STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 1
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
STORIA COSTITUZIONALEI linguaggi politici della Modernità
Il linguaggio del repubblicanesimo
Il linguaggio della ragion di Stato
Il linguaggio dell’economia politica
Il liguaggio del giusnaturalismo
STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo
Potere sovrano
Contratto
Individui liberi ed eguali
STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo
…un dispositivo logico che prevede alla base gli
individui con i loro diritti e, proprio per la
salvaguardia di questi ultimi, un potere legittimo
da tutti voluto , che emani quelle leggi che, valide
per tutti e rese efficaci da una forza comune,
permettano la coesistenza pacifica degli uomini.
STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo
Eguaglianza
Libertà(indipendenza della volontà)
Potere(prodotto della volontà di tutti)
STORIA COSTITUZIONALEIl linguaggio del giusnaturalismo
Logica della rappresentanza politica:
riconoscere come propria la volontà di
un altro
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 2
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
…Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto
mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende
dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma
altrettanto decisamente come soggetto (…), ciò che è poi lo stesso,
è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la
sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la
mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso (…). Il vero è il
divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la
propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e
la propria fine è effettuale.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
(…) Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto
l’essenza che si completa mediante il suo
sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è
essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò
che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua
natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-
se-stesso.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
(…) Che il vero sia effettuale solo come sistema,
o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò
è espresso in quella rappresentazione che enuncia
l’Assoluto come Spirito – elevatissimo concetto
appartenente all’Età moderna e alla sua religione.
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio (1817):
Aufheben ha nella lingua un doppio senso: quello di conservare e
quello di far cessare, di porre un termine. Conservare ha
d’altronde un significato negativo, cioè per conservare qualcosa
bisogna che gli si tolga la sua immediatezza, che gli si sopprima la
sua esistenza, così che essa è sottomessa alle condizioni esterne.
In questo modo ciò che viene soppresso è nello stesso tempo
conservato, avendo perso solo la sua esistenza immediata, senza
essere per questo annientato. Sul piano semantico, le due
determinazioni di aufheben possono essere considerate significati
della stessa parola. E’ sorprendente che una lingua sia giunta a
usare una sola parola per due significati opposti.
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio (1817):
(…) Una cosa è soppressa (superata) nella
misura in cui essa è realizzata in unità con il
suo opposto: in questa determinazione, la
Cosa superata appare come riflessa e può
essere designata come «momento»…
G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16):
(…) La contraddizione (…) è la radice di ogni movimento e
vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in
quanto ha in se stesso una contraddizione. (…) La comune
esperienza riconosce che si dà una quantità di cose
contraddittorie, di contraddittorie disposizioni, ecc., la cui
contraddizione non sta semplicemente in una riflessione esteriore,
ma in loro stesse. E la contraddizione non è poi da prendere
semplicemente come un’anomalia che si mostri solo qua e là, ma è
il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni
muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e
mostrarsi della contraddizione…
Il sistema filosofico di Hegel:
Logica Idea in sé e per sé=
Puro pensiero (tesi)
Filosofia della natura Idea fuori di sé=
Natura (antitesi)
Filosofia dello spirito Idea che ritorna in sé=
Spirito (sintesi)
Il sistema filosofico di Hegel:
Logica Dottrina dell’essere
Dottrina dell’essenza
Dottrina del concetto
Filosofia della natura Meccanica
Fisica
Organica
Il sistema filosofico di Hegel:
Filosofia dello Spirito
Spirito soggettivo Antropologia
Fenomenologia
Psicologia
Spirito oggettivo Diritto
Moralità
Eticità
Spirito assoluto Arte
Religione
Filosofia
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821):
Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire
che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti.
Peraltro tale rapporto generale di fine a mezzo
non è in questo caso adeguato. Lo Stato non è
infatti una realtà astratta che si contrapponga ai
cittadini; bensì essi sono momento come nella
vita organica, in cui nessun membro è fine e
nessuno è mezzo, (§ 258 A)
La filosofia della storia
L’astuzia della ragione
Si può chiamare astuzia della ragione il fatto che
quest’ultima faccia agire per sé le passioni e che quanto
le serve da strumento per tradursi in esistenza abbia da
ciò scapito e danno… (Hegel, Lezioni di filosofia della
storia, I, 97)
La filosofia della storia
Gli individui cosmico-storici
Questi sono i grandi uomini della storia, quelli i cui propri fini
particolari contengono il sostanziale, che è volontà dello spirito del
mondo. Questo contenuto è la loro vera potenza, esso è nell’universale
istinto inconsapevole degli uomini. Essi sono spinti a ciò intimamente, e
non hanno altro modo di resistere a colui che ha assunto, nel proprio
interesse, l’esecuzione di un tale fine. I popoli piuttosto si uniscono
intorno alla sua bandiera: egli svela loro e reca in atto quel che era
impulso immanente della loro natura (Hegel, Lezioni di filosofia della
storia,)
G.W.F. Hegel, Epistolario:
Ho visto l’imperatore – quest’Anima del
mondo – cavalcare in ricognizione
attraverso la città; è davvero una sensazione
meravigliosa vedere un tale individuo, che
concentrato qui in un punto, dritto su di un
cavallo, conquista il mondo intero e lo
domina (1806).
G.W.F. Hegel, Epistolario:
Gli avvenimenti più universali (…) mi suscitano le più universali
considerazioni, che mi riportano nella sfera del pensiero i particolari singoli
e prossimi, per quanto questi possano interessare il sentimento. Io considero
che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d’ordine di avanzare;
un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile come una
falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento impercettibile del
sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si muovono
nell’uno e nell’altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure di che
si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano
invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici (…) a nulla servono; (…) Il
partito più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare
questo gigante che si avanza
G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:
La bandiera dello spirito libero (…) è la bandiera sotto cui
serviamo e che teniamo alta. Il tempo, da allora fino a noi,
non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori di
quella di incorporare questo principio nel mondo (IV, 151)
…Sembra che allo spirito del mondo sia ora riuscito di
sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva, e di
cogliersi infine come Spirito assoluto, di generare da sé ciò
che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di
tenerlo in suo potere.
G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:
…Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima
filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla
è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa
idea concreta è il risultato degli sforzi dello
spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più
serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e
per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam
cognoscere mentem (parafrasi virgiliana).
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale,
appunto per ciò è l’apprendimento di ciò ch’è presente e
reale, non la costruzione di un al di là, che sa Dio dove
dovrebbe essere, - o del quale di fatto si sa ben dire
dov’è, cioè nell’errore di un vuoto, unilaterale
raziocinare…
Ciò che è razionale è reale:
e ciò che è reale è razionale.
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
Quel che importa allora è conoscere, nella parvenza di ciò
ch’è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente
e l’eterno che è presente. Poiché il razionale, che è
sinonimo dell’idea, allorché esso nella sua realtà entra in pari
tempo nell’esistenza esterna, vien fuori in un’infinita
ricchezza di forme, fenomeni e configurazioni, e circonda il
suo nucleo con la scorza variopinta nella quale la coscienza
dapprima dimora, che soltanto il concetto trapassa, per
trovare il polso interno e pur nelle configurazioni esterne
sentirlo ancora battere…
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
…Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la
scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il
tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa
razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve
restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come
dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso
non può giungere a insegnare allo Stato come deve
essere, ma, piuttosto, in quale modo esso deve esser
riconosciuto come universo etico.
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
…Intendere ciò che è, è il compito della filosofia,
poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che
si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro,
figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio
tempo appreso col pensiero. E’ altrettanto folle
pensare che una qualche filosofia precorra il suo
mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci
indietro il suo tempo, e salti oltre…
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente, e la ragione come
realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa ed in essa
non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione,
che non si è liberata, e non si è fatta concetto. Riconoscere la ragione
come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale
riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la
filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna
esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva
in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà
soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in
qualcosa che è in sé e per sé
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
(…) Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere
il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del
mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il
concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima
l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso
costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in
forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro,
allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si
lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia
il suo volo sul far del crepuscolo.
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Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 3
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
K. Marx, Tesi su Feuerbach:
Undicesima tesi
I filosofi hanno solo interpretato il
mondo in modi diversi; si tratta però
di mutarlo.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Il compito della storia, una volta scomparso l’al di là della
verità, consiste quindi nello stabilire la verità dell’al di
qua. Compito della filosofia, che è al servizio della storia, è
lo smascheramento, dopo che la figura sacra
dell’estraneazione dell’uomo è già stata smascherata,
dell’autoestraneazione dell’uomo nelle figure non-sacre.
La critica del cielo si trasforma quindi nella critica della
terra, la critica della religione nella critica del diritto, la
critica della teologia nella critica della politica.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Il lato più profondo di Hegel sta nel fatto di
aver sentito come un contrasto la
separazione della società civile da quella
politica. Negativo è peraltro il fatto che egli
si accontenti di avere apparentemente
dissolto questo contrasto.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Per comportarsi quindi come un vero cittadino dello Stato, per
acquistare importanza ed efficacia politiche, egli deve uscire dalla sua
realtà civile, deve astrarsene e rientrare nella propria individualità,
abbandonando tutta questa organizzazione; l’unica esistenza infatti che
egli trova, per essere cittadino dello Stato, è la sua individualità nuda e
cruda, poiché l’esistenza dello Stato in quanto governo può fare a meno
dell’individuo, e la sua esistenza nella società civile prescinde da quella
dello Stato. Egli può essere cittadino dello Stato solo come individuo, e
in contrasto con queste uniche comunità sussistenti. La sua esistenza
come cittadino dello Stato è un’esistenza estranea alla sua esistenza
come uomo sociale, è cioè un’esistenza puramente individuale.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
I droits de l’homme, cioè i diritti dell’uomo, sono come tali
distinti dai droits du citoyen, cioè dai diritti del cittadino. Ma
chi è l’homme distinto dal citoyen? Nessun altro fuorché il
membro della società borghese. Perché dunque il membro
della società borghese diventa un uomo, l’uomo
semplicemente, è perché i suoi diritti sono chiamati diritti
dell’uomo? Come ci spieghiamo questo fatto? Certo in base
al rapporto tra Stato politico e società borghese, cioè in base
alla natura dell’emancipazione (soltanto) politica.
K. Marx, La questione ebraica (1844)
Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica dell’uomo in
quanto specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti
di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera
dello Stato, nella società borghese, ma come caratteristiche della società
civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo,
l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella
realtà, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità
politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita
nella società borghese nella quale agisce come uomo privato, che
considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e
diviene trastullo di forze estranee…
K. Marx, La questione ebraica (1844)
Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo
spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla terra. Rispetto ad essa si
trova nel medesimo contrasto, e la sovrasta nel medesimo modo in
cui la religione sovrasta la limitatezza del mondo profano, cioè
dovendo insieme riconoscerla restaurarla e lasciarsi da essa
dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l’uomo
è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come
individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato,
dove l’uomo vale come ente generico, egli è il membro immaginario
di una sovranità immaginaria, è spogliato della sua reale vita
individuale e riempito di una universalità irreale…
K. Marx, L’ideologia tedesca:
Il comunismo per noi non è uno stato di
cose che debba essere instaurato, un ideale
al quale la realtà dovrà conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente. Le
condizioni di questo movimento risultano
dal presupposto ora esistente.
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Lezione n. 4
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
K. Marx, L’ideologia tedescaQueste fantasie innocenti e puerili formano il nucleo della moderna
filosofia giovane-hegeliana, che in Germania non soltanto è accolta dal
pubblico con orrore e reverenza, ma è anche messa in circolazione dagli
stessi eroi filosofici con la maestosa coscienza della sua criminosa
spregiudicatezza. Il primo volume di questa pubblicazione ha lo scopo
di smascherare queste pecore che si credono lupi e che tali vengono
considerate, di mostrare come esse altro non fanno che tener dietro, con
i loro belati filosofici, alle idee dei borghesi tedeschi, come le bravate di
questi filosofici esegeti rispecchino semplicemente la meschinità delle
reali condizioni tedesche. Essa ha lo scopo di mettere in ridicolo e di
toglier credito alla lotta filosofica con le ombre della realtà, che va a
genio al sognatore e sonnacchioso popolo tedesco…
K. Marx, L’ideologia tedesca
I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non
sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può
astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui
reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di
vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti
quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi
presupposti sono dunque constatabili per via puramente
empirica.
K. Marx, L’ideologia tedescaIl primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di
individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque
l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue,
verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci
nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni
naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche,
climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi
naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli
uomini.
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la
religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli
animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un
progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i
loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa
vita materiale.
K. Marx, L’ideologia tedesca
Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza
dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che
essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di
produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione
dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo
determinata dell’attività di questi individui, un modo determinato
di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli
individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono
coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che
producono quanto col modo come producono. Ciò che gli
individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della
loro produzione.
K. Marx, L’ideologia tedesca
La divisione del lavoro offre anche il primo esempio del
fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società
naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra
interesse particolare e interesse comune, fin tanto che
l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma
naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una
potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,
invece di essere da lui dominata.
K. Marx, L’ideologia tedesca
Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha un
sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e
dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o
critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere,
laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera
di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a
piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal
modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani
quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la
sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien
voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né
critico.
K. Marx, L’ideologia tedescaQuesto fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio
prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al
nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri
calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo
storico. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine
attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione
del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è
volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come
una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno
donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al
contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la
quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige
questo volere e questo agire…
Struttura e sovrastrutturaAvevo cominciato lo studio di questa scienza a Parigi, e lo continuai
a Bruxelles, dove ero emigrato in seguito ad un decreto di espulsione
del sig. Guizot. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta
acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere
brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro
esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari,
indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che
corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze
produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale
sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla
quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.
Struttura e sovrastruttura
Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in
generale, il processo sociale, politico e spirituale della
vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il
loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che
determina la loro coscienza. A un dato punto del loro
sviluppo, le forze produttive materiali della società
entrano in contraddizione con i rapporti di produzione
esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono
l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per
l’innanzi s’erano mosse.
Struttura e sovrastruttura
La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della
coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata
all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini,
linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri,
lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora
come emanazione diretta del loro comportamento
materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione
spirituale quale essa si manifesta nel linguaggio della
politica, delle leggi, della morale, della religione, della
metafisica, ecc. di un popolo.
F. Engels, Lettera a Joseph Bloch (1890):Secondo la concezione marxista della storia la produzione e riproduzione
della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di
più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce
quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere
l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta
insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i
diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di
classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa
dopo una battaglia vinta, ecc. – le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di
tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie
politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo
sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul
decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo
preponderante la forma. .
F. Engels, Lettera a Joseph Bloch (1890):
E’ un’azione reciproca di tutti questi momenti, in cui
alla fine il movimento economico si impone come
fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti
casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così
vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare
come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario,
applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe
certo più facile che risolvere una semplice equazione di
primo grado.
F. Engels, Lettera a Joseph Bloch (1890):
Ci facciamo da noi la nostra storia, ma, innanzitutto, a presupposti e condizioni
assai precisi. Tra di essi quelli economici sono in fin dei conti decisivi. Ma
anche quelli politici, ecc., anzi addirittura la tradizione che vive nelle teste degli
uomini ha la sua importanza, anche se non decisiva… Ma in secondo luogo la
storia si fa in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di
molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta è resa quel che è da una
gran quantità di particolari condizioni di vita; sono perciò innumerevoli forze
che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogrammi di forze, da
cui scaturisce una risultante – l’avvenimento storico – che a sua volta può esser
considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità, in modo
non cosciente e non volontario. Infatti quel che ogni singolo vuole è ostacolato
da ogni altro, e quel che ne viene fuori è qualcosa che nessuno ha voluto. Così
la storia, quale è stata finora, si svolge a guisa di un processo naturale, ed
essenzialmente è soggetta anche alle stesse leggi di movimento…
Il concetto di ideologia
Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc.,
ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un
determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni
che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La
coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dall’essere
cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro
vita. Se nell’intera ideologia gli uomini appaiono capovolti come
in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo
storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli
oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico…
(L’ideologia tedesca, p. 13)
Il concetto di ideologiaEsattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che
discende dal cielo alla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si
parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né
da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per
arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente
operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo
sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita.
Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono
necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita,
empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di
conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma
ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non
conservano oltre la parvenza dell’autonomia.
Il concetto di ideologiaEsse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che
sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali
trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i
prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma
la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte
dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che
corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si
considera la coscienza soltanto come la loro coscienza.
Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai
presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi
presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati
fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed
empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate.
Il concetto di ideologia
Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso
muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo
istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche
modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo
di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto
condizioni determinate. Non appena viene rappresentato
questo attivo processo vitale, la storia cessa di essere una
raccolta di morti dati di fatto, come avviene per gli empiristi,
pur essi ancora astratti, oppure un’azione immaginaria di
soggetti immaginari, come avviene per gli idealisti.
(L’ideologia tedesca, pp. 12 s.).
Il concetto di ideologia
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti;
cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari
tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei
mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei
mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono
assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione
intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale
dei rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque
l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe
dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che
compongono la classe dominante posseggono tra l’altro anche la
coscienza, e quindi pensano… (L’ideologia tedesca, pp. 35 s.)
Marx, Il Capitale
Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto
di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente
proprio da tale forma. L’eguaglianza dei lavori umani
riceve la forma reale dell’eguale oggettività di valore dei
prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro
umana mediante la sua durata temporale riceve la forma
della grandezza di valore dei prodotti del lavoro, infine i
rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle
determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma di
un rapporto sociale dei prodotti del lavoro.
Marx, Il Capitale
L’arcano della forma merce consiste dunque semplicemente
nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli
uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio
lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei
prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di
quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del
rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo,
facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti
esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid
pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose
sensibilmente soprasensibili, cioè cose sociali.
Marx, Il Capitale
Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica
di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale
determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per
trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione
nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello
umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che
stanno in rapporto tra loro e in rapporto con gli uomini. Così,
nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umano.
Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del
lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è
inseparabile dalla produzione delle merci (I, I, 4)
Marx, Il Capitale
In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e
quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada
opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e
quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di
svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro
l’impronta di merci, e quindi sono il presupposto della
circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme
naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di
rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme,
che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro
contenuto (Vol. I, p. 107)
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 5
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
Marx, Il CapitaleIl vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che
il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e
punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è
solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione
sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per
la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la
conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda
sull’espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori,
questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di
produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e
che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione
come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive
sociali del lavoro.
Marx, Il Capitale
Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze
produttive sociali – viene permanentemente in conflitto
con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale
esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi
un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva
materiale e la creazione di un corrispondente mercato
mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante
tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione
sociali che gli corrispondono (Vol. III, p. 303).
Marx, Il Capitale
Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce
costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da
essa messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione
consumati produttivamente) anche la parte di questo lavoro
vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore, dovrà
essere in proporzione costantemente decrescente rispetto al
valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto
tra la massa del plusvalore e il valore del capitale
complessivo impiegato costituisce però il saggio del profitto,
che dovrà per conseguenza diminuire costantemente (Vol. III,
p. 261).
Per la critica dell’economia politica (1859):
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in
rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in
rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di
sviluppo delle loro forze produttive materiali. (…) A un dato punto
del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano
in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i
rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica)
dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti,
da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro
catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il
cambiamento della base economica si sconvolge più o meno
rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.
Per la critica dell’economia politica (1859):
(…) Una formazione sociale non perisce finché non si siano
sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che
siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali
della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non
quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose
dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le
condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno
sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico,
antico, feudale e borghese moderno possono essere designati
come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società.
Il Capitale:
Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano
e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la
massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione,
dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che
sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso
meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale
diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e
sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione
del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro
involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della
proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. (…) La
produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttibilità di un processo
naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 6
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
F. Nietzsche, Umano, troppo umano:
L’immediata osservazione di sé è ben
lungi dal bastare per conoscere se
stessi: abbiamo bisogno della storia,
giacché il passato continua a scorrere in
noi in cento onde …
F. Nietzsche, Umano, troppo umano:
Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e che allo stadio attuale delle
singole scienze può esserci concesso, è una chimica delle idee e
dei sentimenti, morali, religiosi, estetici, come pure di tutte quelle
emozioni che sperimentiamo in noi nel grande e piccolo
commercio con la cultura e la società e persino nella solitudine:
ma che accadrebbe, se questa chimica finisse per concludere che
anche in questo campo i colori più belli sono quelli che si ricavano
da una materia umile, e persino spregiata? Quanti avranno voglia
di seguire tali indagini? L'umanità ama fugare dalla propria mente
gli interrogativi sull'origine e sugli inizi: non si deve forse essere
quasi disumanizzati per sentire in sé l'inclinazione contraria?
F. Nietzsche, Genealogia della morale:
L’apparizione del Dio cristiano… ha… fatto comparire sulla terra
nella più grande misura possibile il sentimento della colpa.
Supponendo che noi siamo ora entrati in un movimento contrario,
sarebbe quindi lecito… dedurre dall’inarrestabile decadenza della
fede nel Dio cristiano che già ora vi sia una notevole decadenza
della coscienza umana della colpa; non è anzi scartabile l’ipotesi
che la completa e definitiva vittoria dell’ateismo possa liberare
l’umanità da questo sentimento di essere in colpa verso il suo
principio, la sua causa prima. L’ateismo e una specie di seconda
innocenza sono due termini connessi.
F. Nietzsche, Ecce Homo:
Tra le cose che possono portare un pensatore alla disperazione è il
riconoscere che l’uomo ha bisogno dell’illogicità, e che dall’illogicità
nascono molte cose buone. Essa è piantata così saldamente nelle
passioni, nella lingua, nell’arte, nella religione e in genere in tutto ciò
che conferisce valore alla vita, che non la si può estirpare senza
danneggiare con ciò irreparabilmente queste belle cose.
L’errore ha reso l’uomo così profondo, delicato e inventivo da produrre
un tal fiore come le religioni e le arti. Il puro conoscere non sarebbe
stato in grado di farlo. Chi ci svelasse l’essenza del mondo causerebbe
in noi tutti la più spiacevole delusione. Non il mondo come cosa in sé,
bensì il mondo come rappresentazione (come errore) è così ricco di
significato, così profondo e meraviglioso, e reca in senso tanta felicità e
infelicità.
F. Nietzsche:
Un grado, certo molto elevato, di cultura è raggiunto quando
l’uomo si libera dalle idee e dalle paure superstiziose e
religiose… Se egli è a questo grado di liberazione, gli resta
ancora da superare con la massima tensione della sua
riflessione la metafisica. Poi però è necessario un movimento
all’indietro: egli deve capire la giustificazione storica, come
pure quella psicologica di tali rappresentazioni, deve
riconoscere come sia di là venuto il maggior progresso
dell’umanità e come senza un tale movimento all’indietro, ci
si priverebbe dei migliori risultati finora ottenuti
dall’umanità.
F. Nietzsche:
Che non ci sia verità; che non ci sia una
costituzione assoluta delle cose, una “cosa
in sé”; - ciò stesso è nichilismo, è anzi il
nichilismo estremo (Frammenti postumi
1887-88, pp. 13 s.).
L’eterno ritorno:
Quale che sia lo stato che questo mondo può raggiungere, deve averlo
già raggiunto, e non una ma infinite volte. Così questo attimo: esso era
già qui una volta e molte volte e parimenti ritornerà, tutte le forze
distribuite esattamente come ora; lo stesso avviene per l’attimo che ha
generato questo e per quello che sarà il figlio dell’attimo attuale. Uomo!
La tua vita intera, come una clessidra, sarà di nuovo capovolta, e sempre
di nuovo si vuoterà – un grande minuto di tempo frammezzo, finché
tutte le condizioni dalle quali tu sei divenuto, nel corso circolare
cosmico, si verificano di nuovo. E allora troverai di nuovo ogni dolore e
ogni piacere e ogni amico e nemico e ogni speranza e ogni errore e ogni
filo d’erba e ogni raggio di sole, la connessione totale di tutte le cose.
(Frammenti postumi, 1881).
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
Oggi i filosofi, partendo dallo spirito della
funzione, riflettono su come trasformare
l’umanità in un organismo – è l’opposto della mia
tendenza: il numero maggiore possibile di
organismi diversi e che si trasformano, i quali,
giunti alla loro maturità e putrefazione, lasciano
cadere il loro frutto: gli individui, dei quali certo
la maggior parte perisce; ma solo i pochi contano
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
La terra è divenuta piccola, e su di essa saltella l’ultimo
uomo, che rende piccola ogni cosa. La sua stirpe è
inestinguibile come quella degli scarafaggi; l’ultimo
uomo vivrà molto a lungo… Non si diventa ormai più né
poveri né ricchi: entrambe le cose costano troppa fatica.
Chi vuole ancora regnare? Chi vuole ancora obbedire?
Entrambe le cose sono troppo gravose. Nessun pastore e
un solo gregge! Ognuno vuole allo stesso modo, tutti
sono eguali: chi sente in maniera diversa se ne va
spontaneamente al manicomio.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
Un tale spirito divenuto libero sta al centro del
tutto con un fatalismo gioioso e fiducioso, nella
fede che soltanto sia biasimevole quel che se ne
sta separato, che ogni cosa si redima e si affermi
nel tutto – egli non nega più. Ma una fede siffatta
è la più alta di tutte le fedi possibili: l’ho
battezzata col nome di Dioniso.
F. Nietzsche, Ecce Homo:
Io conosco la mia sorte. Si legherà un giorno al
mio nome il ricordo (…) di una crisi, come non
ce ne fu un’altra simile sulla Terra, al più
profondo conflitto di coscienza, ad una decisione,
proclamata contro tutto ciò che sinora era stato
creduto, richiesto, consacrato. Io non sono un
uomo, sono una dinamite…
F. Nietzsche, Ecce Homo:
Io contraddico come mai è stato contraddetto, e malgrado
ciò sono l’antitesi di uno spirito negatore… Con tutto ciò
sono necessariamente pure un uomo del destino. E infatti, se
la verità entra in lotta con la menzogna di millenni, avremo
di tali scuotimenti, tali convulsioni di terremoto che mai
erano state neppure sognate. Il concetto di politica è ora
entrato completamente in una guerra tra spiriti, tutte le forme
di dominio della vecchia società sono saltate in aria – esse
riposano tutte quante sulla menzogna; ci saranno guerre
come non ce ne sono state mai sulla terra. Solo da me
comincia sulla terra la grande politica.
F. Nietzsche:
La mia opera ha tempo e non voglio essere per nulla
scambiato con ciò che il presente ha da risolvere come
proprio compito. Tra cinquant’anni, forse, alcuni (…)
avranno occhi per vedere ciò che da me è stato
compiuto. Ma al presente non è soltanto difficile, ma
assolutamente impossibile (…) parlare di me
pubblicamente senza rimanere illimitatamente dietro la
verità.
F. Nietzsche, La volontà di potenza :
Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io
descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire:
l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere
raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo
futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia
dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono
già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove da
lungo tempo in una torturante tensione che cresce di decenni in
decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta,
precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine,
che non riflette più e ha paura di riflettere.
F. Nietzsche, La volontà di potenza :
– Chi prende qui la parola non ha fatto, invece, altro
sinora che riflettere: come filosofo e solitario di istinto
che ha trovato il proprio vantaggio nello starsene
appartato ed estraneo, nel pazientare, nel differire; come
uno spirito che osa osare e tentare, e già si è smarrito una
volta in ogni labirinto del futuro; (…) che guarda
indietro quando racconta ciò che dovrà avvenire; come il
primo compiuto nichilista europeo, che però ha già
vissuto dentro di sé sino all’esaurimento il nichilismo
stesso, e lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé.
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male:Trattenerci reciprocamente dall’offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, stabilire
un’eguaglianza tra la propria volontà e quella dell’altro: tutto questo può, in un
certo qual senso grossolano, divenire una buona costumanza tra individui, ove ne
siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva somiglianza in quantità di forza
e in misure di valore, nonché la loro mutua interdipendenza all’interno di
un unico corpo). Ma appena questo principio volesse guadagnare ulteriormente
terreno, addirittura, se possibile, come principio basilare della società, si
mostrerebbe immediatamente per quello che è: una volontà di negazione della vita,
un principio di dissoluzione e di decadenza. Su questo punto occorre rivolgere
radicalmente il pensiero al fondamento e guardarsi da ogni debolezza sentimentale:
la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è
estraneo e piú debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un
incorporare o per lo meno, nel piú temperato dei casi, uno sfruttare – ma a che
scopo si dovrebbe sempre usare proprio queste parole, sulle quali da tempo
immemorabile si è impressa un’intenzione denigratoria?
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male:Anche quel corpo all’interno del quale, come è stato precedentemente ammesso, i singoli si
trattano da eguali – ciò accade in ogni sana aristocrazia – deve anch’esso, ove sia un corpo
vivo e non moribondo, fare verso gli altri corpi tutto ciò da cui vicendevolmente si astengono
gli individui in esso compresi: dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà
di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza – non trovando in una
qualche moralità o immoralità il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e
perché la vita è precisamente volontà di potenza. In nessun punto, tuttavia, la coscienza
comune degli Europei è piú riluttante all’ammaestramento di quanto lo sia a questo proposito;
oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto scientifici travestimenti, di condizioni di là da
venire della società, da cui dovrà scomparire il suo “carattere di sfruttamento” – ciò suona alle
mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si astenesse da ogni funzione
organica. Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva:
esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una
conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. –
Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la
storia: si sia fino a questo punto sinceri verso se stessi!
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
Non sarebbe dunque per il movimento democratico una specie
di scopo, di redenzione e di giustificazione, il fatto che venisse
qualcuno a servirsi di esso, e che attraverso questa nuova (…)
configurazione della schiavitù (…) trovasse la sua strada quella
specie superiore di spiriti dominatori e cesarei, che su tutto ciò
si appoggerebbe, si sosterrebbe e potrebbe innalzarsi’ (…)
L’aspetto dell’attuale Europeo mi dà molte speranze: va
formandosi una audace razza dominatrice sulla base di una
massa estremamente intelligente… Le stesse condizioni che
favoriscono lo sviluppo dell’animale del gregge provocano
anche la formazione dell’animale capo.
F. Nietzsche:
Chi ha conservato ed ha educato in sé una forte volontà,
e possiede al tempo stesso uno spirito ampio, gode di
possibilità più favorevoli che mai in precedenza. La
plasmabilità degli uomini è infatti diventata grandissima
in questa Europa democratica; uomini che imparano
facilmente e si adattano facilmente rappresentano la
regola: l’animale del gregge, per di più assai intelligente,
è preparato. Chi può comandare trova quelli che
debbono ubbidire.
F. Nietzsche:
In tali condizioni, quali sono presentate alla nostra civiltà, di
movimenti eccessivi per il ritmo e per i mezzi spiegati, il centro di
gravità degli uomini si sposta… In questo caso il centro di gravità cade
necessariamente sui mediocri: la mediocrità, in quanto garanzia e
portatrice dell’avvenire, si consolida contro il dominio della plebe e
dell’eccentricità (per lo più collegate tra loro). Dal che sorge per gli
uomini di eccezione un nuovo avversario, o anche una nuova seduzione.
Posto che essi non si adattino alla plebe e non cantino le loro poesie per
compiacere all’istinto dei diseredati, dovranno essere necessariamente
«mediocri» e «solidi»… Ancora una volta (…) tutto quanto il mondo
completamente esaurito dell’ideale viene ad ottenere una pregiata
difesa… Risultato: la mediocrità acquista spirito, arguzia, genio, diventa
divertente, seduce…
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Lezione n. 7
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
In passato l’anima guardava al corpo con
disprezzo: e questo disprezzo era allora la
cosa più alta: - essa voleva il corpo
macilento, orrido, affamato. Pensava in tal
modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra.
Ma quest’anima era anch’essa macilenta,
orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di
quest’anima (pp. 6-7).
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra:
’Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa
parola. Ma la cosa ancora più grande,
cui tu non vuoi credere – il tuo corpo e
la sua grande ragione: essa non dice
‘io’, ma fa ‘io’ (p. 34).
F. Nietzsche, Frammenti postumi:
Tutto ciò che entra nella coscienza costituisce
l’ultimo anello di una catena, di una chiusura.
Che un pensiero sia immediatamente causa di un
altro pensiero, è cosa solo apparente. I veri
avvenimenti concatenati si svolgono al di sotto
della nostra coscienza: le serie e successioni di
sentimenti, pensieri, eccetera, che si producono,
sono solo sintomi del vero accadere.
F. Nietzsche, Frammenti postumi:
E anche quei piccolissimi esseri viventi che
costituiscono il nostro corpo (o meglio: del cui
cooperare ciò che chiamiamo corpo è la migliore
immagine) non sono per noi atomi spirituali, ma
qualcosa che cresce, lotta, si accresce e a sua
volta muore: sicché il loro numero muta in modo
variabile, e la nostra vita è, come qualunque vita,
in pari tempo, un continuo morire
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Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 8
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
G. Le Bon, Psicologia delle folle:Ciò che più colpisce in una folla psicologica è il fatto che gli individui
che la compongono – indipendentemente dal tipo di vita,
dall’occupazione, dal temperamento o dall’intelligenza - acquistano una
sorta di anima collettiva per il solo fatto di appartenere alla folla. Tale
anima li fa sentire, pensare ed agire in un modo del tutto diverso da
come ciascuno di loro – isolatamente – sentirebbe, penserebbe e
agirebbe.
Certe idee, certi sentimenti non sorgono o non si trasformano in atti se
non negli individui che costituiscono folla. La folla psicologica é un
essere provvisorio, composto di elementi eterogenei per un istante uniti
fra loro, proprio come le cellule di un corpo vivente che con la loro
unione formano un essere umano il quale manifesta caratteri assai
diversi da quelli che ognuna di quelle cellule possiede.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:
I nostri atti incoscienti derivano da un substrato incosciente formato specialmente da influenze
ereditarie. Questo substrato racchiude gli innumerevoli residui atavici che costituiscono l'anima
della razza. Dietro le cause palesi dei nostri atti, si trovano cause segrete, ignorate da noi. La
maggior parte delle nostre azioni quotidiane sono effetto dei moventi nascosti che ci sfuggono.
Specialmente per gli elementi incoscienti che compongono l'anima di una razza, tutti gli individui
di questa razza si assomigliano. Per gli elementi coscienti, frutto dell'educazione, ma soprattutto di
un'eredità eccezionale, essi differiscono. Gli uomini più dissimili per intelligenza hanno istinti,
passioni, sentimenti a volte identici. In tutto ciò che é materia di sentimento : religione, politica,
morale, affezioni, antipatie, ecc., gli uomini più eminenti non superano che assai raramente il
livello degli individui comuni. Tra un celebre matematico e il suo calzolaio può esistere un abisso
sotto il rapporto intellettuale, ma dal punto di vista del carattere e delle credenze la differenza é
spesso nulla o lievissima Ora, queste qualità generiche del carattere, guidate dall'incosciente e
possedute press'a poco allo stesso grado dalla maggior parte degli individui normali di una razza,
sono precisamente quelle che, nelle folle, si trovano messe in comune. Nell'anima collettiva, le
attitudini intellettuali degli uomini, e per conseguenza la loro individualità, si cancellano.
L'eterogeneo si sommerge nell'omogeneo, e le qualità incoscienti dominano.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:Diverse cause determinano l'apparizione dei caratteri particolari alle folle. La prima
consiste nel conferire agli individui di una folla, per il solo fatto del numero, un
sentimento di potenza invincibile che permette loro di cedere agli istinti, che
individui isolati avrebbero saputo frenare. L'individuo cederà tanto più volontieri
inquantoché nella folla, essendo essa anonima, e di conseguenza irresponsabile, il
sentimento della responsabilità che sempre trattiene gli individui, scompare
completamente.
Una seconda causa, il contagio mentale, interviene ugualmente per determinare
nelle folle la manifestazione di caratteri speciali e nello stesso tempo il loro
orientamento. Il contagio é un fenomeno facile a constatarsi, ma non ancora
spiegato, e che bisogna ricollegare a fenomeni di ordine ipnotico. (…) In una folla,
ogni sentimento, ogni atto è contagioso, e contagioso a tal punto che l'individuo
sacrifica il suo interesse personale all'interesse collettivo. E questa un'attitudine
contraria alla sua natura, e di cui l'uomo non diventa affatto capace se non
allorquando fa parte di una folla.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:
Una terza causa, e assai più importante,
determina negli individui in folla dei
caratteri speciali a volte intensamente
opposti a quelli dell'individuo isolato.
Voglio dire della suggestionabilità, il cui
contagio, sopra menzionato, non é del resto
che un effetto.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:
(…) Delle attente osservazioni sembrano provare che l'individuo,
tuffato da qualche tempo in seno ad una folla in fermento, cade in
breve in seguito agli effluvi che ne sprigionano, o per altra causa
ancora ignorata - in uno stato particolare, simile assai allo stato di
fascinazione dell'ipnotizzato tra le mani del suo ipnotizzatore.
Essendo, nell'ipnotizzato, paralizzata la vita del cervello, egli
diventa lo schiavo di tutte le attività incoscienti che l'ipnotizzatore
dirige a suo talento. La personalità cosciente é svanita, la volontà
e il discernimento aboliti.
Sentimenti e pensieri sono allora orientati nel senso determinato
dall'ipnotizzatore.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:Questo é all'incirca lo stato dell'individuo che fa parte della folla. Egli
non é più cosciente dei suoi atti. In lui, come nell'ipnotizzato, mentre
certe facoltà sono distrutte, altre possono essere condotte a un grado
estremo di esaltazione. L'influenza di una suggestione lo lancerà con
una imperiosità irresistibile verso il compimento di certi atti.
Impetuosità più irresistibile ancora nelle folle che nei soggetti
ipnotizzati, poiché la suggestione, essendo la stessa per tutti gli
individui, straripa diventando reciproca. Le unità di una folla che
posseggono una personalità abbastanza forte per resistere alla
suggestione, sono in numero troppo esiguo e la corrente le trascina.
Tutt'al più esse potranno tentare una diversione per una diversa
suggestione. Una parola felice, una immagine evocata hanno a volte
sviato la folla dagli atti più sanguinari.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:Dunque, annullamento della personalità cosciente, predominio della
personalità incosciente, orientamento per via della suggestione e di
contagio dei sentimenti e delle idee in un medesimo senso, tendenza a
trasformare immediatamente in atti le idee suggerite: tali sono i principali
caratteri dell'individuo nella folla. Egli non é più sé stesso, ma un automa
diventato impotente a guidare la propria volontà.
Per il solo fatto di far parte di una folla, l'uomo discende di parecchi gradi
la scala della civiltà. Isolato, sarebbe forse un individuo colto, nella folla è
un istintivo, per conseguenza un barbaro. Egli ha la spontaneità, la
violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri
primitivi. Si fa simile ad essi anche per la sua facilità a lasciarsi
impressionare da parole, immagini, e guidare ad atti che ledono i suoi
interessi più evidenti. L'individuo della folla é un granello di sabbia in
mezzo ad altri granelli di sabbia che il vento solleva a suo capriccio.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:Non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti, si tratti d'un
branco di animali o di una folla d'uomini, si mettono istintivamente
sotto l'autorità di un capo, cioè di una guida.
Nelle folle umane, il caporione ha una parte notevole. La sua volontà é
il nodo intorno a cui si formano e si identificano le opinioni. La folla é
un gregge che non potrebbe far a meno di un padrone. Il condottiero
quasi sempre é stato prima un fanatico ipnotizzato dall'idea di cui in
seguito s'é fatto apostolo. Quest'idea ha talmente invaso che tutto
sparisce all'infuori di essa, e tutte le opinioni contrarie gli sembrano
errori e superstizioni. Così Robespierre, ipnotizzato dalle sue chimeriche
idee, e che adoperò i procedimenti dell'Inquisizione per propagarle.
G. Le Bon, Psicologia delle folle:
Gli agitatori tendono oggi a sostituire progressivamente i poteri
pubblici a misura che questi ultimi si lasciano discutere e
indebolire. Grazie alla loro tirannia, questi nuovi padroni
ottengono dalle folle una docilità completa che nessun governo
può ottenere. Se, per un incidente qualsiasi, il condottiero sparisce
e non é subito sostituito, la folla ridiventa una collettività senza
coesione né resistenza. Durante lo sciopero dei conducenti
d'omnibus a Parigi, fu sufficiente arrestare i due agitatori che lo
dirigevano, per farlo subito cessare. L'anima delle folle é sempre
dominata dal bisogno di servitù e non da quello di libertà. La
sete di obbedienza le fa sottomettere d'istinto a chi si dichiara
loro padrone.
S. Freud, Psicologia di massa è analisi
dell’io:
"Finché la formazione collettiva persiste e fin dove si
estende il suo dominio, gli individui si comportano come
se fossero omogenei, tollerano il modo di essere
peculiare dell'altro, si considerano uguali a lui e non
provano nei suoi confronti alcun sentimento di
avversione. In base alle nostre concezioni teoriche, tale
limitazione del narcisismo può essere il prodotto di un
solo fattore: il legame libidico con gli altri. L'amore per
se stessi trova un limite solo nell'amore esterno,
nell'amore volto agli oggetti".
S. Freud, Psicologia di massa è analisi
dell’io:
Per quanto riguarda il rapporto con il capo, esso va
ricondotto all'identificazione, che è " la prima manifestazione
di un legame emotivo con un'altra persona" e "tende a
configurare il proprio Io alla stregua dell'Io della persona
assunta come modello", determinando dunque la produzione
dell'ideale dell'Io.
«Il legame reciproco tra gli individui componenti la massa ha
la natura di tale identificazione dovuta a un importante
aspetto affettivo posseduto in comune. Si può supporre che
questa cosa in comune sia il tipo di legame istituito con il
capo».
S. Freud, Psicologia di massa è analisi
dell’io:
La “formula della costituzione libidica della
massa”:
“Una massa è un insieme di individui che
hanno assunto a loro ideale dell’Io lo stesso
oggetto e che pertanto si sono identificatio
gli uni negli altri nel loro Io”.
S. Freud, Psicologia di massa è analisi
dell’io:
"La massa ci appare quindi come una reminiscenza dell'orda
primordiale. Come in ogni singolo è virtualmente conservato
l'uomo primigenio, così a partire da un raggruppamento umano
qualsivoglia può ricostituirsi l'orda primordiale; nella misura in
cui la formazione collettiva domina abitualmente gli uomini, in
essa riconosciamo la continuazione dell'orda primordiale.
Dobbiamo concludere che la psicologia della massa è la
psicologia più antica: ciò che, omettendo tutti i residui collettivi,
abbiamo isolato come psicologia individuale, si è venuto
staccando dalla vecchia psicologia collettiva solo in un secondo
tempo, gradualmente e in un certo senso in modo tuttora parziale".
S. Freud, Psicologia di massa è analisi
dell’io:
"Il carattere perturbante, costrittivo, della formazione
collettiva, il quale è manifesto nei fenomeni di suggestione
che la contraddistinguono, può quindi venir con ragione
ricondotto alla sua derivazione dall'orda primordiale. Il
capo della massa è ancora sempre il temuto padre
primigenio, la massa continua a voler essere dominata da
una violenza senza confini, è sempre sommamente avida
di autorità, ha, secondo l’espressione di Le Bon, sete di
sottomissione. Il padre primigenio è l'ideale della massa
che domina l'Io anziché l'Ideale dell'Io".
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 9
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
Max Weber:
«Come ogni altra attività, l’attività sociale può essere
determinata:
1) In modo razionale rispetto allo scopo (zweckrational),
attraverso delle aspettative concernenti i comportamenti
degli oggetti del mondo esteriore o quelli degli altri uomini;
2) In modo razionale rispetto al valore (wertrational) attraverso
la credenza cosciente nel valore intrinseco di un
comportamento – di ordine etico, estetico, religioso o altro –
indipendentemente dal successo sperato;
3) Secondo gli affetti (in particolare le emozioni), a partire dalle
passioni e dai sentimenti specifici degli attori;
4) Secondo la tradizione, in virtù di abitudini inveterate».
Max Weber:
«Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo
colui che orienta il suo agire allo scopo, ai
mezzi e alle conseguenze concomitanti,
misurando razionalmente i mezzi in rapporto
agli scopi, gli scopi in rapporto alle
conseguenze ed infine anche i diversi scopi
possibili in rapporto reciproco: in ogni caso
egli non agisce quindi né affettivamente né
tradizionalmente»
Il «politeismo dei valori»:
«Tra i valori (…) si tratta in ultima
analisi, ovunque e sempre, non già di
semplici alternative, ma di una lotta
mortale senza possibilità di
conciliazione, come tra ‘dio’ e il
‘demonio’».
Max Weber:Uno degli elementi costitutivi dello spirito capitalistico moderno (e
non soltanto di questo, ma della civiltà moderna), ossia la condotta
razionale della vita sul fondamento dell’idea di professione, è nato
(…) dallo spirito dell’ascesi cristiana… Quando infatti l’ascesi fu
trasferita dalle celle dei monaci alla vita professionale e cominciò a
dominare l’eticità intra-mondana, essa cooperò per la sua parte
all’edificazione di quel possente cosmo dell’ordinamento economico
moderno, legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione
meccanica, che oggi determina con strapotente forza coercitiva – e
forse continuerà a determinare finché non sarà bruciato l’ultimo
quintale di combustibile fossile – lo stile di vita di tutti gli individui
nati in questo ingranaggio, e non soltanto di quelli direttamente attivi
nell’acquisizione economica.
Max Weber:
Secondo l’opinione di Richard Baxter, la cura per i beni
esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi soltanto come
un ‘sottile mantello che si possa gettar via in ogni momento’.
Ma il destino fece del mantello una gabbia di acciaio. Mentre
l’ascesi intraprendeva lo sforzo di trasformare il mondo e di
esercitare la sua influenza nel mondo, i beni esteriori di questo
mondo acquistavano un potere crescente e, alla fine,
ineluttabile sull’uomo, come mai prima nella storia. Oggi il suo
spirito – chissà se per sempre – è fuggito da questa gabbia. In
ogni caso il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una
base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno.
Max Weber:
Nessuno sa chi in futuro abiterà in quella gabbia e se, alla
fine di questo enorme sviluppo, vi saranno profeti
interamente nuovi o una potente rinascita di principi e di
ideali antichi, oppure ancora – escludendo l’una e l’altra
alternativa – una pietrificazione meccanizzata, adornata di
una specie di convulso desiderio di sentirsi importante.
Allora, certo, per gli ‘ultimi uomini’ di questo sviluppo
culturale potrebbe diventare verità il principio: ‘specialisti
senza spirito, gaudenti senza cuore – questo nulla
s’immagine di essere salito a un grado mai prima raggiunto
di umanità.
Max Weber: la teoria politica
Con Macht si intende «ogni possibilità di
imporre la propria volontà all’interno di una
relazione sociale anche contro eventuali
resistenze, qualunque sia il suo fondamento».
Herrschaft è «la possibilità di trovare
obbedienza ad un comando di contenuto
determinato da parte di qualsivoglia persona»
Max Weber: la teoria politica
«Gli agenti possono accordare a un ordine una validità
legittima:
a)In virtù della tradizione: validità di ciò che è sempre
stato;
b)In virtù di una credenza di ordine affettivo (del tutto
emozionale): validità della nuova rivelazione o
dell’esemplarità;
c)In virtù di una credenza razionale secondo dei valori:
validità di ciò che si ritiene essere un assoluto;
d)In virtù di uua disposizione positiva, alla legalità della
quale si crede».
Max Weber: la teoria politica
«Ci sono tre tipi di dominazione legittima. La validità di questa legittimità
si può basare:
1)Su dei motivi razionali, che si basano sulla credenza nella legalità dei
regolamenti emanati e del diritto di dare delle direttive che hanno coloro
che sono chiamati a esercitare l’autorità con questi mezzi (autorità legale);
2)Su dei motivi tradizionali, che poggiano sulla credenza quotidiana nella
santità delle tradizioni immemoriali nella legittimità di coloro che sono
chiamati ad esercitare l’autorità attraverso tali mezzi (autorità tradizionale);
3)Su dei motivi carismatici, che poggiano sulla devozione nei confronti
della santità eccezionale, della virtù eroica o del carattere esemplare di una
persona individuale, o ancora che emanano da ordini rivelati o emanati da
quella (autorità carismatica)».
L’ « etica della convinzione» e l’
«etica della responsabilità»:
L’uomo dell’etica della responsabilità (…) mette in conto proprio
quei difetti riscontrabili nella media degli uomini, (…) non si
sente autorizzato a scaricare sugli altri le conseguenze del suo
operare, nella misura in cui egli le poteva prevedere. (…) L’uomo
dell’etica della convinzione si sente «responsabile» solo riguardo
a che il fuoco della pura convinzione non si spenga, il fuoco ad
esempio della protesta contro l’ingiustizia dell’ordine sociale.
Ravvivare di continuo questo fuoco è lo scopo delle sue azioni del
tutto irrazionali, se giudicate a partire dal possibile successo, le
quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare… (M.
Weber, La politica come professione)
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 10
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
(…) La mobilitazione parziale corrisponde (…)
all’essenza della monarchia, la quale oltrepassa i propri
limiti precisamente in quanto è costretta a coinvolgere
nell’armamento le forme astratte dello spirito, del
denaro, del ‘popolo’, in breve le potenze della nascente
democrazia nazionale. Retrospettivamente noi oggi
possiamo dire che era del tutto impossibile rinunciare
completamente a questo coinvolgimento. Il modo di
incorporare queste forze nello Stato rappresenta il nucleo
effettivo dell’arte di governo del XIX secolo…
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
Si può ora indagare come, essendosi sempre più trasformata la vita in
energia ed essendosi progressivamente tutti i vincoli svuotati di contenuto a
favore della crescente mobilità, l’atto della mobilitazione (…) abbia
assunto un carattere sempre più radicale. I fenomeni che causano tutto ciò
sono svariati. Così, con la liquidazione dei ceti e con l’abolizione dei
privilegi della nobiltà, scompare contemporaneamente anche il concetto di
casta guerriera; la rappresentanza armata della nazione non è più dovere e
prerogativa soltanto del soldato di professione, ma diventa compito di tutti
coloro che in generale sono atti alle armi. Così, l’enorme aumento dei costi
rende impossibile provvedere alla condotta della guerra con un tesoro di
guerra ben definito, e diventa piuttosto necessario, per mantenere in moto la
Macchina, utilizzare al massimo tutti i crediti e ricorrere anche all’ultimo
centesimo…
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
Così, anche l’immagine della guerra come di un’azione
armata sfuma sempre più nell’immagine ben più ampia
di un gigantesco processo di lavoro. Accanto agli eserciti
che si affrontano sui campi di battaglia sorgono eserciti di
nuovo tipo, l’esercito dei trasporti,
dell’approvvigionamento, dell’industria degli armamenti:
in generale, l’esercito del lavoro. Nell’ultima fase, già
annunciata verso la fine di questa guerra, non vi è più alcuna
attività – neppure quella della lavoratrice domestica alla sua
macchina per cucire – che non sia collegata, in forma almeno
indiretta, alla produzione bellica…
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
In questo assoluto coinvolgimento di ogni energia potenziale, che
trasforma le industrie belliche statali in officine di Vulcano, si
annuncia forse nel modo più evidente l’inizio dell’epoca del lavoro:
questo processo fa della guerra mondiale un fenomeno storico che
supera d’importanza la rivoluzione francese. Per dispiegare energie
di questa misura non è più sufficiente armare il braccio che porta la
spada: è necessario essere armati fino nelle midolla, fino nel più
sottile nervo vitale. Porre in essere quelle energie è il compito della
mobilitazione totale, di un atto cioè attraverso il quale è possibile,
impugnano un unico comando su un quadro di controllo, far
confluire la rete d’energie – tanto ramificata e diffusa – della vita
moderna nella grande corrente dell’energia bellica.
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
Come ogni vita genera in sé già il seme della propria morte, così
anche l’apparire sulla sena delle grandi masse include in sé una
democrazia della morte. Ci siamo già lasciati alle spalle l’epoca
del tiro ben mirato. Il comandante di squadriglia, che nell’alto
della notte impartisce l’ordine di bombardamento, non è più in
grado di distinguere fra combattenti e non combattenti, e la nuvola
mortale di gas trascorre come un elemento naturale su tutti gli
esseri viventi. Ma che simili minacce siano possibili non implica,
come presupposto, né una mobilitazione generale, sì invece una
mobilitazione totale, che si estende fino al bambino nella culla.
Questi è infatti minacciato come tutti gli altri, se non addirittura di
più…
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
Ci sarebbe ancora molto da dire: ma basta soltanto considerare
questa nostra vita nel suo pieno scatenarsi e nel suo spietato
disciplinari, coi suoi quartieri fumosi e ardenti, con la fisica e la
metafisica del suo traffico e dei suoi trasporti, dei suoi motori, dei
suoi aeroplani e delle sue gigantesche metropoli, per intuire, con
una sensazione di piacere mista a spavento, che qui non vi è
neppure un atomo che non sia all’opera, e che noi stessi siamo
totalmente impegnati, nel modo più profondo, in questo furioso
processo. La mobilitazione totale non tanto è eseguita, quanto
piuttosto essa stessa si esegue: in pace e in guerra è l’espressione
di una misteriosa e cogente esigenza, a cui siamo sottomessi da
questo vivere nell’epoca delle masse e delle massime…
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
Si perviene così al risultato che ogni singola
vita diventa sempre più inequivocabilmente
una vita di operaio e che alle guerre dei
cavalieri, dei re e dei borghesi seguono le
guerre degli operai, guerre della cui
struttura razionale e della cui spietatezza ci
ha già dato un preannuncio il primo grande
conflitto del XX secolo.
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
(…) Tuttavia il versante tecnico della mobilitazione
totale non è quello decisivo. I suoi presupposti, come i
presupposti di ogni tecnica, si situano a un livello molto
più profondo: ne vogliamo trattare qui come della
disponibilità alla mobilitazione. Questa disponibilità era
presente in tutte le nazioni; la guerra mondiale è stata
una delle guerre più “popolari” che la storia conosca. E
ciò è accaduto perché questa guerra si è verificata in una
guerra che sembrava escludere a priori ogni altro tipo di
guerra che non fosse quella di “popolo”.
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
(…) Quando ci troviamo di fronte a sforzi di questa portata,
che si esprimono in potenti costruzioni quali le piramidi o le
cattedrali, oppure in guerre che scuotono fin gli ultimi nervi
vitali – sforzi che possiedono la peculiare caratteristica della
mancanza di scopo – Non riusciamo a trattarli con
spiegazioni di tipo economico, per quanto siano penetranti.
E’ questo, del resto, il motivo per cui la scuola del
materialismo storico può sfiorare solo la superficie degli
avvenimenti. Di fronte a sforzi di questo tipo il primo
sospetto deve piuttosto essere che ci si trovi di fronte ad un
fenomeno di rango cultuale.
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
Con l’osservare che consideriamo il progresso come la grande religione
popolare del XIX secolo, individuavamo già il livello in cui supponiamo
possa essere stato efficace quel potente appello col cui aiuto soltanto poté
avere esecuzione l’aspetto decisivo – cioè quello religioso – della
mobilitazione totale nei riguardi delle masse gigantesche che dovettero
essere acquisite per partecipare all’ultima guerra. Che le masse vi si
sottraessero era tanto meno possibile quanto più si faceva appello alla loro
convinzione, quanto più puramente, quindi, la tendenza delle grandi parole
d’ordine con cui erano state poste in movimento esprimeva un contenuto
progressista. (…) Chi potrebbe negare che la civilisation è più intimamente
legata al progresso che non la Kultur e che quella proprio nelle grandi città
può parlare la sua lingua naturale, maneggiando abilmente mezzi o concetti
coi quali la Kultur o non ha rapporti o ne ha di ostili?
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
(…) Se osserviamo il mondo quale è risultato dalla catastrofe, che unità
di esiti, che cogente consequenzialità storica! In verità, se si fossero
riunite in un sol punto tutte le formazioni spirituali e materiali estranee
alla Zivilisation, che dalla fine del XIX secolo si sono protratte fin
dentro la nostra epoca, e se si fosse aperto il fuoco contro di ese con tutti
i cannoni del mondo, il risultato non avrebbe potuto essere più evidenti.
L’antico carillon di campane del Cremlino è regolato per suonare la
melodia dell’«Internazionale». A Costantinopoli gli scolari imparano
caratteri latini invece degli antichi arabeschi del Corano. A Napoli e a
Palermo poliziotti fascisti danno ordine all’animazione della vita
meridionale, secondo i principi di un moderno codice della strada. Nei
paesi più lontani del mondo, ancora quasi favolosi, si inaugurano palazzi
del Parlamento…
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
L’astrattezza, e quindi anche la crudeltà, di tutti i rapporti umani si accresce
ininterrottamente. Il patriottismo è sostituito da un nuovo nazionalismo, fortemente
radicato nella coscienza popolare. Nel fascismo, nel bolscevismo,
nell’americanismo, nel sionismo, nei movimenti dei popoli di colore, il progresso
segna impetuose avanzate, che in passato sarebbero state ritenute impensabili; in un
certo senso il progresso si capovolge, per proseguire il proprio movimento ad un
livello semplicissimo dopo aver descritto un cerchio con la propria artificiosa
dialettica. Il progresso comincia ad assoggettare a sé i popoli in forme che non sono
più distinguibili da quelle di un regime assoluto, se si prescinde dalla misura, molto
più limitata, di libertà e benessere. La maschera umanitaria è già quasi del tutto
caduta in molti punti, e ne è risultato un feticismo della macchina, per metà
grottesco e per metà barbarico, un ingenuo culto della tecnica, e ciò proprio in
luoghi in cui non c’è possibilità di rapporto immediato e produttivo con quelle
energie dinamiche della cui distruttiva marcia trionfale l’artiglieria pesante e le
squadriglie di bombardieri non sono che l’espressione militare…
Ernst Jünger, La mobilitazione totale:
Contemporaneamente aumenta il valore attribuito alle masse; il livello di consenso e di
‘pubblicità’ diventa il fattore decisivo della politica. Particolarmente il socialismo ed il
nazionalismo sono le due grandi macine da mulino fra le quali il progresso tritura i resti
dell’antico mondo, ed infine anche se stesso. Da cent’anni a questa parte la «destra» e la
«sinistra» si sono contese a vicenda, come una palla, le masse accecate dall’illusione
ottica del diritto di voto; è sempre sembrato che ciascuno dei due avversari offrisse una
possibilità di riparo davanti alle pretese dell’altro. Oggi in tutti i paesi si fa sempre più
evidente che sono identiche, e perfino il sogno della libertà vien meno, come sotto la
presa di una ferrea tenaglia. E’ uno spettacolo grandioso e terribile vedere i movimenti
delle masse, sempre più uniformate, e lo spirito del mondo stendere su di essi le sue reti.
Ogni movimento rende l’imprigionamento sempre più rigido e implacabile: sono qui
all’opera sistemi di coercizione più forti della tortura, tanto forti che l’uomo si consegna
ad essi salutandoli con entusiasmo. Dietro ogni via di fuga che assuma a proprio simbolo
la felicità stanno in agguato il dolore e la morte. Felice chi, in questi spazi, avanza
armato!
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 11
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
Carl Schmitt, Teologia politica (1922):
Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.
Infatti ogni ordine riposa su una decisione e
anche il concetto di ordinamento giuridico, che
viene acriticamente impiegato come qualcosa che
si spiega da sé, contiene in sé la contrapposizione
dei due diversi elementi del dato giuridico. Anche
l’ordinamento giuridico, come ogni altro ordine,
riposa su una decisione e non su una norma.
Carl Schmitt, Teologia politica (1922):
(…) L’eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae
all’ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta
purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione.
Nella sua forma assoluta il caso d’eccezione si verifica solo allorché
si deve creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme
giuridiche. Ogni norma generale richiede una strutturazione normale
dei rapporti di vita, sui quali essa di fatto deve trovare applicazione e
che essa sottomette alla propria regolamentazione normativa. La
norma ha bisogna di una situazione media omogenea. Questa
normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che
il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua
efficacia immanente.
Carl Schmitt, Teologia politica (1922):
Non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos.
Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso
l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione
normale, e sovrano è colui che decide in modo definitivo se
questo stato di normalità regna davvero. Ogni diritto è
«diritto applicabile ad una situazione». Il sovrano crea e
garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli
ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza
della sovranità statale, che quindi propriamente non
dev’essere definita giuridicamente come monopolio della
sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione…
Carl Schmitt, Teologia politica (1922):
L’eccezione è più importante del caso
normale. Quest’ultimo non prova nulla,
l’eccezione prova tutto; non solo essa
conferma la regola: la regola stessa vive
solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la
forza della vita reale rompe la crosta di
una meccanica irrigidita nella
ripetizione…
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
La specifica distinzione politica alla quale è possibile
ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di
amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione
concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o
una spiegazione del contenuto. (…) Il significato della
distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado
di intensità di un’unione o di una separazione, di
un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere
teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo,
debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali,
estetiche, economiche o di altro tipo.
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Non c’è bisogno che il nemico politico sia moralmente
cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve
necessariamente presentarsi come concorrente economico e
forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con
lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e
basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un
senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di
straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili
con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso
un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di
un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”.
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Solo chi vi prende parte direttamente può por
termine al caso conflittuale estremo; in
particolare solo costui può decidere se
l’alterità dello straniero nel conflitto
concretamente esistente significhi la negazione
del proprio modo di esistere e perciò sia
necessario difendersi e combattere, per
preservare il proprio, peculiare, modo di vita.
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico
non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a
sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che
combatte almeno virtualmente, e che si contrappone ad un altro
raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il
nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile
raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa
per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in
senso ampio. (…) La contrapposizione politica è la più intensa ed
estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto
più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del
raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico…
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una
lotta. Questo termine va impiegato prescindendo da tutti i mutamenti
casuali o dipendenti dallo sviluppo storico della tecnica militare e delle
armi. La guerra è lotta armata fra unità politiche organizzate, la
guerra civile è lotta armata all’interno di un’unità organizzata (che
proprio perciò però sta divenendo problematica). L’essenza del
concetto di arma sta nel fatto che essa è uno strumento di uccisione
fisica di uomini. Come il termine di nemico anche quello di lotta
dev’essere qui inteso nel senso di un’originarietà assoluta. Esso non
significa concorrenza, non la lotta «puramente spirituale» della
discussione, non il simbolico «lottare» che alla fine ogni uomo in
qualche modo compie sempre, poiché in realtà l’intera vita umana è
una «lotta» ed ogni uomo un «combattente».
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro
significato reale dal fatto che si riferiscono in modo
specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La
guerra consegue dall’ostilità poiché questa è
negazione assoluta di ogni altro essere. La guerra è
solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha
bisogno di essere vista come qualcosa di ideale o di
desiderabile: essa deve però esistere come possibilità
reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il
suo significato…
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Allo Stato, in quanto unità sostanzialmente politica,
compete il jus belli, cioè la possibilità reale di
determinare, in dati casi e in forza di una decisione
propria, il nemico e di combatterlo. E’ poi indifferente
con quali mezzi tecnici la guerra verrà condotta, quale
organizzazione militare esista, quante probabilità vi
siano di vincere la guerra, purché il popolo
politicamente uno sia pronto a combattere per la sua
esistenza ed indipendenza: nel che esso determina, in
forza di decisione propria, la sua indipendenza e
libertà.
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
(…) Lo Stato come unità politica decisiva ha concentrato presso di sé
una competenza immensa: la possibilità di far la guerra e quindi spesso
di disporre della vita degli uomini. Infatti il jus belli contiene una
disposizione di questo tipo; esso comporta la duplice possibilità di
ottenere dagli appartenenti al proprio popolo la disponibilità a morire e
ad uccidere, e di uccidere gli uomini che stanno dalla parte del nemico.
Il compito di uno Stato normale consiste però soprattutto nell’assicurare
all’interno dello Stato e del suo territorio una pace stabile, nello stabilire
«tranquillità, sicurezza e ordine» e di procurare in tal modo la situazione
normale che funge da presupposto perché le norme giuridiche possano
aver vigore, poiché ogni norma presuppone una situazione normale e
non vi è norma che possa aver valore per una situazione completamente
abnorme nei suoi confronti
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome
dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra
per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il
suo avversario di un concetto universale per potersi identificare
con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si
possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso,
civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno
strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche
ed è, nella sua orma etico-umanitaria, un veicolo specifico
dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con
una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di
umanità, vuol trarvi in inganno.
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome
dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra
per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il
suo avversario di un concetto universale per potersi identificare
con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si
possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso,
civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno
strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche
ed è, nella sua orma etico-umanitaria, un veicolo specifico
dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con
una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di
umanità, vuol trarvi in inganno.
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità,
monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe
manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare
termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la
terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di un
uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la.loi e hors-
l’umanité e quindi che la guerra deve essere portata fino
all’estrema inumanità. Ma al di fuori di questa
utilizzazione altamente politica del termine non politico di
umanità, non vi sono guerre dell’umanità come tale
Carl Schmitt, Il concetto di «politico»
[La] necessità di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto
che lo Stato, in quanto unità politica, determina da sé, finché esiste, anche il
«nemico interno». In tutti gli Stati esiste perciò in qualche forma ciò che il
diritto statale delle repubbliche greche conosceva come dichiarazione di
polemios e il diritto statale romano come dichiarazione di hostis: forme
cioè più o meno acute, automatiche o efficaci solo in base a leggi speciali,
manifeste o celate in prescrizioni generali, di bando, di proscrizione, di
estromissione dalla comunità di pace, di collocazione hors la loi, in una
parola di dichiarazione di ostilità interna allo Stato. Questo è il segno, a
seconda del comportamento di colui che è stato dichiarato nemico dello
Stato, della guerra civile, cioè del superamento dello Stato come unità
politica organizzata, pacificata al suo interno, chiusa territorialmente e
impenetrabile ai nemici. Il successivo destino di questa unità sarà poi
deciso dalla guerra civile…
Carl Schmitt, Dottrina della costituzione
Intesa nel suo senso assoluto, costituzione significa «il
concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con
ogni unità politica esistente». «Lo Stato non ha una
costituzione, conforme alla quale si forma e funziona
una volontà statale, ma lo Stato è la costituzione, cioè
una condizione presente conforme a se stessa, uno status
di unità e ordine. Lo stato cesserebbe di esistere se
questa costituzione, cioè questa unità e ordine, cessasse.
La costituzione è la sua «anima», la sua vita concreta e
la sua esistenza individuale» (p. 17).
Carl Schmitt, Dottrina della costituzione
Intesa in senso positivo, la costituzione è la decisione
fondamentale circa la forma e la specie dell’unità
politica . Essa «vige in forza della volontà politica esistente
di chi la pone».
«Potere costituente è una volontà politica il cui potere o
autorità è in grado di prendere la decisione concreta
fondamentale sulla specie e la forma della propria esistenza
politica, ossia di stabilire complessivamente l’esistenza
dell’unità politica. Dalle decisioni di questa volontà si fa
discendere la validità di ogni ulteriore disciplina legislativa
costituzionale».
Carl Schmitt, Dottrina della costituzione
Stato è un determinato status di un popolo, e
precisamente lo status dell’unità politica. Forma
di Stato è la specie particolare della struttura di
questa unità. Soggetto di ogni determinazione
concettuale dello Stato è il popolo. Lo Stato è una
condizione, e precisamente la condizione di un
popolo.
Carl Schmitt, Il Nomos della Terra
I grandi atti primordiali del diritto restano (…) localizzazioni
legate alla terra. Vale a dire: occupazioni di terra, fondazioni di
città e fondazioni di colonie. (…) Un occupazione di terra
istituisce diritto secondo una duplice direzione: verso l’interno e
verso l’esterno. Verso l’interno, vale a dire internamente al gruppo
occupante, viene creato con la prima divisione e ripartizione del
suolo il primo ordinamento di tutti i rapporti di possesso e
proprietà. (…) Verso l’esterno, il gruppo occupante si trova posto
di fronte ad altri gruppi e potenze che occupano la terra e ne
prendono possesso. Qui l’occupazione di terra rappresenta un
titolo di diritto internazionale…
Carl Schmitt, Il Nomos della Terra
La guerra diventa ora una “guerra in forma”, une guerre
en forme e ciò solo in conseguenza del fatto che essa
diviene guerra tra Stati europei con superfici
chiaramente delimitate, confronto tra unità spaziali
rappresentate come personae publicae che sul comune
suolo europeo formano la “famiglia” europea degli Stati
e pertanto sono in grado di considerarsi reciprocamente
come justi hostes.
Carl Schmitt, Il Nomos della Terra
La discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea
implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento
dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di
guerra: Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca
l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva.
(…) Il bombardiere o l’aereo di attacco a volo radente usano le proprie
armi contro la popolazione nemica verticalmente, come San Giorgio
usava la sua lancia contro il drago. Nella misura in cui oggi la guerra
viene trasformata in azione di polizia contro i turbatori della pace,
criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la
giustificazione di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la
discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali…
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 12
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
«Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si figurano le
loro future azioni sotto forma di immagini di battaglie per assicurare il
trionfo della loro causa. Io proponevo di chiamar ‘miti’ tali costruzioni,
la cui comprensione è di così alta importanza per lo storico: in questo
senso, lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica
di Marx sono miti. Come esempi notevoli di miti ho dato quelli costruiti
dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Rivoluzione, dai
mazziniani; ciò che volevo mostrare è che non bisogna cercare di
analizzare un tale sistema di immagini allo stesso modo che si scompone
una cosa nei suoi elementi; e che, invece, bisogna prenderli nel loro
insieme, come energie storiche; e guardarsi, soprattutto, dal confrontare
i fatti compiuti con le rappresentazioni fantastiche formatesi prima
dell’azione».
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
Un mito non troverebbe possibilità di essere
rifiutato, poiché esso è, nell’insieme,
identico alle convinzioni di un gruppo, ed è
l’espressione di queste convinzioni in
linguaggio di movimento, e quindi, per
conseguenza, non è scomponibile in parti, le
quali si possano applicare su di un piano di
descrizioni storiche.
George Sorel, Riflessioni sulla viiolenza:
il socialismo è diventato una preparazione delle masse impiegate dalla
grande industria, le quali vogliono sopprimere lo Stato e la società; da
ora in avanti il modo in cui gli uomini si adopereranno per godere la
felicità futura non sarà più oggetto di ricerca; tutto si riduce
all’apprendistato rivoluzionario del proletariato. Disgraziatamente Marx
non aveva sotto gli occhi i fatti che ci sono divenuti familiari; noi
sappiamo meglio di lui ciò che sono gli scioperi, perché abbiamo potuto
osservare conflitti economici considerevoli per estensione e durata; il
mito dello sciopero generale è divenuto popolare ed ha fatto solida presa
nei cervelli; in fatto di violenza noi abbiamo delle idee che Marx non
avrebbe potuto formarsi facilmente; noi dunque possiamo completare la
sua dottrina, invece di commentare i suoi testi come per tanto tempo
hanno fatto dei malfortunati discepoli.
George Sorel, Riflessioni sulla violenza:
Oggi la fiducia dei socialisti è più grande che mai da quando
il mito dello sciopero generale domina tutto il movimento
realmente operaio. Un insuccesso non può provare niente
contro il socialismo dopo che esso è divenuto un lavoro di
preparazione; se viene sconfitto, ciò vuol dire che la
preparazione è stata insufficiente; bisogna rimettersi
all’opera con più coraggio, più insistenza, più fiducia che
mai; la pratica del lavoro ha insegnato agli operai che è
mediante un paziente apprendistato che si può divenire un
vero compagno; ed è anche la sola maniera per divenire un
vero rivoluzionario…
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Bisognerà forse (…) prendere in considerazione la
sorprendente possibilità che l'interesse del diritto a
monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola
non si spieghi con l'intenzione di salvaguardare i fini
giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il
diritto stesso. E che la violenza, quando non è in
possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti
per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa
persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del
diritto.
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):Per quanto possa sembrare a prima vista paradossale, si può definire, in certe condizioni,
come violenza anche un contegno assunto nell'esercizio di un diritto. E precisamente questo
contegno, ove sia attivo, potrà dirsi violenza, quando esercita un diritto che gli compete per
rovesciare l’ordinamento giuridico in virtù del quale esso gli è conferito; ove sia passivo,
potrà essere definito allo stesso modo, se rappresenta un ricatto nel senso delle considerazioni
precedenti. Testimonia quindi solo di una contraddizione oggettiva nelle situazione giuridica.
e non già di una contraddizione logica nel diritto che esso si opponga, in certe condizioni, con
la violenza alla violenza degli scioperanti. Poiché nello sciopero lo Stato teme, più di ogni
altra cosa, quella funzione della violenza che questa indagine si propone appunto di
determinare come unico fondamento sicuro della sua critica. Poiché se la violenza, come
sembra a prima vista, fosse semplicemente il mezzo di assicurarsi direttamente di quella cosa
qualunque a cui si mira. essa potrebbe assolvere al suo scopo solo come violenza di rapina. E
sarebbe affatto inetta a fondare o modificare rapporti in modo relativamente stabile. Ma lo
sciopero mostra che essa può farlo, che essa è in grado di fondare e modificare rapporti
giuridici, per quanto il sentimento di giustizia possa restarne offeso…
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Ogni violenza (Gewalt) è, come mezzo,
potere che pone o che conserva il diritto. Se
non pretende a nessuno di questi due
attributi rinuncia da sé a ogni validità. Ma
ne consegue che ogni violenza come mezzo
partecipa, anche nel caso piú favorevole,
alla problematicità del diritto in generale.
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Poiché il diritto positivo, dove è consapevole delle sue radici, pretenderà
senz’altro di riconoscere e di promuovere l'interesse dell'umanità nella
persona di ogni singolo. Esso vede questo interesse nell'esposizione e nella
conservazione di un ordine stabilito dal destino. E anche se quest'ordine
(che il diritto afferma a ragione di custodire) non può sfuggire alla critica
resta tuttavia impotente, nei suoi confronti, ogni contestazione che si affacci
solo in nome di una «libertà» informe, senza essere in grado di definire
quell'ordine superiore di libertà. E tanto più impotente se non impugna
l'ordinamento giuridico stesso in tutte le sue parti, ma singole leggi o
consuetudini giuridiche, che poi, del resto, il diritto prende sotto la custodia
del suo potere che consiste in ciò che c’è un solo destino e che proprio ciò
che esiste e soprattutto ciò che minaccia, appartiene irrevocabilmente al suo
ordinamento. Poiché il potere che conserva il diritto è quello che
minaccia…
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
La funzione della violenza nella creazione giuridica è (…) duplice
nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che
viene instaurato come diritto, come scopo, con la violenza come
mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo
perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in
senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto,
in quanto insedia come diritto, col nome di potere (Macht), non
già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma
intimamente e necessariamente legato ad essa. Creazione di diritto
è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata
manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità
divina, potere il principio di ogni diritto mitico.
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Lungi dall’aprirci una sfera più pura, la manifestazione mitica della
violenza immediata si rivela profondamente identica ad ogni potere
giuridico, e trasforma il sospetto della sua problematicità nella certezza
della perniciosità della sua funzione storica, che si tratta quindi di
distruggere. E questo compito pone, in ultima istanza, ancora una volta
il problema di una violenza pura immediata, che possa arrestare il corso
della mitica. Come in tutti i campi al mito Dio, così, alla violenza
mitica, si oppone quella divina, che ne costituisce l’antitesi in ogni
punto. Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se
quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza
mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe,
questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue…
W. Benjamin, Per la critica della violenza (1921):
Il sangue è il simbolo della nuda vita. La dissoluzione
della violenza giuridica risale quindi (…) alla
colpevolezza della nuda vita naturale, che affida il
vivente, innocente e infelice, al castigo, che ‘espia’ la sua
colpa – e purga anche il colpevole, non però da una
colpa, ma dal diritto. Poiché con la nuda vita cessa l
dominio del diritto sul vivente. La violenza mitica è
violenza sanguinosa sulla nuda vita in nome della
violenza: la pura violenza divina sopra ogni vita in nome
del vivente.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 13
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
Il concetto di ideologia in Marx
1) Credenze illusorie o socialmente sconnesse,
che si considerano il fondamento della storia e
che distraendo gli uomini e le donne dalle loro
vere condizioni sociali (comprese le
determinazioni sociali delle loro idee), servono
a sorreggere un potere oppressivo.
Il contrario di ciò è una conoscenza esatta e
spregiudicata delle condizioni sociali materiali
Il concetto di ideologia in Marx
2) Idee che esprimono direttamente gli
interessi materiali della classe sociale
dominante e che sono utili alla difesa del suo
dominio.
Il contrario di ciò è o la vera conoscenza
scientifica o la coscienza delle classi non
dominanti.
Il concetto di ideologia in Marx
3) Tutte le forme concettuali in cui si combatte
la lotta di classe, compresa probabilmente l
valida coscienza di forze politicamente
rivoluzionarie. Il contrario di ciò è qualsiasi
concezione al momento non coinvolta nella
lotta.
Il concetto di ideologia in Marx
4) Una non verità esistente, praticamente
fondata, dotata di conseguenze pratiche ed
infine interamente sopprimibile soltanto
attraverso la prassi. (Il Capitale, Analisi del
feticcio della merce)
Lenin, Che fare?Tutti coloro che parlano di "sopravvalutazione della ideologia", di esagerazione della
funzione dell'elemento cosciente, ecc., immaginano che il movimento puramente operaio sia
di per sé in grado di elaborare - ed elabori in realtà - una ideologia indipendente; che ciò che
più conta sia che gli operai "strappino dalle mani dei dirigenti le loro sorti". Ma questo è un
profondo errore. Per completare quanto abbiamo detto sopra, riportiamo anche le seguenti
parole di K. Kautsky, profondamente giuste e importanti, circa il progetto di un nuovo
programma del Partito socialdemocratico austriaco :
«(…) La scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica moderna, una condizione
della produzione socialista, e il proletariato, per quanto lo desideri, non può creare né l'una né
l'altra; la scienza e la tecnica sorgono entrambe dal processo sociale contemporaneo. Il
detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi [sottolineato da
K.K.]; anche il socialismo contemporaneo è nato nel cervello di alcuni membri di questo ceto,
ed è stato da essi comunicato ai proletari più elevati per il loro sviluppo intellettuale, i quali in
seguito lo introducono nella lotta di classe del proletariato, dove le condizioni lo permettono.
La coscienza socialista è quindi un elemento importato nella lotta di classe del proletariato
dall'esterno, e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente».
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Per Marx le “ideologie” sono tutt’altro che illusioni e apparenza; sono una
realtà oggettiva ed operante, ma non sono la molla della storia, ecco tutto. […]
Marx afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza dei loro
compiti nel terreno ideologico, delle superstrutture, il che non è piccola
affermazione di “realtà”. […]Questo argomento del valore concreto delle
superstrutture in Marx dovrebbe essere bene studiato. Ricordare il concetto di
Sorel del “blocco storico”. Se gli uomini prendono coscienza del loro compito
nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstrutture c’è
un nesso necessario e vitale, così come nel corpo umano tra la pelle e lo
scheletro: si direbbe uno sproposito se si affermasse che l’uomo si mantiene
eretto sulla pelle e non sullo scheletro, e tuttavia ciò non significa che la pelle
sia una cosa apparente e illusoria, tanto è vero che non è molto gradevole la
situazione dell’uomo scorticato».
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Il lavoratore medio opera praticamente, ma non ha una chiara
coscienza teorica di questo suo operare-conoscere il mondo; la sua
coscienza teorica anzi può essere “storicamente” in contrasto col suo
operare. Egli cioè avrà due coscienze teoriche, una implicita nel suo
operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella
trasformazione pratica del mondo, e una “esplicita”, superficiale, che
ha ereditato dal passato. La posizione pratico-teorica, in tale caso,
non può non diventare “politica” cioè quistione di “egemonia”. La
coscienza di essere parte della forza egemonica (cioè la coscienza
politica) è la prima fase di una ulteriore e progressiva autocoscienza,
cioè di unificazione della pratica e della teoria».
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Evidentemente è impossibile una “statistica” dei modi di pensare e
delle singole opinioni individuali, che dia un quadro organico e
sistematico: non rimane che la revisione della letteratura più diffusa e
più popolare combinata con lo studio e la critica delle correnti
ideologiche precedenti, ognuna delle quali “può” aver lasciato un
sedimento, variamente combinatosi con quelli precedenti e susseguenti.
In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio più
generale: i mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle
opinioni, non avvengono per “esplosioni” rapide e generalizzate,
avvengono per lo più per “combinazioni successive” secondo “formule”
disparatissime. […] nella sfera della cultura i diversi strati ideologici si
combinano variamente e ciò che è diventato “ferravecchio” nella città è
ancora “utensile” in provincia»
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Ogni strato sociale ha il suo “senso comune” che è in fondo la
concezione della vita e la morale più diffusa. Ogni corrente
filosofica lascia una sedimentazione di “senso comune”: è questo
il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è
qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente,
arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate
nel costume. Il “senso comune” è il folklore della “filosofia” e sta
di mezzo tra il “folklore” vero e proprio (cioè come è inteso) e la
filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il “senso
comune” crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita
di un certo tempo e luogo».
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Poiché “pare”, per uno strano capovolgimento delle prospettive,
che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione
dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita
“scientifica” solo se e in quanto abilita astrattamente a
“prevedere” l’avvenire della società. Quindi la ricerca delle cause
essenziali, anzi della “causa prima”, della “causa delle cause”. Ma
le “Tesi su Feuerbach” avevano già criticato anticipatamente
questa concezione semplicistica. In realtà si può prevedere
“scientificamente” solo la lotta, ma non i momenti concreti di
essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in
continuo movimento».
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Il materialismo storico è il
coronamento di tutto questo movimento
di riforma intellettuale e morale, nella
sua dialettica cultura popolare – alta
cultura. Corrisponde alla Riforma +
Rivoluzione francese, universalità +
politica»
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi
puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e
oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo».
«Si appartiene simultaneamente a una molteplicità di uomini-
massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si
trovano in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della
scienza più moderna e progredita, pregiudizi di tutte le fasi
storiche passate grettamente localistiche e intuizioni di una
filosofia avvenire quale sarà propria del genere umano unificato
mondialmente»
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Ho notato altra volta che in una determinata società
nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si
intendano organizzazione e partito in senso largo e non
formale. In questa molteplicità di società particolari, di
carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario,
una o più prevalgono relativamente o assolutamente,
costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale
sul resto della popolazione (o società civile), base dello
Stato inteso strettamente come apparato governativo-
coercitivo».
Antonio Gramsci, La quistione meridionale:
«Il proletariato, per essere capace di governare come classe, deve
spogliarsi di ogni residuo corporativo, di ogni pregiudizio o
incrostazione sindacalista. (…) Occorre, per conquistarsi la fiducia e il
consenso dei contadini e di alcune categorie semiproletarie della città,
superare alcuni pregiudizi e vincere certi egoismi. (…) Il metallurgico, il
falegname, l’edile ecc. devono non solo pensare come proletari e non
più come metallurgico, falegname, edile, ecc., ma devono fare ancora un
passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che
tende a dirigere i contadini e gli intellettuali (…). Se non si ottiene ciò, il
proletariato non diventa classe dirigente, e questi strati, che in Italia
rappresentano la maggioranza della popolazione, rimanendo sotto la
direzione borghese, danno allo Stato la possibilità di resistere all’impeto
proletario e di fiaccarlo».
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere:
«Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto
passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse,
è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano
“partito”, vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una
sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a
prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale,
determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici,
anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni
intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un
piano “universale” e creando così l’egemonia di un gruppo sociale
fondamentale su una serie di gruppi subordinati».
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
Il metodo dialettico è la predominanza metodologica
della totalità sui momenti particolari. (…) La totalità
concreta è la categoria autentica della realtà. (…) La
considerazione della genesi della intellegibilità di un
oggetto a partire dalla sua funzione nella totalità
determinata (…) fa della concezione dialettica della
totalità la sola che comprenda la realtà come divenire
sociale.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla
scienza borghese non è il predominio delle motivazioni
economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di
vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio
determinante e onnilaterale dell’intero sulle parti è
l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel
riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base
di una scienza interamente nuova…
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
Il dominio della categoria della totalità è il veicolo del
principio rivoluzionario della scienza. E’ solo in Marx che
la dialettica hegeliana è diventata, secondo l’espressione di
Herzen, un’algebra della rivoluzione. Ma essa non lo è
diventata semplicemente per il rovesciamento
materialistico. Piuttosto il principio rivoluzionario della
dialettica hegeliana ha potuto manifestarsi in e per questo
rovesciamento perché è stata salvata l’essenza del metodo,
cioè il punto di vista della totalità (…) inteso come unità
del pensiero e della storia.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
Il metodo dialettico di Marx mira alla conoscenza
della società come totalità. Per il marxismo non
c’è dunque in ultima analisi una scienza
giuridica, una economia politica, una storia, ecc.
autonome: c’è una sola scienza, storia e
dialettica, unica e unitaria dello sviluppo della
società come totalità. (…) Totalità tanto come
oggetto posto che come soggetto ponente.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
L’empirismo crede di poter trovare un fatto importante
in ogni dato, in ogni statistica, in ogni factum brutum
della vita economica. Ed esso non si rende conto che
l’enumerazione più semplice, la catalogazione di “fatti”
più scarna di commenti è già un’ “interpretazione”; che
già fin d’ora i fatti sono appresi a partire da una teoria,
secondo un metodo; che sono stati strappati alla
connessione vitale in cui originariamente erano inseriti e
sono stati introdotti nel contesto di una teoria.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
Il marxismo ha perso la capacità di vedere la totalità della
società come totalità storica concreta, di intendere le forme
reificate come processi tra uomini di portare positivamente
alla coscienza e trasformare in prassi il senso immanente
dell’evoluzione che si manifesta negativamente nelle
contraddizioni della forma astratta della esistenza. Se in tale
ideologia il principio dell’uomo come valore, come ideale,
come imperativo morale, ecc. ha un ruolo sempre più
importante (…), questo non è che un sintomo della ricaduta
nella immediatezza borghese reificata.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
In opposizione all’accettazione dogmatica di una
realtà semplicemente data ed estranea al soggetto,
nasce l’esigenza di comprendere, a partire dal
soggetto-oggetto identico, ogni dato come
prodotto di questo soggetto-oggetto, ogni dualità
come caso particolare derivato da questa unità
primitiva. Ora questa unità e attività.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
Solo l’unità del soggetto e dell’oggetto, del pensiero e
dell’essere che la prassi ha intrapreso a provare e a
dimostrare, trova realmente il luogo della sua realizzazione
e del suo sostrato nella unità tra la genesi delle
determinazioni pensate e la storia del divenire della realtà.
Tale unità può tuttavia essere compresa come unità a
condizione che non solo il luogo metodologico della
soluzione possibile sia indicato nella storia, ma anche che
il noi – soggetto della storia – e la cui azione è la storia
reale – possa essere concretamente mostrato.
G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe:
Nella misura in cui la coscienza viene riferita all’intero della
società, si riconoscono quelle idee, sentimenti, ecc. che gli
uomini avrebbero avuto in una determinata situazione di vita,
se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa
situazione, e gli interessi da essa emergenti, sia in rapporto
all’agire immediato, sia in rapporto alla struttura – conforme
a questi interessi – dell’intera società… Ora, la coscienza di
classe è la reazione razionalmente adeguata che viene in
questo modo attribuita di diritto a una determinata posizione
tipica nel processo di produzione.
G. Lukàcs, Prefazione a Storia e coscienza
di classe (1967):
Il proletariato come soggetto-oggetto identico
della storia dell’umanità non è quindi una
realizzazione materialistica che sia in grado di
superare le costruzioni intellettuali idealistiche: si
tratta piuttosto di un hegelismo più hegeliano di
Hegel, di una costruzione che intende
oggettivamente oltrepassare il maestro stesso
nell’audacia con cui si eleva con il pensiero al di
sopra di qualsiasi realtà.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 14
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
La Scuola di Francoforte:
Max Horkheimer
Theodor W. Adorno
Herbert Marcuse
Erich Fromm
Walter Benjamin
Max Horkheimer, Crepuscolo:
«Non so in che misura i metafisici abbiano
ragione, forse da qualche parte esiste
davvero un sistema o un frammento
metafisico particolarmente calzante, so però
che di solito i metafisici sono solo
scarsamente impressionati da ciò che
tormenta gli uomini»
Max Horkheimer, Teoria tradizionale e
teoria critica:
L’obiettivo della teoria tradizionale è sempre stato la
formulazione di principi generali internamente coerenti
che descrivessero il mondo. Sebbene scopo della teoria
tradizionale sia stato sempre la pura conoscenza, più che
l’azione, nella misura in cui essa consente di prevedere e
controllare teoricamente processi naturali e sociali nel
loro complesso, tradisce il riferimento ad un nesso di
azione che ha come fine il dominio tecnologico sia della
natura fisica che di determinati processi economici e
sociali.
Max Horkheimer, Teoria tradizionale e
teoria critica:
La teoria critica si rifiuta di feticizzare la conoscenza
come qualcosa di separato e superiore all’azione. Così
facendo, essa si sottrae all’errore fondamentale della
teoria tradizionale: mentre questa si è estraniata dalla
prassi sociale come sua origine, credendo di poter
fondare il proprio metodo esclusivamente su criteri
conoscitivi immanenti, la teoria, intesa nel senso della
critica, rimane costantemente consapevole del proprio
nesso costitutivo.
Max Horkheimer, Teoria tradizionale e
teoria critica:
Adottando tale prospettiva, la teoria critica diviene in grado
di riconoscere che l’ideale della libertà dell’intellettuale è un
mito: la ricerca scientifica disinteressata è impossibile in una
società in cui gli uomini non sono ancora autonomi; il
ricercatore è sempre parte dell’oggetto che intende studiare, e
dato che la società che studia non è ancora il frutto di una
scelta libera e razionale dell’uomo lo scienziato non può
evitare di partecipare a quell’eteronomia. La sua percezione è
necessariamente mediata dalle categorie sociali al di sopra
delle quali non si può sollevare.
Max Horkheimer, Teoria tradizionale e
teoria critica:
Per quanto in definitiva faccia parte della
società, il ricercatore diviene così capace di
sollevarsi al di sopra di essa. Effettivamente
il suo dovere è quello di individuare quelle
forze e tendenze negative della società
che rinviano a una realtà diversa.
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):
Per cultura affermativa intenderemo quella cultura che, proprio dell’epoca
borghese, ha portato, nel corso del suo sviluppo, a fare del mondo
dell’anima e dello spirito un regno autonomo di valori, a staccarlo dalla
ciiltà materiale per innalzarlo al di sopra di questa. Il suo tratto più
caratteristico è l’affermazione che c’è un mondo di valore superiore ed
eternamente migliore, il quale è impegnativo per tutti e va approvato
incondizionatamente. Questo mondo è essenzialmente diverso dal mondo
effettivo della lotta quotidiana per l’esistenza, e tuttavia ogni individuo può
realizzarlo per sé «dall’interno», senza cambiare quel mondo fattuale.
Soltanto in questa cultura le attività e gli oggetti cultuali assumono questa
dignità che si innalza al di sopra della vita di tutti i giorni: la loro recezione
diventa un atto di solennità e di elevazione…
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):
Nella cultura dell’anima hanno trovato accesso, sotto una forma
falsa, quelle forze e quei bisogni che non hanno trovato posto
nell’esistenza quotidiana. L’ideale della cultura ha accolto in sé
l’aspirazione ad una vita più felice: all’umanità, alla bontà, alla gioia,
alla verità e alla solidarietà. Ma questi valori portano tutti il segno
affermativo di appartenere ad un mondo più alto, più puro, non
quotidiano. Essi vengono interiorizzati come doveri della singola
anima (e così l’anima dovrebbe portare a compimento ciò che viene
costantemente tradito nell’esistenza esterna dell’Intero), oppure
rappresentati come oggetti dell’arte (e così la loro realtà viene
assegnata ad una sfera che per sua essenza non è quella della vita
effettiva)…
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):
Alla miseria dell’individuo isolato [la cultura affermativa]
risponde con un umanitarismo universale, alla miseria fisica con la
bellezza dell’anima, alla schiavitù esterna con la libertà interiore,
all’egoismo brutale con il regno della virtù e del dovere. Se
all’epoca dell’ascesa combattiva della nuova società tutte queste
idee avevano un carattere progressivo, che andava oltre lo stadio
raggiunto dall’organizzazione dell’esistenza, ora invece esse
servono, in misura crescente e di pari passo con il consolidarsi del
dominio della borghesia, al compito di tenere a freno le masse
insoddisfatte, e assumono la funzione di una mera autoesaltazione
giustificatoria: esse nascondono la mutilazione fisica e psichica
dell’individuo…
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):
Interiorizzando ciò che è bello e privo di scopo e
facendone, assieme alla qualità della validità
universale e vincolante e della bellezza sublime, i
valori culturali della borghesia, si costruisce nella
cultura un regno di apparente unità e di apparente
libertà, in cui i rapporti antagonistici che reggono
l’esistenza devono essere inquadrati e pacificati.
La cultura approva e tiene celate le nuove
condizioni sociali di vita…
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura (1937):
Persino la felicità diventa nella cultura affermativa un mezzo per inquadrarsi meglio e
accontentarsi di poco. L’arte, mostrando la bellezza come una presenza reale, acquieta la
rivolta della nostalgia. Insieme con le altre sfere culturali essa ha contribuito alla grande
realizzazione educativa di questa cultura, quella cioè di diciplinare l’individuo liberato,
per il quale la nuova libertà aveva portato con sé una nuova forma di schiavitù, in modo
tale da fargli sopportare l’illibertà dell’esistenza sociale. Il contrasto palese tra le
possibilità di una vita più ricca, dischiuse proprio con l’aiuto del pensiero moderno, e la
povertà della configurazione fattuale della vita ha continamente costretto questo
pensiero a interiorizzare le proprie rivendicazioni, a eludere le proprie conseguenze. C’è
voluta un’educazione secolare per rendere tollerabile quel grande shock che si riproduce
ogni giorno: da una parte la predica continua sulla inalienabilità, libertà, grandezza e
dignità della persona, sulla magnificenza e autonomia della ragione, sulla bontà
dell’humanitas e di quell’amore per gli uomini e di quella giustizia che non fanno
distinzione; dall’altra l’umiliazione della più grande parte dell’umanità, l’irrazionalità
della vita sociale, la vittoria del mercato di lavoro sull’humanitas, del profitto sull’amore
per gli uomini…
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :
La cultura affermativa è stata la forma storica, in cui sono
stati custoditi i bisogni umani che andavano al di là della
riproduzione materiale dell’esistenza; per questo verso, vale
per la cultura affermativa quello che vale anche per la forma
di realtà sociale in cui essa rientra: il diritto è anche dalla sua
parte. E’ vero che ha tolto ai “rapporti esterni” il peso della
responsabilità per la “destinazione dell’uomo”, rendendo
stabile la loro ingiustizia; ma vi ha anche contrapposto
l’immagine di un ordine migliore, la cui realizzazione è
affidata, come un compito all’ordine presente.
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :
L’immagine è distorta, e questa distorsione ha falsato tutti i valori culturali
della borghesia. Eppure è un’immagine di felicità: c’è un frammento di
beatitudine terrena nelle opere della grande arte borghese, anche quando
esse dipingono il cielo. L’individuo gode la bellezza, la bontà, lo splendore
e la pace, la gioia vittoriosa; anzi gode persino il dolore e la pena, la
crudeltà e il crimine. Egli vive una liberazione, e così l’individuo
comprende e trova comprensione e risposta ai suoi impulsi e alle sue
esigenze. Ha luogo una rottura privata della reificazione. Nell’arte non
occorre conformarsi alle leggi della realtà. Ciò che qui importa è l’uomo,
non la sua professione o la sua posizione. Il dolore è dolore, e la gioia la
gioia. Il mondo appare di nuovo come ciò che esso è dietro la forma della
merce: un paesaggio è realmente un paesaggio, un uomo è realmente un
uomo e una cosa realmente una cosa…
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :
Nella misura in cui la cultura ha dato forma alle
nostalgie e agli impulsi appagabili, ma di fatto
inappagati degli uomini, essa perderà il proprio
oggetto… La bellezza si incarnerà diversamente,
quando non dovrà più essere rappresentata come
apparenza reale, ma dovrà esprimere la realtà e la
gioia che si trarrà da essa.
H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):
«La ragione è la categoria fondamentale del pensiero filosofico, l’unica
per mezzo della quale questo si mantiene legato al destino dell’umanità.
La filosofia voleva investigare le ragioni ultime e più universali
dell’essere. Sotto la denominazione di ragione essa ha pensato l’idea di
un essere autentico, in cui siano unificate tutte le opposizioni di
importanza decisiva (tra soggetto e oggetto, essenza e fenomeno,
pensiero ed essere). A questa idea di connetteva la convinzione che
l’essente non fosse già razionale in modo immediato, ma dovesse ancora
essere addotto a ragione… Essendo il mondo in quanto dato legato al
pensiero razionale, anzi dipendendone nel suo essere, ogni cosa che
contraddiceva la ragione, che non era razionale, era considerata
qualcosa da superare. La ragione era così eretta a istanza critica»
H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):
Il concetto di ideologia ha un senso soltanto se rimane legato
all’interesse della teoria ad un cambiamento della struttura sociale. Non
è né un concetto sociologico, né filosofico, ma un concetto politico.
Esso tratta una dottrina non in rapporto al condizionamento sociale di
ogni verità o in rapporto ad una verità assoluta, ma esclusivamente in
rapporto a quell’interesse. Innumerevoli dottrine filosofiche non sono
altro che mere ideologie, le quali, nelle loro illusioni su stati di cose
socialmente rilevanti, si lasciano docilmente inquadrare nel generale
apparato del dominio. La filosofia idealistica della ragione non è tra
queste, e non lo è proprio nella misura in cui (…) ha saputo vedere
alcuni punti di importanza decisiva della società borghese: l’Io astratto,
la ragione astratta, la libertà astratta. Per questo verso è una coscienza
giusta.
H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937):
Se ragione significa dare alla vita una forma che
corrisponda alla libera decisione degli uomini
come soggetti di conoscenza, allora la ragione
pone ormai l’esigenza di creare
un’organizzazione sociale in cui gli individui
regolino in comune la propria vita secondo i loro
bisogni. In questa società, in cui la ragione fosse
realizzata, sarebbe superata anche la filosofia.
Herbert Marcuse:
Di per sé la scientificità non è mai una garanzia per la
verità, e tantomeno in una situazione come quella
odierna, n cui la verità è in stretta opposizione ai fatti
e si trova anzi celata dietro ai fatti. E non è la
prevedibilità scientifica che possa afferrarne il
carattere futuro…
Senza la fantasia, ogni conoscenza filosofica rimane
sempre e soltanto legata al presente o al passato e
tagliata fuori dal futuro, che è il solo a congiungere la
filosofia con la storia reale dell’umanità.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 15
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
Herbert Marcuse, Prefazione a Cultura e società:
Una cosa (…) non era incerta per l’autore di
questi saggi e per i suoi amici dell’Istituto: il
riconoscimento del fatto che lo stato fascista era
la società fascista, che il potere totalitario e la
ragione totalitaria provenivano dalla struttura
della società esistente, che era allora sul punto di
lasciarsi alle spalle il suo passato liberale e di
annettersi la sua negazione storica.
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :
La situazione cambia non appena una mobilitazione soltanto
parziale (che lascia di riserva la vita privata dell’individuo) non
basti più a mantenere in piedi la forma esistente del processo di
lavoro, e occorra invece una «mobilitazione totale», per mezzo
della quale l’individuo venga sottomesso in tutte le sfere della sua
esistenza, alla disciplina dello Stato autoritario. Qui la borghesia
entra in conflitto con la sua stessa cultura. La mobilitazione totale
nell’epoca del capitalismo monopolistico non è più conciliabile
con quei momenti progressivi della cultura imperniati sull’idea
della personalità. Ha inizio così l’autosoppressione della cultura
affermativa.
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :
La cultura affermativa aveva superato gli antagonismi sociali in un’astratta
universalità interiore; come persone, nella libertà e dignità della loro anima,
tutti gli uomini hanno lo stesso valore; in alto, al di sopra dei contrasti
fattuali, si eleva il regno della solidarietà culturale. Questa astratta
comunità interiore (astratta perché lascia sussistere i contrasti reali) si
capovolge, nell’ultimo periodo della cultura affermativa, in una comunità
esteriore altrettanto astratta. L’individuo viene posto in una falsa comunità
(razza, stirpe, sangue e terra). Ma questa esteriorizzazione ha la stessa
funzione dell’interiorizzazione: rinuncia e integrazione nell’ordine
esistente, resi sopportabili dall’apparenza reale della soddisfazione. Che gli
individui liberati ormai da quattrocento anni marcino così bene nelle
colonne dello Stato autoritario, è un risultato a cui ha contribuito non poco
la cultura affermativa...
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :
(…) L’individuo ripieno di anima cede più facilmente, si piega
più umilmente al destino, ubbidisce meglio all’autorità. Dopo
tutto, mantiene per sé tuta quanta la ricchezza dell’anima e può
trasfigurarsi tragicamente ed eroicamente. Ciò che è stato
seminato da Lutero in poi, cioè l’intensa educazione alla libertà
interiore, dà i suoi più bei frutti ora che la libertà interiore
sopprime se stessa risolvendosi in illibertà esteriore. (…) Le
feste e le celebrazioni dello Stato autoritario, le sue parate e
tutta la sua fisionomia, i discorsi dei suoi capi, anch’essi
parlano all’anima. Essi si rivolgono al cuore, anche se non
pensano che al potere.
Herbert Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura :
Noi viviamo in un periodo storico in cui tutto dipende da una enorme mobilitazione e
concentrazione di tutte le forze disponibili. A che serve questa mobilitazione e concentrazione
delle forze? Ciò che Ernst Jünger indica ancora come salvataggio della «totalità della nostra
vita», come creazione di un mondo eroico del lavoro e simili, si rivela in seguito sempre più
come trasformazione di tutta quanta l’esistenza a servizio degli interessi economici più forti.
E’ sulla base di questi che sono determinate anche le esigenze di una nuova cultura. La
necessaria intensificazione e generalizzazione della disciplina di lavoro fanno apparire come
tempo sprecato l’attività rivolta agli «ideli di una scienza obiettiva e di un’arte la cui esistenza
sia fine a se stessa»; esse rendono desiderabile alleggerirsi, in questo campo, di una parte del
bagaglio. (…) Se prima l’elevazione nella cultura doveva dare soddisfazione al desiderio
personale di felicità, ora invece la felicità del singolo deve sparire nella grandezza del popolo.
Se prima la cultura aveva acquitato nell’apparenza reale la pretesa di felicità, deve ora
insegnare all’individuo che non gli è nemmeno permesso di avanzare per sé una pretesa del
genere: «Il criterio dato risiede nella condotta di vita del lavoratore. Non si tratta di migliorare
questa condotta, ma di darle un senso supremo, decisivo». Anche qui l’«elevazione» dovrebbe
sostituire il cambiamento. Così questo smantellamento della cultura è l’espressione della
massima acutizzazione di tendenze che erano già da tempo alla base della cultura
affermativa…
Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo
nella concezione totalitaria dello Stato (1934):…L’esistenziale in quanto tale viene dispensato da ogni razionalizzazione e da ogni
inquadramento normativo che lo trascendano; esso è a se stesso norma assoluta e non è
accessibile a nessuna critica e giustificazione razionale. In questo senso gli stati di cose e
le relazioni politiche vengono ora definiti come i rapporti «che decidono» dell’esistenza
nel senso più pregnante, E, all’interno dei rapporti politici, tutte le relazioni sono a loro
volta orientate al verificarsi del «caso estremo»: alla decisione sullo «stato di
eccezione», su guerra e pace. Il vero depositario del potere politico si definisce al di là di
ogni legalità o legittimità: «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»; la sovranità si
fonda sul potere effettivo di prendere questa decisione (decisionismo). La relazione
politica per eccellenza è la «relazione di amico-nemico»; il suo caso estremo è a sua
volta la guerra, che va fino all’eliminazione fisica del nemico. Non c’è nessuna relazione
sociale che in caso estremo non si capovolga in una relazione politica: dietro a tutti i
rapporti economici, sociali, religiosi, culturali c’è la politicizzazione totale. Non c’è
nessuna sfera dell’esistenza privata o pubblica, nessuna istanza giuridica e razionale che
si possa opporre a questa politicizzazione…
Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo
nella concezione totalitaria dello Stato (1934):
La totalità sociale, intesa come realtà autonoma e primaria rispetto
agli individui diventa, semplicemente in grazia del suo carattere di
totalità, anche un valore autonomo e primario: la totalità è, in
quanto totalità, il vero e l’autentico. Qui non viene posta la
questione se ogni totalità non debba prima di tutto legittimarsi di
fronte agli individui, e in che misura le loro possibilità e necessità
siano in essa superate e conservate. Spostando la totalità all’inizio
anziché alla fine, si sbarra la via alla critica teorica e pratica della
società, che porta appunto a questa totalità. La totalità viene
mistificata in maniera programmatica
Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo
nella concezione totalitaria dello Stato (1934):
L’attivizzazione e la politicizzazione totale strappano ampi strati
sociali alla neutralità che li paralizzava, e creano nuove forme di
lotta politica e nuovi metodi di organizzazione politica su tutto un
fronte che ha una larghezza e profondità finora sconosciute. Viene
abolita la separazione di Stato e società, che il XIX secolo nel suo
liberalismo aveva cercato di metter ein atto: lo Stato fa sua l’opera
di integrazione politica della società. E in seguito
all’esistenzializzazione e totalizzazione della politica, lo Stato
diventa anche il portatore delle possibilità autentiche
dell’esistenza stessa. Non è lo Stato che deve rispondere all’uomo,
ma l’uomo che deve rispondere allo Stato: l’uomo è alla mercè
dello Stato.
Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella
concezione totalitaria dello Stato (1934):
Kant era convinto che ci fossero dei diritti «inalienabili» degli uomini, a cui
«l’uomo non può rinunziare, nemmeno se vuole». (…) Kant aveva legato
l’uomo al dovere che questi dà a se stesso, alla libera autodeterminazione in
quanto unica legge fondamentale; l’esistenzialismo sopprime questa legge
fondamentale e vincola l’uomo «al Führer e al movimento che a questi si è
votato in maniera incondizionata» (Heidegger). Altra era stata la fede di
Hegel: «Ciò che nella vita è vero, grande e divino, lo è grazie all’idea…
Tutto ciò che tiene insieme la vita umana, che ha un valore e come tale
viene considerato, è di natura spirituale, e questo regno dello spirito esiste
soltanto grazie alla coscienza della verità e del diritto e alla comprensione
delle idee». Oggi l’esistenzialismo la sa più lunga: «Le regole del vostro
essere non siano dottrine e “idee”. Il Führer in persona, ed egli soltanto, è la
realtà tedesca odierna e futura e la sua legge» (Heidegger).
Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella
concezione totalitaria dello Stato (1934):
(…) L’esistenzialismo, che una volta si considerava
l’erede dell’idealismo tedesco, ha rigettato la massima
eredità spirituale della storia tedesca. Non con la morte
di Hegel, ma soltanto adesso ha luogo la «caduta dei
Titani» della filosofia classica tedesca. Allora le sue
conquiste più importanti erano state salvate e accolte
nella teoria scientifica della società, nella critica
dell’economia politica. Incerto è oggi il destino del
movimento operaio, in cui si era conservata l’eredità di
questa filosofia.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 16
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
Max Horkheimer, Materialismo e
metafisica:
«Elevare il lavoro a concetto supremo
dell’attività umana significa professare
un’ideologia ascetica. (…) Mantenendo
questo concetto generale i socialisti si
fanno portatori della propaganda
capitalistica»
Herbert Marcuse, Per la critica
dell’edonismo :
«La realtà della felicità è la realtà della
libertà come autodeterminazione
dell’umanità liberata nella sua lotta comune
con la natura.
(…) Nella loro forma complessiva (…) la
felicità e la ragione, coincidono»
Herbert Marcuse, Per la critica
dell’edonismo :
«Nella misura in cui l’illibertà è già presente nei bisogni
e non nella loro gratificazione, essi devono essere i primi
a essere liberati – non con un’azione educativa o di
rinnovamento morale dell’uomo, ma con un processo
politico ed economico che comprende la possibilità per
la comunità di disporre dei mezzi di produzione, il
riorientamento del processo produttivo verso i bisogni e i
desideri dell’intera società, l’accorciamento della
giornata lavorativa e l’attiva partecipazione degli
individui alla gestione della comunità. »
M. Horkheimer, Storia e psicologia:In ogni caso le azioni degli uomini non sono solo determinate
dalla loro tendenza fisica all’autoconservazione, e neppure
dall’immediato istinto sessuale, ma ad esempio anche dal bisogno
di usare le proprie forze aggressive, e inoltre dal bisogno che la
propria persona sia riconosciuta e confermata, dal bisogno di
ottenere sicurezza all’interno di una collettività, e da altri impulsi
ancora. La psicologia moderna (Freud) ha mostrato come tali
esigenze si distinguano dalla fame per il fatto che quest’ultima
richiede una soddisfazione più diretta e costante, mentre quelle
sono in larga misura differibili, modellabili, e suscettibili di
soddisfazione fantastica.
Erich Fromm:
Né l’apparato esterno del potere, né gli interessi
razionali, sarebbero sufficienti a garantire il
funzionamento della società se non subentrassero
le tensioni libidinali dell’essere umano. Sono le
forze libidinali a costituire, per così dire, il
cemento senza il quale la società non rimarrebbe
unita, e a contribuire alla creazione delle grandi
ideologie sociali in ogni sfera cultuale.
Herbert Marcuse, Ragione e rivoluzione:
«La teoria conserverà la verità anche
se la prassi rivoluzionaria devierà
dalla sua giusta via. La prassi segue
la verità e non viceversa. »
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Lezione n. 17
II SEMESTRE
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Walter Benjamin, Sul concetto di storia
1. Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere,
ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli
assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in
bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un
sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse
trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo,
che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la
mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può
immaginare della filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato
«materialismo storico». Esso può farcela senz’altro con chiunque se
prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e
brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia
2. «Una delle caratteristiche più notevoli dell’animo umano, - scrive Lotze, - è,
fra tanto egoismo nei particolari, la generale mancanza di invidia del presente
verso il principio futuro». La riflessione porta a concludere che l’idea di felicità
che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta
per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che potrebbe suscitare la nostra
invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato, fra persone a cui avremmo
potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell’idea di
felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione. Lo stesso
vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato
reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa
segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A
noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una
debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si
lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia
6. Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come
propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso
balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di
fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al
soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il
patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo
stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In
ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo
che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come
redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il
dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato
dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli
vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia
8. La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di
emergenza» in cui vivamo è la regola. Dobbiamo giungere a un
concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di
fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di
emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro
il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i
suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una
legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono
«ancora» possibile nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico.
Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea
di storia da cui proviene non sta più in piedi.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia
9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un
angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo
sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.
L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al
passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola
catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia
ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è
impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più
chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a
cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al
cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia
14. La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il
tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di «attualità»
(Jetztzeit). Così, per Robespierre, la Roma antica era un passato
carico di attualità, che egli faceva schizzare dalla continuità della
storia. La Rivoluzione francese s’intendeva come una Roma
ritornata. Essa richiamava l’antica Roma esattamente come la
moda richiama in vita un costume d’altri tempi. LA moda ha il
senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato.
Essa è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in
un’arena dove comanda la classe dominante. Lo stesso balzo,
sotto il cielo libero della storia, è quello dialettico, come Marx ha
inteso la rivoluzione.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
L’illuminismo, nel senso più ampio di
pensiero in continuo progresso, ha
perseguito da sempre l’obiettivo di
togliere agli uomini la paura e di
renderli padroni. Ma la terra
interamente illuminata splende all’
insegna di trionfale sventura.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Il programma dell’illuminismo era di liberare il mondo
dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di
rovesciare l’immaginazione con la scienza. (…) D’ora in
poi la materia dev’essere dominata al di fuori di ogni
illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti,
di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del
calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo,
sospetto. E quando l’illuminismo può svilupparsi
indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più
freno.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per
toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza
spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che
aumentare. Ciò deriva dal fatto che l’Illuminismo
riconosce se stesso anche nei miti. Quali che siano i miti
a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in
questo conflitto, argomenti. rendono omaggio al
principio della razionalità analitica che essi
rimproverano all’illuminismo. L’illuminismo è
totalitario.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Gli uomini si distanziano col pensiero dalla
natura per averla di fronte nella posizione in cui
dominarla. Come la cosa, lo strumento materiale,
che si mantiene identico in situazioni diverse, e
separa così il mondo – caotico, multiforme e
disparato – da ciò che è noto, uno ed identico, il
concetto è lo strumento ideale, che si apprende a
tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Gli uomini pagano l’accrescimento del loro
potere con l’estraneazione da ciò su cui lo
esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose
come il dittatore agli uomini: che conosce in
quanto è in grado di manipolarli. Lo scienziato
conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così
il loro in-sé diventa per-lui. Nella trasformazione
l’essenza delle cose si rivela ogni volta come la
stessa: come sostrato del dominio.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento
spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il
Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo,
e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.
Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io
in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è
sempre stata congiunta alla cieca decisione di
conservarlo.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
L’industria culturale tende a presentarsi come un insieme di proposizioni
protocollari e a diventare, proprio in questo modo, il profeta
inconfutabile dell’esistente. Essa si apre la strada, con straordinaria
abilità, fra la Scilla del falso identificabile e denunciabile e la Cariddi
della verità manifesta, riproducendo tale e quale il fenomeno che
occlude, col suo spessore, la conoscenza e insediando senz’altro come
ideale la sua superficie onnipresente e compatta. L’ideologia si scinde
nella fotografia della realtà bruta e nella nuda menzogna del suo
significato, che non è formulata esplicitamente, ma suggerita e
inculcata. A dimostrazione della divinità del reale ci si limita a ripeterlo
cinicamente all’infinito. Questa prova fotologica non è stringente, ma è
schiacciante. Chi, di fronte alla potenza della monotonia, dubita ancora
è un pazzo
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
(…) La specie umana, comprese le sue macchine, i suoi prodotti chimici, le
sue forze organizzative (…), è, in quest’epoca, le dernier cri
dell’adattamento. Non solo gli uomini hanno superato i loro predecessori
diretti, ma li hanno estirpati così radicalmente come di rado una specie più
recente ha fatto con la specie anteriore, non eccettuati i sauri carnivori.
Di fronte a ciò sembra quasi un capriccio voler costruire la storia
universale, come ha fatto Hegel, in funzione di categorie come libertà e
giustizia. Esse derivano, infatti, dagli individui marginali, da quelli che,
considerati dal punto di vista del corso complessivo, non significano nulla,
se non in quanto contribuiscono a introdurre condizioni sociali transitorie in
cui si producono, in quantità particolarmente grandi, macchine e prodotti
chimici per il rafforzamento della specie e la sottomissione delle altre.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Dal punto di vista di questa storia seria tutte le idee, i tabù, le
religioni, le fedi politiche, interessano solo nella misura in cui,
sorte da casi molteplici, aumentano o diminuiscono le possibilità
naturali della specie umana sulla terra o nell’universo. La
liberazione dei borghesi dall’ingiustizia del passato feudale e
assolutistico è servita, attraverso il liberalismo, a scatenare la
produzione meccanica, come l’emancipazione della donna finisce
nel suo addestramento come arma speciale. Lo spirito, e tutto ciò
che vi è di buono, è . nella sua origine e nella sua esistenza –
irretito senza scampo in questo orrore. Il siero che il medico
somministra al bambino malato , è dovuto all’aggressione a una
creatura inerme.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
(…) La funzione storica della cultura è tutta nel suo effetto
di ritorno su questa organizzazione, che essa potenzia e
sviluppa ulteriormente. Onde il pensiero autentico, che se
ne libera, la ragione nella sua forma pura, assume tratti di
follia, rilevati da sempre dagli autoctoni. (…) La parte
svolta dalla ragione è quella di uno strumento di
adattamento, e non di un sedativo della volontà, come
potrebbe sembrare dall’uso che ne ha fatto a volte
l’individuo. La sua astuzia consiste nel fare, degli uomini,
belve di raggio sempre più vasto, e non nel produrre
l’identità di soggetto e oggetto…
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Pur avendo osservato da molti anni che nell’attività
scientifica moderna le grandi invenzioni si pagano con una
crescente decadenza della cultura teoretica, credevamo pur
sempre di poter seguire la falsariga dell’organizzazione
scientifica, nel senso che il nostro contributo si sarebbe
limitato essenzialmente alla critica o alla continuazione di
dottrine particolari. Esso avrebbe dovuto attenersi, almeno
nell’ordinamento tematico, alle discipline tradizionali:
sociologia, psicologia e gnoseologia. I frammenti raccolti in
questo volume mostrano che abbiamo dovuto rinunciare a
quella fiducia.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Se l’attento studio ed esame della tradizione scientifica (…) è un
momento indispensabile della conoscenza, è entrata d’altra parte in crisi,
nel presente sfacelo della civiltà borghese, non solo l’organizzazione,
ma il senso stesso della scienza. Ciò che i fascisti di ferro ipocritamente
lodano e i docili esperti di umanità ingenuamente eseguono,
l’autodistruzione incessante dell’illuminismo, costringe il pensiero a
vietarsi fin l’ultimo candore verso le consuetudini e le tendenze dello
spirito del tempo. Se la vita pubblica ha raggiunto uno stadio dove il
pensiero si trasforma inevitabilmente in merce e la lingua in
imbonimento della medesima, il tentativo di mettere a nudo questa
depravazione deve rifiutare obbedienza alle esigenze linguistiche e
teoretiche attuali, prima che le loro conseguenze storiche universali lo
rendano del tutto impossibile
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
(…) In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia
rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non
capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non
si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente
non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli
interessi materiali, ma anche con la strapotenza della
suggestione. La filosofia non è sintesi, base o
coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla
suggestione, la decisione della libertà intellettuale e
reale.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
(…) In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia
rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non
capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non
si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente
non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli
interessi materiali, ma anche con la strapotenza della
suggestione. La filosofia non è sintesi, base o
coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla
suggestione, la decisione della libertà intellettuale e
reale.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
La divisione del lavoro, come si è formata sotto il dominio, non viene
per questo ignorata. La filosofia non fa che penetrare la menzogna per
cui sarebbe inevitabile. Non lasciandosi ipnotizzare dalla strapotenza, le
tiene dietro in tutti gli angoli del meccanismo sociale, che – per prima
cosa – non deve essere rovesciato né diretto ad altri fini, ma compreso al
di fuori dell’incantesimo che esercita. [La filosofia] non riconosce
norme o fini astratti, che si presterebbero ad applicazione in contrasto
coi fini e con le norme vigenti. La sua libertà dalla suggestione
dell’esistente consiste proprio in ciò che essa accetta – senza starci
troppo a pensare – gli ideali borghesi: quelli che sono ancora proclamati
– e sia pure in forma alterata – dagli esponenti dell’attuale stato di cose,
o quelli che sono ancora riconoscibili come significato oggettivo delle
istituzioni, tecniche e culturali, a dispetto di ogni manipolazione.
Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo
Essa crede che la divisione del lavoro esiste per gli uomini e che il
progresso conduce alla libertà: e proprio per questo entra facilmente in
conflitto con la divisione del lavoro e col progresso. Essa presta una voce
alla contraddizione di credenza e realtà e si attiene così strettamente al
fenomeno temporalmente condizionato. Per essa il massacro su scala
colossale non conta, come per il giornale, più della liquidazione di alcuni
ricoverati. Essa non antepone l’intrigo dell’uomo politico che si mette
d’accordo coi fascisti a un modesto linciaggio, i turbini di réclame
dell’industria cinematografica all’intimo annuncio di un cimitero. Non ha
nessuna particolare inclinazione per ciò che è «grande». Essa è ad un tempo
estranea all’esistente e capace di comprenderlo intimamente. La sua voce
appartiene all’oggetto, ma senza che questo lo voglia; è la voce della
contraddizione, che, senza di essa, non si farebbe udire, ma trionferebbe
muta.
Theodor W. Adorno
La filosofia che una volta sembrò
superata, si mantiene in vita perché è
stato mancato il momento della sua
realizzazione.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 18
II SEMESTRE
A.A. 2014-2015
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)
L’analisi si attiene alle regole della teoria critica che è
libera proprio perché «accetta gli ideali borghesi, siano
essi quelli ancora coltivati (seppure in senso distorto) dai
rappresentanti della borghesia, o quelli in cui occorre
riconoscere, a dispetto di ogni manipolazione, il
significato oggettivo delle istituzioni tecniche e
culturali.. Essa espone la lingua alla contraddizione tra
fede e realtà e ciò facendo riflette un fenomeno del
tempo».
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)La fede nella libertà politica e nell’influenza politica del cittadino
viene contrapposta alla realtà della situazione attuale. Non si può
avere più alcun dubbio sulla ristrettezza dello spazio in cui è stata
confinata la partecipazione politica del cittadino medio. Questa
partecipazione può concretizzarsi, una volta ogni due anni circa,
nel processo elettorale in parte preformato in parte manipolato
(oppure nella astensione elettorale). Nei libri destinati
all’educazione politica e persino in molti dibattiti delle scienze
politiche la «partecipazione» si condensa in un valore in sé,
mentre l’espressione del voto e l’interesse politico diventano un
feticcio. Questa reificazione rispecchia appunto una buona parte
della realtà deformata.
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)
D’altro lato, il senso obiettivo delle istituzioni esistenti
nel nostro paese è in contraddizione con lo sviluppo
concreto. Sul piano giuridico il popolo è ancora e
sempre sovrano mentre su quello politico continua a
disporre, nel parlamento, di una istituzione fornita di
tutti gli auspicabili crismi costituzionali. Ci si può
chiedere dunque se anche oggi un’autentica
partecipazione dei cittadini alla vita politica, seppure non
effettiva, non sia per lo meno possibile…
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)Occorre (…) stabilire fino a che punto una società riesca a
trasformare il dominio in autorità razionale e cioè a dare
equamente al lavoro ciò che spetta al lavoro e all’esperienza ciò
che spetta all’esperienza, nell’interesse della collettività e sotto
il suo controllo; e inoltre, fino a che punto essa riesca a
superare la separazione fra il potere politico e la riproduzione
apparentemente privata della vita. A parte il suo carattere molto
(e forse troppo) generale questa formulazione indica la via di
un possibile sviluppo storico sul quale noi crediamo oggi di
poter fondatamente misurare il valore della coscienza
politica…
Hannah Arendt, The Human
Condition
Lo spazio pubblico o spazio dell’apparenza «si
forma ovunque gli uomini condividano le
modalità dell’azione e del discorso, e quindi
anticipa e precede ogni costituzione formale della
sfera pubblica e delle varie forme di governo, le
varie forme cioè in cui la sfera pubblica può
essere organizzata».
Hannah Arendt, The Human
Condition
…Una vita spesa nell’esperienza
privata, di “ciò che è proprio” (idion),
fuori dal mondo comune, è idiota per
definizione
Hannah Arendt, The Human
Condition
La peculiarità dello spazio pubblico è che
diversamente dagli spazi che sono opera delle
nostre mani, non sopravvive alla realtà del
movimento che lo crea, ma scompare non solo
con la scomparsa degli uomini – come nelle
grandi catastrofi, quando il corpo politico di un
popolo viene distrutto – ma con la scomparsa e la
fine delle loro stesse azioni.
Hannah Arendt, The Human
Condition
«Il potere è ciò che mantiene in vita la
sfera pubblica, lo spazio potenziale
dell’apparire tra uomini che agiscono e
parlano»
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
I fondamenti strutturali della «sfera pubblica
borghese»:
1) sistematica astrazione dalle disuguaglianze di
status
2) assenza di limiti al processo di
problematizzazione riflessiva
3) assoluta apertura verso l’esterno
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
La «sfera pubblica borghese» come luogo di
una libera discussione razionale fondata
sulla sola autorità dell’argomento
migliore, una determinazione cooperativa
del bene comune, non distorta da alcun
interesse di parte
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
La sfera pubblica borghese può essere concepita in un
primo momento come la sfera dei privati riuniti come
pubblico; costoro rivendicano subito contro lo stesso
potere pubblico la regolamentazione della sfera pubblica
da parte dell’autorità, per concordare con questa le
regole generali del commercio nella sfera – privatizzata
in linea di principio, ma pubblicamente rilevante – dello
scambio di merci e del lavoro sociale. Peculiare e
storicamente senza precedenti è il tramite di questo
confronto politico: la pubblica argomentazione razionale
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)(…) I borghesi sono privati; come tali non «dominano». Le loro
rivendicazioni contro il pubblico potere si indirizzano perciò non
contro la concentrazione del dominio che dovrebbe essere
«spartito»; ma piuttosto attaccano il principio del dominio vigente.
Il principi del controllo contrappostogli dal pubblico borghese, la
pubblicità appunto, mira a modificare il dominio stesso. La
rivendicazione di potere così come si viene delineando
nell’argomentare pubblico, quella rivendicazione che eo ipso
rinunci alla forma di una pretesa di dominio, se si realizzasse
dovrebbe portare a qualcosa di più che a una mera sostituzione
della base di legittimazione di una sovranità conservatesi in linea
di principio
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
(…) Il processo con cui il pubblico di privati che
discutono una funzione critica si appropria della sfera
pubblica autoritariamente regolata e con cui questa viene
istituita come momento della critica al pubblico potere,
si compie con la ristrutturazione delle funzioni di quella
sfera pubblica letteraria già dotata di istituzioni quali il
pubblico e le relative piattaforme di discussione. Tramite
questa mediazione, tutto il contesto delle esperienze
dell’ambito privato riferito al pubblico penetra anche
nell’ambito di una sfera pubblica politica.
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
(…) Con la nascita di una sfera del sociale, per la cui regolamentazione
l’opinione pubblica si batte contro il potere pubblico, il tema
dell’ambito pubblico moderno, paragonato a quello antico, si sposta dai
compiti propriamente politici di una cittadinanza che agisce
com’unitariamente (giurisdizione all’interno e autodeterminazione verso
l’esterno) ai compiti prevalentemente civili di una società che discute
pubblicamente (garanzia dello scambio di merci). La funzione politica
dell’elemento pubblico borghese consiste nel disciplinare la società
civile (civil society, société civile, in contrapposizione a res publica);
con le esperienze di una sfera privata intimizzata alle spalle, essa tiene
fronte all’autorità monarchica stabilita; in questo senso, sin dall’inizio,
essa ha carattere insieme privato e polemico.
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)(…) I criteri di universalità e astrattezza che contrassegnano la norma giuridica
dovevano avere peculiare evidenza per i privati che, nel processo di
comunicazione della dimensione pubblica letteraria, si accertano della loro
soggettività, derivata dalla sfera dell’intimità. Infatti, in quanto pubblico, essi
sono già sottoposti a quella legge non formulata che codifica la parità degli
uomini colti, legge la cui astratta universalità è sola a garantire che gli individui
sussulti in modo parimenti astratto sotto di essa come «puri e semplici uomini»
vengano liberati nella loro soggettività proprio per tale via. I clichè di
«eguaglianza» e «libertà», irrigiditi nelle formule della propaganda borghese
rivoluzionaria, conservano qui ancora il loro nesso vivente: il dibattito pubblico
del pubblico borghese si compie, in linea di massima, prescindendo da tutti i
ranghi sociali e politici precostituiti, secondo regole universali che garantiscono
un campo d’azione al dispiegamento letterario nella loro intimità, dal momento
che restano, in quanto tali, assolutamente esteriori agli individui;
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)(…) Contemporaneamente, ciò che in tali condizioni risulta dal pubblico
dibattito, richiede raziocinio; secondo tale idea, un’opinione pubblica
nata dalla forza dell’argomento migliore aspira a quella razionalità
moralisticamente pretenziosa che cerca di far coincidere giustezza e
giustizia. L’opinione pubblica deve corrispondere alla «natura della
cosa». Perciò le «leggi» che essa vorrebbe stabilire ora anche per la
sfera sociale, possono pretendere, oltre ai criteri formali di generalità e
astrattezza, anche quello materiale della razionalità. In questo senso i
fisiocratici spiegano che soltanto l’opinion publique conosce e rileva
l’ordre naturel perché il monarca illuminato lo possa porre a base del
suo agire nella forma di norme generali. Il potere deve essere portato per
questa via a una convergenza con la ragione.
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
Come privato il borghese è due cose in una: proprietario
di beni e persone, e uomo fra gli uomini: bourgeois e
homme. Questa ambivalenza della sfera privata è anche
l’ambivalenza della sfera pubblica, a seconda cioè che i
privati si intendano tra loro nel dibattito letterario e cioè
da uomini che discutono sulle esperienze della loro
soggettività, o che si intendano fra loro nel dibattito
politico, su come regolare la loro sfera privata, cioè da
proprietari. I componenti di queste due specie di
pubblico non sempre coincidono perfettamente (…).
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
La pubblicità manipolativa:
«La dimensione pubblica viene, per così dire, dispiegata
dall’alto per procurare a certe posizioni un’aura di good will.
Originariamente essa garantiva il nesso del pubblico dibattito
delle idee tanto con la fondazione legislativa del dominio
quanto con il controllo critico del suo esercizio. Ma ormai
essa rende possibile la specifica ambivalenza di un dominio
esercitato sul potere dell’opinione non-pubblica: essa serve
alla manipolazione del pubblico e insieme alla legittimazione
di fronte ad esso. La dimensione pubblica critica è
soppiantata da quella manipolativa».
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)Una scienza sociale critica si sforza «di controllare quando le
proposizioni teoriche formulino regolarità invarianti dell’agire
sociale in generale e quando invece rapporti di dipendenza
ideologicamente irrigiditi, ma in principio modificabili. Nella
misura in cui ciò accade, la critica dell’ideologia, come del resto
la psicanalisi, conta sul fatto che l’informazione sulle connessioni
normative mettano in moto un processo di riflessione nella
coscienza dell’interessato stesso. In tal modo il livello di
coscienza irriflessa, che fa pare delle condizioni iniziali di tale
leggi, può essere modificato. Un sapere nomologico criticamente
mediato può così tramite la riflessione se non togliere vigore alla
legge, almeno sospenderne l’applicazione».
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)
…Ciò che ci distingue dalla natura è l’unico
dato di fatto che possiamo conoscere per
sua natura: il linguaggio. L’emancipazione
è posta per noi già con la sua struttura. Con
la prima proposizione viene espressa
inequivocabilmente l’intenzione di un
consenso universale e non imposto.
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)
Certamente la comunicazione potrebbe dispiegarsi soltanto
in una società emancipata, che avesse realizzato la maturità
dei suoi membri fino a diventare il dialogo sottratto al
dominio di tutti con tutti, dal quale deriviamo pur sempre
tanto il modello di un’identità dell’io formata nella
reciprocità, quanto l’idea del vero accordo. In questo senso la
verità di una proposizione si fonda sull’anticipazione della
vita riuscita. L’apparenza ontologica di una teoria pura,
dietro cui scompaiono gli interessi guida della conoscenza,
rafforza la finzione che il dialogo socratico sia possibile
universalmente e in ogni momento…
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)La filosofia ha supposto che l’emancipazione posta con la
struttura del linguaggio sia non solo anticipata, ma già reale.
Proprio la teoria pura, che vorrebbe derivare tutto da se stessa,
diventa preda dell’esterno rimosso e diventa ideologica. Solo
quando la filosofia scopre nel corso dialettico della storia le tracce
della violenza, che deforma il dialogo continuamente tentato,
continuamente spingendolo fuori dai binari di una comunicazione
senza coazione, porta avanti il processo, di cui altrimenti legittima
la stasi: il progresso del genere umano verso l’emancipazione.
(…) L’unità di conoscenza e interesse si verifica in una
dialettica che ricostruisca l’elemento represso a partire dalle
tracce storiche del dialogo represso.
J. Habermas, Tecnica e scienza come
ideologia (1967)
Con «lavoro» o agire razionale rispetto allo
scopo, intendo o agire strumentale o scelta
razionale oppure una combinazione di entrambi.
L’agire strumentale è organizzato secondo regole
tecniche, che si basano su un sapere empirico.
Esse implicano in ogni caso prognosi
condizionali su eventi osservabili, fisici o sociali;
tali prognosi possono rivelarsi esatte o non vere.
J. Habermas, Tecnica e scienza come
ideologia (1967)Con agire comunicativo intendo una interazione mediata
simbolicamente. Essa è organizzata in base a norme vigenti in
modo vincolante, che definiscono aspettative reciproche di
comportamento e che devono essere comprese e riconosciute da
almeno due soggetti agenti. Le norme sociali sono rese effettive
tramite sanzioni; il loro senso si oggettiva in una comunicazione
nel linguaggio quotidiano. Mentre la validità di regole tecniche e
strategie dipende dalla validità di proposizioni empiricamente vere
o analiticamente esatte, la validità di norme sociali è basata solo
sull’intersoggettività dell’intendersi in base a intenzioni ed è
garantita dal riconoscimento generale di obbligazioni
J. Habermas, Teoria dell’agire
comunicativo (1985)La teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un
potenziale razionale insito nella stessa prassi comunicativa
quotidiana. Con ciò essa spiana contemporaneamente la strada a
una scienza sociale dal procedere ricostruttivo, che identifica in
tutta la loro estensione i processi di razionalizzazione culturale e
sociale, ripercorrendoli anche oltre la soglia della società
moderne; allora non si avrà più bisogno di ricercare potenziali
normativi solo in una formazione specifica di un’epoca. L’obbligo
di stilizzare le singole espressioni prototipiche di una razionalità
comunicativa incarnata nelle istituzioni viene a cadere in favore di
un intervento empirico, che allenta la tensione del contrasto
astratto tra norma e realtà.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 19
II SEMESTRE
A.A. 2013-2014
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
Potrei definire la mia ricerca come «un’analisi di fatti
culturali che caratterizzano la nostra cultura e, in tal senso, si
tratterebbe di qualcosa come una etnologia della cultura a cui
apparteniamo. Infatti, cerco di situarmi all’esterno della
cultura a cui apparteniamo, di analizzarne le condizioni
formali, per farne, in una certa misura, la critica, non però
nel senso di ridurne i valori, ma per vedere come si sia potuta
effettivamente svolgere. Inoltre, analizzando le condizioni
stesse della nostra razionalità, metto in causa il nostro
linguaggio, il mio linguaggio, di cui analizzo come sia potuto
sorgere».
Michel Foucault, L’archeologia del
sapereQuesta prospettiva si trova davanti «tutto un campo d’indagine.
Un campo sterminato, ma definibile: è costituito infatti
dall’insieme di tutti gli enunciati effettivi (sia parlati che scritti),
nella loro dispersione di avvenimenti e nell’istanza propria a
ciascuno di loro. Prima di occuparsi, con piena certezza, di una
scienza, o di romanzi, o di discorsi politici, o dell’opera di un
autore oppure di un libro, il materiale che si deve trattare nella sua
originaria neutralità è costituito da tutta una folla di avvenimenti
nello spazio del discorso in generale. Si delinea in tal modo il
progetto di una descrizione pura degli avvenimenti discorsivi
come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si formano».
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
Compito dell’analisi dei discorsi è quello di considerare
questi ultimi come «delle pratiche che formano
sistematicamente gli oggetti di cui parlano.
Indubbiamente i discorsi sono fatti di segni, ma fanno
molto di più che utilizzare questio segni per designare
delle cose. E’ questo di più che li rende irriducibili alla
langue e alla parole. E’ questo di più che bisogna
mettere in risalto e bisogno descrivere…» (p. 67).
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
Il «discorso» può essere definito: insieme degli
enunciati che appartengono a uno stesso sistema
di formazione; in questo modo potrò parlar di
discorso clinico, di discorso economico, di
discorso della storia naturale, di discorso
psichiatrico…
Le «regole» del discorso «definiscono» «il
regime degli oggetti»
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
L’archeologia, mostra che le
le regole di formazione di un discorso «si
collocano non nella “mentalità” e nella coscienza
degli individui, ma nel discorso stesso,
conseguentemente, e secondo una specie di
anonimato uniforme, si impongono a tutti gli
individui che incominciano a parlare in quel
campo discorsivo» (p. 83).
Michel Foucault, La volontà di sapere
La genealogia del potere:
Con il termine potere mi sembra che si debba intendere
innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al
campo in cui si esercitano e costitutivi della loro
organizzazione; il gioco che attraverso lotte e sconti
incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che
questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da
formare una catena o un sistema, o, al contrario, le
differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri.
Michel Foucault, La volontà di sapere
La genealogia del potere:
In ogni punto del corpo sociale, tra un uomo e una
donna, nella famiglia, tra maestro ed allievo, tra colui
che sa e colui che non sa, passano delle relazioni di
potere che non sono la proiezione pura e semplice del
grande potere sovrano sopra gli individui; esse sono
piuttosto il terreno mobile e concreto su cui quello si
ancora, le condizioni necessarie affinché possa
funzionare.
Michel Foucault, La volontà di sapere
Il potere è ovunque «non perché avrebbe il
privilegio di raggruppare tutto sotto la sua
invincibile unità, ma perché si produce in ogni
istante, in ogni punto o piuttosto in ogni relazione
fra un punto ed un altro. Il potere è dappertutto;
non perché inglobi tutto ma perché viene da ogni
dove».
Michel Foucault, La volontà di sapereNon voglio dire che lo Stato non sia importante; quel che voglio dire è
che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi che se ne deve fare
deve andare al di là del quadro dello Stato. Deve farlo in due sensi:
innanzitutto perché lo Stato, anche colla sua onnipotenza, anche con i
suoi apparati, è ben lungi dal ricoprire tutto il campo reale dei rapporti
di potere; e poi perché lo Stato non può funzionare che sulla base di
relazioni di potere preesistenti. Lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a
tutta una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la
sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc. (…)
Questo metapotere con funzioni di interdizione non può realmente aver
presa e non può reggersi che nella misura in cui si radica in tutta una
serie di rapporti di potere che sono molteplici, indefiniti, e che sono la
base necessaria di queste grandi forme di potere negativo.
Michel Foucault, Sorvegliare e punire
La microfisica del potere:
L’ambito argomentativo dell’analisi del potere è costituito allora dalle
relazioni d’azione che «non sono univoche, ma definiscono
innumerevoli punti di scontro, focolai di instabilità di cui ciascuno
comporta rischi di conflitto, di lotte e di inversioni, almeno transitorie,
dei rapporti di forza. Il rovesciamento di questi “micropoteri” non
obbedisce dunque alla legge del tutto o niente, né è conseguito una volta
per tutte da un nuovo controllo degli apparati o sa un nuovo
funzionamento o da una distruzione delle istituzioni; in cambio, nessuno
dei suoi episodi localizzati può inscriversi nella storia, se non attraverso
gli effetti che induce su tutta le rete in cui è preso».
Michel Foucault, La volontà di sapere
L’Occidente ha conosciuto a partire dall’età classica una
trasformazione molto profonda di questi meccanismi di
potere. Il «prelievo» tende a non esserne più la forma
principale, ma solo un elemento fra gli altri che hanno
funzioni di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di
sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle
forze che sottomette; un potere destinato a produrre delle
forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a
bloccarle, a piegarle o a distruggerle
Michel Foucault, La volontà di sapere
Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due
forme principali a partire dal XVII secolo; esse non sono
antitetiche, costituiscono piuttosto due poli di sviluppo legati da
tutto un fascio intermedio di relazioni. Uno dei poli, il primo
sembra ad essersi formato, è stato centrato sul corpo in quanto
macchina: il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini,
l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e
della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci
ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere
che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo
umano.
Michel Foucault, La volontà di sapere
Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la
metà del XVIII secolo, è centrato sul corpo-specie, sul
corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che
serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione,
la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di
vita, la longevità con tutte le condizioni che possono
farla variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta
una serie di interventi e di controlli regolatori: una bio-
politica della popolazione.
Michel Foucault, La volontà di sapere
«Non c’è (…), rispetto al potere, un luogo del grande Rifiuto (…) ma
esistono resistenze, e di svariati tipi: possibili, necessarie, improbabili,
spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente,
irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali; per
definizione non possono esistere che nel campo strategico delle
relazioni di potere. (…) Come la trama delle relazioni di potere finisce
per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni
senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di
resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali. Ed è
probabilmente la codificazione strategica di quei punti di resistenza che
rende possibile una rivoluzione, un po’ come lo Stato riposa
sull’integrazione istituzionale dei rapporti di potere».
Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (1977-78)
« Con la parola «governamentalità» intendo tre cose: primo, l’insieme di
istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono
di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha
nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma
privilegiata di sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico
essenziale. Secondo, (…) la tendenza, la linea di forza che, in tutto
l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di
questo tipo di potere che chiamiamo governo su tutti gli altri – sovranità,
disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato di una serie di apparati
specifici di governo, e di una serie di saperi. Infine, per governamentalità
bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo,
mediante il quale lo stato di giustizia nel Medioevo, divenuto stato
amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente
governamentalizzato.”».