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Storia dei motoscafi - Provincia di Venezia · Alcuni appunti per una storia dei motoscafi...

Date post: 15-Feb-2019
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DRAFT Alcuni appunti per una storia dei motoscafi lagunari. La motorizzazione delle imbarcazioni ha salde radici storiche nelle competizioni, per le quali incominciò la progettazione e la ingegnerizzazione dei motoscafi. Molti nome famosi di progetti aeronautici di inizio secolo sono legati anche al disegno di motoscafi od ‘idroplani’: Propulsi dai motori più potenti allora disponibili – quelli aeronautici che raggiungevano a stento i cento cavalli – i primi motoscafi ad inizio secolo raggiungevano però i 50- 60 nodi in acqua calma, grazie ad una costruzione estremamente leggera, con tecnologia c.d. ‘lamellare’ e legni ad elevata resistenza, come il mogano. Col crescere dell’interesse per le competizioni motoristiche, automobilistiche, aeree o nautiche che fossero, anche la motonautica divenne sempre più popolare. Il diporto motorizzato cominciò intorno al 1920, un' attività particolarmente d’elite. Prima di quegli anni, i motori erano troppo inaffidabili e pesanti per essere usati con una minima continuità in ambiente marino. Naturalmente, non si parlava di produzione di serie, il costo di una singola imbarcazione era proibitivo per la maggior parte dei comuni mortali. Perfino il potente Henry Ford rinunciò all’idea di produrre motoscafi che avrebbero dovuto montare il famoso ed economico motore Ford modello T. Negli Stati Uniti, la prima produzione di serie vide la luce nel 1920: un motoscafo da 28 piedi (8.5 m) di lunghezza, con motore da 200 hp e velocità di circa 35 nodi. Costava come una villetta in campagna. Nel 1922 fu fondata la Chris Craft, che tutt’ora è uno fra i maggiori produttori mondiali di motoscafi. La Chris Craft, fra il 1926 ed il 1928, produsse più del doppio delle imbarcazioni prodotte da tutti i suoi competitori messi insieme, e standardizzò in modo sostanziale il disegno su nuove linee. La carena aveva linee prodiere concave, con estremità affinata e specchio di poppa tronco ed arrotondato. Minimo era la levata dei madieri, per esasperare le capacità velocistiche anche a scapito della tenuta al mare. La propulsione era, senza eccezioni, costituita da un motore entrobordo sistemato a centro scafo, e spesso erano presenti due pozzetti, prodiero di guida e poppiero per i passeggeri. Anche se la sistemazione è poco pratica, data la mancanza di un passaggio fra i due pozzetti, ciononostante quello era lo standard del tempo. Il governo era meccanico diretto, con volante e trasmissione del moto con assi rotanti: insieme al timone posto all’estrema poppa, garantiva un eccellente e docile controllo anche a bassa velocità.
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Alcuni appunti per una storia dei motoscafi lagunari. La motorizzazione delle imbarcazioni ha salde radici storiche nelle competizioni, per le quali incominciò la progettazione e la ingegnerizzazione dei motoscafi. Molti nome famosi di progetti aeronautici di inizio secolo sono legati anche al disegno di motoscafi od ‘idroplani’: Propulsi dai motori più potenti allora disponibili – quelli aeronautici che raggiungevano a stento i cento cavalli – i primi motoscafi ad inizio secolo raggiungevano però i 50- 60 nodi in acqua calma, grazie ad una costruzione estremamente leggera, con tecnologia c.d. ‘lamellare’ e legni ad elevata resistenza, come il mogano. Col crescere dell’interesse per le competizioni motoristiche, automobilistiche, aeree o nautiche che fossero, anche la motonautica divenne sempre più popolare.

Il diporto motorizzato cominciò intorno al 1920, un'attività particolarmente d’elite. Prima di quegli anni, i motori erano troppo inaffidabili e pesanti per essere usati con una minima continuità in ambiente marino. Naturalmente, non si parlava di produzione di serie, il costo di una singola imbarcazione era proibitivo per la maggior parte dei comuni mortali. Perfino il potente Henry Ford rinunciò all’idea di produrre

motoscafi che avrebbero dovuto montare il famoso ed economico motore Ford modello T. Negli Stati Uniti, la prima produzione di serie vide la luce nel 1920: un motoscafo da 28 piedi (8.5 m) di lunghezza, con motore da 200 hp e velocità di circa 35 nodi. Costava come una villetta in campagna. Nel 1922 fu fondata la Chris Craft, che tutt’ora è uno fra i maggiori produttori mondiali di motoscafi. La Chris Craft, fra il 1926 ed il 1928, produsse più del doppio delle imbarcazioni prodotte da tutti i suoi competitori messi insieme, e standardizzò in modo sostanziale il disegno su nuove linee. La carena aveva linee prodiere concave, con estremità affinata e specchio di poppa tronco ed arrotondato. Minimo era la levata dei madieri, per esasperare le capacità velocistiche anche a scapito della tenuta al mare. La propulsione era, senza eccezioni, costituita da un motore entrobordo sistemato a centro scafo, e spesso erano presenti due pozzetti, prodiero di guida e poppiero per i passeggeri. Anche se la sistemazione è poco pratica, data la mancanza di un passaggio fra i due pozzetti, ciononostante quello era lo standard del tempo. Il governo era meccanico diretto, con volante e trasmissione del moto con assi rotanti: insieme al timone posto all’estrema poppa, garantiva un eccellente e docile controllo anche a bassa velocità.

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Il motoscafo classico – la Chris Craft era negli anni Trenta il maggior produttore al mondo – era quindi un oggetto di lusso, con finiture costose e rivolto ad un pubblico esigente e danaroso. Anche se la Chris-Craft soffrì molto la crisi economica del 1929 e la seguente Depressione, il modello tipico del ‘runabout’ potente, con l’inconfondibile pianta a ferro di cavallo, costruito in mogano lucidato, fu sostanzialmente l’unico disegno che ispirò i progettisti

fra il 1930 ed il 1950, anche in Europa. La Seconda Guerra Mondiale raffreddò ulteriormente il mercato, che stentava già a riprendersi dalla crisi economica: anche se il governo americano premeva sui produttori perché mantenessero la produzione ‘civile’, allo scopo di rafforzare il morale, la produzione bellica assorbì gran parte della capacità inventiva e di sviluppo nel settore. Con la fine della guerra, comunque, la riconversione fu immediata e la conseguenza fu un boom di produzione e vendita di costruzioni più economiche, che integravano molte soluzioni produttive del tempo di guerra, come ad esempio l’uso del compensato marino invece del mogano. Questa prosperità generale non avvantaggiò molto il mercato dei motoscafi negli USA: si affermavano altri modelli, altre tendenze di mercato, come i grandi cabinati ed i piccoli cabinati detti commuters, più lenti ma più comodi. I cabinati divennero anche per la Chris Craft la principale linea di prodotto, e di fatto l’unico nuovo modello sviluppato fra il 1950 ed il 1955 era il Chris Craft Cobra del 1955, con la esuberante potenza di 285 hp. Il Cobra fu il tramonto definitivo del runabout classico in mogano: ne furono costruiti solo 160, e,

comunque, sia il ponte che le grandi derive decorative erano ormai costruite in vetroresina. Anche se il Cobra 1955 incorporava la vetroresina come elemento di lusso, modernità e distinzione, non ci vollero molti anni perché gli scafi costruiti completamente in vetroresina soppiantassero il costosissimo e lavoratissimo legno di mogano. Minor manutenzione, prestazioni migliori, prezzi incomparabilmente più bassi

spinsero i produttori americani ad abbandonare il legno nel giro di pochi anni, e già ai principi del 1960 non esistevano particamente più produttori negli Stati Uniti che utilizzassero il legno di mogano per la costruzione di serie. Tanto la Chris Craft che la Century, i due maggiori produttori, si convertirono alla vetroresina: l’ultimo cantiere ad insistere sulla produzione di serie in legno per clientela sofisticata fu Garfield Wood, che chiuse per fallimento nel 1971. Negli anni Ottanta, il classico runabout in mogano era diventato un oggetto d’antiquariato ricercato. Qualche produttore si azzardò allora a costruire limitate serie di replica dei modelli più famosi – come il Cobra stesso – con rimotorizzazioni moderne ed accorgimenti per contenere il prezzo. Il legno dell’Honduras ha sostituito il mogano delle Filippine, ha fatto la comparsa l’elettronica e vengono rispettati gli standard moderni negli impianti elettrici e nella strumentazione. Tutto quanto invece ‘dava l’impronta’, le sellerie in cuoio, le ferramenta in bronzo nichelato e soprattutto la forma dello scafo, è rimasto inalterato.

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L’unico tentativo noto di riedizione del runabout tradizionale, il cui disegno rimase sostanzialmente simile fra la metà degli anni Venti e la metà degli Cinquanta, fu il Mahogany di Raymond Hunt, motorizzato da due MerCruiser per complessivi 800 hp, con una velocità massima di oltre 40 nodi. Realizzato su commissione, in unico esemplare nel 1994 questo motoscafo fu venduto a quasi mezzo milione di dollari.

In Italia Stranamente, mentre negli Stati Uniti negli anni Cinquanta scompariva la costruzione in mogano lamellare, la stessa conosceva nuovo splendore in Italia. Forte di una tradizione specifica nelle imbarcazioni veloci per uso militare – i MAS, erano costruiti originariamente a Venezia fra il 1915 ed il 1918 dalla SVAN, che non a caso era anche costruttore di aeroplani – la

produzione italiana di imbarcazioni in legno lamellare era rinomata, anche se ben lontana dalla produzione in serie. L'idea di una piccola unità navale costruita in legno, munita di motori elettrici ed a scoppio, che, per l'alta velocità e il dislocamento contenuto offrisse un minimo bersaglio e, nello stesso tempo avesse la possibilità di portare la sua offesa nel cuore delle basi navali nemiche contro le navi ormeggiate, fu concepita dall'lng. Attilio Bisio, Direttore del Cantiere Navale di Venezia nel 1914. La concezione originale, si noterà, era quella velocistica, dei runabouts americani di venti anni dopo. Fra gli anni Venti e Trenta in Italia il motoscafo (anzi, motòscafo o autoscafo, come si diceva allora) rimase una stravaganza elitaria. Superate le vicende belliche, riguadagnato un minimo benessere, anche in Italia si aprì uno spiraglio di mercato, anche se di dimensioni ben lontane da quello d’oltre oceano. Un cantiere lombardo sul lago d’Iseo, Riva, a partire dagli anni Cinquanta si era dedicato alla costruzione di runabouts di chiara ispirazione americana, anzi, su linee e componenti Chris Craft. Un suo tipico prodotto era il Tritone, lungo circa 8 metri e dotato di due motori

della stessa Chris Craft per complessivi 360 hp, su due assi con motori centrali. Naturalmente, il Tritone, che era in sostanza la copia italiana del runabout Chris Craft degli anni Trenta, era costruito in mogano lamellare, e conobbe un buon successo di mercato. Nel 1962, il Tritone venne sottoposto a

quello che ora si chiamerebbe restyling, un ringiovanimento delle linee, ed il nuovo modello fu chiamato Aquarama. Complice un favorevole momento di boom economico, la gradevolezza delle linee ed il lusso delle rifiniture, nonché la reputazione che Riva s’era conquistato presso la clientela sofisticata, il Riva Aquarama fu immediatamente adottato come simbolo della dolce vita da quello che allora si chiamava jet set.

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Il Riva Aquarama è ancora ritenuto il più bel motoscafo mai realizzato al mondo. Assolutamente elitario – negli anni migliori ne venivano prodotti una trentina all’anno solamente – era fra i motoscafi quello che le Ferrari e le Roll Royce erano separatamente fra le auto, un concentrato di eleganza, buon gusto, potenza ed esclusività. L’Aquarama fu costruito fino al 1972 in circa 300 esemplari, con lunghezze fra gli 8 m originali ed gli 8.7 m degli ultimi esemplari. Le potenze andavano dai 370 hp di inizio serie, fino ai 440 hp di fine serie, per velocità intorno ai 42 nodi Di fatto, non esistettero due Aquarama

identici: data la limitata produzione, e la cura maniacale per i dettagli, il disegno originale degli Aquarama era in perpetua evoluzione. Quasi immediatamente l’Aquarama fu

affiancato dal SuperAquarama e dall’Aquarama Special, di identica lunghezza ma motorizzazione più potente, fra i 580 hp dell’inizio serie ed 800 hp a fine serie, nel 1996. Complessivamente ne furono costruiti circa 800, contesi ora da collezionisti ed amatori con quotazioni intorno ai 350 milioni di lire ad esemplare. Fino all’ultimo, però, la motorizzazione rimase nella classica sistemazione su due assi tradizionali e motori al centro. Il successo dello stile Riva naturalmente creò emuli ed imitatori: lo stesso cantiere Riva produsse modelli analoghi, di minori pretese, che però riprendevano le caratteristiche principali dell’ammiraglia. Ad esempio, il famoso Ariston degli anni ’70 con motorizzazione da 270 hp, che anche conobbe un buon successo di vendita.

Tutto questo successo non sufficiente a Carlo Riva, che agli inizi degli anni Settanta fu costretto a cedere il cantiere ad una azienda americana, che a sua volta in pochi anni cedette nuovamente l’azienda al gruppo italiano Ferretti, ormai convertita alla produzione in vetroresina.

Fra gli anni Trenta e Cinquanta, nella laguna di Venezia i motoscafi di trasporto passeggeri pubblici e privati utilizzavano prevalentemente linee da motolancia (motorlaunch), cioè carene tonde in legno lamellare od a klinker, con unico motore a prua e cabina passeggeri poppiera. Nella

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navigazione lagunare, questa configurazione era particolarmente indicata, perché le esigenze di velocità erano forzatamente limitate.

Il tipico esemplare aveva la poppa tonda, la cabina passeggeri coperta, di forma che ricordava il felze delle gondole – che al tempo era ancora in uso - e, naturalmente, la cabina del pilota scoperta, come nelle auto di dieci anni prima e nelle carrozze a cavalli.

Il trasporto lagunare motorizzato conobbe nel secondo dopoguerra una drastica necessità di sviluppo e rinnovo del parco mezzi, e così, in mancanza di alternative, si affermarono negli anni Cinquanta i modelli runabout Chris Craft od analoghi, originali o nelle copie allora disponibili sul mercato italiano. Queste barche assommavano un’apparenza di sportività all’eleganza, ed erano gradite all’utente medio, turista danaroso, in cerca di svago e di esperienze gratificanti. Erano, come visto, costruzioni esclusivamente in mogano

lamellare, con carene a V, basso angolo di levata dei madieri, motore al centro e potenze esuberanti per velocità elevate, da 28 a 35 nodi.

La motorizzazione era naturalmente a benzina, come d’obbligo allora, per motivi di peso, su tutti i runabouts con pretese di velocità. Assi ed eliche erano tradizionali. Tendenzialmente il modello ‘tipo taxi’ era uno scafo da 8-9 metri di lunghezza, con 100-150 hp, anche su un unico asse. La disposizione interna complessiva, su due pozzetti, e la mancanza di una cabina chiusa erano punti negativi del runabout da diporto dal punto di vista del trasporto passeggeri, e molto presto si innestarono modifiche

funzionali per una miglior efficienza. La cabina chiusa fu il primo passo, seguito dalla creazione verso poppa di un giardinetto aperto: rapidamente alcuni costruttori veneziani

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(Celli, De Pellegrini) iniziarono una produzione in proprio, ovviamente su basi assai più economiche degli esemplari originali da diporto a cui si ispiravano. La crescita di potenza installata va di pari passo, fra il Cinquanta ed il Settanta, con l’evoluzione motoristica e con l’offerta dei produttori, e si passa dai 100-150 hp iniziali ai 200-220 hp, fino a 300 in alcuni casi. Nel 1974, con il brusco aumento del prezzo della benzina conseguente al primo shock pretrolifero, l’invecchiamento della prima generazione di mototaxi e la disponibilità sul mercato di motori entrobordo diesel di peso accettabile, spinse alla ricerca di alternative. Cominciò la progressiva rimotorizzazione da benzina a diesel, con numerosi problemi di adattamento: i motori diesel pesano comunque di più, spostano il centro di gravità appruando la barca e creando problemi di governo. Inoltre, sono assai più rumorosi, anche se consumano meno e di un combustibile meno costoso. Fondamentale fu l’uscita sul mercato, pochi anni prima, del ‘piede poppiero’ entrofuoribordo, costruito dalla americana Mercury (con il nome MerCruiser) e dalla svedese Volvo Penta (con il nome Aquamatic), che iniziò ad apparire sul mercato italiano nei primi anni Settanta. A Venezia, per ragioni principalmente commerciali si impose il modello Volvo Penta. Era la soluzione che molti aspettavano, un complesso unico elica+timone+riduttore+motore, disponibile sia diesel che benzina, che riduceva gli spazi occupati dall’apparato motore in modo molto efficace, allontanando la fonte di rumore dai passseggeri e liberando l’intera parte centrale dello scafo per la cabina. Alla fine degli anni Settanta, di conseguenza, il disegno complessivo si stabilizzò su uno scafo a V in compensato marino, lamellare o fiberglass, poppa a specchio, gruppo entrofuoribordo Volvo da 120-180 hp, cabina centrale chiusa con giardinetto, ma con la distribuzione dei pesi completamente diversa ed il modo di costruzione, la carena non ha più nulla a che fare con quella lunga e filante dei runabouts, per non parlare di quella tonda dei motorlaunchs. I taxi acquei in planata sono notevolmente sgraziati, perché eccessivamente appoppati; in navigazione a lento moto, la prua troppo piena e corta è manifestamente inadatta. Hanno in generale, per disegno, scarsa tenuta al mare, ma questo non è in genere un difetto sentito; fra i pregi, rispetto ai runabouts, sono invece molto più manovrabili, malgrado le dimensioni, anche per l’elevato rap-porto potenza/dislocamento.

La progressiva e costante ricerca di economie nei costi di costruzione limitò sempre più l’uso del costoso lamellare in mogano, e cominciò ad apparire il ben più economico compensato marino. Le forme si semplificarono, il legno via via abbandonato nella produzione corrente a favore della vetroresina – prima nella costruzione dello scafo, poi nella coperta e nelle sovrastrutture - ormai trent’anni dopo che negli Stati Uniti lo si era

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abbandonato per ragioni identiche. Con i primi anni Ottanta la costruzione in vetroresina si impose, su forme molto semplificate per facilitare il distacco della stampata dallo stampo, specie nella zona di prua. Un disegno teoricamente tradizionale rimane nell’opera morta, se si vuol definire tradizionale una linea elegantemente datata metà anni Sessanta, ma che di tradizionale ha poco altro. Si conservano il caldo, elegante ed opulento legno satinato originale come materiale di costruzione o di rifinitura, ma non la propulsione, e neppure le linee di carena tonde ‘a goccia’. Va ricordato come i motoscafi da diporto loro nonni erano in verità barche abbastanza poco marine, con potenze eccessive e spesso mal sfruttate. Anche l’Aquarama, splendido oggetto di ebanisteria, dal punto di vista idrodinamico è abbastanza scadente, come ben si vede in tutte le foto che lo ritraggono in velocità. Non per nulla è più spesso fotografato da fermo.


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