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STORIA DELLA CRITICA D'ARTEtramite Arman, è decisivo per le future scelte estetiche di Restany....

Date post: 17-Jun-2020
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STORIA DELLA CRITICA D'ARTE DOCENTE GIAN PIERO NUCCIO Anno Accademico 2019/2020 LA GENESI DELLA CRITICA MILITANTE NEGLI ANNI '50 E '60
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STORIA DELLA CRITICAD'ARTE

DOCENTE GIAN PIERO NUCCIO

Anno Accademico 2019/2020

LA GENESI DELLA CRITICA

MILITANTE NEGLI ANNI '50 E '60

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STORIA DELLA CRITICA D’ARTE

10^ Lezione

LA GENESI DELLA CRITICA MILITANTE NEGLI ANNI ’50 E ‘60

La critica militante (genericamente intesa, che si occupi quindi di arte, di letteratura, di cinema o

quant‟altro) tratta tematiche e autori contemporanei.

I critici militanti esprimono giudizi a caldo su opere nuove con articoli e saggi in riviste e giornali, e

partecipando attivamente alla vita artistica e letteraria di un paese, anche schierandosi a favore di

gruppi e correnti al fine di favorirne l'affermazione.

La critica militante si contrappone alla cosiddetta critica accademica, la quale tratta invece

prevalentemente temi e autori del passato allo scopo di fornirne una precisa definizione storica.

Questa distinzione è però diventata negli ultimi decenni meno categorica poiché molti critici

accademici (ossia docenti universitari) si occupano sempre più spesso dell'arte e della letteratura

contemporanea, mentre i critici militanti tendono a inserirsi nel mondo accademico.

Purtroppo, comunemente, quando si parla di critica militante ci si riferisce alla critica letteraria. La

critica d‟arte è quasi completamente trascurata. Tuttavia riporto un saggio di Gianfranco Franchi1a

recensione di un libro di Giorgio Manacorda (Apologia del critico militante, Castelvecchi, 2000)

riassumendolo brevemente, per adattarlo alle nostre esigenze. A mio giudizio, queste poche righe

esprimono bene cosa si intenda con quell‟aggettivo militante quando ci si riferisce ai critici:

“ […] sostiene il professor Manacorda che la critica militante sia l'attività laica per eccellenza. Da

monaco, o da guerriero: ma senza chiesa, e senza esercito. Il critico non ha una religione con santi e

gerarchie: è al di là della storia della Letteratura (per noi dell’arte N.d.c.). Il suo partito è la poesia. È un

mediatore tra cielo e terra. Il critico militante è solo, e decide della vita letteraria (e artistica) (della vita, in

assoluto) e della fortuna di un'opera. Senza mezze misure. È “assoluto” in accezione Latina, ossia “sciolto”:

non risponde ad altro che non sia la sua coscienza. Respira con il testo, se il testo è poesia. È colui che

“legge, inventa e quindi media, dando un nome alle cose, così facendole esistere nel mondo: se la poesia

fosse ineffabile non ci sarebbe, non sarebbe nella vita – sarebbe come una meravigliosa scultura creata da

uno speleologo perso nelle viscere della terra e mai più ritrovato”

È un “sogno inappagato dell'umanità: è un androgino. Deve essere maschile e femminile”. L'artista è

Prometeo: crea per fare i conti con Dio, con il critico militante. Senza critico non c'è artista (molto

interessante questa affermazione che ci conforta nella nostra affermazione più volte ripetuta che l’opera

d’arte sia il frutto di un contesto in cui l’artista, e conseguentemente l’opera d’arte, siano solo due degli

elementi in gioco N.d.c.)

Il critico militante sbaglia, ma è inappellabile. Perché il gusto è “un organo innato che funziona

automaticamente”, “un talento”: “è per il critico ciò che l'ispirazione è per il poeta”. È il prodotto di una

civiltà, non il servitore del lettore o delle istituzioni. Per lui, il pubblico non esiste. Ha problemi di identità, il

critico militante, perché è amato “rapsodicamente e per brevi periodi”, ritrovandosi odiato per il resto

dell'anno.

[…]

Sostiene Manacorda che lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, non sia necessariamente un'ideologia. Perché “lo

Zeitgeist colora ogni nostro pensiero senza che noi lo si sappia, è la luce che ci circonda e si riflette nei nostri

occhi, e ci fa vedere solo certe cose e ce le fa vedere solo in un certo modo. Per questo, un'idea della

1 http://www.gianfrancofranchi.com/apologia-del-critico-militante

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letteratura (e dell’arte) non è inevitabilmente un'ideologia (...) È un concetto avulso dall'idea di progresso,

esprime solo una temperie culturale”.

[…]

La solitudine magnifica del critico militante, solo con la sua coscienza e la sua visione del mondo, di fronte a

un'opera nuova, è un momento divertente, delirante e determinante. È un'operazione alchemica ed empatica,

a ben guardare; a un passo dalla magia. Letteratura (e arte)pura. È la ricostruzione di un dna, e un

posizionamento nel tempo e nella storia di qualcosa di apparentemente unico e “assoluto”. È una prova di

coraggio e di intelligenza: di comprensione dello spirito del tempo, e di appartenenza a movimenti, correnti;

di derivazione da opere, e movimenti; di discendenza da editor, ed editori.

“Apologia del critico militante” è un'opera sacra e buffa, per chi come me crede che esistano solo letterati (e

artisti), e non critici o romanzieri o poeti (o pittori); o ibridi critico-poeta, poeta-romanziere (critico-artista).

Io non vedo differenze e distanze. È un gioco di ruolo che non può annoiare: perché il letterato autentico è a

tuttotondo.

È opera sacra perché ribadisce, con eroica incoscienza, la natura (almeno ideale) dell'identità e della missione

di chi dovrebbe essere al di là delle parti, e delle richieste (del pubblico, dell'editore, dell'autore); è buffa

perché inverte, con convinzione, la relazione tra dei e prometeo, per rivendicare libertà e creatività d'un'arte

che non è scienza e scienza mai potrà essere.[…]

A partire di qui si guarda più al presente che al passato. Michel Tapiè de Celeyran (Mauriac 1909

- Parigi 1987), illustre critico francese, promotore dell'informale in Europa, attraverso le opere degli

artisti internazionali da lui scoperti e presentati nella nostra citta' dove visse dal 1956 al 1977. Nel

1959 a Torino, con L. Carluccio e A. Passoni, organizzo' al Circolo degli Artisti la grande mostra

internazionale ''Arte Nuova'', che fece conoscere per la prima volta nella citta' l'action painting

americana (Polloch), la Scuola del Pacifico (M. Tobey, S. Francis), il giapponese Grupo Gutai2.

Con questi l‟Oriente entra nel mondo dell‟arte globalizzata. Torino sta soppiantando Milano e

Roma per il contemporaneo.

Jackson Pollock, Blue Poles Number 11, 1952

2 Sul gruppo Gutai si veda un approfondimento nella sezione Note

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Sam Francis, Shining Back, 1958

Con Morfologia altra Tapiè elabora il concetto di “arte autre” che rompe con l‟arte classica.

L'intensa promozione culturale e l'attivita' internazionale, cui si dedico' in quegli anni, furono di

grande importanza per la precoce conoscenza in Italia di quella corrente da lui individuata nel 1952

all'interno del movimento informale e denominata appunto art autre, rappresentando la chiave di

volta del contesto artistico e del collezionismo torinese degli anni '50 e '60.

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Raggiunse una brillante notorieta' a Parigi, dove dal 1946 aveva presentato emergenti artisti

informali -termine da lui coniato- quali Dubuffet, Mathieu, Wols, Michaux, Riopelle, Bryen, gli

italiani Capogrossi e Burri e la prima personale francese di Pollock nel 1952.

J. Dubuffet, Supervieille large bonner portrait, (Ampia supervisionare del ritratto di un bonner) 1945

J. Dubuffet, La barbe de ormuzd

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Giuseppe Capogrossi, Superficie 678 (Cartagine), 1950

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Burri, Sacco, 1953

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A. Burri, Sacco nero, 1954

Sadamasa Motonaga, Untitled, 1964

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Yasuo Sumi, Senza titolo 1954

Pierre Restany (1930-2003) è fondatore del movimento del Nouveau Réalisme all'inizio degli anni

sessanta, è stato presente con numerosi interventi, saggi, mostre e provocazioni intellettuali nel

dibattito culturale e artistico della seconda metà del secolo. È legato da profonda amicizia con il

pittore Jean Fautrier, che considera il maestro dell'informale; a lui dedica numerosi articoli ed

interviste.

J. Fautrier, Tete d’Otage, 1945

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Negli anni cinquanta, Restany prende parte al dibattito francese sulla pittura, che oppone astrazione

lirica e astrazione geometrica

Parallelamente alla Scuola di Parigi, si interessa agli artisti americani dell'Espressionismo Astratto,

soprattutto a Jackson Pollock. Gli anni 1957 e 1958 sono un periodo di rimessa in questione della

validità di questi movimenti artistici. Il suo libro Lyrisme et abstraction, scritto nel primo semestre

del 1958, ma pubblicato da Guido Le Noci solo nel 1960, è un'interrogazione sul futuro

dell'Astrazione Lirica e dell'Espressionismo astratto, del quale sottolinea l'importanza ma anche i

pericoli di conformismo e la necessità di evoluzione. L'incontro con Yves Klein nel 1955, avvenuto

tramite Arman, è decisivo per le future scelte estetiche di Restany. Incontra Klein e capisce che

occorre superare il bidimensionale e aprirsi all‟”aereo”.

In quel periodo Yves Klein giunge al culmine delle sue ricerche sul monocromo e trova in Restany,

che cura le prefazioni di tutte le sue mostre, un sostegno importante. L'opera di Yves Klein consente

a Restany di superare la problematica senza via di uscita dell'astrazione lirica a vantaggio di una

maggiore apertura verso la cultura industriale.

Il 27 ottobre 1960, presso l'abitazione parigina di Yves Klein, fonda il gruppo dei Nouveaux

Réalistes; agli artisti presenti a Milano, si aggiungono Daniel Spoerri e Martial Raysse. César e

Mimmo Rotella, invitati, sono assenti; parteciperanno alle manifestazioni successive del gruppo, al

quale si uniranno in seguito anche Niki de Saint-Phalle, Christo e Gérard Deschamps. La

dichiarazione costitutiva del gruppo, scritta di proprio pugno da Restany su sfondi preparati da

Klein, è firmata in nove esemplari, uno per ciascun componente del gruppo, sette su monocromo

blu, uno su monocromo rosa, uno su monocromo oro.

D. Spoerri, Prose Poems’, 1959-60

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Niki de Saint-Phalle, Shooting Painting, 1960

Nel 1961, Restany fonda con Jeannine de Goldschmidt la galleria J, per consentire ai Nouveau

Réalistes di portare avanti la loro ricerca. In occasione di una mostra collettiva presso questa

galleria, nel maggio 1961, Restany redige il Secondo Manifesto del Nouveau Réalisme, dal

significativo titolo A 40° au dessus de dada (A quaranta gradi sopra Dada). Nel luglio 1961 si

inaugura il primo festival del Nouveau Réalisme a Nizza, Pierre Restany registra un gran successo

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personale, con vario pubblico che partecipa e s'incontra con vari amici e artisti vicini a Jacques

Lepage (l'amico poeta parigino, ma da sempre residente a Nizza). Nel dicembre 1959 Restany

aveva organizzato, alla galleria Rive Droite di Jean Larcade, la mostra Le Nouveau Réalisme à

Paris et à New York, che gli aveva consentito di stabilire delle relazioni tra gli artisti francesi e gli

americani (Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Chryssa, Richard Stankiewicz, Richard

Chamberlain) i quali manterranno una posizione intermedia fra l‟Informale e il concettuale facendo

prevalere l‟oggetto, ma ancora con interventi di mano dell‟artista.

L'anno successivo, nell'ottobre 1962, nouveaux réalistes e neodadaisti si trovano nuovamente a

confronto nella mostra The New Realists alla galleria Sidney Janis di New York. Nel febbraio 1963,

in occasione del secondo festival del Nouveau Réalisme a Monaco, Restany pubblica il Terzo

Manifesto del Nouveau Réalisme, una sorta di bilancio sulle nuove direzioni di ricerca offerte dalle

opere degli artisti (estetica dell'oggetto, arte di assemblage, ambiente, ...). Il festival di Monaco

segna la fine dell'avventura dei Nouveaux Réalistes come gruppo; ognuno proseguirà sulla propria

strada. Restany continuerà a scrivere sul Nouveau Réalisme in diversi cataloghi e riviste,

pubblicando nel 1968 la sua sintesi teorica, intitolata appunto Nouveaux Réalistes.

Rauschemberg, Mercato nero, 1961

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J. Johns, Three Flags

Nel 1963 Restany si interessa all'Arte Meccanica o Mec-Art, in particolare alle riprese fotografiche

dei décollage di manifesti di Rotella

M. Rotella, Casablanca

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Nel 1969, nel corso della Biennale di San Paolo, mentre è incaricato dell'organizzazione di una

sezione speciale Arte e tecnologia, prende parte al suo boicottaggio. Nel contesto della crisi del

1968, pubblica Le Livre rouge de la révolution picturale (Il libro rosso della rivoluzione pittorica),

nel quale opera una messa a punto delle sue scelte artistiche e esprime i conflitti della politica

artistica e culturale in materia di arte contemporanea. Qualche mese dopo, Le Livre blanc de l'art

total (Il libro bianco dell'arte totale) gli permette di esprimere la sua visione artistica nel dopo-

1968, in particolare nel campo dell'arte pubblica.

La ricerca critica di Restany nel corso degli anni settanta e ottanta si volge verso una riflessione

sull'equilibrio tra natura e cultura. Cerca di mettere in relazione estetica comunicazione ed

urbanistica, si interessa agli artisti che lavorano nella città e nella natura. Nel giugno-luglio 1978,

Restany intraprende un viaggio in Amazzonia, dove risale in battello il Rio Negro, principale

affluente dal lato nord del Rio delle Amazzoni. Durante questo giro, redige il 3 agosto del 1978 il

Manifeste du Rio Negro du Naturalisme Intégral, esalta la rigenerazione della percezione e della

sensibilità attraverso una riscoperta della Natura.

Nella Milano postindustriale Restany nel 1985, viene coinvolto dall'artista Cristina Cary sulle

archeologie industriali, in particolare la Brown Boveri, presenza fantasmatica di grandi volumi,

posizionata nel cuore dell'isola operaia, fabbrica importante per lo sviluppo industriale di macchine

elettriche. Lo stabilimento negli anni Sessanta cambiò sede e la fabbrica milanese venne

abbandonata. L'appropriazione da parte di artisti di diversa derivazione, creò l'attenzione della

Galleria Marconi di Milano, di critici e riviste d'avanguardia. Il suo ultimo saggio Le Feu au cœur

du vide (Il fuoco nel cuore del vuoto), pubblicato nel 2000, riguarda ancora una volta Yves Klein.

Maurizio Calvesi (1927-vivente) nel 2008 viene insignito del Premio Balzan per la Storia

dell‟Arte, precedentemente attribuito al solo E. Gombrich. È il primo studioso italiano, sin dagli

anni Cinquanta, a mettere in luce le componenti dell‟ermetismo rinascimentale e ad introdurre

l‟interpretazione in chiave junghiana e iconologica dei grandi capolavori del Quattro e Cinquecento.

Integrando questi strumenti all‟analisi formale e attributiva e all‟indagine d‟archivio, Calvesi

inaugura un metodo che porta contributi innovativi anche radicali alla conoscenza di artisti come

Piero della Francesca, Giorgione, Dürer, Caravaggio, Piranesi, Duchamp, de Chirico. È tra i

primissimi studiosi ad indagare il rapporto arte-alchimia nella sua continuità storica dal

Rinascimento alle Avanguardie. Dà impulso agli studi sul Quattrocento romano e riporta in luce la

figura di Francesco Colonna Romano come autore della Hypnerotomachia Poliphili.

A partire dal 1953 promuove la rivalutazione del Futurismo con studi fondanti sul movimento, su

Marinetti e sui singoli artisti, in particolare su Boccioni di cui cura il primo catalogo generale

dell‟opera, oltre che su Marinetti, Balla, Carrà, Severini e Prampolini. È stato tra i primi ad

occuparsi in modo approfondito, nel 1959, di Alberto Burri; è stato anche tra i primi a parlare di

artisti come Schifano, Festa, Kounellis, Vettor Pisani, De Dominicis, Mariani, Di Stasio. Ha

comunque scritto su quasi tutti i più importanti italiani del XX secolo oltre che su Tàpies, Fautrier,

Pollock, Kiefer e altri. La sua bibliografia comprende oltre 2.000 saggi e articoli, in gran parte su

riviste scientifiche o su qualificati periodici.

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Si occuperà anche della pop Art Italiana che nasce nel „60, l‟era dell‟oggetto. La Pop Art attenua la

differenza fra design e arte e introduce la supremazia dell‟immagine sulla parola. Nel Nord avrà una

forte connotazione psicologica e si raccoglierà attorno a Nespolo, Baj, Adami, mentre quella nel

Sud si articolerà attorno a Schifano, Festa, Angeli, Mambor.. Cura due Biennali a Venezia e

sostiene il Gruppo Anacronista (Galliani). In quegli anni importante è il Gruppo ‟63,

multidisciplinare con U. Eco, R. Barilli. Eco in Opera aperta analizzerà l‟arte classica, il barocco, e

l‟Arte Cinetica che richiede il coinvolgimento dello spettatore e si caratterizza dunque come opera

aperta. Calvesi inoltre, nel rivalutare il futurismo dopo il dopoguerra, farà un importante

collegamento fra l‟ala creativa del movimento del ‟77 , il Futurismo e il Dada.

In quegli anni opera Gillo Dorfles3 (Angelo Eugenio Dorfles 1910-2018) critico d‟arte, pittore,

filosofo e accademico. E‟ stato fondatore nel 1948, con Monnet, Soldati e Munari del MAC

(Movimento Arte Concreta) che rifiuta le forme prese a prestito dalla natura, ma si avvale del puro

costruttivismo e allarga a tutte le arti, come già aveva fatto il Bauhaus. Sono esponenti del MAC

artisti come Veronesi, Fontana, Parisot, Scroppo. Dorfles rappresenta il cardine teorico della

corrente, esponendo in molteplici occasioni la sua estetica di fondo e introducendoi con vari scritti

le mostre dei compagni di strada.

Nel ‟54 è stato componente di una sezione italiana del gruppo ESPACE insieme a Munari, Monnini,

Reggiani e Veronesi.

Scrive Le oscillazioni del gusto: mentre nel passato l‟arte era fruita da tutti , èlite e popolo, oggi c‟è

una divisione profonda fra arte d‟avanguardia degli intellettuali e arte di consumo (TV, cinema,

fumetto) e l‟Horror pleni (2008) ci satura con un incessante rumore mediatico. Gillo Dorfles è

rimasto famoso per alcune sue frasi potremmo dire lapidarie. Credo sia bene conoscerlo attraverso

alcune di queste. Sono tratte da un suo libro «Italia disunita e senza stile dove ormai è in vigore la

dittatura dello sgradevole», e estrapolate da l'Unità, 11 aprile 2010, a cura di Bruno Gravagnuolo:

Il famoso individualismo italico è azzerato. Tutti vogliono gli stessi jeans, lo stesso impermeabile e lo stesso cibo. Una coazione maggioritaria penosa. E lo stesso vale per i giovani. Dal piercing, all'orecchino ai tatuaggi, vogliono tutti iscriversi alla stessa tribù.

La gente ama mettersi a nudo per autorappresentarsi. Una volta non era così, ma oggi con i media vecchi e nuovi c'è un'orgia del vedere e del voler essere visti. Il che tocca non solo le masse ma anche le elites, i pensatori, gli imprenditori, i banchieri, per non dire degli artisti.

Sì, anche nell'arte domina l'esibizionismo. Gli artisti diventano eroi semiologici che creano pseudo-opere vistose e perciò riconoscibili. Sicché tutto si equivale e si dissolve.

Ci sarebbe tutto un lavorio da svolgere, a cominciare dall'educazione artistica e musicale dei bambini. Ma siamo ai minimi termini da un punto di vista pedagogico. Comunque non bisogna rassegnarsi. La forza della sensibilità estetica – senza barriere di generi e linguaggi e applicata al quotidiano – è indispensabile per contrastare la dittatura dello sgradevole

La borghesia in Italia ha fatto fiasco. Almeno una volta c'era una borghesia illuminata. Oggi è pochissimo illuminata. E il cialtrionismo è tipico della borghesia attuale. Finite le oasi di alcuni decenni fa, mentre la diffusione della cultura ha coinciso con l'involgarimento e l'appiattimento. È finita la coesione comunitaria. Da noi la destra non ha saputo fare cultura di punta né generare classi dirigenti, a differenza dei grandi paesi occidentali.

3 Su Gillo Dorfles si legga un approfondimento nella sezione Note

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[...] il perbenismo. Che evoca subito una sensazione di sgradevole bonomia, di platitude intellettuale, di edulcorata educazione, piuttosto melliflua e reverenziale rispetto a un generico «superiore», piuttosto improntata a «buone maniere» fittizie che a un'autentica Kinderstube e che molto spesso rientra nell'ambito del più puro conformismo. (p. 83)

[...] il perbenismo è fatto per piacere al benpensante, il quale per conto suo non è affatto una persona che coltiva pensieri nobili ed elevati. Tutt'altro: il benpensante è proprio l'equivalente dell'uomo provvisto di «buon senso» e che rientra, dunque – come abbiamo già visto –, nella grande famiglia del conformista. (p. 83)

Il perbenismo - ossia l'essere comme il faut (il francese esprime meglio il concetto) è una "virtù" che rasenta il vizio. (p. 84)

LA STAGIONE DELL’ARTE POVERA E DEL CONCETTUALE

Il concettuale segna l‟ingresso nella postmodernità. Il critico “militante” si afferma definitivamente

nell‟abbinamento del rigore teorico alla prassi.

Germano CELANT4 sarà l‟autore della definizione di “Arte Povera” (scarta la denominazione di

Nuovo Futurismo per il coinvolgimento che i Futuristi avevano avuto con il fascismo) e si avvale

del nascente interesse della comunicazione per l‟arte. La prima mostra si tiene nel ‟67 alla galleria

Bertesca di Genova (Boetti, Fabro, Kounellis…). Nasce intanto la rivista Flash Art di Giancarlo

Politi che avrà un grande successo internazionale e ancora oggi gode di notevoli apprezzamenti (e

di grande influenza nel mondo dell‟arte). Successivamente si tiene la Mostra all‟Arsenale di Amalfi

nel ‟68. L‟Arte Povera invade per tre giorni Amalfi con mostre, performances, happenings e

coinvolge tutti gli artisti e i critici e, a dimostrazione della sua importanza, anche la Rai che mette in

onda diversi servizi.

Il concettuale si distingue in due filoni: quello “mondano” che collega l‟arte alla realtà, quello

analitico – tautologico, derivato da Duchamp, dove domina il pensiero dell‟assenza e il significante

prevale sul significato e si procede per auto proliferazione all‟interno dei singoli dati di partenza.

Arte Povera analoga alla Land Art americana. Collega le esperienze “calde” dell‟Informale a quelle

“fredde” del post-‟68 (da McLuhan) 5

, aderisce alla realtà non con la decontestualizzazione degli

oggetti, ma con l‟immersione nel flusso vitale del mondo e della natura.

La denominazione di Arte Povera era in sintonia con il clima politico del momento e perché usava

materiali primari, elementi naturali e materiali tecnologici poveri come la luce al neon. L‟attenzione

4 Su Germano celant si veda un approfondimento nella sezione Note

5 Una ulteriore tessera del mosaico intellettuale di McLuhan è rappresentata dal concetto di "temperatura dei media". Sulla base di questa

nozione lo studioso canadese divideva i media in due categorie: media caldi e media freddi. Come molte altre nozioni del pensiero mcluhaniano, anche questa è stata al centro di polemiche e di interpretazioni contrastanti. In generale possiamo dire che il concetto di

"temperatura" è legato al grado di partecipazione che un media richiede in chi lo utilizza o ne fruisce. In questo senso i media "caldi" sono

quelli che non esigono da parte di chi li utilizza una grande partecipazione, e media "freddi" sono invece quelli che richiedono al fruitore

maggiore partecipazione e coinvolgimento.

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è processuale, i materiali naturali e organici vengono lasciati liberi di modificarsi. Celant fonde arte

e vita e colloca l‟arte all‟interno dei movimenti di contestazione come già avevano fatto negli anni

‟50 i Situazionisti (vedi lez. 9). L‟immaginazione viene liberata invece di essere ingabbiata nelle

regole della produzione. Alcuni poveristi saranno però “ortodossi” (Merz, Anselmo, Penone…) altri

meno: Piacentino (minimal), Gilardi (Pop naturista), Mondino e Boetti (concettuali ironici). Del

concettuale analitico - tautologico è protagonista Joseph Kosuth L’arte dopo la filosofia (‟69). Per

Kosuth l‟arte non è morta, ma diventa filosofia perché l‟arte non lavora sulla forma, ma sui concetti

e l‟opera lascia il posto all‟idea. L‟artista è un antropologo impegnato nel civile e saltano gli

steccati fra artista, critico e spettatore, ma a prevalere è l‟artista.6 A Torino Paolo Fossati

dell‟Einaudi sosterrà un‟arte nuova (Pittura analitica) con Giorgio Griffa e Marco Gastini.

Intanto compare Harald Szeemann7. H. Szeemann (Berna, 1933 -Tegna, Svizzera, 2005) è stato un

curatore anomalo, solitario e battitore libero, profondamente diverso, per sentimento e

comportamento, dal system curator attuale (istituzionalizzato negli schemi frenetici del consumo

veloce dell‟arte). Harald era, invece, indirizzato verso una dimensione più anarchica, riflesso della

cultura libertaria in cui era cresciuto e con cui, probabilmente con fatica, riusciva a trovare quelle

«aperture» che la pressione del sistema dell‟arte prosciuga e nega. Restano di lui la sua visionarietà,

le sue folgorazioni, i suoi affetti e la sua portata intellettuale, essenziali nell‟epoca in cui la curatela

è divenuta un mestiere strutturato e un‟aspirazione di potere, addomesticata dagli innumerevoli – e

spesso inadeguati – master e corsi curatoriali che si inerpicano su strategie relazionali e di garanzia

al sistema. Szeemann è andato oltre tutto questo e, anzi, ne ha sempre combattuto le criticità,

schierandosi a difesa della propria indipendenza intellettiva, delle proprie ideologie e passioni. Un

emblema.

Filigranare i suoi sconfinati interessi culturali attraverso le sue mostre dimostra quanto

quell‟attenzione per il mondo, nella sua interezza, designasse una personalità complessa,

emancipata, curiosa e fiammeggiante. In virtù di tale caratteristica, ci ha lasciato delle gemme

espositive e avanguardistiche come la mitica Live in Your Head: When Attitudes Become Form

(1969) realizzata alla Kunsthalle di Berna con Beuys, R. Serra, Paladino. Questa mostra

promuoverà il curatore a partecipe della mostra insieme all‟artista e la mostra diventerà una mega

opera (Conceptual Curating). In questa mostra libera il suo viscerale anticonformismo attraverso la

fusione di tutte quelle variegate tendenze dell‟anti-form (arte povera, azionismo, performances)

emerse nel periodo. Esposizione dunque sulle «attitudes» degli artisti, sullo spontaneo processo

della forma e dell‟azione in progress e sullo svuotamento di quello che Robert Morris aveva

definito il «triangolo d‟acciaio» (museo-galleria-media).

Nonostante il successo di un‟esposizione così radicale e anomala, Harald, insofferente alle

costrizioni mercato-opera d‟arte, si dimetteva dalla Kunsthalle di Berna per fondare un‟agenzia

indipendente, l’Agentur für geistige Gastarbeit (Agenzia per il lavoro spirituale all’estero) con il

fine di «sostituire la proprietà con l‟azione libera», emancipandosi così dalle pastoie istituzionali

ufficiali. Lo spostamento concettuale di Live in Your Head: When Attitudes Become Form fu tale

che, inaspettatamente, gli fu affidata l‟edizione di documenta 5 del 1972 e, quindi, la stessa

kermesse venne dirottata dalle sue precostituite caratteristiche museali verso un territorio inusitato.

6 Considerata la grande importanza che ebbero, e hanno tuttora, sia G. Celant che l’Arte Povera (che proprio a Torino ha avuto i suoi sviluppi iniziali) si riporta, su questi temi, un saggio di R. Lumley nella parte delle note destinate agli approfondimenti. 7 Per le notizie su H.Szeeman v. https://ilmanifesto.it/un-curatore-profetico/

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Szeemann radicalizzò il tradizionale programma di documenta coinvolgendo più di duecento artisti

in cento giorni consecutivi di spettacoli ed eventi che si svolsero nell‟estate e nell‟autunno del 1972.

La rassegna, intitolata Befragung der Realität – Bildwelten heute (Interrogare la realtà – le

immagini del mondo di oggi) coniugava le affinità che legavano l‟arte concettuale alla performance,

dalla Pop art alla propaganda politica, dalle utopie architettoniche alla fantascienza e all‟arte dei

malati mentali.

Dopo l‟edizione di documenta, Harald si spostò in Canton Ticino, per costruire un‟ambiziosa

trilogia: Junggesellenmaschinen / Les machines célibataires (Le macchine celibi) del 1975 che

reinterpreta il concetto di modernità. Questa trilogia di mostre è considerata come un tentativo di

radicalizzare le avanguardie dell‟inizio del XX secolo e, soprattutto, di indagare la fusione estetica

tra macchina e arte. La rassegna, ispirata al libro omonimo di Michel Carrouges del 1954 che per

primo propose associazioni tra l‟opera di Duchamp La Mariée mise à nu par ses célibataires, même

e le macchine, vagheggiate dagli scrittori Alfred Jarry, Franz Kafka e Raymond Roussel, presentava

sezioni dedicate al Giainismo, alla mitologia greca, all‟antropomorfismo, ai robot e agli androidi,

alla femme fatale e alle macchine artistiche ed erotiche.

L‟ultimo slancio szeemaniano ripercorribile è Grossvater: Ein Pionier wie wir (Nonno: un pioniere

come noi) la piccola mostra, originariamente presentata nel 1974 nel proprio appartamento sopra il

Café du Commerce in Gerechtigkeitsgasse 74 a Berna. È una liaison fondamentale per capire lo

spirito ribelle e utopista del curatore svizzero, fuori da ogni preordinata strategia ma pregna di

intuizioni, presagi, ossessioni, manie, azzardi. Non sorprende vedere la mostra dedicata al nonno

ungherese Étienne Szeemann, famoso coiffeur al servizio delle famiglie reali che aveva inventato

un congegno per le onde della permanente. Un frammento della mente luminosa del più grande

curatore indipendente.

Altro curatore di questa tendenza sarà Jean Christophe Amman tedesco che a Torino farà una

retrospettiva di Boetti e separerà le competenze di critico (che verbalizza le sue percezioni) e

curatore (che agisce sul qui e ora con carica concettuale e creativa).

Negli anni ‟70 compare il corpo. Lea Vergine (1938-vivente) esplora la body-art ne Il corpo come

linguaggio (‟74). La bellezza è il grande tema della vita di Lea Vergine, è ciò che fa di lei una delle

critiche d‟arte più interessanti degli ultimi cinquant‟anni in Italia. Il culto della bellezza, non solo

della propria; anche di quella, perché Lea Vergine è bella oltre che elegante.

L‟arte sarà la forma di quel culto, non tanto l‟arte classica o moderna – Lea Vergine aborrisce ogni

estetismo, dal momento che l‟estetismo non coglie la bellezza, quella perenne – ma proprio l‟arte

contemporanea, quella che tutti – conservatori e reazionari – asseriscono che non contenga un solo

centimetro di bellezza. Sarà proprio Fontana, e poi gli altri artisti battezzati con il nome di Arte

povera, a manifestare ai suoi occhi quella bellezza che persegue.

L‟arte contemporanea aspira al bello (non inteso nel senso comune e tradizionale) perché ha una

sua moralità. Anche un‟immoralità, ovviamente, come ogni forma d‟arte. La moralità

dell‟immoralità, alla faccia dei borghesi. Lea Vergine ha intitolato un altro suo famoso libro: L’arte

non è faccenda per persone per bene. Perché la bellezza è un valore morale al disopra di tutto e di

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tutti. Questo libro lo racconta in molti modi e forme, senza però mai affermarlo in modo diretto. Lea

Vergine appartiene a quella genia di eccentrici che non dicono mai le cose in modo diretto; fanno

piuttosto intravedere ciò che c‟è al di là – i tagli di Fontana, i buchi di Burri –, lo indicano, e quasi

sempre in modo traverso.

«Scrivendo ho sempre cercato di privilegiare il lettore che nei riguardi dell’arte ha nutrito

diffidenza, perplessità, curiosità e speranza. Non ho mai praticato la scrittura come un resoconto

elettorale ma neanche come colonna sonora liturgica. Ho prediletto le gioie insolenti

dell’intelligenza. Tra i miei desideri c’è sempre stato quello di fare con la scrittura quello che mio

padre faceva con il pianoforte. La scrittura è come il piano: bisogna sempre perfezionare i suoni.

Non mi sono mai sentita critico, ma una persona che scriveva di cose che non erano

manifestamente, ma che potevano essere.»

Filippo Menna (1926-1988) critico militante Laureato in medicina prima che in storia dell'arte.

Grazie alla sua pubblicazione di La profezia di una società estetica, trova affinità poetica con

l'artista sarda Maria Lai. A partire dal 1960 si delinearono con chiarezza i tratti salienti

dell'orientamento critico del Menna. Del 1962 è il suo primo libro, un importante saggio dedicato a

Mondrian, artista che ricorrerà costantemente nella biografia intellettuale di Menna. Prosegue le sue

ricerche nell'ambito delle Avanguardie storiche occupandosi di Futurismo. Si schierò nettamente a

favore delle forme più rigorose di astrazione, in altri interventi approfondì la natura e il design: da

tale esperienza nacque il libro Industrial design, nel quale è già pienamente sviluppato il tema di

una possibile integrazione dell'arte con la produzione industriale e quindi con la società moderna.

Sempre attento a riflettere sul ruolo della critica (Critica della critica, 1980) e a discutere i temi

dell'architettura e del disegno industriale (Industrial Design, 1962, La regola e il caso. Architettura

e società, 1970), nel corso degli anni Filiberto Menna ha accompagnato l'impegno di ricerca con

un'intensa attività curatoriale - è stato, tra l'altro, commissario alla Biennale di Venezia e alla

Quadriennale di Roma – e di critica militante. Del ‟75 è invece La linea analitica dell’arte moderna

che analizza l‟apertura dell‟arte al mondo con la Narrative Art spostando l‟attenzione dalla

rappresentazione al momento della riflessione. Menna rivendica l‟autonomia della critica, in

particolare contro le correnti analitiche del concettuale (Kosuth) che rivendicavano a sé le classiche

funzioni della critica, anche in relazione proprio alla gestione all‟interno del mercato dell‟arte e

rivendica alla critica la capacità di usare metodologie appropriate, un proprio linguaggio e di

usufruire di un proprio patrimonio storico. Per lui la critica si svolge in tre momenti:

storico collocazione dei fatti con quelli più generali della cultura

teorico per circoscrivere un sistema di riferimento in cui l‟opera si definisce per differenze o

similarità

critico che formula il giudizio di valore.

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NOTE

Per chi vuole approfondire

Da: http://spazioartedeimori.net/artisti/il-gruppo-gutai/

Il Gruppo Gutai, fondato a Osaka nel 1954 dal pioniere dell‟arte astratta JiroYoshihara,

rappresenta il contributo più originale e profondo dato dalla cultura giapponese all‟arte del

Novecento. Probabilmente, anzi, ha ragione chi sostiene che il Gutai è stata una delle massime

espressioni di libertà artistica espresse da tutto l‟orizzonte artistico novecentesco. Sebbene, infatti, il

Gruppo Gutai, si presenti in maniera ineccepibile come un‟avanguardia artistica a tutto tondo, esso,

diversamente da quasi tutte le altre avanguardie, è riuscito a mantenere vive nel tempo due

caratteristiche fondamentali che lo identificano tuttora come qualcosa di unico.

Anzitutto, il Gutai, fin dalle sue prime prove, non presenta il proprio progetto di “gruppo” come un

codice rigido di nuove regole creative. Il gruppo non impone ai suoi membri una serie di leggi

artistiche né l‟uso di tecniche o medium obbligati. Nell‟ambiente artistico dei fondatori, che oltre

a Yoshihara furono artisti come Shozo Shimamoto, Kazuo Shiraga,Saburo Murakami, Yasuo

Sumi, Jozo Ukita ed altri, tutti attivi a partire dal 1954-1955, prevale piuttosto una morale

espressiva di libertà estrema, ai limiti della giocosità creativa. Per questo, attraverso i decenni

il Gutai si è espresso attraverso una pluralità di forme e generi che oltre alla pittura informale

contano esperienze sperimentali con il suono, il teatro, il film, l‟installazione in interni ed esterni e

naturalmente la performance e la concettualizzazione.

Il Gutai inoltre ha saputo spostare, come forse nessun altro movimento artistico, tutto il fuoco

dell‟attenzione sull‟artista nella sua concretezza di essere fisico e naturale. Il senso del concreto è

racchiuso già nel suo misterioso nome, “Gutai” che secondo alcuni significa proprio “concreto“,

“concretezza”, ma che secondo la testimonianza di Shimamoto, che lo scelse come nome del

gruppo, significherebbe più precisamente “personificazione”, “incarnazione”, proprio per

sottolineare come l‟identità dell‟arte dipenda soprattutto dalla presenza fisica dell‟artista che genera

l‟opera, che esprime la propria libertà di movimento nell‟ordine e nel disordine delle materie.

Come avviene in quasi tutte le forme di avanguardia artistica che hanno costellato la storia del

Novecento, anche nel Gutai ciò che entra immediatamente e definitivamente in crisi è il sistema di

un‟arte fondata sul disegno, sulla figura e sulle qualità squisitamente pittoriche del lavoro artistico.

Le tecniche della pittura e i virtuosismi della raffigurazione del reale, cioè la vecchia esigenza di

mimesi e di rispecchiamento del mondo, nel Gutai risultano impulsivamente sostituite da una

sensibilità compositiva radicalmente concentrata sulla fisicità dei materiali, delle cose e degli

oggetti convogliati nel processo costruttivo delle opere, siano esse tele, azioni corporeeo entità di

altra natura.

L‟hic et nunc, il qui e ora del Gutai è un luogo, uno spazio, un vertiginoso gettarsi nella fisicità dei

fenomeni, un gioco cinetico e interattivo fra l‟artista e il mondo di cose e di sostanze che lo

circonda, come avviene per esempio nell‟icona forse più famosa del Gutai, la performance

“PassingThrough”, realizzata da Murakami Saburo nel 1956, in cui l‟artista, vestito

normalmente e con tanto di occhiali, si lancia attraverso una fila di tele di cartone lacerandole a

mani nude.

La sostanza prediletta della creatività Gutai è il colore, colato, sparso, battuto, esploso, impastato

come una sostanza complessa, ricca di sottintesi biologici e di echi naturalistici, mentre gli

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strumenti gli arnesi, gli oggetti, gli arnesi e appunto il corpo stesso degli artisti sono i mezzi

attraverso i quali l‟espressione imprime la sua energia alla materia artistica, lasciandovi le impronte

che creano l‟opera. L‟oggettività annega l‟io, lo trascina e lo travolge come una forza a volte

sconvolgente a volte felice. La pittura è identificazione con l‟esterno, con la totalità esistenziale

indifferenziata dell‟io: cosmo, mondo naturale e febbre meccanica della città moderna racchiusi

nello stesso segno.

Gillo Dorfles ha profetizzato l’uomo del nuovo millennio

Di Giovanni Tartaglia 18 Ottobre 2018

Ho sempre pensato che l‟Italia sia un Paese culturalmente molto avanzato e che il suo unico

difetto stia nel non saper riconoscere i fautori di questo progresso culturale. Gillo Dorfles,

all‟anagrafe Angelo Eugenio Dorfles, è stato uno dei protagonisti della nostra

contemporaneità, e pochi sanno quanto sia stato importante nella definizione del bello in Italia.

Nato a Trieste e cresciuto a Milano, dove conobbe Italo Svevo e Umberto Saba, si è laureato in

Psichiatria, per poi dedicarsi alla pittura e alla critica: con Munari, Monnet e Soldati ha creato

il Mac (Movimento Arte Concreta) per promuovere l‟arte non figurativa.

La sua morte, avvenuta il 2 marzo di quest‟anno, è passata in sordina. Se n‟è parlato sui

giornali e in qualche notiziario, certo, ma pochissimi avevano – e hanno – veramente idea di

cosa abbia determinato il pensiero di questo intellettuale per l‟Italia. La cosa che ha fatto più

scalpore infatti è che era molto anziano: 107 anni. Ma la verità è che Dorfles è stato per il

nostro Paese un profeta, in un periodo storico durante il quale la bellezza, l‟eleganza e la moda

erano una cosa per pochi, anzi, pochissimi.

La moda oggi è veicolata da fenomeni di massa, appartiene a tutti e a nessuno, ma un tempo le

cose erano molto più difficili. Riconoscere qualcosa di “cattivo gusto” era un‟impresa ardua e

le persone avevano bisogno di linee guida ben specifiche per rendersene conto. Nel secondo

dopoguerra il nostro Paese stava vivendo un periodo di materialismo frenetico dovuto al boom

economico, e vedeva la nascita di una nuova borghesia, lo zoccolo duro dell‟Italia del post -

piano Marshall. Questa nuova classe media doveva però rispondere a una richiesta estetica ben

precisa: le case degli italiani, i loro vestiti e il loro stile di vita dovevano riflettere il loro nuovo

status sociale, e dovevano farlo attraverso oggetti, forme e materiali che oggi definiremmo

spesso brutti, di cattivo gusto, o ancora meglio, kitsch.

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Il termine “kitsch” deriva dal tedesco “scarto” (o, secondo altri, dall‟inglese “sketch”, ovvero

schizzo) ed è il termine con il quale veniva definito, nella Germania del 1860, l‟opera d‟arte

commercializzata, la cui facile realizzazione la rendeva accessibile a chiunque, a discapito

della sua unicità. Sebbene il termine fosse più antico, solo nel 1939 il kitsch iniziò a

determinarsi come lo conosciamo, attraverso uno scritto del critico d‟arte americano Clement

Greenberg, che lo analizzò per primo nel suo manoscritto L’avanguardia e il kitsch, dove

descriveva questo “fantastico fenomeno” come una “retroguardia” dell‟avanguardismo di quel

tempo. L‟essenza del kitsch è l‟imitazione eticamente scorretta di ciò che è stato fatto, anche in

maniera goffa, poco simile al reale – è, per citare Walter Benjamin: “Una gratificazione

emozionale istantanea senza sforzo psicologico, senza sublimazione.”

In parole povere, il kitsch è la “volgarizzazione”, in quanto divulgazione di massa, dell‟arte per

fini speculativi. Definire il kitsch “brutto”, però, è improprio. Per riprendere le parole di

Dorfles, si tratta di “Un‟ambigua condizione del gusto.” Anche perché, il semplice “brutto”

non definisce la moltitudine di forme che il kitsch può assumere dal punto di vista sociologico

e antropologico: dai villaggi turistici ai rosari fluorescenti in omaggio con i giornali religiosi,

passando per diversi riti posticci appartenenti alla cultura New Age.

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Del fenomeno hanno parlato critici, scrittori e artisti in tutto il mondo. Milan Kundera lo ha

raccontato nel suo libro L’insostenibile leggerezza dell’essere, attraverso il personaggio di

Sabina, che si interroga sulla possibilità che l‟uomo possa creare qualcosa di così “sbagliato”,

prendendo come esempio una delle azioni più naturali dell‟uomo: la defecazione. Se è vero che

la merda è una cosa naturale, perché ce ne vergogniamo? La domanda ovviamente è retorica,

ed è posta per forzare la riflessione sul fatto che non tutto ciò che l‟uomo crea è

necessariamente “bello”, anzi. La verità è che il cattivo gusto ha sempre appassionato,

nonostante il lascito del secolo scorso, con la sua ricerca del bello nella semplicità. C‟è sempre

stato posto per l‟abbondanza a poco prezzo. La televisione ha poi contribuito a portare nelle

case di milioni di persone, insieme all‟alfabetizzazione, il kitsch, e Andy Warhol ha coniato il

termine “trash”, spazzatura, con l‟omonimo film da lui prodotto.

Il kitsch, per quanto fenomeno di massa, ha il merito di aver concesso al popolo un mezzo per

riappropriarsi dell‟arte, sia pure falsificandola e commercializzandola. Il rischio, in questo

inevitabile processo, era quello di affezionarsi alle cose brutte, creando un gusto distorto del

bello. A evitare l‟apocalittico scenario ci pensò Dorfles con il suo libro cult: Il Kitsch.

Antologia del cattivo gusto, pubblicato nel 1968. Negli anni dei pantaloni a zampa di elefante,

dello space look e dei temi optical su abiti e pareti, veniva utilizzato nei salotti letterari come

bibbia contro il cattivo gusto, che avrebbe risparmiato le generazioni future. Eppure, in quanto

intellettuale, Dorfles non ebbe un vero impatto sulla società di massa, se non diversi anni dopo,

quando il suo lavoro fu preso in considerazione e studiato da appassionati e accademici, che

riconobbero il valore profetico delle sue opere. Del resto, l‟Italia è il Paese degli avanguardisti

impopolari, dei futuristi bistrattati, dei geniali ideatori non finanziati; ci accorgiamo del valore

delle cose quando realizziamo di averle perse.

Dorfles parlò apertamente agli italiani e fece il possibile per mettere in guardia i lettori dei suoi

scritti dai mobiletti, dai soprammobili e dal turismo visto attraverso l‟obiettivo di una

macchina fotografica usa e getta. Il suo profetismo però non stava solo nell‟aver tradotto un

concetto – il kitsch – che era già diffusissimo in tutto l‟occidente, ma di averlo analizzato dal

punto di vista sociologico, dando un quadro più o meno realistico dell‟uomo moderno. Nel

farlo, fece riferimento al cosiddetto kitsch-mensch (l‟essere-kitsch), citato già da Greenberg –

sebbene il termine fosse stato coniato dallo scrittore austriaco Hermann Broch per definire la

piccola borghesia tedesca. Le caratteristiche fondamentali di questo essere sono tre:

moralismo, sentimentalismo e mancanza di cultura. Secondo Dorfles, infatti, l‟uomo kitsch è

l‟individuo che usufruisce dell‟opera d‟arte in maniera inconsapevole. È ad esempio “Colui

che predilige la Pastorale di Beethoven alla Nona per il semplice motivo di trovarla più

gradevole.”

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L‟essere-kitsch della modernità si emoziona a un concerto di musica classica perché immagina

che così debba essere, senza riconoscere l‟effettiva qualità del suono o dell‟interpretazione,

apprezza indiscriminatamente qualsiasi opera del passato senza porsi il problema di saperla

realmente comprendere, si strugge nel vedere un artista di strada omaggiare Klimt, Picasso, o

quei pochi altri artisti ai quali sa fare riferimento. L‟individuo in questione è una vittima del

conformismo, della produzione di massa, e, in quanto tale, è una vittima (inconsapevole) del

kitsch. Dorfles, però, non ha inteso il kitsch-mensch come un individuo prettamente negativo

per la società, quanto più una parte integrante di essa. Del resto, nessuno è esente da questo

fenomeno, tanto che, per sua stessa ammissione: “È necessario conoscerlo, anche frequentarlo,

e perché no, qualche volta utilizzarlo, senza farsi mai prendere la mano. Perché il cat tivo gusto

è sempre in agguato.”

Quanto è spessa la linea che divide l‟ultima canzone di Calcutta dalle composizioni di

Bruckner? È un paragone che fa sorridere, ma che non dobbiamo dare per scontato. Il merito di

Gillo Dorfles, quindi, fu quello di stabilire degli standard per la cultura estetica italiana di

quegli anni, ponendo delle precise caratteristiche al concetto di bello. Il suo contributo alla

modernità fu indispensabile per sviluppare il gusto (e di conseguenza, il cattivo gusto) che oggi

involontariamente ci appartiene e che, nel corso degli anni, ha contribuito a formare una

coscienza critica collettiva. Il primo vero parametro della bellezza oggettiva.

Germano Celant. Il periodo poverista

Da:<img src="/content/dam/domusweb/it/arte/2010/10/31/germano-celant-il-periodo-poverista/

Figura poliedrica che domina il mondo dell'arte, Celant è conosciuto soprattutto per il suo ruolo

nella nascita dell'Arte Povera, negli anni Sessanta, e nella sua rinascita, negli anni Ottanta.

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Verso la fine degli anni Sessanta, la scena artistica italiana è stata attraversata da uno straordinario

fermento di ricerca. Era dai tempi del Futurismo che gli artisti italiani non spiccavano un balzo di

simili proporzioni, passando dall'attività circoscritta all'ambito locale a mostre e collaborazioni a

livello internazionale. In "When Attitudes Become Form", storica mostra del 1969 alla Kunsthalle

di Berna, "Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969" di Alighiero Boetti è collocata sul

pavimento accanto a opere di Bruce Nauman e Barry Flanagan, Jannis Kounellis installa i suoi

sacchi di grano sulle scale e Mario Merz presenta il suo Igloo con Albero. E si trattava

indubbiamente di alcune tra le opere più forti dell'intera mostra. Pochi mesi prima, Giovanni

Anselmo e Gilberto Zorio avevano esposto il loro lavoro alla Warehouse di Leo Castelli a New

York, insieme ai loro contemporanei americani. Si tratta di artisti che stavano sovvertendo

l'ortodossia del Modernismo e anche reinventando il linguaggio delle arti visive, senza curarsi di

affiliazioni nazionali, gerarchie istituzionali e ruoli prestabiliti. Di certo, una delle caratteristiche

fondanti di quest'atmosfera rivoluzionaria era la modalità secondo la quale gli artisti tentavano di

assumere il controllo del modo e del luogo in cui i loro lavori venivano esibiti, oltre che di quello

che su di essi si scriveva, trasformandosi talvolta direttamente in curatori e critici. Una situazione in

cui Germano Celant, giovane critico e curatore, si trovava nel suo elemento naturale. Dotato di una

profonda intuizione, di una formazione nel campo della storia dell'arte abbinata al contatto diretto

con la scena dell'arte contemporanea, nonché di formidabili doti organizzative, Celant era

interessato innanzitutto a promuovere azioni concrete. Come inventore del termine "arte povera" è

intervenuto strategicamente sulla scena dell'arte per creare e promuovere una nuova tendenza.

Sulla sua fase di formazione quale "critico militante" emergono almeno due figure: quelle di

Eugenio Battisti e Carla Lonzi. Docente di storia dell'arte all'Università di Genova, specialista del

barocco, Battisti seguiva con passione anche l'arte contemporanea, mentre il suo passato partigiano

alimentava un'accesa vocazione civica e politica. In assenza di un museo di arte moderna in città,

aveva dato vita al Museo Sperimentale, che nel 1969 contava già 360 opere donate da artisti.

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Insoddisfatto della qualità del dibattito culturale, aveva fondato la rivista Marcatré, del cui comitato

di redazione avrebbero fatto parte Umberto Eco, il poeta Edoardo Sanguineti e l'architetto Paolo

Portoghesi. Nel 1968, dopo la decisione di emigrare in America, Battisti affidò entrambi i progetti a

Celant, suo protegé. Di colpo, il giovane critico si ritrova a collezionare nuovi lavori per il Museo

Sperimentale, passato nel frattempo a Torino, e a dirigere la rivista, trasferita invece a Milano.

Questo periodo di apprendistato pone Celant nel bel mezzo del dibattito critico, ma lo costringe

anche ad affinare le sue capacità curatoriali. Carla Lonzi, collaboratrice stabile di Marcatré, è stata

pioniera di una nuova forma di critica d'arte in Italia. Anziché perseguire l'altezzoso storicismo dei

crociani e le baronie accademiche, Lonzi cercava di capire le opere attraverso fitte discussioni con

gli artisti contemporanei. Il suo metodo di indagine era dialogico in senso bakhtiniano; il suo scopo

era trovare parole, spesso le parole dell'artista, che potessero esplorare la poetica del lavoro; la sua

fede nell'arte quale fondamentale attività umana era totale. Per Celant, Carla Lonzi rappresentava un

approccio che conferiva priorità assoluta agli artisti e ai loro progetti, facendo al contempo del

curatore un interlocutore indispensabile. Così, uno sguardo alle numerose monografie e saggi in

catalogo di Celant rivela il ruolo chiave assegnato a ciò che gli artisti hanno da dire riguardo alla

loro pratica, mentre in qualità di curatore ha continuamente cercato di dare la massima libertà nella

selezione, installazione e presentazione dell'opera.

Al nome di Germano Celant è legata una serie di mostre collettive sotto il titolo di Arte Povera –

alla galleria La Bertesca di Genova (1967), alla galleria De' Foscherari di Bologna (1968), alla

Galleria Civica d'Arte Moderna di Torino (1970) – e la tre giorni dell'evento "Arte Povera+Azioni

Povere" ad Amalfi (1968), in collaborazione con Marcello Rumma. In occasione delle varie mostre,

Celant ha pubblicato saggi che formulavano e riformulavano l'idea di 'arte povera': "Arte Povera.

Appunti per una guerriglia", pubblicato sulla rivista Flash Art, ha agito come una sorta di manifesto

al quale numerosi artisti hanno associato il proprio nome. Il nucleo fondamentale di questi artisti

proveniva da Torino, città che stava attraversando un momento di rinascita culturale: Giovanni

Anselmo, Alighiero Boetti, Piero Gilardi, Mario e Marisa Merz, Giulio Paolini, Michelangelo

Pistoletto e Gilberto Zorio. In seguito, al gruppo si unisce anche Giuseppe Penone (capitato alla

galleria Sperone con alcune fotografie dei suoi lavori con gli alberi – Alpi marittime (1968) –

mentre Celant era nelle sale, a 19 anni Penone viene immediatamente reclutato nel gruppo dell'Arte

Povera, di cui diventa il più giovane esponente). L'altro centro era Roma, perno di una vibrante

scena artistica che comprendeva Jannis Kounellis e Pino Pascali, e in cui Celant ha inserito Emilio

Prini, proveniente dalla sua città natale, Genova, ma anche Luciano Fabro, di stanza a Milano, e

Pier Paolo Calzolari, a Bologna. Il respiro nazionale della nuova tendenza aveva una grande

importanza. Rifacendosi all'esempio di Marinetti, Celant si è subito reso conto di come fosse vitale

per un pieno riconoscimento che gli artisti agissero di concerto e con un nome che desse loro

visibilità. Autore di saggi sulla critica del mercato, sulla trasformazione dell'arte in bene di consumo

(e su quanti soccombevano a tale logica, soprattutto la Pop Art), Celant aveva capito che la massima

efficacia era legata alla capacità di agire come gruppo, una logica che gli artisti compresero molto

bene in un mondo in cui il marketing e le strategie americane di branding erano molto potenti.

Diversamente da Marinetti, tuttavia, Celant non era ossessionato dall'idea del controllo assoluto, né

gli sembrava avesse senso comportarsi al modo delle avanguardie storiche quando il modello

lineare di storia era andato in frantumi. Piuttosto, aderiva al ruolo della contingenza e del quotidiano

in arte quale era stato teorizzato da John Cage, pronto – per parafrasare Le ultime parole famose di

Pistoletto – a spostarsi di lato e non necessariamente in avanti. La sua nozione di "libero

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progettarsi", libertà di pensare e agire, era antiprogrammatica e proponeva una "pratica aperta" che

corrispondeva alla teorizzazione di "opera aperta" formulata da Umberto Eco. Il suo modus

operandi era creare situazioni e spazi senza prescrivere quanto doveva accadere – Boetti è invitato a

Genova dove si fa radere in un negozio di barbiere; Richard Long scende ad Amalfi a stringere la

mano agli abitanti nella piazza del paese; Marisa Merz depone le sue scarpe coi lacci in nylon sulla

riva del mare.

Intanto, la teoria si sviluppava di passi passo alla pratica. Lunghe discussioni notturne nella cucina

di Mario e Marisa Merz, continue visite a studi e gallerie in tempi di mostre straordinarie, come

"Senza titolo (12 cavalli)" di Kounellis. Inizialmente descritta come un'arte che aveva abbandonato

la rappresentazione per la presentazione e giocava con la tautologia, il concetto di arte povera ha

mantenuto una forte inflessione linguistica. Ma Celant la ha allargata a inglobare la nuova

importanza della materia e dell'energia nell'opera, conferendogli una interpretazione più

antropologica nel libro Arte Povera, e aprendo nel contempo all'idea di performance e opera legata

al teatro. Il dialogo tra Celant e gli artisti è testimoniato anche da alcune opere: Manifesto di Boetti,

con la sua lista di artisti e i geroglifici enigmatici, rappresenta una replica a Note per una guerriglia.

Sulla fotografia di un suo lavoro, Pistoletto scrive: "Caro Germano, la parola povera va bene, la

parola ricco va bene, povero io e ricco tu non va bene, povero tu e ricco io non va bene". Il termine

"arte povera" era una specie di pallone che artisti e critici si rimbalzavano tra loro. E alla fine è stato

lo stesso Celant ad affermare che il gruppo doveva sciogliersi di modo da permettere ai singoli

artisti di seguire il proprio percorso senza portare inutile zavorra.

Per dare un resoconto completo della pratica di Germano Celant sarebbe necessario prendere in

considerazione molti altri aspetti della sua attività: il suo lavoro di direttore della Biennale di

Venezia, di senior curator al Solomon R. Guggenheim di New York, di direttore artistico della

Fondazione Prada e di supervisore artistico in occasione di Genova Capitale Europea della Cultura

(2004). La sua responsabilità nella realizzazione di grandi mostre come "Identité italienne. L'art en

Italie depuis 1959" (Centre Georges Pompidou, 1981), e "Italian Metamorphosis, 1943-1968"

(Guggenheim, 1994); il suo prolifico lavoro di scrittura su arte e design e il suo contribuito a riviste

come Artforum. Tuttavia Celant è conosciuto soprattutto – e sarà ricordato in futuro – per il suo

ruolo nella nascita dell'Arte Povera, tanto nella prima decisiva fase storica quanto della sua rinascita

quando, negli anni Ottanta, è stata riconfigurata come cornice entro la quale gli artisti italiani hanno

esibito ancora una volta il loro lavoro in Europa, in Nord America e nel mondo.

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A. Boetti, Mazzo di tubi, 1966.

Marisa Merz, Senza titolo, 1966.

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J. Kounellis Senza titolo, 1968.

G. Paolini, Mimesi, 1976-1988.

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G. Penone, Zucche e nero assoluto d'Africa, 1978-1979.

M. Pistoletto, Donna che indica, 1982

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G. Zorio, Stella, 1991.

M. Merz, Continent to Continent, 1993.

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G. Anselmo, Il panorama fin verso oltremare, 1996.


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