Le sentenze non definitive
SPICCIOLI DI ECONOMIA Breve corso su questioni di attualità economica I cittadini di oggi pongono molte domande su questioni di economia spicciola, confrontandosi con temi fino a poco tempo fa sconosciuti, come quello dello SPREAD, ma che ormai fanno parte non solo dell’immaginario collettivo bensì pure delle loro conversazioni e del loro quotidiano. Crescita, equità e lavoro: bisogna aspettare a braccia conserte le scelte di politica economica?
2019
-
Nova
ntesi
mo
della
Gran
de
Crisi
MASSIMO SAVASTANO LICEO SCIENTIFICO GALILEI - BORGOMANERO
2019 - Novantesimo della Grande Crisi
Massimo Savastano
2
INTRODUZIONE
Le domande
di economia
sempre più
diffuse tra
normali
cittadini
Scoppiata la crisi economica internazionale nel 2007, le preoccupazioni proprie e
peculiari dei diversi operatori economici sono divenute vere e proprie trepidazioni di
tutti i cittadini. Si tratta di una storica svolta epocale e culturale: oggi più che richieste
alla classe dirigente e politica, le persone pongono una serie di domande ormai ricorrenti
sulla bocca dei più: sul lavoro, sulle pensioni, sulla moneta unica, sull’utilità di far parte
dell’Unione europea, sulle banche, ovvero sulle questioni di economia spicciola che
incrociano e toccano la vita di ognuno di loro. E soprattutto, gli italiani sono sempre più
interessati a sapere se il Paese sarà in grado di sostenere un periodo di crescita
prolungato e stabile, nonostante le bordate della crisi economica e gli urti dell’instabilità
politica, un periodo che garantisca il più possibile equità sociale e lavoro per tutti.
In una società che reclama cittadini attivi e responsabili, è importante divenire italiani
che non vogliono più farsi strumentalizzare e incantare da velleitarie e fantomatiche
promesse elettorali, per conoscere in maniera alquanto plastica un universo che non è
proprietà esclusiva degli addetti ai lavori ma è una realtà con cui si deve imparare a
coabitare e con cui fare i conti tutti i giorni: l’economia. Proprio così: l’economia, che
può sembrare un mondo distante anni luce e incomprensibile, più la si comprende più
può aprire gli occhi a tutte quelle persone che, con le mani in tasca,si limitano a prestar
fede a coloro che promettono facili soluzioni a problemi complicati.
Questo corso, che si svolgerà nel 2019 a esattamente 90 anni dalla Grande Crisi,
rappresenta l’opzione, da parte di chi sta compiendo studi impegnativi, come quelli
liceali, di condurre la propria vita – a prescindere dalle scelte specifiche che si
compiranno in ambito lavorativo e professionale – in modo pieno e consapevole, senza
delegare aspetti pratici a burocrati e tecnici, ma divenendo protagonisti di una storia che
ci impone di condurre qualsiasi attività secondo una visione dell’umano che persegua in
qualsiasi modo la giustizia sociale e permetta all’uomo di diventare sempre più uomo.
Obiettivi del
corso Competenze Conoscenze Abilità
1) Riconoscere il ruolo
dello Stato nella
organizzazione dei
popoli.
2) Conoscere le diverse
forme che può
assumere lo Stato
nell’esercizio della
sovranità.
3) Riconoscere i valori
fondamentali posti
dalla Costituzione alla
base della nostra
convivenza sociale.
4) Collocare l’esperienza
personale nel tessuto
sociale della comunità
nel rispetto dei valori
espressi dalla
Costituzione.
1) Conoscere le scelte
di valore contenute
nei principi
fondamentali della
Costituzione.
2) Conoscere i
concetti di
globalizzazione e
multinazionali con
i loro aspetti
positivi e risvolti
problematici.
3) Conoscere alcuni
concetti economici
fondamentali:
economia reale e
monetaria, finanza
speculativa, spread,
banche e altri
concetti di attualità
economica.
1) Comprendere
articoli di giornale
sulle attuali
questioni
economiche.
2) Saper valutare i
rischi che può
comportare la
globalizzazione.
3) Riconoscere
l’eccessivo potere
delle
multinazionali e
loro commissioni
con la mafia
economica.
4) Riconoscere in una
certa situazione il
profilo di un valore
fondamentale
costituzionalmente
protetto.
Massimo Savastano
3
PRIMA LEZIONE
L’escalation
di “suicidi
economici”
dalla Grande
Crisi ad oggi
Per poter distinguere a breve ciò che caratterizza l’economia reale, differenziandola
dall’economia monetaria e, quindi, per non confondere il capitalismo in sé con una suo
aspetto patologico qual è la finanza speculativa, può prestarci un valido supporto
l’esamina della diversa tipologia di operatori economici che, dal 1929 ad oggi, si sono
avvicendati in una drammatica escalation di “suicidi economici”. A raccontarlo è
Arnaldo Vitangeli, in suo articolo del 12 marzo 2014:
Suicidi a catena tra i banchieri della J.P. Morgan.
Come Nel 1929 “volano” i finanzieri Arnaldo Vitangeli, Mar 12, 2014 FINA INTERNAZIONALE PRIMO PIANO
Cosa sta accadendo o sta per accadere ai vertici della finanza mondiale, e più in particolare nella JP Morgan e nella Deutsche Bank? Uno dei ricordi emblematici della crisi del 1929 è quello di finanzieri che, caduti in rovina in pochi giorni, salivano all’ultimo piano dell’edificio della Borsa e dall’alto si gettavano in strada. Ebbene: la stampa italiana sembra non essersene accorta, tutta intenta a seguire il parto cesareo del governo Renzi ed il totoministri conseguente, ma nell’arco di otto giorni, tra il 26 gennaio ed il 3 febbraio scorso, da Londra a New York, a Washington, si sono suicidati ben quattro banchieri. E l’epidemia non accenna a finire: martedì 18 febbraio un altro suicidio, questa volta ad Hong Kong. Tre indizi, si dice, fanno una prova. Qui siamo già a cinque. Ma prova di cosa? Questo è il punto, su cui, per ora, si possono solo formulare ipotesi. Intanto vediamo, più in dettaglio, quel che è accaduto. Il 26 gennaio William Broeksmit, 58 anni, ex direttore esecutivo della Deutsche Bank si è impiccato nella sua casa di Kensington, uno dei più esclusivi e lussuosi quartieri di Londra. E fin qui si poteva anche supporre che fosse il gesto disperato di un uomo non più giovane che non si rassegnava alla perdita del suo lavoro, e con esso del suo privilegiato “status” economico e sociale. Ma due giorni dopo, sempre a Londra, è Gabriel Magee, banchiere della J.P. Morgan che si lancia dal tetto della sede della banca. Il giorno successivo, cioè il 29 gennaio, dall’altro lato dell’Atlantico, Mike Dueker, di 50 anni, economista capo presso la società americana Russell Investments si toglie la vita gettandosi da un ponte, nei pressi di Washington. Segue il suo esempio, cinque giorni dopo, Ryane Crane, di soli 37 anni, direttore esecutivo della JP Morgaan Chase di New York, trovato morto nella sua casa di Stamford, nel Connecticut.La lista, per ora, si conclude con un trader di 33 anni di JP Morgan Charter House Asia (il nome non viene riportato) che si è gettato dal tetto del grattacielo sede della banca ad Hong Kong. Abbiamo ricordato i suicidi di finanzieri rovinati e disperati durante il crollo della Borsa del 1929 in America perché a Londra e negli Stati Uniti alcuni osservano che episodi di questo genere accadono quando qualche grande multinazionale nasconde perdite gigantesche. E ciò fa temere che possa innescarsi, all’improvviso, una nuova crisi finanziaria globale, come quella di cui il fallimento della Lehman Brothers fu il detonatore. Una cosa è certa: la JP Morgan e la Deutsche Bank si contendono il primato mondiale sul terreno di quelle “armi di distruzione di massa” che sono i derivati, con contratti del valore nominale di decine e decine di trilioni di dollari. Ed ambedue hanno sul collo le indagini delle autorità monetarie, con una serie di contestazioni e di denunce. Se l’epidemia dei suicidi continua, è segno che davvero qualcosa di terribile sta bollendo in pentola, ed a sciogliere il mistero saranno i fatti.
Massimo Savastano
4
Le domande
di economia
sempre più
frequenti tra
normali
cittadini
Dai finanzieri caduti in rovina nel Ventinove agli illustri banchieri dei nostri giorni; cosa
sta capitando ai vertici della finanza mondiale? Perché i suicidi riguardano dapprima
esponenti della borsa e poi delle banche? Non solo: perché, in Italia, avvertita la crisi
economica in tutta la sua portata, quella innescata dai derivati sui mutui sub-prime, si
sono susseguiti molti suicidi di imprenditori (piccoli e medi), questi ultimi
rappresentanti non più dell’economia monetaria bensì dell’economia reale? Siamo negli
anni in cui le scelte dei governi del Vecchio Continente appaiono ampiamente
influenzate e compromesse dai diktat delle banche della “zona euro”, tanto che il
governo Berlusconi, che fu decretato da una maggioranza plebiscitaria, nel 2011 venne
costretto in fretta e furia a rassegnare le dimissioni e a lasciare il posto al governo
“tecnico-europeo” di Mario Monti, già commissario europeo. La fine drammatica di
finanzieri, imprenditori e banchieri, è forse indice e spia di un cambiamento irreversibile
degli assetti di mercato (quel mercato che rappresenta da sempre un ibrido tra economia
reale e finanza speculativa ma che ora appare a prevalenza di finanza speculativa), tanto
che oggi leggi di mercato dettano l’agenda dei governi nazionali? E che differenze ci
sono tra la Grande Crisi del 29 e quella di oggi? Le questioni
di economia
sul tappeto
della nostra
discussione
“Non mi riconosco più in questo Stato. Questo Paese non è democratico. In Italia ci
sono troppe leggi che frenano lo sviluppo economico. La normativa sulle imprese è
soffocante. La mobilità del lavoro dovrebbe favorire l’occupazione. Lo Stato non fa più
investimenti pubblici. Vogliamo più impresa privata e meno Stato. Lo Stato deve ridurre
la spesa pubblica. Basta tasse. La globalizzazione ha fatto perdere potere allo Stato”.
Ma possiamo dire che l’economia si riduca a queste, seppur lecite, lamentele o
considerazioni allo stato larvale di un basico sapere economico? Per comprendere
qualcosa in più di questo incerto scenario, in rapido e costante e incontrollato
cambiamento, dobbiamo confrontarci con alcuni concetti fondamentali della scienza
economica, quei rudimenta che possono trarre nell’inganno di ridurre la dottrina
economica in spiccioli ma che, tutto sommato, vanno a scandagliare le grandi questioni
economiche che si ripercuotono sugli spiccioli di tutti i cittadini. Eccoli.
- Quale differenza intercorre tra economia reale e finanza speculativa? La finanza
speculativa è solo un derivato del mercato borsistico o un male più antico?
- Che cos’è il debito pubblico? E perché è compromesso dai debiti delle banche?
- Cosa si intende per crescita economica? E perché l’Italia stenta a crescere di nuovo?
E perché l’instabilità politica frena la crescita?
- Perché le banche non aiutano più le imprese? Per questo si sono suicidati molti
imprenditori? E che cosa sono spread e quantitative easing?
- Perché gli italiani sono i più tassati o tartassati d’Europa? E perché in Italia è
patologico il tasso d’evasione fiscale?
- Si andrà più in pensione? Cosa è la riforma Fornero e cosa si intende per sistema
pensionistico contributivo e retributivo?
- Come funzionano i mercati? Cosa sono mercati finanziari e Borsa? Cosa sono i
derivati? E i mutui sub-prime?
- Chi tutela il piccolo risparmiatore?
- Ci conviene restare nella Unione europea?
- L’euro è un danno per l’economia italiana?
- Cosa si intende per reddito di cittadinanza e quota 100?
- Cosa è una legge di bilancio e perché l’Europa può sanzionare uno Stato membro per
la manovra finanziaria varata dal suo parlamento nazionale?
Queste e tante altre tematiche possono aiutarci leggere e a comprendere le notizie
economiche anche dei principali quotidiani nazionali e internazionali.
Alla prossima lezione!
Massimo Savastano
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SECONDA LEZIONE
La global
economy nel
difficile
rapporto tra
Stato ed
economia
Iniziamo il nostro percorso con una lunga virata che prende il volo sulle note di I vow to
thee my Country, e che ci riporterà dentro la maestosa sala dei concerti londinesi, un
palazzo ottocentesco che si ispira architettonicamente agli anfiteatri romani, la Royal
Albert Hall, dove ogni anno si svolge il Festival of Remembrance, la domenica
successiva all’11 novembre, per commemorare sia la fine della Prima Guerra Mondiale
sia i caduti di ambo i conflitti mondiali. Abbiamo ascoltato l’intera nazione britannica
cantare questo celebre inno patriottico, tutta in piedi, dalla Regina Elisabetta fino
all’ultimo dei suoi sudditi, senza distinzione alcuna. Potremmo dire che, a prescindere
dalla situazione economica di ognuno o, meglio, pur divisi dall’economia, gli inglesi si
ritrovano fieri e uniti dentro lo Stato e grazie allo Stato. Proprio così, abbiamo assistito
al miracolo di un popolo che ripone ancora la sua fiducia nello Stato. Quello Stato che,
quantunque scosso da tempeste epocali – come la Brexit –, resta l’unico baluardo a
difesa della libertà e della dignità di ogni cittadino. L’idea di
Stato “oltre la
Manica”
Lo stile inglese è unico per il suo fondersi di liturgia sacra e ritualità civile. Di certo, tale
singolarità non la si può motivare asserendo in modo alquanto approssimativo che nel
Regno Unito il capo dello Stato e il capo della chiesa anglicana sono la stessa persona.
Le ragioni sono molto più complesse e profonde e si possono sintetizzare con qualche
battuta del prezioso testo – che vi consiglio di leggere per comprendere fino in fondo la
cultura inglese che, prima di tutto, è cultura giuridica e politica, più ancora che
economica – del professor Claudio Martinelli, “Diritto e diritti oltre la Manica. Perché
gli inglesi amano tanto il loro sistema giuridico”. Anzitutto, “in Inghilterra, prima, e in
Gran Bretagna, poi, cultura e civilizzazione si fondono in una storia in cui tradizione
e innovazione si completano a vicenda, in cui la libertà si intreccia con l’affermazione
dei diritti, in cui lo spirito di un popolo è tutt’uno con le sue istituzioni, in cui
l’identità della nazione si plasma nella storia dei suoi istituti giuridici e la politica
costituisce lo strumento per tenere insieme una società multiforme e plurale”. Non
solo – e qui prestiamo molta attenzione ai prodromi dell’idea stessa di Stato e al
significato vero e proprio della sovranità nazionale: “Già da prima dell’invasione
normanna, la monarchia medievale inglese poggia e trova legittimità in un continuo
rapporto di scambio tra il re e la classe nobiliare. Ne consegue che le decisioni del re
che possono alterare gli equilibri sanciti tra il monarca e i nobili devono godere del
consenso di questi ultimi per avere valore giuridico. Si afferma pertanto da subito il
concetto che le decisioni politiche, specialmente quelle relative ai tributi, debbano
essere il frutto di un bargaining, di una contrattazione, tra i diversi soggetti dotati di
rilevanti funzioni sociali. Questa visione negoziale della politica e del diritto viene
progressivamente fatta propria dai soggetti sociali più influenti, divenendo patrimonio
comune non solo alla grande nobiltà terriera, tradizionalmente vicina al sovrano, ma
un po’ a tutti i corpi sociali, laici (come le corporazioni) o religiosi (come le
confraternite), rurali o urbanizzati. Non dimentichiamo, inoltre, che il potere del re
trovava un preciso limite nel necessario rispetto anche da parte sua di tutte le norme
di carattere consuetudinario che, fin da prima della formazione del regno, regolavano
la vita civile e la cui sistematizzazione aveva dato vita alla common law. Diritto, limiti
ai poteri, autorevolezza della classe giurisdizionale che deve custodire la legalità: sono
questi i caratteri fondamentali che segneranno lo spartiacque tra l’Isola e il
Continente e che le consentiranno un anticipo nella tempistica sulla strada della
modernità rispetto alle altre esperienze nazionali fortemente legate, invece, al ruolo
«costituente» dell’assolutismo monarchico e del principio di sovranità”. Insomma, se
nel Continente c’era solo una legge morale a limitare il potere del re, in Inghilterra c’è
già una legge giuridica, ovvero la legge in quanto tale, la legge vera e propria.
Massimo Savastano
6
L’attuale
“pensiero
debole”
dello Stato
“al di qual
della
Manica”
L’entità denominata Stato oggi è ben presente a tutti, in modo tangibile quale entità
pervasiva e persino opprimente, ma “di cui difficilmente potremmo pensare di fare a
meno” (C. Martinelli, Le radici del costituzionalismo). Nella cultura greca vi è una sua
anticipazione nel concetto di Polis, mentre per i romani si utilizzavano espressioni come
Res Publica, Regnum, Imperium, per identificare una certa organizzazione dei poteri
pubblici. Tuttavia, è solo con la formazione dello Stato moderno che si comincia ad
utilizzare la parola Stato con il termine attuale che configura quella forma
particolarmente accentratrice del potere che fu lo Stato assoluto. È a patire dal
Sedicesimo secolo che “trova attuazione l’idea della formazione di un’entità politico-
giuridica caratterizzata dalla compresenza di almeno tre elementi, indispensabili per
poter dire di essere in presenza di uno Stato: sovranità, popolo, territorio. Lo Stato,
cioè, consiste nell’organizzazione della vita pubblica di un popolo, che occupa un ben
determinato territorio, su cui viene esercitata in via esclusiva una forma di sovranità”
(C. Martinelli, ibidem). Nell’ordinamento medievale, non si può parlare di una vera e
propria forma di Stato perché non sussiste simultaneamente la suddetta terna dei classici
elementi costitutivi dello Stato. Soprattutto, è assente un’entità superiorem non
recognoscens, mentre sono evanescenti i concetti di sovranità, nazione, indirizzo
politico. Inoltre, i beni collettivi non vengono garantiti dalle strutture pubbliche,
piuttosto sono assicurati dalla Chiesa – tant’è che Paolo Grossi si spinge a qualificare
l’ordinamento medievale quale “diritto senza Stato”. L’era dei
mercanti Attorno al Cinquecento, si accentuano quei caratteri di trasformazione socio-economica
che erano già stati enucleati nell’ultima fase del Medioevo. Da un’economia agricola
curtense di sussistenza, dove il feudo doveva sostanzialmente bastare a se stesso, si
passa sempre più ad un’economia di scambio, favorita anche dal progresso delle
tecniche di coltivazione che innescano un incremento della produzione. Simili fattori di
innovazione e un’espansione del manufatto artigianale, che per sua stessa natura si
presta agli scambi, inducono “i sistemi economici ad aprirsi alle prime forme di
capitalismo finanziario. Nascono le banche e i titoli di credito (determinante in tal
senso il ruolo assunto dai banchieri italiani e olandesi del ‘400-‘500), nonché una
nuova classe sociale molto più dinamica ed intraprendente rispetto alla nobiltà o al
clero, cresciuti attorno ai privilegi medievali: la borghesia” (C. Martinelli, ibidem).
Tuttavia, la borghesia conduce i propri traffici commerciali senza farsi carico per via
diretta di responsabilità politiche nella conduzione dello Stato, limitandosi a richiedere
ai poteri pubblici una serie di “servizi” atti a favorire il nuovo modo di impostare le
relazioni economiche. Infatti, la vecchia struttura giuridica basata sulle corporazioni non
riesce a contenere le nuove professioni, le nuove tecniche produttive, i nuovi ceti sociali,
cioè tutti quegli elementi di innovazione cui occorrono nuove regole di funzionamento e,
perciò, una nuova produzione di leggi rinnovata e omogenea su tutto il territorio dello
Stato. Già qui rileva come non si possa comprendere la genesi dello Stato moderno a
prescindere dall’economia. Su questo punto è lungimirante la riflessione che compie
John Kenneth Galbraith, economista di fama mondiale dell’Università di Princeton, nel
suo celebre testo Soldi. Conoscere le logiche del denaro per capire le grandi crisi: “la
storia dei soldi testimonia in modo impressionante le disavventure e la follia che
frequentemente si accompagna alla gestione degli affari monetari. Mi riferisco a uno
dei grandi errori di ogni tempo: il rapporto con il denaro, specialmente con cospicue
quantità di esso, trasmette una pericolosa quanto irresistibile impressione di
intelligenza, almeno fino al giorno della resa dei conti”. E quando arriva la resa dei
conti, allora diventa sempre più chiaro come il mercato non stia in piedi da sé senza un
minimo intervento di quello Stato che ha contribuito a far sorgere, perché il ciclo
economico, tra crescita e inflazione, se ne sta lì ad attestare che non c’è nulla di stabile
nel mercato. Ergo, meglio tenersi stretto lo Stato.
Massimo Savastano
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La nascita
dello Stato
moderno
Tutto il complesso di interessi economici che la nuova classe borghese porta con sé si
salda, poi, con le mire espansionistiche di molti sovrani. Il re desidera ampliare i confini
del territorio su cui esercita il dominio politico, imponendo il diritto dello Stato a nuovi
spazi che rappresentano maggiori opportunità redditizie. Il ché si lega direttamente con
gli interessi degli operatori economici che possono usufruire, finalmente, di nuovi
mercati e talvolta anche di prodotti sconosciuti, come quelli che emersero dalla scoperta
dell’America. Ecco perché si è giunti persino a sostenere che “nasce così come
inevitabile corollario dell’affermazione dell’idea di Stato anche il colonialismo” (C.
Martinelli, ibidem). Tutti i fattori fin qui evidenziati hanno comportato un accentramento
dei poteri nelle mani del sovrano che, progressivamente, si è trovato a capo di una
struttura di organi sempre più forte, stabile, organizzata, in grado di trasmettere i
comandi del re su tutto il territorio di sua competenza, in modo capillare, condizionando
pesantemente la vita dei sudditi che lo abitano. È in questo preciso momento che si
forma in maniera chiara e precisa l’entità politico-giuridica che da oltre 500 anni viene
definita Stato, formata dall’inscindibile compresenza di sovranità, popolo e territorio. Lo
Stato assoluto è la prima vera forma di Stato moderno. Sembra un paradosso ma è in tale
contesto che affonda le sue radici l’idea dello Stato come bene di tutti e come garanzia
del bene collettivo. Seguiamo con attenzione una riflessione che ce ne svela il senso:
“Lo Stato assoluto non è necessariamente uno Stato dispotico e, generalmente, il re
non si comporta come un satrapo capriccioso, forte del fatto di essere privo di
controlli e di limiti. Se il sovrano medievale concepisce il suo comando sul territorio e
sul popolo come una relazione di tipo privatistico-patrimoniale, e quindi il regno come
una proprietà della sua persona, i dettami dello Stato assoluto invece impongono una
scissione tra la Corona, cioè la funzione di comando e di rappresentanza che una
dinastia si tramanda attraverso le norme di diritto pubblico che disciplinano la
successione al trono, e il Re (o la Regina), cioè la persona che di volta in volta è
chiamato a ricoprire quella posizione. Il ché consente di spersonalizzare la Monarchia
conferendole quei crismi di rappresentanza della continuità e dell’unità dello Stato, in
coerenza con i nuovi concetti di Sovranità e Nazione che fanno da substrato ideale a
questo processo di razionalizzazione dell’organizzazione dello Stato. Il sovrano
assoluto quando agisce sa di farlo in nome degli interessi dello Stato e della Nazione
ed elabora un proprio indirizzo politico, certamente non discutibile, ma escogitato per
quelli che egli crede essere gli interessi del Regno. Naturalmente la Storia è piena di
esempi di cattiva gestione di questo potere, ma questo dipende più dalla capacità di
ogni singolo monarca che non dai presupposti ideologici di quella forma di Stato.
Inoltre bisogna notare che il Sovrano, pur legibus solutus, normalmente tende a non
violare gratuitamente alcuni capisaldi normativi, soprattutto quelli derivanti dal diritto
naturale e consuetudinario, avvertiti dalla popolazione come cogenti e imprescindibili
per la vita civile. Comunque, non vi è dubbio che pur con questi limiti, il Monarca
inglobi su di sé le grandi funzioni e i grandi poteri dello Stato. Egli è al tempo stesso il
rappresentante dell’unità nazionale, il legislatore, la guida del governo e anche il
massimo giudice. In questo contesto si inserisce in modo pienamente coerente la
formazione di una stabile burocrazia professionale come strumento di governo nelle
mani del Re” (C. Martinelli, ibidem). Lo Stato
assoluto e
l’economia
Badate: il Regno di Luigi XIV (1661-1715) rappresenta bene l’essenza dell’Assolutismo
anche da un punto di vista economico, tanto sul piano teorico quanto sul versante della
prassi. In quel periodo storico. Infatti, le politiche economiche degli Stati si conformano
ai dettami del mercantilismo, una dottrina economica che misurava la ricchezza di una
nazione sulla base della quantità d’oro e d’argento presente nelle proprie riserve,
ritenendo che le importazioni fossero causa di impoverimento, mentre le esportazioni un
genere di arricchimento nell’attirare dentro il territorio dello Stato quei metalli preziosi.
Massimo Savastano
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Teoria
mercantilista Per il mercantilismo, appunto, la ricchezza rappresentava una quantità definita che si
spostava dagli Stati compratori, che impoverivano, a quelli venditori che si arricchivano.
Questa teoria orientò e condizionò per ben due secoli le scelte politiche dei sovrani,
finché venne superata, sul finire del ‘700, dalle intuizioni liberiste dell’economista e
filosofo scozzese Adam Smith, il cui capolavoro fu il testo datato 1776 e intitolato La
ricchezza delle nazioni. Fu proprio il ministro delle finanze del Re Sole, Jean-Baptiste
Colbert, a impostare una politica mercantilistica attraverso più direttrici: aumento della
produzione industriale perseguita attraverso interventi diretti o indiretti dello Stato atti a
moltiplicare le esportazioni; maggiore impulso ai commerci interni con il superamento
delle corporazioni e l’abolizione dei dazi interni al territorio statale; innalzamento di
barriere protezionistiche per scoraggiare le importazioni (qui potremmo discettare su
quanto siano datati e forse anacronistici i dazi con cui il Presidente Trump tenta di
salvaguardare e rilanciare l’economia americana); inasprimenti fiscali e abolizione di
taluni privilegi di origine medievale; sostegno allo sviluppo coloniale assicurato dalle
ingenti risorse destinate alle forze armate (qui è ben visibile un parallelismo tra moderne
corporation e colonialismo, nel loro comune tentativo di estendere la propria potenza
economica sfruttando materie prime e forza-lavoro di Stati più poveri al solo scopo di
sottopagarle). Questa politica passa alla storia col termine di Colbertismo. Non sfugge a
nessuno come “una politica economica così interventista e dirigista fosse possibile solo
grazie alla concentrazione del potere negli organi del governo nazionale che facevano
capo al monarca e alla forza, giuridica e di fatto, con cui veniva esercitato” (C.
Martinelli, ibidem). Si può, a ragione, concludere che lo Stato moderno sorge dal
superamento della frammentazione del potere dell’età medievale; da un suo
accentramento funzionale ad una guida forte e sicura di un popolo che attraverso la
propria storia, cultura, lingua, religione, costumi si fa nazione, acquisendo quindi
coscienza di sé come comunità di spirito. L’idea di
Stato in
Thomas
Hobbes
Non potendomi dilungare oltre, per capire l’importanza dello Stato e la sua preminenza
rispetto alla sfera economica (che – fate caso – non rappresenta uno dei poteri della
Teoria tripartita di Montesquieu, limitata ai poteri legislativo, esecutivo e giudiziario,
perché l’economia non unisce il popolo in una comunità di spirito ma lo ripartisce in
classi sociali), preferisco rimarcare l’alto valore simbolico che Thomas Hobbes
attribuisce allo Stato nella sua riflessione filosofica. Lo Stato non è nient’altro che il
prodotto finale di un atto di volontà generale di uscita dal minaccioso stato di natura, in
cui vige la volontà del più forte, per approdare a quello della conservazione della vita,
dell’affermazione della socialità, dell’ordine e della pace. L’accordo per uscire dallo
stato di natura ha come scopo di intervenire sulle sue insicurezze, determinate dalla
assenza di un potere unico che faccia da guida; pertanto, è necessario che tutti cedano
una porzione del potere individuale ad un unico soggetto, nelle cui mani concentrare
tutto il potere. È con un “patto di unione” che i singoli si obbligano a obbedire ai
comandi di colui cui è stata trasferita la somma dei poteri individuali. Grazie a questo
patto si entra in uno stato di civilizzazione e da una condizione di guerra e violenza si
approda alla pace e alla sicurezza. Per uscire da una simile condizione, il popolo italiano,
dopo la drammatica esperienza nazifascista, ha consegnato al Parlamento Costituente il
compito di fondare lo Stato su una Carta pattizia, fondata cioè sul medesimo patto di
unione hobbesiano, per aspirare alla pace, alla sicurezza e alla prosperità. Nessuna teoria
economica, tantomeno quella mercantilista, è riuscita a scongiurare il dramma di
conflitti come quelli mondiali. Di contro, le moderne carte costituzionali, che hanno
sancito nel proprio catalogo dei diritti inviolabili anche i diritti socio-economici, hanno
assicurato al nostro Continente ben oltre 70 anni senza più l’ombra di conflitti di siffatte
proporzioni. Non vi sfugga questo passaggio, anche soffermando la vostra riflessione su
un racconto di politica economica mercantilista e dei suoi rilevanti limiti.
Massimo Savastano
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La
speculazione
finanziaria di
John Law
Contemporaneamente allo sviluppo delle banche, verso il Seicento, i cicli di euforia e di
panico innescati dall’economia si alternarono periodicamente, giusto il tempo necessario
perché la gente dimenticasse l’ultimo disastro e perché i geni finanziari di una
generazione morissero screditati e venissero sostituiti da nuovi operatori ai quali i
creduli potessero affidarsi a occhi chiusi. La storia di John Law dimostra che senza uno
Stato guidato dall’idea del bene collettivo, la speculazione finanziaria, al pari del gioco
d’azzardo, è un male di per sé e può costituire la degenerazione criminogena del futuro
sistema capitalistico. Lo vedremo. Ebbene, Law dimostrò, forse meglio di chiunque
altro, che cosa poteva fare una banca con il denaro, e al denaro.
Le banche John Kenneth Galbraith Soldi. Conoscere le logiche del denaro per capire le grandi crisi (cfr. pp. 28-34)
Law arrivò in Francia nel 1716. Originario della Scozia, era fuggito dall’Inghilterra per un’accusa di omicidio. Dissipata una cospicua eredità, per qualche anno si guadagnò da vivere come giocatore. Già in precedenza, in Scozia, in Olanda e in Italia, Law aveva cercato di vendere la sua grande idea, quella di una banca che rilasciasse banconote, a chi chiedeva prestiti, garantite dalle proprietà terriere nazionali. Law, tuttavia, incontrò molte difficoltà con scozzesi e olandesi troppo privi di immaginazione. La Francia era invece terreno fertile, anche perché qui Law presentò una variante basata su proprietà terriere più lontane. Luigi XIV [il nostro Re Sole - ndr] era morto l’anno precedente l’arrivo di Law. Le condizioni finanziare del regno erano spaventose [a proposito di Colbertismo - ndr]: le spese superavano del doppio le entrate, la tesoreria era cronicamente vuota. Il duca di Saint-Simon giunse persino a proporre la franca soluzione di dichiarare la bancarotta della nazione, cioè di cancellare tutti i debiti e ricominciare da capo [ossia da zero franchi - ndr]. Mentre Luigi XV ha solo sette anni e il reggente in sua vece è il duca Filippo d’Orléans, arriva Law. Si racconta che avesse conosciuto Filippo in una bisca e che questi rimase impressionato dal genio finanziario dello scozzese. Un regio editto del 2 maggio 1716 concesse a Law e a suo fratello il diritto di fondare una banca con un capitale di sei milioni di livres, pari a un quarto di milione di sterline inglesi. La banca era anche autorizzata a emettere banconote. E lo fece in forma di prestiti, e il primo richiedente fu proprio lo Stato ridotto alla bancarotta. Le banconote erano inoltre valute legali per il pagamento delle tasse. All’inizio esse erano accettabili non solo per le tasse ma per ogni altro uso, giacché Law aveva promesso conversioni in monete con lo stesso peso in metallo alla data della loro emissione, mentre il re di Francia aveva continuato a ridurre il peso della moneta francese, speculando sulla riduzione del metallo impiegato. Di conseguenza, sembrò che Law offrisse una garanzia contro le malversazioni regie. Ecco perché all’inizio le banconote di Law godettero di uno straordinario prestigio. Di certo, l’iniziativa di Law servì a migliorare e a salvare la situazione economica del governo. I prestiti concessi a imprenditori privati fecero aumentare i prezzi. Law aprì diverse filiali della sua banca nelle maggiori città di tutto il regno. Quindi, la sua banca privata divenne una compagnia privilegiata, la Banque Royale. Se Law si fosse fermato qui, verrebbe ricordato per il suo modesto contributo alla storia della banca. Il capitale in contante sottoscritto dagli azionisti sarebbe stato sufficiente a soddisfare tutti i detentori di banconote che avessero cercato di convertirle. Ma forse nessun uomo, dopo una partenza così promettente, sarebbe stato capace di fermarsi. È una sorta di dipendenza come quella dal gioco d’azzardo. Dato i guadagni, fu decisa una nuova emissione. Se una cosa ha funzionato bene, moltiplicandola dovrebbe funzionare meglio. Law escogitò anche il modo di ricostruire le riserve con le quali la Banque Royale garantiva la sempre crescente quantità di banconote emesse e non effettivamente garantite.
Massimo Savastano
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Rispolverò la sua idea originaria di una banca imperniata sulla proprietà terriera e fondò la Compagnia del Mississippi con l’intento di sfruttare e portare in Francia i ricchissimi depositi di oro vaneggiati nel sottosuolo della Louisiana, sperando di incrementare i profitti anche del commercio (oltre ad offrire una solida garanzia per le banconote emesse). La Compagnia diverrà in seguito la Compagnia delle Indie, che otterrà l’esclusiva dei commerci con India, Cina e Mari del Sud. Quali ulteriori fonti di guadagno, le furono concessi altresì il monopolio dei tabacchi, il diritto di coniare monete e l’appalto delle tasse. La fase successiva fu l’immissione sul mercato di azioni di quella che era divenuta, ormai, la prima forma di conglomerato finanziario-commerciale (si potrebbe obiettare, la prima forma di economia inquinata dalla speculazione finanziaria). La folla di coloro che cercarono di comprare le azioni era fittissima, il baccano della vendita assordante. Le operazioni si svolsero nella vecchia borsa di Rue Quincampoix. Uomini che all’inizio dell’anno avevano investito poche migliaia di lire, si ritrovarono milionari nel giro di pochi mesi, se non settimane (da qui il soprannome millionaires). Durante l’anno, una quantità sempre maggiore di titoli del conglomerato venne offerta in pasto agli investitori. Intanto, però, la Banque Royale continuò ad aumentare i suoi prestiti, e di conseguenza le banconote con cui venivano ritirati. Ma la vendita delle azioni non originò il cospicuo capitale che sarebbe occorso per lo sfruttamento della Louisiana. Per questo, in seguito a un vantaggioso accordo col reggente della banca, il ricavato delle vendite dei titoli del Mississippi non finì nel Mississippi ma convertito in prestiti per coprire le spese del governo francese. Del progetto di Law di estrarre l’oro della Louisiana sarebbero rimasti solo gli interessi sul prestito. In sintesi, Law prestava le banconote della banca al governo francese e a privati cittadini, per pagare i loro debiti. Le stesse banconote venivano, a loro volta, usate dai creditori che le incassavano per acquistare azioni della Compagnia del Mississippi, il cui ricavato veniva dato ancora al governo per pagare le spese e rimborsare i creditori, che continuavano a spendere le banconote per comprare altre azioni, il cui ricavato serviva a far fronte ad altre spese governative. E così all’infinito, allargando ogni volta il ciclo che era ormai degenerato in un incontrollato circolo vizioso. Nessuno si accorse che il governo, pieno di debiti, e non la Louisiana, era il vero oggetto dell’investimento. Law era diventato l’uomo più stimato della Francia. Convinto, come accade a ogni genio finanziario, della infallibilità delle proprie idee, con i suoi prestiti e le relative banconote cominciò a finanziare sistematicamente industrie e opere pubbliche. Il problema erano, ovviamente, le banconote. All’inizio del 1720 il principe di Conti, a quanto pare offeso per non essere riuscito a comprare azioni al prezzo che lui riteneva equo, mandò alla Banca di Law un fascio di banconote perché venissero convertite in moneta solida. Si trattava di una somma davvero ingente e ci vollero tre carri per portare via l’oro e l’argento. Law impose al reggente della sua banca di farsi restituire buona parte del metallo che il principe aveva ricevuto in cambio. Ma molti altri, mossi da un profondo istinto, s’affrettarono a convertire i biglietti di Law e a trasferire il metallo in Inghilterra e in Olanda. Venuta meno la fiducia degli investitori, Law fece sfilare per Parigi dei mendicanti con utensili e pale, illudendo tutti che si stavano recando in Louisiana a estrarre l’oro. Ma giunti al porto, la maggior parte di loro scappò via e non stette al gioco di fingere di imbarcarsi. La notizia che Parigi era affollata di mendicanti anziché di oro sconvolse gli investitori. Fu la fine del boom. Alla sede parigina della Banca si formò una coda interminabile di investitori che volevano la conversione delle banconote in contante. Law non era più il genio finanziario e dovette scappare a Venezia dove visse il suo ultimo decennio di vita in assoluta povertà. Per il duca di Saint-Simon la banca di Law sarebbe stata una buona idea ma non in Francia, perché i francesi mancavano della necessaria moderazione.
Massimo Savastano
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La crisi di
un’economia
senza regole e
senza Stato
Voi vi chiederete perché sto miscelando l’economia con il diritto. In realtà, per
comprendere le due crisi economiche e i concetti di base dell’economia, occorre rifarsi
alla tecnica della recirculatio, una ripesa retroattiva e correlativa degli argomenti. Se
l’economia pretende di fare a meno di quello Stato, di quella sovranità delegata per
rappresentanza dal popolo, con cui è stato possibile passare dallo stato di caos in cui
vige la legge del più forte allo stato di civilizzazione, la deriva che l’attende è ricreare un
far-west economico in cui la legge è quella di chi ha più potere in termini monetari,
ovvero del più ricco. Non può bastare la spiegazione economica della bancarotta degli
affari di Law per cui la condizione dello stato di salute di una banca è che “depositanti o
detentori di banconote si presentassero relativamente poco numerosi a chiedere il
solido contante. Ora, quando si spargeva la voce che una banca non era in grado di
pagare, accorrevano tutti, e spesso con molta urgenza” (Galbraith, ibidem), cosicché
soltanto i primi arrivati si vedevano convertire le banconote. Non è un caso che la
disperazione di chi si vedeva delle banconote prive di copertura sia la stessa dei
correntisti americani, inglesi e greci, nei primi anni della crisi economica internazionale
attuale. Un’economia solida non può reggersi su un’altrettanto solida illusione, o
diverremmo tutti schiavi di un gioco di suggestione collettiva. Nei suoi studi di neuro-
economia, il Premio Nobel per l’Economia Vernon L. Smith concluse che le persone in
certi contesti compiono scelte che contraddicono la teoria formale della razionalità,
messa a punto dagli studiosi, ma “anziché giungere alla conclusione di definirli
irrazionali, qualcuno si chieda se non sia piuttosto doveroso riesaminare ipotesi
accettate e indagare su quali nuovi concetti e disegni sperimentali possano aiutarci a
migliorare la comprensione del comportamento”. Orbene, in assenza di condizioni per
il rispetto delle regole di scambio da parte dell’individuo stesso o della comunità, si
tende a produrre conseguenze indesiderate con il rischio di compromettere i mercati e di
farli fallire. In tal modo, per Smith, pur rimanendo nella sfera della razionalità, “il gioco
dello scambio cede il passo al gioco del furto” (V. L. Smith, La razionalità
nell’economia. Fra teoria e analisi sperimentale). Ancora, non sarebbe più corretto
discettare di crimini dei colletti bianchi che hanno ridotto il mercato a una bisca
clandestina, anziché farlo dipendere dall’andamento scostante del grado di fiducia di
creditori e correntisti di una banca? Faccio riferimento ad alcuni autori per comprendere
meglio questo delicato passaggio. Joan Robinson contribuisce a fornire una definizione
per qualificare in senso tecnico le distorsioni economiche di mercato e cioè, alla lettera,
nel contesto mondiale dove “in alcune industrie l’accesso è più agevole che in altre,
esiste una distorsione sistematica dello schema di investimento, che è qualcosa che si
aggiunge all’instabilità generale che la politica dell’occupazione ha il compito di
controllare, agli errori di calcolo che possono capitare in qualunque sistema, agli
errori di direzione degli investimenti dovuti all’influenza della speculazione. È ad essa
che Keynes si riferiva quando disse: «Quando lo sviluppo di capitale di un paese
diventa un sottoprodotto delle attività di un casino da giuoco, è probabile che vi sia
qualcosa che non va bene»” (J. Robinson, Ideologia e scienza economica). A sua volta,
parlando dell’avidità dei grandi manifattori tessili, persino il maestro della scienza
economica, Adam Smith, è intervenuto per bordare le distorsioni del mercato nei limiti
di quel meccanismo in cui “non è con la vendita del loro lavoro, ma con quella del
lavoro finito dei tessitori, che i nostri grandi manifattori tessili fanno profitti. Come è
loro interesse vendere i prodotti finiti al massimo prezzo possibile, così è loro interesse
acquistare i materiali al minor prezzo possibile. Estorcendo dal legislatore premi
all’esportazione delle loro tele di lino ed elevati dazi sull’importazione di tutte le tele
estere. Incoraggiando l’importazione dei filati di lino esteri, e perciò mettendola in
concorrenza con quella prodotta dai nostri lavoratori, essi cercano di comprare il
lavoro dei poveri filatori al più basso prezzo possibile.
Massimo Savastano
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È loro preoccupazione tenere bassi i salari dei loro tessitori come i guadagni dei
poveri filatori, e non è affatto a favore dei lavoratori che essi cercano di elevare il
prezzo del prodotto finito o di abbassare quello dei materiali grezzi. È l’industria
svolta a favore dei ricchi e dei potenti, che viene principalmente incoraggiata dal
nostro sistema mercantile” (A. Smith, La ricchezza delle nazioni). Per esser precisi, la
globalizzazione del capitalismo avrebbe mantenuto la stessa logica, semmai invertendo
il procedimento del sistema mercantile, vale a dire abbattendo le frontiere per vendere
ovunque senza dazi ed esportando le aziende nei paesi dove si possa ottenere il prodotto
finito con una manodopera al minor costo possibile. L’implicazione, però, è sempre la
medesima e cioè che si finisce per avere di mira tutto, eccetto l’interesse delle nazioni.
Ecco, quindi, qual è stato l’esito paradossale ed economicamente irrazionale di
quell’economia che vuole fare a meno di regole, di quel fittizio libero mercato che non
vuole interferenze di alcun tipo da parte dello Stato, di quella finanza che si dimostra
allergica e quasi incompatibile ai principi di diritto e legalità . La profezia di
Saramago Il nichilismo della finanza speculativa che ha compromesso la tenuta economica, persino
in quei Paesi considerati virtuosi, trova la sua fantomatica anticipazione letteraria nel
romanzo Cecità, del Nobel portoghese José Saramago. Pubblicato a Lisbona a metà anni
Novanta, all’indomani della caduta del muro di Berlino, si tratta di un’opera che
permette di esaminare ancor più criticamente anomalie e contraddizioni di economia e
mercato, il cui indice più visibile sono le ambiguità e le contraddizioni della finanza
globalizzata rese sempre più evidenti dalla crisi economica internazionale del 2007. In
un tempo e in un luogo non precisati, all’improvviso l’intera popolazione perde la vista
per una inspiegabile epidemia, non però nel senso di un blackout bensì di una sorta di
caos visivo in cui si vede indistintamente tutto bianco, per effetto di un ripiegamento
individualistico sui propri bisogni che non lascia intercettare quelli dei consociati. Le
reazioni psicologiche sono devastanti, l’esplosione di terrore e violenza è inarrestabile,
gli effetti della patologia collettiva sulla convivenza sociale sono drammatici. E il
racconto immaginario sembra assumere sempre più i tratti della grande metafora di
un’umanità bestiale e feroce, incapace di vedere e di distinguere razionalmente le cose e
in grado di produrre solo abbruttimento, crudeltà e degradazione. Lo stato
economico
del
“Leviatano”
Non ci sono più regole per nessuno, ognuno segue i propri istinti e i propri bisogni, ciò
che vale sono l’egoismo, il potere e la sopraffazione a danno dei più deboli, la guerra di
tutti contro tutti, quasi ci si fosse dimenticati di secoli di battaglie per la democrazia. La
città popolata da abitanti ciechi regredisce allo stato del Leviatano hobessiano, che
assume i contorni di un’economia aggressiva per infrangere ogni spazio di civiltà. E che
la denuncia del Nobel portoghese ricada sul buio della ragione – o, meglio, il sonno
della ragione, se ci si vuole riferire al titolo del dipinto del pittore spagnolo Francisco
Gova (Il sonno della ragione genera mostri) – in cui ristagna la storia contemporanea, lo
certifica la presa di coscienza – espressa con estrema lucidità da uno dei personaggi del
romanzo che hanno perso la vista – del dissesto dell’uomo per cui “ognuno si comporta
secondo la propria morale, io la penso così e non intendo cambiare idea” (J.
Saramago, Cecità). Nell’indagare le cause della degenerazione di questo villaggio – che
sembra non avere coordinate spazio-temporali, forse per rispecchiarsi in qualsiasi
coordinata dello spazio e del tempo –, Saramago offre una chiave di lettura con cui
dissotterrare la radice di quel concetto debole di legalità che ha prevalso, ovvero
“secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che non vedono,
ciechi che, pur vedendo, non vedono” (ibidem). In tal modo, lo scrittore, ha
diagnosticato il virus della storia contemporanea non quale causa di un malessere sociale
ma quale sintomatologia di un’alterazione ben più grave, ovvero il virus di un’economia
malata a livello globale, dentro quella che il filosofo Habermas chiama senza remore
“costellazione postnazionale”.
Massimo Savastano
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Il racconto di
Cecità C’è un passaggio di Cecità che eleva il romanzo a profezia dell’attuale crisi (in un
momento storico in cui era impensabile il default o fallimento di una qualunque banca),
quando racconta il panico tra migliaia di risparmiatori, confluiti in interminabili code
dinnanzi agli istituti di credito. Ed è segnatamente quanto è accaduto in questi anni,
specie in Grecia, alla stregua dei creditori della kafkiana banca di Law. Anni durante i
quali “in principio fu un pandemonio, le persone per paura di ritrovarsi cieche e
sfornite, si precipitarono nelle banche per ritirare i propri soldi, penavano di doversi
premunire per il futuro, ed è comprensibile, se uno sa di non poter lavorare più,
l’unico rimedio, finché durano, è quello di far ricorso alle economie fatte in periodi di
prosperità e previsioni a lungo termine, supponendo che si sia avuta effettivamente la
prudenza di andare accumulando i risparmi granello su granello, il risultato della
fulminea corsa fu che in ventiquattr’ore erano fallite alcune delle principali banche.
Ma il peggio venne dopo, quando le banche si videro assalite da orde infuriate di
ciechi e non, ma tutti disperati. Tutto il sistema bancario crollò in un soffio, come un
castello di carte, e non perché il possesso di denaro avesse cessato di essere
apprezzato, prova ne sia che chi ce l’ha non vuole mollarlo” (ibidem). Saramago, nel
percepire il senso di una storia che si è spinta sull’orlo del baratro, ha offerto in tempi
non sospetti la risposta più calzante persino all’obiezione mossa dalla Regina
d’Inghilterra agli economisti della London School of Economics a riguardo della bolla
speculativa dei subprime: “Se questi fenomeni erano così grandi ed evidenti, come è
stato possibile che nessuno se ne sia accorto?”. Perché il sistema bancario si è dissolto
come un castello di carta o una bolla di sapone? Cosa significa “bolla speculativa”? Per
la precisione, la spirale micidiale ideata da Law o, per essere più espliciti, una colossale
bugia finanziaria di cui si è enunciata la teoria senza offrirne la dimostrazione (nasce
dalle bugie del Patron Tanzi ai giornalisti, durante le conferenze stampa sullo stato di
solidità della sua società, anche la bancarotta della multinazionale Parmalat). Ebbene,
conclude Saramago, se le cose sono andate così è perché “tutti i racconti sono come
quelli della creazione dell’universo, nessuno c’era, nessuno vi ha assistito, ma tutti
sanno cosa è accaduto”. O meglio, questo capita quando ci si ostina ancora a credere
alla mano invisibile del mercato, con cui a risolvere tutti i suoi fallimenti interverrebbe
spontaneamente lo stesso mercato, un ferito che si medica da sé. Charlotte
Link: la
global
economy
come
scoperta
dell’acqua
calda
C’è un’altra scrittrice che ci aiuta a leggere trasversalmente gli insuccessi economici
degli affari di Law e delle due grandi crisi, del Ventinove e di oggi: le conseguenze
attuali dell’economia globalizzata a noi contemporanea sembrano identiche a quelle
descritte, verosimilmente, in un suo romanzo storico che offre un breve resoconto della
situazione finanziaria tedesca del 1923, in cui si respira già un clima prossimo al crollo
di Wall Street: “L’inflazione si era annunciata già da molto tempo, ma quasi nessuno
aveva immaginato che fosse tanto repentina e soprattutto senza fondo. La gente
spendeva sempre più soldi per sempre meno roba. Chi possedeva beni di valore era in
grado, con un po’ di abilità, di costruirsi una fortuna, mentre chi riceveva un salario
rimaneva irrimediabilmente indietro. La classe media boccheggiava. Le piccole
imprese finivano in bancarotta, mentre le grandi si allargavano ancora di più. Chi
tornava a casa la sera con lo stipendio poteva essere sicuro di non acquistarci
praticamente niente già il mattino successivo” (C. Link, Venti di tempesta). Poi, nel
delineare questo scenario disincantato e drammatico, la Link si fa sfuggire un pungente
commento, che si attaglia perfettamente all’attuale situazione economica: “Ci aspettano
tempi molto duri. Interi settori economici sono andati distrutti, migliaia di imprese
hanno fatto bancarotta, la disoccupazione aumenterà, forse tornerà l’inflazione,
fame, mancanza di alloggi… tutte quelle belle tragedie che logorano sempre più un
popolo. Lo indeboliscono e lo espongono alle aggressioni… Ogni colpo subito dalla
repubblica è un punto in più per i nazisti. Queste persone mi fanno paura. Non posso
Massimo Savastano
14
liquidarli come pazzi innocui. Sanno fin troppo bene dove andare a colpire.
Conoscono i punti deboli della gente e li utilizzano per i loro scopi”. Cosa ci vuole dire
la celebre scrittrice tedesca? Quale lezione di storia ci sta impartendo? Le sua pagine
sono il triste presagio di come globalizzazione e multinazionali siano il prodotto di un
sistema economico escogitato ben prima di fine Millennio. O meglio, globalizzazione e
multinazionali rappresentano l’«eterno rischio», ossia il «rischio ciclico» – attenendoci
alla visione storica di Erodoto – di fare arricchire un esiguo numero di operatori
economici che affollano il mercato e che, pur agendo apparentemente in nome del
principio di libero mercato, in realtà fanno affari in quell’area grigia che è espressione
del senso più deteriore del libero mercato, ovvero di quella sorta di «terra di nessuno» in
cui l’assenza di regole certe consente di agire da affaristi senza scrupoli, lucrando ai
danni di molti, specie dei più deboli, le aziende o i privati cittadini che rappresentano la
controparte di holding company legali e corporation criminali. La global economy,
quindi, va posta sotto accusa allorché degeneri e si deteriori nella logica del lassez-faire
di cui si avvale e si avvantaggia la finanza speculativa mentre sfrutta e vanifica i risultati
conseguiti dall’economia reale che, attraverso la produzione di beni e servizi, si è
accollata interamente i rischi connessi al sistema capitalistico. Non ci sono
regole di
mercato?
In seguito, nello stesso verso dell’opera letteraria di Saramago si è indirizzata anche la
riflessione condotta in ambito economico. Basti pensare alla visione totalmente
pessimistica di Serge Latouche, che traduce la metafora di Cecità nel degradare delle
rigorose regole del sistema economico. In particolare, gli oggetti del consumo di massa
non sarebbero più lo strumento e l’obiettivo di un’arte di vivere, quanto piuttosto il
combustibile di una pulsione ossessiva di cui si diviene tossicodipendenti. La razionalità
del’ordine economico, allora, viene stravolta dall’incognita della propria irrazionalità,
quella che per Latouche si potrebbe – perlomeno – contenere grazie a economie che
perseguano obiettivi estranei al calcolo economico, distinguendo i fini dai mezzi,
supposto che “quando l’economia invade tutte le altre sfere, niente più può dare senso
al calcolo. L’unico senso è fare sempre più denaro, o fare denaro col denaro, senza
limiti. È quello che viene proposto a tutti e che pochi possono realizzare. Questo
totalitarismo dell’economia è destinato a portare, nel tempo, alla morte dell’economia,
e forse dell’umanità stessa. L’assurdità di una vita di cui l’economia è insieme il
mezzo e il fine si smaschera. La monetarizzazione di tutto e di ogni cosa alla quale
oggi assistiamo provoca il collasso delle significazioni” (S. Latouche, L’invenzione
dell’economia). Ed è singolare anche la risultanza della dissertazione di Paul Bairoch, al
termine della sua accurata analisi della storia economica, che scopre attraversata in
filigrana dalla «cecità» di un’economia privata di ogni legge razionale: vale a dire “se
dovessi riassumere l’essenza di ciò che la storia economica può dare alla scienza
economica, direi che non vi è alcuna «legge» o regola dell’economia che sia valida
per ogni periodo storico o struttura economica” (Bairoch P., Economia e storia
mondiale. I miti e i paradossi delle leggi dell’economia in un saggio polemico e
provocatorio). E piuttosto contrariato, Bairoch assesta un urto violento e, insieme quello
decisivo, per l’intero sistema economico: “in larghissima misura, la storia moderna è
caratterizzata più che da continuità economiche da discontinuità. Ciò significa che
non vi sono leggi assolute in economia?” (ibidem). La
Costituzione
per salvare il
mercato
La risposta a questo annoso dilemma, che costituisce anche miglior soluzione specie per
le ripetute crisi in cui va ad arenarsi il mercato stesso, è rappresentata dalle moderne
carte costituzionali liberali, e con orgoglio sottolineiamo la Costituzione italiana, un
capolavoro di ingegneria giuridica di giusnaturalismo e giuspositivismo, giacché
“nell’epoca moderna, l’idea di Costituzione è intimamente legata alla necessità di
avere uno strumento giuridico parlamentare autorevole, in grado di limitare il potere
e garantire le libertà.
Massimo Savastano
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Le Costituzioni rispecchiano quell’architettura dello Stato che si fonda sull’idea che il
potere sia intrinsecamente pericoloso per gli individui, e quindi sia indispensabile
proteggere le loro libertà con un’organizzazione dello Stato che ripudi
l’accentramento di poteri nelle mani di un unico soggetto e si fondi sulla divisione del
potere in diverse funzioni dello Stato appannaggio di diversi organi. Questa idea
rivoluzionaria si è andata affermando nei secoli con la fissazione in Costituzione di
limiti, modalità e condizioni di esercizio del potere politico nel rispetto dei diritti della
persona umana, nonché nel perseguimento di valori superiori rispetto alla
contingenza di chi, di volta in volta, detiene il potere. Limiti, modalità e valori
potranno variare in relazione al periodo storico di riferimento o alla nazione di cui si
sta specificamente trattando. Ergo, esiste un costituzionalismo liberale, uno
rivoluzionario, uno democratico, così come ci saranno Costituzioni concesse dal
sovrano (ottriate), oppure di origine pattizia e, quindi, redatte da un’Assemblea
costituente. E ancora, ci saranno costituzioni brevi e lunghe, flessibili e rigide, che
stabiliscono per il proprio Stato forme di governo diverse. Elemento distintivo di tutte
queste esperienze è la volontà di affermazione della Libertà attraverso la limitazione
del Potere, come sancisce l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, del 1789: un popolo che non riconosce i diritti dell’uomo e non attua la
divisione dei poteri, non ha la Costituzione” (C. Martinelli, ibidem). Nessuna
democrazia
né libertà di
mercato
senza lo Stato
di diritto
Questa lunga premessa induce a dichiarare con fermezza che oggi è in corso lo scontro
decisivo per la nostra democrazia, nonché per la stessa legalità. È lo scontro tra
l'egemonia di mercato e lo Stato di diritto. In un Report divulgato da JP Morgan, nel
2013, vengono additate le costituzioni dei Paesi europei periferici, tra cui l’Italia, come
ostacolo reale alla possibilità di crescita economica specie perché, vi si legge, adottate
“in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che
appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”. Ma inadatte
a che? A supportare questo fallimentare sistema economico depredato della propria
utilità sociale o a promuovere la riedizione di uno sviluppo fittizio in quanto frodato
dell’uomo stesso, se non la riproduzione di una cultura finanziaria senza alcuna
interferenza da parte del potere politico, che è poi il potere di legiferare in nome e per
conto dell’uomo che rappresenta? No, non è così giacché il manifesto dei diritti
inviolabili dell’uomo, che costituisce il preambolo di ogni Carta costituzionale, presenta
tutto il suo risvolto d’attualità proprio perché blindato a prova di qualsiasi dittatura. Non
si può avere altra certezza: la Costituzione italiana è l’ultimo baluardo eretto in pianta
stabile contro qualsiasi dittatura, non solo fascista, ma anche economica e mafiosa. Non
c’è alternativa: se cediamo a una società di mercato, rinunciamo allo Stato di diritto,
perché i valori di mercato comprimerebbero la legge stessa, fino a scalzarla. Il sistema
economico
costituzionale
Durante gli anni della crisi economica e della globalizzazione si è commesso il grave
errore di mettere da parte la Costituzione, dimenticando che essa rappresenta il miglior
antidoto contro i fallimenti del mercato. Gli articoli 35-47 Cost., inseriti nel catalogo dei
diritti inviolabili dell’uomo e nella parte dei Rapporti economici, sono espressione di un
sistema economico misto nel quale, cioè, viene riconosciuta e affermata l’iniziativa
privata consentendo però allo Stato di interagire col mercato, direttamente (ad es. con le
imprese pubbliche o le compartecipazioni) o con interventi legislativi per indirizzare le
iniziative a un preciso obiettivo – su cui ci soffermeremo analizzando la teoria
economica di Keynes –, quello che l’art. 42 Cost. definisce l’interesse generale
(esplicitato anche dagli artt. 3, 41, 47): l’iniziativa economica privata è libera ma non
può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. È un sistema che non ammette la
ricchezza in forma individualistica o quale accumulazione capitalistica smodata con cui
legittimare ogni sorta di sfruttamento delle risorse naturali e umane. Tecnicamente,
anche per la teoria keynesiana, l’utilità sociale salverà il sistema economico da se stesso.
Massimo Savastano
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Il fine
costituzionale
dell’economia
La Carta costituzionale è l’opera d’arte composto da quello che venne definito “arco
costituzionale”, l’accordo raggiunto da tutti i partiti con diverse ideologie: il PCI e il PSI
che si fecero garanti degli interessi degli operai e delle classi meno abbienti, la DC che
si ispirava al principio di solidarietà pur nel rispetto della proprietà privata, la destra che
insisteva sulla libertà economica degli imprenditori e degli operatori economici. La
Carta ha permesso di sancire per sempre un principio insuperabile, e non una ideologia
contingente, imprimendo un preciso obiettivo al sistema economico: la funzione sociale
dell’utilizzo e della disposizione dei beni che, quantunque debbano recare vantaggio ai
singoli, non possono mai rivelarsi pregiudizievoli per gli interessi della collettività. Sì i principi,
no le
ideologie
La Costituzione italiana ha guardato ai principi cui si ispiravano le diverse ideologie. È
stata attenta che i più deboli divenissero protagonisti della vita pubblica ma senza
appropriarsi del sistema economico e, cioè, senza statalizzarlo, nel rispetto della lezione
di Arthur Koestler che, dopo aver svolto in Unione Sovietica compiti di rilievo per
l’Internazionale comunista, nel suo libro Buio a mezzogiorno denunciò la divaricazione
tra l’aspirazione positiva al grande progetto, alla realizzazione dell’utopia, e le
conseguenze tragiche che possono derivare da un uso improprio del potere: “Il corpo
caldo, vivente del Partito gli sembrava coperto di piaghe, di piaghe dolenti, di stigmate
sanguinose. Quando e dove nella Storia c’erano mai stati santi così delusivi? Quando
mai una buona causa era stata peggio rappresentata? Se il Partito incarnava la
volontà della Storia, allora la Storia stessa era delusiva. Bisogna trovare la causa
della deficienza del Partito. Tutti i nostri principi erano giusti, ma i risultati sono
sbagliati. Questo è un secolo malato. Abbiamo diagnosticato la malattia e le sue cause
con esattezza microscopica, ma ogni qualvolta abbiamo applicato il bisturi nuovi mali
si sono sviluppati. La nostra volontà era pura e ferma, avremmo dovuto essere amati
dal popolo. Ma il popolo ci odia. Perché siamo tanto odiati? Abbiamo portato al
popolo la verità e sulle nostre labbra essa suona come una bugia. Abbiamo portato la
libertà ed essa appare nelle nostre mani come una sferza. Abbiamo portato la vera
vita, e dove risuona la nostra voce le piante si avvizziscono e s’ode un fruscio di foglie
secche. Abbiamo portato la promessa del futuro, ma la nostra lingua balbettava e
ringhiava”. La Carta apprezzò l’iniziativa economica dei privati ma non la lasciò orfana
dello Stato ampliandone l’orizzonte all’interesse pubblico. La Carta tenne conto anche
dell’interpretazione del principio di equità e della redistribuzione delle ricchezze, che ne
diede la tradizione cristiana ispirandosi, tra l’altro, alla teologia di un padre della chiesa,
Gregorio di Nissa, celebre come “il Nisseno”: “Siamo stati educati a cercare ciò che
basta a conservare la nostra vita fisica, dicendo al Signore: Dacci il pane, non il lusso,
né la ricchezza. Se Dio è la giustizia, non riceve il pane da Dio chi trae il cibo da una
ricchezza avidamente accumulata; tu sei signore dei tuoi voti se la tua agiatezza non
nasce dalle ricchezze altrui, se i tuoi guadagni non scaturiscono dalle lacrime altrui,
se nessuno ha avuto fame perché tu fossi sazio, se nessuno ha dovuto gemere e
sospirare perché tu avessi più del necessario”. Ma la Carta ha blindato la democrazia in
modo che mai nessuna fede potesse ergersi a teocrazia. La felicità di
tutti La Carta ha compiuto il miracolo di laicizzare i principi aspirando alla felicità di tutti i
cittadini e non solo di coloro che aderiscono a una determinata ideologia. L’interesse
generale è il sogno della Carta, fare felici e più ricchi tutti sia materialmente che
culturalmente. La felicità condivisa genera ricchezza, quella individualistica arricchisce
pochissimi e impoverisce tutti. È quanto ha affermato persino Eric Maskin, Premio
Nobel per l’economia nel 2007: “il meccanismo fondamentale per la pace per gli Stati,
per le aziende? Trasformare milioni di poveri in consumatori”. Un capitalismo etico è
possibile? Per Maskin “non solo è possibile, è essenziale. Non parlo solo di etica, ma di
necessità economiche e politiche. Ignorare milioni di persone che soffrono può dare
vita solo a tensioni sociali devastanti. Più sensato trasformarli in consumatori”.
Massimo Savastano
17
Il vero
concetto di
imprenditore
e del sistema
economico
Il percorso di laicizzazione dei principi economici, come quelli di ispirazione cristiana, è
sintetizzato nell’opera più celebre di Victor Hugo, i Miserabili. Vi si narra che, verso la
fine del 1815, un uomo, uno sconosciuto, era venuto a stabilirsi in città. Il passaggio
dalla morale cristiana al diritto è simboleggiata dal fatto che in passato quell’uomo fu
arrestato per furto, perché povero e doveva comprare le medicine alla madre molto
malata, ma uscito di prigione un vescovo lo ospitò e lui scappò in piena notte con una
parte di argenteria del prelato; arrestato e condotto dalla gendarmeria al santo vescovo,
questi disse che gliela aveva regalata e che, anzi, doveva portarsi via anche quella che
aveva lasciato lì, mentre all’orecchio del suo ospite sussurrò che con quella preziosa
refurtiva stava comprando la sua anima affinché si servisse di quel patrimonio
unicamente per fare del bene. E fu così, perché quel povero disgraziato spese nel
mercato industriale i soldi ricavati per realizzare l’idea di sostituire la gomma lacca alla
resina. Quel minuscolo mutamento fu una vera rivoluzione che ridusse vertiginosamente
il prezzo della materia prima e aumentò il prezzo della manodopera, con beneficio per
l’intera regione. Fu un’idea geniale, dotata di utilità sociale e realizzata da un ladro che
aveva raccolto l’invito e la scommessa di cambiare e trasformare la sua vita. E la
conclusione di Victor Hugo giunge è che in meno di tre anni l’autore di quel
procedimento si era arricchito, ciò è bene, e aveva arricchito tutto intorno a sé, ciò
è meglio. Ecco cosa manca all’accezione economica di imprenditore: chi fa impresa
non lo fa solo per ottenere profitto ma anche per arrecare benessere alla
collettività, chi fa affari lo fa anche in nome dell’interesse generale. La nostra
parte Rientriamo nella Royal Albert Hall. Chi ama la propria patria, ama anche la patria degli
altri. Senza lo Stato c’è solo un villaggio globale in cui vige la dura legge di
un’economia priva di ogni regola, un’economia cieca. Persino dal mondo dell’economia
si è alzata una voce autorevole per sostenere che l’economia non può fare a meno dello
Stato e dell’interesse generale, quella del Governatore della Banca d’Italia Ignazio
Visco, secondo cui – cito – mettere in comune una parte della sovranità nazionale
all’interno dell’Unione Europea, è l’unica maniera per preservarla. Va da sé, allora,
che per la stessa economia è necessario difendere sovranità nazionale e Stato nel più
ampio “villaggio globale”. A un’economia che non ci considera più cittadini ma sudditi,
a questo sistema di moderna schiavitù, vogliamo resistere. Vogliamo fare la nostra parte,
pagare anche noi il prezzo, versare le imposte giuste perché oggi il pericolo non è più
quello di uno Stato occupato da stranieri, quanto piuttosto dell’alienazione prodotta da
un sistema speculativo finanziario che ci fa sentire stranieri dentro qualunque Stato, ci fa
avvertire che “mi avevano succhiato fuori tutto perché facevo parte di un sistema
brutale che usa le parole solo per vendere. E quel sistema… Non agisce da solo, lo
capite? Fa parte di una società che è… tutta quanta brutale. Comincia tutto
dall’Occupazione, dal fatto che dominiamo un altro popolo, e prosegue… nelle cose
più piccole, per esempio come guidiamo. O come ci comportiamo quando siamo in
coda” (Eshkol Nevo, La simmetria dei desideri). Fieri di appartenere al nostro Stato e al
sistema economico delineato dalla Costituzione, intoniamo le note di questo inno per
indignarci contro un globalismo patologico che incita all’odio contro tutte le patrie: “I
wow to theemy country… Io consacro a te, mia Patria, tutte le cose terrene (e anche di
più), il servizio del mio amore sia intero, completo e perfetto. Sia un amore che non fa
domande, un amore che sa resistere alla prova, capace di sacrificare ciò che si ha di
più caro e il meglio. Un amore che non vacilla mai, un amore capace di pagare
qualsiasi prezzo. Un amore che non trema di fronte al sacrificio finale”. A noi basti un
eroismo economico che crei ricchezza per tutti, altrimenti anziché il nostro bene
inseguiremo il fallimento dell’uomo, deriva di ogni mercato fallimentare nel quale si è
ridotti a barattare i fondamentali diritti umani per una manciata di spiccioli.