LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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Il Lavoro sommerso
nel terzo settore
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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INDICE
Prefazione
(Francesca Ricci, IAL Toscana)
Prima parte
Lavoro sommerso e terzo settore: desk analysis
Capitolo primo
Il lavoro sommerso: definizioni, normativa e aspetti quantitativi
(Sabrina Lemmetti, Associazione Intesa)
1.1 Premessa
1.2 Definizioni e classificazioni
1.3 Il lavoro sommerso in Italia
1.4 Il lavoro sommerso in Toscana
1.5 La disaggregazione del ‘sommerso’ a livello provinciale
1.6 Il quadro normativo italiano del lavoro sommerso
Capitolo secondo
Il fenomeno del lavoro sommerso nel terzo settore
(Sabrina Lemmetti, Associazione Intesa)
2.1 Premessa
2.2 Aspetti quantitativi
2.3 Aspetti qualitativi
2.4 L’incidenza del lavoro sommerso nel “terzo settore” toscano
Seconda parte
Lavoro sommerso e terzo settore: field analysis
Capitolo terzo
L’indagine sul campo: il coinvolgimento dei testimoni privilegiati
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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(Francesca Ricci, IAL Toscana)
3.1 Le modalità di analisi
3.2 Gli obiettivi dell’indagine sul campo
3.3 Il concetto di “terzo settore” nella percezione degli intervistati
3.4 Lavoro “nero” e lavoro “grigio” nel terzo settore
3.5 Le modalità di manifestazione delle forme di lavoro sommerso nel terzo settore
3.6 La presenza del lavoro sommerso nel terzo settore: alcune ipotesi esplicative
3.7 Alcune ipotesi di concentrazione settoriale, territoriale e professionale
3.8 Il fenomeno in una prospettiva di medio periodo
Capitolo quarto
Le modalità di lavoro nel terzo settore
(Francesca Ricci, IAL Toscana)
4.1 Premessa
4.2 I percorsi professionali e le motivazioni
4.3 L’analisi delle condizioni di lavoro
4.4 Il livello di soddisfazione e la percezione della propria condizione
Alcune considerazioni di sintesi
Riferimenti bibliografici
Strumenti di lavoro
1. Traccia di intervista ai testimoni privilegiati
2. Traccia di intervista ai lavoratori del terzo settore
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Prefazione
a cura di Francesca Ricci
Che rapporto esiste fra lavoro sommerso e terzo settore? Quali sono le cause che
possono favorire il ricorso a forme di lavoro non regolare? In che modo si manifesta il
fenomeno? Esistono specificità settoriali, territoriali o professionali? E quali sono le
tendenze di medio periodo o, quantomeno, gli scenari ipotizzabili?
Più in generale, quali sono le modalità di lavoro nel terzo settore? E quali sono le
aspettative e le motivazioni di coloro che si trovano a svolgere il proprio lavoro in
condizioni “non regolari”?
Queste sono le domande che il gruppo di ricerca si è posto in fase di progettazione
dell’indagine.
La questione è estremamente complessa, almeno per due ordini di motivi. Da un lato il
lavoro sommerso, per sua natura, rappresenta un fenomeno estremamente difficile da
indagare. Dall’altro il terzo settore costituisce un ambito di attività relativamente poco
studiato e i cui confini risultano mobili e non universalmente condivisi.
La duplice complessità, sommata alle tecniche di indagine di tipo qualitativo, produce
come conseguenza il fatto che l’analisi realizzata ha valenza essenzialmente
esplorativa. Con il lavoro svolto, infatti, il gruppo di ricerca non pretende di sviscerare il
fenomeno in tutti i suoi aspetti. Si pone piuttosto l’obiettivo di cominciare a gettare un
po’ di luce su una questione, quella delle modalità e delle condizioni di lavoro nel terzo
settore, ancora poco studiata, ma che risulta cruciale e strategica ai fini della crescita
complessiva del sistema e, in ultima analisi, della qualità dei servizi erogati.
Come abbiamo accennato, il gruppo di ricerca ha privilegiato tecniche di indagine
qualitative, inserendosi in questo modo in una tradizione tutta italiana che fino ad oggi
ha dedicato maggiore attenzione alla dimensione qualitativa rispetto a quella
quantitativa del fenomeno del lavoro sommerso.
L’indagine si snoda attraverso tre step successivi. La prima fase, di desk analysis, è
dedicata ad una attività di ricognizione bibliografica, con lo scopo di raccogliere tutto il
materiale prodotto in termini di analisi e normativa sul fenomeno del lavoro sommerso
nel terzo settore.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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La raccolta e la composizione di fonti eterogenee ha permesso di costruire un quadro
d’insieme che, seppure lacunoso e frammentato, è risultato estremamente utile. Da un
lato per calibrare le modalità dell’indagine diretta. Dall’altro per dimensionare e
collocare le informazioni raccolte nelle fasi di indagine sul campo.
I risultati di questa prima fase della ricerca sono riportati nel primo capitolo, nell’ambito
del quale si affronta la questione del lavoro sommerso, e nel secondo capitolo,
dedicato a sviscerare il rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore.
La fase successiva ha avuto come protagonisti gli osservatori privilegiati: esponenti di
associazioni sindacali e datoriali, esperti di terzo settore e rappresentanti di enti
pubblici. Partendo dalla loro esperienza e dalla loro conoscenza del fenomeno, si è
provato a rispondere agli interrogativi posti in apertura.
La fotografia restituita dall’analisi delle interviste realizzate, a cui è dedicato il terzo
capitolo, risulta ricca e rappresenta uno spunto interessante per il dibattito, nella
misura in cui le posizioni raccolte risultano spesso diverse fra loro.
La terza fase dell’analisi è stata infine dedicata ad esaminare le modalità e le condizioni
di lavoro nel terzo settore. Con questo obiettivo, sono state realizzate interviste in
profondità con due gruppi distinti di lavoratori.
Il primo è stato individuato grazie al contributo della CISL, che ha messo a disposizione
del gruppo di ricerca un elenco di lavoratori del terzo settore che, per diversi motivi,
sono entrati in contatto con l’organizzazione sindacale. Il secondo gruppo è stato
individuato a partire dall’attivazione di contatti con i lavoratori di alcune organizzazioni
del terzo settore. In questo caso non era noto, prima di realizzare l’intervista, quali
fossero le modalità di lavoro e se esistessero situazioni di irregolarità formale o
sostanziale. I risultati di questa fase dell’analisi sono illustrati nel quarto capitolo.
Per concludere, il lavoro svolto non ha la pretesa di essere esaustivo. L’obiettivo
perseguito nel corso dell’indagine è stato quello di ottenere una prima fotografia del
fenomeno, che dovrebbe rappresentare non tanto un punto di arrivo quanto un punto
di partenza.
L’indagine svolta mette in luce, infatti, la necessità di avviare un monitoraggio costante
e sistematico delle modalità e delle condizioni di lavoro nel terzo settore, che sia
strumentale alla crescita quantitativa e qualitativa del sistema.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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PRIMA PARTE
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE: DESK ANALYSIS
CAPITOLO PRIMO
IL LAVORO SOMMERSO: DEFINIZIONI, NORMATIVA, E ASPETTI
QUANTITATIVI2
1.1 Premessa
L’economia sommersa3 riguarda le attività produttrici di beni e servizi non rilevate dalle
amministrazioni pubbliche per i seguenti motivi:
- incompletezza del sistema statistico di rilevazione a causa di difficoltà relative
alla definizione e alla misurazione delle attività nascoste (sommerso statistico);
- inosservanza delle normative fiscali e/o contributive (sommerso in senso
economico).
L’economia sommersa non rappresenta quindi un settore separato dell’economia, ma si
integra con l’universo ‘regolare’, operando negli stessi ambiti e interessando talvolta le
stesse imprese e le stesse persone.
Si parla normalmente di economia sommersa in riferimento alle seguenti tre categorie:
1) Economia criminale
Si caratterizza per la produzione o commercializzazione di beni e servizi illegali
(produzione e traffico di droga, rapine, estorsioni ecc.) o esercitata da personale non
autorizzato (scommesse clandestine, scavi archeologici clandestini, ecc.).
2) Economia informale
Rappresenta il lavoro sommerso di natura fisiologica. E’ caratterizzata da microimprese
individuali e familiari, creatisi a causa della frammentazione del tessuto produttivo con
2 Il capitolo è a cura di Sabrina Lemmetti, Associazione Intesa. 3 Le definizioni riportate sono state ricavate principalmente da Unioncamere Toscana, 2002; Campanelli, 2001; Regione Toscana, 2001; Romano–Giorgetti, 2000.
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l’obiettivo di generare reddito ed occupazione. Tali unità produttive si sviluppano con
quantità ridotte di capitale e sulla base di una labile distinzione fra capitale e lavoro.
3) Economia irregolare (comunemente chiamata sommersa)
Si caratterizza per la produzione di beni e servizi legali ancorché non registrati presso
le competenti autorità fiscali e previdenziali. E’ contraddistinta, quindi, dal deliberato
intento di violare una normativa senza però che questa azione rappresenti un illecito
penale.
In questa categoria rientra:
- l’evasione fiscale;
- l’evasione contributiva;
- la non osservanza della normativa contrattuale (ad esempio, relativamente a salario
minimo o agli orari di lavoro) e delle regolamentazioni in materia di salute e sicurezza
sul luogo di lavoro;
- la mancanza di permessi ed autorizzazioni amministrative.
L’economia irregolare è frequente in imprese a basso valore aggiunto che non sono in
grado di pagare salari medi.
L’economia sommersa si presenta in modo diverso in base alla variabilità dei fattori
culturali, sociali, economici, regionali. Tale eterogeneità impedisce di compiere agevoli
generalizzazioni.
1.2 Definizioni e classificazioni
Le attività lavorative svolte nell’ambito dell’economia sommersa originano il lavoro
sommerso in senso stretto, comunemente chiamato “nero”. Il lavoro “nero” si
caratterizza per essere svolto in condizione di totale violazione delle norme fiscali e
contributive (mancata registrazione del lavoratore, con conseguente duplice evasione,
da parte del lavoratore e dell’impresa), e non figura completamente nelle rilevazioni
statistiche.
Si parla invece di lavoro sommerso “grigio” per indicare l’intreccio tra attività lavorative
totalmente regolari e totalmente irregolari, che non risultano, conseguentemente,
invisibili statisticamente. La visibilità è però solo apparentemente “regolare”, perché di
fatto è distorta nel caso di confronto fra le norme contrattuali e la loro effettiva
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applicazione. La limitata irregolarità del lavoro “grigio” deriva dall’essere svolto in
condizioni di parziale osservanza delle norme contrattuali e fiscali, riconducibili sia ad
un uso improprio degli strumenti contrattuali, sia ad un loro ridotto rispetto.
Il lavoro “grigio” è ravvisabile sia nei contratti di lavoro tipici, che in quelli atipici.
Nei contratti di lavoro tipici (lavoro subordinato standard, lavoro a tempo indeterminato
e full-time), il lavoro “grigio” si riferisce:
- al ”fuori busta” per lo straordinario svolto con un contratto a tempo
indeterminato. Il maggior costo del lavoro straordinario e gli oneri fiscali che
gravano su di esso inducono infatti imprese e lavoratori a limitarne il
pagamento regolare, con un accordo che ha come obiettivo, in primo luogo, il
risparmio fiscale e contributivo ottenuto sia dal datore di lavoro che dal
lavoratore;
- al “fuori busta” corrispondente o ad uno straordinario prefissato o ad una
integrazione a nero come maggiorazione della paga oraria. Solo per i lavoratori
che sono dotati di particolare forza contrattuale in virtù della propria
professionalità, il datore di lavoro spesso può soddisfare le richieste del
lavoratore solo se su tale corrispettivo non sia costretto a pagare anche i
contributi.
E’ convinzione assai diffusa che le forme di lavoro flessibile abbiano determinato,
rispetto a quello standard, la crescita occupazionale degli ultimi anni. Per converso, ci
sono i presupposti per ritenere che ogni tipologia di contratto di lavoro atipico abbia
una propria particolare propensione ad essere utilizzata in forma sommersa. Infatti,
anche se il lavoro atipico non è sommerso, certo il sommerso risponde ed esaspera
quelle caratteristiche di flessibilità proprie del lavoro atipico (IRES,2002).
L’espressione “contratti atipici” è utilizzata per indicare in modo omnicomprensivo tutte
quelle tipologie di rapporto di lavoro che si allontanano dal lavoro tipico: part time,
lavoro interinale, job sharing, lavoro a tempo determinato, formazione lavoro,
apprendistato, stage o tirocinio, parasubordinato comprendente l’associazione in
partecipazione e le collaborazioni (occasionali e coordinate e continuative). Alcune
specifiche caratteristiche normative di questi contratti, che vanno dalla mancanza di
una precisa regolamentazione legislativa fino ai notevoli sgravi in termini di contributi
che offrono, possono aprire spazi di grigio nel senso di un loro impiego al di fuori delle
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condizioni previste dalla normativa.
Nei contratti atipici abbiamo le seguenti infrazioni tipiche, specifiche per ciascuna
tipologia di contratto:
Part time
Tra le forme di lavoro atipico, il part-time è sempre stato considerato quello più tipico:
infatti, le uniche differenze rispetto al lavoro standard riguardano il tempo di lavoro che
è ridotto e la retribuzione, ovviamente commisurata all’orario effettuato.
L’utilizzo del part time ha presentato frequentemente delle anomalie che possono
spiegarsi principalmente con motivazioni imputabili alle imprese. In particolare, si
riscontrano le seguenti quattro tipologie di violazione grigia del contratto di lavoro.
1.Sfondamento del tetto ore
L’irregolarità più frequentemente riscontrata è lo sfondamento del tetto previsto per
l’orario supplementare, con pagamento del corrispettivo fuori busta. Tale prassi è
attribuibile alla necessità delle imprese di garantirsi un margine di flessibilità ulteriore
rispetto a quello che caratterizza l’istituto normalmente. In pratica, il part time così
gestito permette di avere un lavoratore a tempo pieno potenziale, che cioè di fatto
lavora quanto di volta in volta è necessario senza vincoli per l’azienda che riesce così a
coprire le proprie necessità.
Questa esigenza di flessibilità si concretizza anche in una mancanza di un orario di
lavoro prefissato che impedisce al lavoratore di svolgere un’altra attività lavorativa a
tempo parziale.
2. Mancata dichiarazione di ore di lavoro ordinario
Si utilizza il contratto a tempo parziale ai fini dell’occultamento di un rapporto full time,
con retribuzione fuori busta della differenza di orario svolto. Questa pratica di
sommerso non ha, come la precedente, finalità che in parte si rifanno alla ricerca di
flessibilità, ma l’irregolarità è corrispondente al mancato versamento di oneri
contributivi e fiscali, soprattutto a favore dell’impresa, nella misura in cui il lavoratore
sopporta una perdita sul reddito differito maggiore che nel precedente caso, e senza
vantaggi immediati.
Si può avere anche un mancato pagamento delle ore di lavoro non dichiarate a scopi di
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riduzione del costo del lavoro, ma questa volta in danno diretto ai lavoratori che si
concretizza in termini di minori retribuzioni.
Lavoro a tempo determinato
Per il contratto di lavoro a tempo determinato esistono due modalità di utilizzazione
dello stesso che danno luogo più che a violazioni di legge, tranne il caso in cui ci sia un
vero e proprio lavoro “nero”, a irregolarità riguardo alle quali attualmente né la
normativa né la giurisprudenza hanno preso posizione.
1. Proroga del rapporto per più di una volta o per un periodo superiore a quello
stabilito dal primo rapporto.
Spesso si instaurano dei rapporti che, nella sostanza, diventano a tempo indeterminato
con la stessa impresa.
2. Forma di ingresso nel mercato del lavoro, in alternativa al contratto di formazione e
lavoro il quale prevede un tempo talvolta considerato eccessivo.
Lavoro interinale
Utilizzato come metodo di ingresso del lavoratore in azienda, specie per mansioni di
basso contenuto professionale.
Job Sharing
Mancato versamento dei contributi previdenziali.
Formazione lavoro e apprendistato
Le irregolarità si possono far rientrare sotto il comune denominatore dell’assenza di un
reale adempimento degli obblighi formativi previsti.
In sostanza, questi istituti rappresentano più un mezzo di ingresso dei lavoratori nel
mercato grazie agli incentivi fiscali e retributivi previsti dalla normativa, che veri e
propri contratti a causa mista, dove il lavoratore possa acquisire una reale competenza
sulle mansioni per le quali è stato assunto.
Stage o tirocinio
Le irregolarità riguardano solitamente:
1. Durata superiore al periodo previsto.
2. Non integrazione di un reale valore formativo.
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Parasubordinato
Rappresenta una forma di lavoro autonomo-professionale svolto entro forme
organizzative fortemente integrate nelle strutture dell’impresa committente. Si tratta
dunque di una forma che oscilla fra il contratto commerciale (la fornitura del servizio) e
il rapporto di lavoro (l’inserimento in una struttura di impresa e la subordinazione a
vincoli gerarchici).
Tutte le forme di irregolarità riscontrate portano a delineare un utilizzo dell’istituto
come facciata formale di un rapporto che, nella sostanza, assume i connotati del lavoro
subordinato.
Associazione in partecipazione
Raffigura un modo per far figurare il lavoratore come socio. Il socio riceve una
partecipazione mensile agli utili, senza copertura previdenziale. Le retribuzioni sono
basse rispetto ai minimi di categoria e, tenendo conto che i contratti vengono spesso
stipulati per qualifiche basse, non esiste nessuna limitazione formale all’orario di lavoro,
che può essere prolungato senza regole che non siano quelle derivanti dalla
contrattazione personale tra (lavoratore) associato e (datore di lavoro) socio.
Collaborazioni (occasionali e coordinate e continuative)
Le irregolarità riguardano normalmente:
1. Impiego di collaboratori con un orario di lavoro rigidamente prefissato e con
rapporti che si protraggono nel tempo (anche per le occasionali).
2. Retribuzione non vincolata ai minimi di categoria, affidata alla contrattazione
individuale. Essa può pertanto scendere a livelli posizionati molto al di sotto dei
suddetti minimi. Ciò comporta ingenti risparmi per le imprese sia per quanto concerne
la paga percepita dal lavoratore che per il mancato (o limitatissimo) versamento di
oneri contributivi.
E’ utile, a questo punto, fare la seguente classificazione dei lavoratori del sommerso
(Commissione Europea, 1998):
1. Lavoratori che svolgono un secondo lavoro o che hanno più lavori. La maggior
parte del lavoro sommerso è effettuata da persone (in prevalenza maschi) che
svolgono già un’attività regolare. Il fatto di poter partecipare all’economia sommersa,
significa spesso che le persone in questione rispondono ad una domanda di
determinate abilità o qualifiche specifiche.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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2. Le persone “economicamente inattive” (studenti, casalinghe e prepensionati). Esse
sono soggette a minor vincoli temporali e le opportunità tendono a essere maggiori per
coloro che hanno avuto in precedenza un contatto con il mondo del lavoro. Le donne
non rappresentano la maggior parte dei lavoratori del sommerso, ma tendono ad
essere in una posizione più vulnerabile e ufficialmente inattive.
3. I disoccupati.
4. I cittadini di paesi terzi.
I settori maggiormente interessati dal fenomeno del sommerso risultano:
- i settori tradizionali quali l’agricoltura, le costruzioni, il commercio al dettaglio, la
ristorazione e i servizi domestici;
- i settori manifatturiero e quello dei servizi commerciali, nei quali il costo
rappresenta il principale fattore competitivo (ad esempio, il settore tessile con
le sue opportunità di lavoro a domicilio);
- i settori a forte contenuto innovativo (essenzialmente contraddistinti da lavoro
autonomo), nei quali l’uso delle comunicazioni elettroniche e dei computer
agevola la contrattazione e l’esecuzione di servizi in località diverse.
Il primo e il secondo gruppo di settori economici sono quelli in cui si concentra il lavoro
sommerso che, spesso, sfocia in forme più o meno palesi e significative di sfruttamento
dei lavoratori. Il terzo gruppo riguarda, invece, persone altamente qualificate che
scelgono il lavoro nero.
1.3 Il lavoro sommerso in Italia
In Europa e negli Stati Uniti, gli studi empirici sul lavoro sommerso sono stati dominati
da analisi quantitative incentrate sul fenomeno dell’evasione fiscale. In Italia, al
contrario, le ricerche si sono concentrate, specie in tempi meno recenti, sulle specificità
del mercato del lavoro, con maggiore attenzione per la dimensione qualitativa rispetto
a quella quantitativa del lavoro sommerso.
L’analisi svolta sui dati dell’Istat da Brunetta e Ceci (1998), sottolinea il carattere
strutturale del settore sommerso in Italia rispetto a quello di gran parte degli altri Paesi
europei. Se a livello generale vengono indicate come cause del sommerso il dualismo a
base territoriale della struttura economica italiana, una cattiva spesa pubblica e la
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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rigidità del mercato del lavoro, vi sono anche fattori più specifici che ne spiegano lo
sviluppo a livello settoriale. Tra questi, la diffusione delle tecnologie leggere
(soprattutto nel campo dei servizi), la ristrutturazione dell’industria (con i noti effetti di
frammentazione dei processi lavorativi in filiere costituite da unità produttive piccole,
fino alle unità di lavoro autonomo e di lavoratori-imprenditori) e, infine, la crescita della
domanda di servizi alle famiglie e alle persone, caratterizzati da una produzione a
basso livello di qualifica e ad alta intensità di lavoro. In particolare, il mercato del
lavoro italiano, secondo Brunetta e Ceci, non ha sviluppato adeguatamente un
segmento secondario con prevalenza di prestazioni flessibili, che vengono quindi
ricercate attraverso i noti meccanismi di elusione dei vincoli normativi, la cui diffusione
è rafforzata dalla forbice tra retribuzioni di fatto e costo del lavoro.
Lo studio prende come riferimento statistico i dati elaborati dall’Istat per il 1999, dove il
lavoro sommerso in Italia risulta del 15,1% con un’incidenza sul PIL del 15,4%: le
stime elaborate vedono, inoltre, il fenomeno in crescita nel ventennio 1970 - 1990 con
un incremento complessivo del 140%.
L’economia sommersa in Italia assume, quindi, dimensioni consistentemente più vaste
rispetto agli altri paesi dell’OCSE.
Un tratto rilevante dell’economia sommersa italiana è la sua distribuzione settoriale. In
termini assoluti, il settore terziario è quello di maggior peso perché genera ben il 75%
del valore aggiunto attribuibile al sommerso, con picchi soprattutto nei comparti del
commercio, dei servizi domestici, dei servizi alle imprese, dei trasporti, degli alberghi e
dei pubblici esercizi.
Ciò è legato sia alla presenza di moltissime unità di piccole dimensioni sia
all’immaterialità di molte prestazioni, aspetti che rendono i controlli ancora più
problematici e aleatori di quanto già non lo siano per gli altri settori. Incrociando i dati
sulla quota di lavoro irregolare per settore con quella per posizione professionale
emerge che nel lavoro dipendente irregolare spiccano anche i servizi sociali e personali
(22%). Il lavoro indipendente irregolare emerge nei comparti dell’istruzione (57%) e
della sanità e servizi sociali (26%).
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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Tabella 1 - Distribuzione della irregolarità del lavoro per attività economica e per posizione professionale nel1999
ATTIVITA’ ECONOMICHE
LAVORO
DIPENDENTE
LAVORO
INDIPENDENTE
Agricoltura, silvicoltura e pesca
63% 52%
Industria in senso stretto 6% 4%
Costruzioni 22% 2%
Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni 16% 3%
Intermediazione monetaria e finanziaria; attività immobiliari ed
imprenditoriali
22% 0%
Altre attività di servizi 18% 23%
Istruzione 2% 57%
Sanità e servizi sociali 2% 26%
Altri servizi pubblici, sociali e personali 22% 9%
Servizi domestici presso famiglie e convivenze 76% 10%
TOTALE
16% 10%
Fonte: CNEL, 2002
Se analizziamo le figure sociali coinvolte nel lavoro sommerso, abbiamo il seguente
quadro (Bocciarelli, 2002):
Tabella 2 - Distribuzione delle figure coinvolte nel lavoro sommerso per area geografica nel 2002* Figure coinvolte Nord Ovest Nord Est Centro Sud e Isole Italia
Giovani 87,2 0,2 85,7
92,7 86,45
Casalinghe 40,2 47,4 45,3 34,8 41,92
Disoccupati 83,2 68,7 76,9 97,5 81,57
Lavoratori in mobilità e CIG 66,1 65,7 67,1 86,0 71,22
Pensionati 86,7 88,8 74,4 45,3 73,80
Extracomunitari 95,9 91,7 95,1 87,2 92,47
Occupati regolari del settore privato 32,7 21,5 21,4 34,4 27,50
Occupati regolari del settore pubblico 39,4 43,8 41,1 37,6 40,47
Fonte: Censis, 2002
(*) Il totale non è uguale a 100 perché erano possibili più risposte
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
15
1.4 Il lavoro sommerso in Toscana
Conoscere come il fenomeno del lavoro sommerso caratterizza le realtà territoriali così
profondamente diverse nel nostro Paese, rappresenta un passo di imprescindibile
importanza per arrivare a chiarire anche le dinamiche che stanno alla base di tale
fenomeno.
La fenomenologia del sommerso, infatti, si declina in modo diverso a seconda delle
specificità territoriali analizzate.
In Toscana, nel corso degli ultimissimi anni, si è assistito ad uno sforzo sia di carattere
politico- amministrativo che di tipo investigativo volto a realizzare una mappatura
dell’economia sommersa nella regione.
Dalle indagini condotte dall’Irpet (Regione Toscana, 2001), sulla base della
metodologia introdotta dall’Istat, risulta che la Toscana ha un’incidenza complessiva
delle unità di lavoro sommerso più elevata della media italiana (16,7% contro 15,2%),
e concentrata soprattutto nella tipologia di lavoro dipendente.
Castellucci e Bovi (2001), con una metodologia diversa, giungono a risultati
comparabili: l’incidenza delle unità di lavoro sommerso in Toscana, nel 1995, è pari al
18,7%, superiore di meno di un punto rispetto al 18,0% della media nazionale.
Secondo una indagine del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’Inps del 2001, la
Regione Toscana è al quarto posto per numerosità di aziende irregolari (72%) e al
sesto per numerosità di lavoratori in nero (9.805).
I dati dell’Irpet permettono di dire qualcosa di più rispetto alla semplice dimensione
quantitativa. La quota del sommerso complessivo coperta dal lavoro dipendente
sommerso è ben superiore a quella italiana (21% della Toscana contro 18,1%
dell’Italia), mentre l’incidenza del sommerso sul lavoro indipendente è ben inferiore in
Toscana che, complessivamente, nel Paese.
Dalla disaggregazione settoriale emerge una struttura del sommerso regionale molto
diversa da quella media nazionale. In particolare, emerge una nettissima maggiore
incidenza del sommerso nell’industria (in senso stretto) che arriva ad una quota di oltre
l’80% superiore a quella media nazionale. Valori lievemente superiori alla media
nazionale si registrano per il credito e le assicurazioni, il commercio e gli altri servizi.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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Tabella 3 - Unità di lavoro non regolari sul totale di settore. Confronto Toscana-Italia, 1997. ATTIVITA’
ECONOMICHE
TOSCANA
ITALIA
% TOSCANA
SU ITALIA
Dip. Indip. Tot. Dip. Indip.
Tot.
Dip. Indip. Tot.
Agricoltura 37,0 5,9 13,5 55,4 13,8 29,2 66,8 42,8 46,2
Industria 12,5 4,2 10,7 6,5 3,1 5,9 192,3 135,5 181,4
Costruzioni 20,0 8,0 14,4 23,5 7,6 16,8 85,1 105,3 85,7
Commercio, turismo
e comunicazioni
31,4 7,6 20,9 27,3 8,4 18,9 115,0 90,5 110,6
Credito, assicurazione,
servizio imprese
31,0 1,2 19,6 23,5 1,0 14,8 131,9 120,0 132,4
Altri servizi 16,0 24,3 17,2 15,3 20,8 16,0 104,6 116,8 107,5
TOTALE
21,0 7,9 16,7 18,1 8,6
5,2
116,0 91,9 109,9
Fonte: IRPET, 2001
Altra condizione peculiare è rappresentata dal fatto che il sommerso toscano non si
presenta tanto nella forma del cosiddetto lavoro nero, che si caratterizza per essere
svolto in condizione di totale violazione delle norme fiscali e contributive che può di
frequente essere associata alla sommersione dell’impresa stessa. Il sommerso toscano
si presenta piuttosto come lavoro grigio.
La predominanza dell’occultamento di lavoro subordinato viene attuato attraverso l’uso
di contratti atipici, come del resto nel Centro-Nord.
Analizzando brevemente l’incidenza occupazionale del lavoro atipico in Toscana
(Regione Toscana, 2002), nel 2000, abbiamo che i lavoratori atipici sono inclusi fra le
230 e le 330.000 unità circa.
In particolare, l’utilizzo del part time si assesta sopra la media nazionale (il 9,8%
rispetto all’8,4%), così come si ripete da alcuni anni, e la differenza sembra sempre più
accentuarsi. L’incremento percentuale delle donne (sempre dal 1997 al 2000) è
superiore alla media nazionale, mentre il dato relativo agli incrementi negli uomini è
percentualmente inferiore ai dati italiani.
Il maggior tasso di incremento dell’occupazione, rispetto al dato italiano, è dovuto in
Toscana ad un incremento del tempo determinato (apprendistato, contratti di
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
17
formazione lavoro e a tempo determinato veri e propri). Dal 1999 al 2000, su un
incremento dell’occupazione dipendente del 2,5%, il 22,7% è dovuto a quella a tempo
non indeterminato. Incide per il 6% sull’occupazione complessiva e si ricorre a tale
forma in misura inferiore rispetto all’Italia per la componente maschile, mentre
rappresenta in Toscana il 77,9% di tutti gli avviamenti femminili. Tra queste forme,
l’apprendistato è sempre una forma usata, in Toscana come in Italia, in quanto vi è
una sorta di “tradizione” che in parte sta per essere lasciata a favore di altre tipologie.
Rappresenta inoltre, più per gli uomini che per le donne, uno strumento di accesso al
lavoro (uomini 15%, contro il 13% delle donne).
I contratti di formazione lavoro sono gli unici a subire un calo, sia nel numero di
avviamenti, sia nel peso sul totale, in Toscana come nel resto dell’Italia. Più interessati
a questo strumento sono comunque gli uomini rispetto alle donne.
I contratti a tempo determinato veri e propri rappresentano, nel 2000, il 60,5% di tutti
gli avviamenti in Toscana. Anche in questo ambito si assiste ad una femminilizzazione
negli avviamenti, così come in tutta la Toscana.
Gli occupati con lavoro interinale sono 3.604 nel 2000 in Toscana, con una percentuale
femminile del 41%.
Stage e tirocini sono 1.568, di cui il 62% donne, con una crescita a favore della
componente maschile.
Il lavoro parasubordinato nel 2001 (INPS, 2001) è costituito da oltre 180.000 persone,
di cui quasi 160.000 collaboratori puri, poco più di 5.000 collaboratori/professionisti,
17.000 professionisti puri.
1.5 La disaggregazione del ‘sommerso’ a livello provinciale
A livello provinciale i dati sul lavoro sommerso ci vengono forniti dall’Inps per il 1999 e
il 2000 (Unioncamere Toscana, 2002).
I dati Inps fotografano una distribuzione del lavoro sommerso concentrata nelle
province di Firenze e Prato, con una quota complessiva del 35,5%. Le province di
Lucca, Livorno e Pisa detengono complessivamente il 38,7% del lavoro irregolare. I
dati relativi alla distribuzione riflettono ovviamente il diverso peso occupazionale delle
province. Se però calcoliamo il tasso di irregolarità (occupati non regolari su totale
degli occupati) emerge un quadro non dissimile. In particolare, esce confermata la
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
18
situazione di Prato con il 2,53% di irregolari accertati, seguito da tutte le province
costiere, con l’eccezione di Grosseto, con valori compresi tra 1,5% e 1,8%. Risulta
invece ridimensionato il peso di Firenze.
Sono particolarmente evidenti la riduzione del peso della provincia di Livorno - che
scende dalla quota di sommerso più elevata del 1999 alla quinta posizione nel 2000 - e
la crescita del peso della provincia di Prato, che sale al secondo posto dal quinto.
Tabella 4 - Distribuzione territoriale del lavoro sommerso in Toscana. 1999-2000
Province
Distribuzione territoriale del lavoro sommerso e del
lavoro regolare
Tassi di irregolarità
Inps
1999
Inps
2000
Sommerso
Irpet
Lavoro regolare
1999
Occupati
irregolari/
totali Inps 2000
Tassi di
irregolarità
Sl-IRPET
Arezzo 4,5 4,6 8,8 9,2 0,61 16,1
Firenze 16,0 18,9 32,8 31,5 0,80 17,3
Grosseto 5,9 2,8 5,7 5,4 1,04 17,5
Livorno 19,0 10,9 9,3 8,2 1,80 18,5
Lucca 13,6 14,1 9,4 10,1 1,78 15,8
Massa Carrara 5,6 5,7 3,8 4,6 1,83 14,1
Pisa 17,0 13,7 12,5 10,9 1,56 18,7
Pistoia 7,7 9,1 6,7 7,6 1,71 15,0
Prato 8,7 16,6 4,5 6,8 2,53 11,8
Siena 2,0 3,6 6,2 5,7 0,59 17,9
TOTALE
100
100
100
100
1,28
16,7
Fonte: ORML-DSE, elaborazioni su dati Ispettorato del lavoro Orml-Irpet, elaborazioni
su dati Inps
L’immagine risultante dalla precedente tabella non è dissimile dalla situazione che
emerge dai dati IRPET (Regione Toscana, 2001), calcolati a livello provinciale, che
consentono di evidenziare la presenza di tre principali raggruppamenti di territori.
In primo luogo, notiamo che le aree dove assume un ruolo di rilievo il settore turistico
(siano esse di lunga tradizione oppure no, inserite in aree urbane o meno sviluppate)
sono quelle dove più diffusa è la presenza di lavoro non regolare. Siamo
tipologicamente di fronte a sistemi occupazionali ad alta intensità di lavoro, così come
in agricoltura, con bassi livelli di innovazione tecnologica e bassa crescita di produttività
e a flussi di opportunità lavorativa di carattere temporaneo e di riserva che presentano
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
19
potenziali rischi di precarietà.
In modo diverso, e per certi versi opposto, si comportano i sistemi locali con elevati
tassi di industrializzazione. In questo secondo ambito spiccano soprattutto alcune aree,
di piccola e anche di grande impresa, che sono accomunate da una lunga e consolidata
tradizione industriale quali l’area pratese, quella di Massa Carrara, la Val di Cornia,
l’area aretina, l’area lucchese, l’area pistoiese. Sembra valere l’ipotesi che la tradizione
di sviluppo industriale abbia generato maggiore rispetto delle regole nell’ambito della
partecipazione lavorativa.
Se si considera il tasso di irregolarità, emerge però una differenza non trascurabile per
quanto riguarda Prato. Nei dati IRPET, Prato ha la minore incidenza di lavoro
sommerso, mentre nei dati Inps ha la quota più elevata di irregolarità accertate.
L’ultimo gruppo è rappresentato dalle aree di media presenza di lavoro non regolare
che accomuna sistemi locali dai caratteri economici profondamente diversi: da quelli
marginali, a quelli industriali, fino a quelli urbani. In questo ambito vale la pena di
sottolineare il caso delle aree urbane di Firenze e Siena, le cui zone di espansione
mostrano elevati livelli di irregolarità, quasi a suggerire una forma di decentramento
delle condizioni lavorative meno strutturate.
I doppi lavori tendano a presentarsi in misura percentualmente più elevata all’interno
delle principali aree urbane (Firenze, Siena, Pisa e Livorno), così come nelle altre aree
sviluppate della regione.
Per quanto riguarda la presenza di stranieri non residenti, notiamo che essi sono diffusi
in modo pressoché uniforme in tutti i SEL (Sistemi Economici Locali) della regione ma,
in particolare, nelle aree urbane (le città e le loro aree di più immediata influenza)
vediamo che sono prevalentemente concentrati nel settore delle costruzioni.
Il lavoro irregolare è convogliato, in sintesi, nell’area fiorentina (32,8%) e nelle
province di Livorno, Pisa e Lucca (complessivamente 31,2%).
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
20
1.6. Il quadro normativo italiano del lavoro sommerso
Per completare l’analisi generale del fenomeno, è utile riportare nella tabella successiva
gli estremi dei principali provvedimenti legislativi ed amministrativi in tema di lavoro
sommerso.
Tabella 5 - Quadro normativo del lavoro sommerso (2002)
Tipologia di
atto N° Anno Argomento
Legge 341 1995
Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 23 giugno 1995, n. 244,
recante Misure dirette ad accelerare il completamento degli interventi
pubblici e la realizzazione dei nuovi interventi nelle aree depresse
Decreto
Legge 510 1996
Disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di interventi a
sostegno del reddito e nel settore previdenziale
Legge 608 1996
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1 ottobre 1996,
n. 510, recante disposizioni urgenti in materia di lavori socialmente utili, di
interventi a sostegno del reddito e nel settore previdenziale
Legge 448 1998 Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo
Deliberazion
e 26 1999 Progetto vigilanza sulle entrate ed economia sommersa
Legge 488 1999
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato (legge finanziaria 2000)
Decreto
legislativo 61 2000
Attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all'accordo-quadro sul lavoro a
tempo parziale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES
Legge 388 2000
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato (legge finanziaria 2001)
Circolare 88 2001 Norme per incentivare l'emersione dell'economia sommersa
Deliberazion
e 100 2001
Programma di emersione per i lavoratori subordinati, ai sensi della legge n.
383/2001
Decreto
Presidente
Repubblica 287 2001
Disposizioni in materia di ordinamento degli uffici territoriali del Governo,
ai sensi dell'articolo 11 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300
Decreto
Legge 350 2001 Disposizioni urgenti in vista dell'introduzione dell'euro
Legge 383 2001 Primi interventi per il rilancio dell'economia
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
21
Decreto
Legge 12 2002
Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione di
attività detenute all'estero e di lavoro irregolare
Circolare 17/E 2002
Norme per incentivare l’emersione dell’economia sommersa. Capo I della
legge 18 ottobre 2001, n. 383 e successive modifiche. Ulteriori chiarimenti
Delibera 36 2002 CIPE
Delibera 38 2002 CIPE
Circolare 49 2002
Dichiarazione di emersione di lavoro irregolare e versamento della
contribuzione sostitutiva. Istruzioni e modalità operative.
ODG 55/CIV 2002 INPS
Circolare 56/E 2002
Norme per incentivare l’emersione dell’economia sommersa. Capo I della
legge 18 ottobre 2001, n. 383 e successive modifiche e integrazioni.
Circolare unitaria interamministrativa
Circolare 65/E 2002
Norme per incentivare l’emersione dell’economia sommersa. Capo I della
legge 18 ottobre 2001, n. 383 e successive modifiche e integrazioni.
Ulteriori chiarimenti
Legge 73 2002
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 22 febbraio
2002, n.12, recante disposizioni urgenti per il completamento delle
operazioni di emersione di attività detenute all'estero e di lavoro irregolare
Decreto
Legge 210 2002
Disposizioni urgenti in materia di emersione del lavoro sommerso e di
rapporti di lavoro a tempo parziale
Legge 266 2002
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 25 settembre
2002, n.210, recante disposizioni urgenti in materia di emersione del
lavoro sommerso e di rapporti di lavoro a tempo parziale
Fonte: nostre elaborazioni
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
22
CAPITOLO SECONDO
IL LAVORO SOMMERSO NEL TERZO SETTORE4
2.1. Premessa
Le organizzazioni del Terzo Settore assumono la configurazione, in molti casi, di vere e
proprie imprese interessate quindi a produrre utili, a valorizzare il loro capitale e ad
espandere la loro presenza sul mercato, nel perseguimento dei loro fini istituzionali e
operando nel rispetto del vincolo della non distribuzione dei propri avanzi di gestione. I
beni e servizi prodotti da queste organizzazioni, anche quando sono socialmente utili,
possono essere, e spesso sono, oggetto di normali transazioni di compravendita sul
mercato.
Da ciò deriva che le classificazioni, le dinamiche e le problematiche affrontate nel
precedente capitolo che si riferiva in generale al lavoro sommerso, possono essere
declinate, con opportuni adattamenti anche al terzo settore, atteso che in quasi tutti gli
ambiti produttivi analizzati possono operare organizzazioni senza dirette finalità di lucro
(non profit).
E’ vero anche che tra tutte le tipologie imprenditoriali, quelle del Terzo Settore
perseguono per statuto la tutela degli interessi deboli, tra cui vi rientrano anche quelli
dei lavoratori. Ma il fatto che ci si prenda un impegno non significa necessariamente
che lo si rispetti. Non c’è nessuna differenza di principio, su questo aspetto, tra una
impresa sociale e qualsiasi altra. Tutto si gioca sul contenuto degli impegni che si
assumono e sul rispetto degli impegni nei comportamenti concreti.
Non ci risulta che siano stati effettuati studi in grado di definire e quantificare il
fenomeno del lavoro sommerso nel Terzo Settore.
Questo è sicuramente dovuto alle difficoltà che si moltiplicano analizzando un settore
poco delineato.
Ci sono però anche ragioni opportunistiche che impediscono di controllare,
obiettivamente, le sacche di irregolarità celate. Non c’è infatti interesse a ‘stuzzicare’ un
settore che persegue scopi economici ma anche sociali. Infine, non esiste
4 Il capitolo è a cura di Sabrina Lemmetti, Associazione Intesa.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
23
generalmente una forte concorrenzialità con il settore for profit che incentivi la
regolarità sul lavoro.
2.2. Aspetti quantitativi
Il settore dei servizi sociali (che comprende i servizi alla persona e alla comunità; i
servizi assistenziali o di cura in senso stretto; i servizi sanitari, educativi e culturali),
rappresenta un settore nel quale vi è una elevata presenza di organizzazioni non profit.
Nel 1998 è stata effettuata una ricerca (Borzaga, 2000) finalizzata a conoscere le
caratteristiche degli occupati nei servizi sociali pubblici e privati, for profit e non profit.
Questa ricerca è importante perché è l’unica in Italia che affronta, tra gli altri aspetti, in
modo scientifico, diretto e sotto un profilo quantitativo, le problematiche relative al
lavoro sommerso nel Terzo Settore.
Dall’indagine emerge anche che i lavoratori nel settore dei servizi sociali sono in
crescita: tuttavia, i nuovi posti di lavoro sono spesso precari, insufficientemente
remunerati e, più in generale, di bassa qualità, soprattutto nelle organizzazioni di più
recente costituzione (come ad esempio le organizzazioni non profit).
E’ oggettivamente difficile creare nel settore dei servizi sociali un mercato del lavoro
con caratteristiche simili a quelle prevalenti nella produzione di beni e servizi privati. La
contiguità con il lavoro informale (sia di familiari che di lavoratori irregolari) e la
diffusione di forme non mercantili di scambio tra amici e familiari, di forme di auto-
aiuto e di lavoro volontario, rendono difficile stabilire un confine tra l’offerta di servizi
lavorativi a titolo oneroso e non, che costituisce il prerequisito al formarsi di un
mercato del lavoro “regolare”.
I lavoratori nel settore non profit intervistati – nel corso della suddetta indagine - sono
stati 1.246. Le ore di lavoro di questi soggetti intervistati sono state poste a confronto
(distinguendo quelle effettuate per contratto da quelle effettuate realmente).
Si riporta, nella tabella successiva, un confronto anche con i valori degli enti pubblici e
delle organizzazioni for profit (imprese).
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
24
Tabella 6 - Orario contrattuale ed orario effettivo per tipologia organizzativa (1998)
Organizzazione non profit Totale Tipologia di
organizzazione
Orario
Ente pubblico Organizzazione
for profit laica religiosa V.A. V.%
Coincidenza 63,2 73,0 65,1 72,0 671 66,4
Orario effettivo
inferiore
3,4
5,9
5,1
3,6
49 5
Orario effettivo
superiore
33,4 21,1 29,7 24,4 290 28,7
TOTALE 497 152 817 193 1010 100
Fonte: elaborazioni ricerca (Borzaga, 2000)
Non è confermata l’ipotesi secondo cui le organizzazioni non profit ricorrerebbero
maggiormente a forme di flessibilità, richiedendo ai lavoratori di prestare un numero di
ore superiore a quello stabilito contrattualmente, con o senza remunerazione.
Nelle organizzazioni non profit laiche, la percentuale di occupati che dichiara di fare
straordinari risulta infatti allineata a valori medi, mentre nelle organizzazioni del terzo
settore religiose è perfino inferiore.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
25
Tabella 7 - Modalità di trattamento degli straordinari per tipologia organizzativa (1998)
Organizzazione non profit Totale Tipologia di
organizzazione
Straordinari
Ente pubblico Organizzazione
for profit laica religiosa V.A. V.%
Coincidenza
29,4
64,5
36,3
2,2
233
37
Parzialmente remunerati 7,4 8,4 4,6 2,4 27 4
Totalmente recuperati 29,4 15,0 20,2 12,0 120 19
Parzialmente recuperati 11,4 0,9 13,9 7,2 82 13
Parzialmente remunerati
e parzialmente
recuperati
18,0
8,4
7,9
4,8
46
8
Né remunerati, né
recuperati
4,4
2,8
17,1
31,3
118
19
TOTALE
367
07
545
3
626
100
Fonte: elaborazioni ricerca (Borzaga, 2000)
Dalla ricerca risulta inoltre che i sistemi organizzativi non profit appaiono come quelli
nei quali i lavoratori presentano un più corretto equilibrio tra contributi e incentivi. Ciò
sembra contraddire la visione tradizionale che considera il lavoratore degli organismi
del terzo settore come un soggetto che dà (contributo) più di quanto riceve (incentivi
materiali e immateriali).
A supporto dei risultati rilevati con questa ricerca, il Terzo Settore viene considerato
(Ministero del Lavoro, 2000) come quel settore in grado di dare un contributo
significativo anche all’emersione di quella parte di sommerso che interessa i servizi alla
persona. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad una crescita di attività informali e
irregolari (svolte spesso da persone immigrate) anche nel settore dei servizi alla
persona (assistenza ad anziani e bambini, soprattutto). In questo caso, tuttavia, non si
tratta tanto di fare emergere imprese, piuttosto di indirizzare verso le imprese del
Terzo Settore la domanda oggi insoddisfatta da prestazioni irregolari e dai lavoratori in
esse occupati, agendo soprattutto sulla convenienza delle famiglie a orientare la
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
26
domanda verso organizzazioni regolari.
2.3 Aspetti qualitativi
Nella prassi operativa del Terzo Settore, spesso viene trascurata la gestione e il
controllo integrato di alcune variabili organizzative tra le quali assume un ruolo
importante il personale. Le risorse umane rappresentano infatti la prima ricchezza di
ciascuna organizzazione, con o senza finalità di lucro, e non sempre se ne ha questa
percezione.
I problemi inerenti la definizione della struttura o dell’assetto organizzativo sono spesso
trascurati proprio per l’importanza attribuita ai valori e al coinvolgimento delle persone.
Sicuramente le ragioni ideali di comunanza con gli scopi dell’ente sono di fondamentale
importanza per la scelta di operare in una organizzazione non profit ma a giocare un
ruolo importante è anche la necessità di lavorare.
Spesso, infatti, la domanda di lavoro che attira l’organizzazioni non profit è poco
specializzata (o erroneamente considerata tale), prevalentemente femminile
(componente meno sensibile al problema del lavoro irregolare), con impegni
universitari da assolvere o già pensionata.
Ciò va evidentemente in senso contrario ad una corretta gestione “amministrativa” del
personale.
In molte organizzazioni, l’importanza dei volontari è sottovalutata poiché vengono
considerati di “seconda scelta” rispetto alle forze lavoro stipendiate, ritenute invece di
“prima scelta”. I volontari, in alcuni casi, si utilizzano solo perché non ci si può
permettere di avere personale retribuito. Non ci si domanda, invece, se
nell’organizzazione non ci siano aree, funzioni e ruoli in cui i volontari, proprio in qualità
di volontari, siano più efficaci e dove non rappresentino solo un risparmio di costi
(Melandri, 2001).
A volte può anche succedere che i dipendenti subiscano una certa "dittatura" da parte
della dirigenza, specie se questa coincide con il gruppo fondatore. Infatti, inizialmente
una organizzazione si regge normalmente con il contributo esclusivo dei lavoratori
volontari; se, e quando sorge l'esigenza di avere personale retribuito, si crea il
pregiudizio che il compenso sia un sovrappiù. Da ciò risulta non lineare stabilire i limiti
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
27
tra partecipazione attiva e lavoro stipendiato, e si possono imporre condizioni di lavoro
intollerabili. Si possono così creare per i dipendenti carichi di lavoro elevati, sopportabili
sulla scorta di un entusiasmo pionieristico e volontaristico, ma ridimensionati dalla
continuità di sacrificio che può essere sostenuta difficilmente per lunghi periodi.
Purtroppo, non sono rari i casi di organizzazioni non profit che sono tali solo
formalmente perché gli utili, pur non dando luogo a dividendi, si traducono in veri e
propri guadagni per i dirigenti e/o danno luogo ad accumulazione di potere economico
(anche sotto forma di vere e proprie holding finanziarie).
Conseguentemente, queste organizzazioni sono associate a regimi lavorativi e fiscali,
sostanzialmente, se non formalmente, illegali e selvaggi: vi si possono annidare perciò
sacche di sfruttamento di lavoro sottopagato mascherato da volontariato.
L’eccessiva dipendenza dalle amministrazioni pubbliche, rischia inoltre di portare i
soggetti coinvolti ad un processo di deresponsabilizzazione reciproca, nel quale
l’istituzione si accontenta di aver risparmiato sui costi (chiedendo la
regolarità/correttezza formale del rapporto contrattuale, che è resa possibile solo
attraverso il ricorso al lavoro grigio), senza considerare attentamente la qualità delle
prestazioni e i risultati, e l’organizzazione non profit si accontenta di sopravvivere,
senza effettuare una attenta analisi sul carattere pubblico, sociale, dei problemi e dei
beni che essa tratta.
Non necessariamente però la qualità del servizio offerto dall’organizzazione non profit è
in diretta relazione con la regolarità del lavoro, per cui anche le gare d’appalto
effettuate sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa (nelle quali si tiene
conto degli aspetti qualitativi oltre che di quelli relativi al costo) non ostacolano, in linea
di principio, il ricorso al lavoro sommerso.
In generale, si giustifica la non eticità del lavoro sommerso, in quanto vi ricorrono le
organizzazioni non profit ma anche, indirettamente, la pubblica amministrazione.
Le teorie sull’organizzazione hanno da tempo rilevato che tutte le organizzazioni sono
costitutivamente esposte al rischio di perdere di vista gli scopi per i quali sono sorte e
operano concentrandosi soprattutto sui mezzi.
Nel caso di organizzazioni non profit questo rischio appare forte, probabilmente anche
in ragione dell’elevato grado di incertezza in cui esse svolgono la propria attività. La
loro finalità sociale (pubblica, collettiva) potrebbe essere dimenticata, o soltanto
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
28
evocata in forme ritualizzate, in nome del superiore imperativo della sopravvivenza (De
Leonardis, 1998).
Il rischio conseguente è che proprio il Terzo Settore, cioè il luogo dove più forte e
strutturata dovrebbe essere la lotta alla marginalità e all’esclusione, si trasformi esso
stesso in produttore di precarietà esistenziale e marginalità per i lavoratori.
Per contrastare il fenomeno andrebbero introdotti, ad esempio, sistemi di monitoraggio
degli appalti e la certificazione sociale che vuole dire controllo della regolarità (formale
e sostanziale) del lavoro svolto.
Il fenomeno del lavoro sommerso nel Terzo Settore può essere analizzato anche in
riferimento ai seguenti tre rapporti contrattuali:
- socio lavoratore
- volontario
- lavoratore atipico
1. Socio lavoratore
La situazione del lavoro nelle cooperative sociali, come nel resto del Terzo Settore, è
comunque fuor di dubbio confusa; questo soprattutto per le molteplici figure che si
possono ritrovare.
Accanto al socio lavoratore, abbiamo i lavoratori subordinati alle dirette dipendenza
della cooperativa, i soci svantaggiati, i soci volontari previsti dall’art.3 della L.381/1991
che prestano la loro attività gratuitamente ed ai quali può essere corrisposto solo il
rimborso spese, i collaboratori coordinati e continuativi ed i prestatori occasionali di
lavoro.
Il socio lavoratore è colui che lavora attivamente in una organizzazione di terzo settore
(tipicamente, all’interno di cooperative sociali) e che, allo stesso tempo, ne è anche
socio. Rappresenta quindi una figura a metà strada tra il dipendente e l’imprenditore.
E’ evidente che si viene così a configurare una tipologia lavorativa, differente dal lavoro
subordinato tipico, assai diffusa nel Terzo Settore. Essendo l’attività svolta dal socio
lavoratore funzionale al perseguimento dei fini sociali dell’organizzazione, si può
sostenere che in sé essa non dà luogo ad un rapporto di lavoro dipendente, anche se è
sempre più diffusa l’applicazione dei contratti collettivi, che in definitiva finiscono per
configurare rapporti di lavoro di fatto non troppo dissimili da quelli dei lavoratori
standard.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
29
Nell’ambito delle cooperative sociali la figura del socio lavoratore è spesso vista dal
sindacato come una formula giuridico-contrattuale che consente alle cooperative di
utilizzare mano d’opera giovane, retribuendola in modo inadeguato e non
garantendone benefici come indennità di malattia, ferie, contributi previdenziali, ecc.
Questa posizione ha alimentato un dibattito acceso, in particolare, nel 1997 dall’allora
leader della CGIL Sergio Cofferati al quale hanno preso parte molti esponenti del Terzo
Settore cercando di rispondere alle provocazioni dell’intero mondo sindacale.
Le sollecitazioni poste, anche se corrette se si guarda all’esigenza di porre un
interrogativo sulla questione, poggiavano forse su un preconcetto, e cioè che vi fosse
una forma di svolgimento del lavoro e di inquadramento contrattuale che dovesse
essere presa a modello nel regolamentare i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore. Si
trattava ovviamente della modalità di lavoro dipendente a tempo pieno e
indeterminato.
Successivamente, la Funzione Pubblica della CGIL, nel 1998, ha auspicato un contratto
unico per il Terzo Settore affinché venissero date più garanzie ai lavoratori coinvolti e
venissero eliminati i meccanismi di concorrenza al ribasso.
Nel 2001, con la Legge n.142 del 3 aprile, è stata introdotta per le cooperative (anche
quindi per quelle sociali) la nuova disciplina sul socio lavoratore identificandone, in
particolare, i diritti (in termini anche di trattamento economico) e i doveri.
La normativa prevede inoltre che le cooperative stendano ed approvino un
regolamento sulle tipologie di rapporto che l’impresa intende attuare con i soci
lavoratori.
2. Volontario
La caratteristica dell’azione volontaria è che sia offerta “in modo personale, spontaneo
e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro,
anche indiretto, ed esclusivamente per fini di solidarietà” (L.266/91, art.2, co.1). Da
questa definizione legislativa fornita dalla legge quadro sul volontariato, si deduce che
la gratuità e la spontaneità sono caratteristiche essenziali dell’azione volontaria, che
deve esclusivamente perseguire fini di solidarietà. L’affermazione previene anche i
possibili rischi di abuso dell’opera del volontario, che potrebbe tradursi in “lavoro nero”,
nel caso fosse utilizzata per supplire a carenze di personale, o di sfruttamento di
persone in difficoltà. Infatti, nel corso degli anni molti volontari che all’inizio del loro
servizio erano sinceramente partecipi dei valori solidali del gruppo, hanno in seguito
preteso il riconoscimento del loro rapporto come lavoro subordinato (Comolli, 1998). A
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
30
riprova di quanto affermato, si nota che sono sempre più le persone che, dopo qualche
tempo di attività gratuita presso organizzazioni non profit, decidono di stabilizzare il
rapporto, trasformandolo in un vero e proprio impiego retribuito. Secondo il terzo
rapporto annuale sulle organizzazioni di volontariato della Fondazione Italiana per il
Volontariato, su 5 milioni di persone a diverso titolo interessate o coinvolte in attività di
volontariato, solo 500 mila possono essere definiti volontari doc, in senso stretto
(Frisanco, 2002).
Non sono pochi infatti i casi di soggetti che decidono di svolgere gratuitamente una
certa attività per un determinato lasso di tempo presso una organizzazione di
volontariato (ma ancor più il fenomeno è sviluppato nelle cooperative sociali dove i
“soci volontari” sperano di ottenere incarichi di lavoro continuativi e retribuiti) in
cambio della promessa, ovviamente non formalizzata, di una sistemazione lavorativa
successiva (Grasso, 2002).
Proprio per tale utilizzo dei volontari, vengono previste forme di “retribuzione” sotto
forma di piccoli incentivi economici/indennizzi quali rimborsi spese “forfetari”, “gonfiati”
o gettoni di presenza. A volte si utilizzano tale forme perché le rigidità normative non
consentono di incentivare il volontariato distribuendo somme di denaro in modo più
chiaro e trasparente.
Bisogna “evitare il proliferare di forme di semivolontariato attuato mediante la
corresponsione di somme inferiori di quelle proprie di una normale retribuzione: il
lavoro semigratuito non può essere ammesso; l’aspirazione solidaristica della
prestazione non può giustificare l’abbassamento delle garanzie proprie del lavoro
subordinato (Menghini, Rapporto CNEL, 2000)”.
La coesistenza di volontariato e di personale retribuito, inoltre, può favorire forme di
lavoro sommerso per le seguenti ragioni:
- spesso, si tratta di forme di lavoro che sono a cavallo tra la formalità e l’informalità,
c’è una prossimità fra lavoro retribuito e lavoro volontario: non è un semplice rapporto
di lavoro, è un rapporto ‘caldo’, non ‘freddo’,
- clima di connivenza fra datore di lavoro e lavoratore che implica una probabile
maggiore difficoltà ad aprire una vertenza sul lavoro,
- informalità dominante nei rapporti (e, nelle relazioni, in generale) di lavoro.
3. Lavoratore atipico
L’Istat rileva che nel Terzo Settore lavorano circa 80.000 addetti con contratto di
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
31
collaborazione coordinata e continuativa (Patete, 2002). Il lavoro atipico viene utilizzato
nel Terzo Settore nella stessa misura che negli altri settori (10%).
Esiste inoltre una realtà di cosiddetto “semilavoro” nella forma di stage e tirocini. La
situazione varia molto da mansione a mansione, ma anche tra il Nord e il Sud del
Paese.
Spesso si ha a che fare con organizzazioni che stanno nascendo, o ancora troppo
fragili. Così, trattandosi di attività all’inizio del loro sviluppo che non hanno la garanzia
delle entrate, queste organizzazioni non si impegnano su contratti di lavoro stabili e di
medio e lungo periodo.
E’ però una flessibilità occupazionale che spesso non nasce da una libera scelta. Non
esistono forme di lavoro adeguate per l’impiego in questo settore, per questo si è
costretti ad utilizzare forme di lavoro che non le sono proprie. Infatti, dal momento che
nel Terzo Settore il lavoratore non ha interessi divergenti da quelli dell’organizzazione
ma ne condivide gli obiettivi, applicare un contratto di lavoro dipendente sembra
piuttosto anomalo.
Inoltre, spesso, nell’ambito dei servizi alla persona, il lavoro è molto parcellizzato con la
conseguenza che vi è una maggiore difficoltà da parte del datore di lavoro, che non ha
la percezione del rischio, a regolarizzare una persona per un impegno orario limitato o
che desidera forme di lavoro in nero per ottenere un compenso maggiore (in quanto
non ha la percezione del danno economico prodotto da un lavoro irregolare a livello, ad
esempio, di certificazione delle competenze e di trattamento pensionistico).
2.4. L’incidenza del lavoro sommerso nel “terzo settore” toscano
L’IRPET non ha mai svolto ricerche specifiche sulla presenza di lavoro irregolare nel
terzo settore.
Tuttavia, dalle ricerche effettuate, finalizzate a delineare composizione, peso
economico ed occupazionale del terzo settore, sono emerse le seguenti caratteristiche
riconducibili, in parte, a questa problematica:
1. Le organizzazioni che appartengono al terzo settore sono molto eterogenee, le
tipologie principali sono costituite da associazioni genericamente culturali-
ricreative, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali (di tipo A e B).
2. Un significativo apporto di tipo occupazionale si verifica solo nel caso delle
cooperative sociali (che rappresentano solo una parte molto ridotta del terzo
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
32
settore), mentre per le altre categorie è netta la quasi esclusività del ricorso al
lavoro volontario.
3. L’occupazione creata dalle cooperative sociali è caratterizzata da alti livelli di turn
over, prevalenza di età giovanili, frequenza di titoli di studio medio-alti, forte
presenza femminile. La compresenza di tali caratteristiche fa pensare
all’occupazione nella cooperazione sociale come prima esperienza lavorativa per i
giovani in ingresso sul mercato del lavoro.
4. Per l’intenso rapporto esistente tra cooperative sociali e pubblica amministrazione e
l’evoluzione sperimentata dalle modalità di svolgimento delle gare di appalto
(progressiva sostituzione del criterio del costo più basso con valutazione
complessiva dei progetti) si suppone di poter escludere una presenza sistematica
del lavoro irregolare nel terzo settore.
Sembra invece più probabile che le cooperative sociali di tipo A, collaborando con
la Pubblica Amministrazione possano contribuire a far emergere quella parte di
lavoro irregolare che interessa il settore dell’assistenza alla persona (che è il tipico
settore di attività del terzo settore), lasciato all’iniziativa privata delle famiglie.
Per cercare di quantificare il peso in Toscana del lavoro sommerso nel terzo settore,
dobbiamo considerare tale settore per gran parte incluso nella voce ‘altri servizi’ delle
stime effettuate (ad esempio dall’ISTAT).
Sulla base di questa forzatura, possiamo affermare che il grado di diffusione del lavoro
sommerso nel terzo settore in Toscana è probabilmente consistente, soprattutto
nell’ambito del lavoro autonomo. Tendenzialmente nelle aree urbane, in cui sono più
sviluppati gli ‘altri servizi’, che sono quelle che attirano una maggiore percentuale di
lavoro irregolare.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
33
SECONDA PARTE
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE: FIELD ANALYSIS
La prima parte di questo lavoro è stata dedicata a ricomporre il quadro del fenomeno
del lavoro sommerso nel terzo settore a livello nazionale e nel dettaglio regionale.
Il tentativo di una lettura critica del fenomeno attraverso la composizione di fonti
eterogenee ha permesso di ricostruire un quadro di insieme che, seppure lacunoso e
frammentato, risulta estremamente utile. A priori per calibrare le modalità dell’indagine
diretta; a posteriori per dimensionare e collocare le informazioni raccolte nelle fasi di
analisi sul campo.
Nell’ambito del progetto, l’attività di analisi sul campo si è articolata in due moduli
distinti. Da un lato, il gruppo di ricerca ha scelto di acquisire informazioni sul fenomeno
del lavoro sommerso nel terzo settore in ambito regionale, coinvolgendo alcuni
osservatori privilegiati.
In una fase successiva si è indagato il punto di vista di coloro che operano, con diverse
qualifiche e tipologie contrattuali, nell’ambito del terzo settore.
A questo scopo sono stati intervistati due gruppi distinti di lavoratori del terzo settore.
Il primo gruppo è stato individuato grazie al contributo della CISL, che ha messo a
disposizione del gruppo di ricerca un elenco di lavoratori del terzo settore che, per
diversi motivi, sono entrati in contatto con l’organizzazione sindacale. Nello specifico di
questo primo gruppo di lavoratori, le informazioni acquisite a priori hanno evidenziato
l’esistenza di forme di lavoro irregolare e, più in generale, il mancato rispetto, nelle
forme più diverse, del contratto di lavoro.
Il secondo gruppo di lavoratori è stato individuato in maniera del tutto casuale, a
partire dall’attivazione di contatti con i lavoratori di alcune organizzazioni del terzo
settore.
Per questo secondo gruppo di lavoratori non era ovviamente nota a priori né la
tipologia del rapporto di lavoro instaurato con l’azienda né l’eventuale esistenza di
situazioni di irregolarità.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
34
Per la scelta del secondo gruppo di intervistati è stata privilegiata la disponibilità dei
lavoratori a prendere parte all’indagine, dedicando del tempo a raccontare la loro
esperienza e a descrivere le condizioni e le modalità del loro lavoro.
Le interviste agli osservatori privilegiati e ai lavoratori sono state analizzate e
rielaborate dal gruppo di ricerca.
Nel terzo capitolo si propone una lettura di quanto emerge dall’analisi delle interviste ai
testimoni privilegiati. Nel quarto capitolo si presentano i risultati delle interviste in
profondità con i due gruppi di lavoratori individuati.
Ciò rappresenta, a nostro avviso, una lettura del fenomeno parziale, che non pretende
di esaurire la complessità dell’argomento ma intende offrire uno spunto utile ai fini di
un necessario dibattito sulle modalità e sulle condizioni di lavoro nel terzo settore e, più
in generale, sul rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
35
CAPITOLO TERZO
L’INDAGINE SUL CAMPO: IL COINVOLGIMENTO DEI TESTIMONI
PRIVILEGIATI5
3.1 Le modalità di analisi
Uno dei maggiori problemi emersi in sede di progettazione dell’indagine è
rappresentato dalla scelta delle tecniche di analisi da utilizzare per indagare un
fenomeno, quello del lavoro sommerso nel terzo settore, che racchiude in sé una
duplice complessità.
Da un lato vi è il problema del lavoro sommerso che, per sua definizione, sfugge a
tentativi di analisi e di stima. Dall’altro vi è la questione del “terzo settore”, che
rappresenta un ambito di attività ancora poco studiato e i cui confini risultano mobili e,
soprattutto, non universalmente condivisi.
Lo studio del fenomeno del sommerso è stato storicamente affrontato con due
approcci metodologici diversi: i metodi diretti e i metodi indiretti.
I metodi indiretti, seppure diversi fra loro, sono accomunati dall’idea di fondo che sia
possibile misurare l’entità del sommerso attraverso indicatori che contengono
informazioni indirette.
Tali metodi possono basarsi sull’analisi delle transazioni monetarie; sull’analisi degli
input fisici di produzione; su modelli con variabili non osservate; sulla discrepanza fra
fonti statistiche che misurano la domanda e l’offerta di lavoro6 .
I metodi diretti, per contro, indagano il fenomeno attraverso il coinvolgimento di
soggetti economici direttamente interessati - imprese e lavoratori - o di soggetti
economici e/o istituzionali che, seppure non coinvolti direttamente, risultano informati.
Nel caso dell’impiego di metodi diretti, le tecniche di indagine utilizzate possono essere
di tipo quantitativo, attraverso la somministrazione di questionari a risposta chiusa a
campioni rappresentativi di soggetti, oppure di tipo qualitativo. In quest’ultimo caso le
indagini si basano sulla somministrazione di interviste in profondità a campioni non
5 Il capitolo è a cura di Francesca Ricci, IAL Toscana.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
36
statisticamente rappresentativi dell’universo, ma selezionati sulla base di alcune
variabili che si ritengono rilevanti.
Nello specifico di questa analisi, il gruppo di lavoro ha privilegiato l’impiego di tecniche
di indagine qualitative che, pur sacrificando il criterio della rappresentatività,
presentano alcuni vantaggi.
La realizzazione di interviste in profondità attraverso la somministrazione “face to face”
di questionari semistrutturati consente di acquisire informazioni estremamente ricche e
di ampio dettaglio relativamente ai meccanismi di funzionamento del fenomeno
indagato.
E questo aspetto è certamente cruciale in tutti quei casi in cui le informazioni sul
fenomeno esplorato sono scarse o per la natura del fenomeno - ed è certamente il
caso del lavoro sommerso - o per la ridotta disponibilità di analisi e studi preesistenti.
E, come è emerso dall’attività di ricognizione bibliografica, il tema del lavoro sommerso
nello specifico del terzo settore risulta ad oggi relativamente poco indagato.
Il coinvolgimento, in qualità di osservatori privilegiati, di persone che sono a
conoscenza di attività sommerse senza parteciparvi direttamente evita il problema della
reticenza nel fornire informazioni in merito.
Tale prassi di ricerca è stata ampiamente utilizzata nel nostro Paese in molte indagini
sul lavoro sommerso e sul lavoro irregolare, sia nella sua versione “originale” – ovvero
il metodo delle persone “informate”, utilizzato per la prima volta nel 19737 – sia in
versioni successive.
L’individuazione di testimoni privilegiati nell’ambito del terzo settore è stata
un’operazione piuttosto complessa. Come è emerso implicitamente sin qui, infatti, il
terzo settore rappresenta, proprio per la sua recente costituzione, un ambito
relativamente poco studiato, soprattutto per quanto attiene alle modalità organizzative
e alle forme di lavoro.
Per questo motivo le interviste sono state realizzate sia con referenti locali che con
referenti nazionali. Il coinvolgimento di osservatori che operano su scala nazionale, e
6 Cfr. Schneider e Enste, “Shadow Economies: Size, Causes and Consequences”, Journal of Economic Literature, XXXVIII (2000). 7 Si veda, in proposito, Bergonzini, “Casalinghe o lavoranti a domicilio?”, in Inchiesta, aprile-giugno 1973.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
37
che quindi hanno una percezione del fenomeno di più ampio respiro, rappresenta per
alcuni versi un limite.
E di ciò il gruppo di ricerca è stato consapevole fin dall’inizio, se è vero, come è vero,
che il “dibattito italiano sul lavoro sommerso è caratterizzato da una tendenza molto
netta verso la spiegazione locale del sommerso: sono le condizioni del mercato del
lavoro e delle istituzioni locali che determinano la varietà di forme e di diffusione del
sommerso nel nostro Paese8”
Nell’ambito dell’indagine sono stati coinvolti in qualità di testimoni privilegiati esponenti
di organizzazioni sindacali e datoriali, che operano a livello nazionale e locale, soggetti
pubblici ed esperti del terzo settore.
8 Cfr. Unioncamere Toscana, Lavoro sommerso e contratti atipici, in Impresa Toscana, n.1/2002.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
38
3.2 Gli obiettivi dell’indagine sul campo
Gli obiettivi che il gruppo di ricerca si è posto nella fase di coinvolgimento degli
osservatori privilegiati sono molteplici9.
In primo luogo si è cercato di integrare e approfondire le informazioni raccolte nella
fase di desk analysis.
In secondo luogo si sono individuate e definite le caratteristiche del lavoro sommerso
nell’ambito del terzo settore.
In terzo luogo il gruppo di ricerca si è soffermato sull’analisi del comportamento dei
committenti, con riferimento alle modalità di controllo delle attività e dei livelli
contributivi.
Infine si sono raccolte indicazioni sulle tendenze di medio periodo, cercando di capire
se il rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore ha, nella percezione degli
intervistati, una connotazione “fisiologica” o una connotazione “patologica”.
Allo scopo di raggiungere gli obiettivi, le interviste “face to face” con gli osservatori
privilegiati hanno affrontato una serie di questioni. In primo luogo si è chiesto agli
intervistati di dare una definizione di terzo settore, per far emergere in maniera
esplicita la pluralità di posizioni che caratterizzano il dibattito in corso nel nostro Paese.
Quindi si è tentato di analizzare il rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore,
esplorando una serie di aspetti: quanto e come le organizzazioni del terzo settore
ricorrono al lavoro sommerso; qual è la forma di lavoro sommerso maggiormente
diffusa a livello regionale; quali possono essere le cause che spingono all’impiego di
forme di lavoro sommerso nel terzo settore; quali sono, se esistono, le specificità
settoriali del terzo settore nell’ambito delle quali il lavoro sommerso si concentra
maggiormente; quali sono, se esistono, le specificità locali nell’ambito delle quali il
lavoro sommerso si concentra maggiormente; quali sono le forme attraverso le quali il
lavoro sommerso si manifesta e si concretizza nel terzo settore; con quale frequenza le
imprese del terzo settore ricorrono al lavoro sommerso.
Si è cercato, nel corso delle interviste, di indagare il rapporto fra gli enti finanziatori e
le organizzazioni del terzo settore, allo scopo di far emergere eventuali meccanismi di
distorsione e di controllo.
9 Si veda, in proposito, la traccia di intervista ai testimoni privilegiati.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
39
Sono state quindi analizzate le dinamiche di medio periodo. In particolare, si è chiesto
agli intervistati di delineare degli scenari probabili sulla base del dibattito in corso e
della produzione legislativa.
Inoltre si è focalizzata l’attenzione sul rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore in
prospettiva, cercando di valutare la natura “fisiologica” o “patologica” del rapporto.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
40
3.3 Il concetto di “terzo settore” nella percezione degli intervistati
Il primo aspetto affrontato in sede di intervista con i testimoni privilegiati - su cui a
nostro avviso è interessante soffermarsi - è rappresentato dalla percezione che gli
intervistati hanno del “terzo settore”.
Come è stato correttamente rilevato, infatti, “il termine terzo settore viene utilizzato
per indicare qualcosa di altro dallo stato e dal mercato. Quindi, tale definizione,
comprende organizzazioni e realtà estremamente eterogenee10”.
La richiesta di dare una definizione di terzo settore ha portato alla luce posizioni
diverse, sia su ciò che si debba intendere per terzo settore sia sulla natura e sulla
tipologia dei soggetti economici da includere e da escludere.
Da una lettura attenta delle informazioni raccolte, si rileva che la molteplicità di
posizioni emerse nel corso delle interviste può essere ricondotta a due grandi gruppi.
Per alcuni intervistati, vi è la convinzione che esista una perfetta coincidenza fra terzo
settore e mondo non profit.
Secondo questa posizione, il terzo settore si compone di tutti quei soggetti che
“statutariamente o per mission svolgono le loro attività non a fini di lucro...tutti gli utili
sono recuperati per nuovi investimenti, per creare nuova ricchezza, per favorire nuova
occupazione e nuovi servizi in una visione che è quella di interesse della comunità” .
Sulla base di questa impostazione, tutti quei soggetti privati che operano “in campo
sanitario, sociale, assistenziale e quant’altro con finalità tipiche dell’impresa
privata...non possono far parte del terzo settore”.
Accanto a questa impostazione, che individua una perfetta coincidenza fra terzo settore
e mondo del non profit, se ne può individuare un’altra, che si caratterizza per il fatto di
includere una tipologia di soggetti più ampia.
Secondo questa posizione, infatti, “terzo settore non vuol dire necessariamente non
profit...ci possono e ci devono essere anche degli spazi in cui il privato può avere un
suo diritto di cittadinanza, a certe condizioni”.
Questa impostazione, dunque, allarga i confini e, soprattutto, la tipologia di attori che
agiscono nel terzo settore.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
41
Tuttavia, è importante rilevare che, anche fra i sostenitori di questa impostazione, è
abbastanza condivisa l’idea che “il non profit rappresenta pur sempre lo zoccolo duro di
questa realtà [ndr. il terzo settore]”.
Più in generale, facendo riferimento ai criteri proposti da Lunaria11 per definire e
circoscrivere le organizzazioni del terzo settore, il primo gruppo di intervistati pone
l’accento essenzialmente sul principio della non distribuzione degli utili.
L’impossibilità di ridistribuire gli utili fra i soci e i lavoratori, né direttamente né
indirettamente, rappresenta il principale criterio discriminante per definire la linea di
confine e, soprattutto, i soggetti da includere e da escludere dal terzo settore.
La seconda impostazione individuata fra gli intervistati privilegia invece, fra l’insieme
dei criteri definiti, quello dell’utilità sociale. Le organizzazioni del terzo settore sono
dunque tutte quelle organizzazioni che lavorano per la promozione della persona e
svolgono attività di pubblica utilità.
E tutto ciò, aggiungiamo noi, a prescindere, anche se con dei limiti, dalla forma
giuridica e/o dalle modalità di distribuzione degli utili.
Qualunque sia la definizione adottata, quella più ampia o quella più circoscritta, gli
intervistati concordano sul fatto che gli attori che si muovono nel cosiddetto terzo
settore rappresentano una realtà estremamente frammentata e disomogenea.
Le organizzazioni del terzo settore, infatti, si differenziano in primo luogo per ambito di
attività e tipologia di servizi erogati.
“Si possono individuare, anche se con molte difficoltà, almeno cinque distinte aree di
attività: l’area sanitaria, l’area socioassistenziale, l’area di educazione e formazione,
l’area della cultura e, da un po’ di tempo a questa parte, l’area amministrativa e
gestionale”.
Le differenze rilevabili fra le organizzazioni del terzo settore non si fermano all’ambito
di attività economica e alla tipologia di servizi erogati, ma vanno ben oltre.
10 Cfr. Lunaria, Forme di lavoro nel terzo settore. Ed. Lunaria, Roma, 1998. 11 Lunaria, partendo dalla definizione della John Hopkins University e cercando di sottolineare la peculiarità del settore come produttore di utilità sociale, ha proposto alcuni criteri per individuare le organizzazioni del terzo settore: la formalità; la natura privata dell’organizzazione; il principio della non distribuzione degli utili (né diretta, né indiretta); l’autogoverno; la struttura democratica dell’organizzazione; la presenza del volontariato; la produzione di utilità sociale eterodiretta. Cfr. Lunaria, Forme di lavoro nel terzo settore. Ed. Lunaria, Roma, 1998.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
42
Come rileva Lunaria12 per il livello nazionale - e come è emerso frequentemente in sede
di intervista per il livello regionale – le organizzazioni del terzo settore differiscono fra
loro “per dimensioni, obiettivi, struttura, natura giuridica, tendenze politiche e
culturali”.
Le riflessioni contenute nel paragrafo richiamano dunque ad una questione nota e
ancora ampiamente dibattuta, che in questa sede non pretendiamo di sciogliere.
Tuttavia, ciò che ci preme sottolineare è che la mancanza di delimitazioni chiare e,
soprattutto, condivise di ciò che si debba intendere per terzo settore rappresenta uno
dei principali problemi con cui deve misurarsi chiunque voglia indagare il fenomeno
delle modalità di lavoro.
Più nel dettaglio, e con riferimento alla questione specifica della nostra indagine, le due
diverse impostazioni rilevate nella fase di coinvolgimento degli osservatori privilegiati,
hanno, come vedremo più avanti, implicazioni dirette e precise sulla questione del
lavoro sommerso nel terzo settore.
12 Cfr. Lunaria, Forme di lavoro nel terzo settore. Ed. Lunaria, Roma, 1998.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
43
3.4 Lavoro “nero” e lavoro “grigio” nel terzo settore
Ma che rapporto esiste fra lavoro sommerso e terzo settore in ambito regionale?
Intorno a questa domanda chiave si è sviluppata l’intervista realizzata con i testimoni
privilegiati.
Gli studi realizzati sul lavoro sommerso nel nostro Paese evidenziano che l’entità e le
modalità di diffusione del fenomeno sono fortemente correlate alla dimensione locale e
alla tipologia di attività economica.
Se è vero, com’è vero, che il sistema economico nel suo complesso è pervaso da forme
di lavoro sommerso e irregolare, è plausibile sostenere che anche il sistema del terzo
settore non sia estraneo al fenomeno.
Tuttavia, ciò che risulta difficile - e che costituisce uno degli obiettivi a cui ha teso
questo lavoro - è cercare di valutare l’incidenza del fenomeno nelle organizzazioni del
terzo settore e, soprattutto, le modalità di manifestazione.
Rispondere al quesito iniziale, ovvero capire che rapporto esiste fra lavoro sommerso e
terzo settore in ambito regionale, è difficile per almeno due ordini di motivi.
In primo luogo, come è stato rilevato nel corso di più di un’intervista, “per riuscire a
rispondere in maniera esaustiva a questa domanda, sarebbe necessario essere in
possesso di dati statistici di dettaglio, che ad oggi ancora non esistono”.
Oltre alla difficoltà di misurazione del lavoro sommerso, a cui peraltro si è cercato di
dare risposta attraverso processi di stima13, una delle questioni ancora oggi
ampiamente dibattuta è rappresentata dalla misurazione dei soggetti che fanno parte
del terzo settore e del loro impatto occupazionale.
Nel corso degli ultimi anni, infatti, sono state tentate numerose rilevazioni nel nostro
Paese, con lo scopo di valutare la consistenza quantitativa delle organizzazioni del terzo
settore, sia in termini di base produttiva, sia in termini di impatto occupazionale.
Tuttavia, i risultati a cui hanno condotto le ricerche sono discordanti fra loro, a
conferma del fatto che a differenti definizioni corrispondono differenti risultati14.
13 Si veda, in proposito, Rapporto sul lavoro sommerso in Toscana, IRPET, 2001. 14 Cfr. Sciclone, L’analisi economica del terzo settore in Toscana, IRPET, 2001.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
44
E questo sia perché le stime prodotte non permettono di scendere in un dettaglio
settoriale e territoriale così spinto, sia perché le ricerche e le indagini che fino ad oggi
sono state realizzate si sono focalizzate su ambiti territoriali circoscritti.
A ciò si aggiunge un’altra difficoltà, in cui si imbatte chiunque intenda indagare le
modalità di lavoro nel terzo settore. Il lavoro nel terzo settore non può essere letto con
gli stessi schemi concettuali delle altre forme di lavoro perché, come avremo modo di
vedere più avanti, si caratterizza per peculiarità che non si rintracciano altrove.
Le persone che lavorano nel terzo settore condividono spesso gli scopi e gli obiettivi
sociali dell’organizzazione di cui fanno parte. Molte delle organizzazioni del terzo
settore sono strutture democratiche, dove i lavoratori hanno un certo controllo sulle
decisioni prese. Nell’ambito delle organizzazioni del terzo settore, infine, si rilevano
modalità di interazione fra volontariato e lavoro retribuito che non sono riscontrabili in
altri ambiti di attività economica15.
La mancanza di stime effettive della quota di occupazione nel terzo settore e la
connotazione del tutto particolare che il concetto di lavoro assume implicano che in
questa sede la valutazione del rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore non può
che essere dedotta dalla percezione qualitativa degli intervistati che, pur confortata da
una profonda conoscenza del contesto economico di riferimento, non è suffragata da
dati quantitativi, né ufficiosi né ufficiali.
Entrando nel merito dell’analisi, l’idea abbastanza condivisa, seppure con qualche voce
fuori dal coro, può essere sintetizzata dalla risposta secca e precisa di uno degli
intervistati.
“Penso che si possa quasi del tutto escludere il lavoro nero...il lavoro grigio penso di sì,
e anche in quantità rilevanti”.
Dunque, un primo elemento di rilievo emerso dalle interviste riguarda il fatto che gli
osservatori privilegiati, sulla base della loro conoscenza del fenomeno, escludono
l’esistenza su larga scala in Toscana di forme di lavoro nero, cioè di situazioni in cui
“non sono garantiti al lavoratore nemmeno i diritti fondamentali”.
15 Cfr. Lunaria, Forme di lavoro nel terzo settore. Ed. Lunaria, Roma, 1998.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
45
Secondo gli intervistati, “non si può parlare di presenza di lavoro nero nella sua
accezione più tipica, cioè di lavoratori che lavorano al di fuori di ogni regola, quindi con
evasione contributiva, previdenziale e assistenziale”.
Gli intervistati concordano nel ritenere che “esistono certamente delle nicchie di lavoro
nero vero e proprio, come peraltro in tutti i settori di attività economica...ma il
problema più rilevante per il terzo settore in Toscana è rappresentato dalle situazioni di
grigio”.
Come approfondiremo meglio nel paragrafo successivo, quando ci occuperemo di
capire in che modo si concretizza il fenomeno, dall’analisi delle risposte degli
osservatori privilegiati sembrerebbe essere confermata una tesi dimostrata da altre
ricerche svolte in ambito regionale.
Le analisi qualitative e quantitative realizzate in Toscana hanno infatti contribuito a
mettere in luce l’esistenza di forme di sommerso molto diverse da quelle studiate in
altre aree del Paese.
Sulla base di questi studi, si evince che il fenomeno del lavoro sommerso in ambito
regionale è da collegarsi soprattutto ad attività sommerse. Tale forma di lavoro è stata
definita, appunto, di “lavoro grigio”16.
Se dunque, non è possibile stimare l’incidenza del lavoro sommerso nel terzo settore e
porla a confronto con il dato relativo ad altri ambiti di attività economica, un elemento
utile emerso in sede di indagine e su cui ci pare interessante riflettere è costituito dal
fatto che nel terzo settore si rilevano fenomeni isolati di lavoro nero e situazioni molto
più diffuse di lavoro grigio, cioè di situazioni in cui la violazione delle norme che
regolano il contratto fra lavoratore e azienda non è totale, ma parziale.
E questo conferma in buona sostanza, quanto emerso da altre indagini realizzate in
ambito regionale, secondo le quali il lavoro sommerso presente in Toscana rappresenta
in larga misura un fenomeno collegato soprattutto ad attività emerse..
Al margine di questo paragrafo, ci pare interessante rilevare un aspetto emerso dalle
interviste realizzate con i testimoni privilegiati.
Ad eccezione dei casi di lavoro nero, vi è la convinzione generale, che l’impiego anche
consistente di forme di lavoro grigio non è dettato da finalità “speculative”.
16 Cfr. Unioncamere Toscana, Lavoro sommerso e contratti atipici, in Impresa Toscana, n.1/2002.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
46
Se, infatti, si escludono i casi di “cooperazione spuria”, cioè di quelle situazioni in cui la
forma cooperativa viene scelta con il deliberato intento di aggirare le norme che
regolano il rapporto fra lavoratore e datore di lavoro, molte delle organizzazioni che
ricorrono a forme di lavoro grigio nascono con finalità di utilità sociale, per coprire una
domanda di servizi a cui, altrimenti, non verrebbe data altra risposta.
I rapporti di lavoro non regolari, dunque, si collocano nella maggior parte dei casi in
organizzazioni che hanno come obiettivo primario quella di produrre utilità sociale.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
47
3.5 Le modalità di manifestazione delle forme di lavoro sommerso nel terzo
settore
Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, gli intervistati concordano nel
ritenere che, salvo alcune eccezioni, il terzo settore in Toscana si caratterizza
soprattutto per la presenza di forme di lavoro grigio.
In sede di analisi, è emerso in maniera evidente che le modalità di manifestazione del
lavoro sommerso nell’ambito del terzo possono essere molteplici e sembrano essere
correlate essenzialmente a due variabili: la natura dell’organizzazione e la tipologia del
rapporto di lavoro.
Il primo aspetto interessante è dato dal fatto che a forme organizzative diverse si
possono associare diverse modalità di lavoro ‘sommerso’. Le infrazioni che si possono
riscontrare nelle organizzazioni di volontariato sono, ad esempio, diverse da quelle che
possono verificarsi nel sistema cooperativo.
Allo stesso modo, la tipologia di contratto che regola il rapporto fra lavoratore e
organizzazione del terzo settore influisce sulle modalità di manifestazione del lavoro
sommerso.
In particolare, le interviste realizzate evidenziano che le irregolarità riscontrate nei
rapporti di lavoro dipendente sono diverse da quelle che possono verificarsi in presenza
di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.
Partiamo dalle situazioni di lavoro “classico”, cioè da tutti quei casi in cui il rapporto di
lavoro fra lavoratore e azienda è normato da un contratto di lavoro dipendente.
Una prima questione emersa in molte delle interviste è rappresentata dal fatto che la
frammentazione e l’eterogeneità delle organizzazioni che operano nel terzo settore
produce come conseguenza quella di “una vera e propria giungla retributiva”.
In particolare, per quanto attiene all’area sociosanitaria esistono ben 10 contratti di
settore, con la conseguenza che “operatori che svolgono mansioni simili o addirittura
identiche possono avere sensibili differenze retributive con riferimento alla paga base”.
Il panorama contrattuale si complica ulteriormente se si considera il fatto che, non
raramente, le organizzazioni del terzo settore possono applicare ai propri dipendenti
contratti di altri settori di attività economica, soprattutto quelli del terziario.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
48
L’analisi dei contratti collettivi applicati evidenzia inoltre che le differenze medie fra
contratti del pubblico e contratti del privato sociale si aggirano intorno al 30%.
Un secondo problema, per questo gruppo di lavoratori i cui rapporti con l’azienda sono
regolamentati da un contratto di lavoro dipendente, è rappresentato dal fatto che in
alcuni casi si rileva “la non osservanza di tutte le norme e gli obblighi contrattuali che il
sistema impone”.
Più nel dettaglio, si possono verificare situazioni in cui “si registra l’assenza del
riconoscimento di alcuni istituti previsti dal contratto, quali le ore di straordinario, il
lavoro su turni, le indennità festive e la reperibilità”.
Le forme di sommerso che possono essere insite nei rapporti di lavoro dipendente,
tuttavia, seppure gravi, non rappresentano la questione più rilevante.
Nell’ambito del terzo settore, infatti, “i lavoratori dipendenti sembrano non
rappresentare la maggioranza rispetto al totale degli occupati”, soprattutto con
riferimento ad alcuni ambiti di attività economica.
In effetti, uno dei fenomeni più rilevanti nella percezione degli intervistati sembra
essere rappresentato, a conferma di quanto emerso da altre indagini, dal rapporto che
esiste fra diffusione di nuove forme di lavoro e lavoro grigio.
Più in generale, secondo alcuni, vi sono situazioni che generano forti elementi di
ambiguità. In particolare, gli aspetti di criticità sono rappresentati da: “l’apporto del
volontario, l’apporto del socio nelle imprese cooperative e il fenomeno delle
collaborazioni coordinate e continuative”.
Il fenomeno del volontariato e il ruolo del socio rappresentano due aspetti intimamente
connessi con il terzo settore. Le collaborazioni coordinate e continuative, per contro,
pur rappresentando un fenomeno trasversale ad altri settori di attività economica,
hanno avuto nel terzo settore un impatto rilevante, non tanto in termini di stock,
quanto in termini di flussi.
Con riferimento alla questione delle collaborazioni coordinate e continuative, l’idea
condivisa dagli intervistati è che, pur in assenza di conferme quantitative, “la presenza
delle collaborazioni in tutti gli ambiti, dalle cooperative alle associazioni, si fa sempre
più rilevante”.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
49
Anche nel caso del terzo settore, infatti, “il contratto di collaborazione coordinata e
continuativa dovrebbe regolare un rapporto di lavoro di professionalità medio alte e
con caratteristiche specialistiche”.
In particolare, gli accordi di applicazione nel campo dei servizi sociosanitari ne
dovrebbero circoscrivere l’impiego a situazioni in cui “vi sia un rapporto alla pari di
erogazione fra un libero professionista ed un ente committente; non esista un orario di
lavoro rigidamente strutturato; il lavoratore non impieghi, per svolgere il proprio
servizio, strumenti di proprietà della ditta”.
Contrariamente a quanto enunciato, invece, gli intervistati rilevano come molte
organizzazioni del terzo settore ricorrano a rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa anche in quelle situazioni in cui ci sarebbero i presupposti per
l’instaurazione di rapporti di lavoro dipendente, determinando fenomeni di parziale
evasione contributiva.
“Un caso non raro è, ad esempio, quello di lavoratori che lavorano su turni con
contratti di collaborazione coordinata e continuativa”.
Per concludere, quindi, l’impiego di contratti di collaborazione coordinata e
continuativa, fenomeno in decisa espansione soprattutto in alcuni ambiti di attività
economica, rappresenta uno dei fattori che, anche nell’ambito del terzo settore,
contribuisce a determinare un incremento delle opportunità per l’utilizzazione di lavoro
grigio.
E’ in effetti abbastanza evidente, come è stato dimostrato da una recente indagine, che
quando la normativa diventa più complessa e la giurisprudenza di più difficile
applicazione, le imprese e i lavoratori tendono a muoversi più liberamente nel mercato
del lavoro, affiancando all’uso legale dei nuovi strumenti contrattuali nuove forme di
sommersione del lavoro.
Un altro elemento di ambiguità, rilevato in sede di interviste, è rappresentato dalla
questione del socio lavoratore. In particolare è emerso come, in alcuni casi, “vi è una
grossa ambiguità nella flessibilità dell’apporto lavorativo del socio alla cooperativa”.
Si tratta, peraltro, di una questione ampiamente dibattuta, che contrappone due
posizioni diverse. Da un lato, infatti, vi è l’idea che “debba essere salvaguardata
l’autoimprenditorialità del socio che, in quanto imprenditore, deve scegliere i tempi e i
modi della propria prestazione lavorativa”.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
50
Dall’altro, si riscontrano molte situazioni in cui per una serie di cause la componente di
lavoratore prevale su quella di socio, “con la conseguenza di possibili deroghe
all’applicazione integrale dei contratti collettivi”.
Ciò si verifica, secondo gli intervistati, in tutti quei casi in cui vengono posti in atto da
parte delle imprese comportamenti che “tendono ad escludere la partecipazione del
socio dalle scelte imprenditoriali”.
Le probabilità che ciò accada sono più frequenti quando la cooperativa assume
dimensioni rilevanti e quando le decisioni strategiche d’impresa sono definite in contesti
territoriali distanti dagli ambiti di operatività dei soci lavoratori.
Nelle situazioni in cui la figura del lavoratore tende a prevalere su quella del socio, si
possono rilevare alcune modalità di manifestazione di lavoro sommerso.
Rappresentano forme di lavoro grigio tutte quelle le situazioni in cui “al socio lavoratore
viene chiesto di rinunciare ad una parte della retribuzione; a lavorare intensificando o
riducendo le proprie ore di lavoro sulla base di esigenze produttive”.
Per concludere, un altro aspetto emerso riguarda l’ambiguità a cui può dare origine il
ruolo del volontario, che è previsto sia nelle associazioni di volontariato che nelle
cooperative sociali.
Dalle interviste realizzate emerge come in alcuni casi il diritto ai rimborsi spese previsto
per i volontari si trasformi in opportunità di violazione delle norme contributive.
In alcune situazioni, infatti, si è riscontrato che il rimborso spese rappresenta una
modalità di remunerazione non tanto di apporto volontario, quanto di lavoro vero e
proprio nell’ambito delle organizzazioni.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
51
3.6 La presenza del lavoro sommerso nel terzo settore: alcune ipotesi
esplicative
Quali sono le cause che, in generale, originano il fenomeno del lavoro sommerso? Ci
sono delle specificità relative al terzo settore? Il dibattito in letteratura è ampio e i
contributi, sia a livello internazionale sia a livello nazionale, sono molteplici.
Le analisi svolte in ambito internazionale possono essere ricondotte a due posizioni,
che peraltro risultano non in contrasto, ma complementari fra loro.
Secondo la prima impostazione, la crescita della pressione fiscale e l’aumento del peso
dei contributi sociali, accompagnate dall’intensità e dalla complessità dei sistemi
regolativi, incidono sul comportamento fiscale di imprese e lavoratori, inducendoli ad
occultare parte del lavoro svolto17.
Il secondo filone di analisi che si è sviluppato nel corso dei decenni individua le cause
della presenza del lavoro sommerso in economia nelle anomalie e nella complessità del
funzionamento del mercato del lavoro.
In particolare, l’idea che si è sviluppata è che la presenza di meccanismi regolativi
particolarmente rigidi si possa scontrare con il sistema di scelte razionali dei lavoratori,
favorendo lo sviluppo di attività sommerse18.
Il dibattito sulle cause della presenza di lavoro sommerso è particolarmente ricco anche
in Italia. In particolare, un recente lavoro del CNEL19, raccogliendo e sistematizzando
l’insieme dei contributi preesistenti, mette in luce come la presenza di forme di lavoro
sommerso all’interno dell’economia italiana sia da imputare ad una serie di fattori
eterogenei.
Secondo l’analisi sviluppata, infatti, i fattori che incidono sulla diffusione del lavoro
sommerso sono molteplici: la frammentazione del tessuto produttivo; le condizioni di
arretratezza dell’organizzazione sociale e produttiva rilevate in alcune aree del Paese;
la posizione di debolezza nei confronti del mercato di alcune fasce di lavoratori; la
17 Si veda, in proposito, Schneider e Enste, “Shadow Economies: Size, Causes and Consequences”, Journal of Economic Literature, XXXVIII (2000). Johnson, Kaufmann, Lobaton, “Regulatory Discretion and the Unofficial Economy”, American Economic Review, 1998. Friedman, Johnson, Kaufmann, Lobaton, “Dodging the Grabbing Hand: the Determinants of Unofficial Activity in 69 Countries, Journal of Public Economy, 2000. 18 Cfr. Hunt, “Has work-sharing worked in Germany?”, The quarterly journal of economics, 1999. 19 CNEL, Rapporto sull’economia sommersa, 2001.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
52
risposta del sistema produttivo all’eccesso di carichi fiscali e rigidità regolamentari;
l’accettazione culturale e la carenza di riprovazione sociale nei confronti del fenomeno;
la gravosità degli obblighi amministrativi; le specificità locali e settoriali.
L’acquisizione delle ipotesi esplicative del fenomeno sviluppatesi in ambito nazionale e
internazionale hanno permesso al gruppo di lavoro di indagare tale aspetto con gli
osservatori privilegiati in maniera “informata” e di collocare le posizioni raccolte
nell’ambito di un dibattito più complessivo.
I soggetti coinvolti nell’indagine hanno fornito una pluralità di ipotesi esplicative della
presenza del lavoro sommerso, in tutte le sue forme, nel terzo settore.
Alcune delle ipotesi risultano coerenti con le posizioni riscontrate in letteratura; altre
rappresentano invece un contributo più “originale”.
Una prima ipotesi che emerge dall’analisi sul campo mette in relazione la presenza di
forme di lavoro sommerso con la recente nascita del terzo settore e, soprattutto, con la
sua espansione rapida e spesso fuori controllo.
Il ricorso al lavoro sommerso nelle sue diverse gradazioni sarebbe dunque da imputare
al fatto che “il terzo settore è un settore relativamente giovane, sia per quanto attiene
alle dinamiche delle relazioni sindacali, sia per quanto attiene al sistema delle regole di
controllo”.
E’ evidente che il terzo settore si è sviluppato rapidamente, sia con riferimento ai
soggetti economici sia con riferimento ai livelli di occupazione. Il processo di
espansione del tessuto produttivo e della base occupazionale è stato estremamente
rapido e ciò è avvenuto, nella percezione di alcuni intervistati, nell’ambito di un quadro
relativamente poco normato.
Questa tesi risulterebbe in contrasto con un filone ricorrente nelle indagini sulla
presenza di lavoro sommerso nelle economie. Come abbiamo rilevato in precedenza,
infatti, se una delle cause del ricorso al sommerso è rappresentata dall’eccesso delle
norme di regolamentazione, la situazione iniziale in cui si sono mossi gli operatori del
terzo settore avrebbe dovuto disincentivare il ricorso all’impiego di lavoro sommerso.
Accanto a questa prima tesi, se ne individua un’altra, che in qualche modo risulta
collegata alla precedente.
Nell’ambito di alcune interviste è emersa l’idea che il fenomeno sia da imputare
all’incapacità imprenditoriale di alcuni soggetti che operano nel terzo settore. Tale
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
53
incapacità risulterebbe particolarmente accentuata e diffusa nella fase di “start up”
d’impresa.
Soprattutto per alcuni ambiti di attività economica in cui si muovono le organizzazioni
del terzo settore – come, ad esempio, la gestione di servizi ricreativi e culturali - le
barriere all’ingresso sono praticamente inesistenti.
Questo significa che raramente si riscontrano tutti quei processi di selezione che
caratterizzano la scelta di fare impresa in altri ambiti di attività economica. Può
accadere che le organizzazioni del terzo settore “quando sono giovani e di piccole
dimensioni facciano ricorso a modalità di lavoro non proprio cristalline”.
Secondo i sostenitori di questa tesi, tuttavia, il fenomeno scompare, o quanto meno
tende a ridursi in maniera significativa, quando le organizzazioni crescono e si danno
una struttura più forte. In questa fase della loro evoluzione, infatti, “vengono meno le
condizioni per il ricorso a modalità di lavoro nere o grigie”.
Un’altra tesi interessante emersa nel corso delle interviste individua nel rapporto fra
domanda e offerta di alcuni servizi le condizioni per il ricorso al lavoro sommerso.
Secondo questa ipotesi interpretativa, “da un lato ci sono le persone, che sono
portatrici di grandi bisogni di assistenza, anche non professionalizzata”. La domanda di
servizi di assistenza alla persona risulta in forte crescita ed è correlata con i processi di
evoluzione demografica che vedono incrementare in maniera consistente la quota di
persone anziane e non autosufficienti e, contestualmente, i carichi di lavoro per le
famiglie.
A fronte di questa domanda, “ci sono delle persone, prevalentemente donne, che si
posizionano sul mercato con l’obiettivo di ottenere un reddito integrativo per il bilancio
familiare...spesso sono disposte a lavorare a qualsiasi condizione e, soprattutto, in
maniera frammentata e intermittente, alternando periodi di lavoro a periodi di
inattività, sulla base più di strategie familiari che personali”.
Secondo questa tesi, l’incontro fra una domanda crescente di servizi non specialistici di
assistenza alla persona e l’offerta spesso non professionalizzata e legata a logiche di
integrazione del reddito familiare può determinare condizioni favorevoli per il ricorso a
modalità di lavoro sommerso.
Un’altra questione emersa in sede di analisi sul campo riguarda il problema della
cooperazione sociale “spuria”. Secondo gli intervistati, in questi casi, il ricorso a
modalità di lavoro sommerse è da imputare “al tentativo di abbattere i costi del lavoro,
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
54
consentendo al soggetto impresa di fare operazioni di dumping sul mercato di
riferimento”.
In questa fattispecie, a differenza delle altre, il ricorso al lavoro sommerso ha finalità
essenzialmente speculative.
Seppure non sia emerso in maniera esplicita nell’ambito delle interviste, gli studi
realizzati sul terzo settore evidenziano come una questione rilevante e trasversale a
tutte le organizzazioni, qualunque sia la loro natura, è spesso il problema della diffusa
debolezza economica e la scarsità quasi cronica di risorse20.
Da ciò discendono due questioni fondamentali. La prima è che molte delle imprese del
terzo settore sono portatrici di una domanda di lavoro la cui caratteristica essenziale è
la flessibilità. La seconda questione, anch’essa di una certa complessità, è data dal
rapporto con gli enti pubblici e, più in generale, con gli enti finanziatori.
Quest’ultimo aspetto è emerso nell’ambito di alcune interviste con gli osservatori
privilegiati. E, secondo alcuni, l’ambiguità nel rapporto fra imprese ed enti pubblici può
rappresentare una delle cause che spiegano il ricorso a forme di lavoro sommerso nel
terzo settore.
Un primo aspetto emerso in merito riguarda il gap esistente fra normativa e livello di
applicazione. Spesso infatti, “nonostante vi siano delle buone leggi regionali...di fatto
molti enti locali operano secondo la logica prevalente, anche se non dichiarata, del
massimo ribasso”.
Il problema evidenziato sembra riguardare non tanto la normativa, quanto l’ambiguità
nelle sue modalità di applicazione. Ci pare interessante riportare la posizione di uno
degli intervistati, secondo cui “la presenza del lavoro sommerso nel terzo settore è da
imputare in larga parte alle modalità di applicazione delle norme da parte dell’ente
pubblico...spesso, per alcune tipologie di servizi, vi è una contraddizione in termini
nella logica che guida le scelte dell’ente pubblico...da una lato si chiede che il servizio
venga svolto da lavoratori regolarmente assunti. Dall’altro l’ente pubblico si impegna a
pagare non per le ore programmate, ma per le ore di servizio effettivamente erogate.”
E ancora. “Esiste una normativa molto chiara. Quando l’ente pubblico definisce una
base d’asta, deve fare riferimento ad una serie di parametri...Purtroppo non sempre
succede questo. Ci sono delle basi d’asta che non rispettano tutti i parametri previsti”.
20 Cfr. Lunaria, Forme di lavoro nel terzo settore. Ed. Lunaria, Roma, 1998.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
55
Un altro punto interessante è rappresentato dal fatto che risultano praticamente
assenti i controlli da parte degli enti appaltatori dei servizi. Questi, pur potendo almeno
sulla carta effettuare controlli sul rispetto delle norme, mostrano spesso “un’assoluta
incapacità ad esercitare un controllo costruttivo”.
Un discorso analogo emerge con riferimento ai controlli ispettivi, che secondo gli
intervistati, non sono frequenti.
“Ad oggi, le attività ispettive ci sono, ma sono ancora molte estemporanee. Sembrano
muoversi più secondo una logica di segnalazioni di situazioni di emergenza che non
sulla base di un’azione programmata”.
La questione del rapporto con gli enti pubblici, della definizione di regole condivise e di
meccanismi di controllo rappresenta, secondo molti, uno snodo cruciale per consentire
la crescita del sistema nel suo complesso, sia per quanto riguarda le condizioni di
lavoro sia per quanto riguarda la qualità dei servizi erogati.
Proprio per la correlazione che esiste fra modalità e condizioni di lavoro da un lato e
qualità dei servizi erogati agli utenti dall’altro, molti degli intervistati auspicano che ci si
possa “mettere intorno ad un tavolo, per fare maggiore chiarezza sulle forme di lavoro
che devono essere utilizzate e sulle condizioni che l’ente pubblico può imporre alle
imprese che erogano i servizi”.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
56
3.7 Alcune ipotesi di concentrazione settoriale, territoriale e professionale
Come abbiamo visto, le modalità di manifestazione del lavoro sommerso possono
essere molteplici e risultano influenzate dalla natura dell’organizzazione e dalla
tipologia di contratto che norma il rapporto fra lavoratore e datore di lavoro.
Le indagini realizzate sul lavoro sommerso in ambito nazionale hanno spesso posto
l’accento sull’importanza del contesto locale di riferimento e, più in generale, sulle
caratteristiche economiche, sociali e culturali quali fattori che possono favorire la
presenza di forme di lavoro sommerso.
Pur in assenza di dati, una delle tematiche affrontate in sede di intervista con gli
osservatori privilegiati è rappresentata dal tentativo di individuazione di situazioni di
maggiore o minore incidenza del fenomeno con riferimento a tre variabili: l’ambito di
attività economica; le caratteristiche del contesto territoriale e la posizione
professionale del lavoratore.
Si tratta di una serie di riflessioni che gli intervistati hanno fatto sulla base della loro
esperienza e della conoscenza del territorio e non a partire da dati quantitativi che,
ancora oggi, sono purtroppo inesistenti.
Come abbiamo rilevato in apertura, le organizzazioni del terzo settore operano in
ambiti di attività economica diversi fra loro. Alcuni studi hanno evidenziato come sia
possibile individuare nell’ambito del terzo settore almeno cinque aree distinte di
attività: l’area socioassistenziale, l’area sanitaria, l’area culturale, di educazione e
formazione.
Una delle idee emerse nel corso delle interviste è che il fenomeno si distribuisca in
maniera omogenea nei diversi ambiti di attività, con la conseguenza che l’impatto più
rilevante, ovviamente in termini assoluti, si ha nelle aree a maggiore addensamento
occupazionale.
Un’indagine campionaria realizzata dall’IRPET21 evidenzia che il 63,1% delle
organizzazioni del terzo settore opera nell’ambito dei servizi sociosanitari, il 32,5%
nell’area dei servizi ricreativi e culturali e il 24,5% nell’area dei servizi socioeducativi.
Sulla base di questa ipotesi, dunque, i fenomeni più consistenti si hanno nelle prime
due aree.
21 Cfr. Sciclone, L’analisi economica del terzo settore in Toscana, IRPET, 2001.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
57
“Statisticamente, la quota di infrazioni è maggiore in quelle aree, perché più elevato è
il numero di lavoratori”.
Un’altra idea emersa, e in qualche modo in contrasto o non perfettamente coerente
con la precedente, è data dal fatto che le caratteristiche e la natura dei servizi possono
in qualche modo creare le condizioni per l’impiego di modalità di lavoro non regolare.
Più correttamente, vi sono alcune tipologie di servizi che, per loro natura, sono poco
strutturati. “E’ il caso, ad esempio, di molti interventi rivolti ai minori, o comunque di
situazioni in cui si lavora con un’utenza certamente non vasta”.
In tutte queste situazioni in cui non si riesce a dare continuità agli interventi, “si
annidano le condizioni per il manifestarsi di forme di lavoro sommerso, perché spesso
le strutture non sono in grado di sopportare l’onere di un contratto di lavoro”.
Se passiamo dalla dimensione settoriale alla dimensione territoriale, vi sono delle aree
della regione in cui il fenomeno del lavoro sommerso risulta più presente che in altre?
Anche in questo caso non è possibile ragionare su dati quantitativi, ma soltanto
partendo dalla percezione e dalla conoscenza che del fenomeno hanno gli intervistati.
L’esistenza di un legame fra ambiti territoriali e presenza di lavoro sommerso nel terzo
settore rappresenta uno degli aspetti più controversi che è emerso dall’indagine.
Su questo punto, infatti, gli intervistati si sono divisi in maniera molto netta. Secondo
alcuni la presenza del lavoro sommerso si distribuisce in maniera omogenea sul
territorio regionale. Secondo altri, invece, esistono delle aree a maggiore incidenza.
Coloro che sostengono che il fenomeno non si manifesti in maniera omogenea sul
territorio, forniscono tuttavia supporti esplicativi diversi fra loro.
Secondo alcuni, la presenza di forme di sommerso, nelle diverse gradazioni, deve
essere associata essenzialmente allo stato di salute dell’economia. Questo significa che
in quelle aree della regione maggiormente depresse e con maggiori problemi di
occupazione “il ricorso al lavoro grigio è certamente più ampio”. E ciò principalmente
perché ci sono “situazioni di maggiore difficoltà economica e difficoltà a trovare redditi
integrativi”.
Per contro, secondo i sostenitori di questa tesi, nelle aree a maggiore occupazione, il
fenomeno è più contenuto, anche perché mediamente i lavoratori sono in condizioni di
maggiore forza nei confronti delle imprese.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
58
In queste aree potrebbero essere presenti situazioni di “sommerso concordato”,
fenomeno questo che, secondo gli intervistati, interessa solo marginalmente le
organizzazioni e i lavoratori del terzo settore.
Dalle interviste, infatti, è emerso che esistono anche nel terzo settore situazioni di
sommerso concordato. Tali situazioni, tuttavia, interessano esclusivamente figure
professionali ad elevato contenuto professionale e difficilmente reperibili sul mercato.
In questi casi il lavoro sommerso si manifesta come un accordo alla pari fra impresa e
lavoratore e si traduce in fenomeno simile a quello del “fuoribusta”, che è stato
studiato, in alcune aree della regione, per alcune tipologie di operai specializzati
nell’industria manifatturiera22.
Come abbiamo rilevato, tuttavia, gli intervistati concordano tuttavia nel ritenere che le
forme di lavoro sommerso “concordato” sono decisamente marginali nel quadro
complessivo del terzo settore.
Un’altra tesi sostiene che esiste un effetto che potrebbe essere definito di
“decentramento”. Per una serie di fattori, le imprese sociali che operano nei “centri”
sarebbero meno incentivate a ricorrere a forme di lavoro non regolare. E ciò è da
imputare sia “a fattori di tipo culturale, sia a un maggiore controllo”. Per contro, le
imprese delle aree più periferiche e lontane dai centri di controllo “ricevono un segnale
che è certamente più debole e la cui assenza può in qualche modo creare le condizioni
per il ricorso a forme di lavoro non cristalline”.
Secondo alcuni, infine, si può registrare una relazione molto stretta fra qualità dei
rapporti con le istituzioni e ricorso a lavoro non regolare. Questo significa che, “in tutte
quelle aree della regione in cui i rapporti sono chiari e percepiti in maniera positiva, le
imprese sociali hanno meno incentivi a violare le regole”. Per contro, laddove i rapporti
con gli enti pubblici sono deteriorati, “le imprese sociali potrebbero essere incentivate
ad utilizzare forme di lavoro sommerso”.
L’ultimo aspetto indagato in questo paragrafo riguarda il rapporto fra presenza di
sommerso, in tutte le sue forme, e caratteristiche professionali dei lavoratori.
Le indagini realizzate evidenziano che, seppure la domanda di lavoro delle imprese
sociali si stia orientando in senso diverso, almeno in una prima fase e soprattutto per
22 Cfr. Unioncamere Toscana, Lavoro sommerso e contratti atipici, in Impresa Toscana, n.1/2002.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
59
alcuni settori di attività, la struttura professionale del terzo settore risulta
tendenzialmente orientata verso il basso23.
Come confermato anche nel corso delle interviste, infatti “questo è un settore in cui
prevalgono ancora, in larga misura, figure professionali con qualifiche basse”.
La struttura professionale del settore favorisce di fatto, secondo gli intervistati, la
possibilità per le imprese di ricorrere a modalità di lavoro grigio.
Ciò si origina da “una scarsa capacità di contrattazione da parte di questi soggetti, che
spesso si collocano in posizione di debolezza nei confronti del datore di lavoro proprio
per la loro scarsa professionalità”.
I bassi livelli professionali di molti lavoratori del settore consentono infatti alle imprese
di poterli sostituire senza danneggiare i cicli di produzione e di erogazione dei servizi.
Se infatti “il rapporto fra collaboratore di alto profilo fa sì che il suo peso nelle richieste
e nelle garanzie sia maggiore, il livello basso, dotato di scarsa professionalità o di una
professionalità sia formale che sostanziale facilmente sostituibile, si presta in maniera
più marcata ad accettare condizioni di peggior favore”.
23 Cfr. Sciclone, L’analisi economica del terzo settore in Toscana, IRPET, 2001.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
60
3.8 Il fenomeno in una prospettiva di medio periodo
Questa prima parte dell’analisi si conclude con una riflessione sugli scenari possibili
delineati dagli intervistati per il medio periodo.
Se infatti, come è emerso dalle interviste, il terzo settore ha contribuito da un lato a
creare occupazione e dall’altro a regolarizzare in parte o del tutto molte situazioni di
lavoro, sembra essere giunto il momento di fermarsi e riflettere sui cambiamenti e sulle
strategie necessarie per contribuire ad una crescita non solo quantitativa, ma anche
qualitativa del sistema.
Nell’ambito del processo di crescita del sistema, uno snodo fondamentale è
rappresentato dalla natura del rapporto fra terzo settore e lavoro sommerso.
Per quanto riguarda questo aspetto, le interviste realizzate sottendono, a nostro
avviso, due differenti valutazioni del rapporto fra terzo settore e forme di lavoro
sommerso, soprattutto per quanto attiene a quello che abbiamo definito lavoro
“grigio”.
Per alcuni intervistati la presenza di forme di lavoro grigio nelle organizzazioni del terzo
settore rappresenta un fenomeno “fisiologico”. Una quota, probabilmente, è impossibile
da eliminare perché risulta connessa ad una serie di variabili esogene al sistema nel
suo complesso quali, ad esempio, la scarsità di risorse in alcuni ambiti di attività
economica e le caratteristiche di alcuni dei lavoratori.
Per altri, invece, il rapporto ha una connotazione che potremo definire “patologica”. Vi
sono infatti alcuni meccanismi che contribuiscono a favorire la presenza di forme di
lavoro nascosto nel terzo settore. Secondo questa impostazione, a differenza della
prima ipotesi, tali meccanismi possono essere corretti. E’ possibile cioè intervenire per
migliorare la qualità complessiva del sistema, eliminando o riducendo tutti quei
fenomeni che possono favorire l’attecchire le forme di lavoro non proprio regolari.
Coloro che ritengono che la natura del rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore sia
patologica hanno indicato, nel corso delle interviste, alcune linee di intervento. Le
proposte per migliorare la qualità del sistema nel suo complesso e le condizioni di
lavoro sono diverse. Prima fra tutte quella di “qualificare gli operatori del settore,
attraverso interventi formativi che tendano a modificare l’attuale composizione
professionale di molti ambiti di attività”.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
61
Anche il “meccanismo dell’accreditamento potrebbe facilitare la stabilità occupazionale,
soprattutto se si privilegia il requisito del personale stabile all’interno
dell’organizzazione”. Più in generale, “il passaggio da un sistema di appalto diffuso ad
un sistema di accreditamento” potrebbe rappresentare una grossa opportunità per
garantire la presenza più stabile dei soggetti economici con la conseguenza di maggiori
garanzie per la qualità e la stabilità dell’occupazione.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
62
CAPITOLO QUARTO
LE MODALITA’ DI LAVORO NEL TERZO SETTORE24
4.1 Premessa
L’ultima parte del report è dedicata ad esaminare le modalità e le condizioni di lavoro
nel terzo settore, sulla base delle informazioni raccolte nella seconda fase di indagine
sul campo, che ha coinvolto due gruppi distinti di lavoratori.
Il quadro restituito dalle interviste realizzate con i lavoratori non pretende di esaustivo.
Anche in questa fase di analisi, le tecniche di indagine adottate sono di natura
qualitativa. Per indagare le modalità di lavoro nel terzo settore, infatti, sono stati
coinvolti due gruppi di lavoratori che, per numerosità e modalità di selezione, non
consentono di estendere i risultati raggiunti all’universo25.
Gli intervistati sono stati ‘selezionati’ attraverso due percorsi diversi. Il primo gruppo è
stato individuato grazie al contributo della CISL, che ha messo a disposizione dei
ricercatori un elenco di lavoratori del terzo settore che, per una serie di motivi, sono
entrati in contatto con l’organizzazione sindacale.
Il secondo gruppo di lavoratori è stato individuato in maniera del tutto casuale, a
partire dall’attivazione di contatti con i lavoratori di alcune organizzazioni del terzo
settore. Nella scelta di questo secondo gruppo è stata privilegiata, rispetto ad altri
criteri di scelta del campione, la disponibilità dei lavoratori a prendere parte
all’indagine, dedicando del tempo a raccontare la loro esperienza e a descrivere le
condizioni e le modalità del loro lavoro.
L’assenza di informazioni sull’universo, soprattutto per quanto attiene alle
caratteristiche sociodemografiche dei lavoratori del terzo settore, non ha consentito al
gruppo di ricerca di selezionare i componenti dei due campioni di intervistati sulla base
delle caratteristiche dell’universo.
I requisiti richiesti ai lavoratori per partecipare all’intervista sono stati essenzialmente
tre. Lavorare in un’organizzazione del terzo settore; essere disponibili a raccontare la
propria storia e a descrivere le proprie modalità e condizioni di lavoro; per alcuni,
infine, essersi rivolti ad un sindacato.
24 Il capitolo è a cura di Francesca Ricci, IAL Toscana. 25 In buona sostanza, i due campioni non sono rappresentativi dell’universo.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
63
Le modalità di composizione del campione e la mancanza di informazioni sull’universo
producono come conseguenza quella di non sapere che rapporto esiste fra le
caratteristiche sociodemografiche del gruppo di intervistati e le caratteristiche
sociodemograiche dell’universo.
Questo problema, certamente rilevante, può essere per il momento superato
considerando che l’indagine realizzata ha un taglio essenzialmente qualitativo. Le
interviste in profondità - che hanno coinvolto 12 lavoratori del terzo settore - non
pretendono di restituire un quadro statisticamente rappresentativo della realtà, ma
semplicemente di cominciare a fare luce su un tema ad oggi scarsamente esplorato.
Nelle tabelle successive si riportano, a titolo puramente informativo, le distribuzioni di
frequenza del campione di intervistati relativamente alle principali variabili
sociodemografiche: genere, età, stato civile, presenza di figli e titolo di studio.
Tabella A – Distribuzione degli intervistati per sesso
VALORI ASSOLUTI
MASCHI 5
FEMMINE 7
TOTALE 12
Tabella B – Distribuzione degli intervistati per classi di età
VALORI ASSOLUTI
FINO A 24 ANNI 2
DA 25 A 30 ANNI 2
DA 31 A 40 ANNI 6
OLTRE 40 ANNI 2
TOTALE 12
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
64
Tabella C – Distribuzione degli intervistati per stato civile
VALORI ASSOLUTI
CELIBI/NUBILI 7
CONIUGATI 5
TOTALE 12
Tabella D – Distribuzione degli intervistati per presenza figli
VALORI ASSOLUTI
CON FIGLI 4
SENZA FIGLI 8
TOTALE 12
Tabella E – Distribuzione degli intervistati per titolo di studio
VALORI ASSOLUTI
LICENZA MEDIA 2
DIPLOMA SUPERIORE 8
LAUREA 2
TOTALE 12
Con i due gruppi di lavoratori sono state realizzate interviste face-to-face, sulla base di
un questionario semistrutturato. Le interviste in profondità hanno affrontato una serie
di punti. E’ stato chiesto agli intervistati di descrivere la loro attuale condizione di
lavoro, con riferimento all’ambito di attività economica, alle mansioni svolte, al
contratto di lavoro, alle modalità di lavoro e al clima dell’impresa (con particolare
riferimento ai rapporti con il datore di lavoro e con i colleghi).
La seconda parte dell’intervista è stata dedicata a ricostruire le precedenti esperienze
di lavoro, in termini di durata e ambiti di attività, focalizzando l’attenzione sulle
modalità di cambiamento in tutti quei casi in cui si sono verificati passaggi fra terzo
settore e altri ambiti di attività economica.
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Quindi si è proceduto ad indagare il livello di soddisfazione da parte degli intervistati
della propria condizione, sia in termini complessivi sia con riferimento alle diverse
componenti.
Infine si sono esplorati i rapporti e le modalità di attivazione di contatti con le
organizzazioni sindacali.
Nelle pagine seguenti, si riportano i primi risultati emersi dalle interviste in profondità
realizzate con i lavoratori del terzo settore. L’attenzione del gruppo di ricerca si è
focalizzato su quattro aspetti: l’analisi dei percorsi professionali realizzati dai lavoratori;
l’analisi delle motivazioni; la ricostruzione, in termini oggettivi, delle condizioni di
lavoro; la percezione della propria condizione; e, infine, il grado di soddisfazione
complessivo e nel dettaglio dei singoli aspetti.
Per concludere, ci preme ricordare ancora una volta che i risultati di questa fase di
indagine sul campo non restituiscono una fotografia esaustiva della realtà. Ciò non è
possibile da un lato per la natura del fenomeno e dall’altro per la scelta di impiegare
tecniche di analisi qualitative.
Tuttavia il quadro restituito dall’indagine, soprattutto per quanto attiene agli aspetti
evidenziati, contribuisce, a nostro avviso, a fare luce su un fenomeno, quello delle
modalità di lavoro nel terzo settore, che sarebbe utile monitorare in maniera costante e
sistematica.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
66
4.2 I percorsi professionali e le motivazioni
In sede di progettazione di questo modulo di indagine, soprattutto per la messa a
punto del questionario da somministrare ai lavoratori, il principale punto di riferimento
per il gruppo di ricerca è stato uno dei pochi lavori finora realizzati nel nostro Paese
sulle modalità di lavoro nel terzo settore26.
Il risultato più interessante a cui giunge l’indagine consiste nell’idea che, data
l’esistenza di una serie di specificità, è riduttivo classificare il lavoro nel terzo settore
semplicemente come un’altra forma di lavoro privato.
Le motivazioni sarebbero molteplici. Prima fra tutte il fatto che spesso i lavoratori
condividono scopi e obiettivi sociali della loro organizzazione. In secondo luogo, a
differenza di quanto accade in altre imprese, le organizzazioni del terzo settore sono
generalmente strutture democratiche, dove i lavoratori possono esercitare forme di
controllo sulle scelte imprenditoriali.
Infine, la scarsa disponibilità e la discontinuità nell’accesso alle risorse fa sì che la
domanda di lavoro espressa dalle organizzazioni del terzo settore presenti
caratteristiche di flessibilità e dinamismo. Tali elementi possono talvolta avere risvolti
negativi, trasformandosi in posti di lavoro precari e privi di tutele.
Il confronto fra questo quadro e la fotografia restituita dalle interviste in profondità
realizzate con i due gruppi di lavoratori coinvolti nell’indagine evidenzia alcune
differenze interessanti, che cercheremo di mettere in luce.
Per fare ciò, a nostro avviso, il punto di partenza non può che essere rappresentato
dall’analisi delle motivazioni e dalla descrizione dei percorsi lavorativi degli intervistati.
L’analisi dei percorsi professionali degli intervistati evidenzia l’esistenza di due tipologie
differenti di lavoratori. Un primo gruppo ha avuto percorsi di lavoro esclusivamente nel
sociale. In questo caso le esperienze di lavoro possono essere una o più di una, la
durata più o meno lunga e i percorsi più o meno frammentati. Qualunque siano le
caratteristiche delle esperienze lavorative, il filo rosso rimane l’appartenenza al terzo
settore.
Esiste poi un secondo gruppo di lavoratori, per i quali il lavoro nel terzo settore è stato
preceduto da una o più esperienze di lavoro in altri ambiti di attività economica.
26 Cfr. Lunaria, Forme di lavoro nel terzo settore. Ed. Lunaria, Roma, 1998.
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67
L’appartenenza all’una o all’altra categoria non evidenzia particolari correlazioni con le
caratteristiche socioanagrafiche dei lavoratori, quali l’età, il sesso e il titolo di studio.
Questo significa che ci sono lavoratori non più giovanissimi - ad esempio over quaranta
- che hanno sempre lavorato nel terzo settore. Per contro, alcuni dei lavoratori più
giovani – fra gli under 30 - hanno maturato esperienze di lavoro anche in altri ambiti di
attività economica.
Oltre alla tipologia dei percorsi professionali, un altro aspetto interessante da indagare
riguarda le motivazioni che stanno alla base della scelta di lavorare nel terzo settore.
L’indagine realizzata evidenzia che i motivi ricorrenti sono almeno tre: la casualità,
l’assenza di alternative e il punto di approdo di un percorso personale.
Il primo aspetto emerso è rappresentato, come detto, dalla “casualità”. Per alcuni
lavoratori, infatti, l’opportunità di lavorare nel terzo settore si è presentata in maniera
abbastanza casuale, una fra le tante opportunità possibili. E come tale, almeno in una
fase iniziale, è stata vissuta.
“Avevo fatto due anni di università, non sapevo cosa volevo e ad un certo punto mi si è
presentata, per caso, la possibilità di fare questo lavoro...era un lavoro su turni, a
termine e si conciliava bene con i tempi dello studio...ho deciso di accettare. Era il
1993 e da allora non ho più smesso.”
Per altri, invece, l’opportunità di lavoro nel terzo settore ha rappresentato l’unico modo
per entrare o rientrare nel mercato del lavoro. Per questi lavoratori, la scelta di
lavorare nel terzo settore è dettata, almeno nella fase iniziale, dall’assenza di
alternative.
“A 30 anni, con la licenza media e con un figlio piccolo non è che avessi grandi
possibilità di lavorare...ho cercato parecchio un lavoro e poi alla fine questa
cooperativa mi ha proposto di entrare per sostituire una persona in malattia...e così ho
cominciato a lavorare...non so, magari se non ci fosse la cooperativa sarei ancora a
cercare lavoro..”
Lavorare nel terzo settore per mancanza di altre alternative occupazionali è una
modalità che viene segnalata soprattutto dagli intervistati in possesso di titoli di studio
bassi o privi di qualifiche/esperienze professionali specifiche.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
68
Inoltre è una modalità che presenta una forte connotazione di genere, ricorrendo più
spesso per le donne. Nell’ambito delle interviste, infatti, il lavoro nel terzo settore per
mancanza di alternative è stato segnalato dalle donne con carichi familiari, sia da
quelle che sono sempre rimaste sul mercato – con il problema di conciliare tempi di
lavoro e tempi di cura – sia da quelle che hanno scelto di rientrare sul mercato del
lavoro in età non più giovanissima – con il problema delle barriere all’ingresso.
Le interviste ai lavoratori confermano dunque la funzione positiva svolta dal terzo
settore in termini di creazione di posti di lavoro, emersa anche nel corso delle interviste
con i testimoni privilegiati. Non vi è dubbio, infatti, che il terzo settore contribuisce a
creare occupazione e ciò sembra essere particolarmente importante soprattutto per
quelle fasce dell’offerta di lavoro che hanno maggiori difficoltà a collocarsi in ambiti di
lavoro più tradizionali.
Oltre alla casualità e alla mancanza di alternative, la scelta di lavorare nel terzo settore
può rappresentare il punto di approdo di un percorso personale complesso.
Tale percorso può essere maturato in seguito ad esperienze di lavoro in altri settori di
attività economica, oppure prima dell’inizio della carriera lavorativa, durante il periodo
di formazione.
“La scelta di lavorare nel sociale è avvenuta per un mio percorso di ricerca
personale...è stata una scelta “vocazionale” valutata, ponderata molto e anche
sofferta, perché prima facevo un lavoro che mi appassionava molto e che mi dava
anche grandi soddisfazioni, sia economiche che professionali”.
E ancora.
“Questa è la prima esperienza che faccio nel sociale. Prima lavoravo in un’azienda, con
un ruolo di una certa responsabilità...Perché ho deciso di cambiare? Penso per la mia
sensibilità personale e per il fatto che non mi sentivo perfettamente inserito in quel
sistema, nel quale vedevo molti difetti dal punto di vista umano. Non c’era
condivisione...era una cosa finalizzata ad avere lo stipendio”.
Per questi due lavoratori, lavorare nel terzo settore è il frutto di una scelta personale,
che si pone essenzialmente come obiettivo quello di far coincidere i propri valori con
quelli dell’ambiente di lavoro. In entrambi i casi, infatti, il problema del lavoro
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
69
precedente non era rappresentato da un’insoddisfazione verso i contenuti del lavoro,
quanto piuttosto nella difficoltà di conciliare i propri valori con quelli dell’ambiente
esterno.
La scelta di lavorare nel settore sociale, infine, può essere maturata durante il periodo
di formazione, prima dell’inizio della carriera lavorativa.
“La motivazione per cui ho scelto di lavorare nel sociale risponde ad una sensibilità che
ho sempre avuto, fin dal mio periodo di crescita e formazione. E’ sulla base di questa
sensibilità che ho cercato le opportunità di lavoro...perché comunque credo che, per le
caratteristiche che io ho, il lavoro non possa essere percepito che come una missione,
dove ognuno di noi è chiamato a fare le cose che sa fare meglio”.
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4.3 L’analisi delle condizioni di lavoro
Nell’ambito delle interviste in profondità realizzate con i due gruppi di lavoratori, una
parte consistente dei colloqui è stata dedicata a raccogliere informazioni sulle
condizioni di lavoro.
In particolare, è stato chiesto agli intervistati di descrivere le mansioni svolte
nell’ambito dell’organizzazione; il contratto di lavoro; l’orario di lavoro previsto dal
contratto e quello effettivamente svolto; le modalità di lavoro e, per concludere,
l’ambiente di lavoro in termini di clima e tipologia di rapporti sia con i colleghi sia con il
datore di lavoro.
Con riferimento ai contratti di lavoro, l’indagine evidenzia una situazione abbastanza
definita: gli intervistati si dividono in due gruppi. Da un lato vi sono tutte quelle
situazioni in cui i rapporti di lavoro fra lavoratore e impresa sono normati da contratti di
lavoro dipendente, alcuni dei quali a tempo indeterminato, altri a tempo determinato.
Dall’altro si posizionano tutti quei lavoratori il cui rapporto di lavoro con l’impresa è
regolato da contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
I contratti di lavoro dipendente riguardano in genere tutti quei lavoratori che operano
in contesti più tradizionali, come l’area sociosanitaria e l’area socioassistenziale.
I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa sembrano invece essere più
presenti in aree di mercato più nuove e caratterizzate da una minore continuità
nell’erogazione dei servizi. E’ il caso, ad esempio, dell’area dell’assistenza ai minori e
all’infanzia e degli interventi di prevenzione.
Una questione cruciale - e comune a tutti gli intervistati, indipendentemente dalla
fattispecie contrattuale che regola il loro rapporto con l’impresa - sta nelle differenze
fra orario di lavoro previsto nel contratto e orario di lavoro effettivamente svolto.
In genere, soprattutto per quanto riguarda i co.co.co, i tempi effettivi di lavoro
possono essere sensibilmente superiori a quelli concordati.
Ci sembra sintomatico, in questo senso, quanto rilevato da uno degli intervistati, che
ha un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa con l’impresa in cui lavora.
“Il contratto che ho stabilisce un orario di massima, che comunque è secondario
rispetto allo svolgimento del servizio, che deve sempre essere effettuato con qualità e
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
71
con responsabilità. Regolarmente si sfora il tetto ore stabilito, che nel mio caso è di 30
ore settimanali...di fatto sono molte di più”.
Accade, quindi, che le ore effettivamente lavorate possano essere sensibilmente
superiori a quelle stabilite e regolarmente contabilizzate.
Nel caso specifico, tuttavia, è interessante rilevare che non vi è una condanna da parte
del lavoratore nei confronti del fenomeno.
“Se non si fanno più ore rispetto a quelle che ci possono essere retribuite è un
problema...un’impresa sociale ha bisogno di questo valore aggiunto se vuole stare sul
mercato, perché altrimenti non ce la fa. Perché comunque si muove in un contesto
completamente differente rispetto a quello di altre imprese”.
In questo caso, il fenomeno del lavoro sommerso sta proprio nella differenza fra ore di
lavoro retribuite e ore di lavoro effettivamente svolte. E, secondo l’intervistato, è
proprio questa differenza, questo lavoro non retribuito offerto dal lavoratore
all’impresa, che permette all’impresa sociale di stare sul mercato e di produrre utilità
sociale per la comunità.
In alcuni casi, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevedono orari
rigidi, legati alle necessità di erogazione del servizio, facendo venire meno l’autonomia
nella gestione dei tempi di lavoro che dovrebbe rappresentare una delle caratteristiche
salienti, secondo la normativa, di tali rapporti di lavoro.
“Il mio orario è abbastanza rigido ed è stato stabilito all’inizio dell’anno. Devo essere
presente all’interno della struttura tre giorni alla settimana, il martedì, il mercoledì e il
venerdì dalle sette la mattina fino alla fine del servizio”.
In questo caso, come in altri emersi durante le interviste, la collaborazione coordinata
e continuativa nasconde forme di lavoro dipendente e dà luogo a situazioni di parziale
evasione contributiva.
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In alcuni casi le situazioni lavorative possono essere molto complesse, come nel caso di
questo lavoratore con un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, a cui si
richiede, per lo svolgimento di alcune attività, un rispetto rigido di orari stabiliti e a cui
si consente, per il resto del tempo, la massima flessibilità.
“Diciamo che le mie ore di lavoro si dividono in due gruppi. Ci sono delle ore frontali,
circa il 40% individuate per alcuni servizi, che sono rigide, nel senso che ho degli orari
molto vincolanti. Poi ci sono le ore non frontali, che rappresentano il 60%. Per le
attività che svolgo nelle ore non frontali ho la massima autonomia, posso lavorare
anche da casa e a qualsiasi ora, basta che garantisca all'impresa determinati risultati”.
La complessità di alcune situazioni, emerse in sede di intervista, pone la questione di
individuare forme contrattuali che da un lato garantiscano il lavoratore, ma dall’altra si
adattino alle esigenze di flessibilità dell’impresa sociale, esigenze dettate soprattutto
dalla natura dei servizi erogati.
Passando dai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ai rapporti di lavoro
dipendente, il conflitto risulta ancora più evidente. Da un lato la forte domanda di
flessibilità nei tempi e nei modi del lavoro richiesta dalle imprese del terzo settore;
dall’altro le esigenze di stabilità dei lavoratori.
I lavoratori con un rapporto di lavoro dipendente lamentano la variabilità del monte ore
lavorativo mensile e il mancato riconoscimento di alcuni istituti quali le indennità
previste in caso di lavoro su turni, di lavoro festivo e in caso di reperibilità.
Il problema risulta particolarmente evidente e sentito in tutti quei casi in cui, nello
svolgimento del proprio lavoro, si convive con altri lavoratori che, a parità di posizione
professionale e mansioni, usufruiscono di posizioni contrattuali diverse.
“Quelli che lavorano con me e hanno il contratto della sanità pubblica sono fortunati,
prendono quasi mezzo milione di più...e fanno le stesse cose che si fanno noi. Noi
siamo a ore, mentre loro hanno un fisso mensile con in più tutte le indennità in caso di
lavoro straordinario, lavoro notturno e lavoro festivo. Io ho un contratto di 38 ore
settimanali, pari a 165 ore mensili. Lo straordinario mi dovrebbe scattare dopo le 38
ore settimanali e invece loro me lo fanno scattare su base mensile. All’inizio di ogni
mese non sai quante ore ti fanno lavorare...a me a volte anche 130, che sono poche
rispetto al massimo delle 165 previste. E alla fine, quando prendi la busta a fine mese,
la differenza si vede.”
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73
Nell’ambito di alcune interviste emerge l’ambiguità della posizione de socio lavoratore,
fenomeno questo evidenziato anche dai testimoni privilegiati.
Il fenomeno è particolarmente evidente in quei casi in cui il rapporto fra socio e
cooperativa è praticamente inesistente, in termini di capacità e di possibilità di incidere
in qualche modo sulle decisioni imprenditoriali.
“A me mi sono successe delle cose spiacevoli...una volta mi hanno chiesto di rinunciare
alla tredicesima, perché la cooperativa era in cattive acque...poi abbiamo dovuto
versare altri soldi per la quota sociale...ma io non capisco. Vengono a battere cassa
soltanto quando le cose vanno male, se no non si fanno mai sentire”.
Per quanto attiene all’ultimo aspetto, ovvero il clima in azienda, il rapporto con colleghi
e datore di lavoro, si individuano due posizioni distinte.
La prima conferma i risultati a cui è giunta l’indagine di Lunaria sulle modalità di lavoro
nel terzo settore ed evidenzia una chiara condivisione dei valori e degli obiettivi, che si
riflette nel clima aziendale e nella qualità dei rapporti.
“Fra colleghi e responsabili è un tutt’uno, perché la responsabile è una di noi. I rapporti
fra colleghi sono molto stretti, sono informali, vanno aldilà del lavoro perché ci si
frequenta anche fuori”.
“Il clima è informale, perché c’è una matrice iniziale di amicizia...è un bell’ambiente”.
In altri casi, invece, il clima aziendale viene vissuto in maniera diversa. Nella
percezione degli intervistati, l’organizzazione viene equiparata ad un qualsiasi altro
posto di lavoro, dove ognuno si muove in linea di massima secondo strategie
individuali.
“Non è che si vada tutti d’accordo...ognuno pensa un po’ a fare il suo e se ne frega del
resto. Le cose sono molto cambiate rispetto a prima, quando c’era il vecchio
coordinatore. Lui riusciva a tenerci tutti uniti...ora è un po’ peggio, è come fare un
lavoro qualsiasi.”
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4.4 Il livello di soddisfazione e la percezione della propria condizione
Dopo aver chiesto agli intervistati di muoversi sul piano della ‘oggettività’, descrivendo
le condizioni e le modalità del loro lavoro, il fuoco dell’analisi si è spostato sul piano
della ‘soggettività’. Nel corso delle interviste è stato chiesto ai lavoratori del terzo
settore di valutare la posizione lavorativa, sia nel complesso che con riferimento a
singoli aspetti quali la retribuzione, il tipo di lavoro svolto, l’ambiente, e le prospettive
di crescita professionale.
Il primo aspetto interessante che emerge dall’analisi è rappresentato dal fatto che
esiste una sorta di correlazione fra motivazioni dei lavoratori e valutazione complessiva
della propria condizione.
Coloro che hanno scelto di lavorare nel terzo settore per coerenza rispetto ai propri
valori di vita esprimono un giudizio complessivamente positivo della propria condizione
di lavoro.
“Nel mio lavoro ci sono tanti aspetti positivi...la soddisfazione personale, il confrontarsi
continuamente con le persone, il condividere valori e obiettivi con gli altri. Secondo me
poter avere tutte queste cose in un ambiente di lavoro non ha prezzo”.
E ancora.
“Nel complesso sono molto soddisfatta, perché è quello che volevo. Adesso mi sento
molto meglio rispetto a quando facevo l’altro lavoro, sto bene.”
La percezione complessiva della propria condizione di lavoro è molto diversa per quei
lavoratori che si trovano ad operare nel terzo settore per mancanza di alternative o
“casualmente”.
In queste due situazioni l’atteggiamento nei confronti della propria situazione è più
critico e si rileva una maggiore ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi.
“Ci sono molte cose che non mi piacciono di questo lavoro, e se metto a confronto gli
aspetti positivi e gli aspetti negativi non so cosa pesa di più...ormai ho cominciato a
lavorare qui, ma continuo a guardarmi intorno, perché se mi capita qualche altro lavoro
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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fuori dal sociale, in cui magari mi pagano di più o in cui ho degli orari di lavoro più
decenti, non ci penso due volte e cambio”.
Nel dettaglio delle singole componenti della condizione lavorativa, le posizione degli
intervistati sono abbastanza eterogenee e riflettono probabilmente anche esigenze
personali (in questo caso, sarebbe forse opportuno incrociare le valutazioni con le
caratteristiche socioanagrafiche degli intervistati).
Vi è un aspetto, tuttavia, che risulta trasversale: l’insoddisfazione per la retribuzione
economica. Infatti, qualunque sia l’importanza che ciascuno attribuisce alla
componente reddito – e questo aspetto, probabilmente, risulta fortemente correlato
all’età, alla condizione familiare e alle prospettive di crescita individuate nel proprio
lavoro27 - gli intervistati condividono una insoddisfazione generalizzata nei confronti del
livello di reddito percepito.
“Rispetto al lavoro che facevo prima guadagno molto meno e a livello di contributi non
sono nemmeno con precisione in quale situazione sono”
E ancora.
“La paga è bassa, per cui lo stipendio non è che sia dei migliori”.
Per concludere, ci sembra interessante riportare l’analisi di uno degli intervistati.
“Uno dei problemi di cui soffre il terzo settore è certamente quello economico. Spesso,
proprio perché esperienza nuova e proprio perché precedentemente tutto era legato ad
esperienze di volontariato, non c’è una considerazione di pari dignità rispetto agli altri
lavori e di conseguenza è in tanti casi umiliante. Mi riferisco in particolare al contratto
collettivo di riferimento. E’ anche vero, pero, che a questo talvolta si accompagna una
scarsa preparazione professionale degli operatori del settore.”
Per questo motivo sarebbe necessario un doppio passaggio.
27 Seppure i dati non siano statisticamente rappresentativi, è interessante rilevare che i soggetti che non attribuiscono particolare importanza alla componente del reddito sono giovani, vivono ancora in famiglia e non hanno ancora maturato strategie riproduttive.
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“Da un lato il riconoscimento di questo ambito lavorativo...è un lavoro importante per
la comunità, quindi ai lavoratori dovrebbe essere riconosciuta pari dignità”.
“Allo stesso tempo, tuttavia, gli operatori del settore dovrebbero impegnarsi di più per
la propria formazione e per la propria professionalizzazione, in modo da operare con
strumenti più forti rispetto a quelli che derivano esclusivamente dalla messa in campo
della propria volontà e sensibilità”.
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ALCUNE CONSIDERAZIONI DI SINTESI
Il lavoro svolto non ha la pretesa di essere esaustivo. L’obiettivo perseguito dal gruppo
di ricerca è stato essenzialmente quello di ottenere una prima fotografia del fenomeno,
che dovrebbe rappresentare non tanto un punto di arrivo, quanto un punto di partenza
per avviare un monitoraggio costante e sistematico delle modalità e delle condizioni di
lavoro nel terzo settore.
Molti sono infatti gli spunti di riflessione, così come le criticità emerse nel corso
dell’indagine. Primo fra tutti il concetto di terzo settore, la cui definizione non risulta
pienamente condivisa dagli intervistati.
Nell’ambito delle interviste in profondità, infatti, sono emerse due posizioni distinte. Per
alcuni esiste una perfetta coincidenza fra terzo settore e organizzazioni non profit; per
altri, l’universo delle organizzazioni del terzo settore include, oltre a quelle non profit,
anche altre realtà che producono utilità sociale, a prescindere dalla loro forma giuridica
e dalle modalità di ridistribuzione degli utili.
Per quanto attiene al rapporto fra lavoro sommerso e terzo settore, pur in assenza di
dati quantitativi, l’impressione diffusa e condivisa dagli osservatori privilegiati è che
nell’ambito del terzo settore siano presenti forme di lavoro sommerso. Più nel dettaglio,
il terzo settore toscano sembra essere caratterizzato da fenomeni isolati di lavoro nero
e da situazioni molto più diffuse di lavoro ‘grigio’, di parziale violazione delle norme che
regolano il rapporto fra lavoratore e azienda.
Per quanto attiene alle modalità di manifestazione del fenomeno, l’indagine evidenzia
due situazioni distinte. Per quanto riguarda i rapporti di lavoro dipendente, i problemi
sono da imputare essenzialmente alla ‘giungla’ retributiva da un lato - e dunque alle
disparità di trattamento di lavoratori con pari qualifiche e pari mansioni - e dalla non
osservanza di tutte le norme e gli obblighi contrattuali che il sistema impone dall’altro
(lavoro festivo, lavoro su turni, reperibilità, ecc.).
I problemi più rilevanti, tuttavia, sembrano interessare le altre tipologie di rapporti di
lavoro. Forme di lavoro sommerso sembrano annidarsi nella diffusione, spesso
impropria, delle collaborazioni coordinate e continuative e nella figura del socio
lavoratore. L’applicazione scorretta di queste forme di lavoro dà luogo infatti a
situazioni di parziale evasione contributiva, abbassando i costi del fattore lavoro e
rendendo l’impresa sociale più competitiva sul mercato di riferimento.
LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE
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Ma quali sono le cause del ricorso a forme di lavoro sommerso nel terzo settore? E,
soprattutto, si tratta di elementi eliminabili o insiti nel sistema?
Per quanto attiene alle cause, le posizioni degli intervistati sono diverse. Secondo
alcuni, il fenomeno è da imputare alla recente nascita del settore e, soprattutto, alla
sua espansione rapida e fuori da ogni controllo.
Un’altra ipotesi emersa in sede di intervista è che la presenza del lavoro sommerso,
soprattutto ‘grigio’, sia da imputare all’incapacità imprenditoriale di alcuni soggetti che
operano nel terzo settore, soprattutto nella fase di start up d’impresa. Fra le condizioni
che possono favorire il diffondersi di forme di lavoro non regolare viene segnalata
anche la tensione fra una domanda sempre crescente di servizi non specialistici di
assistenza alla persona e un’offerta spesso non professionalizzata e legata più a logiche
di integrazione del reddito familiare, che non a strategie personali di posizionamento
sul mercato.
Vi è infine da segnalare l’esistenza di un rapporto ambiguo fra imprese sociali ed enti
pubblici, che richiederebbe la definizione di regole condivise e di meccanismi di
controllo omogenei.
Per quanto attiene alla natura del rapporto fra forme di sommerso e terzo settore,
secondo alcuni è ‘fisiologico’, e dunque ineliminabile. Per altri, invece, il legame ha
natura ‘patologica’. I sostenitori di questa tesi ritengono dunque che potrebbero essere
messi a punto una serie di interventi per eliminare – o ridurre - le condizioni che
possono in qualche modo favorire lo sviluppo del fenomeno.
Le interviste in profondità realizzate con i lavoratori del terzo settore - pur non
restituendo un quadro rappresentativo delle modalità di lavoro – permettono di
focalizzare l’attenzione su alcuni elementi di criticità.
In primo luogo, l’analisi dei percorsi professionali degli intervistati evidenzia l’esistenza
di due tipologie differenti di lavoratori. Un primo gruppo ha avuto esperienze di lavoro
esclusivamente nel terzo settore. Esiste poi un secondo gruppo di lavoratori per i quali
il lavoro nel terzo settore è stato preceduto da una o più esperienze in altri ambiti di
attività economica.
Per quanto attiene alle motivazioni che stanno alla base della scelta di lavorare nel
terzo settore, l’indagine evidenzia che i motivi ricorrenti sono almeno tre: la casualità,
l’assenza di alternative e il punto di approdo di un percorso personale.
Per alcuni lavoratori, l’opportunità di lavoro nel terzo settore ha rappresentato l’unico
modo per entrare o rientrare sul mercato del lavoro. La modalità dell’assenza di
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alternative viene segnalata dagli intervistati in possesso di titoli di studio molto bassi,
senza qualifiche professionali specifiche e presenta, soprattutto, una forte
connotazione di genere.
Le motivazioni condizionano la valutazione complessiva della propria condizione di
lavoro. Coloro che lavorano nel terzo settore per coerenza rispetto ai propri valori di
vita giudicano nel complesso positiva la loro condizione lavorativa. Per contro, la
percezione è molto diversa per quei lavoratori che si trovano ad operare nel terzo
settore “per caso” o per mancanza di altre opportunità occupazionali.
Per concludere, tuttavia, è importante rilevare che qualunque sia la motivazione e
qualunque sia l’importanza attribuita alla componente del reddito, tutti gli intervistati
esprimono un giudizio negativo nei confronti del reddito percepito, che ritengono
inadeguato rispetto al lavoro svolto.
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1. TRACCIA DI INTERVISTA AI TESTIMONI QUALIFICATI NOTIZIE GENERALI Data dell’intervista; Nome e cognome dell’intervistato; Ente/organizzazione/associazione di appartenenza; Funzione svolta PRIMA PARTE – LE DEFINIZIONI DI LAVORO SOMMERSO E TERZO SETTORE NELLA PERCEZIONE DEI TESTIMONI QUALIFICATI 1. Secondo lei cosa si intende per terzo settore? Quali sono le organizzazioni del terzo settore? 2. Come definirebbe il lavoro sommerso? SECONDA PARTE – IL FENOMENO DEL SOMMERSO NEL TERZO SETTORE: DIMENSIONI, CAUSE E MODALITA’ 3. Secondo la sua esperienza/conoscenza, quanto e come le organizzazioni del terzo settore ricorrono al lavoro sommerso? 4. Secondo lei, in ambito regionale quale forma di lavoro sommerso è maggiormente diffusa nelle organizzazioni del terzo settore? Il lavoro “nero” o il lavoro “ grigio”? 5. Quali sono, secondo lei, le cause del ricorso al lavoro sommerso nel terzo settore? 6. Le attività svolte dalle OTS sono estremamente eterogenee: dall’assistenza sociosanitaria alle attività culturali. Secondo lei, il ricorso al sommerso presenta connotazioni di tipo “settoriale”, territoriale e/o di contesto? Per quale motivo? 8. In base alla sua esperienza/conoscenza, come si concretizza – o come si concretizza maggiormente - il lavoro sommerso nel terzo settore? 9. Con quale frequenza, secondo lei, le imprese del terzo settore ricorrono al lavoro sommerso? 10. Gli studi realizzati sul terzo settore evidenziano che le principali professionalità del non profit possono essere raggruppate in quattro aree principali: • Area socio-assistenziale e di educazione-formazione: insegnanti, assistenti di base, educatori e animatori, psicologi e assistenti sociali. • Area socio-sanitaria: infermieri, fisioterapisti, operatori sanitari. • Area cultura, legata alla gestione ed erogazione dei servizi di tipo culturale.
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• Area amministrativa e gestionale: manager, ragionieri e impiegati. In quali di queste aree è più frequente, secondo lei, l’incidenza del lavoro sommerso? E con quali modalità? 11. Secondo la sua esperienza, il lavoro sommerso nel terzo settore si associa maggiormente al lavoro manuale o a quello intellettuale? 12. Secondo lei, quale tipologia di sommerso ricorre più frequentemente nel lavoro intellettuale? E nel lavoro manuale? I RAPPORTI FRA ENTI FINANZIATORI E ORGANIZZAZIONI DEL TERZO SETTORE: MECCANISMI DI DISTORSIONE E DI CONTROLLO 13. Sulla base delle sue conoscenze/esperienze, quanto incidono le condizioni di gara sul ricorso al lavoro sommerso nell’ambito delle organizzazioni del terzo settore? 14. Sulla base della sua esperienza, esistono meccanismi di controllo utilizzati dagli enti finanziatori? Più in generale, qual è la frequenza dei controlli ispettivi sulle organizzazioni del settore? PERCEZIONE E DINAMICHE DI MEDIO PERIODO DEL RAPPORTO FRA SOMMERSO E TERZO SETTORE 15. Che giudizio dà del fenomeno del lavoro sommerso nel terzo settore? Si tratta di un elemento di distorsione, di un segnale di vitalità economica o di un fenomeno “inevitabile””? 16. In caso di giudizio negativo, quali meccanismi dovrebbero essere introdotti/utilizzati per contrastare il fenomeno? 17. Secondo lei, quali sono le prospettive future? Il ricorso al lavoro sommerso nel terzo settore è destinato ad aumentare, a diminuire o rappresenta una connotazione “fisiologica”? Per quale motivo?
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2. TRACCIA DI INTERVISTA AI LAVORATORI DEL TERZO SETTORE PRIMA PARTE - NOTIZIE SOCIOANAGRAFICHE DELL’INTERVISTATO 1. Età 2. Sesso 3. Stato civile 4. Presenza/assenza figli 5. Titolo di studio e/o qualifiche professionali SECONDA PARTE - DESCRIZIONE DELLA ATTUALE CONDIZIONE DI LAVORO 6. Descrivere il settore di attività economica 7. Descrivere le mansioni svolte 8. Contratto di lavoro: dipendente (specificare se tempo determinato o indeterminato); co.co.co.; collaborazione occasionale; socio lavoratore; ecc. Se dipendente, indicare la tipologia di contratto applicato dall’azienda Se co.co.co., descrivere il contratto stipulato con l’azienda e le modalità attraverso cui si è arrivati al contratto 9. Descrivere l’orario di lavoro previsto dal contratto o concordato con il datore di lavoro e l’orario di lavoro effettivo (straordinari, reperibilità, lavoro su turni). 10. Descrivere le modalità di lavoro (in autonomia, ecc.) 11. Descrivere il luogo di lavoro in termini di clima, rapporti con il datore di lavoro (formali, informali) TERZA PARTE - PRECEDENTI ESPERIENZE DI LAVORO 12. Da quanto tempo lavora nell’azienda? 13. Descrivere, se esistono, le precedenti esperienze di lavoro in termini di durata, settore di attività, motivi dei cambiamenti, ecc. QUARTA PARTE - IL LIVELLO DI SODDISFAZIONE E LA PERCEZIONE DELLA PROPRIA CONDIZIONE LAVORATIVA 13. Quali sono le motivazioni, principali e secondarie, per cui si svolge l’attuale lavoro (fonte di reddito, motivazioni sociali, ambiente di lavoro, mancanza di alternative, ecc.)?
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14. Qual è il livello di soddisfazione complessivo e in relazione ai diversi aspetti dell’attuale condizione di lavoro? 15. Come si valuta la propria condizione lavorativa in termini di retribuzione economica, forme di tutela previste (malattia, maternità, infortuni, ecc.) 16. Per i collaboratori. Come si valuta l’attuale condizione lavorativa in termini di futuri trattamenti pensionistici (si ha la percezione del problema; se no perché?, se sì, quali strategie si adottano?) 17. Nel caso in cui ci sia un percezione corretta della propria condizione di lavoro, per quale motivo la si accetta? QUINTA PARTE - I RAPPORTI CON IL SINDACATO 18. Si è mai rivolto ad organizzazioni sindacali? 19. Se no, per quale motivo? 20. Se sì, per quale motivo? 21. In che modo è entrato in contatto con il sindacato?
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Iniziativa Comunitaria Equal 2000/2003 Regione Toscana Progetto “ PRO S.I.T. Pro Servizi d’Integrazione Territoriale” n. IT-G-TOS-0014 approvato e finanziato con D.D. 6218 del 9.11.2001