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stanno ancora facendo le cure, possono essere più lucidi, perché … · 2014-06-20 · Peter V....

Date post: 07-Aug-2020
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Una giornata di 36 ore, quella di chi si prende cura di un familiare con demenza Il benessere della persona malata dipende anche "direttamente dal nostro benessere", a volte le famiglie delle persone affette da demenza arrivano a essere sopraffatte dai loro sentimenti. Una guida aiuta e conforta i familiari che assistono a casa un paziente colpito dalla malattia di Alzheimer ROMA - "A volte le famiglie delle persone con demenza arrivano a essere sopraffatte dai loro sentimenti" e questo può farli sentire soli. La persona malata e la sua malattia sono legate al contesto familiare, da cui non possono prescindere e a seconda delle circostanze determinate dall'intervento o meno di un parente o degli amici, il decorso della malattia può avere un andamento migliore o peggiore. "Una giornata di 36 ore"di Nancy L. Mace e Peter V. Rabins (Erickson, 2013) è la guida accessibile e soprattutto ‘comprensibile' per chi assiste a casa un paziente colpito dalla malattia di Alzheimer, malattia degenerativa da cui non è possibile guarire, ma essere curati sì. Alla sua quinta edizione il testo è pensato soprattutto per i familiari delle persone malate e attraverso un inquadramento generale del problema, propone una risposta ai tanti interrogativi posti da chi si fa carico delle persone affette da demenza, proponendo una serie di esperienze dirette basate su un vivere quotidiano fatto di sentimenti e soluzioni, discusse dalle famiglie e dai pazienti con gli stessi autori. La presente edizione, aggiornata sui più recenti progressi farmacologici, descrive anche "l'impiego e l'utilità dei medicinali che rallentano il decorso della malattia e di quelli che alleviano i sintomi più molesti". Molto può essere fatto per migliorare la qualità della vita del malato e dei suoi familiari, diviene dunque utile conoscere le esperienze e le soluzioni che vengono fornite. Sebbene si continui a non sapere come prevenire o come curare questa patologia, oggi si è in grado di riconoscerla con più certezza e dunque di rallentarne il decorso, mettendo in atto strategie contenitive che è bene individuare. Il punto focale del libro rimane la persona nel contesto della malattia, mostrando ai malati e a chi si prende cura di loro i modi in cui si può vivere una vita serena nonostante il suo progredire, collocando l'intervento farmacologico, in un contesto di assistenza onnicomprensivo. Alcune pagine affrontano anche il delicato tema della convivenza del malato con i più piccoli, è importante in questa situazione delicata, far capire ai bambini che i comportamenti e le azioni dell'anziano sono dettate dalla sua malattia. Poi arriva il momento, ma forse "non esiste mai un momento ‘giusto'" in cui, per esigenze di cura e tempo, si deve "mettere un familiare in casa di riposo", la famiglia non è più in grado di fornire assistenza adeguata e deve prendere una decisione piena di responsabilità. Gli autori affrontano anche questo tema delicato e difficile. Il benessere della persona malata dipende anche "direttamente dal nostro benessere" si legge nel capitolo dedicato all'"avere cura di se stessi", in questo contesto è essenziale trovare il modo di non esaurire le personali "risorse emotive e fisiche", riposarsi a sufficienza, trovare nel bisogno, un aiuto supplementare e qualche volta allontanarsi, per poi tonare e continuare ad assistere a pieno la persona malata. Fonte: superabile.it
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Una giornata di 36 ore, quella di chi si prende cur a di un familiare con demenza

Il benessere della persona malata dipende anche "direttamente dal nostro benessere", a volte le famiglie delle persone affette da demenza arrivano a essere sopraffatte dai loro sentimenti. Una guida aiuta e conforta i familiari che assistono a casa un paziente colpito dalla malattia di Alzheimer

ROMA - "A volte le famiglie delle persone con demenza arrivano a essere sopraffatte dai loro sentimenti" e questo può farli sentire soli. La persona malata e la sua malattia sono legate al contesto familiare, da cui non possono prescindere e a seconda delle circostanze determinate dall'intervento o meno di un parente o degli amici, il decorso della malattia può avere un andamento migliore o peggiore. "Una giornata di 36 ore"di Nancy L. Mace e Peter V. Rabins (Erickson, 2013) è la guida accessibile e soprattutto ‘comprensibile' per chi assiste a casa un paziente colpito dalla malattia di Alzheimer, malattia degenerativa da cui non è possibile guarire, ma essere curati sì. Alla sua quinta edizione il testo è pensato soprattutto per i familiari delle persone malate e attraverso un inquadramento generale del problema, propone una risposta ai tanti interrogativi posti da chi si fa carico delle persone affette da demenza, proponendo una serie di esperienze dirette basate su un vivere quotidiano fatto di sentimenti e soluzioni, discusse dalle famiglie e dai pazienti con gli stessi autori. La presente edizione, aggiornata sui più recenti progressi farmacologici, descrive anche "l'impiego e l'utilità dei medicinali che rallentano il decorso della malattia e di quelli che alleviano i sintomi più molesti".

Molto può essere fatto per migliorare la qualità della vita del malato e dei suoi familiari, diviene dunque utile conoscere le esperienze e le soluzioni che vengono fornite. Sebbene si continui a non sapere come prevenire o come curare questa patologia, oggi si è in grado di riconoscerla con più certezza e dunque di rallentarne il decorso, mettendo in atto strategie contenitive che è bene individuare. Il punto focale del libro rimane la persona nel contesto della malattia, mostrando ai malati e a chi si prende cura di loro i modi in cui si può vivere una vita serena nonostante il suo progredire, collocando l'intervento farmacologico, in un contesto di assistenza onnicomprensivo. Alcune pagine affrontano anche il delicato tema della convivenza del malato con i più piccoli, è importante in questa situazione delicata, far capire ai bambini che i comportamenti e le azioni dell'anziano sono dettate dalla sua malattia. Poi arriva il momento, ma forse "non esiste mai un momento ‘giusto'" in cui, per esigenze di cura e tempo, si deve "mettere un familiare in casa di riposo", la famiglia non è più in grado di fornire assistenza adeguata e deve prendere una decisione piena di responsabilità. Gli autori affrontano anche questo tema delicato e difficile.

Il benessere della persona malata dipende anche "direttamente dal nostro benessere" si legge nel capitolo dedicato all'"avere cura di se stessi", in questo contesto è essenziale trovare il modo di non esaurire le personali "risorse emotive e fisiche", riposarsi a sufficienza, trovare nel bisogno, un aiuto supplementare e qualche volta allontanarsi, per poi tonare e continuare ad assistere a pieno la persona malata.

Fonte: superabile.it

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Cure palliative e fine vita: c’è ancora poca chiare zza fra medici e malati Uno studio evidenzia la discrepanza tra quello che i pazienti desiderano (trascorrere se possibile le ultime settimane o giorni a casa) e quello che in realtà ricevono Di tumore si guarisce in un numero crescente di casi, ma non sempre. E quando purtroppo la malattia giunge alle sue fasi finali accade ancora tropo spesso che pazienti e familiari non ricevano tutte le informazioni necessarie per gestire al meglio la situazione. In particolare, sono ancora troppo frequenti i casi in cui i malati vengono sottoposti a chemioterapia palliativa senza trarne alcun beneficio e, in compenso, molti svantaggi. A fotografare la «scomoda realtà» è uno studio comparso sul British Medical Journal a cura di ricercatori americani di Weill Cornell Medical College, Dana-Farber Cancer Institute e Harvard Medical School, che ha messo in luce come molti pazienti in fase terminale trattati con cicli di chemioterapia finiscano per trascorrere i loro ultimi mesi di vita fra trattamenti invasi, ricoveri ospedalieri e tanto inutili quanto fastidiosi effetti collaterali. I malati desiderano una cosa e ne ottengono un’altra Ciò che emerge, in particolare, dallo studio è una discrepanza tra quello che i pazienti desiderano (ovvero, nella stragrande maggioranza dei casi, trascorrere se possibile le ultime settimane o giorni a casa insieme ai propri cari) e quello che in realtà ricevono. «La chemioterapia palliativa ha lo scopo di prolungare la sopravvivenza dei malati e alleggerire i sintomi legati alla malattia in stadio avanzato - chiarisce Holly Prigerson del Weill Cornell Medical College -. Stiamo parlando di persone che si suppone abbiano circa sei mesi di vita o meno ed è fondamentale che vengano spiegati loro chiaramente i possibili vantaggi, ma anche gli svantaggi di un trattamento. Visti gli esiti di questa indagine appare evidente che a mancare è soprattutto la chiarezza fra medici e pazienti». I risultati della ricerca, condotta su circa 400 partecipanti con un tumore in stadio avanzato, indicano che l’80 per cento dei malati non sottoposti a chemioterapia è deceduto nel luogo in cui desiderava (per la stragrande maggioranza casa propria), mentre ha esaudito questo desiderio solo il 68 per cento di quanti hanno fatto il trattamento (il 47 per cento di loro ha potuto morire a casa propria). Inoltre, una percentuale molto più elevata dei malati che hanno fatto le sedute palliative hanno trascorso i loro ultimi istanti in unità di cure intensive a causa di forti effetti collaterali e complicazioni. «Dev’essere chiaro che questi esiti non significano che ai malati non deve venire offerta la chemioterapia palliativa - precisa un’altra autrice dello studio, Alexi Wright, oncologa del Dana-Farber Cancer Institute -. Un’ampia parte dei partecipanti a questa indagine voleva fare delle cure per guadagnare anche soltanto una settimana di vita. Il punto è che bisogna spiegare loro meglio a cosa possono andare incontro, in un caso e nell’altro». «Bisogna affrontare prima il discorso fine vita» Questo studio non è il primo a mettere in evidenza il problema della comunicazione fra medici, pazienti e familiari sul fine vita. Sono parecchie le pubblicazione dedicate negli ultimi anni a questo argomento «e il problema è noto, anche in Italia - spiega Carlo Peruselli, presidente Società italiana cure palliative (Sicp) e direttore della Struttura Complessa di Cure Palliative dell’Azienda Sanitaria Locale di Biella -. Sappiamo che la chemioterapia palliativa spesso non prolunga la vita dei malati in modo significativo, ma in compenso non è quasi mai scevra da tossicità». Anche secondo le statistiche italiane chi fa chemioterapia in fase terminale ha maggiori probabilità di decesso in ospedale, mentre la qualità di vita risulta chiaramente migliore per chi trascorre gli ultimi tempi a casa propria, ricevendo le cure palliative a domicilio. «Il punto è che bisogna anticipare il discorso sul fine vita e pianificare precocemente le cure palliative - dice Peruselli -, in modo che i pazienti non le percepiscano solo come un’ultima spiaggia, ma come un successivo passaggio. Pazienti e familiari riescono ad affrontare meglio il discorso quando

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stanno ancora facendo le cure, possono essere più lucidi, perché meno angosciati dall’incombere della fine. Bisogna spiegare loro i pro e i contro di ogni scelta. E che sia chiaro che fare terapie meno “aggressive” non equivale ad avere meno vita da vivere. Oltre alla comunicazione, l’altro punto critico è l’assistenza domiciliare, che va implementata - conclude l’esperto -. La legge c’è (la 38 del 2010) ed è all’avanguardia in Europa, prevede anche la continuità tra ospedale e territorio. Ci sono gli hospice e gli ambulatori specializzati per la terapia del dolore sono presenti su tutto il territorio nazionale. A mancare è spesso l’assistenza territoriale e domiciliare, quando il malato terminale viene dimesso e torna a casa» . Fonte: corriere.it

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Il punto sulla fibrodisplasia ossificante progressi va

A questa malattia genetica estremamente rara, nella quale una serie di frammenti ossei si manifestano nei muscoli, nei tendini, nei legamenti e in altri tessuti connettivi, portando a un progressivo processo di ossificazione, sarà dedicato l’Ottavo Meeting FOP, in programma a Genova il 4 e 5 aprile, sempre a cura dell’Associazione FOP Italia, con l’intervento di numerosi, autorevoli ospiti provenienti dal nostro Paese e dall’estero

È fissato per quest’anno a Genova (Badia Benedettina della Castagna) ed esattamente per venerdì 4 e sabato 5 aprile, il Meeting FOP (fibrodisplasia ossificante progressiva), incontro internazionale giunto alla sua ottava edizione e organizzato come sempre dall’Associazione FOP Italia, in collaborazione con l’Istituto Giannina Gaslini di Genova, il CISEF (Centro Internazionale Studi e Formazione Germana Gaslini) e la Fondazione Menarini. Si tratterà di una nuova importante due giorni di lavoro interamente dedicata a questa malattia genetica estremamente rara – la fibrodisplasia ossificante progressiva, appunto - della quale si stima che nel mondo siano affette circa 2.500 persone, ovvero 1 ogni 2 milioni. In essa, una serie di frammenti ossei si manifestano nei muscoli, nei tendini, nei legamenti e in altri tessuti connettivi, portando a un progressivo processo di ossificazione. E tuttavia, nonostante la rarità dei casi, la ricerca ha fatto importanti scoperte per quanto concerne le tappe fondamentali della formazione scheletrica, oltre a individuare l’anomalia del gene ACVR1.

Particolarmente autorevoli e prestigiosi, anche quest’anno, saranno i relatori presenti all’incontro – diretto da Roberto Ravazzolo dell’Università di Genova e dell’Unità Operativa Complessa di Genetica Medica dell’IRCCS Istituto Gaslini di Genova – provenienti da centri specializzati del nostro Paese, ma anche da Giappone, Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi e Stati Uniti. Arriveranno inoltre nel capoluogo ligure i rappresentanti delle Associazioni “cugine” di FOP Italia da Argentina, Francia, Gran Bretagna, Malaysia, Paesi Bassi, Sudafrica e Svezia-Scandinavia, per dare vita, insieme al presidente Enrico Cristoforetti e ad altri esponenti della stessa FOP Italia, a una tavola rotonda in programma nella mattinata del 5 aprile. Oltre poi agli aggiornamenti sui vari aspetti della ricerca, rivolti per lo più a medici, biologi, farmacisti e tecnici sanitari di laboratorio biomedico, è previsto un ampio spazio anche per le domande dall’uditorio di pazienti e familiari, prima dell’Assemblea Generale di FOP Italia, che concluderà i lavori del Meeting. (S.B.)

Fonte:.superando.it

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Il botox il rimedio per gli attacchi d’asma Chi non conosce il botox, il nome che l’industria del commercio ha dato ad una delle tossine più mortali conosciute e che utilizza il principio attivo del botulino o anche della tossina botulinica. Noi non siamo qui a riflettere sull’utilizzo positivo o meno del botox nella medecina estetica, sui rischi che ne conseguono o sui vantaggi che una persona può derivare dai trattamenti effettuati, quello che qui sottolineamo è la scoperta fatta dall’Istituto Monash Health di Melbourne che ha individuato nel botox un rimedio efficace contro gli attacchi d’asma. Non solo imperfezioni della pelle, trattamenti anti-rughe o trattamenti anti-age, i ricercatori australiani hanno verificato come le infiltrazioni di botox su pazienti affetti da laringite o con frequenti attacchi d’asma possano generare dei risultati di salute sorprendenti. La ricerca ha utilizzato un broncoscopio come strumento per analizzare le corde vocali e procedere alle iniezioni nei pazienti; ad un mese circa di distanza i ricercatori hanno notato un notevole miglioramento nelle condizioni delle vie respiratorie ed una decrescita, nei soggetti, degli attacchi d’asma. La spiegazione scientifica del trattamento sperimentato è che il botox provoca la parziale paralisi del muscolo facendo rilassare la laringe e permettendo una più facile respirazione. Unico punto dolente? I ricercatori hanno notato nei pazienti coinvolti un abbassamento della voce come principale effetto collaterale del trattamento. Fonte: laricercascientifica.it 02/04/14

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L’invenzione “fai da te” che consente ai bambini di sabili di camminare: ecco Upsee Il progetto nato dalla mamma di un bambino disabile potrebbe aiutare migliaia di persone in tutto il mondo Un’invenzione nata dalla mente di una mamma potrebbe cambiare per sempre la vita dei bambini disabili in sedia a rotelle: si chiama Upsee, ed è un’imbracatura mobile, che avvolge il bambino e al tempo stesso lo aggancia all’adulto, tramite una cintura di sostegno e dei sandali speciali che legano i suoi piedi a quelli dell’adulto stesso. Con questo strumento, i bambini possono alzarsi in piedi e camminare insieme a un adulto, abbandonando la sedia a rotelle. L’idea è venuta a una musicoterapeuta dell’Irlanda del Nord, Debby Elnatan, mamma di un bambino con paralisi cerebrale. Suo figlio, il piccolo Rotem, grazie a questa imbracatura mobile a cominciato a camminare senza carrozzina agganciato saldamente alla sua mamma. “Quando mio figlio aveva due anni – ha raccontato Debby Elnatan, intervenendo alla presentazione – i medici mi dissero che non sapeva cosa fossero le sue gambe e non aveva alcuna coscienza dei suoi arti inferiori – ha continuato – per una madre è incredibilmente difficile apprendere una cosa del genere. Ho iniziato a camminare con lui giorno dopo giorno, una prova molto difficile per entrambi. Dal mio dolore e dalla mia disperazione, infine, è nata l’idea dell’Upsee e sono contentissima che sia finalmente fruibile a tutti”. L’idea è nata fra le mura di casa ma è piaciuta molto alla ditta Firefly, che in questi giorni sta lanciando l’idea in tutto il mondo, tanto che dal 1 al 3 aprile organizza tramite il proprio sito internet un seminario internazionale gratuito per presentare la novità. Fonte: resapubblica.it 2 aprile 2014

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Mal di schiena, ora si combatte con il software

L'applicazione antidolore

Circa sei milioni di persone in Italia soffrono di lombosciatalgia. Gli antinfiammatori non sempre rispondono allo scopo. Con Minosse, il medico può decidere se è il caso di passare agli analgesici oppiacei, più efficaci Mal di schiena, un tormento. L'applicazione Minosse aiuta a mettere a punto la terapia ottimale

Milano, 1 aprile - Mal di schiena, un tormento che anno dopo anno si ripresenta con maggiore insistenza, non passa nemmeno con la ginnastica posturale o con le compresse di antidolorifico. Ora c'è un programma computerizzato che consente al medico di famiglia di valutare il grado di disabilità, a maggior ragione se il blocco va avanti da più di quindici giorni e non accenna a passare.

Si chiama Minosse il software messo a punto da specialisti dell'Associazione Italiana per lo Studio del Dolore (Aisd), Luca Miceli e Rym Bednarova. In Italia soffrono di lombosciatalgia circa sei milioni di persone. In assoluto la patologia dolorosa più comune: fondamentale centrare la soluzione del problema, evitare di prendere gli antinfiammatori se non sono necessari, o sottoporsi a indagini costose quanto a volte inutili. Ma come funziona il meccanismo? Occorre l'interessamento del proprio medico di famiglia, che sarà invitato a registrarsi sul sito dell'applicazione (www.minosse.biz) o scaricare la app su smartphone e tablet.

Tramite algoritmo il sistema invita a rispondere ad alcune domande, si informa sull'intensità dei sintomi, l'eventuale presenza di neuropatia o frattura. Una volta elaborati i dati sarà indicato il tipo di reparto da consultare (ortopedia, neurologia, medicina d'urgenza e pronto soccorso, terapia del dolore) e con quale grado di urgenza. In alternativa scaturirà il suggerimento di modificare la terapia in atto, prescrivendo per almeno 15 giorni un analgesico oppioide, se non si è mai provato prima. Gli oppiacei sono considerati farmaci di riferimento per la cura del dolore cronico moderato-severo, più efficaci dei FANS e con minori effetti collaterali.

«Siamo partiti dall'idea - spiegano Luca Miceli e Rym Bednarova - di portare nel territorio friulano e piemontese una medicina basata sull'evidenza, sulla riproducibilità e confrontabilità dei dati. La fase pilota coinvolgerà i medici di famiglia di Latisana (Udine) e Novara; l'auspicio è che, in futuro, il progetto possa estendersi al resto d'Italia. Fin da ora, comunque, tutti i medici di medicina generale interessati possono accedere al portale www.minosse.biz per ricevere indicazioni utili sulla gestione dei loro pazienti con lombosciatalgia.

Fonte: qn.quotidiano.net 02/04/14

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Ippoterapia: anche la Polizia con i disabili

Il Reparto a cavallo della Polizia di Stato, questa mattina, ha partecipato alla manifestazione “Cavalcando il blu”. L’iniziativa, organizzata dall’associazione “L’emozione non ha voce onlus”, s’inserisce nell’ambito degli eventi previsti durante la Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo. Protagonisti dell’evento cavalieri autistici, che si sono dati appuntamento in piazza di Siena, all’interno del parco di Villa Borghese, a Roma per partecipare insieme al trekking a cavallo. Il Reparto a cavallo di Roma sensibile, già da tempo, ad attività del genere, ha messo a disposizione, anche in questa occasione, la selleria e la scuderia. L’associazione si è avvalsa, anche, dell’attiva partecipazione degli agenti che insieme agli operatori, specialisti dei centri di ippoterapia, hanno permesso lo svolgimento della manifestazione dedicata a adolescenti e adulti affetti da autismo. Fonte: lavalledeitempli.net 3 Aprile 2014

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Scoperta una nuova sindrome che causa disabilità Un gruppo internazionale di ricercatori coordinato dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) ha identificato le cause genetiche di alcuni specifici disturbi cognitivi e fisici nell’uomo, i quali sono stati correlati a una nuova sindrome. La scoperta permetterà di approfondire la diffusione della patologia nella popolazione e di investigarla ulteriormente, con lo scopo di dare supporto ai pazienti. La cura delle disabilità cognitive, pur a fronte degli innumerevoli successi della medicina e della ricerca scientifica moderna, rimane un campo ancora molto complesso e con molte richieste insoddisfatte da parte dei pazienti. Lo studio delle basi genetiche delle patologie è, infatti, un campo di ricerca relativamente recente, legato strettamente agli avanzamenti delle soluzioni tecnologiche a disposizione dei ricercatori, necessarie per potere analizzare le mutazioni che avvengono nel nostro DNA. Pubblicato sulla rivista internazionale The Journal of Clinical Investigation, questo importante lavoro descrive l’individuazione di una mutazione specifica della beta-catenina che, nella sua forma dominante, è causa di diversi deficit cognitivi e fisici. Questa proteina è alla base di molte funzioni e, in particolare, in associazione con la caderina, nella creazione delle giunzioni tra cellule. Queste ultime, infatti, sono molto importanti per garantire sia la trasmissione dei segnali nel cervello, sia la crescita dei dendriti, strutture che trasportano verso il corpo del neurone i segnali provenienti da altri neuroni e, quindi, garantiscono la corretta comunicazione delle informazioni. I ricercatori hanno effettuato due studi paralleli. Da una parte, è stato studiato un gruppo di pazienti affetti dalla mutazione dominante della beta-catenina, che ha portato all’individuazione di deficit cognitivi e fisici comuni e, quindi, alla definizione di una sindrome specifica, con ritardo mentale, difficoltà nel linguaggio, spasticità progressiva degli arti inferiori e deformazioni cranio-facciali, causati dalla mancanza, durante la crescita, dello stabilirsi delle corrette connessioni tra cellule cerebrali. Dall’altra, ha analizzato dei topi geneticamente mutati, per replicare una minore affinità per le caderine associate alla membrana risultante nello stesso deficit delle giunzioni tra cellule. Questo ha permesso di studiare tutti i meccanismi a livello delle strutture cerebrali, impossibile nell’uomo, in relazione alla loro espressione a livello cognitivo e fisico, uguale a quella osservati nei pazienti. «La descrizione di questa sindrome – dichiara il dott. Valter Tucci, ricercatore nel Dipartimento Neuroscience and Brain Technologies (NBT) dell’Istituto Italiano di Tecnologia e coordinatore dello studio – ha permesso di mettere in relazione l’osservazione degli stessi deficit cognitivi e alterazioni facciali nei topi e nell’uomo, associandoli a una specifica mutazione genica. Questo risultato è molto importante perché permetterà di identificare altri pazienti con la stessa sindrome, cosa impossibile fino ad oggi in quanto, sebbene si conoscessero gli effetti di questa sindrome, non se ne conoscevano le esatte cause genetiche, non potendo stabilire una la correlazione mutazione-disturbi. Non sappiamo se e quanto questa sindrome sia classificabile come rara, né se è possibile intervenire durante lo sviluppo per limitarne gli effetti, ma da oggi si potrà procedere su una strada con solide basi scientifiche per un avanzamento nella ricerca tesa a dare supporto a questi pazienti». Lo studio è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra l’Istituto Italiano di Tecnologia – in particolare, il dipartimento Neuroscience and Brain Technologies (NBT) a Genova e il Center for Nanotechnology Innovation (@NEST) a Pisa – e il MRC Harwell di Oxford, la School of Biological Sciences dell’Università di Reading (Inghilterra) e la Radboud University Medical Center di Nijmegen (Olanda), è stato realizzato lo studio “Dominant β-catenin mutations cause intellectual disability with recognizable syndromic features”. Fonte. .italiasalute.it

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Inail, nuovo accordo per lo sviluppo delle protesi dell'arto superiore

Convenzione con Università Campus Bio-Medico per un progetto di ricerca sull'utilizzo di interfacce neurali per il controllo di una protesi di mano che sappia restituire anche la sensibilità al tatto ormai perduta. Durata triennale, ci si lavorerà a Roma e a Budrio. Ogni anno 3.600 amputazioni o malformazioni riguardano l'arto superiore. De Felice: "Rafforziamo il nostro impegno"

ROMA - E' un nuovo tassello, il terzo, nell'attività attuata dall'Inail per lo sviluppo delle protesi dell'arto superiore: è partita ufficialmente oggi la sfida per migliorare le attuali modalità di controllo di una protesi sviluppando - e poi rendendo fruibile - un sistema ad alta tecnologia, basato sull'uso di interfacce neurali, per il controllo di una protesi funzionale che abbia anche capacità di feedback sensoriale. Il progetto vede una partnership fra l'Università Campus Bio-Medico di Roma e il Centro Protesi Inail di Budrio: di durata triennale e finanziato dall'Inail, il progetto intende dare nuove risposte alle tante persone che hanno subito amputazioni o malformazioni all'arto superiore (ogni anno se ne contano nel nostro paese circa 3.600).

Dopo le collaborazioni avviate negli ultimi mesi con l'Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Genova, per mettere a punto una mano robotica, e con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, per realizzare un prototipo di falange di un dito in grado di restituire la sensibilità alla persona che la indosserà, l'Inail è al suo terzo progetto in corso: un vero e proprio piano di sviluppo della protesica di arto superiore.

La convenzione è stata sottoscritta da Paolo Sormani e Andrea Onetti Muda, rispettivamente Direttore Generale e Rettore dell'Università Campus Bio-Medico di Roma, e da Enrico Lanzone, Direttore del Centro Protesi Inail di Vigorso di Budrio (Bologna). Nel progetto il Campus Bio-Medico metterà a disposizione la propria esperienza nell'attività di ricerca sulle "interfacce invasive" per protesi di mano, in grado di migliorare le attuali modalità di controllo di una protesi di arto superiore, sfruttando anche la sua rete consolidata di partner internazionali nell'ambito della biorobotica.

"Grazie a questa nuova collaborazione - sottolinea il presidente dell'Inail, Massimo De Felice - l'Istituto rafforza ulteriormente il suo impegno sul fronte della ricerca di soluzioni tecnologicamente avanzate di cui possano beneficiare i suoi assistiti. Anche in questo caso, infatti, l'eccellenza del Campus Bio-Medico nell'ambito dell'innovazione scientifica è destinata a integrarsi efficacemente con l'esperienza applicativa maturata dal nostro Centro protesi sul fronte della protesica e della riabilitazione".

Il progetto, la cui denominazione scientifica è "PPR2 - Controllo della protesi di arto superiore con interfacce neurali invasive", sarà svolto sotto la responsabilità scientifica del Prof. Eugenio Guglielmelli, della Prof.ssa Silvia Sterzi e dell'Ing. Loredana Zollo, rispettivamente Pro-Rettore alla Ricerca, responsabile dell'Area di Fisiatria e docente di Robotica Biomedica presso l'Università Campus Bio-Medico di Roma, in collaborazione con l'Ing.Rinaldo Sacchetti, il Dr. Paolo Catitti el'Ing. Angelo Davalli, responsabili per il Centro Protesi Inail di Vigorso di Budrio (BO), struttura di eccellenza nel campo della protesica e della riabilitazione (11.000 assistiti all'anno).

In questo nuovo progetto, il Campus Bio-Medico metterà a disposizione la propria esperienza nell'attività di ricerca sulle "interfacce invasive" per protesi di mano, in grado di

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migliorare le attuali modalità di controllo di una protesi di arto superiore, sfruttando anche la sua rete consolidata di partner internazionali nell'ambito della biorobotica.

L'obiettivo del progetto, che sarà cofinanziato dall'Inail e coinvolgerà giovani ricercatori del Campus Bio-Medico, che svolgeranno la loro attività a Roma e a Vigorso di Budrio, è lo studio di connettori neurali in grado di rilevare il segnale neuro-elettrico per il controllo di protesi tecnologicamente evolute, restituendo alla persona amputata alcune forme di percezione "propriocettiva" - in questo caso la possibilità di riconoscere la posizione della propria mano e del proprio braccio nello spazio - e di feedback sensoriale, utili per il controllo della protesi nella manipolazione degli oggetti. Inoltre, ci si aspetta di influire positivamente sul dolore da arto fantasma , la sindrome neurologica che fa percepire dolore nella parte mancante dell'arto amputato.

Tale ultimo aspetto, che costituisce la principale sfida del progetto e riguarderà lo studio di connettori neurali in grado di rilevare il segnale neuro-elettrico, comporterà anche prove sperimentali specifiche in ambito clinico, come sottolineano i coordinatori scientifici Sacchetti, Catitti, Davalli per il Centro Inail e Guglielmelli, Sterzi e Zollo per il Campus Bio-Medico.

"Diamo il via a un progetto che s'inserisce in un ampio piano di sviluppo della protesica di arto superiore riguardante dita, mano e braccio che l'Inail, attraverso il Centro protesi di Vigorso di Budrio, sta sviluppando con importantissimi istituti di ricerca. Ci proponiamo di sviluppare una serie di dispositivi innovativi e di soluzioni avanzate per migliorare e rendere più accessibili ai nostri assistiti i sistemi protesici per l'arto superiore" afferma Enrico Lanzone.

"Siamo molto contenti di questa partnership con l'Inail - spiega il rettore Andrea Onetti Muda - perché ci consentirà di rendere concretamente applicabili su ampia scala i risultati dei nostri studi sulle protesi di mano sensorizzate, collegate con interfacce neurali al sistema nervoso. Inoltre, potendo disporre di spazi dedicati per i nostri ricercatori all'interno del Centro di Vigorso di Budrio, sarà più facile e immediato ottenere un feedback sulle nostre ricerche e prendere spunto per eventuali nuove applicazioni".

A confermare l'importanza del progetto appena avviato sono anche i dati ufficiali forniti dal Ministero della Salute, secondo cui ogni anno in Italia sono oltre 3.600 i casi di malformazioni congenite degli arti superiori o amputazione che in massima parte avvengono in ambito lavorativo. La mano, in particolare, è sede della maggior parte delle capacità sensoriali dell'uomo, oltre a permettere la presa e la manipolazione degli oggetti.

Fonti: superabile.it 03 Aprile 2014

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La musica napoletana scatenava l'epilessia Il celebre neurologo Oliver Sacks racconta il caso di Silvia N.: le canzoni partenopee procuravano alla donna crisi epilettiche Oliver Sacks è l'autore di decine di libri celeberrimi in tutto il mondo, tra cui L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Un antropologo su Marte e Musicofilia (Adelphi) da cui è tratto il brano che pubblichiamo, dedicato a uno strano caso di epilessia musicogena. Nel Bronx ha avuto modo di sperimentare il farmaco L dopa su pazienti in stato quasi vegetativo, oggetto del suo Risvegli, da cui è stato tratto l'omonimo film con Robert De Niro. Nato a Londra nel 1933, da oltre 40 anni vive a New York, dove insegna neurologia clinica all'Albert Einstein College e alla Columbia University. Silvia N. venne da me per una visita verso la fine del 2005. La signora N. aveva sviluppato un disturbo epilettico subito dopo i trent'anni. Alcuni dei suoi attacchi erano crisi di grande male, con convulsioni e perdita totale di coscienza. Altri erano di tipo più complesso, con un certo sdoppiamento della coscienza. A volte le sue crisi sembravano essere spontanee, oppure una reazione allo stress, più spesso però erano indotte dalla musica. Un giorno la trovarono incosciente sul pavimento, dopo una crisi. Il suo ultimo ricordo prima dell'attacco era che stava ascoltando un cd con le sue canzoni napoletane preferite. All'inizio non si attribuì alcun significato alla cosa. Poco tempo dopo, però, la signora N. ebbe un'altra crisi simile, anche in quel caso mentre stava ascoltando canzoni napoletane, e cominciò a chiedersi se non ci fosse una connessione. Fece alcune prove da sé, con cautela, e scoprì che ascoltare quelle canzoni, dal vivo o registrate, suscitava infallibilmente una sensazione particolare, seguita in breve da una crisi. Nessun'altra musica produceva quello stesso effetto. Alle prime note di O' sole mio doveva fuggire La signora N. aveva sempre amato le canzoni napoletane, che le ricordavano la sua infanzia. «In casa», diceva, «si sentivano sempre quelle vecchie canzoni». Le trovava «molto romantiche, piene di emozione... significavano qualcosa». Ora che innescavano le sue crisi, tuttavia, cominciò a temerle. Appartenendo a una grande famiglia siciliana, sviluppò una particolare apprensione nei confronti dei matrimoni, poiché si cantavano sempre quelle canzoni. «Se l'orchestra cominciava a suonare», raccontava, «mi precipitavo fuori... Avevo mezzo minuto, anche meno, per tagliare la corda». Per quanto a volte la reazione a quelle canzoni fosse una crisi di grande male, più spesso la signora N. sperimentava solo una strana alterazione della percezione del tempo e della coscienza, alterazione nella quale provava una reminiscenza e, in modo più specifico, la sensazione di essere adolescente o di rivivere scene in cui era adolescente. La signora N. paragonava queste esperienze ai sogni: raccontava che si «svegliava» da esse come da un sogno nel corso del quale conservava sì una certa coscienza, ma poco controllo. Era in grado, per esempio, di sentire ciò che veniva detto intorno a lei, senza tuttavia poter rispondere. Anche se la maggior parte delle sue crisi complesse si riferiva al passato, mi raccontò: «In un'occasione quel che vidi era il futuro... Ero là, stavo andando in Paradiso... Mia nonna mi aprì i cancelli. 'Non è ancora il momento', mi disse, e a quel punto rinvenni». Sebbene nella maggior parte delle occasioni la signora N. riuscisse a evitare la musica napoletana, cominciò ad avere delle crisi anche senza musica, e questi attacchi si fecero sempre più gravi, fino a diventare intrattabili. I farmaci erano inutili e a volte la signora N. aveva più crisi in un solo giorno, così che la normale vita quotidiana divenne per lei quasi impossibile. La risonanza magnetica aveva evidenziato alcune anormalità anatomiche ed elettriche nel lobo temporale sinistro (probabilmente causate da un trauma cranico che aveva subito da

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ragazza) e, associato a queste, un focus epilettico pressoché continuamente attivo. Per curarsi, nel 2003 la signora N. si sottopose a un intervento di chirurgia cerebrale, una lobectomia temporale parziale. Dopo l'intervento, tornò a casa e alzò il volume L'intervento eliminò non solo la maggior parte delle sue crisi spontanee ma, come ebbe a scoprire quasi per caso, anche quella sua vulnerabilità alle canzoni napoletane. «Dopo l'operazione, avevo ancora paura di sentire il tipo di canzone con il quale mi venivano le crisi», mi raccontò. «Un giorno però ero a una festa e cominciarono a suonare. Io mi precipitai in un'altra stanza e chiusi la porta. Poi qualcuno aprì la porta, sentii la musica. Non mi diede un gran fastidio e provai ad ascoltarla». Poi la signora N. andò a casa («lì non sei di fronte a 500 persone») e mise sullo stereo delle canzoni napoletane. «Alzai il volume a poco a poco, e non mi fece alcun effetto». La signora N. si è dunque lasciata alle spalle la paura della musica e può ascoltare le sue canzoni napoletane preferite senza problemi. Ha anche smesso di avere le sue strane crisi complesse con le reminiscenze. Pare che l'intervento chirurgico abbia messo fine a entrambi i tipi di attacco. Ovviamente la signora N. è entusiasta della guarigione. A volte però ha anche nostalgia di alcune delle sue esperienze epilettiche - per esempio dei «cancelli del paradiso» - che sembravano portarla in luoghi diversi da qualsiasi altro avesse mai visitato prima. Oliver Sacks Fonte: ok-salute.it 4 Aprile 2014

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"La plastica è per tutti": nasce il l'ambulatorio g ratuito di chiururgia estetica

Chi l'ha detto che per alcuni ritocchi estetici si deve pagare? A Torino nasce il primo ambulatorio gratuito di chiururgia plastica anti-crisi

E chi l'ha detto che per farsi ritoccare labbra, nasi o seni si debba per forza pagare fior fior di quattrini, sperperando tutto il proprio stipendio? In tempo di crisi, anche la chirurgia plastica ci da una mano e lo fa con un progetto dal nome "La plastica è per tutti", che prenderà ufficialmente il via l'8 maggio presso il Poliambulatorio "Paolo Giovanni II" in piazza Borgo Dora, 61.

E' il primo ambulatorio gratuito di questo genere ed i medici di Cute project ne vanno fieri. Loro sono un'equipe di volontariato specializzata in Chirurgia plastica ricostruttiva e nell'abito del progetto "La plastica è per tutti" opereranno anche grazie alla collaborazione di Sermig e AICPE Onlus.

L'obiettivo del progetto è quello di mettere a disposizione dei cittadini la competenza di chirurghi plastici, anestesisti e personale non sanitario in tutte quelle situazioni che, per cause naturali o accidentali come incidenti o ustioni, si debba ricorrere ad interventi di plastica ricostruttiva e non si abbiano le risorse per pagarli.

Come afferma il responsabile Baldelli l'attività nasce da alcune missioni mediche che la stessa equipe ha svolto negli anni in paesi in via di sviluppo come il Congo. A un certo punto, i medici si sono semplicemente chiesti cosa ne sarebbe stato di uno di quei pazienti se avesse dovuto arrivare in Italia e avere ancora bisogno di concludere gli interventi iniziati. Per questo motivo all'ambulatorio potranno, inoltre, rivolgersi anche i cittadini migranti appena arrivati in Italia e senza una solida rete di riferimento.

Fonte: torinotoday.it 4 Aprile 2014

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POLITICA SANITARIA: UN CAUTO OTTIMISMO PER IL SETTO RE ORTOPEDIA, AUSILI, ASSISTENZA

abbiamo intervistato Marilena Pavarelli, project manager di Exposanità, la maggiore manifestazione fieristica italiana dedicata ai temi della sanità e dell’assistenza Dal 21 al 24 maggio presso il Quartiere Fieristico di Bologna si terrà Exposanità 2014, l’unica manifestazione fieristica italiana dedicata ai temi della sanità e dell’assistenza. Ad accompagnare la parte espositiva con oltre 2.000 prodotti in esposizione, 213 tra convegni, corsi e workshop, 600 ore di formazione professionale e 14 iniziative speciali. Saranno 4 i focus tematici: la gestione delle strutture ospedaliere in relazione al territorio vista drastica razionalizzazione dei costi; la disabilità, declinata nei vari contesti, dal lavoro alla pratica sportiva, dal tempo libero all’integrazione scolastica ed infine la Terza età che rappresenta un’importante sfida per il nostro sistema sanitario; l’internazionalizzazione per favorire lo scambio di prodotti, servizi ed esperienze, Exposanità ospiterà delegazioni di buyer provenienti dai mercati esteri più interessanti: Brasile, Russia, India, Turchia, Sud Africa. Ma per capire meglio cosa attenderci da questa nuova edizione di Exposanità, a un paio di mesi dal suo inizio, abbiamo fatto qualche domanda alla dottoressa Marilena Pavarelli, project manager dell’organizzazione della Fiera. Exposanità è una straordinaria vetrina per aziende internazionali che operano sul piano della sanità, e voi avete più di altri il polso della situazione. In questo frangente di crisi economica, come registrate l’andamento del mercato del settore ortopedia, ausili ed assistenza? Su un piano di prospettive di mercato per il futuro, il 2014, secondo il suo punto di vista, segnerà finalmente una ripresa? Il comparto produttivo direttamente legato alla sanità e all’assistenza non può non subire il frangente economico che il Paese attraversa da alcuni anni. Vogliamo leggere con ottimismo alcuni segnali che vengono dal mondo della politica sanitaria e che fanno ben sperare per il futuro prossimo. La volontà di mantenere i fondi derivanti dalla spending review all’interno del sistema sanitario perché lì possano essere reinvestiti, punto sul quale il Ministro Lorenzin si è finora attestata. Lo sblocco dei pagamenti da parte di alcune regioni, che non può che fornire una boccata d’ossigeno al mondo delle imprese. Timidi segnali forse, ma che auspichiamo possano essere la premessa di un nuovo corso, di cui beneficerebbe in primis anche il settore ortopedia, ausili, assistenza. Da 32 anni la vostra manifestazione è punto di riferimento per il settore. La rilevanza di Exposanità rispetto a questa tipologia di mercato è quindi indubbia. Quali sono le ragioni di questo successo che si conferma edizione dopo edizione? Se Exposanità è stata ed è tuttora un momento di riferimento per il settore della sanità e dell’assistenza, lo deve a tutti i soggetti che a vari livelli hanno contribuito a darle vita e a farne un’occasione commerciale ma anche un momento di confronto per coloro che si occupano del grande tema della salute. E’ lo scambio di idee oltre che quello di prodotti e servizi, che hanno reso Exposanità quello che è attualmente. Uno scambio di idee che non avrebbe mai potuto avere luogo senza l’appoggio e la partecipazione delle professioni mediche e non, di tutti coloro che si occupano di gestione della sanità, del mondo delle associazioni e delle imprese. Arrivando all’appuntamento del maggio prossimo, sappiamo che questa edizione sarà particolarmente social, immaginiamo nell’ottica di essere sempre più vicini e in contatto con i visitatori ma anche con quanti non potranno essere a Bologna dal 21 al 24 maggio. Tante anche le novità rispetto alle varie declinazione della disabilità, come iniziative sui vari settori, sport, turismo e ausili. Può darci qualche anticipazione? A partire da quest’anno Exposanità è presente anche su Facebook e Twitter, una scelta obbligata perché riteniamo importante confrontarci e interagire con il pubblico della rete

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che sempre più usa il web per condividere opinioni, un’importante voce dal basso che non possiamo non ascoltare. Per quanto riguarda le iniziative speciali, ne sono previste ben 14. Prima tra tutte Horus Sport, realizzata in collaborazione con il Comitato Italiano Paralimpico che vedrà l’allestimento di un’area dotata di tutte le attrezzature necessarie per praticare dal vivo le discipline paralimpiche più diffuse. Ad animare le 4 giornate di manifestazione anche la partecipazione di squadre internazionali di sitting volley e basket in carrozzina. L’elenco completo degli eventi si trova nel nostro sito www.exposanita.it Quest’anno sappiamo che sono diversi gli sforzi per favorire una maggiore partecipazione di utenti. Mi riferisco ad alcuni aspetti logistici per facilitare ad esempio l’ingresso dei visitatori portatori di handicap. Può accennarci a qualcuno di questi? Per il visitatore disabile sarà più facile raggiungere la fiera. Abbiamo attivato una serie di servizi gratuiti, su prenotazione, come la navetta che collega l’aeroporto G. Marconi di Bologna e la Stazione Ferroviaria al quartiere fieristico. In fiera saranno predisposte delle biglietterie dedicate, il parcheggio auto interno e un punto ritiro mezzi (carrozzine a spinta, elettriche o ruotino) . A tutti i visitatori diamo invece la possibilità di viaggiare con Trenitalia con uno sconto del 40% e per chi desidera acquistare il biglietto ingresso online a Exposanità, potrà riceverlo direttamente nella propria casella di posta al costo ridotto di 10,00 euro anziché 20,00 euro. Anche per l’edizione 2014 si conferma la collaborazione di Exposanità con la nostra testata. Quest’anno in particolare lo stand di Disabili.com fungerà da spazio-salotto nel quale i visitatori troveranno un luogo nel quale rilassarsi e comunicare la loro esperienza in fiera ai loro amici, tramite i social network. Sarà inoltre occasione per noi di incontrare di persona i nostri lettori, in particolare condividendo due momenti di convivialità nel corso dei due “spritz con Disabili.com”, pervisti per venerdì 23 e sabato 24 maggio alle ore 12.00 al nostro stand. Per tutti i dettagli dell’appuntamento…stay tuned!

Fonte: disabili.com 4 Aprile 2014

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Disabili dal dentista: la “sedazione” funziona, ma. .. costa troppo poco

Il metodo evita di addormentare il paziente con anestesia totale, risparmiando in soldi e salute. Collaudato da tempo all’estero, in Italia fatica a prendere piede, anche per colpa della degli scarsi rimborsi ottenuti dagli ospedali. E a Milano la lista d'attesa arriva a luglio 2014

In 30 anni, 70 mila visite e zero problemi. Anzi: riesce a rendere facile una visita da un odontoiatra o da un dentista anche ai ragazzi con disabilità di qualunque genere. Il protocollo di sedazione cosciente, una tecnica che permette di controllare il dolore e creare una sensazione di rilassatezza dopo l'iniezione del protossido di azoto, è molto efficace. Lo scrive in una lettera a Redattore sociale Maria Spallino, mamma di un ragazzo con disabilità e volontaria della Ledha. Eppure in Lombardia è una rarità. In un ospedale pubblico l'ha sempre praticata solo dall'odontoiatra Luigi Menozzi, prima all'Ospedale Corbieri di Limbiate poi, da luglio, all'Ospedale San Paolo di Milano.

"Dopo diversi tentativi con un discreto numero di odontoiatri privati – scrive Maria Spallino a Redattore sociale -, ho avuto la fortuna di conoscere Luigi Menozzi che, con la sua équipe, ha condotto per anni l'ambulatorio di odontoiatria speciale presso l'ospedale Corberi di Limbiate, in provincia di Monza, in regime di convenzione con il SSN. Non è stato l'ambiente colorato e accogliente ad aver fatto la differenza, ma un medico in grado di entrare in empatia con i pazienti, coadiuvato da uno staff professionale, stabile e motivato, che adotta un approccio particolare detto soft-heart-care e applica il protocollo di sedazione cosciente con protossido d'azoto/ossigeno (comunemente diffuso all'estero e praticato presso alcuni studi privati in Italia). La persona riceve, attraverso una mascherina, soltanto la dose necessaria a rilassarsi o comunque a consentire l'intervento. E andare dal dentista non è più un dramma. Con il protocollo che il Dott. Menozzi applica caso per caso ai pazienti, diventa così possibile effettuare i trattamenti necessari, anche i più banali interventi conservativi, senza ricorrere all'unica pratica comunemente prospettata per le persone con disabilità non collaboranti: la narcosi".

La tecnica permette sia di essere meno invasiva nei confronti del paziente, evitando che l'anestesia sia generale, sia di risparmiare sui costi, comportando l'uso di molti meno farmaci. Da tempo è praticata in Canada, Australia e Stati Uniti. Ma allora perché Luigi Menozzi ha sempre avuto difficoltà, tanto da essere stato licenziato dall'ospedale Corberi? A giugno circa 40 associazioni di genitori hanno scritto alla Regione Lombardia per avere una risposta. Il mese seguente la professoressa Laura Strohmenger, responsabile del reparto di Odontoiatria, è riuscita a portarlo al San Paolo. L'ha voluto fortemente anche il direttore generale, Enzo Brusini. Il servizio funziona alla grande, peccato che abbiano i soldi necessari giusto per aprire il reparto ai pazienti disabili per due giorni alla settimana (grazie anche al volontariato di ex infermieri del dottor Menozzi). "Così se oggi una mamma mi chiama per fissare un appuntamento devo risponderle che non sono libera fino a luglio", spiega Strohmenger. "Siamo pochissimi odontoiatri a lavorare nel pubblico – prosegue – e c'è poca disponibilità verso questo protocollo per problemi organizzativi. L'azienda per la quale lavoro è particolarmente illuminata e disponibile ho trovato sostegno e aiuto, ma è molto raro".

Secondo Luigi Menozzi, oltre al problema organizzativo, ce ne sono altri due, altrettanto difficili da sormontare. Il primo "è di tipo culturale – afferma -: nelle nostre università c'è una formazione carente, gli anestesisti che fanno i corsi sono i più scarsi e non sono aperti". Il secondo di ordine economico: "La Regione Lombardia rifonda poco gli ospedali

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per questa pratica rispetto alla narcosi", continua Menozzi. Quindi il protocollo è sì economico, ma l'ospedale così ottiene pochi rimborsi dalla regione.

Il Rotary San Babila ha donato 10 mila euro al reparto per aiutarlo nel lavoro di tutti i giorni, soldi che permettono di restare aperti i due giorni a settimana. "Ora servirebbe qualcuno che ci sostenesse con associazioni, per trovare sponsor", continua Menozzi. "Per restare aperti di più e diffondere questo metodo ci servirebbe un interlocutore con Regione Lombardia", annota Strohmenger. Ecco che allora la palla passa alle associazioni che vogliono dedicare la giusta attenzione al tema dell'odontoiatria tra le persone con disabilità

Fonte: redattoresociale.it 8 Aprile 2014

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Giornata Internazionale dell’Omeopatia

Giovedì 10 aprile 2014 si celebra la Giornata Internazionale della Medicina Omeopatica. In Italia per l'occasione è stata organizzata la quinta edizione di “Stiamo bene… naturalmente” a cura dell’AIOT, Associazione Medica Italiana di Omotossicologia. Grazie a questa iniziativa è possibile prenotare un check-up gratuito presso uno dei numerosi studi medici convenzionati dislocati in tutta Italia. Lo scopo dell’iniziativa è quello di sensibilizzare i pazienti sull’importanza della prevenzione e sulla necessità di adottare stili di vita più salutari se si vuole conquistare un benessere che sia davvero a lungo termine. "Stiamo bene…naturalmente" vuole inoltre essere un’occasione per ricordare a tutti che, come sancito dalla Costituzione Italiana, ci deve essere assoluto rispetto per il principio di libertà di scelta terapeutica, non solo per i pazienti ma anche per i medici.

Fonte: provincia.mc.it 8 Aprile 2014

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Neuropsichiatria Infantile di Saluzzo: parte il pro getto Siblings Da tempo la Neuropsichiatria Infantile affronta quotidianamente le problematiche legate alla disabilità in età evolutiva, cercando di promuovere ed organizzare iniziative di supporto al territorio Presso la Neuropsichiatria Infantile di Saluzzo, in collaborazione con Andrea Dondi e con la Fondazione Paideia, che hanno sostenuto gli operatori nel percorso formativo, è in programma l’attivazione di gruppi di sostegno per fratelli di bambini disabili (Progetto Siblings). “Le finalità – spiega il direttore della Struttura Francesca Ragazzo - sono quelle di dare uno spazio di ascolto e di elaborazione delle esperienze connesse alla convivenza con fratelli disabili che, inevitabilmente, caratterizzano il contesto di vita familiare con elementi di stress. L’attività sarà rivolta, in una prima fase, a Siblings in fascia di età scuola elementare. Per informazioni ci si può rivolgere alla sede di Saluzzo, ma le famiglie saranno comunque contattate dagli operatori”. Il progetto Siblings si aggiunge a quanto già attuato o in corso di attuazione sul territorio del Saluzzese, in particolare in materia di Autismo, perché negli ultimi anni si è verificato nell’area un significativo aumento di bambini con questa diagnosi. In particolare, nell’autunno del 2013, in collaborazione con il centro “Federica Pellissero” di Manta e la Fondazione “Paideia” di Torino, si è svolto un ciclo di incontri (parent training) con genitori di bambini con diagnosi di “disturbo dello spettro autistico”. Il training ha previsto momenti di confronto tra le famiglie che condividono la medesima esperienza e approfondimenti con esperti del settore, anche in collaborazione con il Centro Autismo di Mondovì. Spiega la dottoressa Ragazzo: “Sono state coinvolte dodici famiglie del territorio, con bambini che frequentano la scuola materna o la prima elementare. La frequenza è stata assidua e partecipata grazie anche al servizio di baby parking offerto da educatrici specializzate nel settore e alla preparazione ad hoc che i bambini hanno ricevuto da parte degli operatori e dalle famiglie. Considerando il successo del progetto e su richiesta delle stesse famiglie, sono in calendario periodici incontri con le stesse per il 2014, per affrontare tematiche da loro rilevate”. Parallelamente a questa iniziativa si stanno svolgendo momenti di teachers training rivolti alle insegnanti di sostegno, di classe e alle assistenti alle autonomie di bambini con diagnosi di “disturbo pervasivo di sviluppo” per bambini della scuola materna e del primo anno della Primaria. Gli obiettivi formativi del corso sono focalizzati alla comprensione del funzionamento di questi bambini e alle strategie da adottare all’interno di un progetto educativo individualizzato. Il training è condotto dalle operatrici in un’ottica di arricchimento e collaborazione tra diverse professionalità. Gli operatori di riferimento per i progetti sono le educatrici Chiara Cavallero e Silvia Cigna, la logopedista Samanta Odino, le psicologhe Carla Martino ed Elena Donzino. Fonte: targatocn.it 10 Aprile 2014

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Bimbo operato al cuore senza trasfusione Al Regina Margherita di Torino. I genitori Testimoni di Geova (ANSA) - TORINO, 10 APR - E' stato operato al cuore, ad appena dieci giorni, senza ricorso a trasfusioni di sangue. Il neonato, figlio di Testimoni Geova, ora sta bene e la prossima settimana verrà dimesso. La storia a lieto fine al Regina Margherita di Torino. Il piccolo era affetto da un' atresia polmonare congenita con difetto interventricolare. L'operazione è stata eseguita da Carlo Pace Napoleone (primario della Cardiochirurgia del Regina) coadiuvato da Alberta Rizzo (responsabile Cardioanestesia pediatrica). Fonte: ansa.it 11 Aprile 2014

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DIGIUNO INTERMITTENTE: CHE COSA É E PERCHÉ FUNZIONA

Vi siete da sempre sentiti dire che per avere una corretta alimentazione sia necessario mangiare molte volte al giorno. Studi recenti, smentirebbero però questo mito dei tanti piccoli pasti, ed infatti stanno prendendo piede le diete a “Digiuno Intermittente” (dall’inglese Intermittent Fasting – IF). Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Se in passato si è sempre pensato fosse meglio mangiare più volte al giorno facendo molti piccoli pasti piuttosto che pochi pasti più consistenti, è probabile che un fondo di verità (più che altro empirica) ci fosse. Il vantaggio principale di fare più pasti distribuiti nell’arco della giornata a parer mio è questo: si riesce a controllare meglio l’appetito. Infatti mangiando più spesso difficilmente si avvertirà il senso di fame. L’altra faccia della medaglia è però che in questo modo al corpo verrà sempre fornito nutrimento dall’esterno e quindi “disimparerà” ad usare le proprie scorte energetiche. C’è poi l’argomentazione “se non mangio sto male, ho dei mancamenti”. In realtà l’omeostasi (situazione di equilibrio) del glucosio nel corpo umano è regolata in maniera molto precisa quindi non è possibile avere cali che portino a declini cognitivi. Quindi in realtà il senso di spossatezza che si può provare è solo dovuto al fatto che non si è abituati ai periodi di digiuno, e quindi la situazione migliorerà già dopo pochi giorni di IF. Un altro argomento interessante che viene portato dai sostenitori dei “tanti pasti” è che al mattino ci sia miglior sensibilità insulinica e che quindi questo sia il momento migliore per introdurre carboidrati attraverso un’abbondante colazione. Questo però non è corretto, anche perchè chi sostiene sia indispensabile fare colazione dice inoltre che questa sia utile per tenere a bada l’ormone cortisolo. Lo studio dei ritmi ormonali circadiani (l’andamento degli ormoni durante la giornata) ci dice però che il cortisolo è alto la mattina. Siccome uno degli effetti noti del cortisolo è quello ridurre la sensibilità all’insulina, appare ovvio come la sensibilità insulinica non possa essere maggiori la mattina. Sempre su questa linea sono le raccomandazioni del tipo: “mai i carboidrati la sera”. Anche in questo caso ci sono studi che dimostrano il contrario, sottolineando che concentrando i carboidrati la sera si ottenga un profilo ormonale migliore per tenere sotto controllo il senso di fame. Si ha infatti, mangiando carboidrati la sera, un miglior senso di sazietà dovuto all’aumentata produzione dell’ormone adiponectina durante tutto l’arco della giornata, che a sua volta attiva la proteina AMPK, che ha la funzione di aumentare il metabolismo degli acidi grassi, di ridurre la sintesi di colesterolo e di aumentare la captazione del glucosio. Un altro motivo per cui si è scettici sul digiuno è che molti, soprattutto i “bodybuilder” associano alla parola “digiuno” la parola “catabolismo” e nel loro cervello scatta un meccanismo di rifiuto, dimenticando il semplice fatto che ad una fase di maggior catabolismo corrisponderà una successiva fase di maggior anabolismo. Quindi, a questo punto: che cos’è il Digiuno Intermittente? Come dice il nome, le diete a “Intermittent Fasting” prevedono l’alternanza di periodi più o meno lunghi di digiuno ad altri di (iper)nutrizione. Ovviamente l’IF non si applica soltanto eliminando i pasti che in una dieta normale si sarebbero consumati nella fase in cui invece si va digiuno, ma nella fase di “feeding” si assumono i nutrienti tolti prima. In realtà non necessariamente la fase di digiuno prevede appunto un digiuno vero e proprio (in certi tipi di IF ci sono dei piccoli pasti in quella fase) quindi è più corretto dire che c’è alternanza tra fasi di sovralimentazione e fasi di restrizione calorica.

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Con l’IF si introducono i nutrienti in modo ciclico (con appunto le due fasi che si alternano) e questa può essere un’ottima cosa, perché rispetta la fisiologia del corpo umano. Perchè utilizzare il digiuno intermittente? Il primo motivo è molto pratico e concreto: perchè è versatile. Soprattutto la tipologia “Warrior” (che vedremo meglio in seguito) si adatta perfettamente ai ritmi di vita di chi ha un lavoro con orari “normali”: di giorno c’è restrizione calorica che permette, come vedremo tra poco, di tenere alta l’attenzione, mentre di sera, quando tipicamente si ha il tempo di mangiare con calma, è previsto il pasto principale. Gli altri motivi sono più profondi e importanti: ci sono numerosi effetti favorevoli sulla salute: uno è il miglior funzionamento dell’ormone adiponectina. (visto precedentemente). Inoltre l’IF favorisce miglioramenti della composizione corporea, con tutte le implicazioni che ne conseguono. Infatti una “cattiva” composizione corporea, cioè un livello di massa grassa troppo elevato, espone a rischi quali: ipercolesterolemia, insulino-resistenza, ipertensione. L’alternanza tra digiuno e nutrizione migliora inoltre la sensibilità insulinica perchè nella fase di digiuno si sviluppa resistenza temporanea all’insulina dovuta principalmente alla presenza in circolo di acidi grassi (resistenza che è positiva per il mantenimento della massa magra in quanto avendo più difficoltà ad utilizzare il glucosio, si sceglieranno gli acidi grassi come substrato energetico principale). Per contro, nella fase di refeeding, quando verranno reintrodotti i nutrienti, la sensibilità insulinica sarà invece aumentata. In regime di IF ci sono anche positivi effetti neuroendocrini, in particolare riguardanti il controllo alimentare: quando si segue un regime nel quale si fanno tanti pasti, e quindi ci si nutre a intervalli di pochissime ore, è ovvio che non si possano introdurre grosse quantità di cibo ad ogni pasto, altrimenti il bilancio calorico alla fine della giornata sarebbe molto alto. Ci si trova così ad usare alimenti a bassa densità calorica (i vari prodotti dietetici ad esempio). E’ però dimostrato che alla lunga il piacere verso gli alimenti poco densi di calorie tende a scendere, dunque non saremo più gratificati dai pasti. Considerata questa premessa, è più semplice capire i vantaggi in questo senso del digiuno intermittente: consumando meno pasti potremo permetterci di introdurre più calorie per ogni pasto, quindi non saremo obbligati ad usare alimenti dietetici. Inoltre dopo periodi di digiuno migliora il “gusto” verso i cibi, quindi potremo ottenere gratificazione anche da alimenti per così dire “puliti”. Senza andare troppo nel dettaglio, le principali forme di IF sono: 1) EAT-STOP-EAT: prevede semplicemente un digiuno di 24 ore una/due volte a settimana 2) LEANGAINS: probabilmente la più usata, prevede una fase di digiuno (vero digiuno, non semplice restrizione calorica) di 16 ore, seguita da una fase di “sovralimentazione” di 8 ore. Quando si usa questo modello di regime alimentare è buona norma “ciclizzare” i carboidrati mantenendoli più alti nei giorni in cui ci si allena. Spesso in questo modello l’inizio della fase di refeed coincide con il post-allenamento. Questa è a mio parere la tipologia di dieta più facilmente applicabile a chi non vuole cambiare di molto le sue abitudini di vita: le 16 ore di digiuno possono essere infatti facilmente fatte coincidere con il periodo che va dalla cena al pranzo del giorno successivo. Basta quindi eliminare la colazione per riuscire a rientrare nelle tempistiche. 3) WARRIOR DIET (WD): sicuramente la più curiosa ed interessante. Prevede una fase di sottoalimentazione che dura per tutta la giornata, seguita poi da un pasto principale la sera. Questo tipo di dieta rispetta i ritmi del sistema simpatico e parasimpatico, che si attivano rispettivamente nelle ore diurne e in quelle serali. Fare grossi pasti durante la giornata interferirebbe con il sistema simpatico, che ci permette di tenere alta l’attenzione

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e di avere buona efficienza lavorativa. La sera invece è maggiormente attivo il sistema parasimpatico, che si occupa peculiarmente dei processi digestivi: per questo le ore serali potrebbero essere il momento migliore per introdurre nutrienti. La fase di digiuno della WD è in realtà una fase di restrizione calorica, perchè sono concessi piccoli pasti a base di proteine o di lipidi. Anche dopo l’allenamento è importante prevedere un piccolo pasto che consenta di ripristinare in parte le riserve energetiche depauperate. Fonte: besport.org 17 Aprile 2014

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Fenilchetonuria, Sara racconta: “Ero spaventatissim a, ma grazie alla dieta mia figlia

oggi sta bene" La Fenilchetonuria è una malattia rara malattia genetica metabolica, che priva chi ne è affetto della capacità di metabolizzare l’aminoacido fenilalanina e, se non trattata, può comportare gravissimi danni. Per legge tutti i neonati italiani sono sottoposti al test di screening per questa malattia durante le prime ore di vita. Spesso però i genitori non sanno di che cosa si tratta e non conoscono certamente le reali conseguenze di questa patologia. E’ questo il caso di Sara, una giovane mamma che ha scoperto che sua figlia è affetta da questa grave patologia. “ Mi telefonarono dall’ospedale, dopo una settimana dal parto. Mi spaventai a morte, si parlava di ritardo mentale e altre conseguenze terribili.” Lei prese l’unica enciclopedia che aveva – dieci anni fa Internet non era ancora nelle case di tutti – e capì la gravità di questa malattia rara che impedisce all’organismo di assorbire la fenilalanina, un aminoacido. Solo con una dieta adeguata avrebbe potuto evitare gravi danni allo sviluppo psichico e neuromotorio. “Ero spaventatissima – racconta Sara al portale Romagna Mamma – e non sapevo bene a chi affidarmi. All’inizio eravamo io, la piccola e la bilancia. I medici mi sconsigliarono l’allattamento al seno, indicandomi invece di passare ad una miscela specifica che non contiene fenilalanina. Ma siccome tenevo molto all’allattamento naturale, cominciai con le doppie pesate: mettevo la bambina sulla bilancia prima e dopo la poppata, per controllare che avesse preso solo quel quantitativo di latte materno che le era concesso. Il resto, lo compensavo con la miscela. Fu incredibile: nel giro di poco sia io che mia figlia eravamo in grado di auto-regolarci, io sapevo bene quando era ora che si staccasse, e lei pure. Era come se avessimo fatto nostro un automatismo”. “Quando è iniziato lo svezzamento, a parte frutta e verdura che potevo darle solo in certe quantità, dovevo andare in farmacia a comprare tutti gli altri alimenti. Non potevo prenderle niente al supermercato, non potevo farle assaggiare nulla di quello che io e il papà mangiavamo. Con le altre mamme non c’era confronto. Ci vietarono del tutto la carne – prosegue Sara - ma io vedevo che mettendo qualche cubetto di prosciutto cotto nella pasta, lei era contenta. Un piccolo sgarro, niente di più: la cotoletta non gliela davo mai. Il problema è che è più facile vietare un sapore quando il bambino non lo conosce”. “Oggi assume ogni mattina sei pillole di un farmaco che la aiuta a tollerare la fenilalanina. Deve stare comunque regolata a mangiare, soprattutto nelle quantità. Se suo fratello mangia due cotolette, lei ne mangia una. Però le cose vanno decisamente meglio”. Ha dieci anni e come tutti i bimbi con malattie rare, si è sentita più volte diversa perché a scuola, alle feste, non puoi dire che sei celiaco o allergico. La fenilchetonuria è un’altra cosa. “Sono sempre stata terrorizzata dalla mancanza di autonomia. – conclude la mamma - Quando entri in farmacia e ti dicono che la miscela di latte non è arrivata, ti casca il mondo addosso. Quando ci fu il terremoto dell’Aquila, crollò lo stabilimento di un’azienda che produceva alimenti senza fenilalanina: prodotti che non sono più tornati sul mercato. Le alternative sono poche e vivi nella paura di non avere di che dare da mangiare ai tuoi figli”. Fonte: osservatoriomalattierare.it 17 Aprile 2014

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La sordità causata dal Citomegalovirus, un aiuto da lla risonanza magnetica L'infezione da citomegalovirus (CMV), contratta dalla donna in gravidanza e trasmessa al feto, rappresenta una delle cause più frequenti di sordità sensorineurale congenita nei bambini, spesso accompagnata da ritardi nello sviluppo cognitivo. �La perdita dell'udito causata dal virus varia nei diversi casi per quanto riguarda la gravità e l'insorgenza, si registrano infatti casi unilaterali o bilaterali, a insorgenza precoce o tardiva, stabili o progressivi e la scelta della cura, in particolare nei bambini con sordità bilaterale grave, ricade solitamente sull'impianto cocleare. In letteratura, tuttavia, sono presenti pochi dati di studi riguardanti gli effetti dell'impianto cocleare sulla percezione e la produzione verbale in bambini con sordità sensorineurale causata dal citomegalovirus. Allo scopo di colmare questa lacuna, i ricercatori della Facoltà di Medicina e Salute dell'Università belga di Gent, in un articolo pubblicato recentemente su International Journal of Pediatric Otorhinolaryngology, hanno confrontato gli esiti dell'operazione in 12 bambini CMV e 12 bambini, presi come gruppo controllo, in cui la perdita dell'udito era invece dovuta a mutazioni a carico del gene connessina 26. Questi bambini sono stati considerati come controllo poiché è stato dimostrato in diversi studi che l'impianto cocleare nei pazienti affetti da sordità dovuta a mutazioni nel gene connessina 26 ha esiti molto buoni per quanto riguarda la capacità di ascolto e di produzione verbale. Nonostante non sia stato possibile raggiungere il livello di significatività statistica, gli esperti hanno individuato nei risultati due trend, in primo luogo i bambini CMV sottoposti a impianto cocleare che non presentavano anomalie rilevabili attraverso risonanza magnetica (MRI) hanno raggiunto, durante i primi 3 anni dall'operazione, livelli di percezione del linguaggio paragonabili o addirittura migliori rispetto ai controlli. Va chiarito tuttavia che la maggior parte dei bambini CMV di questo gruppo aveva sviluppato sordità a insorgenza tardiva e, secondo gli autori, il fatto di aver avuto un periodo della propria vita con udito normale, può aver contribuito almeno in parte ai buoni risultati osservati. In secondo luogo, i bambini CMV sottoposti a impianto cocleare con anomalie registrate nei test di imaging a risonanza magnetica, in un periodo di follow up di 5 anni, raggiungevano i controlli e la categoria CMV senza anomalie per quanto riguarda la percezione del linguaggio, ma facevano meno progressi nell'ambito nella produzione verbale. "Nonostante ulteriori studi siano necessari – spiegano gli autori dello studio – l'analisi dei risultati della risonanza magnetica potrebbe contribuire al fine di fornire una migliore consulenza ai genitori di bambini con citomegalovirus congenito che presentano sordità per quanto riguarda la scelta dell'impianto cocleare”. Fonte: dazebaonews.it 17 aprile 2014

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Malattie rare: i due fratelli immuni ai virus

Essere completamente immuni ai virus a causa di una mutazione genetica. Il Santo Graal della ricerca sui vaccini del futuro potrebbe essere racchiuso nel corpo di due fratelli, di 11 e 6 anni, maschio il primo, femmina la seconda, entrambi affetti da una grave disabilità. Ma la stessa mutazione che ha causato loro problemi di salute riesce anche a paralizzare l'azione dei virus, impedendo loro di dar luogo alle infezioni.

Per questo, i bambini sono praticamente immuni a molte malattie virali. Ma non è una vita facile la loro. I due fratelli soffrono di crisi epilettiche, ritardo nello sviluppo, fragilità ossea e perdita dell'udito, ma il loro sistema immunitario è praticamente d'acciaio.

I bambini, che fanno parte di un programma di ricerca del National Institutes of Health sulle malattie rare, sono stati sottoposti ad una serie di test attraverso un loro campione di cellule. Queste ultime, nel loro caso, sono riuscite a resistere a herpes, dengue ed epatite C.

La loro rara mutazione genetica colpisce un processo biologico di base chiamato glicosilazione, che lega gli zuccheri alle proteine e che riguarda quasi ogni organo e ogni funzione del corpo. Il risultato di questo sistema zucchero-proteine viene “sfruttato” in tutto l'organismo ma anche da molti virus, che lo adoperano per creare una sorta di guscio protettivo attorno a loro. L'interruzione di tale processo blocca i virus, compresi quelli per l'influenza, herpes, febbre dengue, epatite C e HIV. Una notevole eccezione sarebbe l'adenovirus, che causa il comune raffreddore. La mutazione che ha colpito i bambini impedisce dunque che i loro corpi possano svolgere la glicosilazione.

I trattamenti antivirali potrebbero dunque bloccare temporaneamente la glicosilazione, per prevenire l'infezione virale senza effetti collaterali. Un farmaco in grado di operare sulla glicosilazione è attualmente in fase di sperimentazione nei pazienti affetti da HIV, e sembra promettere bene.

“Ci stanno insegnando che possiamo manipolare il sistema immunitario”, ha detto il Dott. Sergio Rosenzweig, esperto di immunodeficienza presso il National Institute of Allergy and Infectious Diseases.

Purtroppo però per i ragazzi non c'è molto da fare. La loro malattia genetica è così rara da non essere ancora ben compresa. Essa, tuttavia, fornisce una finestra unica nella comprensione di come il corpo umano e i virus interagiscono aprendo la strada a nuovi farmaci che potrebbero mirare le altre parti del processo di glicosilazione ed evitare le infezioni virali. Prospettiva questa ancora lontana.

Fonte: nextme.it 17 Aprile 2014

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Sclerosi multipla: Studio Aou Ferrara-Sda Bocconi p er rispondere a disabilità e fragilità socio-ambientale

Verificare i "modelli di consumo" dei pazienti affetti da Sclerosi multipla (Sm) in ragione dei bisogni socio-sanitari, integrando il grado di disabilità causato dalla malattia con la fragilità socio-ambientale, al fine di calibrare l'appropriatezza dell'assistenza. E' questo il principale obiettivo della ricerca condotta nel biennio 2012-2013 da Sda Bocconi in collaborazione con l'Aou di Ferrara, presentata al Centro Congressi del nuovo Ospedale di Cona. "Questo Convegno - afferma Gabriele Rinaldi, dg dell'Aou di Ferrara - analizza quanto la fragilità socio-ambientale dei malati affetti da Sm possa inferire sull'uso appropriato delle strutture sanitarie. Nel corso dell'incontro scientifico viene messo in evidenza come sia sempre più necessario definire le strategie per coniugare le cure in rapporto al ‘prendersi cura'. Creare un sistema strutturato e solido fra i sistemi sociali e sanitari diventerà un obiettivo necessario per rispondere adeguatamente ai bisogni di cura di questi pazienti, tenuto conto che questi possono essere ritenuti paradigmatici di molte patologie croniche". Il monitoraggio. La ricerca, realizzata grazie al contributo non condizionato di Biogen Idec, ha analizzato il Percorso diagnostico terapeutico e assistenziale (Pdta) per la Sm in una coorte di pazienti in carico dal Centro Sm dell'Uo di Neurologia dell'Aou di Ferrara. Rispetto a tale obiettivo, alcuni dati dei 439 pazienti seguiti nel 2010 sono stati analizzati per classificare il diverso mix di bisogni sanitari e socio-sanitari. La coorte di pazienti studiati è stata stratificata secondo una graduatoria costruita integrando la rilevazione dei bisogni sanitari indotti dalla disabilità con i bisogni non sanitari, rilevati attraverso l'identificazione di tre livelli di fragilità socio-ambientale: occupazione lavorativa, grado di inclusione familiare, presenza di disturbi della sfera cognitiva e psichiatrica. Tale classificazione è stata quindi adottata per analizzare i "modelli di consumo" dei pazienti e stabilire l'appropriatezza della presa in carico. Proprio la valutazione delle condizioni di presa in carico dei pazienti affetti da SM diviene così funzionale - secondo obiettivo della ricerca realizzata da SDA Bocconi - all'attivazione di nuove progettualità e strumenti volti a migliorare l'integrazione ospedale-territorio. I risultati. Quanto ai risultati, la ricerca mette in evidenza come la presa in carico dei pazienti con Sm necessiti di servizi di natura differente in ragione tanto del grado di disabilità quanto del livello personale di inclusione sociale o familiare e della presenza di forme di disturbo psichico o cognitivo, che impattano proporzionalmente con la stessa significatività anche nelle fasi iniziali di malattia, con bassa compromissione fisica. Nella coorte dei pazienti più fragili, sotto il profilo socio-ambientale, spesso il ricorso all'ospedale sembra supplire all'assenza o carenza di cure intermedie o domiciliari. Il ricorso all'assistenza domiciliare integrata (Adi), infatti, è residuale per i pazienti con Sm (5% nella coorte di 439 pazienti) mentre si registrano livelli più alti sempre nei pazienti con livelli di disabilità e fragilità elevata (39%). Il ricovero, soprattutto quello ordinario, è invece attivato per gestire le fasi acute all'esordio della patologia e le complicanze che insorgono con gli stadi di aggravamento della disabilità. La Neurologia rappresenta l'Uo che tradizionalmente è in grado di agire e gestire questi livelli di presa in carico, accogliendo ed esaurendo quasi interamente la rete di offerta che risponde a questi bisogni. All'evolvere della patologia e, soprattutto, nelle condizioni di fragilità socio-ambientale, si registra invece un bisogno che supera i confini della Uo e richiede una capacità di integrazione con la rete di servizi territoriali e con professionalità diverse dalla Neurologia, sia per coprire lo spettro di bisogni sanitari e assistenziali sia per garantire la continuità della presa in carico, a livello aziendale e inter-aziendale.

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"La consapevolezza che i bisogni espressi dai pazienti sono molteplici e non solo di tipo sanitario - spiega Maria Rosaria Tola, direttore dell'Uo di Neurologia dell'Aou di Ferrara - ha sempre stimolato i neurologi del Centro Sm ad adottare una modalità di presa in carico integrata e orientata alla persona. L'esperienza di anni accanto alle persone colpite da Sm ha insegnato a noi neurologi l'importanza di superare la visione di malattia calibrata solamente sulla disabilità e di valorizzare tutte le altre sfere della vita personale, sociale e lavorativa". Tre possibili percorsi. Lo studio condotto sulla coorte di pazienti del Centro Sm dell'Aou di Ferrara ha permesso di ipotizzare tre cluster di modelli di presa in carico in funzione dei profili di domanda espressa e prevedibile dei pazienti con Sclerosi multipla. Tali percorsi sono costituiti da: un profilo high impact consumer, relativo ai pazienti con livelli di disabilità bassa o molto grave che inducono una domanda elevata di prestazioni neurologiche nel primo caso e nel secondo caso anche non neurologiche; un profilo denominato come grey area, intermedio, che individua quei pazienti con livelli di disabilità media, in progressione, che richiede un monitoraggio costante attraverso il follow-up ambulatoriale e un investimento nell'appropriatezza assistenziale in funzione preventiva, rispetto al decorso cronico, per evitare complicanze; un profilo con bisogni sociali oltre che sanitari, che identifica un cluster trasversale di pazienti con livelli di fragilità socio-ambientale elevata e che esige una presa in carico comprensiva, in grado di garantire continuità e appropriatezza, sia preventiva che di sorveglianza sociale, coinvolgendo attivamente figure professionali quali l'assistente sociale, lo psicologo o psichiatra, oltre al medico di medicina generale e all'infermiere. La ricerca rappresenta un'esperienza innovativa in linea con gli orientamenti regionali. "Il rafforzamento dei percorsi di integrazione socio-sanitaria - dichiara Carlo Lusenti, Assessore alle Politiche per la Salute della Regione Emilia-Romagna - è tra le nostre priorità per una presa in carico dei malati di Sm sempre più appropriata, come ci indicano anche i risultati dello studio presentato. Per dare risposte socio-sanitarie ancor più efficaci e mirate, occorre attenzione ai contesti in cui vivono pazienti e caregiver famigliari. E proprio per sostenere chi si prende cura dei malati, riconoscendone il ruolo specifico, ricordo la recente approvazione di una legge dedicata, la prima in Italia, approvata recentemente dall'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna". La legge emiliano-romagnola riconosce la figura di caregiver familiare, ovvero di quei soggetti che si prendono cura dei pazienti aiutandoli nella quotidianità dell'esistenza. Fonte: sanita.ilsole24ore.com 17 Aprile 2014

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Cooperazione sanitaria in Kenya: gli specialisti de ll'AOU Siena eseguono il primo impianto cocleare su una bambina con gravissima sor dità profonda

Ritornare a sentire grazie a un intervento di impianto cocleare, il primo eseguito durante una missione di cooperazione sanitaria in Kenya. Questa è la storia a lieto fine resa possibile grazie alla professionalità dei medici dell'AOU Senese che, a marzo, durante la missione di cooperazione internazionale presso l'ospedale di North Kinangop in Kenya, hanno operato Rita, una bimba di due anni, affetta da una profonda sordità che l'aveva resa sorda e incapace di parlare, inserendole un impianto cocleare che le ha permesso di tornare a sentire e, di conseguenza, di riacquistare progressivamente l'uso della parola. L’intervento è stato eseguito dal dottor Marco Mandalà, dell'UOC Chirurgia Otologica e della Base Cranica, diretta dal dottor Franco Trabalzini, con la collaborazione della dottoressa Giulia Corallo, specializzanda dell'UOC Otorinolaringoiatria, diretta dal professor Walter Livi. “Si è trattato - afferma Mandalà – di un intervento chirurgicamente complesso, reso ancora più difficile dalle condizioni precarie dell'ospedale keniota, che ha portato alla completa guarigione della bambina, anche grazie alla collaborazione del personale medico e infermieristico locale che si continuerà ad occupare anche delle cure postoperatorie della piccola paziente”. L’ospedale di North Kinangop, con cui l'AOU Senese collabora da circa 10 anni in base a un progetto regionale, rappresenta una realtà sanitaria importante nel Kenya e, nel tempo, è riuscito a sviluppare discipline chirurgiche specialistiche, come l’otorinolaringoiatria, anche grazie al continuo sostegno dei medici toscani, sino a rendere possibile un intervento di notevole complessità, come l’impianto cocleare, effettuato in Italia solo nei centri specializzati. “Il sorriso di Rita e dei familiari, le sue prime parole, i tanti amici e collaboratori locali con cui condividere giornate di lavoro gratificante e sereno, le chiacchiere la sera con suor Noberta e Don Sandro che sono i referenti dell'ospedale keniota – conclude Mandalà - hanno riempito le nostre giornate e creato legami forti e duraturi sui quali creare una cooperazione sanitaria e umanitaria ancora più solida”. I medici senesi hanno inoltre effettuato numerose visite e consulenze e il dottor Mandalà ha avviato una proficua collaborazione con l'Università di Nairobi.

Fonte: sienafree.it 24 Aprile 2014

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Pubblicata una metanalisi sugli studi riguardanti l a CCSVI

Una metanalisi ha preso in considerazione tutti gli studi eseguiti sull’Insufficienza Venosa Cerebrospinale Cronica nella sclerosi multipla. I risultati hanno dimostrato che fattori “esterni” alle due condizioni sembrano influenzare i risultati degli studi eseguiti per verificare la relazione esistente fra le due condizioni.

L’Insufficienza Venosa Cerebrospinale Cronica (in inglese Chronic Cerebrospinal Venous Insufficiency: CCSVI): consiste in un’alterazione del flusso nelle vene che drenano il sangue dal cervello verso la colonna vertebrale. Tale alterazione corrisponde, a sua volta, a modificazioni della forma delle vene stesse. Alcuni autori hanno ipotizzato un ruolo della CCSVI nello sviluppo della sclerosi multipla. Le metanalisi sono elaborazioni statistiche eseguite combinando le casistiche di studi diversi, ma simili per metodo applicato nella ricerca. Il loro vantaggio dovrebbe essere quello di produrre risultati riferiti a popolazioni più ampie di quelle dei singoli studi e quindi potenzialmente più attendibili.

Un gruppo di esperti di sclerosi multipla ha identificato 19 studi clinici adatti ad essere inseriti nella metanalisi, nei quali, nel complesso, erano stati arruolati 1250 malati con sclerosi multipla e 899 persone sane prese come popolazione di confronto. Sia nei primi che nei secondi era stata valutata la presenza di CCSVI per definire una possibile relazione con la sclerosi multipla. I risultati hanno evidenziato aspetti interessanti.

Considerando tutti e 19 gli studi selezionati, si è rilevato che fra CCSVI e sclerosi multipla l’associazione era statisticamente significativa (p<0.001), quindi molto forte, ma con una variabilità molto ampia dei dati. Escludendo però dall’analisi le ricerche eseguite dai gruppi di studiosi che hanno descritto per primi e definito la CCSVI, la relazione è diventata meno evidente. Ancora meno forte è apparsa la relazione eliminando dall’analisi gli studi realizzati da gruppi di ricercatori che avevano pubblicato anche articoli sulla esecuzione di quegli interventi sulle vene che sono stati proposti come cura della CCSVI. Infine, la relazione fra CCSVI e sclerosi multipla è risultata ancora meno evidente se dall’analisi si eliminavano gli studi eseguiti in Italia. Gli autori hanno segnalato che eseguendo un’analisi che escludeva tutti i fattori appena elencati, non si trovava più alcuna relazione fra CCSVI e sclerosi multipla e anche l’eterogeneità non c’era più, vale a dire che i dati erano molto più omogenei.

Gli autori hanno concluso che, in generale, i risultati degli studi realizzati per valutare la relazione fra CCSVI e sclerosi multipla sono molto eterogenei e che, ad influenzare maggiormente l’eterogeneità, sia il fatto che siano stati pubblicati da parte gruppi che abbiano pubblicato anche articoli sul trattamento della CCSVI con procedure di liberazione dei vasi.

Fonte: fondazioneserono.org 24 Aprile 2014

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Fecondazione, da oggi c'è la diagnosi per riconoscere gli embrioni malati

di Antonio Caperna La diagnosi preimpianto è oggi disponibile tutte le coppie infertili portatrici di malattie genetiche, la cui origine, per mutazione, è conosciuta. Viene costruita una sonda ad hoc con cui testare successivamente gli embrioni. In questa maniera è possibile riconoscere quelli sani o portatori sani dai malati e quindi trasferire nell'utero solo gli embrioni clinicamente non affetti. Questa tecnica viene effettuata nei laboratori più avanzati a livello di poche cellule (blastocisti), in quanto l'analisi simultanea sia del numero dei cromosomi sia della malattia di base consente un raddoppiamento delle percentuale di successo rispetto all'analisi degli embrioni effettuata al terzo giorno di vita. Moltissimi pazienti portatori di malattie genetiche come l'anemia mediterranea, la fibrosi cistica, l'emofilia, la distrofia muscolare, l'X fragile hanno così potuto avere un figlio sano. Anche pazienti portatori di anomalie cromosomiche strutturali (inversioni, traslocazioni) possono accedere a questa speciale tecnica. La diagnosi può essere effettuata su embrioni freschi e su quelli congelati già prodotti in precedenti cicli di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). «I vantaggi della tecnica di diagnosi preimpianto sono numerosi. Possono esser di tipo preventivo per la riduzione del rischio riproduttivo. Terapeutico, per la diminuzione del rischio di abortività, oppure ancora di tipo migliorativo, perché si ha l'aumento delle percentuali di successo delle tecniche di PMA - elenca il professor Ermanno Greco, direttore del Centro di Medicina della Riproduzione dell'European Hospital di Roma -. Le percentuali di impianto embrionario risultano essere del 58% circa mentre quelle di gravidanza clinica del 69%». L'impianto degli embrioni nell'utero dipende dalla loro normalità genetica per il 70% dei casi e dalle caratteristiche molecolari del tessuto all'interno dell'utero (endometrio) per il 30%. Per avere le massime possibilità di successo con una tecnica di fecondazione in vitro i medici devono agire su entrambe queste componenti. Recenti studi scientifici evidenziano che anche nelle pazienti giovani con meno di 35 anni il 40-50% degli embrioni prodotti in un trattamento di fecondazione in vitro non è sano geneticamente. «Se un embrione malato viene trasferito all'interno dell'utero c'è un mancato impianto e conseguente insuccesso della fecondazione in vitro oppure un aborto o una gravidanza con feto malato - conclude l'esperto -. Le anormalità cromosomiche possono derivare sia dall'ovocita soprattutto se la donna è over 36 sia dall'embrione nelle prime 3 moltiplicazioni cellulari che esso compie». Fonte: leggo.it 24 Aprile 2014

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Vagina artificiale, il successo dell'impianto in Us a

A otto anni dal primo intervento nella storia della medicina rigenerativa, sono in perfetta salute le prime quattro ragazze sottoposte alla tecnica sperimentale. A otto anni dal primo intervento nella storia della medicina rigenerativa, sono in perfetta salute le prime quattro ragazze sottoposte alla tecnica sperimentale. Stanno bene, non hanno dolori quotidiani e possono avere un'attività sessuale. Una vita normale, oggi, quella delle quattro ragazze statunitensi che tra il 2005 e il 2008 si sono sottoposte al primo e pioneristico impianto di vagina artificiale. L'intervento è stato un successo, stando ai risultati raccolti in otto anni di controlli post-intervento: lo confermano chirughi e ricercatori dell'istituto di medicina rigenerativa del Wake Forest Baptist Medical Center in North Carolina (Usa) che lo hanno eseguito, sulle pagine della rivista The Lancet in questi giorni. Le protagoniste di questa tecnica sperimentale, di età compresa tra i 13 e i 18 anni al momento dell'impianto, sono nate con la sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser, una rara malattia genetica in cui vagina e utero sono poco sviluppati o del tutto assenti. I ricercatori hanno creato in laboratorio l'organo artificiale da cellule epiteliali e muscolari prelevate dai genitali esterni delle quattro adolescenti. In un laboratorio Gmp (Good Manufacturing Practices) le cellule sono state coltivate e fatte crescere su un supporto biodegradabile, a forma di vagina, di dimensioni adatte per ognuna delle pazienti. La vagina artificiale è stata, infine, impiantata e collegata alle altre strutture riproduttive con delle suture. Dopo già i primi mesi il polimero biodegradabile è stato assorbito dal corpo delle pzienti e la nuova vagina si è perfettamente integrata con gli altri tessuti circostanti, divenendo ora indistinguibile. «Questo studio pilota è il primo a dimostrare che gli organi vaginali possono essere costruiti in laboratorio e utilizzati con successo negli esseri umani – ha spiegato Anthony Atala, che dirige il centro specialistico – Può rappresentare una nuova opzione per le pazienti che devono sottoporsi a chirurgia ricostruttiva. Inoltre questo è un esempio di come le strategie di medicina rigenerativa possono essere applicate a una notevole varietà di organi». Seppur di fronte a questi successi, i ricercatori sono cauti: al momento l'impianto di vagina artificiale non può essere eseguito su vasta scala. In un futuro, però, il trattamento potrebbe essere utile anche alle donne colpite da tumori o vittime di traumi e lesioni. Fonte: ok-salute.it 28 Aprile 2014

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Attacchi di cuore e ictus si rilevano (in tempo) co n gli ultrasuoni Un nuovo dispositivo a ultrasuoni potrebbe agevolare l’identificazione del rischio di rottura della placca arteriosa che causa infarto o ictus. Una nuova possibilità di prevenire due degli eventi che sono la maggiore causa di morte prematura e disabilità Con un nuovo metodo a ultrasuoni è possibile predire il rischio che la placca arteriosa provochi un Avere un’idea del rischio di rottura della placca arteriosa non è cosa da poco. Sapendolo, infatti, si potrebbero adottare adeguate misure preventive, per due degli eventi cardiovascolari che sono la maggiore causa di morte precoce e disabilità. Il problema è che, allo stato attuale, le tecnologie sono in grado di determinare solo se la placca è presente nelle arterie. Ma non vi è alcuna possibilità di comprendere se questa è a rischio di rottura o meno. «Il nostro obiettivo era quello di sviluppare un qualcosa che potesse efficacemente identificare quali sono le placche vulnerabili», spiega il dottor Paul Dayton, coautore di un articolo sul nuovo dispositivo e professore nel dipartimento di ingegneria biomedica collettiva alla NC State (North Carolina State University) di Chapel Hill. «Ci sono due tecniche a ultrasuoni che possono aiutare a identificare le placche vulnerabili – aggiunge Dayton – ma entrambe dipendono dall’uso di agenti di contrasto chiamati “microbolle”». La prima tecnica consiste nell’identificare l’insieme dei piccoli vasi che decorrono nello spessore della parete delle arterie (in anatomia: Vasa Vasorum). Questi piccoli vasi sanguigni alcune volte si infiltrano nella placca arteriosa, e questo può essere un buon indice di rischio di attacco cardiaco. Se le microbolle vengono iniettate nell’arteria, sono costrette a seguire il flusso ematico. Se vi sono dei Vasa Vasorum, le microbolle scorrono anche attraverso tali vasi sanguigni. Tutto ciò si può identificare con facilità attraverso immagini ecografiche. Un’altra tecnica attualmente in uso è l’Imaging molecolare. Anche in questo caso ci si affida all’uso delle microbolle che dovrebbero, in questo caso, attaccarsi ad alcune molecole specifiche che si trovano solo nelle placche vulnerabili. Anche in questo caso, le immagini ecografiche sono in grado di leggere il risultato. «Il problema è che la tecnologia a ultrasuoni intravascolari esistente non fa un buon lavoro nel rilevare gli agenti di contrasto – dichiara il dottor Xiaoning Jiang, professore associato di ingegneria meccanica biomedica e aerospaziale alla NC State e coautore dello studio – Così abbiamo sviluppato una doppia frequenza intravascolare con trasduttore a ultrasuoni che trasmette e riceve segnali acustici». «Operare su due frequenze – continua Jiang – ci permette di fare tutto ciò che i dispositivi a ultrasuoni intravascolari esistenti possono fare, ma rende anche molto più facile per noi rilevare i mezzi di contrasto, o microbolle, usati per l’imaging molecolare e la rilevazione dei vasa vasorum». Nonostante il dispositivo abbia ottenuto eccellenti risultati durante le prove sperimentali, i ricercatori hanno detto che si prenderanno ancora del tempo per ottimizzarlo sempre più. La ricerca è stata sostenuta dal National Institutes of Health e pubblicata su IEEE Transactions on Ultrasonics, Ferroelectrics, and Frequency Control con il titolo “A preliminary engineering design of intravascular dual-frequency transducers for contrast enhanced acoustic angiography and molecular imaging”. L’autore principale dello studio è il dott. Jianguo Ma, dottorato di ricerca in ingegneria meccanica presso la NC State. Altro coautore è il dott. Heath Martin, dottorato di ricerca nel programma congiunto di ingegneria biomedica. Fonte: lastampa.it 29 Aprile 2014

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Tra autismo e deficit motori c’è un legame Per la prima volta è stata dimostrata l’esistenza di un rapporto diretto fra difficoltà motorie e autismo. Oltre ai già noti deficit sociali e di comunicazione, infatti, i bambini con questa sindrome sembrerebbero presentare ritardi di circa 6 mesi – rispetto ai loro coetanei – nello sviluppare abilità grosso-motorie come correre e saltare. E di quasi 1 anno nelle capacità fini-motorie come tenere in mano un cucchiaio o un piccolo giocattolo. Per giungere a questa conclusione la ricerca dell’Università dell’Oregon si è basata sull’analisi dei movimenti di 159 bimbi dai 12 ai 33 mesi di età, dei quali 110 diagnosticati con autismo. Trovando che le carenze fisiche dei piccoli con questa disabilità erano collegate alle loro difficoltà mentali. Una scoperta che, secondi gli autori, indica la necessità di inserire un focus particolare sullo sviluppo delle abilità motorie nei piani di trattamento per i bambini con questa sindrome. Riconoscere subito questi deficit – dicono – darebbe più probabilità di recuperare il gap con i loro coetanei a sviluppo tipico. Fonte: www.west-info.eu 29 Aprile 2014

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Bambino Gesù. Eseguita procedura robotica per corre ggere i disturbi del movimento. La prima volta in Europa

Minore durata dell’operazione, del tempo di sedazione e ridotta esposizione alle radiazioni ionizzanti comunemente utilizzate con le metodiche tradizionali. La nuova metodica è stata effettuata su un bimbo di 10 anni affetto da distonia, patologia rara che colpisce in Italia 20mila persone. È stata eseguita per la prima volta in Europa da un’équipe di neurochirurghi dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, una nuova procedura di stimolazione cerebrale profonda robot-assistita su un bambino di 10 anni affetto da una rara forma di distonia genetica resistente ai farmaci, che gli impediva di camminare e di svolgere le normali attività quotidiane come mangiare, scrivere e giocare. La distonia una patologia rara che interessa dalle 50 alle 1.000 persone per milione di abitanti In Italia sono circa 20.mila le persone colpite. È un disturbo motorio che si manifesta in età pediatrica caratterizzato dalla comparsa di movimenti involontari, ripetitivi e incontrollati dovuti alla cocontrazione dei muscoli antagonisti. Può colpire qualunque parte del corpo: braccia, gambe, tronco, collo, viso o corde vocali e determina posture anomale talvolta dolorose. Le difficoltà motorie dei bambini che ne sono affetti sono spesso causa di disabilità grave e possono influire sullo sviluppo cognitivo, comportamentale e sul loro adeguato inserimento sociale. La nuova metodica, grazie all’elaborazione dei dati di Tac e risonanza magnetica, consente di pianificare l’intervento con giorni di anticipo e offre numerosi vantaggi per il piccolo paziente: minore durata dell’operazione, minor tempo di sedazione, ridotta esposizione alle radiazioni ionizzanti comunemente utilizzate con le metodiche tradizionali. Il giorno dell’operazione - con l’ausilio di un sofisticato robot - una équipe di specialisti impianta nel cervello del paziente un microelettrodo che genera una "interferenza neuronale" per il controllo dei sintomi della malattia o della disfunzione del sistema. L’elettrodo è collegato ad un generatore di impulsi che può essere programmato e adeguato (per intensità e durata) alle esigenze cliniche del bambino. Fonte: quotidianosanita.it 30 Aprile 2014

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Up Coffee: l'app che controlla quanto caffè bevi

È gratis e ti aiuta a calcolare la quantità di caffeina in circolo nel tuo corpoMacchiato, ristretto, americano, lungo. Quanto ci piace il caffè. È una bevanda sociale e utile. Serve per fare quattro chiacchiere con un amico e per cominciare la gionata con la carica giusta. Insomma, un caffè di qua, un caffè di là, e poi arrivi alla sera che non riesci a chiudere occhio.Tra i vari benefici del bere caffè, però, assumere troppa caffeina potrebbe causare insonnia. Come fare per ricordarsi quante tazzine hai bevuto durante la giornata e che effetti potrebbero avere sul riposo notturno? Ci pensa «Up Coffee», una nuova applicazione gratuita disponibile per iOS e Android che aiuta a calcolare la quantità di caffeina (derivata dal caffè ma anche da altre bevande e alimenti) in circolo nel corpo e ti informa sugli effetti che questa avrà sul sonno.

Basta inserire i propri dati (peso, altezza, età) e selezionare le bevande o i cibi che si ingeriscono durante la giornata. La grafica è molto semplice: un’ampolla che si riempie mano a mano che vengono aggiunti elementi, con dei contatori che segnalano il tipo di sonno previsto: tranquillo, agitato, difficoltoso.

Fonte: ok-salute.it 30 Aprile 2014


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