento; si è sostenuto che siano stati i suoi discepoli a formalizzare canonicamente la
terminologia e le idee principali della “scuola di Baṣra” in una teoria sistematica.
Ibn al-Sarraj (m. 928) ha sviluppato gli uṣūl, i fondamenti teorici della grammatica, in un sistema
classificatorio e definitorio (parti del discorso, funzioni sintattiche, ecc…) formale nel suo Kitāb
alUṣūl.
La teoria delle ‘ilal viene sviluppata da al-Zajjājī (m. 951) sulla base del suo maestro Ibn al-Sarraj;
egli definisce tre livelli di “causa” o “spiegazione” di un fatto linguistico: didattiche (ta’līmiyya;
necessarie all’apprendimento della lingua corretta); analogiche (qiyāsiyya; che stabiliscono relazioni
di somiglianza tra le diverse parti del sistema per spiegare le apparenti irregolarità, ad esempio tra
nomi e verbi) e dialettico-speculative (jadaliyya wa naẓariyya; che ricercano al di fuori del sistema,
43
normalmente nell’equilibrio di “leggerezza” e “pesantezza”, la ragione ultima delle analogie del
secondo livello).
Dopo il grande lavoro di codificazione e teorizzazione del decimo e dell’undicesimo secolo, la
tradizione si consolida, diventando sempre più didattica e formalistica. Le grandi opere originali
vengono commentate (anche se i commentari possono spesso contenere idee originali), e con
l’eccezione di alcune importanti figure, le linee generali e le categorie d’analisi del pensiero
grammaticale arabo resteranno le basi dello studio della lingua fino all’epoca moderna.
Lessicografia
Accanto alla tradizione descrittiva ed esplicativa delle strutture del sistema linguistico (morfologia e
sintassi), che costituisce l’interesse primario dei grammatici arabo e fa riferimento a Sibawayh e alle
“scuole” di Basra e di Kufa, l’analisi linguistica dell’arabo comprende anche altri settori: la metrica, la
semantica, la retorica, la critica testuale e soprattutto la lessicografia.
Il padre della lessicografia araba è considerato al-Khalil (morto nel 791), il maestro di Sibawayh a Basra.
La sua opera principale è il Kitāb al-‘ayn. Si tratta di una immensa raccolta di lemmi, di cui viene
indicato il significato e l’uso corretto, sulla base del corpus del Corano, e, soprattutto, della tradizione
poetica e dell’uso vivo dei parlanti arabo “corretto” (Kalām al-‘Arab), vale a dire i beduini, in particolare
quelli dei gruppi dell’Arabia centrale il cui arabo era ritenuto “puro”. È interessante notare che in questo
testo, le parole siano ordinate per radici; differenza degli altri studi lessicografici dell’epoca, non si limita
a registrare parole singole e rare da preservare, ma tende a sistematizzare per radici l’intero lessico
attestato. A loro volta, le radici sono ordinate secondo le lettere che le compongono nelle loro varie
permutazioni; le lettere non sono poste in ordine alfabetico ma in ordine fonologico, cominciando da
quelle la cui radice contiene, in qualsiasi posizione, la ‘ayn, articolata al fondo della cavità orale, fino alla
mim, pronunciata con le labbra. Questo ordinamento rende però il Kitāb al-‘ayn di difficile
consultazione.
I grandi lessicografi successivi tuttavia adotteranno dopo il decimo secolo un sistema più semplice,
di ordine alfabetico dell’ultima radicale (l’ultima era rilevante per la formazione delle rime, uno
degli scopi per cui i dizionari venivano composti, ed era quindi comodo). Il ricchissimo patrimonio
della lingua araba letteraria, specialmente quella della poesia preislamica e del Corano, è così
trasmesso in alcuni grandi raccolte medievali e postclassiche, di solito fornendo esempi d’uso per le
singole parole.
La più celebre ed importante di queste raccolte è il Lisān al-‘Arab compilato da Ibn Manẓūr (m.
1311). La più recente è il Tāj al-‘arūs di al-Zabidi (tardo XVIII secolo). I dizionari moderni di
arabo classico, a cominciare da quello del Lane (English-Arabic Lexicon) si fondano su questo
lavoro di raccolta e sistemazione.
Sezione 2: Principi e meccanismi fondamentali
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Nella sua tradizione principale (quella attribuita alla “scuola di Basra”, anche se in effetti sviluppata
prevalentemente a Baghdad) la grammatica araba (naḥw) si compone di due parti principali, naḥw e
taṣrīf, traducibili rispettivamente come sintassi e morfologia. La sintassi è, in primo luogo, la
sintassi dei casi e dei modi, visti perlopiù come marche della funzione della parola nella struttura
della frase. Il taṣrif, che include anche una riflessione su quella che oggi chiameremmo fonologia, si
concentra invece sull’analisi del rapporto tra la radice tipicamente triconsonantica (jiḏr) e le varie
“forme” (wazn) che può assumere, elaborando in particolare regole e strategie per risalire allo
“scheletro” radicale di qualsiasi parola data (ištiqāq).
Un resoconto tradizionale, in diverse varianti, attribuisce la creazione del nahw a Abu al-Aswad al-
Du’ālī, un compagno del quarto califfo ‘Ali Ibn Abi Ṭālib, precisamente con l’intento di correggere
quegli errori nella pronuncia delle vocali finali (desinenze di caso) che alteravano il senso della
Parola coranica.
Probabilmente a causa della rapida perdita, già in parte attestata nel periodo preislamico, di queste
vocali marcanti il caso nella lingua parlata, in particolare nelle città di nuova fondazione
dell’impero islamico (come, appunto, Basra e Kufa) esse acquisiscono un ruolo centrale nella
percezione del lavoro del grammatico. Ad esempio, nel decimo secolo, il logico cristiano Yahya Ibn
‘Adi, nel suo breve trattato sulla differenza tra grammatica e logica, afferma che lo scopo della
grammatica sia semplicemente quello di assegnare alle parole la desinenza di caso corretto;
ovviamente si tratta di una tesi polemica.
In ogni caso, Sibawayh e soprattutto suoi successori fanno molto di più che elaborare un sistema per
attribuire la desinenza corretta ai sostantivi (e ai verbi nell’imperfetto). Essi costruiscono un sistema
teorico che idealmente descrive e spiega interamente il funzionamento della lingua araba, così
come attestata dalle fonti “affidabili” (Corano, poesia preislamica, varietà dei beduini) a partire da
un numero il più possibile limitato di regole astratte.
La parola viene anzitutto distinta in tre parti fondamentali del discorso: nome (ism) verbo (fi’l,
meglio traducibile con “azione”) e “particella” (ḥarf), una distinzione che potrebbe essere stata
influenzata da quella analoga in Aristotele. A queste parti principali e alle relative suddivisioni
minori sono assegnati diritti e doveri all’interno di una struttura gerarchica dei costituenti della
frase. Ad esempio, i nomi hanno “diritto” a ricevere una desinenza di caso o di modo, così come i
verbi “assimilati ai nomi” (mudari’) mentre i verbi o le particelle hanno il “dovere” di assegnare la
desinenza al nome che segue: in linea di massima, la forma reggente precede sempre la forma retta.
Questa è, in breve, la teoria della reggenza (‘amal); il principio essenziale che governa la teoria
sintattica araba.
Oltre che una gerarchia di diritti e doveri, la struttura delle forme linguistiche è analizzata attraverso
una corrispondente gerarchia di pesantezza, sia sintattica che fonologica (e quindi morfologica). Le
forme “pesanti” generalmente governano quelle leggere; l’armonia e la correttezza linguistiche si
ottengono attraverso l’alternanza di leggerezza e peso: ad esempio, le particelle sono ritenute
“pesanti”, il che ne autorizza l’elisione nello stato costrutto: nella teoria classica, un nome viene
visto come troppo “leggero” per assegnare il caso genitivo al nome successivo nella costruzione
dell’iḍāfa; su questo punto tuttavia non tutti i grammatici concordavano. Analogamente, nel taṣrīf,
l’elisione delle consonanti “deboli” dei verbi con radicali y e w è generalmente spiegata con la
necessità di evitare sequenze fonologiche “pesanti”.
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Il sistema fa ricorso a qualcosa di molto simile a quello che la linguistica generativa contemporanea
chiama “struttura soggiacente”: fondamento, aṣl, della frase (o della forma) reali. Si tratta di una
forma (o più) linguistica astratta che dovrebbe spiegare (di solito per analogia, qiyās) la forma reale.
Normalmente, le forme soggiacenti sono trasformate nelle forme reali attraverso l’applicazione
successiva di regole ben definite, la più importante delle quali è l’eliminazione dell’eccesso di
“pesantezza”.
Le funzioni sintattiche
Si considerino le seguenti frasi:
1) Ḍaraba Zaydun ‘Amran 2) Zaydun Ḍaraba ‘Amran 3) ‘Amran Ḍaraba Zaydun
In tutti e tre questi casi, la frase ha lo stesso significato: “Zayd ha colpito ‘Amr”. Tuttavia, la
tradizione grammaticale araba analizza queste frasi in modo molto diverso.
In 1), abbiamo una “frase verbale” (jumla fi’liyya, meglio traducibile forse come “frase d’azione”)
secondo l’ordine delle parole non marcato in arabo. In questo caso, l’azione (fi’l) è seguita da un
agente (fā’il) e da un complemento (maf’ul bihi) ai quali attribuisce rispettivamente il nominativo e
l’accusativo. Il fatto che l’agente segua l’azione ha fatto sì che la grammatica araba analizzasse le
desinenze personali del verbo al perfetto (Ḍarabtu, Ḍarabta, ecc…) non come parti della forma
verbale ma come forme particolari del pronome personale soggetto (che effettivamente sono, dal
punto di vista etimologico, in tutte le lingue semitiche occidentali).
In 2) non si ha invece una azione, ma una informazione sul conto di Zayd, che non è dunque più
l’agente ma l’elemento noto, il mubtada’ (“ciò da cui si inizia”). Questa è una frase nominale.
Ḍaraba ‘Amran è il khabar, la “notizia” che viene data in rapporto a Zayd. Il nome non può,
secondo la tradizione maggioritaria della grammatica araba, assegnare desinenze di caso. Secondo
Sibawayh, in frasi come questa l’assegnazione del nominativo a Zayd è determinata da un elemento
astratto, lo ibtida’, ovvero il fatto enunciativo di organizzare la frase a partire da un elemento noto
di cui si predica qualcosa. L’accusativo in ‘Amran non è ovviamente problematico, essendo
assegnato dall’azione. Nel caso in questione, infatti, il khabar della frase nominale è, a sua volta, da
analizzare come una frase verbale.
Questa distinzione grammaticale tra frase verbale e nominale non implica che i grammatici arabi
ignorassero il rapporto soggetto-predicato (isnād) così come lo conosciamo nella tradizione logico-
grammaticale di derivazione greca, né che la loro analisi fosse ancorata all’ordine superficiale delle
parole nella frase.
Infatti, in 3) abbiamo ancora una frase verbale: sebbene l’elemento iniziale sia un nome, esso non
è un mubtada’. Lo aṣl di questa frase sarebbe infatti Ḍaraba ‘Amran Ḍaraba Zaydun, in cui il
primo verbo viene eliminato perché ridondante o, nel linguaggio dei grammatici arabi, “pesante”.
Chiaramente, il complemento in prima posizione è comunque messo in evidenza; tuttavia, questa
scelta stilistica, anche se grammaticalmente corretta, non modifica la natura fondamentale della
frase. Per evidenziare (“topicalizzare”) ‘Amr come elemento noto, si direbbe infatti preferibilmente
così: ‘Amrun Ḍarabahu Zaydun in cui ‘Amr diventa il mubtada’ seguito da una frase verbale come
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khabar, in cui Zayd è l’agente; in questa frase verbale il pronome anaforico hu è necessario nella
funzione di maf’ul bihi.
Sezione 3: Grammatica e logica
All’incirca nello stesso periodo in cui prende forma la tradizione grammaticale, le società islamiche
si confrontano con un fenomeno culturale di immensa portata, il movimento di traduzione greco-
arabo. La scienza e la filosofia greche vengono raccolte e tradotte in modo sistematico, e
successivamente commentato e rielaborato, dando origine ad una rigogliosa tradizione di pensiero e
di dibattito filosofico in lingua araba (espresso da musulmani, cristiani, zoroastriani, ebrei…).
Questa tradizione di pensiero va sotto il nome di falsafa (filosofia) ma va ricordato che essa si
riferisce più ad una corrente di pensiero che fa riferimento a determinati testi (primariamente quelli
di Aristotele, e, in secondo luogo, Platone), piuttosto che a una disciplina o a una attività, anche se
certamente i filosofi arabi ritenevano che la loro pratica intellettuale contenesse anzitutto un metodo
di ricerca della verità e della felicità (che erano sentite come corrispondenti).
Questo metodo era fondato sulla logica aristotelica (manṭiq), che veniva vista come uno strumento
per articolare correttamente il pensiero. La logica fa uso di alcune categorie d’analisi, come quelle
di soggetto e di predicato, di tipo linguistico. Nella tradizione filosofica aristotelica lo studio del
linguaggio in quanto tale non ha un posto importante (la grammatica è in effetti una delle poche
discipline a cui Aristotele non abbia dedicato studi specifici); la logica fornisce uno strumento per
distinguere le affermazioni vere da quelle false, non quelle linguisticamente corrette da quelle
scorrette –come si potrebbe sostenere che faccia la grammatica.
Tuttavia, la logica in questi termini si poteva proporre come la via d’accesso ad un particolare tipo
di sapere – uno ottenuto attraverso un ragionamento individuale, teoricamente in modo indipendente
dalla conoscenza trasmessa linguisticamente, dunque dalla conoscenza condivisa in una comunità.
Una versione estrema di questa tensione si può vedere ad esempio nello Ḥayy Ibn Yaqẓān di Ibn
Ṭufayl, scritto intorno al 1170, in cui il protagonista, crescendo da solo su un’isola deserta, arriva a
comprendere razionalmente il mondo che lo circonda, senza far uso di nessun linguaggio.
La grammatica araba, d’altro canto, era essenziale per lo studio e la comprensione del Corano – era
il fondamento epistemologico del sistema “tradizionale” (nel senso letterale di “trasmesso”) dei
sapere, che includeva il diritto e la letteratura.
Nello stesso spazio conoscitivo, a Baghdad nel X secolo, grammatica e logica si trovarono dunque a
“competere” per il ruolo di sapere fondante il sistema delle conoscenze. Abbiamo il resoconto,
trasmessoci da Abū Ḥayyān al-Tawḥīdī, di un famoso “processo” alla logica tenutosi a Baghdad nel
932 o nel 938, tra il grande grammatico al-Sirafi e l’altrettanto celebre studioso di logica cristiano
Matta Abu Bishr. Nel resoconto che abbiamo, al-Sirafi riesce a confutare gli argomenti di Abu
Bishr; lo accusa di studiare la logica greca in traduzione, laddove quelle regole non possono essere
universali, ma di trascurare la proprietà dell’espressione nella sua propria lingua. Sirafi sostiene in
sostanza che i significati non debbano essere analizzati separatamente dalla forma linguistica, che
specifica per ogni lingua, e che la logica non sia altro che la grammatica del greco.
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Il dibattito tuttavia non si concluse. Due allievi di Abu Bishr, il cristiano Yahya ibn ‘Adi e il
musulmano al-Farabi, si interrogarono sul rapporto tra i due sistemi di pensiero. Entrambi
concordavano che la grammatica fosse lo studio del campo dell’espressione, mentre la logica
studiasse le strutture “universali” del pensiero indipendentemente dalla loro forma linguistica. Ma
mentre Yahya ibn Adi difendeva la supremazia della logica, riducendo il ruolo della grammatica
allo studio della correttezza formale delle desinenze dello i’rāb (un punto di vista decisamente
riduttivo) al-Farabi, nella sua Classificazione delle scienze cercò una posizione conciliante: collocò
le scienze del linguaggio al primo posto nella classificazione (basata su un ordine di progressione di
studi e su una gerarchia ascendente di merito), confermandole un ruolo fondativo, facendole seguire
immediatamente dalla logica (nella quale include la poetica).
Nello stesso periodo, i grammatici arabi incorporarono nella loro struttura teoretica, come abbiamo
visto sempre più astratta e formalizzata, diversi elementi della logica aristotelica, i cui fondamenti
diventeranno parte della loro formazione.
Sezione 4: Ibn Jinni, Ibn Mada, al-Gharnati
In questa sezione si discuterà brevemente di tre personalità importanti nella storia del pensiero
linguistico arabo, che in vari modi, si distaccano dalla sua corrente principale.
Ibn Jinni
Ibn Jinni (morto nel 1003) è uno dei personaggi più importanti e rappresentativi della grammatica
araba nel periodo successivo alla sua codificazione. La sua opera più importante sono le Ḫaṣā’iṣ, le
“particolarità” della lingua araba. La sua opera è informata dal senso della bellezza, dell’armonia,
della ricchezza uniche della lingua araba; nelle Ḫaṣā’iṣ cerca di mostrare come questa armonia si
manifesti in ogni aspetto o particolarità della lingua, come l’intero sistema si conformi ad un
generale equilibrio. In questo senso va vista la sua idea più originale, che, a differenza del resto del
suo lavoro, ha avuto pochissimo seguito nella tradizione grammaticale successiva: lo ištiqāq al-
kabīr o “grande etimologia”. L’ištiqāq nel pensiero grammaticale arabo è il processo di ricondurre
una forma alla propria radice tri- o quadri-littera. Ibn Jinni porta questo principio al livello della
struttura delle radici stesse e della loro composizione; tutte le parole derivanti da radici composte da
combinazioni delle stesse lettere (ad esempio ‘-B-R, B-R-‘, ‘-R-B e così via) possono essere
ricondotte ad uno stesso nucleo di significato. Il principio di combinazione era già stato impiegato
per ordinare i lemmi nel Kitāb al-‘ayn di al-Khalil, ma senza attribuirgli nessun valore rispetto al
significato delle parole.
Estendendo ulteriormente il principio, secondo Ibn Jinni un significato fondamentale in comune si
può individuare nelle radici che presentano una somiglianza fonetica, ad esempio avendo due lettere
in comune, o presentano lettere “sorelle” (foneticamente simili, ad esempio per luogo
d’articolazione come ‘-R-M e ‘-L-B). Il principio include una dimensione fonosimbolica. La
differenza di significato tra ḫaḍama (masticare qualcosa di fresco) e qaḍama (masticare qualcosa di
duro) si riflette nella diversa forza fonetica delle due prime radicali.
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In questo modo Ibn Jinni estende quanto più possibile l’analisi delle strutture di significato: ogni
porzione del sistema linguistico (potenzialmente ogni lettera radicale) è portatrice di significato in
relazione equilibrata e armonica con il resto del sistema, mostrando la meravigliosa armonia che fa
dell’arabo la lingua in cui la parola di Dio può essere espressa.
Ibn Maḍā’
Vissuto in Spagna alla fine del dodicesimo secolo, Ibn Maḍā’ rappresenta una eccezione nel
panorama del pensiero linguistico arabo per la sua critica radicale alla teoria grammaticale corrente,
in particolare alla teoria della reggenza. Ibn Maḍā’ aderiva alla scuola giuridica zahirita, secondo la
quale l’interpretazione del Corano debba attenersi al significato manifesto delle sue espressioni,
senza applicare ragionamenti umani come l’analogia (qiyas) o la ricerca di cause (‘ilal).
La negazione della validità delle cause è la base della critica di Ibn Maḍā’ alla teoria convenzionale
della reggenza, secondo cui alcuni elementi della struttura linguistica ne determinano altri (ad
esempio una particella assegna il caso ‘genitivo’ al nome che la segue). Era riconosciuto dalla
maggioranza dei grammatici che il sistema di reggenza fosse un costrutto teorico; vera “causa” della
forma linguistica è il parlante che lo usa.
Per lo zahirita Ibn Maḍā’ tuttavia non esistono “cause” all’infuori della volontà divina; solo Dio può
realmente agire, e quindi non è possibile che una costituente della frase agisca su un altro. La
prospettiva zahirita porta inoltre Ibn Maḍā’ a criticare l’idea delle strutture soggiacenti. La sola
forma linguistica reale è quella manifesta, e non ha senso, per lui cercare di “spiegarla” con delle
costruzioni teoriche.
Ibn Maḍā’ fa riferimento ad una visione dello studio del linguaggio come osservazione dei fatti
linguistici come sono enunciati dai parlanti (le “cause didattiche” di al-Zajjaji) senza speculare sulle
cause e le analogie; questo infatti potrebbe portare disaccordo e conflitto.
Il suo lavoro fu scarsamente considerato dai grammatici successivi, che continuarono a lavorare
lungo i binari consueti; ma fu stampato e riproposto nel 1947, nel contesto dei dibattiti
sull’insegnamento moderno della lingua araba, dove fu preso a modello dai sostenitori di una forte
semplificazione (tabsīṭ) dei metodi didattici che eliminasse complessità come la teoria della
reggenza.
Abū Ḥayyān al-Gharnātī
Abū Ḥayyān al-Gharnātī è uno dei pochi grammatici arabi che si sia interessato in modo sistematico
a lingue diverse dall’arabo. In generale, il pensiero grammaticale arabo si è concentrato sulla
formazione di un sistema descrittivo ed esplicativo che desse conto del funzionamento della lingua
araba classica in modo completo e coerente, dedicando modesta attenzione ad altre lingue. In
questo, non si differenzia dalle tradizioni grammaticali indiana e greco-latina prima del basso
Medioevo. Al pari di queste, tuttavia, fornisce gli strumenti concettuali per lo studio di altre lingue;
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nel Medioevo appaiono descrizioni della grammatica, dapprima dei volgari europei “periferici”
come l’anglo-sassone, l’irlandese e l’islandese, poi del provenzale, dell’italiano ecc…, basati sulla
teoria grammaticale greco-latina; in India la teoria grammaticale sanscrita viene utilizzata come
base per la tradizione grammaticale tamil, e poi per quella tibetana.
Allo stesso modo lo studio della grammatica ebraica, copta e siriaca si baseranno sistematicamente
sul pensiero linguistico arabo; tuttavia, i grammatici arabi perlopiù non si occuperanno di questi
sviluppi del loro lavoro adottati dai dotti ebrei o cristiani di lingua non araba.
Al-Gharnātī è tra i pochi che, dall’interno della tradizione grammaticale araba, ne applica i sistemi
descrittivi e le categorie al funzionamento di altre lingue. Ci è pervenuta la sua grammatica del
turco, ma sappiamo che ne scrisse altre. La sua descrizione del turco è notevole perché sembra
utilizzare una espansione della nozione di struttura soggiacente (aṣl) per poter applicare le
categorie descrittive arabe alla struttura profondamente diversa del turco.
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PARTE III: SCRITTURA, PALEOGRAFIA E CALLIGRAFIA
Sezione 1: Evoluzione e tipologia della scrittura
La scrittura è una tecnologia che rende la parola visibile. La parola scritta, visibile, è accessibile al
di fuori dell’ordinaria dimensione temporale del discorso orale, attraverso un mezzo diverso da
quello uditivo. Per ciò stesso, la scrittura rappresenta un salto cognitivo. La presenza della scrittura
rende accessibile al futuro la forma linguistica del passato, ed è per questo che tradizionalmente si
parla di storia laddove la scrittura sia presente; malgrado ciò, diversi indirizzi di ricerca negli ultimi
decenni hanno ampliato il campo d’indagine della storia in ambiti laddove la scrittura non opera, o
perlomeno non è in grado di documentare il passato. Si tenga comunque presente che scrittura e
oralità presentano un rapporto complesso e sfaccettato, profondamente variabile a seconda delle
diverse società; malgrado l’immenso numero di iscrizioni nord-arabiche faccia pensare ad una
società di diffusa alfabetizzazione, non ci è arrivato quasi alcun indizio che la letteratura o l’attività
giuridica impiegassero normalmente un mezzo scritto in quella società.
In realtà, la storia dell’evoluzione e della diffusione della scrittura presenta diversi “salti” cognitivi,
collegati a innovazioni anche radicali nei vari aspetti della tecnologia della scrittura, che possono
essere riassunti così:
- Invenzione della scrittura: sembra essere avvenuta indipendentemente in Mesopotamia ed
Egitto nel IV millennio a.C., in Cina e in Mesoamerica probabilmente verso la seconda metà del II
millennio a.C. Non c’è certezza riguardo altre invenzioni pienamente indipendenti di sistemi
glottografici di scrittura.
- Segmentazione alfabetica: per quello che ne sa oggi, l’alfabeto è stato inventato
indipendentemente una sola volta, nel Levante o in Egitto, attorno alla metà II millennio a.C. o poco
prima; esso contribuisce ai grandi cambiamenti intellettuali della cosiddetta «Età assiale», alla metà
I millennio a.C., nel corso della quale l’uso della scrittura alfabetica sembra diffondersi in modo
considerevole.
- Altri “salti” accrescono considerevolmente la disponibilità della scrittura nelle società:
l’invenzione della carta in Cina, nel II sec. d.C. e il suo arrivo in Medio Oriente nel VIII sec. d.C;
l’evoluzione della stampa, sempre in Cina, nel I millennio d.C., e della stampa a caratteri mobili,
in Europa occidentale, XV sec. d.C.
- In questi anni stiamo vivendo un nuovo salto: l’arrivo nella società dei mezzi di
comunicazione e di scrittura basati sull’informatica sembra cambiare in modo fondamentale le
modalità di disseminazione della conoscenza.
Tipi di scrittura
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Si offre qui una classificazione delle principali tipologie di scrittura esistenti.
Pre-scrittura e Proto-scrittura
• Semasiografie (lettera jukaghira; cartelli stradali)
Questa lettera è stata incisa su una corteccia di betulla da una donna della popolazione
siberiana degli Jukaghiri. Rappresenta un messaggio al suo amato, che è andato a vivere con
una donna russa. Il messaggio è un esempio complesso di semasiografia; non rappresenta
una forma linguistica, e sarebbe incomprensibile da solo perché non è redatto in un codice
condiviso.
• Pittogrammi.
La scrittura vera e propria (glottografia) è la rappresentazione del linguaggio attraverso segni
grafici.
Una classificazione dei sistemi di scrittura storici potrebbe essere fornita così:
• Logografie in cui un carattere indica ordinariamente una parola.
• Sistemi logosillabici (cuneiforme, maya, giapponese) e logoconsonantici (egizio) in cui un
carattere indica una parola o una sillaba; in egizio, il carattere indica o una parola, o una più
consonanti. In questi sistemi esistono anche caratteri (determinativi) che aiutano a
disambiguare quelli che li seguono o precedono, senza avere lettura propria.
• «Ideogrammi» (characteristica universalis di Leibniz)
• Sillabari (Cherokee, cipriota antico; i segni che indicano le diverse sillabe non sono
connessi tra loro)
• Alfabeti consonantici (abjad; fenicio, ebraico, aramaico…)
• Alfasillabari (abugida; etiopico, la maggior parte delle scritture dell’India, antico iberico;
sembrano tutti evoluzioni degli alfabeti consonantici, in cui specifiche modificazioni del
segno consonantico ne indicano la vocale; di conseguenza ogni segno rappresenta una
sillaba, ma ne riflette la composizione di vocale+consonante, come farebbe un alfabeto)
• Alfabeti in senso stretto, dotati di distinti segni per i segmenti consonantici e vocalici
(greco, latino, cirillico, armeno…)
• Scritture per tratti (featural script; coreano; i segni per i segmenti sono composti
approssimativamente in base ai tratti fonetici – sordo, sonoro, dentale, labiale, ecc… - che li
caratterizzano; possono essere considerati in un certo senso un caso particolare di alfabeto.)
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Nei sistemi logografici ogni segno corrisponde in linea di massima ad una parola (o a un morfema),
come accadeva in linea di massima nei caratteri cinesi; Molti sistemi logografici sono però, fin dalle
origini, misti; contengono una quota importante di segni che hanno, almeno in certi contesti, valore
per il proprio suono, comunemente una sillaba (nel caso dei geroglifici, una o più consonanti). In
generale, questi sistemi misti si evolvono da notazioni più semplici, spesso di tipo pittografico, in
vere e proprie glottografie introducendo una qualche variante del principio del rebus. In passato
questo accadeva anche ai caratteri cinesi, anche se in seguito il sistema si è evoluto perdendo la
trasparenza dell’elemento significativo sul piano del suono.
Nessun sistema storicamente attestato è propriamente definibile come “ideografico”, nel senso di
marcare graficamente le idee indipendentemente dalle parole usate per esprimerle. Tuttavia,
tentativi di elaborare sistemi del genere furono comuni in Europa, specialmente nel diciassettesimo
secolo, anche per l’influenza di un malinteso in merito alla natura dei caratteri cinesi (che tuttora
sono infatti spesso erroneamente definiti “ideogrammi”). Questi sistemi, chiamati pasigrafie o
caratteristiche universali intendevano superare l’ambiguità strutturale dei linguaggi naturali e
fornire uno strumento per pensare chiaramente; non ebbero mai largo uso, ma il lavoro svolto su di
essi anticipa, per alcuni aspetti, i sistemi molto più limitati di codificazione usati in seguito nella
logica simbolica e in alcuni campi della matematica e della programmazione informatica.
Sezione 2: L’evoluzione dell’alfabeto
Furono le popolazioni di lingua semitica della regione nota allora come Canaan e delle sue
immediate vicinanze ad ideare la segmentazione del linguaggio scritto attraverso un sistema di
poche decine di segni, corrispondenti in generale al repertorio fonetico della lingua, anche se
dapprima notando solo i segmenti consonantici. L’economicità e la relativa semplicità di questo
sistema ne fa un cambiamento di portata rivoluzionaria rispetto ai precedenti sistemi in uso nella
regione, di tipo logosillabico e logoconsonantico provenienti da Mesopotamia ed Egitto, che
implicavano la conoscenza di centinaia di segni e di regole ortografiche articolate.
Il peso ed il prestigio delle tradizioni amministrative e rituali legate alle scritture geroglifica e
cuneiforme, patrimonio di consolidate scuole scribali, fecero comunque sì che i sistemi alfabetici
rimanessero relativamente marginali per molti secoli. La grande maggioranza della popolazione del
Vicino Oriente, composta da contadini, è stata a lungo illetterata, sebbene l’uso del cuneiforme non
fosse certamente limitato solo ai circoli scribali e di corte, almeno in Mesopotamia; molto minore
doveva essere la sua diffusione in altre aree, come l’Asia Minore. C’è ragione di credere comunque
che l’alfabeto abbia consentito una penetrazione sociale della scrittura assai più profonda di quanto
fosse possibile in precedenza, e un suo maggior distacco dai sistemi istituzionali (templi e palazzi
reali coi loro archivi e le annesse scuole) in cui era stata, sembra, originariamente creata. La grande
maggioranza degli studiosi tende a considerare come prima forma di scrittura alfabetica
documentata quella proto-sinaitica. Questa scrittura è testimoniata da un certo numero di graffiti,
trovati in un tempio presso le antiche miniere di turchese di Serabit al-Khadim nel Sinai, databili
attorno alla metà del II millennio a.C.
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Segni simili sono stati trovati in due brevi iscrizioni a Wadi el-Hol in Egitto, probabilmente risalenti
al diciannovesimo secolo a.C. La decifrazione del proto-sinaitico è ancora discussa e parziale, ma
da tempo la maggioranza degli esperti ritiene che si tratti di segni adattati dal geroglifico (più
precisamente dalla sua forma stilizzata, lo ieratico) letti secondo pronuncia del loro significato
logografico in una lingua semitica molto simile al cananaico.
Il primo suono di questa parola avrebbe fornito il suono indicato dalla lettera. Ad esempio il
carattere indicante una casa stilizzata, letto normalmente per in egizio, sarebbe stato reso con bet, la
parola cananaica per “casa” o “tenda” (cfr. arabo bayt) e usato per indicare il suono consonantico
/b/. Questo principio è detto acrofonia.
Sono documentati contatti intensi tra l’Egitto del Medio Regno e del Secondo periodo intermedio e
la regione di Canaan, dove si doveva parlare una forma arcaica di cananaico. Questa era dunque
probabilmente la lingua dei minatori di Serabit al-Khadim.
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Una delle due iscrizioni “proto-alfabetiche” di Wadi el-Hol
I nomi di molte lettere ebraiche o etiopiche (questi ultimi documentati molto tardi) sembrano
avvalorare questa lettura acrofonica, che ha permesso la decifrazione di una parte dei graffiti come
dediche religiose per gli ex-voto dei minatori; ma è importare ricordare che si tratta di una
ricostruzione basata su documentazione indiretta, e che non conosciamo i nomi “proto-sinaitici”
delle lettere, se esistevano. Quelli elencati, con la traduzione inglese nell’immagine qui sotto sono
una ricostruzione.
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La prima scrittura alfabetica per cui si disponga di un corpo testuale consistente e di una
decifrazione sostanzialmente certa è quella delle tavolette trovate a Ras Shamra in Siria, l’antica
Ugarit, dal 1929, databili tra il 1400 e il 1200 a.C. circa.
56
schema dell’alfabeto ugaritico
La scrittura ugaritica è nota in due versioni leggermente diverse (una trovata nella città di Ugarit e
una soprattutto nella regione circostante). Formalmente tratta di una scrittura cuneiforme, incisa su
tavolette d’argilla. L’ordine alfabetico è noto da diverse liste; anch’esso è un due versioni, che
corrispondono all’incirca a quelli documentati in seguito rispettivamente per il fenicio e l’ebraico da
un lato, e il sud-arabico e nord-arabico dall’altro.
Anche le forme di alcune lettere sembrano riflettere una relazione tra la scrittura ugaritica e quella
degli alfabeti detti “lineari” rappresentati dal successivo fenicio, ma già sporadicamente attestati in
Levante alla stessa epoca delle tavolette ugaritiche, e che si suppone siano una evoluzione del tipo
di scrittura documentato dai graffiti proto-sinaitici.
L’ugaritico sembra essere stato il prodotto di una sofisticata tradizione scribale legata alla corte e ai
templi del regno, anche se forse non limitata ad esso. Dopo la distruzione violenta della città alla
fine dell'Età del bronzo, ad opera dei “Popoli del Mare”, datata di solito al 1178 a.C., l’alfabeto
cuneiforme di Ugarit scompare.
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L’alfabeto “lineare” invece mantiene il suo uso, che si deve presumere essere stato prevalentemente
informale e su materiale deperibile, meno connesso con le strutture centralizzate dei templi e dei
palazzi (che entrano in crisi alla fine dell’Età del Bronzo). Le sue attestazioni si fanno più numerose
e più estese nello spazio a cavallo del I millennio a.C., presentando due tradizioni chiaramente
distinte: una, con 22 lettere, si afferma nell’area semitica nord-occidentale, con l’alfabeto delle
iscrizioni “proto-cananee” e le prime attestazioni di quello fenicio; l’altra, con 29 o 28 lettere, si
diffonde nella penisola araba, sviluppandosi nelle scritture nord-arabica e sud-arabica (nelle
versioni monumentale, detta musnad e corsiva, detta zabur). Ciascuna tradizione preserva un
proprio ordine alfabetico, corrispondenti anche se non identici ai due attestati in ugaritico: quella
semitica nord-occidentale ha l’ordine ʼbgd, quella arabica l’ordine hlmḥ.
Alfabeto fenicio in una forma standardizzata. I nomi delle lettere sono basati su quelli ebraici, le traduzioni incerte, la
trascrizione fonetica è ricostruita.
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Esempi di varie scritture nord-arabiche. Si noti che lo hasaitico è basato sul musnad sud-arabico, a differenza degli altri
tipi, di tradizione nord-arabica.
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L’iscrizione funeraria di ‘Igl bin Haf’am, da Qaryat al-Faw, in caratteri sudarabici monumentali musnad
La scrittura lineare cananea si diffonde e si diversifica nell’Età del Ferro; è usata nelle città-stato
fenicie, la cui attività commerciale e coloniale nel Mediterraneo la porta in Nordafrica, in Sicilia, in
Spagna. Una forma leggermente diversa è impiegata in Palestina, dove si sviluppa nella più antica
scrittura ebraica, ancora oggi usata dalle comunità samaritane. Infine, è adottata negli stati di lingua
aramaica della Siria interna, dove si evolverà nei diversi alfabeti aramaici ed in quelli, come l’arabo
e l’ebraico classico e moderno, che ne derivano.
La tradizione greca attribuisce ai “Fenici” l’introduzione dell’alfabeto in Grecia; qui diversi segni,
che indicavano suoni consonantici assenti in greco, sono reimpiegati per segnare le vocali greche,
producendo una delle prime scritture pienamente alfabetiche.
Le iscrizioni fenicie ed aramaiche antiche sono poche numerose.
Quelle aramaiche appaiono riflettere un impiego dell’alfabeto principalmente su materiali deperibili,
che facilita l’evoluzione nel corso dei secoli di grafie “corsive” con frequenti legature tra le lettere
(uno sviluppo parallelo avrà la scrittura punica, cioè il fenicio usato nella regione di Cartagine).
L’affermazione dell’aramaico come lingua franca del Medio Oriente sotto gli imperi assiro e
persiano, seguito la diversificazione delle sue varietà locali porta all’affermarsi di numerose varianti
del relativo alfabeto; una di queste viene probabilmente adottata dagli Ebrei a Babilonia e va a
sostituire gradualmente quella antico-ebraica, fino a diventare l’alfabeto ebraico medievale e
moderno. La scrittura aramaica viene adattata a scrivere il persiano, e si ritiene, per quanto la
questione sia ancora poco chiara, che attraverso l’Impero Persiano sia giunta in India, dove è stata
profondamente rielaborata per esprimere le lingue locali attraverso un sistema alfasillabico.
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Altre forme di aramaico hanno evoluzioni parallele, a Hatra, a Palmira, a Edessa e nel regno
nabateo; tutte tendono generalmente a forme con numerose legature, che a volte oscurano le
distinzioni tra le lettere; la scrittura aramaica palmirena potrebbe essere all’origine di quella siriaca
elaborata ad Edessa, dopo il III secolo d.C., in cui cominciano apparire punti diacritici per
distinguere lettere diventate identiche.
Esempi di scrittura nabatea, da M. Macdonald, «Languages, Scripts and the Uses of Writing among the Nabateans»
L’alfabeto nabateo rimane in uso nell’Arabia settentrionale dopo la conquista romana del regno
nabateo nel 107 d.C. Nel IV secolo d.C., mentre sembra sempre più raro l’impiego delle scritture
nord-arabiche, esso comincia ad essere utilizzato sporadicamente per scrivere l’arabo, come
testimoniato dall’iscrizione di Nemāra del 328 d.C.
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L’iscrizione di Nemāra in caratteri nabatei, uno dei primi esempi certi di lingua araba.
La tendenza corsiva alle legature e alla confusione tra le lettere sembra accentuarsi nelle pochissime
attestazioni della scrittura “nabateo-araba” di questo periodo, in modo parallelo a quanto accade alle
scritture siriache. Questo alfabeto doveva essere “in crisi” quando prende forma la scrittura che
diventerà araba.
La tradizione islamica ne attribuisce lo sviluppo all’ambiente della corte lakhmide di al-Hira
sull’Eufrate, uno stato arabo dipendente dall’impero sasanide di Persia; Michael Macdonald ritiene,
pur in assenza di prove conclusive, che ci sia un nucleo di verità in questa collocazione, ma le
recenti scoperte a Qaryat al-Faw e nella regione di Najran potrebbero modificare il quadro.
La tradizione islamica riporta l’ideazione dell’alfabeto arabo sulla base di quello siriaco; diversi
studiosi moderni hanno ripreso e sviluppato questa ipotesi, ma il consenso contemporaneo è che la
scrittura araba derivi direttamente da quella nabatea, con solo la forma di alcune lettere forse
influenzata da quella siriaca.
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Riproduzione dell’iscrizione preislamica di Umm al-Jimal e di quella islamica (anno 24 dell’Egira) di Zuhayr, da
Ghabban 2001.
Comparazione delle forme delle lettere in iscrizioni e papiri arabi del VII secolo, da Gruendler 1993.
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L’avvento dell’Islam porta alla diffusione e alla trasformazione della scrittura araba; da ausilio
mnemonico di uso relativamente raro, in mezzo d’espressione della Rivelazione divina e, ben
presto, dell’amministrazione di un vasto impero. Questa trasformazione comincia molto presto,
come attestato dai papiri e dall’uso, anche se ancora non sistematico, dei punti diacritici (già
presenti in siriaco e occasionalmente in nabateo) nell’iscrizione di Zuhayr; un momento importante
di questo processo sembra essere stato il regno del califfo Umayyade ‘Abd al-Malik, a cui risale la
monetazione con legende in arabo, e l’iscrizione coranica della Cupola della Roccia a
Gerusalemme, una delle più antiche testimonianze scritte del testo coranico di datazione certa (le
forme delle lettere di questa iscrizione sono le terzo dall’alto nella tavola qui sopra); solo di recente
la datazione al carbonio 14 di alcuni manoscritti coranici ha permesso di attribuire alcuni testi ad un
periodo molto probabilmente precedente, confutando tra l’altro quelle teorie “revisioniste” radicali
che collocavano la composizione del Corano nell’ottavo secolo se non più tardi, come suggerito
negli anni Settanta da John Wansbrough.
La forma grafica della parola è assunta in epoca islamica come mezzo centrale della sua
manifestazione; sebbene l’oralità mantenga un ruolo importante nella trasmissione del sapere, nei
primi secoli dell’Islam, e specie a partire dal periodo abbaside (che coincide con l’introduzione
della carta) il mondo arabo-musulmano diventa una società letterata, in cui la scrittura è un deposito
di valori culturali ed estetici. Si standardizza l’uso dei punti diacritici; si codificano gli stili di
scrittura a mano per libri, documenti, iscrizioni pubbliche; si diffondono forme specifiche di codice,
a volte autentiche opere d’arte; si definisce il sistema di notazione delle vocali lunghe, già spesso
indicate dalle consonanti omorganiche (matres lectionis: solitamente ʼ,h,y,w) in ebraico e in varie
tradizioni aramaiche; si costituisce, in parallelo agli inizi della tradizione grammaticale, la codifica
delle vocali brevi con segni aggiuntivi, anche qui seguendo una pratica che ha paralleli in ebraico e
in siriaco. La più antica scrittura a mano islamica è un “corsivo” detto ḥijāzī; la si trova nei primi
manoscritti, alcuni dei quali attribuibili al VII secolo.
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Esempio di scrittura ḥijāzī.
In questo stesso periodo è attestata una scrittura “monumentale”, detta generalmente “cufica”, di cui
la Cupola della Roccia è appunto un esempio precoce. Il cufico può essere caratterizzato da forme
angolose, ben distinte tra loro, e linee di spessore costante; tuttavia questo termine copre una varietà
di forme grafiche ed è difficile da ricondurre ad un tipo unico.
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Ad esso sembra collegarsi il corsivo abbaside, detto a volte “semi-cufico” tipico dei documenti di
cancelleria tra ottavo e nono secolo. Eccone un esempio (si noti la forma ormai moderna dei punti
diacritici e della vocalizzazione):
Questa è una forma di transizione con le cosiddette “scritture proporzionate” che appaiono e sono
codificate specialmente nel corso del decimo secolo, ad opera dei primi grandi calligrafi/artisti
professionali. La loro prima sistematizzazione è attribuita al “riformatore” Ibn Muqla (m. 940). Ibn
al-Bawwāb (m. 1022) è considerato il massimo interprete dell’arte calligrafica di questo tipo. La
tradizione fisserà nel numero di sei queste tipologie di scrittura canoniche, spesso raggruppate in
coppie:
1) Nasḫ (l’esempio proviene dal celebre Corano di Ibn al-Bawwāb) È quella diventerà la scrittura
“standard” dell’arabo, anche nella stampa:
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4) Riqā‘:
5) Muḥaqqaq (si noti ne riquadro rosso in figura il tratto in alto a destra della lam e della alif, detto
tarwīsh; questo è presente in numerosi stili calligrafici di scrittura “proporzionata”)
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6) Rayḥān, è classificata come il modulo “ridotto” del muhaqqaq:
Dall’undicesimo secolo il mondo musulmano conosce processi di regionalizzazione, associati alla
perdita di potere e in seguito alla distruzione (ad opera dei Mongoli, nel 1258) del Califfato
abbaside di Baghdad. Se già nel decimo secolo città come Bukhara, Il Cairo e Cordova possono
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proporsi come centri culturali alternativi a Baghdad, questo processo diventa in seguito assai più
accentuato, in particolare in epoca mongola. È inoltre sempre più a partire da questo periodo che
l’alfabeto arabo viene adattato a scrivere comunemente altre lingue, anzitutto il persiano (prime
manifestazioni già alla fine del nono secolo) e più tardi il turco, numerose lingue dell’India, il
kurdo, il berbero, lo hausa, il malese, lo swahili, ecc…
Si formano così, circa a partire dal dodicesimo secolo, stili calligrafici regionali, associati a specifici
territori o a particolari corti: ad esempio le scritture Maghribi, Andalusi, ‘Ajami (nell’Africa
saheliana), Bihari (in India).
Vale la pena di citare gli stili nelle regioni centrali del Medio Oriente, specialmente in Iran, dove
opera il grande calligrafo Yāqūt al-Musta‘ṣimī (m. 1298) ultimo grande codificatore delle sei
scritture “proprozionate”.
Nel XIII secolo prende piede uno stile rapido di scrittura cancelleresca ornata e curvilinea detto
ta’līq (sospeso) per il suo tipico andamento obliquo; da questo si evolverà, in particolare per i
documenti ufficiali dello stato ottomano, la dīwānī, la scrittura “di corte”, caratterizzata da elaborate
legature.
Nel corso del XIV secolo prende piede nelle scuole calligrafiche dell’Iran occidentale (Tabriz ed
Isfahan in particolare) la caratteristica grafia nasta’līq (da naskh-e ta’līq, cioè “naskh sospeso”; qui
sotto un esempio) un’elaborata evoluzione del naskh usato in particolare nella poesia persiana. Da
essi si svilupperà più tardi la shekaste, la scrittura “spezzata”, rapida e corsiva, che caratterizza la
scrittura persiana a mano in età moderna.
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PARTE IV: LINGUAGGIO E NAZIONALISMO
Il racconto di un’autoctonia esclusiva, ossia di un’identità potenzialmente assassina.
Marcel Detienne
Sezione 1: Nazionalismo e linguaggio
Il concetto di “nazione” segna in modo fondamentale la storia degli ultimi secoli ed è uno degli
elementi centrali della modernità. È difficile fornire una definizione adeguata di “nazione”, ma vale
la pena di richiamare quella offerta da Ernest Renan: “Un plebiscite de tous le jours”, un plebiscito
quotidiano. Questa definizione riflette una concezione “civica” dell’appartenenza nazionale, tipica
delle tradizioni politiche francesi successive alla rivoluzione, che mette al centro la partecipazione
del cittadino alla vita pubblica e dunque la dimensione di adesione consapevole alla vita nazionale.
A questa concezione se ne contrappone un’altra, tipicamente associata ai pensatori di area tedesca, e
attribuibile per certi aspetti a Herder, che vede invece nell’appartenenza alla nazione un dato
primario dell’identità definito dalla nascita, dalla terra, dalla lingua prima e al di sopra della
partecipazione politica o dell’esistenza stessa di uno Stato.
Questa differenza contrassegna il dibattito pubblico europeo per buona parte dei secoli
diciannovesimo e ventesimo; in circostanze e modi molti diversi, essa è rilevante ancora oggi, ad
esempio, nei dibattiti sulla cittadinanza e sull’adozione dello ius soli al posto dello ius sanguinis.
Parallelamente, vi è una distinzione tra gli studiosi “modernisti” e “primordialisti”, quelli cioè che
concepiscono la nazione come una creazione “artificiale” della modernità, come Eric Hobsbawm o
Benedict Anderson, e quelli che mettono invece l’accento sui sentimenti di comunità e solidarietà
politica che “fondano” simbolicamente la nazione nel sentire comune, e che sarebbero connessi ad
un senso di appartenenza “originario” ed essenzialmente spontaneo. Una versione moderata di
questo punto di vista è stata autorevolmente sostenuta da Anthony Smith.
È chiaro che nelle formazioni nazionali esista un certo grado di artificialità; esse sono costruite, a
partire da uno Stato o da una ideologia di mobilitazione che, normalmente, aspira a farsi Stato.
Tuttavia, è anche vero che la comunità nazionale può avere una esistenza al di fuori della struttura
statale, strutturandosi intorno a simboli ed elementi condivisi.
Tra questi, il linguaggio è un fattore significativo. I nazionalismi europei del diciannovesimo secolo
enfatizzano il ruolo della lingua (normalmente nella sua varietà letteraria) come manifestazione, e al
tempo stesso come base, della solidarietà tra i membri di una nazione e come caratteristica distintiva
essenziale della comunità nazionale; come nota correttamente Benedict Anderson, tuttavia, questo
non è altrettanto valido per i contemporanei nazionalismi del continente americano, presso i quali la
lingua non costituiva un fattore distintivo importante (sebbene vi siano stati tentativi di definire una
“lingua americana” o di adattare l’ortografia dello spagnolo alle pronunce locali del Sudamerica, il
successo di queste operazioni è stato limitato).
Esiste in effetti una considerevole varietà nei modi con cui i diversi movimenti nazionali hanno
approcciato le questioni linguistiche. Si possono comunque individuare alcune tendenze di fondo,
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con l’avvertenza che non esauriscono la complessità dei discorsi sul rapporto tra comunità nazionale
e lingua, o lingue, presenti nella realtà storica.
- Il nazionalismo, come parte del progetto moderno, promuove spesso una standardizzazione
normativa (grammaticale, ortografica e stilistica) ed una omogeneizzazione della lingua
“nazionale”. Negli Stati nazionali, questo può avvenire attraverso la costituzione di accademie della
lingua che ne definiscano ad esempio l’ortografia, attraverso la scolarizzazione di massa, i mass
media, ecc… Nel caso di movimenti nazionali non statali, è storicamente critico il ruolo della
stampa.
- In molti Stati post-coloniali, si ha un tentativo di codificare lingue di tradizione orale in una
forma scritta, e, spesso contestualmente, di modernizzare la lingua per renderla capace di
esprimere i concetti tipici della vita moderna, specialmente tramite ampliamenti lessicali
(usualmente prestiti o calchi). È parte di quella che viene chiamata “ingegneria linguistica”.
- In molti casi, gli stati e i movimenti nazionali possono promuovere politiche di sostituzione
linguistica, imponendo o favorendo una varietà “nazionale” contro altre (lingue minoritarie, locali,
ecc…). Ad esempio, in Italia, il fascismo promosse politiche repressive contro l’uso delle lingue
minoritarie (in particolare tedesco, sloveno e croato). Non sempre tuttavia queste politiche sono
declinate in senso repressivo. Il movimento sionista è riuscito a suscitare una adesione largamente
volontaria (anche se certamente sostenuta da una forte pressione sociale e da politiche ufficiali
favorevoli) all’uso dell’ebraico come lingua nazionale della comunità ebraica immigrata in
Palestina e nello stato d’Israele.
- Altrove, gli Stati nazionali possono scegliere di promuovere la diversità linguistica come
valore storico-identitario da preservare. Questo approccio, relativamente più raro, è stato sostenuto
almeno in linea di principio da una importante corrente all’interno del movimento nazionale
indiano, ed è operante anche altrove (ad esempio in Sudafrica e più recentemente in Scozia).
Sezione 2: Lo sviluppo del nazionalismo arabo
Il nazionalismo arabo si caratterizza per il forte risalto ideologico che viene dato alla lingua come
espressione dell’identità e dei valori della comunità nazionale, e per lo spazio teorico che viene dato
di conseguenza alla discussione sulla lingua. Questa situazione riflette da un lato l’importanza della
lingua araba e la sua centralità nella percezione storica dei popoli arabi come veicolo primario
d’espressione della civiltà arabo-islamica; dall’altro, la criticità della situazione di “diglossia”
rispetto all’aspirazione unitaria simbolizzata dalla lingua standard.
Il nazionalismo arabo, come movimento politico, appare relativamente tardi, come reazione al
declino dell’Impero multinazionale ottomano. Uno dei fattori di crisi dell’Impero Ottomano è
proprio la pressione esercitata dai nuovi movimenti nazionali delle popolazioni cristiane dei
Balcani, una delle aree più ricche dell’Impero, che iniziano a manifestarsi alla fine del diciottesimo
secolo e per tutto il diciannovesimo. Dapprima Serbi e Greci, poi Bulgari e Romeni, infine Albanesi
e, fuori dai Balcani, Armeni iniziano a definire la propria appartenenza nazionale, su base a un
tempo linguistica e religiosa; le élites colte di queste popolazioni ambiscono, con l’appoggio e
l’incoraggiamento delle potenze imperialiste europee (in particolare della Russia) a farsi classe
dirigente di nuovi stati-nazione moderni.
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La reazione del centro ottomano a queste tensioni è molteplice e attraversa diverse fasi. Da un lato
si lancia, tra molte contraddizioni, un programma di modernizzazione, particolarmente in campo
giuridico, dove un codice fondato sul diritto francese sostituisce in molti campi il tradizionale
sistema “islamico” amministrato dai qāḍī. Sono le riforme, le cosiddette tanzimat (a partire
dall’editto di Gülhane nel 1839). Dall’altro, sotto il regno di Abdülhamid (1878-1908) si enfatizza
l’identità musulmana dello Stato (che perde proprio nel 1878, in seguito alla guerra contro la Russia
e al congresso europeo di Berlino, molti dei suoi restanti territori a popolamento cristiano) e il ruolo
del sultano ottomano come Califfo. Infine, dopo il 1908 il potere viene assunto da un gruppo di
ufficiali dell’esercito, il Comitato Unione e Progresso, detti “Giovani Turchi”, che fanno propria
una visione nazionalista turca, e cercano di promuoverla in tutto l’impero (che nel 1912 perde anche
la Libia, in seguito all’invasione italiana, e la quasi totalità dei restanti territori balcanici) a fronte
del fallimento di definire lo Stato ottomano su base dinastica o religiosa.
Di fronte alle conseguenze linguistiche di questa ultima fase, il nazionalismo arabo, da movimento
culturale di “rinascita” letteraria passa a rivendicazioni politiche. Il nazionalismo turco aliena infatti
parte delle élites arabe dalla fedeltà al governo ottomano nel tentativo di imporre il turco come
lingua dell’amministrazione delle province arabe.
La Prima Guerra Mondiale distrugge l’Impero Ottomano, ma nonostante le vaghe promesse del
governo inglese alla dinastia hashimita dello Hijāz, che guida una rivolta araba contro i Turchi,
dopo la guerra non si costituirà uno Stato nazionale arabo. Il nazionalismo arabo dovrà dunque
fronteggiare una nuova situazione di divisione politica del mondo arabo in numerose entità politiche
sotto tutela delle potenze coloniali.
Tre di queste entità pongono problemi particolari. Il Libano, anche se quasi interamente arabofono,
è dominato politicamente e demograficamente dalla comunità cristiana maronita che, legata alla
Francia, vede svilupparsi al suo interno movimenti orientati a promuovere una visione non araba
dell’identità libanese: associazione con l’eredità storica fenicia, tentativi di promozione dell’arabo
parlato locale come lingua letteraria in caratteri latini. L’Iraq si trova ad ospitare entro i suoi confin i
una consistente minoranza kurda, non arabofona e non intenzionata ad assimilarsi ad un progetto
nazionale arabo che vedrebbe comunque in posizione di favore le élites arabo-sunnite dell’area a
nord di Baghdad.
Infine, in Palestina le aspirazioni politiche degli arabi della regione si trovano in un conflitto sempre
più acuto e irrisolvibile con quelle del movimento sionista.
Il nazionalismo arabo si trova dunque a confrontarsi con la realtà di identità “locali” dotate di tutta
la forza che le forniscono gli apparati statali, in tensione con le aspirazioni “unitarie” basate
soprattutto sulla comune lingua scritta letteraria.
In questo contesto, il linguaggio diventa la chiave per definire una identità “araba” alla base di un
progetto ideale di unificazione e di liberazione dal dominio coloniale. Nonostante la formazione
della Lega degli Stati Arabi dopo la Seconda Guerra Mondiale e la liberazione dalla dominazione
coloniale europea, tutti i tentativi di attuare questo progetto di unificazione (in particolare l’unione
tra Egitto e Siria nel 1959) falliscono. La salita al potere di movimenti nazionalisti arabi in Egitto,
Siria, Iraq dopo gli anni Cinquanta, inoltre, non porta ad una stabile integrazione sociale ed
economica tra questi paesi; il prestigio dei regimi nazionalisti crolla dopo la sconfitta contro Israele
nel 1967.
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Sezione 3: Lingua araba e nazionalismo
Due voci all’interno del variegato discorso nazionalista arabo vanno ricordate per aver discusso in
modo dettagliato il rapporto tra lingua e nazione araba. Si tratta di Satiʼ al-Ḥuṣrī e Zakī al-Arsūzī,
entrambi esponenti del Ba’ṯ, il partito nazionalista e socialista arabo (ma non, beninteso,
“nazionalsocialista”; anche se certe influenze del fascismo europeo sul pensiero del Ba’ṯ possono
essere individuate, molto più vicine al nazismo sono le posizioni del Partito Nazionale della Grande
Siria, guidato da Anṭūn Sa’āda. Questo rifiuta il nazionalismo “arabo” a base etnicolinguistica e fa
invece riferimento all’eredità storica dell’impero assiro come spazio “naturale” di una nazione
“siriana” su base perlopiù geografica).
Satiʼ al-Ḥuṣrī
La vita e l’opera di Satiʼ al-Ḥuṣrī (1882-1968) sono quelle di un appassionato educatore. L’amore
per la lingua araba come segno e simbolo dell’unità “naturale” dei popoli arabi è il centro del suo
pensiero. L’identità e l’unità araba è per lui fondata su di essa. Sul piano politico, questo si traduce
nella promozione della lingua standard e nella sua modernizzazione lessicale (un programma
comunque già avviato nell’Ottocento, prima ancora della formazione del nazionalismo arabo come
movimento politico con ambizioni statali) e nella lotta per difenderne la ricchezza e la purezza.
Secondo Satiʼ al-Ḥuṣrī, pur tra molte contraddizioni, tutte le nazioni sono fatti essenzialmente
linguistici, in quanto la lingua esprime lo spirito più profondo di un popolo; l’unificazione degli
stati arabi sarebbe dunque un adeguamento al “normale” stato di cose dei gruppi umani nel mondo
moderno.
Zakī al-Arsūzī
Lo yemenita Zakī al-Arsūzī (1899-1968), importante dirigente del Ba’ṯ, assume una posizione
originale rispetto al problema della diglossia nelle società araba. Nella sua visione, infatti, la
diversità degli arabi parlati a fronte di una lingua scritta unitaria non è un fattore di divisione o un
problema, ma il genio stesso della lingua araba, capace di esprimere in questa dualità di parlato e
scritto la dualità dello spirito umano, tra cuore (la madrelingua, l’arabo parlato) e ragione (la lingua
formale, appresa a scuola).