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Stoichita

Date post: 03-Jun-2018
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    Capitolo primoCome inquadrare laldil:in cerca di una definizione

    1. La visione narrata

    Fino allultimo quarto del XVI secolo non sembra chele visioni e le esperienze estatiche abbiano costituitologgetto di una particolare attenzione da parte della pit-tura spagnola, sebbene questo specifico genere di rap-

    presentazione non fosse del tutto assente. Un esempiopreso a caso pu servire a illustrare il modo in cui i pit-tori di quel periodo lhanno affrontata.

    Il quadro di Juan de Juanes in cui raffigurato San-to Stefano mentre discute nel Tempio (1560-1565 ca.),che un tempo si trovava nella chiesa di San Esteban aValencia (fig. 1), illustra un brano conosciutissimo de-

    gli Atti degli Apostoli (7, 48, 54-57) in cui si raccontadi quando Stefano il primo martire cristiano espo-se alla presenza del Gran Sacerdote il proprio pensie-ro sulla dimora di Dio. Le sue opinioni (Ma lAltissi-mo non abita in costruzioni fatte da mano duomo)irritano gli astanti:

    Alludire queste cose, fremevano in cuor loro e digrignava-no i denti contro di lui. Ma Stefano, pieno di Spirito San-to, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesche stava alla sua destra e disse: Ecco, io contemplo i cieliaperti e il Figlio delluomo che sta alla destra di Dio. Pro-ruppero allora in grida altissime turandosi gli orecchi; poisi scagliarono tutti insieme contro di lui

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    Nel suo quadro Juan de Juanes ha dovuto risolveredue problemi figurativi piuttosto spinosi: quello del di-

    scorso riportato (fare comprendere allo spettatore ci cheStefano sta dicendo) e quello dellimmagine riportata (fa-re comprendere allo spettatore ci che Stefano sta veden-do; Ringbom 1989a, pp. 34-51). Lo fa ricorrendo a unprocedimento relativamente semplice: trascrivendo il di-scorso riportato sul libro aperto che Stefano tiene nellamano sinistra, mentre con la destra indica una finestra in

    cui il Cristo appare circondato da nuvole. La diagonaleformata dal braccio di Stefano attraversa lo spazio dellarappresentazione e, per cos dire, polarizza la parola elimmagine, rendendole accessibili allo spettatore.

    Tuttavia i presenti nella Sinagoga non vedono ci cheStefano vede e ci che anche lo spettatore ha il privile-gio di vedere. Essi sentono soltanto in bocca del disce-

    polo di Cristo ci che interpretano come bestemmie, eche respingono con veemenza. Nella messinscena delconflitto che contrappone Stefano agli ebrei presenteuna ricercatezza che necessario evidenziare. La manodestra del martire incrocia in un punto il braccio solle-vato col pugno chiuso di uno dei suoi oppositori. Que-sto gesto significativo che sembra riassumere il conflittoin atto si staglia sulla colonna dello sfondo, che rappre-senta simbolicamente lasse stesso del Tempio. Alla suaestremit superiore, esattamente sotto il capitello, si tro-va la figura grottesca di una divinit pagana. Altre figu-razioni idolatre popolano questo luogo: un nudo visto dispalle sulla destra, un altro che decora il trono del GranSacerdote, mentre una statua pi simile a una caricaturache a unimmagine di culto sistemata sul cornicione disinistra accanto alla finestra.

    tra questi simulacri che il cielo si apre lasciando in-travedere limmagine del vero Dio, di un Dio, tuttavia,che gli astanti non vogliono vedere n tanto meno cono-scere. Questa finestra-visione si contrappone alloculo che

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    si trova alle spalle di Stefano e che allude al cielo vuoto,contropartita allapparizione del vero Dio. La vera visione

    si contrappone pertanto al semplice buco come la fededi Stefano si contrappone alla miscredenza del sanredin.

    Tuttavia, il conflitto che contrappone Stefano e gliebrei non riguarda le immagini, giacch verte sulla no-

    COME INQUADRARE LALDIL: IN CERCA DI UNA DEFINIZIONE

    Fig. 1. Juan de Juanes, Santo Stefano mentre discute nel Tempio, 1565 ca., oliosu tavola, 160 x 125 cm, Madrid, Museo del Prado.

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    zione stessa di tempio. Juan de Juanes prova quiquanto sia stato ben consigliato, avendo rinchiuso allin-

    terno di questa immagine un intero ventaglio di colte al-lusioni concernenti questo concetto. Una delle accezionioriginarie della parola templum cielo. La parola de-sign in un secondo tempo un rettangolo disegnato nelcielo, uno spazio consacrato e fatto per essere contem-plato. Fu solo in unepoca ancora successiva che desi-gn il sito del culto (Forcellini 1835, p. 287).

    Alcuni importanti testi spagnoli risalenti a questostesso periodo dimostrano che laccezione originaria ditempio inteso come dimora celeste della divinit eraancora corrente (si veda, per esempio, Juan de los nge-les 1912, p. 263).

    Nel quadro di Juan de Juanes, Stefano invita a per-correre il cammino che dal falso tempio conduce al tem-

    pio vero. Invita anche, mediante il gesto e lo sguardo, acon-templare Dio nel suo vero Tempio. Tuttaviaconsiderazioni dordine dottrinale impediscono al pittoredi rappresentare, come il testo avrebbe richiesto, Dio Pa-dre1. Juan de Juanes si limita a inquadrare nel rettangolodi una (finta) finestra il Figlio delluomo, e lui soltanto,circondato dalla gloria di Dio. Tenta, inoltre, di rendereil meno scioccante possibile la censura cui ha sottopostoil testo (e limmagine). Il libro che Stefano esibisce allospettatore (evidente anacronismo trattandosi degli Attidegli Apostoli) solo in parte visibile e solo una partedella prima pagina decifrabile, mentre il resto occul-tato strategicamente dalla mano e dal braccio di Stefano.Il testo che vi si pu leggere (vedo i cieli aperti e il Fi-glio delluomo) coincide perfettamente con limmagineche si pu vedere allaltra estremit del quadro (Ges trale nuvole). Il seguito di questo testo (in piedi alla destradi Dio) e il resto dellimmagine (la figura dello stessoDio-Padre) non sono rappresentati. Lo spettatore pututtavia tentare unoperazione di ricostruzione restituen-

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    do mentalmente il proseguo del testo e completando ilframmento di cielo che si intravede dalla finestra.

    Possiamo considerare il procedimento adottato daJuan de Juanes come caratteristico della maniera con cuii problemi del racconto visionario venivano affrontatidalla pittura spagnola del Cinquecento prima dellav-vento del Greco: la rappresentazione della visione unodei punti culminanti del racconto, ne parte integrante,

    ma la forma in cui si presenta quella di unimmaginenellimmagine.

    2. La visione assemblata

    Le fonti pi antiche in cui si parla della Visione di SanBruno, un tempo presso la Certosa di Val de Cristo (fig.2, tav. 1), attribuiscono lopera al pittore Juan Ribalta, o-riginario di Valencia, e la fanno risalire agli anni 1621-1622 (Fitz Darby 1938, pp. 163-165). In tempi recenti siail nome dellautore che la datazione del dipinto sono statirimessi in discussione. Adducendo ragioni stilistichepiuttosto discutibili si fatto il nome del padre di JuanRibalta, Francisco, retrodatando approssimativamente ildipinto al 1609 (Kowal 1985b, pp. 64-65, 242-243). Or-bene, poco probabile che questo quadro sia cos antico,giacch Bruno vi presentato come un santo, con tantodi aureola. Dal momento che la canonizzazione di Bru-no, fondatore dellordine dei Certosini, ebbe luogo nel1623, pi probabile che la data antica (1621-1622) do-cumentata dalle fonti sia quella giusta e che questo dipin-to sia stato concepito nellambito della campagna cheprecede qualsivoglia processo di canonizzazione.

    Al pari di tanti altri dipinti della Controriforma, an-che questo ha valore di testimonianza (Mle, 1972, pp.1-17; Casale 1982, pp. 33-61): mette sotto gli occhi dello

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    Fig. 2. Juan Ribalta, La Visione di San Bruno, 1621-22 ca., olio su tela,183 x 116 cm, Castelln, Museo de Bellas Artes.

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    spettatore-fedele un episodio chiave della vita di Bruno,quello in cui i cieli si aprirono offrendogli una visione

    diretta della divinit nella forma trinitaria. Il soggettodellopera , quindi, latto visionario rappresentato co-me esperienza privilegiata di un santo, ed sotto que-sto aspetto che sar considerato qui, e non tanto per isuoi tratti specifici, in realt poco importanti, per il tipi-co carattere di immagine-testimonianza. La Visione diSan Bruno di Juan Ribalta sar perci il punto di parten-

    za di una serie di considerazioni aventi direttamente oindirettamente a che fare con tutta quella classe di im-magini di cui anche questo dipinto fa parte.

    Il committente (o i committenti) del 1621-1622 ser-vendosi di questo quadro voleva senza dubbiofare vede-re (e fare credere) ci che il processo di canonizzazioneproclam quando, nel 1623, si concluse. Una retorica

    piuttosto semplice governa limmagine. Lasse del quadro formato dalla figura di Bruno, il quale nella mano sini-stra regge la regola del suo ordine e nella destra un ramo-scello di olivo. Gli sono accanto alcuni personaggi, tracui quattro vescovi e due monaci. Tutti sono stati identi-ficati dagli storici dellarte (Fitz Darby 1938, p. 164) e so-no tutti collegati alla storia dei Certosini. Lunica figura aessersi sottratta a ogni tentativo di identificazione ilpersonaggio che si trova allestrema sinistra, parzialmen-te tagliato dalla cornice. La sua posizione marginale elatteggiamento orante suggeriscono che si tratta delcommittente dellopera, anchegli monaco certosino.

    Il santo sta in piedi al centro della tela. Ai suoi piedi,poggiati a terra, si trovano la mitra vescovile e il pastora-le che secondo la leggenda egli avrebbe rifiutato. Con gliocchi rivolti verso lalto contempla la Trinit.

    Si potr meglio comprendere il messaggio di questoquadro mettendolo a confronto con un altro che sicura-mente ne stato il modello. Si tratta della Santa Ceciliadi Raffaello (1513-1516, fig. 3), la prima pala in cui le-

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    Fig. 3. Raffaello, Santa Cecilia, 1514, olio su tela, 220 x 136 cm, Bologna, Pinaco-teca Nazionale.

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    stasi costituisce essa stessa il tema e il fulcro (Brizio1965, p. 103). Per di pi, sarebbe difficile capire la mes-

    sinscena dellesperienza visionaria organizzata da JuanRibalta senza fare riferimento al quadro di Raffaello, ilcui schema compositivo ha influenzato profondamentetutta la pittura occidentale. Ma tra le due opere esistonoun cambiamento daccento e una sfasatura del linguag-gio figurativo estremamente significativi.

    Raffaello pone laccento sullantitesi tra musica mun-dana e musica coelestis (Mossakowski 1968, pp. 1-26):mentre gli strumenti della musica mondana sono dispo-sti a terra, Cecilia dirige il proprio sguardo verso il cielo,dove ha luogo il concerto degli angeli. Il cielo si schiudeappena, la divinit non vi si vede. La figura di Cecilia sipresenta come collegamento tra la natura morta, ri-prodotta nellestremit inferiore della rappresentazione,

    e la breccia verso linfinito dellestremit superiore. Ma idue mondi non si compenetrano lun laltro ed , piutto-sto, il principio di contiguit a governare lintera com-posizione (Arasse 1972, p. 437).

    In Ribalta, invece, laccento posto non sulla con-tiguit ma sulla continuit. Lo statuto dellimmaginereligiosa sub profondi cambiamenti durante il perio-do pi di un secolo che separa le due opere, e que-sto si riscontra in tutti i dettagli della composizionedellartista spagnolo.

    In rapporto al quadro di Raffaello, che rappresentalo schema iniziale, quello di Ribalta concepito sulla ba-se di un punto di vista pi distante e tale da consentirela rappresentazione di un numero maggiore di figure.Mentre Raffaello prendeva ispirazione, apportandovicomunque dei cambiamenti importanti, dalliconografiadella Sacra Conversazione2, concependo la messinscenadella visione come unaggiunta personale a quella stessaiconografia, in Ribalta tutto organizzato attorno allavisione e allatto visionario, e il quadro nella sua totalit

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    funziona come un aggancio accuratamente calibrato. Ipersonaggi che circondano San Bruno e che formano u-

    na specie di Pantheon certosino sono altrettanti ele-menti di un dispositivo finalizzato a comunicare lespe-rienza visionaria allo spettatore.

    interessante notare, per esempio, come Ribalta ab-bia ripreso lidea di Raffaello, che al pastorale di SantA-gostino riconosceva un particolare statuto. Ma ci che inRaffaello era appena suggerito ( cio che il pastorale

    un elemento di concatenamento tra la terra e il cielo), inRibalta acquista una maggiore importanza.

    I pastorali dei vescovi certosini agganciano tra loroi due registri della rappresentazione ed dunque giustointerrogarsi sui motivi di questa amplificazione funzio-nale di un oggetto-attributo. La risposta a questa do-manda sta, io credo, nel messaggio complessivo che il

    dipinto di Ribalta intende trasmettere.Al pari di qualsiasi altra visione anche quella di Bruno

    si presenta come unesperienza interiore, personale e inco-municabile. Per lautorit religiosa il grande pericolo del-lesperienza visionaria risiede proprio nel suo carattere di-retto, nel fatto che essa consente una relazione immediatacol sacro senza il ruolo di intermediazione della Chiesa. questo il principale motivo per cui durante tutto il XVI se-colo la grande epoca del misticismo spagnolo la Chiesaguard allesperienza visionaria con sospetto ritenendolapericolosa (Caro Baroja 1978, Christian 1981b). Fu sola-mente dopo il Concilio di Trento e, soprattutto, nel corsodel XVII secolo, che lautorit religiosa cerc di manipolarelesperienza visionaria per metterla al servizio dei propriinteressi. Per raggiungere questo scopo essa aveva in effet-ti bisogno dei mezzi idonei a controllare la visione per ri-rappresentarla alla comunit dei fedeli dopo averla fattapassare al vaglio della propria autorit.

    Uno degli strumenti adatti a rendere visibile e pub-blica lesperienza visionaria, unesperienza intima, era il

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    quadro raffigurante una visione (Labrot 1966, pp. 595-618). Il San Bruno di Ribalta un esempio di quei qua-

    dri, e da questo punto di vista il suo linguaggio si rivelachiarissimo. Ci che questo dipinto realizza propriolinserimento dellesperienza privilegiata di Bruno nel-lortodossia della fede. Il legame che viene stabilito tra ilrifiuto della carica episcopale in quanto cosa di questomondo (la mitra e il pastorale gettati in terra) e laper-tura celeste si trova a essere relativizzato dal fatto che

    questo duplice aspetto (rifiuto del potere/accesso al sa-cro) viene nel medesimo tempo sottolineato senza ambi-guit e come messo tra parentesi dalla rappresentazionedei compagni, facenti parte dello stesso ordine monasti-co e muniti degli stessi attributi del potere appena rifiu-tati da Bruno. E anzi, il quadro fa sapere al fedele che inverit esistono due diversi ordini di elementi atti a facili-

    tare il passaggio dal mondo al cielo: lo sguardo ri-volto verso lalto di Bruno (cio lesperienza visionariaintima e personale) e il pastorale dellautorit ecclesiasti-ca ostentato dai suoi compagni (cio lesperienza collet-tiva del gregge che obbedisce al proprio pastore).

    Alla connessione cielo/terra viene ad aggiungersi quel-la spettatore/quadro. Sono gli altri personaggi che occu-pano la scena a facilitare laccesso allimmagine da partedello spettatore-fedele. Sono concepiti al contempo infunzione dellatto visionario e in funzione dello spettatoredel quadro, ragion per cui si pu a giusto titolo designarlicon la denominazione collettiva di personaggi introdut-tori3. Uno di essi (il vescovo sulla destra) abbassa il pa-storale ma rivolge lo sguardo verso lalto, un altro (il ve-scovo sulla sinistra) volge le spalle allo spettatore e sem-bra in questo modo volerlo introdurre nelle profonditdello spazio figurativo, pur continuando a indicargli ilpercorso ascensionale da seguire; egli accompagnato daldelegato dello spettatore allinterno dellimmagine, ecio dal fedele-committente, la cui posizione sembra piut-

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    tosto essere un inserimento accidentale: rispetto al qua-dro avrebbe potuto benissimo trovarsi davantioppure ac-

    canto. Infine, i due monaci certosini in primo piano van-no considerati come una delle invenzioni pi ingegnose diRibalta. Sono l a suggerire i due atteggiamenti che lospettatore tenuto ad assumere: uno dei due siprosterna(atteggiamento proprio alladorazione di Dio), mentrelaltro si inginocchia (atteggiamento riservato alla venera-zione dei santi; Jedin 1934, pp. 181-182). In altre parole,

    latteggiamento del monaco al centro in rapporto conlimmagine della Trinit, mentre quello del monaco sulladestra con il miracolo dellapparizione e con il suo artefi-ce (Bruno). Ne consegue che davanti a questa immaginelo spettatore chiamato ad adorare (prosternandosi) laTrinit e a venerare (inginocchiandosi) Bruno.

    Allo stesso tempo il monaco in posizione centrale atti-

    ra lattenzione sul livello terrestre della rappresentazione.Bisogna pensare alla collocazione originaria del dipinto(la cappella di san Bruno della Certosa di Val de Cristo)per rendersi conto dellimpatto che queste figure poteva-no avere sugli spettatori originari. In questa prospettiva ilmonaco inginocchiato sulla destra appare come la figuradi contatto pi importante dellintera composizione,creando una diagonale fondamentale che collega lo spa-zio dello spettatore allo spazio dellimmagine. Come losguardo stralunato del patrono dei Certosini e le figuredei vescovi, che gli sono a fianco, collegano tra loro i duelivelli dellimmagine (terrestre e celeste), cos il gesto en-fatico del monaco inginocchiato collega lo spazio reale,proprio dello spettatore, allo spazio dellimmagine.

    Il valore di indice della diagonale era gi da tempo no-to ai pittori, che ne avevano tratto profitto nel riprodurreil racconto di visioni. Basta, tuttavia, confrontare il quadrodi Ribalta (fig. 2) con quello di Juan de Juanes (fig. 1), ana-lizzato in precedenza, per individuare i cambiamenti inter-venuti tra il primo e il secondo: in Juanes il gesto di Stefa-

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    no attira lattenzione sulla visione mentre in Ribalta il ge-sto del certosino attiva lattenzione sullatto visionario.

    Questo gesto presenta allo spettatore lattore princi-pale della messinscena Bruno e la sua visione. In talmodo allo spettatore offerto laccesso a unintima espe-rienza interiore. Nel quadro e in virt del quadro espe-rienza visionaria e visione diventano dei beni pubblici.

    Arrivati a questo punto necessario riflettere sul mo-

    do in cui Ribalta ha visualizzato lesperienza estatica delsuo eroe. Se si confronta ancora una volta il San Bruno(fig. 2) col modello di Raffaello (fig. 3) si potr constata-re che Ribalta ha operato una trasformazione radicale.Raffaello si limita a offrire allo spettatore degli indizi ri-conducibili alla visione di Santa Cecilia. Questo giusti-ficato dal fatto che il suo quadro prima ancora di essere

    un quadro di visione un quadro di ascolto: lestasidi Cecilia un fenomeno uditivo e niente affatto ottico.Malgrado ci, lartista italiano ha fatto ricorso a tutto ilproprio talento per fornire le indicazioni necessarie allacorretta percezione dello spazio celeste, che si apre nellaparte superiore dellimmagine. Ci che Cecilia vede effet-tivamente rimane segreto. Il suo celebre volto, lodato datutti i commentatori a partire da Vasari, fa comprendereallo spettatore che ella vede, senza per altro suggerirein alcun modo quello che potrebbe essere il contenuto diquella visione. Ci che Raffaello ci dice, invece, moltochiaramente come Cecilia vede: in un sotto in su assaiben calcolato. Lo scorcio del cielo allo stesso tempo au-dace e prudente, giacch tenta di conciliare il punto divista di Cecilia con quello dello spettatore del quadro.Lo spettatore deve avere limpressione di vedere dal pro-prio punto di osservazione simultaneamente sia Ceciliache la sua visione.

    La scelta di Ribalta totalmente diversa! Prima ditutto la visione di Bruno presentata integralmente, oc-

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    cupa un buon terzo della superficie del quadro e ne rap-presenta il fuoco.

    Non ci sono dubbi che la grande preoccupazione diRibalta sia stata quella di presentare allo spettatore que-sta visione senza filtrarla o deformarla attraverso lo

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    Fig. 4. Albrecht Drer,La Trinit, 1511, Berlino, Kupferstichkabinett.

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    sguardo di Bruno. Al contrario di quanto avveniva nelquadro di Raffaello, qui lo spettatore vede ci che vede

    Bruno, ma non vede come egli lo vede: limmagine dellaTrinit infatti resa da un punto di vista frontale, checorrisponde a priori a quello dello spettatore e non aquello di Bruno4.

    Il procedimento di Ribalta, che a prima vista potreb-be anche sembrare piuttosto discutibile, si giustificatuttavia meglio, rispetto alla dottrina delle visioni di

    quello, pittoricamente pi elaborato, di Raffaello. Teo-ricamente la visione di Bruno non un fenomeno otti-co, bens unesperienza della vista interiore. Ora,questa vista dellanima non conosce n la prospettivan lo scorcio. La Trinit che occupa la parte superioredel quadro di Ribalta una visione nella misura in cui unaproiezione.

    necessario ricordare qui un fatto da tempo segnala-to dagli studiosi, senza che peraltro ne siano state ricava-te tutte le conseguenze: per la realizzazione del registrosuperiore della propria opera lartista si servito di unastampa di Drer in cui era raffigurata la Trinit (1511,fig. 4). Esattamente nello stesso periodo, a Siviglia,Francisco Pacheco il teorico della pittura sacra scri-

    veva le proprie considerazioni sulliconografia trinitaria(pubblicate solo nel 1649 nel trattato sulla pittura):

    duso rappresentare la Santissima persona del Padre conla tiara e le vesti del Sommo Pontefice, seduto sopra una nu-vola mentre tiene avvolto in un lenzuolo bianco il Figliomorto, con le ferite e le piaghe di quando fu deposto dalla

    Croce, e la terza persona in forma di colomba circondata daangeli recanti gli strumenti della passione (). Cos lo vedia-mo nella stampa di Albrecht Drer (Pacheco 1649, p. 563).

    Come Pacheco anche Ribalta evita le difficolt ico-nografiche del tema, optando per la citazione piuttostoche per linvenzione. Si sa che a quellepoca un antico

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    interdetto (Carranza 1972, vol. I, p. 472) gravava sullaraffigurazione pittorica della Trinit e che la stessa e-

    sperienza visionaria, come documentata da numero-sissimi scritti cinque e seicenteschi, manifesta un certoritegno per quanto concerne le apparizioni della Tri-nit, che risultano essere molto meno frequenti di quel-le del Cristo, della Vergine o dei santi. Teresa dvila,per esempio, ne ebbe una da lei definita assai stranapittura. Anni dopo un mistico tedesco non esiter a

    paragonare la Trinit, contemplata in maniera estaticain una visione immaginaria, a unincisione (con ogniprobabilit quella di Drer, Benz 1969, p. 495).

    Il lavoro di rappresentazione riveste pertanto in Ri-balta il carattere di montaggio. Esagerando un po, sipotrebbe perfino sostenere che San Bruno ha una vi-sione alla Drer in un quadro raffaellesco. Ma bi-

    sogna ancora una volta sottolineare che nella combi-nazione operata dallartista la sua attenzione si con-centrata sugli elementi della concatenazione. Ribaltasemplifica la stampa di Drer eliminando gli angelicon gli strumenti della passione e moltiplicando le nu-vole attorno al gruppo centrale. Cosa ancora pi im-portante, introduce dei putti volteggianti nello spazioesattemente nel punto di intersezione tra lo spaziodella visione e quello del visionario. Sono elementi chenon figurano n in Raffaello n in Drer in quanto in-dubbie invenzioni dello stesso Ribalta appartenenti,al medesimo tempo, a entrambi i livelli di realt visua-lizzati nel suo dipinto.

    Questo quadro, come tanti altri dello stesso genere,mette in luce alcuni problemi derivanti dalla concezio-ne della rappresentazione dellesperienza visionaria ti-pica del Seicento. Confrontandolo col Santo Stefano diJuan de Juanes (fig. 1) se ne comprendono senza faticale caratteristiche principali. Nel caso di Juan de Juanes

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    si trattava di un quadro-racconto ancora concepito co-me una historia classica. Latto visionario non era altro

    che un episodio di un ciclo narrativo pi ampio cheraccontava la vita, i fatti e la morte di Santo Stefano.Il quadro di Ribalta una pala daltare il cui statuto re-torico non rientra, di primo acchito, in classificazionitroppo semplicistiche. allo stesso tempo icona diSan Bruno e evocazione drammatica di un momentodella sua vita5. Si tratta, in effetti, di unimmagine mi-

    sta (narrativa/iconica) che ha il compito di captare ilsacro nella sua forma pi difficile (la Trinit) e di tra-smetterlo allo spettatore-fedele attraverso il filtro delle-sperienza visionaria.

    Generalizzando queste osservazioni possibile isola-re, nei quadri raffiguranti visioni, due distinte funzioni,bench sia talvolta difficile separarle nettamente: una

    funzione fatica e una funzione metadiscorsiva.

    La funzione fatica riguarda il carattere di collega-mento assunto in s da queste immagini (esse stabilisco-no un contatto tra lo spettatore-fedele e la teofaniarappresentata), mentre la funzione metadiscorsiva ri-guarda il carattere sdoppiato della rappresentazione, ilfatto insomma che ogni quadro di apparizione sia uno-pera che parla di unimmagine (la visione) servendosidegli strumenti propri della pittura.

    Rientra nei miei obiettivi affrontare prima luno, poilaltro, di questi due aspetti.

    3. Funzione fatica della pittura visionaria

    Leditto emanato dal Concilio di Trento in occasionedella sua ultima seduta il 3 dicembre 1563 non fu, comstato tanto frequentemente ripetuto, un proclama sulleimmagini, quanto piuttosto qualcosa che ebbe attinen-

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    za col problema degli intermediari del culto e della fede(i Santi), il cui potere si manifesterebbe mediante le loro

    reliquie e le loro immagini.Questo fatto basterebbe da solo a giustificare lap-

    proccio di ogni immagine scaturita dalla poetica dellaControriforma nellangolatura della propria funzionefatica: le immagini, ebbe a dire Paleotti nel suo cele-breDiscorso (1582, p. 215), sono degli istrumenti perunire gli uomini con Dio e anche Francisco Pache-

    co svilupp lo stesso concetto nel suo Arte de la Pin-tura (1649): lo scopo delle immagini cristiane quel-lo di condurre le genti alla piet e di elevarle a Dio(p. 253).

    Per questo motivo, i teorici dellimmagine della Con-troriforma fanno una grande differenza tra il pittorepuro artefice e il pittore artefice cristiano (Paleotti

    1582, p. 209). Il primo pratica unarte pura, unartesola, il cui scopo la rassomiglianza, mentre laltropratica unarte sacra che mira alla persuasione (p. 211 ePacheco 1649, pp. 249, 252-253). Da quel momento inpoi non c proprio da meravigliarsi se larte della Con-troriforma ha finito per elaborare una retorica dellim-magine molto ben calibrata. Le questioni incerte rap-

    presentano un caso particolare di questa messa a puntodi unarte persuasiva:

    essendo la pittura agli occhi di ciascuno esposta, vie-ne a manifestare publicamente () non con parole fu-gaci, ma con opera permanente, quasi volendo renderecerto et indubitato testimonio di quello che presso a

    tutti incerto (). E per davvertire che non ogni co-sa incerta, narrata nondimeno o dipinta come certa,rende subito lo autore di essa temerario; perch ci chenon ha luogo quando quello che si narra o dipinge ac-compagnato da molta probabilit et insieme atto amovere il cuore et eccitare divozione (Paleotti 1582,pp. 271-272).

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    Ora, credo che si possano considerare i dipinti raffi-guranti visioni come facenti parte di questa classe di

    cose incerte, rese plausibili e perfino convincenti dal-larte persuasiva della Controriforma.

    Il dubbio rispetto allesperienza visionaria in effettiun atteggiamento fondamentale legato alla stessa espe-rienza. Teresa dvila, per esempio, non riesce a sbaraz-zarsene fino al momento in cui una nuova visione arri-ver a confermare la precedente: il Cristo le appare per

    convincerla del carattere reale delle sue esperienze. il ripetersi della visione a fondarne il valore di vera vi-sione, collocandosi cio oltre il campo delle semplici il-lusioni e degli altri prodotti dellimmaginario.

    Ma le precauzioni prese dallautorit religiosa perdefinire lo statuto dellatto visionario appaiono picomplesse. Da lungo tempo essa aveva forgiato una teo-

    ria autentica della contemplazione visionaria grazie adAgostino di Ippona (De genesi ad litteram, l. XII;De Tri-nitate, l. XV;De diversis quaestionibus, LXVIII, qu. XLVI),il quale per stabilire lo statuto teologico della visione,cerc di rispondere a due interrogativi di fondo:

    1. la contemplazione una grazia rara estraordinaria, oppure rara ma facente parte del pianoordinario della Provvidenza?

    2. Esiste una contemplazione acquisita, o attiva, op-pure non esiste contemplazione che non sia passiva?

    Domande a cui potrebbe essere data la seguenterisposta:

    1. I doni mistici sono necessari alla perfezione, ma larendono possibile, non la costituiscono.

    2. Esiste una sola specie di contemplazione; tale con-templazione infusa, essendo il frutto dei doni dello Spiri-to Santo, ma si presenta sotto due forme: passiva e attiva6.

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    Fig. 5. Filippo Abbiati, San Pietro Martire smaschera la falsa Vergine, 1700 ca., o-lio su tela, Milano, Quadreria del Duomo.

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    Un secondo problema che ossession soprattutto iltardo Medioevo fu quello delle false visioni. John Ger-

    son, nel suo De Distinctione Verarum Visionum a Falsis(1401), arriv perfino alla messa a punto di una vera epropria tecnica di individuazione delle visioni impure,che attribuisce alla frenesia, alla mania oppure allamalinconia (Gerson 1962, p. 40; Boland 1959, p. 82).

    A dispetto di una codificazione di rigide leggi del di-scernimento dello spirito, i pericoli della ficta visio ri-

    mangono uno dei principali problemi dellesperienza mi-stica. Importanti testi della mistica cattolica del Cinque edel Seicento ne parlano e la conclusione pi evidente chese ne ricava la seguente: non esiste visione che siacompletamente sicura (Prez de Valdivia 1585, p. 150).

    per questo motivo che, qualora si possa, si deveresistere alla visione, si deve provare ad allontanarla co-

    me se fosse una farsa dellimmaginazione (Teresa dvi-la 1577, pp. 1016-1017). Gli atti dellInquisizione pul-lulano di relazioni riguardanti questo fenomeno e anchela pittura affronta il tema del rifiuto della falsa visionein quadri che operano uno sconvolgimento drammaticodelliconografia tradizionale della visione infusa (fig. 5).Ma c di pi. In questepoca di endemia visionaria, un

    solo e ripetuto comandamento ritorna costantementenei testi: scacciare la visione su iniziativa personale non sufficiente, bisogna assolutamente e soprattutto par-larne allautorit spirituale; solo una completa verbaliz-zazione, rivolta a chi di dovere, pu liberare dalle visio-ni immaginarie e pu, per ci stesso, permettere di ac-cedere al godimento delle visioni autentiche:

    Tutto ci che lanima riceve per via sovrannaturale, inqualunque maniera ci avvenga, tenuta a comunicarlosubito al proprio maestro spirituale, chiaramente, inte-gralmente, semplicemente e in piena sincerit. Questaapertura le sembrer forse inutile, che una perdita ditempo e che le basta, per essere al sicuro, di rigettare

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    quegli effetti sovrannaturali come da noi indicato, di ri-fiutarli e di non farvi per nulla attenzione. Ipotizzo che

    si tratti di visioni, di rivelazioni o di altre comunicazionisovrannaturali che sono chiare e che importa poco de-lucidare. Dico che anche in questo caso, e malgrado la-nima non ne veda la necessit, la loro comunicazioneintegrale indispensabile (Giovanni della Croce XVIsec.).

    Due idee fondamentali sembrano emergere da que-sto testo di Giovanni della Croce, che sintetizza benissi-mo le inquietudini dellepoca: la prima riguarda il con-trollo ecclesiastico sullesperienza visionaria e la secondalimperativo di unermeneutica della visione.

    La rappresentazione delle visioni in pittura devenecessariamente sottomettersi a queste due condizio-ni. Solo le visioni che sono passate attraverso il filtrodel controllo dellautenticit e di quello dellermeneu-tica sacra possono accedere alla rappresentazione pit-torica. Sar questultima il loro finale certificato diautenticit.

    Il quadro, che rappresenta un atto visionario nellaprospettiva dello statuto dato dalla Controriforma al-

    limmagine, deve essere prima di ogni altra cosa persua-sivo: nessuno davanti a un simile quadro deve avere ilbench minimo dubbio circa la veridicit di quanto av-venuto. Deve, in secondo luogo, dare un esempio digrazia infusa, quella del santo di cui si raffigura la visio-ne. Infine, deve fare partecipare per empatia lo spetta-tore allatto visionario.

    Esistono diverse modalit relative a questa partecipa-zione per empatia. La prima, rara ma non inesistente, quella in cui la vista di un quadro di una visione provo-ca, a sua volta, una visione. Ecco un esempio:

    Correa dunque lanno 1653, () terza Domenica diMaggio, () ore 15 () quando cominciossi ad udire

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    un gran bisbiglio per la chiesa, e spargersi voce che nel-lImmagine di S. Francesco Saverio si operavano alcuni

    insoliti e prodigiosi cambiamenti. La prima che meritas-se di vedere si gran portento, fu una semplice contadina(). Questa, sorpresa da stupore, addito cio ch vedevaad un altro, che li stava vicino (). Vedeasi il volto delSanto () in un instante divenire palido (). Tuttodimproviso poi miravasi infiammarsi e divampare comeper grave interno sentimento ed intanto grondar sudoredalla fronte. Gli occhi, che prima erano sollevati verso laVergine, si vedevano ora abassarsi come se mirasse egli ilPopolo, ora di nuovo rialzarsi verso la Divina Madrequasi che a lei lo raccomandasse, ed ora chiudersi dal-lintutto come in atto di orare(De Maio 1983, pp.253-255).

    Si sar sicuramente notato che questa visione pro-

    vocata da un dipinto contribuisce a scatenare il princi-pio meditativo a esso intrinseco: il santo che muove gliocchi (sia in direzione della Madonna, che degli spetta-tori) del tutto conforme alla funzione di intermedia-rio di ogni santo visionario in qualsivoglia quadro divisioni. Il suo unico tratto fuori del comune il fatto dimuoversi.

    La modalit pi frequente , tuttavia, la partecipazio-ne per empatia normale dello spettatore allatto di vi-sione rappresentata. Lungi dallincitare a esercizi misticidifficilmente controllabili, la contemplazione di un qua-dro di visione equivale a un familiarizzarsi con lespe-rienza visionaria.

    Lasciandosi trasportare da un quadro di visione lo

    spettatore-fedele beneficia sempre di una guida spiri-tuale (il santo visionario); vive questa esperienza estati-ca nello spazio consacrato della chiesa e, di conseguen-za, non si trova mai veramente solo al cospetto dellamanifestazione visibile del sacro.

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    1 Altri pittori si rifanno per eseguirlo a modelli provenienti dallItalia set-tentrionale, come per esempio Pedro de Villegas Marmolejo nella suaAnnun-ciazione a San Lorenzo a Siviglia.

    2 Manca ancora uno studio di sintesi sullorigine e sullevoluzione dellaSacra Conversazione. Si veda tuttavia leccellente articolo di Rona Goffen1979, pp. 198-222.

    3 Hamon 1979, pp. 115-180, utilizza lespressione personaggio-leva.Per le differenti forme in cui lidea di aggancio si realizza nella pittura anti-ca si veda Shearman 1992, soprattutto pp. 94-107.

    4 Per il problema del punto di vista nei quadri di visioni, si vedano le im-portanti osservazioni di Kemp 1983, pp. 38-40.

    5 importante notare in questo contesto che lantica letteratura artistica

    spagnola distingueva gi tra cuadro de devocin e cuadro de historia. Si vedaPalomino 1715-24, vol. III, pp. 106-107.6 Riprendo qui la sistematizzazione messa a punto da Cayr 1927, pp. 9-11.

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