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Strumenti 34 IMPAG. · 2017-01-17 · luppatesi in questi anni nell’Agenzia delle Entrate sotto...

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STRUMENTI FORMEZ
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STRUMENTI FORMEZ

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I l Formez-Centro di Formazione Studi ha

avuto, da sempre, una particolare attenzione

per le iniziative editoriali. Fin dai primissimi

anni di attività si è impegnato nella produzione

e divulgazione di collane e riviste su cui intere

generazioni di funzionari pubblici si sono formate.

In seguito al decreto legislativo 285/99, che ha

individuato nel Formez l’Agenzia istituzionale

che sostiene e promuove i processi di

trasformazione del sistema amministrativo

italiano, l’attività editoriale del Centro è stata

rilanciata e rinnovata nella veste grafica

e nei contenuti.

Sono state create tre nuove linee editoriali:

Quaderni, Strumenti e Azioni di Sistema

per la Pubblica Amministrazione.

In queste collane vengono pubblicati

i risultati delle attività formative e di ricerca

svolte dall’Istituto.

Con “Quaderni” si diffondono Rapporti

e riflessioni teoriche su temi innovativi per la P.A.,

mentre con due collane più specialistiche, quali

“Strumenti” e “Azioni di Sistema per la Pubblica

Amministrazione”, si mettono a disposizione

strumenti di lavoro o di progettazione per quanti

lavorano o si occupano di P.A.

Tutte le pubblicazioni con un breve abstract

vengono presentate sul web (www.formez.it).

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Carlo FlammentPresidente Formez

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COSTRUZIONE E USODI UN MODELLODI COMPETENZEIl caso Agenzia delle Entrate

F o r m e z • U f f i c i o S t a m p a e d E d i t o r i a

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A cura diGirolamo Pastorello, Direttore del personale Agenzia delle Entrate

Con la collaborazione diEmanuela Valentini, responsabile Ufficio sviluppo del personaleAgenzia delle EntrateCinzia Castelli, Giuseppe Coppola, Rita Femia, Domenico Mastropierro,funzionari Agenzia delle Entrate

Organizzazione editorialeRoberta Crudele, Vincenza D’Elia, Paola Pezzuto

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La scelta di pubblicare questo volume nasce da un convincimento: l’obiettivo dellacrescita qualitativa delle pubbliche amministrazioni richiede, insieme certo ad altre inizia-tive, anche la messa a punto di strumenti – validi e affidabili – di rilevazione della qualitàdelle prestazioni di lavoro. Se è vero infatti che, a parità di qualità delle persone, è ilmodello organizzativo che può fare la differenza, è anche vero che, a parità di modelloorganizzativo, è la qualità delle persone, e la motivazione che esse ricavano dal riconosci-mento del proprio valore, che può fare la differenza.

Tale convincimento si salda poi con quest’altro: chiusure corporative e proclamazio-ni di bravura, tutte autoreferenziali, non serviranno a restituire dignità e orgoglio al lavoropubblico – che poi è ciò che più sta a cuore a chi fa con passione questo lavoro – ma var-ranno solo ad alimentare le peggiori accuse da sempre rivolte ai lavoratori pubblici di que-sto Paese. Che dovrebbero perciò aver interesse a far propria questa massima molto sempli-ce: dimostrare nei propri confronti, e nei confronti dei propri colleghi, lo stesso rigore digiudizio che tendono in genere a esprimere, come cittadini e utenti, nei confronti del perso-nale di altre amministrazioni pubbliche.

Da questi due convincimenti traggono ispirazione alcune ricerche ed esperienze svi-luppatesi in questi anni nell’Agenzia delle Entrate sotto la denominazione di “progettoAntares”. Nel volume vengono organicamente presentati alcuni dei temi chiave del proget-to: la costruzione di un modello di competenze e le linee essenziali di una teoria criticadella valutazione professionale.

Per citare un brano del volume, “un modello di competenze si può molto schematica-mente definire un insieme strutturato di conoscenze, capacità e valori che un’organizzazionechiede e si attende da coloro che vi lavorano per raggiungere al meglio gli scopi per cui essaesiste. Sottrarsi a una chiara definizione di queste aspettative significa, per un’organizzazio-ne, venir meno ad una delle sue principali responsabilità gestionali. Sicché, sotto questoaspetto, la differenza tra un’organizzazione e l’altra è, alla fine, solo questa: se le aspettativesiano formulate in modo esplicito, chiaro e organico – e in questo senso prendono appunto laforma di un ‘modello’ – o se invece rimangano vaghe, mal definite e persino ambigue, con-sentendo così, se non addirittura favorendo, scelte gestionali opache o, comunque, poco tra-sparenti, dalle quali è il personale stesso che viene per primo ad esserne danneggiato”.

“Modello di competenze” e “sistema di valutazione” non sono la stessa cosa: il primoindica una costellazione di aspettative di lavoro, il secondo riguarda le modalità di verificadella risposta a tali aspettative. Il contenuto delle aspettative è dato dalle competenze cui

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Premessa

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un’organizzazione attribuisce valore in quanto generatrici di performance elevata. Le aspet-tative sono formulate dal modello in modo generale (cioè senza riguardo a questa o a quellasingola persona) e astratto (cioè senza riguardo a questo o a quel caso concreto). La verificadelle aspettative riguarda invece persone particolari in situazioni determinate. Insomma,con la costruzione di un modello di competenze, un’organizzazione dichiara cosa si attendein termini di azioni produttive di performance superiore. Con un sistema di valutazione,l’organizzazione rileva invece con procedure formalizzate se e in quale grado le azioni deisingoli corrispondano a quelle attese. Una cosa è definire l’intreccio delle competenzerichieste ai componenti di un’organizzazione (qui siamo nell’ambito del “modello di com-petenze”), un’altra è stabilire se e in quale misura, in che modo, nei riguardi di chi, ad operadi chi e, infine, con quali effetti, le competenze descritte nel modello debbano formare ogget-to di procedure formali di verifica (qui siamo nell’ambito del “sistema di valutazione”). Unarisposta a queste domande non appartiene a un modello di competenze ma a un sistema divalutazione. Lo snodo tra modello di competenze e sistema di valutazione segna il passag-gio dall’ambito dei valori e della cultura dell’organizzazione a quello della normazione delrapporto di lavoro che non può non essere oggetto del sistema di relazioni sindacali.

Che significa, infine, “teoria critica della valutazione professionale”? Significa un’a-nalisi ragionata dei problemi cui si va incontro (e delle sue possibili soluzioni) quando sipassa dalla tradizionale valutazione indiretta della professionalità (tramite titoli di servi-zio o prove teoriche o teorico-pratiche) alla valutazione diretta, sul campo, della presta-zione di lavoro. I capisaldi di questa teoria critica – che è stata sviluppata attingendo, conapproccio interdisciplinare, a una molteplicità di studi riguardanti in particolare il compor-tamento organizzativo, la motivazione al lavoro e la valutazione dei processi formativi –sono l’analisi dei concetti di oggettività, validità e attendibilità della misurazione, l’ap-profondimento della complessa tematica legata ai fattori distorsivi della valutazione e ladisamina delle strategie gestionali che possono modificare i meccanismi di convenienzadegli attori di un’organizzazione orientandoli virtuosamente verso la veridicità o, come sipotrebbe anche dire, la serietà delle valutazioni. Insomma, una sorta di “minicritica dellaragion valutativa” (se si è disposti a perdonare l’imperdonabile assonanza con il titolo diben altre Critiche), concepita come propedeutica a una seria discussione sull’introduzio-ne di sistemi di valutazione della prestazione di lavoro nelle amministrazioni pubbliche.

Questi temi sono analizzati nel volume attingendo alla concreta esperienza orga-nizzativa dell’Agenzia delle Entrate. Nelle nuove procedure di reclutamento dei funzio-nari dell’Agenzia, che hanno il loro perno nella valutazione sul campo delle competenzeprofessionali, è da tempo in corso – con affinamenti progressivi suggeriti dall’esperienzae dalla riflessione sulle criticità incontrate – un’importante applicazione sperimentale disistemi di rilevazione e apprezzamento delle prestazioni lavorative.

L’elaborazione che ne è stata fatta può offrire utili spunti di riflessione a chiunquesia interessato nella propria amministrazione a sviluppare nuove, e più soddisfacenti,esperienze di autentica valorizzazione del lavoro pubblico.

Carlo FlammentPresidente Formez

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INDICE

PARTE PRIMACostruzione di un modello di competenze 111. Introduzione 132. Il problema della costruzione di un modello

di competenze 153. Le origini del concetto di “modello di competenze” 174. Il modello delle competenze dell’Agenzia delle Entrate 21

4.1 Definizione di competenza 214.2 Struttura del Dizionario delle competenze 234.3 Contenuti del Dizionario delle competenze 25

PARTE SECONDAUso di un modello di competenze 291. Lo snodo tra modello di competenze

e sistema di valutazione 312. Le criticità della valutazione: oggettività e veridicità 363. L’oggettività del sistema di valutazione 38

3.1 Perché non bastano le valutazioni “a fiuto” 393.2 L’oggettività dei criteri di valutazione 403.3 La capacità di giudizio degli attori della valutazione 43

4. La veridicità delle valutazioni 454.1 La situazione del valutatore 464.2 La situazione del valutato 514.3 La cultura della valutazione 52

5. La comunità dei valutanti 57

PARTE TERZADizionario delle competenze 61

Competenze intellettive e prestazione di lavoro 631. Dinamismo intellettivo (Intuito & Costruzione logica) 63

1.1 Il dinamismo intellettivo come capacitàdi individuare e inquadrare “problemi chiave” 64

1.2 Il dinamismo intellettivo come capacità di strutturareproblemi e di risolverli. Il “Problem IS-Solving” 68

1.3 La rilevazione del dinamismo intellettivo 73

Competenze extraintellettive e clima di lavoro 991. Affidabilità 99

1.1 Coerenza 991.2 Passione per il lavoro 102

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2. Dinamismo realizzativo 1052.1 Iniziativa 1052.2 Tensione al risultato 1062.3 Sviluppo e diffusione del sapere 108

3. Dinamismo relazionale 1103.1 Orientamento all’altro 1113.2 Fare squadra 1143.3 Flessibilità 116

4. Leadership 1174.1 Team building (Organizzazione e sviluppo

di un gruppo) 1184.2 Influenza 119

APPENDICE 1231. Testare la competenza invece dell’“intelligenza” 1252. I “superior performers” e il concetto di deviazione standard 1273. La distinzione fra competenze e risultati 1294. L’iceberg delle competenze 1305. Il dibattito sulla nozione di “competenza” 1316. Il metodo degli expert panels 1377. Dall’analisi dei singoli comportamenti al disegno

della mappa delle competenze 1388. Linguaggio qualitativo e linguaggio quantitativo

nella descrizione delle competenze 1529. L’equità procedurale 15810. I limiti delle casistiche 15911. Il dilemma del prigioniero 16012. Il valore della medietà e lo spazio della formazione 162

INDICE DEI NOMI 167

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11PARTE PRIMA

COSTRUZIONE DI UN MODELLODI COMPETENZE

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

Per quanto sia audace esplorare l’ignoto,lo è ancor di più indagare il noto

Kaspar

1. Introduzione

Cos’è un “modello di competenze”? Cominciare con una definizione rischia diannoiare immediatamente il lettore, ma eludere questa domanda, senza tentare di darvisubito una risposta, anche solo provvisoria e sommaria, comporta un rischio peggiore:quello di ingenerare confusione. Un modello di competenze si può molto schematicamentedefinire un insieme strutturato di conoscenze, capacità e valori o, come si può anche dire,un reticolo organico di sapere, saper fare e saper essere, che un’organizzazione chiede e siattende da coloro che vi lavorano per raggiungere al meglio gli scopi per cui essa esiste.

Sottrarsi a una chiara definizione di queste aspettative, significa per un’organizza-zione venir meno ad una delle sue principali responsabilità gestionali. Sicché, sottoquesto aspetto, la differenza tra un’organizzazione e l’altra è, alla fine, solo questa: se leaspettative siano formulate in modo esplicito, chiaro e organico – e in questo sensoprendono appunto la forma di un “modello” – o se invece rimangano vaghe, mal defini-te e persino ambigue, consentendo così, se non addirittura favorendo, scelte di gestioneopache o, comunque, poco trasparenti, dalle quali è il personale stesso che viene perprimo danneggiato.

La domanda di partenza è stata in sostanza questa: “Quali comportamenti è giustochiedere al nostro personale, affinché un’istituzione pubblica fondamentale come l’A-genzia delle Entrate dia alla collettività e ai singoli contribuenti il servizio migliore pos-sibile?”. La risposta a tale domanda è generalmente questa: “preparazione, intelligenza,equilibrio, onestà, voglia di lavorare, spirito collaborativo, iniziativa, capacità di ascol-to”. È una risposta che viene data subito da chi vive nella nostra organizzazione e ne con-divide con orgoglio la missione, e non è molto dissimile dalla risposta che egli stessodarebbe se, ad esempio, da paziente, o da familiare di un paziente di un ospedale pubbli-co, gli venisse chiesto cosa esige dai medici e dagli infermieri che vi lavorano. Ebbene, lacostruzione del modello di competenze è essenzialmente consistita in uno “scavo rifles-

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sivo” e in una elaborazione di queste tipiche espressioni del linguaggio ordinario e delsenso comune. Invece di farne oggetto di avversione snobistica, quasi fossero di per séinconsistenti, arbitrarie o grossolane, si è cercato, con il supporto di una metodologiaampiamente accreditata a livello internazionale, di definirne, svilupparne e strutturarnela “sapienza valutativa” in esse incapsulata, eliminandone il carattere vago e impressio-nistico e depurandole da preconcetti e stereotipi (quelli che albergano in ciascuno di noie che purtroppo tendono spesso a rafforzarsi quando esercitiamo il ruolo di “capi”).

L’intera operazione può rappresentarsi come una sorta di codificazione ragionata disaperi e vissuti quotidiani (tali sono i giudizi di esperienza semplici e immediati, e tuttaviadensi di significato, che ricorrono quotidianamente nelle relazioni di lavoro all’interno del-le organizzazioni), che ha, tra le sue finalità, anche quella di porre le basi per la costruzionedi un sistema di valutazione quanto più possibileoggettivo, ove “oggettivo” significa “intersoggetti-vo”, cioè condiviso dalla comunità dei valutanti.Termine, quest’ultimo, con il quale ci si intende rife-rire a tutti i componenti di un’organizzazione, per-ché, all’interno di essa, tutti continuamente – ne sia-mo o no consapevoli – valutiamo e siamo valutati.

Di qui il nome – Antares – che si è dato almodello. È la stella più luminosa della costellazio-ne dello Scorpione. Tanto luminosa, da rivaleggiare– secondo gli antichi – con il pianeta Marte, intito-lato, per la sua colorazione rossastra, al dio dellaguerra. E infatti Antares significa anti (contro) Ares,che era il nome greco del dio della guerra. Eccoallora perché si è scelto questo nome (Antares =antagonista di Marte) per il modello descritto inquesto manuale. Tra i suoi intenti vi è quello di dare vita a un grande confronto all’inter-no dell’organizzazione e con le rappresentanze del personale per costruire un sistema dirilevamento e valorizzazione dei meriti e delle capacità professionali quanto più possibi-le obiettivo. E che riesca quindi a sottrarre la valutazione stessa al terreno dello scontro edel conflitto (cioè al terreno della “guerra”).

L’Agenzia è pienamente cosciente della complessità di tale progetto. E tuttavia c’èun convincimento forte che sostiene e dà impulso a questa impresa, ed è la consapevolez-za che è un falso problema chiedersi se si debbano o no valutare le competenze del perso-nale. Un’organizzazione che abbia il senso della responsabilità gestionale valuterà sempree comunque le competenze. Si tratta perciò solo di decidere se debba valutarle informal-mente e in modo “clandestino”, con giudizi vaghi e impressionistici – e quindi, se nonerrati, incontrollabili – oppure formalmente e in modo trasparente, con giudizi strutturatie compiutamente definiti nel loro significato, e suscettibili così di verifica obiettiva.

Non sembra esagerato affermare che la seconda opzione – che inizia a prendere for-ma nella costruzione del modello delineato in questo manuale – è anzitutto una scelta diciviltà organizzativa.

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

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2. Il problema della costruzione di un modello di competenze

Un’organizzazione vive del lavoro di tutti, ma non tutti lavorano allo stesso modo.Diverse possono essere le ragioni per le quali alcuni lavorano di più e meglio ed altrimeno e meno bene. Chris Argyris, uno dei maggiori studiosi dell’apprendimento organiz-zativo e della dinamica delle motivazioni umane all’interno delle organizzazioni, hascritto che l’apatia e la mancanza d’impegno sul lavoro non sono sempre e semplicemen-te una questione di pigrizia individuale ma possono rappresentare una reazione di perso-ne normali ad un ambiente anormale (una reazione “salutare”, come l’ha definita lo stu-dioso americano)1.

Per suggerire prognosi con cognizione di causa, bisogna però prima fare diagnosiragionevolmente sicure. In che senso possiamo dire che “alcuni lavorano di più e meglioed altri meno e meno bene”? Fa sicuramente parte del concetto di “civiltà organizzativa”,cui si è prima accennato, rendere anzitutto trasparenti i criteri di valutazione del lavoroin base ai quali compariamo le diverse prestazioni. Proprio qui sta la principale difficoltàmetodologica intrinseca alla costruzione di un modello di competenze. Il problema ècome enucleare definizioni valide e affidabili della “bravura professionale”, andando aldi là di giudizi vaghi e generici, se non arbitrari, o comunque puramente impressionisticie intuitivi. Perché, se è vero che in un’organizzazione – come, in generale, nella vita –l’intuizione è preziosa, è anche vero però, stando a quanto diceva un grande leader fran-cese riguardo ai capi, che nulla tradisce più dell’intuizione (come appunto i capi impara-no spesso a proprie spese e purtroppo, non di rado, anche a spese delle organizzazioniche dirigono e delle persone che vi lavorano).

È proprio in questo sforzo di oggettivazione che si traduce la messa a punto di un“modello di competenze”.

Nel linguaggio della scienza, un modello è una rappresentazione “semplificata”della realtà. Essendo la realtà “inesauribile” (l’espressione è di Kant) e dovendo noicogliere nell’immensa congerie dei fatti esclusivamente quelli significativi ai fini dellaspiegazione del problema che ci interessa risolvere, ogni teoria è necessariamente una“semplificazione”, cioè una astrazione dalla realtà, e se la nostra mente non sapesse com-piere questo processo di astrazione noi non faremmo che scattare “fotografie” inutili delmondo reale, nel senso che esse non aggiungerebbero nulla alla nostra comprensione delmondo stesso. Sicché l’unica distinzione che va fatta è tutta qui: una buona teoria astraein modo utile e significativo, una cattiva teoria semplicemente non ci riesce. E quandoqualcuno ci dice (come spesso capita) “questo può essere vero in teoria ma non in prati-ca”, basta replicare: “va bene, dimmi com’è in pratica”. È pressoché certo che il nostrointerlocutore non si limiterà ad esporre dei fatti, ma, senza esserne consapevole, enunce-rà un’altra teoria, cioè una diversa spiegazione dei fatti.

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

1 C. Argyris, The individual and organizational structure, in K. Davis e W.G. Scott, Readings in Human Rela-tions, New York, San Francisco, Toronto, London, McGraw-Hill, 1964, pp. 70-78. Argyris ha sviluppato piùa fondo questi concetti in Personality and Organization. The Conflict Between System and the Individual,New York, Harper & Row, 1957.

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Come si fa però a costruire un “modello della realtà”? Con l’osservazione dei fatti,si risponde solitamente. La risposta è giusta, ma incompleta. L’osservazione “pura” – chepone come ideale una mente vergine, sulla quale vanno a incidersi, come su una tavolet-ta di cera, le percezioni dei fatti – non porta da nessuna parte, perché non fa che restitui-re la molteplicità irrelata della realtà, cioè il mondo lussureggiante e caotico descritto daWilliam James in questo brano:

Ciò che ci consente di andare avanti nell’esplorazione della realtà, senza arrestarciad una stupefatta contemplazione di questo variopinto caos che è il mondo, non è quindil’osservazione pura ma un’osservazione selettiva dei fatti, e la selezione è operata da ipo-tesi di un ordine possibile in relazione agli scopi che perseguiamo.

Proviamo ora a calare in questa trama di concetti il problema che abbiamo primaenunciato: che significa “bravura professionale” nella nostra organizzazione? Come pos-siamo trovare un ordine fra i diversi, generici e talora contrastanti significati di bravuraprofessionale che percepiamo nella quotidiana esperienza di lavoro? Quali sono i fattori

“Il contenuto del mondo viene dato ad ognuno di noi secondo un ordine cosìestraneo ai nostri interessi soggettivi che a mala pena con uno sforzo dell’immagina-zione possiamo figurarci a cosa assomigli. Dobbiamo rompere quell’ordine e, dopoaverne estratto i temi che c’interessano ed averli connessi ad altri molto diversi, chenoi diciamo vi sono ‘legati’, riusciamo a percepire nessi ben definiti di sequenze etendenze, a prevedere disposizioni particolari e a prepararci in loro funzione, a gode-re della semplicità e dell’armonia al posto di ciò che era caos... Mentre parlo e lemosche ronzano, un gabbiano cattura un pesce alla foce del Rio delle Amazzoni, unalbero cade nella selvaggia regione di Adirondack, un uomo starnuta in Germania, uncavallo muore in Tartaria e dei gemelli nascono in Francia. Che significa tutto ciò? Ilfatto che questi eventi siano contemporanei gli uni rispetto agli altri e rispetto a unaltro milione di eventi altrettanto slegati forma un legame razionale fra loro, e li uni-sce in qualcosa che abbia per noi il significato di un mondo? Tuttavia, proprio unatale contemporaneità collaterale, e nient’altro, costituisce l’ordine reale del mondo. Èun ordine rispetto al quale non abbiamo nulla da fare se non allontanarcene al piùpresto possibile. Come ho detto, lo rompiamo quell’ordine: lo rompiamo in storie, ein arti, e in scienze; e soltanto allora cominciamo a sentirci a nostro agio. Ne facciamodiecimila di ordini di serie distinti. Rispetto a ognuno di questi, possiamo reagirecome se il resto non esistesse. Scopriamo fra le sue parti relazioni che non si eranomai presentate ai nostri sensi – relazioni matematiche, tangenti, quadrati, e radici efunzioni logaritmiche – e a partire dal loro numero infinito assegniamo ad alcune diesse un ruolo essenziale e normativo e trascuriamo tutte le altre. Essenziali questerelazioni lo sono, ma solo per i nostri scopi, poiché le altre relazioni sono altrettantoreali e presenti; e il nostro scopo è semplicemente costruire concetti e prevedere”2.

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

2 W. James, The Principles of Psychology, New York, Dover Publications, 1950, vol. 2, p. 635, citato da K. Weick,Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, trad. it. Torino, ISEDI, 1993, pp. 208-209.

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che determinano la bravura professionale nelle sue diverse sfaccettature? C’è un filo checi ha guidati in questa ricerca e il filo si dipana dalla storia che ora raccontiamo. È unastoria che ci porta un po’ addietro nel tempo, ma che merita di essere narrata per il suocarattere esemplare e per la ricchezza di riflessioni cui può dare spunto. Invece di affa-stellare parole, concetti e orientamenti desumibili dalla vasta letteratura riguardante lecompetenze organizzative (rischiando così solo di generare confusione nel lettore), con-viene analizzare attentamente questa storia, perché se ne possono trarre – senza annoiar-si troppo – gran parte degli elementi necessari per comprendere i termini esatti della pro-blematica affrontata in questo manuale.

3. Le origini del concetto di “modello di competenze”

Agli inizi degli anni ’70, il Dipartimento di Stato americano (l’omologo del nostroMinistero degli Affari Esteri) era sempre più insoddisfatto delle prove selettive utilizzateper reclutare i funzionari dell’USIS (United States Information Service) da inviare all’e-stero. Gli uffici presso cui questi funzionari andavano a lavorare erano – per intenderci –l’equivalente dei centri di cultura italiana all’estero. Il loro compito era gestire bibliote-che, organizzare eventi culturali, tenere conferenze sull’America, stringere legami eavviare relazioni con le comunità locali allo scopo di far conoscere la cultura e la politicaamericana e coagulare consenso attorno ad esse (negli anni della contestazione giovanilegli uffici dell’USIS erano sistematicamente presi d’assalto dai manifestanti, alcuni deiquali, peraltro, fra un assalto e l’altro, non disdegnavano di frequentare quegli uffici, chenon di rado avevano biblioteche ben fornite e organizzavano interessanti iniziative cultu-rali). L’insoddisfazione del Dipartimento di Stato nasceva in particolare dal fatto che ifunzionari dimostratisi eccellenti nelle selezioni rivelavano poi, in diversi casi, di nonesserlo affatto nella concreta attività di lavoro e, viceversa, non pochi di coloro per i qua-li si era predetto, sulla base dell’esito delle selezioni, che non sarebbero stati funzionariparticolarmente brillanti, si rivelavano invece, alla prova dei fatti, molto bravi.

Il Governo americano decise di chiedere una consulenza a David McClelland, unopsicologo di fama internazionale (McClelland era noto soprattutto per i suoi studi di psi-cologia organizzativa, dedicati in particolare al tema della motivazione).

Si trattava anzitutto di capire dov’è che fallissero le prove di esame tradizionali e, insecondo luogo, di trovare tecniche migliori per individuare le capacità professionali e pre-dire performance superiori3. Le prove fino allora utilizzate miravano esclusivamente a

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

3 La critica che lo studioso americano rivolgeva ai test di abilità intellettiva utilizzati per la selezione profes-sionale era quella di “deficit di validità”, nel senso che non intercettavano, a suo giudizio, le capacità pro-fessionali realmente occorrenti per svolgere un lavoro al meglio. Il metodo delle competenze enfatizzainvece, come egli diceva, il criterio della validità. La distinzione fra i concetti di “validità” e “affidabilità”della valutazione professionale è fondamentale. Se non se ne acquisisce padronanza, è impossibile com-prendere pienamente le criticità della valutazione. Questa distinzione viene delineata più avanti (p. 36).McClelland espose le sue tesi in un famoso articolo del 1973, che, per generale ammissione, rappresental’atto di nascita del cosiddetto “movimento delle competenze” (vedi appendice p. 125).

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verificare il possesso di conoscenze di cultura umanistica occidentale e di storia america-na, la perfetta conoscenza dell’inglese ed una specializzazione in discipline economiche opolitico-economiche. Per superarle occorreva in genere essere usciti a pieni voti da costo-se università di élite. Sta di fatto che nel 1970, quando fu dato l’incarico a McClelland,quasi tutti i funzionari dell’USIS all’estero erano maschi, bianchi e di elevata classe socia-le. Ed era però anche un fatto – spiacevole per il Dipartimento americano, perché gettavaun’ombra sulla correttezza della sua politica di selezione – che tra i funzionari più bravi vierano spesso proprio le poche donne e i pochi neri in servizio presso gli uffici dell’USIS.

Il compito di McClelland era di rispondere alla domanda: se le prove tradizionalinon predicono il successo nel lavoro, che cosa si deve fare?

Il problema era anzitutto metodologico e McClelland lo affrontò con un approccioscientifico, basato sul campionamento di gruppi contrapposti. Egli decise di usare uncampione di funzionari di alto valore professionale e un campione di confronto di ele-menti mediocri. La scelta dei due gruppi campione di superior performers4 (o di bestperformers, per usare un sinonimo) e di average performers5 venne affidata al Diparti-mento di Stato, nel convincimento che l’Amministrazione fosse comunque in grado dirilevare chi operava con successo e chi no (che Amministrazione sarebbe mai quella chenon riuscisse neppure a fare questa distinzione?). L’assunto di base è che ci si accordapiù facilmente – come diceva McClelland – su chi è outstanding (fuori dell’ordinario)piuttosto che su che cosa rende qualcuno outstanding6. E l’indagine dello studioso ame-ricano si concentrò appunto sull’individuazione di questo “che cosa”.

Come secondo passo, McClelland sviluppò una tecnica chiamata BEI (BehavioralEvent Interview = Intervista sugli eventi comportamentali) per identificare in modo scien-tificamente plausibile che cosa facessero i migliori di più o di diverso o con maggiore fre-quenza rispetto a quelli mediocri7. Ai funzionari venne chiesto di raccontare dettagliata-mente che cosa avevano fatto nelle situazioni più critiche incontrate nel loro lavoro8, condomande del genere: come si arrivò a quella situazione? Chi vi era coinvolto? Che cosa

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

4 Chi sono i superior performers? Solitamente, nella letteratura che si è formata sulla scia del lavoro diMcClelland si dà di questo termine una definizione di tipo statistico: sono coloro che eseguono performan-ce pari a una deviazione standard al di sopra della performance media, ossia la fascia “top” del 15% deicomponenti di un’organizzazione in una distribuzione normale a 4 fasce (inferiori, medio-inferiori, medio-superiori, superiori). Il che vuol dire “grosso modo, il livello raggiunto da una persona su 10, in una situa-zione di lavoro data” (L.M. Spencer e S.M. Spencer, Competenza nel lavoro. Modelli per una performancesuperiore, trad. it. Milano, FrancoAngeli, 1995, p. 35. Per brevità, gli autori dell’opera appena menzionataverranno di seguito citati come “Spencer & Spencer”). La questione è approfondita in appendice a p. 127.

5 Average significa “medio”. Come scrisse McClelland, il gruppo degli average performers era costituito dacoloro che “lavoravano quel tanto che bastava per non essere licenziati”. Si trattava quindi di just averageperformers e cioè di “mediocri” più che di “medi”.

6 “People agree more readily on who is outstanding that on what makes them outstanding” (tratto da Identify-ing competencies with behavioral-event interviews, in «Psychological Science», 1998, 9, p. 338).

7 Come dice il proverbio “una rondine non fa primavera”. Non è un solitario successo che basta a determina-re il valore complessivo di una prestazione professionale, né, inversamente, è un singolo fallimento chepuò negare o attenuare quel valore.

8 Il senso di questo metodo dovrebbe apparire subito chiaro. Esso prende le distanze dal tradizionale approc-cio della psicologia organizzativa (che è poi quello comunemente sotteso – con minore o maggiore raffina-tezza a seconda dei casi – alla costruzione dei “profili professionali”) consistente nell’eseguire analisi

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pensò, provò e decise di fare per risolvere quella situazione? Cosa fece effettivamente?Cosa accadde? Quale fu l’esito dell’episodio?

Le interviste consentirono di raccogliere alcune centinaia di racconti delle situa-zioni più critiche incontrate da quei giovani funzionari nella loro missione all’estero. Sitrattava a questo punto – e fu il terzo passo del percorso seguito da McClelland – di pas-sare dalla miriade di singoli comportamenti descritti nelle interviste a un raggruppamen-to per categorie tematiche dei comportamenti stessi9. Ognuna di queste categorie identi-ficava le caratteristiche individuali che distinguevano i due gruppi campione (caratteri-stiche che non erano invece intercettate dalle prove tradizionali di accesso). Nel caso deifunzionari dell’USIS tali caratteristiche – che d’ora in poi chiameremo “competenze”(dandone in seguito una definizione più precisa) – risultarono essere principalmente tre:• sensibilità personale alle altre culture10;

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

separate della mansione e della persona, cercando poi di combinarle insieme in un secondo tempo. Comeosserva McClelland, questo approccio può funzionare bene quando si tratta di predire il rendimento scola-stico sulla base di test di attitudine allo studio (anche se pure qui la più moderna pedagogia – imperniatasul concetto di istruzione individualizzata diretta a superare le disuguaglianze di partenza – avrebbe qual-cosa da dire), ma si dimostra del tutto inadeguato per predire la performance di valore nelle mansioni piùqualificate. In sostanza, nel metodo delle competenze l’analisi comincia con la persona già nella mansione(e non presume, come fanno in genere gli esperti che costruiscono i test attitudinali, di sapere già qualicaratteristiche siano necessarie per svolgere bene un certo lavoro) e determina poi, attraverso le intervistesui comportamenti esplicitati in situazioni non strutturate, quali caratteristiche personali siano associabilial successo nella mansione. Il ruolo centrale che gioca in questa impostazione il concetto di analisi dellapersona già nella mansione appare ancora più chiaro, quando si pensa che originariamente McClelland e isuoi collaboratori avevano ipotizzato di osservare direttamente sul posto di lavoro i funzionari dei duediversi campioni, per scoprire cosa facessero i migliori di più o di diverso dai medi. Questa soluzione fuperò ben presto abbandonata perché si rivelò dispendiosa e inefficiente. “Eseguito correttamente, il meto-do BEI raccoglie informazione di eventi critici equivalente ai dati dell’osservazione diretta, ma in modomolto più efficiente. 60-90 minuti di intervista possono in pratica produrre tanti dati utili quanti ne puòfornire una settimana di osservazione intensa o un anno di regolare attività di lavoro” (L.M. Spencer e S.M.Spencer, Competence at Work. Models for Superior Performance, New York, Wiley, 1993, p. 104. La cita-zione è tratta dall’edizione originale, poiché la traduzione italiana già menzionata non riporta il capitolo10 – Designing Competency Studies – in cui compare il passo citato). La tecnica dell’intervista BEI e le suedifferenze dai tradizionali metodi di intervista sono descritte con chiarezza nel cap. 11 (Conducting theBehavioral Event Interview) dell’opera di Spencer & Spencer appena citata (neanche questo capitolo èincluso nella traduzione italiana del libro).

9 Come si fa a risalire da tanti singoli comportamenti all’individuazione di poche categorie di comportamen-ti idonee a spiegare il successo professionale delle persone nell’organizzazione in cui lavorano? In altreparole: come si arriva a disegnare una “mappa di competenze”? La questione viene esaminata in appendicea p. 138.

10 Eccone un esempio ripreso, come altri che riporteremo successivamente, dal libro di Spencer & Spencer:“Quando ero addetto culturale nell’Africa settentrionale, un giorno mi arrivò da Washington l’invito aproiettare un film su un politico americano che i locali, sapevo, consideravano ostile al loro paese. Erosicuro che, se avessi proiettato quel film, il giorno dopo qualche centinaio di studenti di sinistra inferocitiavrebbero appiccato il fuoco alla nostra sede. “Washington pensa che il film sia una gran cosa, ma i localilo considereranno offensivo”. Dovevo trovare il modo di proiettare il film, per permettere all’Ambasciatadi confermare a Washington che avevamo obbedito, ma nello stesso tempo non dovevamo offendere i senti-menti di nessuno dei locali… Decisi di far proiettare il film in un giorno festivo, quando nessuno sarebbevenuto a vederlo”. L’episodio viene così commentato da McClelland: “Questo giovane diplomatico ebbe lasensibilità sociale di capire come avrebbe reagito la popolazione locale, e seppe anche gestire la situazionesenza contraccolpi per la propria ambasciata”.

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• atteggiamento positivo nei confronti degli altri11;• rapidità a capire le “relazioni politiche”12.

Si trattava di competenze che costituivano doti non scolastiche e che, sulla base dianalisi statistiche, risultarono significativamente più frequenti nei funzionari che colle-zionavano brillanti successi sul lavoro. Gli average o non riferivano episodi che dimo-stravano il possesso di queste doti o raccontavano episodi che rivelavano la mancanza ditali capacità. Per esempio, descrivevano situazioni che avevano portato discredito al pro-prio ufficio, perché non avevano saputo prevedere le conseguenze “politiche” di unaloro azione (mancanza di sensibilità sociale e senso politico). Era inoltre frequente che leinterviste dei funzionari mediocri contenessero commenti negativi o addirittura razzisti-ci sui “clienti” dei paesi ospitanti.

A scanso di malintesi, va sottolineato che la tesi sostenuta da McClelland non eraquella secondo cui i criteri di selezione dei funzionari dell’USIS sarebbero stati insensati.Quei criteri erano legati, in effetti, all’analisi delle caratteristiche del compito che i funzio-nari di cui parliamo erano chiamati a svolgere. Poiché quei giovani dovevano diffondere lacultura americana nel mondo, non era affatto illogico che la selezione mirasse a verificareil possesso di tale cultura. L’errore stava nel ritenere che le condizioni necessarie per ese-guire un compito equivalessero a quelle necessarie per eseguire un compito in manieraeccellente. La ricerca di McClelland sottolineava che tale equazione era sbagliata. Per esse-re un ottimo funzionario dell’USIS all’estero occorrevano quelle altre competenze cheabbiamo prima specificato e che i test tradizionali non intercettavano, essendo perciò chia-ro che quelle prove, se pur predicevano una average performance, non avevano pero vali-dità predittiva riguardo alla superior performance. Ricorrendo alla terminologia che studisuccessivi avrebbero poi introdotto, una cosa sono le “competenze soglia” (ThresholdCompetencies, quelle necessarie per eseguire un compito) e un’altra le “competenze distin-tive” (Differentiating Competencies, quelle necessarie per eseguire bene un compito)13.

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

11 Una giovane diplomatica raccontò di essere rimasta amica di alcuni leader studenteschi radicali che aveva-no minacciato di dar fuoco alla biblioteca dell’USIS in cui lavorava: “Nonostante i guai che ci avevano pro-curato, conservai sempre sentimenti di amicizia e di rispetto per i leader studenteschi. Stavano acquistandoconsapevolezza del loro “essere una nazione” e sapevano che sarebbero diventati la classe dirigente di unpaese radicalmente cambiato. Mi rendevo conto che avevano il diritto di rifiutarci e addirittura di cacciarci, erimasi di quell’idea anche se volevano incendiare la mia biblioteca! E glielo dissi; li invitai ad usare i nostrilocali per le loro riunioni. Cercai di convincere gli americani là residenti a venire ad ascoltarli. Conservo buo-ni rapporti con alcuni di quegli studenti. E non mi hanno ancora bruciato la biblioteca!”. Per apprezzare larilevanza di questo comportamento, è assai significativo il raffronto (e qui si vede subito l’utilità del metodoadottato da McClelland) con il racconto di un funzionario average in una situazione analoga: “Giunsi alla finealla conclusione che la gente di quel paese era solo stupida, ottusa e priva di motivazioni. Avevo cercato diformare classi di inglese, in modo che quei ragazzi potessero impararlo abbastanza per andare a studiare negliStati Uniti, che è poi quello che tutti loro dicevano di volere. Ma ben pochi si presentarono. E così alla finesoppressi le classi. Che puoi fare con gente così?” (Spencer & Spencer, Competence at Work, cit., p. 105).

12 Un funzionario, inviato in missione in un paese africano, raccontò di aver capito subito che “ad avere inmano la politica petrolifera di quel paese era il nipote dell’amante del vice primo ministro”. E così fecesubito in modo da essere invitato a un party, nel quale poté incontrare questo nipote e cominciare a perora-re la causa degli Stati Uniti.

13 “È proprio del citaredo suonare la cetra, mentre è proprio del citaredo di valore suonarla bene”. La citazio-ne, tratta da un’opera di circa 2400 anni fa (Aristotele, Etica nicomachea, 1098a), può sembrare curiosa, se

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Successive verifiche, basate su nuovi gruppi di controllo e sull’introduzione diappositi test di misura delle competenze, confermarono che il possesso di quelle compe-tenze distintive da parte dei funzionari USIS consentiva realmente di prevedere espe-rienze professionali di successo (il banco di prova della scientificità di una teoria è seessa sia in grado di formulare previsioni che collimano con l’osservazione empirica). Equesto stava appunto a significare che con l’individuazione di quelle tre competenze,con la loro puntuale descrizione e graduazione in termini di intensità, si riusciva acostruire un modello, cioè una rappresentazione semplificata della realtà che consentivadi individuare, nella intricata matassa dei comportamenti messi in atto dai funzionariintervistati, quelli che effettivamente spiegavano il loro successo professionale e poteva-no perciò considerarsene la causa.

Di conseguenza, questi comportamenti potevano essere indicati come “modello”da seguire, ed ecco allora che la parola “modello” assume, nella discussione relativa allecompetenze, non più solo una valenza esplicativa, ma anche prescrittiva, conformemen-te peraltro all’uso linguistico comune, in cui la parola ricorre in entrambe le accezioni.

Ulteriori ricerche permisero nel corso del tempo di arrivare a una definizione gene-rale di competenza e all’individuazione di un certo numero di competenze a caratteretrasversale, in quanto richieste nella gran parte delle attività professionali.

Già nel 1991 il metodo di mappatura delle competenze era stato utilizzato da oltre100 ricercatori di 24 paesi e a distanza di trent’anni dalla sua introduzione l’approcciodelle competenze offre un metodo ormai consolidato di gestione delle risorse umane lar-gamente applicabile alla selezione, alla definizione delle prospettive di crescita profes-sionale, alla valutazione della performance e allo sviluppo del personale.

La metodologia messa a punto da McClelland e ulteriormente perfezionata dai suoicollaboratori viene oggi applicata dalla società internazionale di consulenza Hay Group, cheha fornito la propria qualificata esperienza per la conduzione degli expert panels che hannoconsentito di definire il modello delle competenze del personale dell’Agenzia delle Entrate.

4. Il modello delle competenze dell’Agenzia delle Entrate

4.1 Definizione di competenza

Muovendo dagli schemi concettuali nati dalla ricerca di McClelland, alla fine del2002 sono stati costituiti nell’Agenzia delle Entrate alcuni expert panels14 cui ha parteci-pato personale impegnato con successo nei processi-chiave dell’Agenzia: controllo, ser-vizi al contribuente, consulenza legale e riscossione (expert panels significa letteralmen-te “gruppi di esperti”).

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

non addirittura stravagante, nel contesto di una moderna problematica organizzativa, ma sintetizza perfet-tamente la distinzione cui ci stiamo riferendo.

14 Se il metodo ideato da McClelland per l’individuazione delle competenze era quello della definizione digruppi campione contrapposti e dell’intervista BEI ai partecipanti a tali gruppi, perché l’Agenzia delle Entra-te ha utilizzato invece il metodo degli expert panels? La questione viene discussa in appendice a p. 137.

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Il lavoro di riflessione negli expert panels

Da giudizi vaghi e polisensi (“è bravo”,“ècapace”, ecc.) che qualificano i perfor-mers di livello superiore (la luce biancache va a rifrangersi sul prisma ottico rap-presenta appunto l’intuizione valutativaindistinta) si passa attraverso la riflessio-ne (il prisma ottico) sugli episodi di bestperformance e sui comportamenti che ne

sono causa (letti gli uni e gli altri in contrapposizione alle esperienze di averageperformance) alla scomposizione analitica delle competenze (raffigurata dallospettro dell’iride).

Ascoltando e dibattendo con gli interessati le esperienze che essi raccontavano, si èarrivati, con un lavoro di analisi e codifica degli episodi narrati, all’individuazione diuna serie di competenze, raggruppate, a loro volta, in macro categorie, la cui descrizionesi è tradotta nella stesura del Dizionario delle competenze riportato in questo manuale.

Cosa sono le “competenze”? Possiamo a questo punto darne la seguente definizio-ne: le competenze sono categorie di comportamenti15 o, come si potrebbe anche dire,classi di comportamenti che hanno queste caratteristiche:• sono causa dei successi di un’organizzazione16;• sono reali e osservabili in un contesto lavorativo in base a criteri predeterminati (non

si tratta quindi di mere “potenzialità” esposte ad apprezzamenti fortemente soggettivi,ma di comportamenti effettivi la cui rilevazione è suscettibile di controllo intersogget-tivo all’interno di un’organizzazione).

Proprio per la loro dimensione comportamentale e per gli effetti che determinanosul piano organizzativo, le competenze si definiscono anche “comportamenti organizza-tivi” o “competenze organizzative”.

Secondo la definizione appena data, le competenze sono un “costrutto organizzati-vo” e non un “costrutto psicologico”. In sostanza, noi diciamo cos’è una competenza dalpunto di vista organizzativo (è una classe di comportamenti che esprimono performance dilivello superiore), senza però entrare nell’intricata spiegazione di cosa c’è dietro o cosa c’è

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

15 Per fare un esempio, essere riusciti a prevenire un conflitto sindacale è un comportamento singolo, cosìcome è un comportamento singolo aver previsto l’insorgere di un problema e avervi dato soluzione tempe-stivamente. La “categoria” è invece un’entità generale e astratta che ricomprende – sotto una definizione –questi comportamenti e altri simili. È appunto questa classe di comportamenti che costituisce, nel caso dispecie, la competenza che chiamiamo “iniziativa”.

16 Fra competenze e risultati viene fatta spesso una distinzione analoga a quella fra mezzi e fini. Se i risultatirappresentano cosa bisogna fare, le competenze indicano come (cioè con quali comportamenti) si riesca a rag-giungerli. Questa distinzione si può prestare a qualche malinteso, come evidenziato in appendice a p. 129.

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sotto dal punto di vista psicologico17. Per riprendere l’esempio già citato, quello che noifacciamo è dare una chiara definizione di cosa sia “l’iniziativa”, in modo da poter distin-guere con sufficiente precisione quali comportamenti vi rientrino e quali no, ma prescin-diamo da cosa vi sia “dietro” o “sotto” il senso di iniziativa, psicologicamente parlando. Inquesto modo la nostra definizione è neutrale. Vi si può cioè aderire senza dover necessaria-mente prendere partito in un dibattito complesso e controverso, che esula dagli scopi diquesto manuale (per chi comunque vi abbia interesse, una sintesi succinta del dibattito èpresentata in appendice a p. 131). Il nostro fine è solo quello di approntare una intelaiaturadi concetti essenziali che permettano di assumere, con sufficiente consapevolezza critica,importanti scelte organizzative, come la rilevazione, la valutazione e lo sviluppo dellecompetenze. Insomma, ai fini della costruzione di un modello di competenze – che è ilnostro obiettivo – ciò che veramente importa è enunciare con chiarezza quali comporta-menti siano classificabili come “tensione al risultato”, “flessibilità”, “fare squadra”, ecc. equali no, affinché le persone sappiano cosa l’organiz-zazione si attende da loro e cosa quindi sarà rilevato evalutato, e cosa andrà eventualmente sviluppato lad-dove emergano gap rispetto alle aspettative. In sintesi,quando c’è un modello valido (p. 32), chiaramentericonoscibile e riconosciuto, si possono consapevolmente avviare i processi di apprendi-mento e di sviluppo legati appunto alla possibilità di seguire quel modello (self-modelling).

4.2 Struttura del Dizionario delle competenze

Dopo questi chiarimenti sulla nozione di “competenza”, si può passare a descrive-re l’articolazione del Dizionario delle competenze dell’Agenzia. Il dizionario presenta,per ciascuna competenza, una descrizione generale e una serie di indicatori comporta-mentali raggruppati in quattro classi secondo una scala crescente di intensità18.

La descrizione delle competenze assume, laddove queste abbiano in qualche modocarattere autoesplicativo o siano comunque di più immediata comprensione, la forma di

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

17 Una spiegazione potrebbe essere questa: dietro o sotto i comportamenti di high performance c’è un insiemeeterogeneo di caratteristiche individuali, come conoscenze, capacità, immagine di sé, motivazioni, valori,atteggiamenti e tratti, che appartengono ai diversi strati della personalità, formando una sorta di iceberg.Questa spiegazione viene approfondita in appendice a p. 130. Nel nostro caso “dietro” e “sotto” sono evi-dentemente espressioni metaforiche. Lasciando il piano della metafora, si tratta di distinguere due aspettidiversi: da un lato, le competenze intese come “categorie di comportamenti” e, dall’altro, le condizioni(psicologiche, culturali, ecc.) che si assume debbano esistere (ossia quello che, metaforicamente, designia-mo appunto come ciò che sta “dietro” o “sotto” le competenze), affinché una persona adotti comportamen-ti riconducibili a questa o quella competenza.

18 È evidente qui la differenza rispetto ai sistemi tradizionali di analisi valutativa che abbiamo tutti conosciu-to a scuola. In quei sistemi l’insegnante ha a disposizione una scala di voti (ad es. quella in decimi) i cuipunti non hanno un significato preciso, sicché ogni docente li interpreta a modo suo (per citare solo unesempio: un insegnante utilizza solo una parte dei punti a disposizione, in genere non più di tre o quattropunti, e a questa gamma limitata corrispondono diverse interpretazioni del valore dei punteggi, sicché ilsette di un insegnante può corrispondere al sei o all’otto di un altro, e questi riferimenti così fluttuantideterminano notevoli discordanze di giudizio).

Model Õ Self-modelling

Un modello comportamentale ha, adeterminate condizioni, la capacità diattivare un processo di self-modelling.

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una definizione sintetica (così è, ad esempio, nel caso della “Tensione al risultato” o del-la “Flessibilità”). Per altre competenze (ad esempio, quelle riguardanti la passione per illavoro e la coerenza) è sembrato invece troppo ingenuo pensare di poterne racchiudere lacomplessità dei contenuti in formule esaustive solo in apparenza, e destinate in realtà arivelarsi subito vuote o ambigue non appena poste a raffronto con la concretezza dellesituazioni. In questi casi, perciò, non viene data solo una definizione sintetica, ma sonoanche delineati l’orizzonte di senso o, come si potrebbe anche dire, le chiavi di lettura edi interpretazione che, nella mutevolezza delle vicende, aiutano, assai più di una sempli-ce definizione, a risolvere le ambiguità e a distinguere quali comportamenti rivelinoeffettivamente il possesso di una determinata competenza.

Per quanto riguarda la graduazione delle competenze, gli indicatori comportamen-tali sono classificati secondo quattro livelli19:• il primo livello (non ancora adeguato) riguarda comportamenti che non apportano

valore aggiunto all’organizzazione, influenzandone anzi negativamente l’efficacia el’efficienza dell’azione20;

• il secondo livello (adeguato) indica i comportamenti che rispondono all’esigenza dicorretto funzionamento dell’attività amministrativa;

• il terzo livello (più che adeguato) indica comportamenti che contribuiscono in modoragguardevole al raggiungimento degli obiettivi;

• il quarto livello (eccellente) indica comportamenti non comuni per l’apporto partico-larmente qualificato e assai differenziato che danno alla performance collettiva.

Per ciascuna competenza sono inoltre riportati nel manuale alcuni esempi signifi-cativi di concreti comportamenti organizzativi, tratti dall’agire quotidiano, che corri-spondono ai diversi livelli di intensità. Gli esempi sono frutto di una cernita delle testi-monianze raccolte nel corso degli expert panels (non era ovviamente possibile riportar-le tutte). Negli episodi comportamenta-li descritti dalle persone intervistateconfluiscono non di rado più compe-tenze, e la selezione degli episodi stes-si è avvenuta quindi in base alla com-petenza che nel singolo caso apparivaessere quella più determinante.

Dal punto di vista metodologico ècentrale il fatto che la graduazione del-l’intensità delle competenze non venga

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

19 Ad ogni livello di intensità di ciascuna competenza corrisponde uno specifico set di indicatori comporta-mentali, che non costituiscono però un tutt’uno. Non è necessario quindi che siano tutti compresenti perclassificare una determinata prestazione lavorativa sotto questo o quel livello di intensità di competenza.

20 Come osservano Spencer & Spencer (op. cit., trad. it., p. 46), “I livelli negativi sono utili ai fini dello svilup-po (come esempi di cosa si deve evitare) e qualche volta anche della selezione (sono “segnali d’allarme”che mettono in discussione l’idoneità del candidato ad una posizione in cui quella competenza è critica)”.

Il Dizionario delle competenze costituiscelo “strumento di misurazione” delle competenze

Caratteristiche di oggettivitàdi uno strumento di misurazione

é Validità = idoneità dellostrumento a intercettarele caratteristiche che i suoiutilizzatori (valutati e valutatori)hanno interesse a misurare

é Affidabilità = idoneità dellostrumento a fornire ai suoiutilizzatori misurazioni coerentie costanti

oggettività =intersoggettività

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operata – come in genere avviene – ricorrendo, un po’ comodamente, al solito ventagliodi avverbi di modo (ad es. “straordinariamente capace”, “molto capace”, “abbastanzacapace”, ecc.). La graduazione è invece stabilita, individuando, con quanta più accura-tezza possibile, comportamenti tipologicamente diversi in corrispondenza di ciascungrado di intensità. È evidente quale sia il vantaggio che tale approccio offre in termini dioggettività della mappatura delle competenze21.

In sintesi, le caratteristiche strutturali del Dizionario delle competenze sono tre:definizione della competenza, indicatori comportamentali e citazione di episodi signifi-cativi. Su queste tre caratteristiche si basa l’oggettività del modello, e cioè la sua validitàe affidabilità (i concetti di validità e affidabilità sono analizzati più avanti a p. 36).

4.3 Contenuti del Dizionario delle competenze

Il modello proposto evidenzia le competenze di livello superiore che il personaledell’Agenzia utilizza per realizzare con efficacia ed efficienza i propri compiti e far fron-te alle proprie responsabilità.

In particolare, dall’analisi effettuata è emerso chiaramente che i comportamenti delperformer superiore (il “bravo funzionario”) esprimono:• integrità professionale;• passione per il proprio lavoro;• propensione a migliorare i propri standard;• orientamento a fornire servizi di qualità al contribuente;• capacità di lavorare con gli altri;• flessibilità e volontà di aggiornarsi costantemente.

Nell’esprimere tali caratteristiche, il bravo funzionario manifesta competenze chesi possono suddividere in due grandi categorie: competenze intellettive e competenzeextraintellettive. Le prime comprendono l’intuito e la capacità di costruzione logica.Operando sinergicamente, esse danno vita al dinamismo intellettivo, inteso come abilitànell’applicare l’intelligenza alla soluzione concreta dei problemi di lavoro. La secondacategoria comprende le competenze che investono la sfera della volontà e dei sentimenti.Sono concettualmente distinte dall’intelligenza, ma non vi si contrappongono: volontà esentimenti assumono la configurazione di competente organizzative se e in quanto nevenga fatto un uso intelligente. Ma vale anche la relazione inversa: l’intelligenza prendeforma e si sviluppa solo se trova un ambiente extraintellettivo ad essa favorevole (perfare un esempio, imparare è un’abilità tipicamente intellettuale, che non si sviluppa peròse non si ha una spinta – una motivazione, come si suole dire – a praticarla: si impara afondo solo ciò cui ci si appassiona).

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

21 La possibilità di utilizzare, per la rilevazione delle competenze, metodi di tipo quantitativo anziché qualitati-vo (metodi “qualitativi” sono quelli basati sull’uso del linguaggio ordinario) è discussa in appendice a p. 152.

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Sotto l’aspetto della valutazione, la differenza fra competenze intellettive ed extrain-tellettive è particolarmente importante. Le prime hanno riflessi diretti e immediati sullaprestazione di lavoro (è superfluo sottolineare quale rilievo abbiano l’uso dell’intelligenzae la risorsa del sapere in attività tecnicamente così complesse quali sono quelle legateall’applicazione dei tributi in società socialmente ed economicamente avanzate, tant’è cheil termine knowledge worker, lavoratore della conoscenza, è quanto mai appropriato ailavoratori dell’Agenzia), mentre le seconde hanno riflessi indiretti e mediati. In questocaso, “indiretti” e “mediati” non significa affatto “marginali” o “poco rilevanti”. Compe-tenze come “Tensione al risultato”, “Iniziativa”, “Flessibilità”, capacità di “Fare squadra”,ecc. (sono queste, come vedremo meglio più avanti, alcune delle competenze extraintellet-tive) sorreggono e indirizzano la motivazione individuale al lavoro e contribuiscono ad ali-mentare nell’ufficio e a tenervi vivo un clima organizzativo favorevole alla performancecollettiva. Come tali esse hanno un’importanza determinante: riconoscendone e valutando-ne l’apporto, si promuove l’interesse e l’impegno dei singoli a farle proprie e a praticarle.

Le competenze sono raggruppate in cinque aggregati omogenei, comprendenticomplessivamente undici competenze. Il termine tecnico inglese che designa tali rag-gruppamenti è cluster (che nell’uso comune significa appunto un gruppo di cose dellostesso tipo, come cluster of flowers o cluster of stars). Per comodità espressiva parleremoallora nel seguito di “cluster di competenze” invece che di “raggruppamento omogeneodi competenze”.

Cluster delle competenze intellettive

Dinamismo intellettivo. Comprende le competenze Intuito & Costruzione logica,che riguardano la capacità di combinare intuizione, analisi critica e conoscenze teorichenella risoluzione dei problemi di lavoro. In ragione del suo legame diretto e immediatocon la prestazione di lavoro, il dinamismo intellettivo è valutato, anche per motivi di sem-plicità, in base alle caratteristiche della prestazione eseguita. In altre parole, il comporta-mento intelligente viene valutato attraverso la verifica del prodotto intelligente.

Cluster delle competenze extraintellettive

– Affidabilità. Comprende la competenza Coerenza, che riguarda l’integrità e la corret-tezza professionale, e la competenza Passione per il lavoro, che esprime l’attaccamen-to al proprio mestiere;

– Dinamismo realizzativo. Comprende le seguenti competenze: Iniziativa, intesa comecapacità proattiva di attivarsi autonomamente senza sollecitazioni esterne, Tensione alrisultato, riguardante la capacità di prefiggersi obiettivi non facilmente realizzabili e diimpegnarsi a fondo per raggiungerli, e Sviluppo e diffusione del sapere, che denotal’attitudine a sviluppare il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze a beneficiodella propria performance lavorativa e di quella dei colleghi;

– Dinamismo relazionale. Comprende le competenze Orientamento all’altro, Fare squadrae Flessibilità, che riguardano la capacità di interagire, cooperare e lavorare in gruppo;

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

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– Leadership. Comprende due competenze: Team building (organizzazione e sviluppodel gruppo) e Influenza, che riguardano la capacità di guidare gruppi e di esercitarenel proprio ambiente di lavoro un ruolo trainante con la forza della persuasione.

L’immagine seguente dà una visione d’insieme del modello delle competenze delpersonale dell’Agenzia delle Entrate, e dell’integrazione, al suo interno, delle competen-ze intellettive con quelle extraintellettive.

Modello delle competenze del personale dell’Agenzia delle Entrate

All’interno del modello vanno poi selezionate le competenze proprie dei diversiruoli professionali (ossia le competenze richieste dalle funzioni della specifica posizionerivestita, ad es. capo area, capo team, ecc.) e va assegnato un peso ai singoli cluster.

Mentre per alcuni ruoli possono quindi essere previste tutte le competenze delmodello generale, per altri le competenze possono essere solo alcune. Analogamente, ilpeso dei cluster potrà variare a seconda dei ruoli considerati.

Questa operazione di scelta delle competenze nell’ambito del modello generale edi assegnazione ad esse di un peso dà luogo al profilo delle competenze di ciascun ruolo(una sorta di identikit comportamentale per le diverse posizioni funzionali).

In questa sede si omette la descrizione dei profili di competenze dei ruoli profes-sionali dell’Agenzia, poiché avrebbe scarso interesse per il lettore che non faccia partedell’Agenzia stessa.

Dinamismo intellettivo • Intuito & costruzione logica

Affidabilità • Coerenza • Passione per il lavoro

Dinamismo realizzativo • Iniziativa • Tensione al risultato • Sviluppo e diffusione del sapere

Dinamismo relazionale • Orientamento all’altro • Fare squadra • Flessibilità

Leadership • Team building • Influenza

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COSTRUZIONE DI UN MODELLO DI COMPETENZE

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29PARTE SECONDA

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1. Lo snodo tra modello di competenze e sistema di valutazione

A che serve un modello di competenze? Individuare le competenze necessarie alavorare bene in un determinato contesto organizzativo, può avere più finalità.

Si è già visto come il “movimento delle competenze” abbia storicamente originesul terreno della selezione, ma si sia poi esteso all’intero ambito del processo di gestionedelle risorse umane (formazione, sviluppo, remunerazione, piani di carriera). C’è però unfilo che lega tutti questi momenti applicativi di un modello di competenze, ed è il temadella valutazione e – connesso a questo – il tema della costruzione di un sistema di valu-tazione. Su questa problematica intendiamo ora concentrare l’attenzione.

Per evitare equivoci, occorre subito osservare che “modello di competenze” e“sistema di valutazione” non sono la stessa cosa. Il primo indica una costellazione diaspettative di lavoro, il secondo riguarda le modalità di verifica della risposta a taliaspettative. Il contenuto delle aspettative è dato dalle competenze cui un’organizzazio-ne attribuisce valore in quanto generatrici di performance elevata. Le aspettative sonoformulate dal modello in modo generale (cioè senza riguardo a questa o a quella singolapersona) e astratto (cioè senza riguardo a questo o a quel caso concreto). La verifica delleaspettative riguarda invece persone particolari in situazioni determinate. Insomma, conla costruzione del proprio modello di competenze, un’organizzazione dichiara cosa siattende in termini di comportamenti produttivi di performance superiore. Con un siste-ma di valutazione, rileva invece con procedure formalizzate se e in quale grado i com-portamenti dei singoli corrispondano a quelle attese. Una cosa è definire l’intreccio del-le competenze richieste ai componenti di un’organizzazione (qui siamo nell’ambito del“modello di competenze”), un’altra è stabilire se, e in quale misura, e in che modo, neiriguardi di chi e ad opera di chi e con quali effetti, le competenze descritte nel modellodebbano formare oggetto di procedure formali di verifica (qui siamo nell’ambito del“sistema di valutazione”).

Ad esempio, in un’organizzazione come quella dell’Agenzia delle Entrate, chesvolge funzioni strettamente legate al rispetto di valori fondamentali dell’etica pubblica(l’adempimento del dovere fiscale), pretendere dagli appartenenti a questa organizza-zione comportamenti che denotino “integrità e coerenza” fa necessariamente parte delmodello professionale di un funzionario dell’Agenzia. Cosa diversa però è decidere di

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

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fare oggetto di una valutazione formalizzata tali comportamenti, così come manifestatida questa o quella persona. Ragioni quale, ad esempio, la difficoltà pratica di osserva-zione di comportamenti come quelli appena indicati, nei loro diversi livelli di intensità,e le discussioni, non facilmente componibili, che potrebbero di conseguenza accendersiove tali comportamenti fossero oggetto di valutazione formale, possono condurre alladecisione di escludere la rilevazione di tali comportamenti dall’ambito di un sistema divalutazione.

Potrebbe però a questo punto ritenersi che se un modello di competenze non siabbina a un sistema di valutazione, il primo è destinato a risultare inefficace. Non è così.Se una categoria di comportamenti, prevista dal modello di competenze, non trova inse-rimento nel sistema di valutazione, ciò non significa affatto che quella categoria rimanepriva di rilevanza pratica. Un modello di competenze esplicita la cultura e i valori diun’organizzazione e questo passaggio dalla dimensione tacita alla dimensione espressadella vita organizzativa può avere influenza decisiva sulle dinamiche cruciali dell’iden-tità e del senso di appartenenza, che consentono ad un’organizzazione di rimanere vitalenel tempo e di svilupparsi22.

Condizione essenziale affinché un modello di competenze possa esercitare taleinfluenza è quella della validità del modello stesso. Un modello è valido se rispondealle specifiche esigenze della realtà organizzativa per la quale è stato costruito, ovverose riesce a dare forma chiara, coerente e compiuta (e magari, se non proprio avvincente,almeno non soporifera) alle idee più o meno implicite che le persone stesse, lavorandogiorno per giorno, sviluppano riguardo ai tipi di comportamento più funzionali rispettoagli obiettivi della propria organizzazione. Questo processo di crescita comune di con-sapevolezza legato all’introduzione di un modello di competenze può servire a dissipa-re ambiguità e incoerenze e a superare visioni parziali, riduttive o addirittura sbagliatenelle concezioni di lavoro maturate dagli appartenenti ad una organizzazione23. In bre-ve: a parità di ogni altra condizione, lavora meglio chi ha una idea migliore di ciò che èbene fare. Se il modello di competenze proposto riesce a far progredire la qualità del-l’autoconsapevolezza, l’atteggiamento cui esso dà impulso non è di difesa o di elusione(come avviene per adempimenti giudicati pesanti, inutili e burocratici), né di adegua-mento passivo ad obblighi sentiti come estrinseci rispetto alle reali esigenze di lavoro,bensì di adesione attiva a un codice di comportamento cui gli interessati attribuisconospontaneamente autentico valore e nel quale quindi possono riconoscersi e trovareragioni e motivazione nella propria vita lavorativa. Acquisendo piena conoscenza delleaspettative della propria organizzazione, il personale può sapere, senza incertezze, dove

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

22 Per una sintesi delle questioni riguardanti la tematica della cultura organizzativa, si può leggere H.L.Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo, trad. it. Milano, EGEA, 2002, pp.365-409.

23 In uno studio relativo a un campione di ingegneri impegnati nel lavoro di ottimizzazione dei motori dellaVolvo, un ricercatore svedese, Jörgen Sandberg (Interpretare le competenze, in «Sviluppo & Organizzazio-ne», n. 182, novembre/dicembre 2000, pp. 95-107 e 111-114), ha sviluppato l’idea che in una organizzazio-ne possano convivere, più o meno implicitamente, concezioni diverse su cosa debba intendersi per bestperformance e best performer (per un approfondimento si può vedere l’appendice a p. 136).

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e come dirigere la propria azione, traendo così, dal modello di comportamenti che gliviene indicato, una duplice motivazione: da un lato, con la gratificazione legata al rico-noscimento dei propri punti di forza, la spinta a perseverare nel percorso intrapreso, edall’altro, la sollecitazione ad analizzare lucidamente – in un processo di progressivomiglioramento e sviluppo – quali siano invece i propri punti deboli.

Ma se questo è vero, si pone allora una domanda speculare a quella che è stata pri-ma formulata e che suonava così: senza un sistema di valutazione un modello di compe-tenze non è destinato a rimanere inefficace? La risposta è stata: no, un modello di compe-tenze ha una sua intrinseca efficacia. La questione adesso si ribalta: se un modello dicompetenze è in sé efficace, che motivo c’è di accoppiarvi un sistema di valutazione? Larisposta è questa: quando si decide di agganciare una serie di effetti (ad esempio, incre-menti retributivi, percorsi formativi o progressioni di carriera) ad una verifica di come lepersone corrispondano al modello loro proposto è necessario che questa verifica sia con-dotta non “ad occhio”, “a naso” o “a pelle” ma in modo formale con una procedura con-trollabile da tutti gli interessati.

Ciò anzitutto per ragioni di equità organizzativa. Se si assume che le prestazionilavorative dei singoli rispetto al modello indicato non siano tutte uguali, decidere di col-legare effetti a questa diversità di prestazioni, comporterà – per ragioni appunto di equità– una distribuzione diversa di vantaggi, che è necessario però non solo che sia di fattoequa, ma che venga anche percepita come equa. È infatti generalmente riconosciuto cheun eventuale deficit di equità percepita ha conseguenze negative sulla motivazione allavoro (disaffezione e calo dell’impegno lavorativo).

Lo scopo di un sistema di valutazione è fondamentalmente quello di contribuirea mantenere quanto più elevato possibile in una organizzazione il senso dell’equitàpercepita nella distribuzione dei vantaggi legati alla rilevazione e alla verifica del gra-do di corrispondenza della prestazione lavorativa alle aspettative enunciate dal model-lo. Quello che occorre tutelare ai fini del sostegno alla motivazione al lavoro non è solol’equità sostantiva – ossia la percezione che i propri sforzi e i propri successi venganogiudicati in maniera equa rispetto a quelli degli altri – ma anche l’equità procedurale.Una distribuzione di vantaggi, pur se in sé giusta, fatica ad essere percepita come giu-sta, se non sono percepite come giuste le regole procedurali seguite per la distribuzio-ne dei vantaggi. Il che significa, nell’ambito di una procedura di valutazione, assicura-re agli interessati queste tre cose: una compiuta “autopresentazione” (possibilità diesporre il proprio punto di vista, prima che la decisione valutativa venga adottata), ungenuino “scambio comunicativo” (avere una chiara spiegazione del senso della deci-sione valutativa ed essere trattati con rispetto e dignità) e una effettiva “influenza deci-sionale” (ad esempio, la possibilità di attivare un’istanza di appello avverso la decisio-ne valutativa).

In sintesi, nell’apprezzamento della prestazione lavorativa le questioni critichesono fondamentalmente due: decidere la valutazione giusta e deciderla nel modo giusto.La prima questione riguarda l’ambito dell’equità sostantiva, la seconda l’ambito dell’e-quità procedurale. Ci si può aspettare che quanto più difficile sia misurare la quantità ela qualità della prestazione lavorativa, tanto maggiori diventino i margini di incertezza

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

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dell’equità sostantiva, e tanto maggiore diventi allora per gli interessati l’importanza del-l’equità procedurale24.

Oltre all’equità organizzativa, c’è un’altra ragione importante che giustifica l’in-troduzione di un sistema di valutazione ed è quella dell’efficienza organizzativa.Valutazioni informali, quali quelle che circolano quotidianamente negli uffici, sonostrettamente legate alle fugaci vicende individuali, e non diventano quindi patrimo-nio conoscitivo comune, utile ad attivare e sostenere processi di apprendimento orga-nizzativo. Un sistema di valutazione contribuisce invece ad arricchire progressiva-mente la base di conoscenza da cui l’organizzazione può attingere gli elementi valuta-tivi necessari per le scelte gestionali, fra le quali, in particolare, quella riguardante ilconferimento degli incarichi (in questo caso si tratta degli elementi valutativi necessa-ri per “mettere la persona giusta al posto giusto” o, per usare un’espressione ingleseancora più sintetica, “to match people and job”, cioè “mettere in corrispondenza lepersone e il lavoro”).

Costruire un sistema di valutazione, significa rispondere a queste cinque domande:• cosa si debba valutare (quali competenze e – oltre alle competenze – quali output del-

l’attività svolta);• chi debba essere valutato (tutte le categorie di personale o solo alcune ovvero solo

alcune e soltanto per alcuni mestieri);• chi debba valutare (il ruolo del dirigente dell’ufficio, lo spazio da attribuire all’autova-

lutazione, il ruolo degli altri attori, le istanze di garanzia);• come si debba valutare (procedura, flusso e cadenza della valutazione, ponderazione

prodotti/competenze, livelli valutativi, determinazione dei punteggi, tipo di differen-ziazione valutativa, vale a dire se ci si debba solo preoccupare di “bloccare i peggiori”o anche di “promuovere i migliori”, soluzione, quest’ultima, tipica dei sistemi volti asostenere strategie efficaci di sviluppo organizzativo);

• perché si debba valutare (effetti della valutazione: selezione, recupero di carenze for-mative, sviluppo professionale e progressione di carriera, incrementi del salario acces-sorio, attribuzione di incarichi).

Una risposta puntuale a tutte queste domande richiede un’appropriata normazionenel quadro del sistema di relazioni sindacali previsto per ciascuna amministrazione pub-blica. Lo snodo tra il modello di competenze e il sistema di valutazione segna perciò il pas-saggio dall’ambito della cultura e dei valori dell’organizzazione a quello della normazionedel rapporto di lavoro. Più e meglio di tante parole, può servire forse la figura seguente a farcomprendere la relazione tra modello di competenze e sistema di valutazione.

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

24 Sulla questione dell’equità organizzativa, analizzata come parte della questione più generale riguardante lamotivazione al lavoro, si possono consultare A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico,Bologna, il Mulino, 2001, pp. 115-121, H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizza-tivo, cit., pp. 94-97 e F. Isotta (a cura di), Organizzazione aziendale, Padova, Cedam, 2003, pp. 62-65. L’e-quità procedurale è destinata ad assumere sempre più rilevanza nei processi di valutazione che hanno luo-go nella “economia della conoscenza” (la questione viene approfondita a p. 158 dell’appendice).

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Relazione tra modello di competenze e sistema di valutazione

Una trattazione analitica dei cinque punti del “pentagono di valutazione” rap-

presentato nella figura esula dagli scopi di questo manuale. Ciò che di seguito si farà, è

descrivere – sulla scorta anche dell’esperienza maturata dall’Agenzia delle Entrate – i

problemi di fondo dei sistemi di valutazione e presentare un ventaglio di possibili

soluzioni.

Ma prima di affrontare tale questione, poiché si è detto che la questione del sistema

di valutazione si colloca nella cornice della normazione del rapporto di lavoro, può esse-

re utile, come spunto per riflessioni di carattere comparativo tra le diverse amministra-

zioni, accennare a come il tema della valutazione professionale si inquadri normativa-

mente nello specifico contesto dell’Agenzia delle Entrate.

Sistema di valutazione. Quadro normativo dell’Agenzia delle Entrate

L’art. 18 del regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle Entrate è intito-lato “Valutazione del personale” e stabilisce quanto segue:1. L’Agenzia adotta adeguate metodologie per la valutazione periodica delle pre-stazioni, delle conoscenze professionali e delle capacità dei dipendenti, al fine digovernare, in coerenza con i contratti collettivi, lo sviluppo delle competenze, gliincentivi economici, le progressioni di carriera e gli interventi formativi.

Sistema di valutazione

Modello dicompetenze

Ambito dellacultura e dei valoridell’organizzazione

Insiemestrutturato delle

competenzerichieste

dall’organizzazione

Competenzeche

l’organizzazionee

le OO.SS.concordanodi valutare

Prodotti

Effetti• Selezione• Formazione• Sviluppo• Retribuzione accessoria• Progressione di carriera• Affidamento incarichi

Ambito della normazionedei rapporti di lavoro

Chivalutare

Soggetti valutabili• Tutte le categorie di personale

• oppure determinate categorie

• oppure alcune categorie per determinati mestieri

Valutatori• Ruolo dell’autovalutazione

• Ruolo del dirigente dell’ufficio

• Ruolo degli altri attori

• Istanze di garanzia

Procedura• Determinazione punteggi• Ponderazione prodotti/competenze• Peso singole competenze• Livelli valutativi• Tipo di differenziazione valutata• Flusso e cadenza della valutazione

Chivaluta

Perchési valuta

Comesi valuta

Cosasi valuta

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

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Nei fatti, è chiaro che l’estensione dell’ambito applicativo di un sistema di valutazioneè legata – ancor prima che a prescrizioni formali – alla capacità del sistema stesso di corri-spondere concretamente ai principi cui si ispira. Nei tirocini per l’assunzione di nuovo per-sonale e nei contratti di formazione e lavoro, l’Agenzia sta sperimentando, con revisioni eaffinamenti progressivi suggeriti dall’esperienza, metodologie di valutazione della presta-zione di lavoro, in modo da testarne la validità e l’affidabilità prima di passare – nel quadrodel sistema di relazioni sindacali – alla loro applicazione al personale già in servizio.

2. Le criticità della valutazione: oggettività e veridicità

Quando qualcuno ci dice: “quell’impiegato è bravo”, le domande da porre sono due,ben distinte fra loro. La prima è se quel tale impiegato sia veramente bravo. La seconda –preliminare, dal punto di vista logico, alla prima – è cosa voglia intendere il nostro interlo-cutore quando dice: “bravo”. La prima questione riguarda la veridicità o, come si potrebbeanche dire, la giustezza delle valutazioni, mentre la seconda riguarda l’oggettività del siste-ma di valutazione, cioè dei criteri in base ai quali esprimiamo le nostre valutazioni. Quin-di, almeno in questo contesto, i sostantivi “veridicità” e “oggettività” e gli aggettivi “vero”ed “oggettivo” non sono interscambiabili. L’affermazione “Quell’impiegato è bravo” puòessere sicuramente vera, ma è altrettanto indubbio che è soggettiva, poiché, a seconda delsoggetto che valuta, la parola “bravo” può significare cose assai diverse. In qualche modo,sarebbe come se, per misurare gli oggetti, ci servissimo di un metro che – invece di esserestabile come il campione di barra metallica conservato a Parigi25 – variasse di lunghezza a

2. A tale scopo sono individuati, nel rispetto del sistema di relazioni sindacali,metodi e tecniche di valutazione che garantiscano il massimo di efficienza, tra-sparenza ed oggettività.Il regolamento di amministrazione dell’Agenzia ha formato oggetto di concerta-zione sindacale, ma le norme dell’art. 18 vanno raccordate con il successivoCCNL delle Agenzie fiscali (2001-2005), sottoscritto a maggio del 2004, che pre-vede espressamente l’utilizzo di metodologie di valutazione dell’attività di lavo-ro per l’erogazione del trattamento accessorio incentivante e per l’affidamento diincarichi di elevata professionalità (posizioni organizzative e professionali). Ilnuovo CCNL non prevede invece tale valutazione per i passaggi all’interno dellearee, anche se stabilisce che i tre criteri espressamente enunciati nel CCNL pertali passaggi (esperienza professionale, titoli e formazione) siano “integrabili” insede di contrattazione integrativa.

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

25 A scuola abbiamo tutti appreso che il metro standard fu all’inizio definito pari alla distanza fra due intac-cature su una barra di platino e iridio resistente alla ruggine tenuta in una camera blindata con aria condi-

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seconda della temperatura della mano che lo utilizza. Chidirebbe che un metro del genere è “oggettivo”? Se lo fos-se, dovremmo allora concludere che possono costituireuna misura oggettiva dello scorrere del tempo anche ifamosi “orologi molli” di Salvator Dalí, raffigurati nelquadro “La persistenza della memoria”.

In altri termini, quando parliamo di “oggettività”di giudizio ci riferiamo ai criteri di valutazione (i criteriche definiscono le caratteristiche che intendiamo valutare ossia che stabiliscono in cosaconsista precisamente la “bravura” professionale). Quando invece parliamo di “veridici-tà” ci riferiamo alla valutazione concreta (se una persona abbia o no effettivamente, e inche grado, le caratteristiche specificate dai criteri concordati).

Ma quand’è che i criteri di valutazione possono dirsi “oggettivi”? Quando hannodue requisiti: validità (o “pertinenza” o anche “appropriatezza”, per usare altre due paro-le che in questo contesto sono sinonime della prima) e affidabilità (in questo caso, i sino-nimi generalmente usati sono “attendibilità” o “univocità”).

Un criterio di valutazione professionale è valido se consente di verificare (sipotrebbe anche dire “intercettare”) le conoscenze e le capacità ritenute pertinenti per lamigliore funzionalità e lo sviluppo di un’organizzazione (“oggettivo” qui significa “perti-nente all’oggetto” da valutare). Il modello delle competenze individuate e descritte inquesto manuale si può quindi dire valido se “mappa” realmente le qualità professionaliche servono per far funzionare bene gli uffici. Per citare un altro esempio riferito, questavolta al mondo della scuola, se si intendesse saggiare le conoscenze di geografia di unostudente, non sarebbe un criterio di valutazione valido quello di somministrargli un que-stionario contenente domande di storia.

Un criterio di valutazione è invece affidabile se definisce in maniera sufficiente-mente univoca come va valutato l’oggetto (la “bravura” professionale), sicché nessunodei soggetti che deve utilizzare quel criterio può interpretarlo “a modo suo”. In questocaso criterio “oggettivo” significa non-soggettivo (cioè criterio non dipendente dallaparticolarità individuale dei singoli) o – per dirla in termini positivi anziché negativi –inter-soggettivo (cioè criterio sulla cui comprensione e applicazione tutti gli interessaticoncordano26). Per riprendere l’esempio riferito al mondo della scuola, un criteriovalido di valutazione delle conoscenze di geografia di uno studente potrebbe esserequello di presentargli una cartina muta dell’Italia e di chiedergli di segnare dove si tro-vi questa o quella città27. Il criterio, però, sarebbe affidabile solo se in quella cartina le

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

zionata nel laboratorio di Pesi e Misure a Sèvres, presso Parigi. Per ragioni di precisione, dal 1960 la con-venzione è mutata e il metro è stato fissato in misura pari a una determinata lunghezza dello spazio percor-so dalla luce in un certo intervallo di tempo.

26 L’aspetto dell’intersoggettività è reso molto bene dal termine inglese solitamente usato nella letteratura perdesignare l’oggettività di una ricerca: “interrater reliability”, “affidabilità connessa alla concordanza fra ivalutatori” (i rater sono coloro che fanno il rating, cioè i valutatori, e reliability significa “affidabilità”).

27 L’esempio è ripreso da B. Vertecchi, M. La Torre, E. Nardi, Valutazione analogica e istruzione individualiz-zata, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 76.

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città cui si riferiscono le domande fossero contrassegnate da cerchietti vuoti, poichéaltrimenti, senza questi punti di riferimento univoci, un valutatore di “manica larga”potrebbe ritenere esatta la risposta che invece un valutatore di “manica stretta” giudi-cherebbe non corretta.

In estrema sintesi, l’oggettività riguarda il come si valuta, cioè il passaggio da vaghiapprezzamenti intuitivi d’insieme, di natura prettamente soggettiva (ad es. “Tizio è bra-vo”), ad articolati criteri di giudizio condivisi nel loro significato (“bravo” significa ecce-tera, eccetera) e pertinenti alla realtà da valutare. La veridicità riguarda invece il che cosasi valuta (una volta che ci accordiamo sul fatto che “bravo” vuol dire esattamente questoe quello, si tratta di stabilire se Tizio sia effettivamente bravo nel senso che abbiamo con-venuto). La differenza fra queste due dimensioni risalta con chiarezza nella diversità del-le controversie cui, rispettivamente, possono dare luogo. Per intenderci, una cosa sono lequestioni relative al criterio di misurazione (questo è l’ambito dell’oggettività) e un’altrale questioni relative alla misurazione ottenuta applicando quel criterio (questo è l’ambitodella veridicità). Possiamo essere tutti d’accordo sull’adozione di un determinato criteriodi misurazione di un certo fenomeno (ad esempio lo scorrere del tempo, che conveniamodi misurare con uno orologio) e controvertere tuttavia sull’esattezza della singola misura-zione. È possibile, ad esempio, che qualcuno dica che il treno Roma-Milano è partito alle10,20, mentre un altro dica che è partito alle 10,35. In questo caso, si controverte sullaveridicità della misurazione e non certo sull’oggettività del criterio di misurazione (nes-suno mette in dubbio che l’orologio sia un criterio univoco di misurazione del tempo).Allo stesso modo, possiamo essere d’accordo sul criterio di classificazione (cosa inten-diamo esattamente con la parola “bravo”) e poi trovarci invece in disaccordo sulla classi-ficazione concreta (se quell’impiegato sia bravo o no nel senso convenuto28).

Ecco uno specchietto che riassume i concetti appena esposti:

ValiditàOggettività Veridicitàå criteri di valutazione

Öå valutazione

Affidabilità}

Per evidenti ragioni logiche, affronteremo prima la questione della oggettività delsistema di valutazione per passare poi a quella della veridicità delle valutazioni.

3. L’oggettività del sistema di valutazione

Quali sono le obiezioni più ricorrenti alla costruzione di un sistema di valutazioneoggettivo? La prima è che cercare l’oggettività sarebbe quasi come inseguire una chimera.

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USO DI UN MODELLO DI COMPETENZE

28 Come può sorgere una divergenza di questo tipo? Generalmente il contrasto scaturisce dalla diversità diinformazioni sul comportamento del valutato.

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La seconda è che l’oggettività sarebbe tutto sommato inutile (puntarvi significherebbesolo sprecare tempo e denaro nella messa a punto di sofisticate quanto superflue “mac-chine valutative”). Iniziamo dall’esame di quest’ultima obiezione.

3.1 Perché non bastano le valutazioni “a fiuto”

“Descrivi l’aroma del caffè”. Con questo curioso esercizio, proposto con l’ingan-nevole semplicità di cui era maestro, Ludwig Wittgenstein29, uno dei più celebri pen-satori del ’900, offre lo spunto per affrontare l’ambivalenza di fondo tipica dell’espe-rienza valutativa: da un lato, la sua apparente evidenza (cosa c’è di più facilmenteriscontrabile, in qualunque ambiente di lavoro, della condivisione di giudizi come “èbravo”, “è in gamba”, “è un tipo affidabile”, “ci sa fare” oppure “è un gran rompiscato-le”, “meglio perderlo che trovarlo”, “è un peso morto”, e così via?) e, dall’altro, la diffi-coltà di dare una compiuta e univoca definizione di tali giudizi, passando da asserzio-ni ellittiche più o meno vaghe e impressionistiche a enunciati ben strutturati. Allostesso modo, tutti noi siamo in grado di riconoscere immediatamente l’aroma del caffè,e tuttavia non siamo capaci di darne una descrizione anche solo appena adeguata allanatura dell’oggetto (una descrizione, per intenderci, tale da consentire a chi non sacosa sia quell’aroma, di riconoscerlo).

Ma è proprio necessario poi questo passaggio dalla conoscenza intuitiva a quelladiscorsiva, se la prima funziona così bene? Secondo l’opinione comune tutti sanno, inuna organizzazione, chi è bravo e chi non lo è, e perché quindi introdurre un sistema for-male di valutazione, che costa tempo e denaro? In effetti, così come in una comunità dipersone dove si è abituati fin da piccoli a gustare il caffè, non c’è reale possibilità di di-saccordo sull’identificazione del profumo di quella bevanda, analogamente nelle orga-nizzazioni si registra in genere un largo consenso (espresso non di rado in forma “colori-ta”) sui giudizi intorno alle caratteristiche positive o negative di questa o quella persona(tanto più se è un “capo”). Si potrebbe allora concludere che così come non ha sensocostruire una macchina per il riconoscimento dell’aroma del caffè (sappiamo riconoscer-lo perfettamente da soli e sull’identificazione c’è sempre pieno accordo fra tutti) allostesso modo potrebbe sembrare solo un’inutile perdita di tempo e di denaro porre manoalla costruzione di un sistema valutativo.

Tale conclusione è sbagliata, poiché, se fra la situazione valutativa e quella del rico-noscimento dell’aroma del caffè vi sono le analogie appena evidenziate, vi sono anchedifferenze essenziali: tutti ci intendiamo – praticamente senza possibilità di errore –quando si tratta di riconoscere l’aroma del caffè, mentre questa intesa completa e imme-diata non c’è (o almeno non c’è sempre) nelle valutazioni relative alle qualità umane eprofessionali di una persona. Oppure, quando l’intesa sembra esservi, essa può rivelarsi,scavando più a fondo, solo apparente, perché nasconde diversità, anche notevoli, di pun-ti di vista e di prospettive di giudizio.

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29 Ricerche filosofiche, trad. it. Torino, Einaudi, 1974, § 610.

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Più in dettaglio, le differenze sono queste:1) nella valutazione esistono, almeno potenzialmente, controinteressati e questo richie-

de che la valutazione non solo sia appropriata, ma anche che appaia tale, cioè sorrettada criteri trasparenti. E se questo non accade – in altri termini, se la valutazione nonappare “obiettiva” – si rischia di dare adito a conflitti che possono, alla fine, minare latenuta di un’organizzazione avvelenandone il clima interno;

2) la valutazione anche quando (e talora proprio quando) riscuota consenso nell’ambien-te di lavoro può essere condizionata da stereotipi e pregiudizi comuni e risultarequindi sbagliata. Come a dire che la vox populi non è sempre vox Dei;

3) le valutazioni che circolano a livello informale nell’ambito di una organizzazionemostrano in genere larga coincidenza di giudizi quando si tratta di riconoscere le pun-te di eccellenza o le cadute di mediocrità, ma possono fallire o sono comunque non dirado controverse quando riguardano la fascia intermedia in cui si colloca buona partedella platea dei valutati.

Dunque, nella valutazione occorre passare dal sapere diffuso (e però anche vagonella sua fluidità) al sistema (inteso come architettura rigorosa di conoscenze). Con que-sto passaggio, la conoscenza intuitiva (vale a dire il riconoscimento “a naso” della bravu-ra professionale, analogo alla percezione olfattiva dell’“aroma del caffè”) non viene certoannullata, bensì viene formalizzata e oggettivata, cioè tradotta in asserzioni strutturatedal significato chiaro per tutti coloro che appartengono all’organizzazione (l’intuizionerimane insomma fondamentale, ma va sottoposta a verifica, perché – per ripetere la cita-zione di p. 15 – se è vero che la grandezza di un capo sta nella sua capacità di intuizione,è però anche vero che nulla rischia di tradire più dell’intuizione). Il segreto sta nel farentrare in un circolo virtuoso l’intuizione e l’elaborazione analitica: la prima offre allaseconda i contenuti – cioè il materiale di esperienza – su cui riflettere, mentre la secondaverifica criticamente la plausibilità della prima. L’attivazione di questo circolo virtuoso èl’essenza stessa di un sistema di valutazione. Che potremo definire buono quando con-fermerà ciò che tutti intuitivamente sanno, e ottimo quando smentirà ciò che tutti intuiti-vamente credevano di sapere.

3.2 L’oggettività dei criteri di valutazione

“Quella porta è alta 3 metri”, “quel vaso pesa 2 chili”. Sono affermazioni cui ognu-no di noi è disposto ad attribuire subito il carattere della oggettività, ma questo non signi-fica necessariamente che si tratti di affermazioni vere, perché sono sempre possibili, epersino non infrequenti, errori di misurazione. Sebbene “oggettività” e “verità” sianonozioni correlate, esse concettualmente non coincidono, come abbiamo detto nel para-grafo precedente. Un’affermazione si definisce oggettiva non necessariamente quando èvera, ma quando si può controllare se sia vera. Se dico che una certa persona era ieri inufficio, l’affermazione può rivelarsi falsa, ma è nondimeno sicuramente oggettiva, perchéè possibile controllarne la veridicità da parte di tutti coloro che dispongono delle infor-mazioni e delle conoscenze necessarie per effettuare tale controllo. La nozione di oggetti-

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vità è apparentata quindi a quella di possibilità di controllo intersoggettivo e per questomotivo si può anche affermare che essa si risolve, tout court, nella nozione di intersog-gettività30. Detto in altri termini: un criterio di giudizio è oggettivo se qualunque altrapersona, messa al mio posto, finirebbe, applicando quel criterio, con l’esprimere la miastessa valutazione. Sicché, non dipendendo quella mia valutazione dalla mia particolaresoggettività (chiunque altro, al mio posto, si esprimerebbe allo stesso modo), si può a giu-sto titolo sostenere che essa è oggettiva (questo principio di oggettività equivale a quelloche nella scienza galileiana, che è poi la scienza moderna, si chiama il principio di ripro-ducibilità dell’esperimento)31.

Chiarito questo, la domanda da fare è se sia possibile attingere, nel campo dellevalutazioni riguardanti le capacità professionali, lo stesso grado di oggettività che è pos-sibile attingere quando si ha a che fare con lunghezze, pesi e altezze di oggetti. La rispo-sta è in genere: “no”. Perché no? Perché nel campo delle valutazioni relative alle capacitàdelle persone non esiste un metro utilizzabile in modo semplice, univoco e incontrover-tibile come quello che si utilizza per misurare o pesare oggetti fisico-naturali (lo attesta-no, ad esempio, in modo eloquente le divergenze degli storici nelle loro ricostruzionidelle vicende umane).

Quali conseguenze se ne possono ricavare? La più immediata sarebbe quella diabbandonarsi allo sconforto e alla delusione: visto che non è possibile raggiungere nelcampo che qui ci interessa la stessa oggettività delle scienze fisico-naturali, perché nonrassegnarsi alla soggettività sfrenata dei valutatori? Oppure, per evitare che dilaghi l’arbi-trio, perché non espungere dalla realtà delle organizzazioni – o restringervi comunque almassimo – lo spazio della valutazione?

La prima opzione è disastrosa, perché porta ad annientare il senso di ragionevolez-za e di equità indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo di qualsiasi organizzazio-ne. La seconda è puramente illusoria: la valutazione non può non esservi, perché – comeognuno sa – la vita organizzativa è in gran parte scambio di valutazioni. Chiunque di noivaluta in continuazione – più o meno generosamente ricambiato – il collega, il collabora-tore o il superiore. Ed è logico che sia così: come potrebbe mai funzionare una qualsiasi

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30 Se si ha ben chiara quindi la distinzione fra oggettività e veridicità, dovrebbe risultare altrettanto chiaroche l’equivalenza tra oggettività e intersoggettività non comporta in alcun modo l’adesione ad una sorta di“teoria sociale della verità”, secondo la quale sarebbe vero ciò che tutti concordano sia vero. Circa 500 annifa tutti o quasi tutti credevano che fosse il sole a girare attorno alla terra, ma questo consenso pressochéunanime non bastava a qualificare come “vera” quella teoria (come diceva Benedetto Croce, “La folla o ildeserto non aggiungono o tolgono nulla al carattere di verità di un pensiero”). E tuttavia la teoria tolemaicaera sicuramente “oggettiva”, nel senso che esibiva tutta una serie di dati ed argomenti in base ai qualichiunque poteva controllare se essa fosse o no vera. Se qualcuno avesse allora detto: “Ho la sensazione chesia la terra a girare attorno al sole”, avrebbe fatto un’affermazione vera, ma soggettiva, priva cioè di elemen-ti utili a controllarne la fondatezza.

31 È proprio in questo senso che una batteria di quesiti a risposta chiusa riguardanti, ad esempio, nozioni diaritmetica, si definisce prova oggettiva. Qui il termine oggettiva non sta a significare che chi supera quellaprova dimostra con ciò di conoscere veramente l’aritmetica, ma significa invece che chiunque sarà il cor-rettore della prova (purché adeguatamente addestrato) l’esito valutativo sarà sempre lo stesso. L’oggettività,insomma, consiste nella “eliminazione dell’equazione personale del correttore” (A. Visalberghi, Misura-zione e valutazione nel processo educativo, Milano, Edizioni di Comunità, 1955).

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organizzazione se le scelte gestionali (a cominciare da quelle più importanti come l’affi-damento degli incarichi) non si basassero su una valutazione, seppure informale, dellecapacità professionali degli interessati? Insomma, ci si può illudere di “abrogare” le valu-tazioni per eliminare il rischio dell’arbitrio, ma si finisce così solo per renderle “clande-stine” e quindi meno controllabili e potenzialmente ancora più insidiose nella loro even-tuale arbitrarietà.

Come uscire da questa impasse? Aristotele diceva che è proprio della personaesperta richiedere in ciascun genere di ricerca tanta precisione quanta ne permette lanatura dell’argomento32. Non comprendere questo significa cadere – nel nostro ambito diricerca – in quella forma di superstizione chiamata “quantofrenia”, che è in definitiva lapeggiore forma possibile di soggettività, perché spaccia e mistifica (se ne abbia o nocoscienza) come scientificamente oggettivo ciò che appartiene esclusivamente alla sog-gettività dell’osservatore valutante (il termine “quantofrenia” è di Pitirim A. Sorokin,sociologo russo, naturalizzato americano, che fu tra i primi, negli anni ’20 del secoloscorso, a introdurre nella sociologia metodi di analisi quantitativa, avendo però chiaraconsapevolezza delle cautele con cui tali metodi vanno applicati ai fenomeni psico-sociali, pena l’insensatezza delle conclusioni cui si perviene33).

Il senso di queste osservazioni (che andrebbero certo articolate assai più di quan-to non sia possibile in questa sede) è mostrare quanto sia sbagliato e fuorviante, nelcampo di cui ci stiamo occupando, cedere all’alternativa dogmatica del “tutto o nien-te”. Nel nostro caso – ripetiamolo ancora una volta perché serve a fissare un punto chia-ve – chi rimane prigioniero di quell’alternativa ragiona (o sragiona) così: poiché nonpossiamo raggiungere nel campo della valutazione delle capacità professionali la stessaoggettività conseguibile nel mondo fisico-naturale, allora tanto vale arrendersi alla sog-gettività incontrastata del “capo” (opzione questa destinata a distruggere equità e con-divisione nei giudizi valutativi) oppure eliminare in radice la valutazione dell’attivitàdelle persone e delle loro competenze (opzione, questa, che – se non fosse impossibile– sarebbe ugualmente distruttiva poiché azzererebbe il fondamento della razionalitàorganizzativa). Questo “nichilismo della perfezione” – come lo si potrebbe anche chia-mare – sbarra l’accesso a possibili vie mediane, che invece esistono e sono fruttuosa-mente percorribili.

Quali sono queste vie intermedie? In primo luogo, varrebbe forse la pena di riflette-re se, dopo tutto, sia proprio un gran male il fatto che gli uomini non si possano valutarecosì come si misurano o si pesano tavoli, vasi e porte. Infatti, se, per un verso, potrebbesembrare un bel sogno quello di valutare le persone con la stessa semplicità ed univocità

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32 Etica nicomachea, 1094b, 25 e poi anche 1094b, 12 e 1098a, 27.33 Mode ed utopie nella sociologia moderna e scienze collegate, trad. it. Firenze, Editrice Universitaria G.

Barbera, 1965, pp. 109-174. L’epigrafe del capitolo dedicato alla “quantofrenia” è una frase del grande fisi-co austriaco Erwin Schrödinger, premio Nobel, che suona così: “La vita è troppo complicata per essere pie-namente accessibile alla matematica”. Naturalmente, bisogna mettere in conto che in un paese di culturaumanistico-letteraria come l’Italia queste affermazioni, o altre consimili, possano essere strumentalmenteutilizzate per giustificare la retorica irrazionalista. Un approfondimento sull’uso del linguaggio quantitati-vo nelle scienze si trova in appendice a p. 152.

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con cui si misurano gli oggetti, dall’altro, quel sogno potrebbe anche celare l’incubo diun mondo in cui gli uomini stessi sono stati ormai ridotti a oggetti. Ma non è su questacritica radicale (per qualcuno, forse, di sapore un po’ letterario) che si vuole qui insistere.La pratica valutativa impone l’abbandono di ogni radicalismo e l’adesione a un sano spi-rito pragmatico.

Qual è dunque il punto? Il nodo della questione può essere spiegato con un sempli-ce esempio. Supponiamo che si debbano valutare le doti di leadership di un comandantedi unità da combattimento. Se il criterio di giudizio fosse espresso così: “la leadership siesprime nella capacità di guidare gli uomini”, il criterio sarebbe sicuramente soggettivo,poiché costituirebbe un metro privo di sufficiente univocità. Le misurazioni rischiereb-bero di essere significativamente diverse a seconda delle convinzioni dei valutatoririguardo a quella condotta chiamata “guidare uomini”. Quali connotati dovrebbe averetale condotta? È un autentico comandante chi sa piegare con la forza e le minacce i solda-ti alla propria volontà o piuttosto colui che sa esercitare una sapiente opera di convinci-mento riguardo alla giustezza delle proprie scelte? O è l’una e l’altra cosa (e altre ancora)a seconda delle circostanze? In relazione al significato e al valore che attribuiamo allanozione di “guida di uomini”, muterà il nostro giudizio.

Ma se cominciamo a specificare meglio quel concetto, dicendo, ad esempio, che ilcomportamento del vero leader militare è di essere in prima fila davanti ai suoi uominisul campo di battaglia, ecco che si dà avvio alla costruzione di una “metrica” grazie allaquale i margini di interpretazione soggettiva del valutatore si vanno restringendo e il giu-dizio diviene sempre più oggettivo, nel senso che si rende indipendente dal fatto che siaquesto o quel soggetto, con la sua particolare individualità, a pronunciarlo. Così comenoi diciamo che l’affermazione: “quel tavolo è lungo 1,5 metri” è oggettiva, perché sibasa su un metro di giudizio univoco (il che non esclude, come più volte detto, che sipossa poi essere in disaccordo sulla concreta misurazione).

È appunto in questa direzione che si è proceduto nella costruzione del modellodelle competenze del personale dell’Agenzia delle Entrate (vedi al riguardo il paragrafo 4della parte prima).

3.3 La capacità di giudizio degli attori della valutazione

Nell’attività di misurazione ciò che conta non è solo il metro che si utilizza, maanche il modo in cui lo si utilizza. In altre parole, non basta solo preoccuparsi dell’ogget-tività del metro di valutazione, ma occorre anche preoccuparsi – se così si può dire – del-l’oggettività del soggetto utilizzatore del metro. Questo secondo aspetto viene spesso tra-scurato perché l’uso delle unità di misura più ricorrenti è radicato da sempre nella nostra“forma di vita”, e non ci viene più in mente che quell’uso presuppone il possesso di ade-guate conoscenze ed abilità pratiche per maneggiare come si deve quelle unità di misura.Ad esempio, per misurare correttamente la lunghezza di un tavolo, non basta solo dis-porre di un metro, ma occorre, ad esempio, avere anche imparato che la fettuccia che siadopera come metro va utilizzata stendendola bene sul piano, esattamente lungo il bordodel lato che intendiamo misurare.

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Bisogna quindi distinguere tra maggiore o minore complessità delle conoscenze edelle abilità necessarie per maneggiare un metro. Sotto tale profilo vi è grande differenzafra la semplice misurazione della lunghezza di un tavolo e il discernimento delle capaci-tà di una persona.

Nel sentiero stretto che ha come meta quella di arrivare a valutazioni sui comporta-menti organizzativi condivise e aderenti alla realtà si può sicuramente fare molta stradaenucleando indicatori comportamentali sempre più idonei a “disambiguare” le situazio-ni valutative (la parola “disambiguare”, ormai entrata nell’uso, significa eliminare oridurre i margini di ambiguità di una situazione; il termine è sicuramente brutto, ma effi-cace dal punto di vista espressivo)34. E tuttavia non basta solo questo. Tra l’enunciazionedi una regola astratta (qual è pur sempre un indicatore comportamentale) e la sua appli-cazione alla realtà vi è inevitabilmente uno scarto per via dell’impossibilità di racchiude-re in formule esaustive la varietà dei casi reali, e dato che questo scarto non è eliminabilecercando di rendere sempre più minuziosa la regola di giudizio35, la soluzione non puòstare soltanto nell’affinare la regola di giudizio, ma occorre anche affinare la mente dicoloro che applicano la regola (sia valutati che valutatori), cioè affinare quella che soli-tamente si chiama la “capacità di giudizio”.

Questa capacità si coltiva sia con la riflessione autonoma che con la riflessioneguidata su casi esemplari di applicazione di regole valutative. In altre parole, occorreeducarsi a riflettere insieme – specie con riferimento a situazioni emblematiche – suigiudizi positivi o negativi che formuliamo di continuo su situazioni e persone, abituan-dosi ad esplicitarne meglio il senso e a ponderarne la plausibilità. Un po’ come nellacomunità dei sommelier, dove la grande concordia di giudizi che si riscontra nella valu-tazione della qualità dei vini degustati dipende dal fatto che l’analisi delle caratteristi-che organolettiche si ispira a canoni cui dà forma concreta e omogeneità applicativa illungo e paziente apprendistato collettivo cui i sommelier si sottopongono per affinare ilproprio gusto.

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34 Questo percorso di progressivo scioglimento dell’ambiguità dei criteri di misurazione si ritrova, del resto,anche nel campo delle scienze naturali, dove non è vero che le misurazioni sono tutte assolutamente uni-voche, come mostrano le controversie non infrequenti nella comunità scientifica. La scala Mercalli non ha,per le sue caratteristiche empiriche, la stessa oggettività del sistema metrico decimale, ma non di meno ègeneralmente accettata nel mondo scientifico, perché quel che conta alla fine è se il criterio di misurazioneimpiegato sia o no utile per gli scopi che si perseguono. In altri termini, l’oggettività assoluta è un non sen-so come l’esattezza assoluta. Per citare ancora Wittgenstein: “Ciò che è inesatto non raggiunge il suo scopocosì perfettamente come ciò che è più esatto. Dunque tutto dipende da che cosa chiamiamo ‘lo scopo’. Èinesatto non dare la distanza dal sole fino al metro? E non dare al falegname la larghezza del tavolo fino almillesimo di millimetro?” (Ricerche filosofiche, cit., § 88). Ritornando all’esempio della graduazione del-l’intensità sismica, fu a suo tempo proposta, in alternativa alla scala Mercalli e alle sue connotazioni empi-riche, una scala che si presentava come più “oggettiva” poggiando sul valore dell’accelerazione massimache l’urto sismico imprime allo strato terrestre. Venne però osservato che il valore dell’accelerazione mas-sima è, nella pratica, di difficile ricerca, sicché le descrizioni empirico-qualitative di Mercalli (che differi-scono quindi da quelle “quantitative”, tipiche delle scienze naturali, espresse in valori numerici) rimango-no ancor oggi, specie ai gradi più elevati della sua scala, quelle più pratiche e funzionali ai fini della misu-razione dei fenomeni sismici.

35 Le ragioni di questa affermazione sono spiegate in appendice a p. 159.

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Quali ostacoli si incontrano nel corso di questo processo di apprendimento? Inaltri termini: cos’è che solitamente può fare velo alla capacità di giudizio?

La psicologia del lavoro dedica ampio spazio a questa tematica. Particolare atten-zione va prestata agli errori di giudizio (nella letteratura si ritrovano, ad esempio, il filtrodella “prima impressione”, l’effetto alone, le proiezioni, le associazioni da “personalitàimplicita”, gli stereotipi) e ai cosiddetti “errori di attribuzione causale”, quali le distor-sioni determinate dalla chiusura nel self-serving (tendenza a percepirsi comunque inmaniera favorevole, attribuendo generalmente a se stessi il merito del successo e a fattoriesterni, invece, la causa dell’insuccesso) cui corrisponde una resistenza, più o meno for-te, all’apertura verso un genuino feedback da parte degli altri (siano essi capi, colleghi,collaboratori o utenti dell’ufficio)36.

Il colloquio di valutazione, se da un lato può servire a correggere tali errori, dal-l’altro è la sede tipica in cui questi errori si manifestano. Appropriati interventi formati-vi riguardo alla dinamica e alla conduzione dei colloqui in contesti organizzativi posso-no perciò rivelarsi molto utili per migliorare la capacità di giudizio degli attori dellavalutazione.

4. La veridicità delle valutazioni

Abbiamo finora parlato dei punti critici relativi all’oggettività del sistema di valu-tazione. Dobbiamo ora affrontare l’altra criticità, ossia quella della “giustezza” o “veridi-cità” delle valutazioni.

La domanda che bisogna a questo punto porsi è la seguente: quali sono le causeche possono compromettere o, comunque, limitare la veridicità di una valutazione? Laprima è la carenza o la non accuratezza delle informazioni che supportano la valutazio-ne. In questo caso si sbaglia a valutare per errore dovuto a informazioni difettose o ina-deguate. La seconda causa è la presenza di interessi che, seppure comprensibili sotto ilprofilo psicologico e gestionale, spingono sia il valutatore che i valutati ad esprimerevalutazioni non rispondenti alla realtà (il caso tipico è quello di valutazioni “gonfia-te”37). In questo caso, si sbaglia a valutare per interesse (cioè perché non conviene esse-re sinceri).

La prima causa è assai importante, ma, dal punto di vista concettuale, non richiedeuna analisi molto diffusa. Le cose da fare sono fondamentalmente due:

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36 Molto utile può essere in proposito la lettura della sintetica panoramica delineata nel capitolo “Atteggia-menti, percezioni e giudizio” contenuto in H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento orga-nizzativo, cit., pp. 26-49.

37 L’esperienza dimostra che il rischio di valutazioni discriminatorie (cioè di valutazioni che selezionino ini-quamente) è in gran parte un falso problema. Il rischio vero è quello di valutazioni appiattite tutte versol’alto, poiché il dirigente, da un lato, ha un interesse forte a non “inimicarsi” i suoi collaboratori ed anzi asvolgere nei loro confronti una sorta di azione di patronage, e, dall’altro – per sottrarsi alla fatica di gestireconflitti e di motivare bene le proprie decisioni – tende a non assumersi la responsabilità di distinguere frachi lavora bene e chi no.

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a) poiché per valutare occorre anzitutto conoscere, bisogna costruire la procedura divalutazione dando un ruolo adeguato a chi può avere conoscenza diretta delle compe-tenze degli interessati;

b) occorre sviluppare un sistema informativo di raccolta e selezione delle informazioniutili per il processo valutativo.

Un esame assai più ampio richiede invece la trattazione dell’altra causa. Preli-minarmente, si può affermare che l’efficacia di un sistema di valutazione non dipen-de dalla formulazione di generici appelli alle “buone intenzioni” degli attori delsistema, ma dalla coerenza dei suoi congegni rispetto agli scopi da raggiungere e dal-la loro praticabilità. In parole povere, il segreto è cercare di far lavorare, per così dire,l’egoismo dei singoli per fini sociali, suscitando, negli stessi attori, interessi contraria quelli da cui essi, per altro verso, sono mossi e che contrastano con i fini voluti dal-l’organizzazione.

Si tratta ora di analizzare quali siano gli interessi che tendono a pregiudicare laveridicità dei risultati del sistema di valutazione. Questi interessi si ritrovano proprio neiprotagonisti del sistema di valutazione, e cioè sia nei valutatori che nei valutati. Cerche-remo anzitutto di individuarne la natura e la dinamica e di prospettare possibili soluzio-ni che valgano a controbilanciare gli interessi in gioco e a modificare i “meccanismi diconvenienza” degli attori del sistema.

4.1 La situazione del valutatore

La valutazione “organizzativa” (quella cioè cui si assiste all’interno delle organiz-zazioni) presenta una sua tipica peculiarità: nella figura del valutatore viene a sommarsi,al ruolo del capo, un altro ruolo che gli è potenzialmente antagonista, quello del giudice.L’antagonismo sta nel fatto che mentre in un processo colui che è soggetto a valutazione(l’imputato) non ricopre il ruolo di assistente del giudice, in un’organizzazione i valutatisono coloro senza la cui collaborazione il capo nulla, o quasi nulla, può fare.

E se il raffronto con la valutazione giudiziaria può apparire improprio, perché ilgiudice non valuta competenze professionali, la questione appena prospettata non cam-bia, nei suoi termini essenziali, se si fa il confronto con un’altra situazione valutativa checi è assai familiare e che presenta evidenti analogie con quella che ha come teatro il postodi lavoro. Ci riferiamo alla valutazione scolastica, nella quale si tratta anche lì, come nel-la valutazione on the job, di apprezzare capacità e attitudini. Ebbene, se si può affermare,seppure con qualche forzatura, che un insegnante, per fare il suo mestiere, non ha biso-gno dei suoi allievi, godendo così, sotto questo aspetto, di ampia libertà per quantoriguarda la valutazione dei suoi studenti, molto diversa è invece la situazione del capo,che riesce a fare ben poco se non può contare sul sostegno delle persone che gli sono affi-date (c’è perfino chi dice, probabilmente non a torto, che il capo in qualche misura vieneformato dai suoi collaboratori).

Cosa comporta questa differenza? La valutazione, soprattutto quando è negativa,ma non solo in quel caso (anche chi è stato valutato positivamente tende a dolersi di

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essere stato eventualmente valutato meno bene del collega) rischia di peggiorare le rela-zioni di lavoro fra il capo e i propri collaboratori. Questo spiega perché i dirigenti, se daun lato si lamentano spesso di avere scarso potere di valutazione, quando poi ne vieneloro concesso un po’, si guardano bene dall’utilizzarlo (come capitava nei vecchi rap-porti informativi, ove il 105 – che era il punteggio più alto – non si negava pressoché anessuno), e ripiegano sulle valutazioni indifferenziate (potremmo dire “a pioggia”), perevitare appunto di creare conflitti difficili da gestire. Si può deprecare quanto si vuolequesto stato di cose e trarne magari motivo di rimprovero per i dirigenti che danno cosìscarsa prova di coraggio e di fermezza, ma è un fatto che anche nel mondo delle aziendei capi, per le ragioni relazionali appena evidenziate, tendono in genere a dare valutazio-ni generose, ed essendo quindi quasi tutti i dipendenti giudicati ottimi, prima o poi tut-ti ottengono la promozione con la conseguenza che la vera discriminante diviene allafine l’anzianità.

Il problema è allora questo: come esercitare in modo rigoroso il proprio ruolo divalutatore con il minimo possibile di “danni collaterali”, cioè di conflitti.

In termini di principio, la soluzione è chiara: il traguardo della valutazione – tra-guardo non sempre facile a raggiungersi, ma neppure inattingibile se c’è un impegnoautentico, senza riserve mentali, ad un serio esercizio di reciproco ascolto – è la condi-visione dei giudizi, cioè la convergenza progressiva fra autovalutazione ed eterovaluta-zione, vale a dire la sintonia fra come io – lavoratore – valuto me stesso e come l’altro –il capo – valuta me. In una organizzazione ideale, l’autovalutazione di tutti i valutaticoincide con l’eterovalutazione dei rispettivi valutatori e questa coincidenza non è col-lusiva o opportunistica (cioè non risponde a una logica di scambio di favori) ma è fon-data sulla verità delle cose. In altri termini, il conflitto non sorge necessariamente quan-do la valutazione è negativa (può insorgere anche, come tutti sanno, quando essa è posi-tiva ma non nella misura che l’interessato ritiene giusta), ma sorge quando la valutazio-ne viene percepita come ingiusta in quanto non suffragata dai fatti. A scuola un bruttovoto non suscitava sentimenti di rivolta quando si capiva che era giusto (e anzi il fattodi percepire che era meritato finiva per rafforzare l’immagine di serietà e competenzadell’insegnante).

Non esiste però solo la criticità rappresentata dal divario o peggio dal conflitto fraauto ed eterovalutazione, tra il “valutarsi” e il “farsi valutare”. Oltre a questa c’è pure lacriticità del potenziale conflitto fra più eterovalutazioni. In altre parole, anche laddoveauto ed eterovalutazione coincidano o tendano a coincidere, il valutatore può venirsi atrovare nel dilemma se la propria valutazione, pur condivisa dal valutato, non possaingiustamente penalizzare quest’ultimo, nel caso in cui comportamenti analoghi a quellimessi in atto dal valutato vengano apprezzati diversamente da un altro valutatore (l’ipo-tesi classica è che vengano apprezzati più benignamente). È anche questa una vicendache l’esperienza scolastica ci ha reso subito familiare. Chiunque di noi ricorderà forse diaver fatto almeno una volta al proprio insegnante un discorso del genere: “Riconosco cheil brutto voto che lei mi dato al compito in classe è giusto, perché rispecchia sicuramentela qualità modesta della mia prova. Ma tenga presente che un mio amico nella classeaccanto ha preso dal suo insegnante, per un elaborato di qualità analoga, un voto assai

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superiore al mio”. Ciò che rimproveravamo al nostro insegnante era un tipico caso divalutazione “giusta”, ma non “equa”. Dov’è la differenza fra questi due termini, che sem-brano essere semplicemente sinonimi? Così come “risposta giusta” significa “rispostaesatta” (in questa accezione, la parola “giusto” ha scarsa o nessuna parentela con “giusti-zia” o “equità” ed è apparentata invece a “giustezza”), allo stesso modo una “valutazionegiusta” è una valutazione “esatta”, “veritiera”, cioè che “corrisponde alla realtà” (ed è lostesso interessato a riconoscerlo, dopo aver visto la correzione della sua prestazione). Nelcaso appena citato, la valutazione, seppure “giusta”, non è però “equa”, perché non cor-risponde a quella attribuita ad altri per analoga prestazione.

In una situazione del genere – che assomiglia a quella descritta nel famoso “dilem-ma del prigioniero” (illustrato in appendice a p. 160) – l’effetto finale è che i valutatori,non potendo fare affidamento – o non essendo sicuri di poter fare affidamento – sulla“capacità di tenuta” dei colleghi rispetto alle spinte che portano a “far lievitare” le valu-tazioni, vanno tutti ad attestarsi su giudizi ampiamente favorevoli. E si riproduce così –nel conflitto reale o atteso fra eterovalutazioni (le valutazioni dei diversi capi) – quellostesso appiattimento generale sui livelli massimi della valutazione, che – come abbiamovisto – è anche l’esito ricorrente del conflitto fra auto ed eterovalutazione.

Un rimedio cui solitamente si fa ricorso, ma che si rivela per lo più poco produt-tivo, è quello dell’appello generico alla responsabilità dei valutatori, sollecitandoli,magari anche con reprimende, ad esprimere giudizi più aderenti alla realtà. È unasoluzione moralistica (l’appello alle “buone intenzioni”) che ben difficilmente sorti-sce effetto.

Esistono accorgimenti più efficaci per modificare la “dinamica di interessi” deivalutatori, in modo da attenuarne, se non proprio eliminarne, l’incidenza negativa sullaveracità delle valutazioni? Ne possiamo immaginare almeno cinque, diretti a funzionarecome contrappesi rispetto alla dinamica appena descritta. In sostanza, si tratta di attivarenel valutatore interessi di forza tale da neutralizzare (o almeno bilanciare) la sua tenden-za a formulare giudizi prevalentemente appiattiti sui livelli massimi.

Collegare il sistema di valutazione del personalea quello di assegnazione degli obiettivi al dirigente

Che significa collegare il sistema di valutazione delle prestazioni con quello dipianificazione del lavoro e di controllo di gestione? In pratica, l’idea è che la pro-grammazione degli obiettivi non deve tener conto solo della ripartizione delle risorseumane per qualifica giuridica di inquadramento (come avviene oggi), ma anche dellaqualità professionale delle risorse quale emerge dal sistema di valutazione. In questomodo, l’eventuale propensione del dirigente a formulare valutazioni troppo sbilancia-te verso l’alto troverebbe un limite nella consapevolezza che così facendo egli rischie-rebbe di vedersi assegnati obiettivi troppo superiori alle forze reali del proprio ufficio,e di trovarsi inoltre escluso dall’assegnazione di nuovo personale, avendo egli attesta-to, con i suoi stessi giudizi, la condizione fortunata di essere circondato da collabora-tori tutti ottimi.

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Collegare il sistema di valutazione del personaleal sistema di valutazione dei dirigenti

Contrariamente a quanto talora si crede, e come invece si legge spesso in letteratu-ra38, valutare le prestazioni dei collaboratori è fra le cose che i manager meno amano. Enon contribuirebbe probabilmente ad accrescere questo amore, l’introduzione del princi-pio secondo cui il dirigente che valuta i suoi collaboratori deve, a sua volta, essere valu-tato per come dimostra di saperli valutare. Nondimeno il principio è giusto e sarebbesbagliato vedervi una forma di condizionamento psicologico del dirigente, tale da poter-lo indurre a valutazioni volte comunque ad accontentare tutti (perché se tutti sono con-tenti, nessuno ricorre e manca allora l’occasione per sindacare le scelte valutative deldirigente). Ciò che si chiede a un dirigente – e che fa parte del contenuto della suaresponsabilità – non è evitare valutazioni potenzialmente conflittuali, ma esprimerevalutazioni giuste, il che significa, da un lato, riconoscere e apprezzare il lavoro ben fattoe, dall’altro aiutare gli interessati – con rispetto e senza ledere la dignità di nessuno – acapire cosa è bene migliorare (non si fa autentica azione di sviluppo, se, essendo obietti-vamente diverse le capacità, e diversi i meriti e l’impegno delle persone, tutti sono peròritenuti ugualmente bravi).

È evidente il peso del lavoro di valutazione, se ci si impegna a farlo seriamente(ma anche per questo – e anzi particolarmente per questo – si viene retribuiti). Anzitut-to, occorre dedicare tempo e attenzione alla raccoltae al trattamento delle informazioni, in modo da per-venire a valutazioni ben motivate o comunque benmotivabili. La conoscenza dei fatti richiede poi auto-riflessione, perché è soggetta agli errori di osserva-zione cui si accennato a p. 44 ed è influenzata dauna istanza quasi naturale di attenzione selettiva chespinge il supervisore a notare soprattutto ciò che va male nel lavoro che osserva e a nonsoffermarsi invece ciò su che va bene, trascurando così di darne riconoscimento e meri-to agli interessati (con effetti demotivanti di non lieve momento). Occorre infine spiega-re bene agli interessati perché si ritenga di dover adottare una certa decisione valutativapiuttosto che un’altra e occorre prendersi tutto il tempo che serve per queste spiegazio-ni. È tempo comunque speso bene, perché può evitare incomprensioni e rancori erisparmiare onerosi strascichi di contenzioso. Per quanto la retorica possa finire per fal-sare tutto, resta comunque vero che le persone sono la risorsa organizzativa più prezio-sa, e fra le condizioni essenziali di motivazione e valorizzazione di questa risorsa c’è lacapacità di dare un adeguato feedback (sul tema cruciale del feedback vedi più diffusa-mente p. 53). Valutazioni “d’istinto” non sono difendibili e non possono quindi essereaccettate. Non le accetterebbe per sé il valutatore, quando è egli stesso a dover esserevalutato, né può egli pensare – per un elementare principio di reciprocità – che possanoaccettarle le persone di cui ha la responsabilità di valutare l’operato. L’ausilio del siste-

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38 Ad esempio, H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo, cit., p. 336.

Promemoria per il valutatore

Valutare bene implica la fatica di spie-gare, spiegare e spiegare. Accettare disottoporsi a questa fatica non è un attodi generosità, ma un atto dovuto: il diri-gente è pagato anche per questo.

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ma di valutazione è anzitutto nel richiamo all’obbligo di obiettivare con dati e citazionedi episodi significativi i propri giudizi, andando al di là delle semplici, e non di radofallaci, impressioni.

Per agevolare il compito della valutazione, si possono seguire alcuni accorgimentiutili a mantenere le decisioni valutative su un piano di realismo. Indicazioni di questo tipovengono definite eurismi negli studi di organizzazione che riprendono costrutti dellescienze cognitive: l’eurisma è una regola cognitiva che può facilitare la soluzione di proble-mi complessi, qual è, per l’appunto, quello della valutazione di prestazioni professionalinon riducibili a schemi di azione semplici e routinari. Nel nostro caso, un’indicazione euri-stica (ovvero un “eurisma”) di buon senso, potrebbe essere questa: “In assenza di elementinegativi di giudizio o di elementi di giudizio particolarmente positivi, si può senz’altrovalutare la prestazione della persona come ‘adeguata’ al ruolo ricoperto”. Questa regolarisponde a considerazioni di buon senso e semplifica non poco il lavoro di valutazione.

La statistica come bussola di serietà

Se i parametri di giudizio sono vaghi e generici, il vincolo della cosiddetta “curvanormale” o “gaussiana” di distribuzione statistica dei dati, può servire ad evitare slitta-menti generalizzati verso l’alto dei giudizi oppure difformità di valutazione ingiustificatetra i diversi valutatori (in pratica, tale criterio viene in genere applicato, prevedendo, adesempio, che le prestazioni eccellenti o anche quelle significativamente superiori allamedia non possano superare una quota dell’x% del totale delle persone da valutare). Unmodello di competenze ha però anche lo scopo di oggettivare quanto più possibile i crite-ri di valutazione, sicché il vincolo rigido della gaussiana può in questo caso determinaredistorsioni valutative, precludendo forzatamente l’inserimento nelle fasce di giudiziosuperiori di persone che magari lo meriterebbero in base ai criteri prestabiliti. Adoperatotuttavia come bussola, il riferimento alla gaussiana può rivelarsi assai utile per segnalarel’eventualità di atteggiamenti lassisti o, viceversa, indebitamente severi nei giudizi. Sulvalutatore ricadrebbe l’onere di motivare le valutazioni che lo hanno condotto a una di-stribuzione di giudizi sensibilmente difforme dalla curva normale39.

Pubblicità delle valutazioni

Qualunque capo tiene ad essere riconosciuto come valutatore serio. Questa motiva-zione verrebbe ad essere rafforzata se si prevedesse la possibilità di rendere pubblica informa aggregata, a livello di ogni ufficio, la distribuzione delle valutazioni per le diversefasce di giudizio.

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39 La curva normale assomiglia graficamente a una campana (vedi appendice, p. 164). Un modello di curvapiù rispondente alla specifica realtà dell’Agenzia delle Entrate potrebbe essere costruito effettuando perio-dicamente (a titolo indicativo ogni tre anni) valutazioni a controllo incrociato particolarmente accurate erigorose (prevedendo, ad esempio, assessment da parte di esperti esterni e anche valutazioni a 360°) su uncampione significativo di uffici. Sulla base di tali valutazioni si costruirebbe, per il periodo di riferimento,la curva di distribuzione “normale” delle valutazioni all’interno dell’Agenzia.

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Bonus di selettività valutativa

Ciò che può indurre il valutatore ad allentare lo standard di serietà delle sue valu-tazioni è la comprensibile preoccupazione di non penalizzare i propri collaboratoririspetto a quelli di altri colleghi che non dovessero dar prova di analoga serietà di giudi-zio. Tale preoccupazione può essere contrastata prevedendo retribuzioni di risultatosuperiori a quelle ordinarie a favore di coloro che operino presso uffici ove si registri –data appunto la serietà del valutatore – un indice elevato di selettività valutativa.

4.2 La situazione del valutato

Così come occorre incidere, con adeguati accorgimenti, sulla dinamica degli inte-ressi da cui è mosso il valutatore, analogamente occorre controbilanciare la pressione delvalutato ad acquisire sempre e comunque giudizi ampiamente favorevoli. Quali mecca-nismi si possono a tale scopo utilizzare?

Gli esperti sconsigliano in genere, almeno nella fase iniziale, di prevedere unimpatto significativo della valutazione delle competenze professionali sulle politicheretributive, nel presupposto che, eliminando o riducendo tale impatto, scemerebbe –scusando il bisticcio di parole – “l’interesse degli interessati” ad avere valutazioni piùche positive, al di là dei loro effettivi meriti40. La tesi appare plausibile, ma bisognerebbericordare l’esperienza già citata dei rapporti informativi, che non avevano impatto retri-butivo e che, ciò nonostante, si concludevano quasi sempre con l’attribuzione del fatidi-co 105. Non è detto quindi che se si sterilizzano, per così dire, i riflessi retributivi dellavalutazione delle competenze, si elimina o si attenua la pressione ad avere giudizi lusin-ghieri dal proprio capo (la pressione può anzi persino rafforzarsi, perché nel caso di cuiparliamo il dipendente potrebbe far presente al superiore che “non gli costa nulla” dareun giudizio favorevole, e il superiore, dal canto suo, si chiederebbe quale convenienzaavrebbe mai a negare tale giudizio, quando appunto “non gli costa nulla”, e il rigorerischierebbe alla fin fine di apparire solo un’inutile cattiveria).

Continuando ad esplorare il repertorio dei possibili accorgimenti utili a fronteggiareil problema di cui ci stiamo occupando, importante è sicuramente la considerazione che ilriconoscimento di meriti e capacità non può dare luogo solo ad onori (benefici economicie di carriera) ma deve anche implicare oneri. Chi è stato valutato in maniera particolar-mente positiva deve quindi di buon grado accettare standard qualitativi e quantitativi dilavoro in linea con le competenze riconosciutegli (questa ipotesi fa da pendant a quellaprima prospettata per l’assegnazione degli obiettivi ai valutatori nel caso in cui essiammettano, con le valutazioni che esprimono, di beneficiare della collaborazione diimpiegati tutti o quasi tutti molto bravi). In sostanza, questa soluzione farebbe da pendant

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40 Per una disamina delle questioni connesse alla retribuzione delle competenze si può vedere Spencer &Spencer, trad. it., op. cit., pp. 287-299 e U. Capucci (a cura di), Business, strategia, competenze, Milano,Guerini e Associati, 1999, pp. 171-190. Vedi anche l’interessante articolo di G.D. Klein, La retribuzionefondata sulle conoscenze: l’analisi di un’esperienza di successo, in «Problemi di gestione», Formez, 1999,vol. XXI, n. 6, pp. 57-74.

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a quella già prospettata per il valutatore: si tratterebbe di collegare il sistema di valutazio-ne del personale al sistema di assegnazione degli obiettivi all’ufficio. Il personale nonavrebbe più interesse a valutazioni gonfiate, perché si vedrebbe gonfiare gli obiettivi del-l’ufficio in cui lavora.

Insomma, si tratta di rendere manifesto agli interessati che giudizi non aderentialle loro reali capacità professionali finiscono per essere controproducenti, anche perchédeterminano la loro esclusione da percorsi formativi utili a colmare i loro gap e a favorirecosì il loro effettivo sviluppo professionale (perciò, chi tenta di sopravvalutarsi dimostraalla fine la stessa intelligenza dello struzzo che – secondo un luogo comune – vorrebbefar sparire le proprie difficoltà nascondendo la testa sotto la sabbia).

4.3 La cultura della valutazione

Per favorire la veridicità delle valutazioni, non basta attivare contrappesi agliinteressi dei valutatori e dei valutati che spingono a esprimere valutazioni non serie.Occorre anche lavorare sulla “cultura della valutazione”. I punti che vanno qui fissatisono quattro.1. Un sistema di valutazione può dare valore alle persone (può valorizzarle) solo se ha

valore, cioè se aiuta a produrre valutazioni serie. La veridicità delle valutazioni – cioèla loro rispondenza all’effettivo valore della prestazione resa e delle competenzedimostrate – è essenziale affinché un sistema di valutazione possa dirsi “serio”. Inestrema sintesi, si può anzi dire che un buon sistema di valutazione è un sistema che èoggettivo nei criteri cui s’impronta e serio nelle valutazioni cui dà luogo. Bisogna farcapire il valore della serietà: far parte di un’organizzazione seria crea orgoglio profes-sionale, che è il cemento più forte di un’organizzazione (sempreché sia accompagnatoda almeno un pizzico di senso critico e – perché no – da una sana capacità di autoiro-nia). Ma non è solo una questione di orgoglio, è anche una questione di convenienza.Le organizzazioni pubbliche che hanno fama di serietà anche nelle valutazioni interneguadagnano, nell’opinione pubblica, prestigio e credibilità, che legittimano la richie-sta di trattamenti adeguati per i propri dipendenti.

2. Occorre sviluppare una “cultura della diversità” non individualistica. La mentalitàdominante nelle pubbliche amministrazioni guarda con sospetto tutto ciò che tende alriconoscimento della diversità dei meriti, quasi fosse una colpa ammettere che qual-cuno è più bravo di un altro e merita perciò più di altri. È importante convincersi chela valorizzazione del merito non va necessariamente concepita secondo un’otticaindividualistica indirizzata solo e principalmente a beneficio dei diretti interessati(cioè delle persone che dimostrino capacità professionali più marcate). Non offrirespecifiche opportunità ai più bravi dà luogo ad uno spreco di talento che non può nonricadere negativamente sul progresso culturale e professionale dell’organizzazionenel suo complesso, impoverendola. Non favorire l’emergere, il consolidamento e ilriconoscimento di competenze di punta significa alla fine privare tutti gli altri di pre-ziose ricadute di conoscenze e di capacità che, nelle organizzazioni vive e vitali,avviano dinamiche virtuose di apprendimento, di crescita e di emulazione positiva.

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3. Medietà non vuol dire mediocrità. Guardando al funzionamento complessivo di unagrande organizzazione, non contano solo le competenze di punta. La prestazione piùimportante e significativa è probabilmente proprio quella normale. Non sono pochi“eccellenti” a fare una buona organizzazione, bensì una maggioranza di persone capa-ci, volenterose e oneste, che rappresentano esempi di professionalità perfettamenteadeguata al compito e assicurano così il rispetto e il mantenimento degli standardquantitativi e qualitativi su cui si regge l’organizzazione stessa. Questi colleghi rap-presentano la media ma purtroppo, più o meno inconsapevolmente, siamo portati aritenere che “medio” equivalga a “mediocre”, mentre tra i due termini c’è una diffe-renza sostanziale, poiché, diversamente dal “medio”, il “mediocre” non apporta alcunvalore aggiunto all’organizzazione. Confondendo queste due categorie, i giudizi fini-scono sempre per addensarsi nelle categorie elevate (“medio-superiore” ed “eccellen-te”). Dobbiamo superare questa distorsione: non c’è bisogno di incassare un giudizioultra favorevole per vedere riconosciuto il proprio impegno, sicché un sana considera-zione del valore della medietà41 è il correttivo indispensabile della “sindrome daeccellenza”, tendenza tipica, e assolutamente irrealistica, dei sistemi di valutazioneinterna, ad attestarsi tutti (valutatori e valutati) sui livelli di giudizio massimi. Conquesto appiattimento, il sistema non genera più informazioni utili dal punto di vistagestionale, né – avendo perso qualunque serietà – è suscettibile di promuovere effica-ci azioni di sviluppo. Un sistema valutativo poco serio, rende poco seria l’organizza-zione che lo applica, svilendo il senso di appartenenza ad essa (per convincersenebasterà ricordare che, da studenti, a nessuno piaceva far parte di una scuola dove atutti si regalavano voti eccellenti e brillanti promozioni). Insomma, ci si può chiederese un’obiettiva verifica e una genuina presa di coscienza di cosa si è realmente fatto edi cosa si è realmente dimostrato di saper fare siano un momento necessario del pro-cesso di sviluppo personale. Ma un’eventuale risposta negativa difficilmente potrebbeessere considerata meritevole di discussione.

4. È importante saper dare e ricevere il giusto feedback. Un’immagine positiva di sé èindispensabile per lavorare bene e con entusiasmo, fino a che però non si cade nellatrappola dell’autoinganno, che svia ogni tentativo di seria autovalutazione, spingen-doci a dare maggior peso a tutto ciò che conferma un’immagine di noi non rispon-dente alla realtà. In qualsiasi organizzazione non cessa di stupire lo spettacolo quo-tidiano di persone che, con toni anche saccenti, accampano pretese a riconoscimen-ti di ogni genere (incarichi, incentivi economici, ecc.), facendo valere meriti e capa-cità che soltanto loro riescono a vedere in se stessi e che, tutt’al più, ritengono dipoter comprovare in base al possesso di titoli formali cui non corrispondono realicompetenze professionali. È un leit-motiv (peraltro giustissimo) che un sistema divalutazione ha, tra le sue finalità essenziali, quella dello sviluppo delle persone,che significa anzitutto superare il gap fra la prestazione attesa e quella effettivamen-te resa. Ma il gap più arduo da colmare è in primo luogo quello costituito dalla

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41 Tale considerazione potrebbe trasformarsi, con una buona dose di intelligenza ed arguzia espositiva, in unasorta di “elogio della medietà”. Il tema è sviluppato in appendice a p. 162.

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distanza fra la percezione di sé, del proprio valore, e la percezione che possonoaverne le persone con cui quotidianamente interagiamo sul posto di lavoro. Cos’èche può salvarci dall’autoinganno? Il feedback degli altri, che non è facile però nédare, né ricevere.

Secondo gli autori di una recente opera dedicata alla leadership, tra i maggioriostacoli che si frappongono al feedback vi è un malinteso senso di gentilezza. Vale lapena riportare per intero il brano, che ha come titolo: “Che cosa c’è di sbagliatonell’‘essere gentili’?”.

Che cosa c’è di sbagliato nell’“essere gentili”?

Il proprietario di un bistrò parigino, col grembiule bianco e il cappello da chefstava sulla porta del suo locale ad accogliere i clienti. Una coppia, entrando, glichiese sorridendo se fosse lui il proprietario.“Sì”, rispose lo chef.I due avventori diedero una rapida occhiata in giro: l’ambiente, gli allestimentie l’assortimento dei piatti in bella vista erano magnifici. Si rivolsero allora alristoratore dicendo: “È un posto fantastico: grande atmosfera e cibo sopraffi-no!”. A quel commento il loro interlocutore osservò: “Aspettate di aver cenatoper dirlo!”.Essendo il proprietario del bistrò, lo chef non disdegnava certo l’approvazione,però voleva che fosse autentica e non un semplice atto di gentilezza. Allo stessomodo nelle organizzazioni, è possibile che nel dare un feedback la gente cerchidi essere gentile, invece di muovere osservazioni utili e precise. Vittime di questoatteggiamento sono soprattutto i leader.Per anni alcuni studiosi del comportamento hanno sostenuto che il feedback sul-le prestazioni non dovesse avere contenuto valutativo e andasse depurato diqualsiasi elemento di positività o negatività. In tal modo, dicevano, lo si sarebbereso più digeribile e quindi più utile. Privato del suo potenziale offensivo, il feed-back sarebbe stato meglio accettato dai destinatari.D’altra parte, tale neutralizzazione di fatto diminuisce l’utilità del feedback,come è stato dimostrato da uno studio realizzato al Massachusetts Institute ofTechnology (MIT). Una cauta e non compromettente neutralità spoglia il feed-back di importanti contenuti emozionali. Lo studio fu condotto su studenti chepartecipavano a un MBA, nel corso di un modulo sul comportamento delle orga-nizzazioni. Ai partecipanti fu chiesto di indicare un obiettivo di cambiamentocui dedicarsi nelle 15 settimane di corso che sarebbero seguite. Ogni settimanagli studenti si riunivano in gruppo, nel corso delle lezioni, per ricevere un riscon-tro dei loro progressi. Al termine di ogni lezione, a ciascuno veniva chiesto diindicare i tre feedback più utili che aveva ricevuto.

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Dire – e dirsi – la verità (e questo fa inevitabilmente parte del feedback) è taloraimpossibile senza procurare qualche ferita (se non altro al proprio narcisismo). Il punto ècome aprire, insieme a ferite talora inevitabili, anche il cammino verso la guarigione,cioè verso una più autentica comprensione di sé e del proprio valore. Riuscire a fare que-sto, evitando l’“imprigionamento delle relazioni produttive in quelle affettive”42, signifi-ca dare ai propri collaboratori un buon feedback, che è forse il compito più difficile di uncapo. Un buon feedback si caratterizza per il fatto di essere:• costruttivo (dice alle persone come possono migliorare, le incoraggia di continuo a

migliorare e ne rafforza l’autostima per tutto ciò che di buono fanno e sanno fare);• specifico (si rivolge con chiarezza ad aspetti ben determinati della prestazione di lavoro);• tempestivo (interviene subito dopo l’accaduto, quando le questioni in gioco sono anco-

ra rilevanti e ben chiare a ognuno);• continuativo (non è intermittente, ma viene dato giorno per giorno);• propositivo (trova il suo scopo non nella volontà di ferire e di abbattere gli animi, ma

nell’intenzione di migliorare la performance);• appropriato (il tipo di feedback, lo stile con il quale viene comunicato, il tempo e l’oc-

casione devono essere appropriati alla persona e alla situazione).

Si è appena detto che dare e ricevere feedback è tutt’altro che facile. Lo scambioriesce quando entrambi riescono a “mettersi nei panni dell’altro”. Cosa significa questooperativamente?

Quando si ha il compito di dare feedback, è importante comprendere il punto divista dell’altro, aprirsi alle questioni che egli pone e assicurarsi che i messaggi che ven-gono dati siano compresi. Per un capo è cruciale concepire il proprio ruolo di “datore” di

Contrariamente all’opinione prevalente a quei tempi, emerse che il feedback giu-dicato più utile era quello valutativo, ossia quello in cui le persone avevano rice-vuto apertamente indicazioni specifiche sull’adeguatezza o meno del loro com-portamento. Questi risultati trovano una giustificazione. Tutti sappiamo infatti,più o meno consciamente, che gli altri osservano e giudicano il nostro comporta-mento. È quindi naturale che la maggior parte di noi preferisca conoscere la ver-sione integrale di questo giudizio, piuttosto che quella edulcorata. Mitigando illoro feedback o cercando di essere garbati per non turbarci, gli altri non ci rendo-no un favore, ed anzi ci privano in realtà di informazioni essenziali al nostromiglioramento.

Tratto da: D. Goleman, R.E. Boyatzis, A. McKee, Essere leader, trad. it. Milano, Rizzoli, 2002,p. 166

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42 A. Grandori, Organizzazione e comportamento economico, cit., p. 172.

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feedback come parte di un ruolo più ampio, che è quello di coaching43 (coach = allenato-re). Gli aspetti principali del coaching sono questi:• individuare bene e focalizzare con cura cosa ci si attende dai collaboratori;• spiegare, dandone dimostrazione concreta, come le cose vadano fatte;• fornire supporto e dare rinforzi di tipo positivo (non limitarsi cioè alle “legnate”);• indicare la direzione da seguire, consentendo però alle persone di trovare la strada a

loro più adatta;• comprendere le diverse modalità di apprendimento delle persone ed essere disponibili

a modificare il proprio stile di coaching per adattarlo allo stile altrui di apprendimento;• mostrare alle persone gli strumenti che possano aiutarle ad imparare da sé;• dare alle persone le capacità e i mezzi per monitorare e verificare la propria perfor-

mance;• dare responsabilità alle persone e metterle in condizione di sentirsi realmente responsabili;• incoraggiare le persone e dare loro la possibilità di acquisire credito per i propri suc-

cessi;• celebrare i successi;• saper trasformare gli errori, e la comprensione degli errori, in una delle vie elettive di

apprendimento, facendone buon uso per migliorare la performance (procedere by trialand error – per tentativi ed errori – è la strada maestra del progresso scientifico);

• dare opportunità di sviluppo;• verificare ciò che le persone sono riuscite ad apprendere grazie alle opportunità di svi-

luppo di cui hanno potuto fruire.

Quando invece si tratta di ricevere feedback, è importante ascoltare bene che cosal’altro dice e capire:• perché ci viene dato quel feedback;• che cosa significa quel feedback;• quale validità riveste per noi nella situazione in cui ci troviamo;• quali azioni dobbiamo impegnarci a compiere a seguito di quel feedback.

Concludendo, il punto è come dare e ricevere feedback senza farne una affermazio-ne di potere e un motivo di lacerazione del tessuto organizzativo, trasformandolo, al con-trario, in uno strumento essenziale di coesione e di crescita di un gruppo. È un lavoromolto delicato e impegnativo, che forse giustifica da solo almeno la metà della retribu-zione del dirigente. La difficoltà maggiore si può forse riassumere in questa formula:come far riconoscere alle persone i propri limiti senza che esse si sentano limitate. Ilcapo che riesce a far questo si colloca esattamente – per usare una terminologia da econo-misti – nell’ideale punto di incrocio fra la curva del feedback valutativo e quella delcoaching.

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43 Il concetto secondo cui il feedback valutativo fa parte del lavoro di coaching proprio del capo è stato svi-luppato riprendendo le considerazioni svolte al riguardo nel New Performance Management System del-l’Agenzia fiscale della Nuova Zelanda.

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5. La comunità dei valutanti

Avere criteri di giudizio comuni, intenderli allo stesso modo e applicarli in manie-ra analoga, così che una determinata prestazione lavorativa possa ricevere valutazioneuniforme quale che sia il valutatore. Realizzare tali condizioni significa dare vita a quellache abbiamo già chiamato “comunità dei valutanti” (intendendo per valutanti, come giàaccennato a p. 14, sia i valutatori che i valutati).

In cosa consiste, più precisamente, tale comunità? Consiste nella formazione di unsentire e di un pensare comune riguardo ai comportamenti cui si decide di attribuire valo-re nella e per l’organizzazione di cui si fa parte. In altre parole, è certamente vero che unsistema di valutazione è condiviso in quanto è oggettivo, ma è altrettanto vero che è ogget-tivo in quanto è condiviso. E la condivisione – cioè il sentire e il pensare comune – pren-de forma elaborando dialetticamente (ossia attraverso un confronto fra tutti gli interessati,valutatori e valutati44) la comune esperienza di vita nell’organizzazione, in modo da:• definire precisi indicatori comportamentali che chiariscano – rendendolo così condi-

visibile – il significato di giudizi valutativi di uso comune (“è bravo”, “è intelligente”,“è preparato”, “è equilibrato”, “sa trattare con le persone”, “sa imporsi”, ecc.);

• dare applicazione omogenea ai significati attribuiti ai diversi giudizi valutativi (inquesto consiste l’equità della valutazione).

In sintesi: non basta che tutti utilizzino lo stesso metro di giudizio, ma occorreanche che tutti imparino ad utilizzarlo nello stesso modo.

Come avviene per tutti i codici comportamentali (giuridici, etici, religiosi, sociali,ecc.), la prassi e il training continuo che si accompagna alla riflessione sul loro uso, con-tribuiscono a rafforzare la comprensione comune delle regole di comportamento e nerendono così più omogenea l’applicazione.

La meta ideale di questo processo di apprendimento collettivo è, appunto, unacomunità di valutanti dove la condivisione dei giudizi sia piena e totale. In questa comu-nità ideale il valutatore non ha la preoccupazione di dover gestire conflitti, perché puòcontare sulla percezione sobria e realistica che il valutato ha delle proprie abilità, né ilvalutato ha da guardarsi dal valutatore, poiché ha fiducia nella sua capacità di giudizio.

Quanto è lontana questa meta? La domanda è sbagliata e come tale può avere solorisposte sbagliate. La comunità ideale dei valutanti non va concepita come la stazionepiù o meno lontana di un tragitto più o meno lungo da percorrere. È piuttosto un idealeregolativo, un orizzonte – se si vuole usare una metafora – che come tale non si toccamai, ma “è sempre lì” e costituisce il contesto perenne di riferimento e di senso dellanostra esperienza valutativa. Insomma, non si tratta di “raggiungere l’orizzonte” (l’e-

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44 Nella realtà organizzativa, i ruoli di “valutatore” e “valutato” non sono fissi ma si invertono in continua-zione. Sul piano informale i capi (anche se non ne sono sempre consapevoli) sono continuamente oggettodi valutazione da parte dei loro collaboratori, e lo saranno anche sul piano formale con l’introduzione del-la valutazione a 360° dei dirigenti. La “reciprocità” delle valutazioni è una condizione essenziale per losviluppo della “comunità dei valutanti”.

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spressione è in se stessa priva di significato) ma di “tenerlo aperto” passo dopo passo. Ecome? Favorendo tutte le iniziative che sostengano il processo di apprendimento collet-tivo prima descritto. E fra queste iniziative non possono mancare quelle volte a dare aivalutati garanzie concrete riguardo all’equità dei valutatori.

La pratica della valutazione fa crescere un’organizzazione solo se c’è fiducia nellacapacità dei valutatori di discernere bene meriti e attitudini. Le organizzazioni sindacalitendono sempre ad esprimere forti perplessità al riguardo e sono appunto queste riservesulla credibilità dei valutatori che generalmente motivano le resistenze sindacali all’in-troduzione di sistemi interni di valutazione.

Quali meccanismi possono servire a sostenere la fiducia nell’equità delle valuta-zioni? Una soluzione efficace (anche per la sua valenza simbolica) potrebbe essere quelladi costituire un nucleo di valutatori esperti, scelti fra i dirigenti con riconosciuta fama dirigore, equilibrio ed autorevolezza. Questo nucleo verrebbe creato con un’apposita sele-zione e con adeguate azioni formative, avvalendosi anche dell’aiuto di specialisti dellamateria (in particolare, esperti in assessment attitudinale, con il compito di aiutare aindividuare, con criteri oggettivi, i dirigenti che abbiano maggiori potenzialità per svol-gere bene il ruolo in questione).

Ad uno di questi “valutatori scelti” il valutato avrebbe facoltà di rimettere fin dal-l’inizio la valutazione del proprio operato qualora egli ritenesse che il valutatore direttonon sia dotato di sufficiente senso di “obiettività” per esprimere su di lui un giudizioequilibrato. Non c’è da temere che questo atto di “sfiducia” possa essere operato alla leg-gera, poiché rischierebbe di ritorcersi sull’interessato, ove la valutazione degli espertinon dovesse risultare a lui favorevole. È vero, tuttavia, che questo meccanismo di garan-zia potrebbe essere interpretato dai dirigenti come una manifestazione di generalizzatasfiducia nei propri confronti. Ma l’argomento è rovesciabile. La possibilità di azionarequel meccanismo può essere la prova del nove della credibilità di un dirigente, credibili-tà che è invece solo presunta senza la previsione di quella forma di garanzia. Il valutatoche non opta per un valutatore esterno – e si può ritenere che questa sarà la situazione digran lunga più frequente – dimostrerà con ciò stesso che il dirigente gode di fiducia nelproprio ufficio, rafforzandone così il prestigio e l’autorevolezza.

La soluzione appena prospettata, oltre a costituire per i dirigenti un segnale fortedell’importanza della propria credibilità come valutatori, rappresenta la conseguenzalogica di un principio. Quello secondo cui la valutazione non è un obbligo cui si ècostretti a soggiacere, ma anzitutto un diritto da far valere. Il diritto, appunto, ad unavalutazione giusta (nel senso di “corretta”, “aderente alla realtà”, come già detto a p. 48)ed equa dei propri meriti e delle proprie capacità45.

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45 Può sembrare curioso parlare di un “diritto alla valutazione”, e in effetti così è se s’inquadra il discorso inuna prospettiva di tipo giudiziario (sarebbe appunto stravagante qualificare un “diritto” il fatto di doveressere assoggettati a un verdetto). Ma un’organizzazione non è come un’aula di tribunale, dove, sfortunata-mente, può capitare che ci si venga a trovare per rispondere di qualche imputazione. È il luogo dove si sce-glie di trascorrere la maggior parte della propria vita spendendo energie assieme ad altre persone in funzio-ne di una causa comune, e la circostanza che il proprio lavoro non formi oggetto di valutazione viene vis-

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Quanto tempo occorre perché possa mettere radici e svilupparsi il processo diapprendimento che trasforma gradatamente un’organizzazione da un semplice “aggregatodi valutanti” in una “comunità di valutanti”? Sarebbe ingenuo aspettarsi tempi brevi, dataanche l’estensione della platea dei soggetti interessati in un’organizzazione complessa earticolata come quella dell’Agenzia delle Entrate. Ma il tempo che potrà occorrere nonpuò comunque costituire un alibi per non iniziare il cammino o ritardare la partenza.

Si racconta (non si sa se la storia sia vera, ma è comunque illuminante come “para-bola organizzativa”) che una mattina, attraversando Parigi (tornava dal trionfo di Auster-litz), Napoleone vide in un giardino un albero maestoso pieno di fiori bellissimi. “È stu-pendo!”, esclamò rivolgendosi al maestro nell’arte dei giardini che lo accompagnavaspesso nei suoi viaggi, e aggiunse: “Voglio che alberi di quel tipo siano piantati lungo iprincipali viali di Parigi”. “Ma Sire”, obiettò il giardiniere, “Quell’albero appartiene auna specie rara che impiega quasi trent’anni a fare i fiori!”. Rispose l’imperatore: “E allo-ra non bisogna assolutamente perdere tempo. Comincia a piantarne i primi già questopomeriggio!”.

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suta tutt’altro che positivamente (come accadrebbe invece se si trattasse di “scampare a un giudizio”). Lapersona che ha un minimo di amor proprio finisce per trarne il convincimento che in quello che egli fa lasua organizzazione trova ben poco, o addirittura nulla, meritevole di considerazione.

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1. Dinamismo intellettivo (Intuito & Costruzione logica)

Il dinamismo intellettivo esprime l’intelligenza pratica, cioè la capacità di combi-nare insieme analisi critica e intuizione nella quotidianità delle situazioni di lavoro.

L’analisi critica è la facoltà stessa del raziocinio, vista, in negativo, come capacitàdi evitare vizi e fallacie logiche e, in positivo, come capacità di produrre prove e inferen-ze valide e pertinenti.

L’intuizione è l’attitudine a identificare rapidamente, sulla scorta anche di dettagliapparentemente secondari, l’aspetto chiave di una situazione complessa, orientando dicolpo, nella direzione giusta, la ricerca di elementi risolutivi di questioni che analisimagari lunghe e metodiche non erano fino ad allora riuscite a sciogliere. D’altra parte, èproprio la sistematicità dell’analisi che, generalmente, prepara il terreno alla repentinasintesi dell’intuizione (finendo questa per apparire, nell’opinione comune, una visioneimprovvisa – un lampo, come suole dirsi – nella quale vanno a incastrarsi, come d’incan-to, le tessere di un puzzle attorno al quale ci si era a lungo affannati). Contrapporre, dun-que, la prima alla seconda – cioè l’analisi critica all’intuizione – è sicuramente sbagliato,perché esse operano in sinergia e sono l’una complementare all’altra.

Attitudine al ragionamento e creatività di pensiero, seppure concettualmentedistinte, si presentano in concreto strettamente intrecciate, tant’è che nell’uso linguisticocomune (e a questi usi fa richiamo questo manuale per estrarne la verità che solitamenteessi contengono) affermare che una persona è intelligente significa sia che ha capacità dianalisi logica, sia che sa “tirare fuori” (o che spesso le “vengono in mente”) buone ideequando servono. E questo è vero ancor più nell’ambito delle professioni tecniche intellet-tuali (quali sono quelle dell’Agenzia) ove la capacità intuitiva ha pregio solo se congiun-ta a una robusta capacità argomentativa.

Per questa ragione, si è ritenuto opportuno (evitando così inutili complicazioni)considerare insieme in questa sede, sotto l’unica categoria di “dinamismo intellettivo” odi “Intuito & Costruzione logica”, entrambe le competenze intellettive appena enunciate,che invece in altri sistemi di valutazione vengono talora distinte (si parla in tal caso di“pensiero analitico” per designare, grosso modo, la capacità di ragionamento logico e di“pensiero concettuale” per designare l’intuizione, approdando, nella descrizione deidiversi gradi di intensità di queste competenze, a sottili distinzioni che probabilmente

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Competenze intellettivee prestazione di lavoro

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sono apprezzabili solo da uno psicologo cognitivista). Pertanto, in questo manuale leparole “dinamismo intellettivo”, “competenze intellettive”, “Intuito & Costruzione logi-ca” sono praticamente sinonime.

In sintesi, il dinamismo intellettivo è la capacità di attingere al patrimonio delleproprie conoscenze tecniche e di utilizzarle al momento opportuno per l’identificazione,la messa a fuoco e la soluzione dei problemi. L’intelligenza orientata all’azione – che è unaltro possibile nome del dinamismo intellettivo – traccia le alternative utili a superareeventuali impasse, aprendo la strada a scelte innovative.

Il dinamismo intellettivo ha riflessi diretti e immediati sulla prestazione di lavoroe perciò il modo più semplice e oggettivo di valutarlo è quello di analizzare i risultati cuidà luogo. In sostanza, invece di pretendere di valutare in se stesso il comportamentointelligente (che ha una fenomenologia piuttosto varia e complessa, all’interno della qua-le è ben difficile istituire graduatorie chiare e univoche di “intensità di intelligenza”), sivaluta il risultato intelligente con appositi indicatori che saranno analiticamente illustra-ti più avanti (ad esempio, chiarezza e congruenza della soluzione).

Sia pure per rapidi tratti (cercando però di evitare banali e sommarie semplifica-zioni), è importante comunque comprendere – sia per chi deve produrre risultati, sia perchi deve valutarli – in cosa consista il comportamento intelligente (a questa analisi sonodedicati i primi due paragrafi seguenti). Acquisirne una più lucida consapevolezza nonbasta sicuramente a garantirne la pratica, ma può forse, in qualche modo, ispirarla. Cosìcome studiando la logica non si ha alcuna garanzia di fare ragionamenti logici, ma se nepuò trarre notevole giovamento per costruire dimostrazioni plausibili ed evitare errorinella pratica argomentativa.

1.1 Il dinamismo intellettivo come capacità di individuaree inquadrare “problemi chiave”

“Intelligente e professionalmente preparato” sono i due termini che nel linguag-gio valutativo comune descrivono sinteticamente il funzionario dotato di elevato“dinamismo intellettivo”. Domanda: è possibile esplicitare il senso di questi termini (inparticolare di quello relativo all’aspetto della “intelligenza”), superando l’impressioni-smo soggettivo, le opinioni incerte e destrutturate, gli stereotipi, la vaghezza di giudi-zio, quando non il vero e proprio pregiudizio e arbitrio del valutatore? E si può farequesto senza cadere in artificiose e complicate concettualizzazioni, solo apparentemen-te esatte e destinate invece, nella loro astrattezza, a rimanere sterili enunciazioni privedi effetti pratici?

In altri termini, la questione cruciale è se sia possibile puntare in questo campo aduna “oggettività intelligente”, cioè ad una oggettività che abbia, al tempo stesso, le carat-teristiche della pertinenza e della praticabilità, di seguito descritte:• pertinenza significa che si vanno a intercettare reali manifestazioni di intelligenza sul

posto di lavoro (non hanno, ad esempio, questa caratteristica di pertinenza taluni mec-canismi paraconcorsuali di tipo tradizionale che, invece di rilevare i reali meritiespressi on the job, si traducono in un conteggio formalistico di “titoli culturali” o di

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“titoli di servizio” che non trovano corrispondenza nella manifestazione di effettivecapacità professionali sul luogo di lavoro);

• praticabilità significa che si vanno a rilevare queste concrete manifestazioni di intelli-genza professionale con strumenti di misurazione attendibili e tuttavia il più possibilesemplici, senza virtuosismi tecnici.

È evidente che il compito appena prospettato è particolarmente arduo. Affrontarlorichiederà quindi uno spazio considerevolmente più ampio di quello che verrà dedicatoall’analisi delle altre competenze.

Tralasciando per il momento il tema della “preparazione professionale”, di cui siparlerà più avanti a proposito della competenza “sviluppo e diffusione del sapere”, sitratta ora di articolare il concetto di “intelligenza”, visto come comportamento cardinedella vita organizzativa. A questo riguardo, proviamo anzitutto a immaginare una perso-na che riesca a selezionare e identificare (comunemente si dice: “afferrare”) nel conti-nuum di per sé indistinto (per non dire caotico) dell’esperienza – vale a dire nel grovigliodelle situazioni in cui opera e nella valanga di dati da cui è quotidianamente sommersa –i “veri problemi” o, come anche di solito li si definisce, i “problemi reali”, i “problemichiave” o le “questioni cruciali”, quelle cioè dalla cui soluzione dipende la riuscita delproprio lavoro e, in una prospettiva più vasta, il successo della propria organizzazione. Eproviamo poi a immaginare che quella persona – nell’atto stesso in cui riesca a indivi-duare, nella concreta situazione di lavoro, il “problema vero” – riesca anche a darne conchiarezza una formulazione nuova e diversa che ne agevoli la soluzione, sfuggendo allatrappola di “fossilizzarsi” (per usare un termine ricorrente) su “questioni false”, su “que-stioni apparenti” o su “questioni male impostate”, che sviano l’attenzione e indirizzanoil processo decisionale lungo piste sbagliate o infruttuose.

Ebbene, questa sequenza di comportamenti – che prende avvio dalla percezione,prima vaga e poi sempre più nitida, che nell’intreccio degli elementi noti qualcosa “nonquadri”46, a dispetto magari dell’opinione dei tanti che nella sequenza dei fatti osservatinon scorgono nulla di strano o di problematico – costituisce la prima e decisiva concate-nazione di mosse di un attore dotato di “intelligenza pratica”47.

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46 La percezione che qualcosa “non quadri” è l’essenza stessa di un problema cognitivo, che, in definitiva,altro non è se non il venire alla luce, nella mente dell’osservatore, di un contrasto – prima inavvertito – fradue o più assunzioni teoriche oppure fra un’assunzione teorica e ciò che chiamiamo “realtà”.

47 In una strategia è cruciale la “selezione” del problema da cui si decide di prendere le mosse. Il successodelle imprese giapponesi negli anni ’80 fu essenzialmente dovuto ad uno spostamento del problema chia-ve. Passò in secondo piano la questione, che prima appariva fondamentale: “come soddisfare i bisogniattuali del cliente” e prese forma invece, fino ad occupare la scena, una domanda diversa: “come andareincontro ai bisogni latenti del cliente”, i bisogni, cioè, della cui soddisfazione il cliente stesso non ha finoramai fruito, perché non li ha neppure ancora avvertiti. Come disse anni addietro un alto dirigente dellaGeneral Motors: “Non si sarebbe mai arrivati alla produzione della Mazda Miata soltanto con le ricerche dimercato. È stato necessario un grande salto creativo per capire cosa avrebbe potuto volere il cliente” (citatoda Peter M. Senge, Il nuovo lavoro del leader. Costruire l’apprendimento nelle organizzazioni, in Leader-ship, a cura di G.P. Quaglino, Milano, Raffaello Cortina, 1999, p. 33). È in accordo con queste esperienzel’espressione comune che definisce “intelligente” la persona di mente duttile che “afferra” rapidamenteproblemi inediti e cruciali.

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Entrano qui in gioco almeno quattro fattori, tra loro variamente combinati: intui-zione, senso critico, padronanza linguistica e “intelligenza emotiva”.1. L’intuizione non ha – contrariamente all’opinione comune – nulla di magico o miste-

rioso, ed esprime piuttosto l’abilità tipica della persona esperta (l’intuizione del princi-piante si dimostra, non di rado, una semplice “alzata di ingegno”, quando non si con-fonde – per usare un termine più icastico – con la “sparata”) di riconoscere rapidamen-te, nel mutevole e confuso caleidoscopio delle situazioni del presente, schemi di azio-ne e di pensiero pazientemente costruiti ed affinati nel corso di una lungaesperienza48. Come osservava Raimond Poincaré (eminente statista francese del ’900),l’ispirazione – cioè la soluzione improvvisa, d’emblée, di problemi assillanti rimasti alungo aperti – viene solo alle menti preparate49, e la storia della creatività scientificasta a testimoniarlo. Ma sarebbe sbagliato vedere nella dinamica dell’intuizione cosìintesa un processo di apprendimento solo ed esclusivamente adattivo (che è comunquequello statisticamente più significativo e che perciò sarebbe ingenuo e sbagliato snob-bare, data la vasta incidenza che esso ha in pratica in ogni organizzazione, fosse anchequella a più elevato tasso di creatività). Il fatto è che il presente non è mai pura ripeti-zione, e l’intuito rivela allora i suoi tratti di originalità e creatività autentica50, nelcogliere, per un verso, le analogie nascoste con il passato (quelle che in genere vengonotrascurate o cadono al di là del campo di percezione comune), liberandosi, per un altroverso, dall’attrazione esercitata dalle somiglianze apparenti o dagli usi consueti51. Si

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48 “Intuizione” deriva dal latino “intueor” che significa “vedo” (l’origine etimologica della parola è più evi-dente nel corrispondente vocabolo inglese “insight”, ove sight è appunto l’atto del vedere). Ciò che si“vede” è il passato traslato e rimodellato (più o meno originalmente) nel presente. Ed è appunto il ricono-scimento nel presente di schemi e repertori di conoscenze già appresi in precedenza e sistematizzati (disolito chiamati “chunks”, letteralmente “grossi pezzi”) che spiega – come ha osservato Herbert Simon – iltratto tipico di “rapidità” che caratterizza la risposta intuitiva rispetto alla lentezza e alla fatica della rifles-sione e del calcolo, che si trovano invece a dover affrontare una configurazione “vergine” di elementi o difenomeni non dissodata in precedenza (vedi Herbert A. Simon, Razionalità e non razionalità nei processidecisionali, in «Problemi di gestione», Formez, 1997, vol. XX, supplemento al n. 6, pp. 239-260; il titolooriginale dell’articolo è: Making Management Decision: The Role of Intuition and Emotion).

49 Citato in Herbert A. Simon, La ragione nelle vicende umane, trad. it. Bologna, il Mulino, 1984, p. 60.50 Da sottolineare qui il termine “autentico”, di contro al chiacchiericcio di moda sulla innovazione creativa,

che in realtà – quando si guardano le cose senza il velo della retorica “novista” – è abbastanza rara.51 È famoso il caso della 3M, una multinazionale americana della chimica, nei cui laboratori si cerca di mette-

re a punto colle sempre migliori, rispondenti a questi due parametri: tenuta e rapidità di essiccazione. Ungiorno venne prodotta per sbaglio una colla che non si asciugava mai, e quindi permetteva di appiccicare estaccare gli oggetti molte volte. A giudizio unanime, la si sarebbe quindi definita una colla pessima. Mauna segretaria ebbe l’idea di usarla per una funzione alternativa: attaccare promemoria su superfici lisce.Nacquero così i post-it, quei foglietti, generalmente gialli, che servono per appiccicare appunti. Il fatto chela colla non s’induriva si rivelò un vantaggio insospettato, consentendo di staccare, spostare e facilmentesostituire appunti. La segretaria si era defocalizzata dalla funzione abituale e aveva ideato un uso alternati-vo. Non dissimile, ma per nulla nota, è l’origine della registrazione informatica in tempo reale degli atti delregistro. Questa innovazione si deve a un operatore di front-line dell’Ufficio di Roma 5 dell’Agenzia delleEntrate, cui è venuta in mente l’idea di utilizzare per lo scopo appena detto una particolare funzionalitàdella procedura informatica di registrazione degli atti, funzionalità che era stata in realtà progettata a tut-t’altro fine. Illustrare qui i dettagli della scoperta porterebbe via troppo tempo. Quel che conta è che anchein questo caso vi è stata una felice intuizione che ha intravisto (“intuire” è “vedere”) in una determinatasituazione possibilità e alternative trascurate o sfuggite alla considerazione comune.

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modificano in questo modo schemi consolidati (che guidano e orientano comunque ilpensiero e la ricerca dell’esperto), attivando un processo che va dal mero adattamento(comunque mai passivo) degli schemi stessi fino, in certi casi, alla loro reinvenzione(l’esperto è tale non solo perché può e sa utilizzare vasti e collaudati repertori di saperiaccumulati e organizzati nel tempo, ma anche perché è capace di forgiarne e strutturar-ne via via di nuovi). Esiste insomma un uso adattivo ed uno creativo (o generativo) del-l’intuizione. Generalmente, fra l’uno e l’altro non c’è salto, ma passaggio più o menograduale;

2. Il senso critico è l’abilità nel mettere in atto strategie di controllo e di falsificazionedelle ipotesi di partenza. La trappola che il senso critico punta a neutralizzare è quelladi fissarsi sulle assunzioni iniziali e di cercarne a tutti i costi conferme (il meccani-smo di fissazione, ben studiato dalla psicologia cognitivista, è all’origine degli errori odelle illusioni concettuali, così comuni nella vita pratica, da cui scaturiscono, a lorovolta, decisioni sbagliate), trascurando i casi e gli indizi che potrebbero invalidarle (ètipico del giurista, dell’avvocato e dell’investigatore di non eccelsa vaglia – per nondire mediocre – sforzarsi solo di trovare pezze d’appoggio alla tesi sostenuta, evitandodi immaginare seri casi falsificanti della propria impostazione, e di confrontarsi conessi). Se, da un lato, l’intuizione alimenta l’attitudine all’esplorazione e la duttilitànella ricerca, il senso critico guida l’indagine, mettendo a fuoco le ipotesi da vagliare,ed evitando così che essa proceda alla cieca o sulla base di impostazioni rigide e diatteggiamenti pregiudiziali.

3. Quale ruolo ha nella strutturazione dei problemi la padronanza linguistica? Stabilireuna equivalenza perfetta tra il pensiero e il linguaggio è sicuramente eccessivo (è comu-ne esperienza quella di dovere spesso faticare per riuscire ad esprimere appropriata-mente ciò che si agita nella mente, il che vuol dire che c’è uno scarto fra quello che – purconfusamente – pensiamo, e quello che riusciamo, almeno inizialmente, a verbalizzare:uno scarto, appunto, fra pensiero e linguaggio, che, oltre ad essere comprovato da questadifficoltà di traduzione interna da pensieri a parole, è dimostrato anche da un altro fatto,comunissimo, costituito dalla traduzione di parole da una lingua all’altra, operazione,questa, assolutamente inspiegabile se non si presupponesse un contenuto di pensiero inqualche modo comune alla lingua di partenza e a quella di arrivo, e che non costituiscequindi – né con l’una né con l’altra – un tutt’uno indistinguibile e inseparabile). Ma setutto questo è vero, è altrettanto vero che il linguaggio non è un semplice rivestimentoesteriore, un involucro di un pensiero già in sé formato (fino a che non riusciamo adesprimere quello che abbiamo in testa, il contenuto mentale, lungi dall’essere in sé bendefinito, è invece – come abbiamo appena notato – confuso, tanto da trarne una sensa-zione di disagio). In poche parole, la sostanza intima del pensiero si plasma nell’attostesso in cui il linguaggio vi dà forma e la conclusione è che il dinamismo intellettivo èfortemente condizionato dalla competenza linguistica. Questo vale certamente nellaindividuazione iniziale del problema, così come vale nelle successive fasi della suamessa a fuoco e della strutturazione delle possibili soluzioni.

4. La competenza intellettiva non è una monade senza porte, né finestre. L’intuito e ilsenso critico hanno una stretta interrelazione con le competenze extraintellettive,

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come la tensione al risultato, l’iniziativa, l’orientamento all’altro e la passione per illavoro. Queste competenze, che esprimono la dimensione emozionale della vitaorganizzativa (rappresentano l’intelligenza emotiva, per citare un’espressione ormaientrata nell’uso comune), contribuiscono alla selezione dei problemi che formerannooggetto del pensiero analitico. In particolare, giocano qui la tensione al risultato e lapassione per il lavoro, che infondono la motivazione e l’energia necessarie peraffrontare l’onere gravoso dell’impresa cognitiva (cercare dati, verificarli, organizzar-li sistematicamente, ecc. è faticoso, e non sono quindi attività compatibili con lapigrizia che non ama “la fatica del pensiero”). E gioca inoltre l’orientamento all’altro,che suscita e alimenta la “sensibilità dialogica” o “dialettica”, indispensabile perporsi – nella costruzione del discorso e nell’articolazione dei suoi snodi – le“domande giuste”, quelle cioè mirate a prevenire possibili problemi, preoccupazionied obiezioni dell’interlocutore (sia egli il capo, il collega, il collaboratore o l’utente).Di fatto, il bravo funzionario con elevato dinamismo intellettivo è quello che non sifa sorprendere – o si fa sorprendere di rado – con osservazioni del tipo: “Ma come èpossibile che non ti è venuto in mente che …”, “Come hai fatto a trascurare il fattoche …”, “Non hai pensato che scrivendo così, avresti indotto in errore o in equivocochi legge o ti saresti attirato queste critiche…”, ecc.52.

1.2 Il dinamismo intellettivo come capacità di strutturare problemie di risolverli. Il “Problem IS-Solving”

Alla fase iniziale (e decisiva) di individuazione del “vero” problema, seguonoquella della sua strutturazione (esplicitazione dei termini costitutivi del problema, orga-nizzazione logica dei loro rapporti interni e definizione delle loro relazioni esterne con ilcontesto di riferimento) e infine la fase della sua soluzione. Se, nella prima fase, è domi-nante l’intuizione (nel senso prima specificato), nelle altre esercita un ruolo preponde-rante la capacità di costruzione concettuale (e quindi anche linguistica) del discorso e diordinamento gerarchico dei pensieri53. Solitamente ci si riferisce alla competenza intel-lettiva utilizzando l’espressione inglese Problem Solving. Ma abbiamo visto che non con-ta solo il Solving, ma anche – e ancor prima – contano le operazioni di Identifying (indi-viduazione) e Structuring (strutturazione) del problema. Sicché il neologismo Problem

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52 Enumerare queste eventuali osservazioni critiche (almeno le principali), stabilirne la frequenza nel tempoe graduarle in ragione della loro significatività (per l’importanza e la delicatezza della questione trattata,per la rilevanza dell’interlocutore, ecc.), prendendone nota in una sorta di “diario di bordo”, rappresentacerto per il valutatore, almeno all’inizio, un esercizio faticoso (l’abitudine però ne alleggerirà via via ilpeso), e tuttavia proficuo, perché le annotazioni costituiscono (anche in un eventuale contenzioso) attendi-bili misuratori, seppure in negativo, del dinamismo intellettivo. Ribaltando in positivo il concetto, si puòaffermare che il funzionario valido sotto l’aspetto intellettuale è quello i cui prodotti sono soggetti a bassoo nullo riciclo di lavorazione, elemento, questo, su cui si tornerà più avanti (p. 79).

53 Il concetto di “gerarchia logica” non si riferisce a un’idea di razionalità aprioristica e astratta (che è un nonsense, perché la razionalità è per sua natura strumentale), ma all’esigenza di un ordine espositivo dei con-cetti adeguato a far comprendere il più agevolmente possibile allo specifico interlocutore cui il testo èdiretto il senso di ciò che si vuole affermare.

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IS-Solving, se pure suona strano, non sarebbe affatto inappropriato a rappresentare piùcompiutamente nella sua complessità il dinamismo intellettivo.

Attenzione particolare va posta al concetto di “strutturazione” di un problema54,ricordando il detto ricorrente secondo cui la soluzione di un problema sta in largamisura nel modo in cui lo si rappresenta. Di fatto, l’analisi delle grandi innovazioniscientifiche e tecnologiche mostra chiaramente che esse appaiono quando elementi cheerano già ampiamente noti vengono riconfigurati o ricombinati (cioè, appunto, struttu-rati) in un modo nuovo e inedito. Quali forme assume questa strutturazione o ristruttu-razione concettuale di un problema? Molto varie, e non è questa la sede per tentarneuna catalogazione. Ma per indicare qualche criterio valido a misurare la natura e la por-tata di questo fondamentale processo intellettivo, basterà qui osservare che la nostraesperienza conoscitiva consiste essenzialmente – ne siamo o no consapevoli – nell’or-dinare in classi (“classificare”, come si dice normalmente, o anche “categorizzare”) glioggetti che percepiamo (oggetto va preso in questo contesto in senso lato, in quantoinclude eventi, situazioni, rapporti tra persone, modelli di comportamento, eccetera). Ilpunto però è che la stessa entità può essere concepita come appartenente a classi diver-se. Un cubo di legno rosso55 si può considerare un componente della classe di tutti glioggetti rossi, della classe dei cubi, della classe degli oggetti di legno, della classe deigiocattoli, eccetera. Dipende in gran parte non da presunte “verità ultime, immutabili eoggettive” ma dalle circostanze contingenti e dalle opinioni storicamente dominanti ilfatto di prendere in considerazione, trascurare, preferire, temere, ecc. una attribuzionedi appartenenza di classe fra le tante possibili. Ma una volta che l’opinione dei piùabbia deciso che qualcosa ha un particolare significato o valore e si deve quindi inqua-drare in una classe piuttosto che in un’altra, è molto difficile accettare (e far accettare)che questo “qualcosa” venga invece fatto appartenere ad una classe diversa anche seugualmente valida. Nel superamento di questa difficoltà sta l’impresa o innovazioneintellettiva rappresentata dalla strutturazione o ristrutturazione di un problema, che ingenere si risolve appunto nello spostamento o cambiamento di “classe di appartenen-za” di un oggetto nel senso lato prima descritto. E l’innovazione intellettiva apre, a suavolta, la strada all’innovazione organizzativa (ciò già di per sé giustificherebbe lo spa-zio che in questo manuale viene dato all’analisi del dinamismo intellettivo), comeappare ad esempio in quella scelta decisiva di “cambio di classe di appartenenza” chesi effettua quando un oggetto (una data situazione) viene spostata dalla classe dei “vin-coli” a quella delle “opportunità”56.

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54 Herbert A. Simon, Le scienze dell’artificiale, trad. it. Bologna, il Mulino, 1988, p. 164.55 L’esempio è ripreso da P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fish, Change. Sulla formazione e la soluzione dei

problemi, trad. it. Roma, Astrolabio, 1974, p. 106.56 Esemplare, a questo proposito, il caso dell’IKEA, azienda svedese leader mondiale nell’arredamento dome-

stico, la cui idea di business si fondava in origine su una formula già abbastanza innovativa (la vendita perposta), ma che non era certo sofisticata come sarebbe poi diventata in seguito. In larga misura, il progetto dibusiness finale emerse dall’aver affrontato e gestito le avversità (cioè eventi inclusi nella classe dei “vinco-li”, per riprendere l’ordine di concetti esposto nel testo). Poiché il sistema di fornitura dei mobili esistente

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in Svezia metteva con le spalle al muro le aziende che producevano per l’IKEA, Ingvar Kamprad, il fonda-tore dell’azienda, dovette rivolgersi a dei produttori stranieri, scoprendo così i benefici del subappalto edel conferimento sistematico delle attività a dei contesti di produzione a basso costo (nella definizione delproblema di business dell’IKEA, questo fu il primo salto dalla classe dei vincoli a quella delle opportuni-tà). Ma non finì qui. Si racconta che quando venne aperto il primo magazzino IKEA, alla periferia di Stoc-colma, la fila di clienti era così lunga che l’azienda perse il controllo della situazione e la folla fece irruzio-ne all’interno per impossessarsi direttamente dei mobili esposti. Quell’evento venne poi riclassificato crea-tivamente e portò al trasferimento sistematico delle attività ai clienti. Oggi l’IKEA reclamizza nel catalogola sua business idea come divisione specifica del lavoro fra l’azienda e il cliente (il caso è descritto daRichard Normann nel libro Ridisegnare l’impresa. Quando la mappa cambia il paesaggio, trad. it. Milano,Etas, 2002, p. 72).

FOCUS: la ristrutturazione di un problema come chiave della sua soluzione

Sono molteplici gli esperimenti della ricerca cognitivista che dimostrano come lasoluzione di un problema (specie se complesso) possa talora scaturire o sia forte-mente facilitata non dall’acquisizione di nuovi dati ed elementi, ma da un’opportu-na ricombinazione o da una diversa rappresentazione di quelli già noti. Proprioquesto è ciò che si chiama “riformulazione del problema” (definita talora, nel lin-guaggio corrente, “colpo di genio”). Il vantaggio che ne deriva può essere, ad esem-pio, quello di mettere in luce – grazie alla “rotazione prospettica” operata – un iso-morfismo di base fra il problema in esame ed altri problemi già affrontati in passatoe della cui soluzione ormai si dispone. Un altro vantaggio (ma la casistica è assaivaria) derivante dalla riformulazione di un problema può essere quello di dissolve-re la gabbia di vincoli o di condizioni che il problema sembrava presentare (ma chein realtà non aveva) nella precedente prospettazione. Un caso del genere è costitui-to dal cosiddetto problema dei 9 punti (che è una versione più sofisticata del cele-bre problema dell’uovo di Colombo). Consiste nel collegare i 9 punti sotto rappre-sentati con quattro linee rette senza sollevare la matita dal foglio:

• • •• • •• • •

I punti, così come disposti, sembrano raffigurare un quadrato e questa rappresen-tazione, cui inconsapevolmente soggiace l’osservatore, induce a ritenere che lasoluzione si debba trovare tracciando le linee senza uscire dal quadrato stesso.Condizione, questa, che non è affatto richiesta dal problema e che tuttavia le per-sone alle prese con esso finiscono per autoimporsi, precludendosi così la possibi-lità di arrivare alla soluzione. Che è invece abbastanza facile, una volta sgombratoil campo da quella presupposizione non necessaria (la soluzione del problema èriportata più avanti).

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57 Il problema è ripreso, con qualche variazione solo nella forma narrativa, da J.M. Darley, S. Glucksberg, R.A. Kinchla, Fondamenti di Psicologia, trad. it. Bologna, il Mulino, 1998, p. 222. Nello stesso testo vienedescritto il problema dei 9 punti (p. 226), che è anche illustrato in P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fish,Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, cit., p. 41.

Ecco un altro caso: il problema del treno e del gabbiano, cui si riferisce l’immagi-ne di seguito riprodotta57.

Due stazioni di una linea ferroviaria della costa orientale dell’Australia distanofra loro 50 miglia. È un giorno di sabato del 1927. Alle 14 due treni partono dalledue stazioni l’uno in direzione dell’altro. Nell’istante in cui i due treni partono,un gabbiano spicca il volo dal primo treno verso il secondo. Quando il gabbianoraggiunge il secondo treno, torna indietro verso il primo e continua così finché itreni non si incontrano. Se entrambi i treni viaggiano a 25 miglia all’ora (la velo-cità è modesta e questo consentirà ai macchinisti di frenare in tempo, evitando loscontro fatale) e il gabbiano a 100 miglia all’ora, qual è la distanza percorsa dalgabbiano nel momento in cui i due treni si incontrano?

Soluzione del problema del treno e del gabbianoCome tutti i problemi reali, il problema appena esposto contiene una serie di det-tagli suscettibili di sviare o focalizzare “inopportunamente” l’attenzione, nel sen-so che possono condurre a impostare la questione in modo tale da renderne subi-to assai difficoltosa o persino impossibile la soluzione. A parte alcuni dettaglinon significativi di cui è facile sbarazzarsi subito (come la linea ferroviaria costie-ra, il fatto che sia in Australia, la partenza dei treni il sabato, ecc.), l’elemento“stregante” è rappresentato dal movimento di andirivieni del gabbiano da un tre-no all’altro che tende a far immaginare la soluzione del problema come il risulta-to di una complicata sommatoria dei tanti tratti di andata e ritorno che il gabbia-

100 miglia orarie

25 miglia orarie 25 miglia orarie

50 miglia

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no compie fino a che i treni non si incontrano. Un calcolo del genere apparequanto mai arduo, considerato che i tratti da sommare non sono uguali, ma viavia più piccoli mano a mano che i treni si avvicinano.Quale potrebbe essere una riformulazione del problema utile a facilitarne la solu-zione? Un suggerimento che viene dall’euristica è quello di intervenire sul cosid-detto stato iniziale del problema (euristica significa “metodologia di ricerca disoluzioni”; deriva dalla parola greca “heurísko” ‘trovo’. La mossa decisiva sta neltrasformare così la domanda di partenza: non più “qual è la distanza percorsa dalgabbiano?” ma “per quanto tempo volerà il gabbiano?”. Evidentemente voleràfino al momento in cui i treni si incontrano. E quando si incontreranno i treni? Seentrambi hanno un’identica velocità – 25 miglia all’ora – e la distanza fra le duestazioni è in tutto 50 miglia, è chiaro che passerà un’ora prima che i treni siincontrino a mezza strada: il treno A in un’ora avrà percorso 25 miglia e cosìanche il treno B. Sommati insieme i due tratti fanno 50 miglia, che è per l’appun-to la distanza fra le due stazioni. Ebbene: se i due treni viaggeranno in tutto perun’ora prima di incontrarsi, anche il gabbiano volerà per un’ora e poiché egli volaalla velocità di 100 miglia all’ora, la distanza percorsa dal gabbiano quando i trenisi incontreranno sarà proprio 100 miglia. Riformulando la domanda iniziale, lasoluzione è diventata molto facile. Qualcuno ha detto che per capire che unarisposta è sbagliata non occorre un’intelligenza eccezionale, ma per capire che èsbagliata una domanda ci vuole una mente creativa. Claude Lévi-Strauss, il gran-de antropologo francese, affermava che “lo scienziato non è l’uomo che forniscele vere risposte. È quello che pone le vere domande”.

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Soluzione del problema dei 9 punti

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1.3 La rilevazione del dinamismo intellettivo

Criteri di rilevazione

Nel processo che per comodità di sintesi abbiamo denominato con il neologismoProblem IS-Solving, la competenza intellettiva si può analizzare con sufficiente oggettivi-tà mediante criteri che individuino i diversi aspetti significativi dei prodotti tipici deiprocessi lavorativi in cui si è impegnati (risposte a quesiti, relazioni, appunti, note, ver-bali di verifica, motivazioni di atti quali ad esempio quelli di accertamento, ecc.). I criterida applicare sono tre: chiarezza ed efficacia, congruenza, innovatività.

Chiarezza ed efficacia

Cosa significhi “chiarezza” sembrerebbe domanda futile, tanto ne appare evidenteil senso. E parrebbe, del resto, paradossale che ad essere oscura sia proprio la nozione diciò che debba intendersi con la parola “chiaro”. Ma, ammesso che questo sia vero (forse,però, nulla è più vago e sfuggente di ciò che appare ovvio), come si fa ad oggettivare e“misurare” il concetto di chiarezza, almeno nel contesto di una organizzazione? Unadefinizione operativa di chiarezza, calibrata sulla pratica degli uffici, può essere questa:un testo è chiaro se il lettore cui è rivolto non vi inciampa ad ogni piè sospinto e non ècostretto perciò ad interromperne in continuazione la lettura, per chiedersi, fra lo smarri-to e l’irritato, cosa l’autore abbia “voluto dire”. Se il numero delle interruzioni (cui spes-so si accompagna l’apposizione energica di un punto interrogativo accanto ai paragrafid’inciampo) è nullo o è ridotto, il testo è molto chiaro o comunque abbastanza chiaro. Seil numero è invece alto, il testo è oscuro. In altri termini, come criterio oggettivo di misu-razione della chiarezza, si potrebbe introdurre il concetto di frequenza di stop di lettura,che sono le “oscurità” in cui inciampa il lettore scorrendo il testo58.

Ma perché viene fatto riferimento, nella definizione di chiarezza appena data, alconcetto di “lettore cui il testo è rivolto”? Perché non c’è un testo chiaro in assoluto. Lasua comprensibilità dipende dalla situazione specifica del destinatario, e cioè anzituttodalle conoscenze di cui questi dispone, ma anche dagli interessi da cui è mosso, dai pun-ti di vista che lo influenzano, dalle questioni che lo preoccupano. Prefiggersi l’obiettivodella chiarezza significa preliminarmente – se ne abbia o no consapevolezza – formulare

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58 Volendo fornire un’indicazione solo a titolo orientativo, si potrebbe aggiungere che, se non più del 5% deitesti prodotti dal valutato presenta stop di lettura, la sua prestazione di lavoro è assai apprezzabile sotto ilprofilo della chiarezza comunicativa. Naturalmente, è possibile che il testo che io, valutato, considerochiaro come acqua di sorgente (la capacità di autocritica è una difficile conquista personale) può sembrareinvece oscuro all’altro che lo legge (nella specie, al mio valutatore). Tutto questo però non inficia l’oggetti-vità della valutazione, se deve intendersi per oggettività ciò che è suscettibile di controllo intersoggettivo.E qui la possibilità di tale controllo c’è sicuramente. L’eventuale controversia sulla chiarezza del testo pro-dotto viene infatti ad ancorarsi ad una evidenza perfettamente controllabile da altri soggetti qual è appuntociò che il capo ha contrassegnato come “stop di lettura”. Sarà cura del valutatore, per corroborare i proprigiudizi, raccogliere un campione significativo di tali evidenze. Dopo di che, siccome non è lui solo a valu-tare, in caso di contenzioso si stabilirà, con le previste procedure di riesame della valutazione, chi ha tortoe chi ha ragione.

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una presupposizione su che cosa il destinatario del messaggio sappia già (o possa giàsapere) sui contenuti di quel messaggio o sappia già farne. Si dice che i grandi giornalistiamericani crescevano ad una scuola dura che aveva, tra le sue regole essenziali, quella discrivere “pensando al lattaio dell’Ohio”59. La regola comportava una chiara opzione difronte ad una scelta che è in ultimo etica: decidere su chi deve gravare prevalentementeil peso della fatica del pensiero. Sul lettore, obbligandolo ad addossarsi la fatica di com-prendere, o invece sull’autore, impegnandolo a caricarsi della fatica di spiegare (si sa,anche se talora lo si dimentica, che è molto facile essere oscuri e complicati, mentre èmolto difficile – cioè assai oneroso in termini cognitivi – essere chiari e semplici60). Cer-to quella regola era enfatica e, a pensarci bene, persino improponibile. Seguendola allalettera, gli articoli di quei giornalisti avrebbero dovuto avere un taglio troppo elementareper l’opinione colta cui pure si rivolgevano. Oppure avrebbero dovuto contenere – perfar capire tutto al lattaio – chiose e spiegazioni di ogni genere, finendo così per risultarepesanti e noiosi (cosa che nessun giornalista di razza è disposto ad accettare). E tuttavial’ideale regolativo di chiarezza predicato da quella scuola funzionava. Ne sono testimo-nianza articoli di straordinaria bravura, che affrontavano con acume e profondità argo-menti complessi e importanti e, al tempo stesso, venivano unanimemente giudicatimodelli di prosa cristallina. Un giudizio analogo circondava e circonda gli scritti di Hans

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59 Il motto: “Cerco di scrivere in modo che mi possa capire anche un lattaio dell’Ohio” era di Webb Miller, ungiornalista dell’United Press, una delle più grandi agenzie di stampa del mondo. Miller è famoso per unsuo articolo, che ebbe risonanza vastissima, sulla spietata repressione da parte della polizia colonialeinglese di una manifestazione non violenta organizzata in India dal movimento di Gandhi. Il 21 maggio1932, mentre Gandhi era in carcere, presso le saline di Dhrasana duemilacinquecento manifestanti guidatida una donna, Sarojini Naidu (era una poetessa cui Gandhi aveva affidato la direzione del movimentomentre era in carcere), si avvicinarono pacificamente alla polizia. D’improvviso, a un ordine secco, schieredi poliziotti si gettarono sui manifestanti e cominciarono a colpirli con manganelli rivestiti di acciaio. “Dadove mi trovavo” – scrisse Webb Miller – “udivo il suono tremendo dei randelli sulle teste non protette. Lafolla dei dimostranti in attesa guardava la scena, gemendo e trattenendo il respiro, sentendo su di sé ognisingolo colpo. Quelli caduti a terra giacevano privi di sensi o si torcevano con il cranio fratturato e le spallespezzate. Quelli ancora incolumi, senza rompere i ranghi, continuarono silenziosamente ad avanzare fin-ché furono tutti abbattuti. Marciavano compatti, a testa alta, senza l’incoraggiamento della musica e degliapplausi e senza alcuna possibilità di potersi sottrarre a gravi ferite e forse alla morte. La polizia arrivava aondate e metodicamente colpiva una colonna dopo l’altra. Non ci fu battaglia, né lotta, essi avanzavanosemplicemente fino a quando cadevano. La polizia cominciò a prendere selvaggiamente a calci gli uominiseduti per terra, colpendoli all’addome e ai testicoli. Alle undici del mattino il caldo era arrivato a 46 gradie l’assalto si placò”.Miller andò nell’ospedale dove erano ricoverati i feriti, molti ancora privi di sensi, altri che si torcevanodal dolore: ne contò 320, due erano morti. Le autorità inglesi vinsero la “battaglia” ma la storia di quell’epi-sodio fece il giro del mondo, perché Miller scrisse un servizio che fu ripreso da oltre mille giornali in Ame-rica e all’estero. La violenza della polizia inglese sollevò l’indignazione generale, persino in Inghilterra. Intutte le regioni dell’India riaccese il risentimento più profondo e rese ancora più determinata la lotta perl’indipendenza. Alla fine i vincitori risultarono i perdenti e gli sconfitti vinsero. Dietro quella vittoria c’erastato anche il lavoro onesto e coscienzioso di Webb Miller, il giornalista che scriveva pensando a come far-si capire anche da un lattaio dell’Ohio.

60 C’è una frase di Galileo, riportata in epigrafe alla prefazione del Manuale di scrittura amministrativa del-l’Agenzia delle Entrate, che dice così: “Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro, pochissimi”.Il manuale è pubblicato nel sito web dell’Agenzia: http://www.agenziaentrate.it/ilwwcm/connect/Nsi/Documentazione/Pubblicazioni/Le+guide+dell%27Agenzia/Guide+anni+precedenti/2005/scrittura+amministrativa.

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Kelsen, considerato da molti il più grande giurista di tutti i tempi. Riusciva ad esprimerecon grande nitidezza concetti ardui e difficili rendendoli comprensibili anche a un pub-blico di non specialisti. Se ne può trarre un secondo criterio di misurazione della chia-rezza. Quando l’argomento affrontato è complesso, e ciò nonostante l’autore, senza con-cessioni e sconti sul piano del rigore e della precisione, riesce a farsi capire anche da let-tori non specialisti, allora questo è un segno di grande chiarezza61.

Passiamo ora alla nozione di “efficacia”. La domanda è se essa coincida o no con la“chiarezza”. Ad una prima analisi le due parole sembrerebbero equivalenti, quasi a for-mare una semplice endiadi. Se lo scopo dell’autore è infatti quello di riuscire a far capireal lettore ciò che intende comunicargli, un testo chiaro raggiunge sicuramente tale scopoe quindi, in questo senso, è efficace. Ma si può anche sostenere che l’efficacia è qualcosadi più rispetto alla chiarezza. Un testo è chiaro se non fa inciampare il lettore e lo lasciaprocedere spedito sino alla fine. È efficace se riesce ad “avvincerlo” subito e a catturarnel’attenzione sino al termine della lettura. In un certo senso, la chiarezza è la comprensibi-lità vista in negativo (assenza di fattori di ostacolo alla comprensione), l’efficacia è lacomprensibilità vista in positivo (presenza di fattori di rinforzo della comprensione). Aparità di chiarezza, un testo efficace impegna per meno tempo la risorsa scarsa dell’atten-zione del lettore, ma viene compreso più rapidamente e riesce a rimanere impresso assaipiù a lungo nella memoria. Se si afferma, ad esempio, che nelle famiglie i contrasti trafratelli sono quasi sempre più accesi di quanto non siano quelli fra estranei, si formulaun enunciato sicuramente chiaro (che, ovviamente, potrà essere o no condiviso a secon-da dei punti di vista). Ma se poi si citasse, in alternativa o anche in aggiunta, il detto diTotò secondo cui “i parenti sono come le scarpe: più sono stretti e più fanno male”, eccoche l’enunciato, oltre ad essere chiaro, sarebbe anche assai efficace, per come riesce acalamitare l’attenzione di chi ascolta e a rimanervi impresso. Non si insisterà mai abba-stanza sull’importanza che assume in un’organizzazione la capacità di comunicare conincisività (in questo contesto tale parola è un sinonimo di “efficacia”). Il bene più scarsoè alla fine proprio il tempo, e quello dei capi lo è ancora di più. Il funzionario bravo èquello che riesce a comunicare economizzando al massimo e col maggiore beneficio pos-sibile la limitata “risorsa di attenzione” di cui il proprio capo dispone62.

Si può apprendere a comunicare con chiarezza ed efficacia? Sicuramente sì, senzaper questo voler negare l’influenza di possibili predisposizioni individuali (ma Flaubertdiceva che il lavoro di uno scrittore è solo per il 10% ispirazione e per il restante 90% èsudore). In un’amministrazione pubblica il registro comunicativo è quello dell’informa-

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61 In un contesto organizzativo, questo significa che un testo è molto chiaro se il valutatore, pur sapendonemolto meno, nello specifico argomento, del funzionario che lo ha redatto riesce lo stesso a seguire agevol-mente il filo dell’esposizione, senza essere costretto a ricostruirselo tutto da sé, mettendo mano all’interadocumentazione contenuta nel fascicolo.

62 Si è appena detto che l’efficacia è qualcosa di più della chiarezza. È possibile che a volte sia qualcosa dimeno? In altri termini: si può essere efficaci senza essere chiari? Purtroppo sì. Il messaggio di imbonimento(ai più diversi fini) e la prosa oracolare, che spesso riescono a fare straordinaria presa sui destinatari, stan-no a dimostrarlo. Fortunatamente si tratta di forme di comunicazione interdette alle amministrazioni pub-bliche (che non è detto, tuttavia, rispettino sempre tale divieto).

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zione e della argomentazione, che richiedono essenzialmente conoscenza e capacità diapprendere e ragionare, qualità fortunatamente assai più diffuse e comuni di quanto nonsia, ad esempio, la disposizione all’inventio letteraria, indispensabile per altri registricomunicativi, quali la narrativa, la poesia, ecc. (anche se pure queste forme espressivesono almeno in parte suscettibili di apprendimento, come dimostra, ad esempio, l’esi-stenza di scuole di scrittura creativa). Si tratta di praticare, individualmente e collettiva-mente, un lavoro paziente e metodico di affinamento della scrittura, confrontandosi conle best practice (i testi additabili come modelli di chiarezza e di efficacia) e le worst prac-tice (le pratiche comunicative oscure, astruse e farraginose).

Denotano un marcato orientamento alla chiarezza e all’efficacia:• l’attenzione ad evitare costruzioni di frasi goffe, pesanti, sgraziate e maldestre, che

denotano l’assenza più o meno grave di scioltezza espressiva ed urtano la sensibilitàdel lettore attento ed esigente (rientra, ovviamente, nel canone appena indicato ancheil rispetto delle regole grammaticali e sintattiche, la cui osservanza costituisce il requi-sito minimo della scorrevolezza discorsiva);

• la ricerca della ricchezza e della brillantezza espressiva (importante, a questo riguardo,è l’uso intelligente delle metafore, che può aiutare a rappresentare le cose con imme-diatezza ed espressione vivida), senza indulgere a leziosità, divagazioni ed abbelli-menti discorsivi, ed evitando tecnicismi ed espressioni burocratiche non strettamentenecessari nel contesto di riferimento;

• lo sforzo di capire quale sia, nella specifica questione affrontata, lo stato delle cono-scenze del destinatario del testo (tale elemento è indispensabile per stabilire doveoccorre insistere e dove si può invece sorvolare) e di comprenderne il punto di vista,gli interessi, i possibili interrogativi e le attese, in modo da prevenire fraintendimenti edirigere opportunamente l’attenzione del lettore sui punti cui si annette maggiore rile-vanza, facendogli capire subito “dove si vuole andare a parare”;

• la cura attenta del ritmo e dei tempi nella modulazione del flusso informativo e nellascansione del percorso argomentativo, evitando di abbondare, là dove occorre invecesfrondare, e di tirare invece via frettolosamente, là dove, al contrario, occorre soffer-marsi (due sono gli errori da cui occorre specialmente guardarsi: un affastellamento didettagli che, nello specifica situazione comunicativa, sono inutili e irrilevanti e produ-cono solo l’effetto di stancare il lettore sovraccaricandone la memoria di lavoro esviandone l’attenzione oppure un’omissione di spiegazioni e di particolari che, nelcontesto comunicativo, sono invece indispensabili al destinatario o servono comun-que ad agevolargli la comprensione del testo)63.

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63 Come per ogni altra caratteristica, anche la chiarezza e l’efficacia sono descrivibili, oltre che in positivo,anche in negativo, nel senso che accanto alle manifestazioni della presenza di tali qualità, si possono evi-denziare anche quelle della loro assenza. In questo senso un testo privo di chiarezza e di efficacia si carat-terizza per l’inconfondibile “effetto melassa” generato al suo interno dal goffo affastellamento di concettimal definiti o solo appena abbozzati, che denotano scarsa padronanza della materia o comunque povertà diriflessione.

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Congruenza

È un’ampia categoria valutativa che riguarda il processo di combinazione delraziocinio e delle conoscenze, ossia il processo mediante il quale la logica viene appli-cata alle conoscenze di cui si dispone. Comprende giudizi di uso comune come “illogi-co” oppure “poco sensato” oppure ancora “sbagliato”. In sostanza, quando si parla di“congruenza”, ci si riferisce sia alla “défaillance” sotto il profilo strettamente logico(l’esempio più vistoso è la contraddizione), che allo “strafalcione” sotto il profilo cono-scitivo (tipico indice di un difetto di sapere tecnico). Come si è più volte osservato, ilmetodo utilizzato nella costruzione del modello Antares non è quello di “inventare”categorie valutative, ma semmai di “scoprirle”, cioè di far emergere dall’esperienza quo-tidiana, scavandovi dentro con l’analisi e la riflessione, categorie valutative già di fattopraticate e che richiedono però di essere depurate da connotazioni meramente soggetti-ve nella loro genericità, approssimazione ed ambiguità (è il concetto di “codificazionedi saperi e vissuti quotidiani” cui si è fatto riferimento nella introduzione a p. 14). Nonappena si incomincia questo “scavo riflessivo”, appare subito evidente che quando siafferma, molto sbrigativamente, che il concetto di “bravura professionale” è fatalmentesoggettivo, l’indicatore “congruenza” sta lì a dimostrare che quell’affermazione contrad-dice la quotidiana esperienza di lavoro. Un accertamento fiscale ben costruito e argo-mentato, che ha ottime probabilità di resistere in sede contenziosa, si distingue netta-mente da un accertamento mal motivato che gli stessi interessati si vergognano di anda-re a difendere in commissione tributaria.

Riassumendo, ragionare in modo congruente significa:a) in negativo, evitare incoerenze logiche nell’argomentazione o comunque affermazioni

che – pur senza costituire vere e proprie contraddizioni – risultino però scarsamenteplausibili in termini di ragionevolezza (ad es. le generalizzazioni indebite o le affer-mazioni arbitrarie) oppure – sic et simpliciter – errate in quanto contrastanti con dati onozioni di comune evidenza o che si sarebbe comunque tenuti a sapere per il ruoloricoperto;

b) in positivo, produrre prove e inferenze valide e pertinenti. In altre parole, costruiredimostrazioni che “filino” sotto il profilo logico e che siano appropriate alle questioniin esame.

La “congruenza” non va ovviamente confusa con la “chiarezza”: quest’ultimasignifica comunicare in modo tale da far capire subito quello che si vuole dire. Se poiquello che si dice è anche congruente, è questione diversa64.

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64 È opinione comune che la scarsa chiarezza serva spesso, se non a celare l’illogicità o l’inconsistenza delproprio discorso, quanto meno a premunirsi dal rischio che qualcuno possa agevolmente scorgervi pecchedi tal genere. Per questa ragione, nelle organizzazioni che premiano a fatti e non a parole l’assunzione (nontemeraria ma responsabile) di rischi e il coraggio (senza l’una e l’altro non v’è possibilità di autentica inno-vazione), l’abitudine alla chiarezza è un comportamento che merita sempre e comunque di essere apprez-zato e incoraggiato.

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Espressioni significative di “congruenza” nei diversi tipi di attività

Nelle attività tecnicamente più complesse, una delle espressioni più apprezzabilidi congruenza è l’organicità e la completezza dell’output, mentre nelle altre attività ciòche in genere fa la differenza è l’accuratezza del lavoro. Analizziamo più in dettaglioquesti subindicatori.

• Organicità e completezzaNei lavori di maggiore complessità (ad esempio, nell’interpretazione di norme

fiscali o nella redazione di atti di accertamento di particolare rilevanza), l’indicatore“congruenza” raggiunge valori elevati se il prodotto nella sua impostazione complessivapresenta caratteristiche significative di organicità e completezza o, per usare termini con-cettualmente affini, di sistematicità e di profondità. In un testo, queste caratteristichesono rilevabili nell’impianto complessivo del discorso (essenziale è la strutturazionenitida dei problemi affrontati), nell’ordine di successione delle parti che lo compongono,che non deve presentare “salti logici”, “omissioni o cortocircuiti argomentativi”, “ripeti-zioni” non giustificate da esigenze comunicative di ridondanza65, nella esaustività dellatrattazione, che affronta e approfondisce tutti gli aspetti rilevanti delle questioni cheandavano esaminate, soppesando, con rigore e scrupolo critico, punti di forza e di debo-lezza delle diverse tesi in gioco. La completezza del prodotto è un indice significativodell’elevata competenza tecnica e della padronanza del mestiere.

Per citare invece esempi in negativo, difetta di completezza un lavoro in cui – più omeno bellamente e abilmente – si è trascurato, ad esempio, di prendere in considerazioneobiezioni significative alle proprie tesi. Rivelano, inoltre, carenza di completezza le sempli-ficazioni banali e le analisi superficiali (ne costituiscono esempio i documenti in cui galleg-giano come relitti – cioè senza precise relazioni tra loro – concetti vaghi, generici, sfocati osolo appena abbozzati). Proseguendo nell’inventario dei difetti, denotano assenza di organi-cità eventuali bilanciamenti maldestri delle diverse componenti del discorso (viene datospazio prevalente o comunque eccessivo ad argomenti o considerazioni che ne meriterebbe-ro invece di meno nell’economia del discorso stesso), loop logici, cioè andirivieni che fannoperdere il filo del discorso, imbrogliandone l’ordito e stordendo il lettore, che avverte unasensazione penosa di “confusione” e di “mancanza di lucidità” (un prodotto che difetta gra-vemente di organicità e sistematicità è quello che solitamente viene definito “un guazzabu-glio senza capo, né coda”). C’è una coppia di aggettivi che inquadra bene la contrapposizio-ne fra ciò che è organico e sistematico e ciò che non lo è: compatto versus sfilacciato.

• AccuratezzaUn’elevata “congruenza” si manifesta anche nella particolare accuratezza del lavoro,

cioè nella precisione e nella cura dei dettagli (assenza di errori, sbavature o imprecisioni,

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DIZIONARIO DELLE COMPETENZE

65 In testi che affrontano argomenti complessi o poco noti, la ripetizione opportunamente cadenzata e distan-ziata dei punti chiave del discorso serve a rendere più agevole la comprensione e l’assimilazione dei con-cetti; le ripetizioni invece non necessarie, oltre ad essere talora anche “brutte”, frastornano la mente deldestinatario che non capisce se l’autore stia dicendo – inutilmente – sempre la stessa cosa o se stia invecetentando di enunciare – male – qualcos’altro.

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che, per quanto non essenziali, possono trasmettere nel destinatario un’impressione negati-va di sommarietà, approssimazione e perfino sciattezza nel modo di lavorare). L’accuratez-za è particolarmente importante nelle attività che, seppure non presentino profili di consi-derevole complessità tecnica, assumono grande rilevanza per l’ampiezza della platea deidestinatari (sono tali, ad esempio, in misura significativa, le attività di front-office e diback-office svolte dagli uffici locali). In queste attività, insomma, la maggiore o minore con-gruenza si rileva fondamentalmente attraverso la maggiore o minore accuratezza con cui illavoro è stato eseguito. Senza timore di esagerare, si può tranquillamente sostenere che dal-l’accuratezza con cui sono svolte tali attività dipende molto l’immagine di efficienza deiservizi dell’Agenzia.

Innovatività

Riguarda la dimensione “creativa” del pensiero e sta a significare che il prodotto ècaratterizzato da elementi significativi di novità (nelle ipotesi sostenute, nelle argomen-tazioni svolte, nelle conclusioni finali, ecc.) rispetto a precedenti soluzioni. Mentre lachiarezza e la congruenza sono requisiti necessari del prodotto, non ha senso pretenderesempre che l’output sia anche innovativo. L’innovatività opera quindi solo in positivo. Inaltre parole, se il prodotto presenta caratteristiche significative di innovatività, viene adesserne ulteriormente valorizzata la prestazione. In caso contrario non se ne tiene conto.

Indicatore sintetico di qualità

Accanto ai criteri analitici di rilevazione qualitativa sopra descritti, c’è un indicatoresintetico della qualità di un prodotto, ed è quello del riciclo di lavorazione (vi si è fatto giàcenno a p. 68). Così come in una fabbrica l’indicatore di un lavoro mal fatto è la necessità diricicli di lavorazione del prodotto, così, negli uffici, una pratica fatta male è quella cherichiede anch’essa “ricicli di lavorazione”, e cioè riscritture e rimaneggiamenti più o menoestesi, sia dal punto di vista del contenuto che dal punto di vista della nitidezza espositiva (aquest’ultimo proposito, il Manuale di scrittura amministrativa dell’Agenzia delle Entrateoffre chiari e oggettivi criteri di cosa sia un atto o un documento ben scritto). Dalla frequenzadei ricicli di lavorazione, e da quanto sono estesi e profondi, dipende la maggiore o minorequalità del prodotto. Il concetto di “riciclo di lavorazione” consente di trasformare apprezza-menti qualitativi in dati quantitativi, rafforzando l’oggettività del processo valutativo.

Il fattore “complessità del lavoro”

Come analizzare la complessità del lavoro

Nell’esaminare la competenza intellettiva, ci si potrebbe chiedere se gli indicatorisopra specificati non debbano contare di più, quanto più complesso è il lavoro da svolge-re. Un’ipotesi potrebbe, ad esempio, essere quella di moltiplicare il punteggio della pre-stazione lavorativa per un coefficiente di complessità a più livelli (ad esempio, basso,medio, alto, molto alto), stabilito in ragione delle singole tipologie di prodotto e del con-testo di lavoro, in modo tale che la chiarezza e l’efficacia, la congruenza e l’innovatività

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del prodotto finiscano per valere di più, quanto maggiore è la complessità del lavoro pro-prio della funzione ricoperta.

L’ipotesi può sembrare a prima vista plausibile, ma, a rifletterci un po’, ci si accorgeche non lo è affatto. Essa infatti equivale a sostenere che, se un alunno di una scuola ele-mentare prende, ad esempio, 9 per un dettato senza errori, allora uno studente di unliceo dovrebbe, in proporzione, prendere almeno 18 per una traduzione da una linguastraniera anch’essa priva di errori (immaginando, in questo caso, che il rapporto di com-plessità fra un dettato e una traduzione sia di 1 a 2). In realtà, non c’è nessun bisogno diadottare scale valutative diverse in ragione della complessità del compito da eseguire. Sipuò tranquillamente dare 9 sia all’alunno della scuola elementare che allo studente delliceo (come del resto si è fatto sempre), senza per questo creare alcuna ingiustizia oincongruenza. L’identità del voto sta a significare che l’alunno e lo studente sono entram-bi molto bravi, ma si tratta di due manifestazioni di bravura che hanno significato edeffetti diversi, perché diversa è la posizione in cui si trovano gli interessati (una cosa èfrequentare una scuola elementare, un’altra è frequentare un liceo).

L’ipotesi prima prospettata (modificare il calcolo del punteggio della prestazionelavorativa in funzione della complessità dei compiti propri del ruolo ricoperto) non puòessere quindi accolta. Essa, oltre a complicare la procedura di valutazione della presta-zione di lavoro, presenta un’incoerenza di fondo, poiché tende a mischiare l’aspetto del-la valutazione della prestazione eseguita (cioè la valutazione di come si è eseguito il pro-prio compito), con quello della prestazione richiesta (cioè la valutazione del cosa va fat-to, ovvero del compito da eseguire in relazione alla specifica posizione ricoperta). Si trat-ta di due aspetti che vanno invece tenuti distinti.

Una soluzione che non incorra negli inconvenienti appena accennati e che, al tem-po stesso, dia adeguato riconoscimento alla bravura di chi esegue lavori complessi, puòessere questa:a) stabilire che, nel calcolo del punteggio della prestazione di lavoro, va attribuito un

peso maggiore all’aspetto qualitativo della prestazione rispetto a quello quantitativo(la qualità è tanto più importante, quanto più complesso è il lavoro da svolgere);

b) prevedere che la prestazione qualitativamente superiore comporta per l’interessato van-taggi suppletivi, sia in termini retributivi che di sviluppo professionale, quando vengaresa in posizioni che comportano lo svolgimento di attività di lavoro ad alta complessità.

Come definire la complessità del lavoro

Nei discorsi che riguardano la classificazione dell’attività di lavoro, “complesso” e“complessità” sono sicuramente fra i termini più ricorrenti. Per la loro importanza, èbene cercare di dare a questi termini un significato meno sfuggente di quello che normal-mente hanno. Come al solito, seguendo l’impostazione metodologica del manuale, non sitratta di “inventare” nuovi significati forzando l’uso linguistico ordinario, ma di faremergere, grazie all’analisi riflessiva, significati già di fatto da sempre praticati.

Per fare questo, conviene partire dall’affermazione comune secondo cui lavorare è,essenzialmente, risolvere problemi di lavoro. Del resto, è proprio attorno al concetto di “pro-

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blema” che si è dipanata tutta la riflessione sul dinamismo intellettivo svolta nelle pagineprecedenti. Ora, qual è una classificazione molto ricorrente dei problemi di lavoro? Quella fraproblemi di routine e problemi non di routine. Un problema non di routine è un problemaper cui non vi sono (o vi sono soltanto in misura non determinante per il caso in esame) solu-zioni standard, cioè soluzioni che possono essere ricavate da “precedenti” consolidati (daquesto punto di vista, i problemi di routine si potrebbero anche definire problemi standard).

Ora, se è vero che tutto ciò che non è routine è complesso, sarebbe sbagliato crede-re che sia invece semplice tutto ciò che è routinario. Una cosa, infatti, è la routine di unacatena di montaggio in una fabbrica di bulloni e un’altra è la routine di una sala operato-ria in un centro di trapianti di cuore. In entrambi i casi si applicano routine ben collauda-te e sperimentate, ma una differenza c’è, ed anche notevole. Nel secondo caso si trattainfatti, a differenza del primo, di routine che presuppongono un processo di apprendi-mento lungo e gravoso e la cui esecuzione richiede profonda concentrazione e notevoleimpegno mentale (ma anche grande controllo della manualità nel caso di alcune profes-sioni come quella del musicista o del chirurgo).

In altre parole, le routine non sono tutte uguali. Nell’Agenzia delle Entrate ce nesono di facili e di difficili, e la difficoltà è connessa:• al tipo, all’ampiezza e alla profondità del know-how di cui occorre aver padronanza

per eseguire le routine stesse (know in inglese significa “sapere”, mentre how significa“come”, sicché know-how – parola che non ha un preciso corrispettivo in italiano – èla capacità di applicare operativamente il proprio sapere);

• allo sforzo mentale occorrente per l’esecuzione di quelle routine.

Abbiamo a questo punto due coppie di concetti – facile/difficile e standard/nonstandard – che ci consentono una prima rappresentazione d’insieme della nozione di“complessità del lavoro”.

Quadrante della complessità del lavoro

DifficileStandard+ -

DifficileNon standard+ +

FacileStandard- -

FacileNon standard- +

+

– Standard Non standard +

Capacità ideativa & abilitàargomentativa

Know

-how

Imp

eg

nointe

llettivo

Diffic

ileFa

cile

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Se, per brevità, denominiamo la coppia di concetti “standard/non standard” come“varianza” e passiamo dal piano grafico a quello dell’analisi discorsiva, la complessitàdel lavoro può essere vista come l’effetto combinato di due variabili, fra loro collegate,della prestazione lavorativa:• varianza dei compiti;• difficoltà dei compiti.

Varianza dei compiti

Un lavoro complesso può essere considerato, in primo luogo, come un lavorocaratterizzato da “varianza dei compiti”. L’espressione non sta a indicare “compiti dicontenuto vario” (un lavoro non diventa complesso per il fatto che comprende tanteattività, ma tutte semplici). Compiti che hanno la caratteristica della “varianza” sonoquelli in cui è vario il modo di darvi esecuzione, nel senso che questa non è predetermi-nata, né predeterminabile mediante schemi rigidi, ma prende di volta in volta formaconcreta solo grazie ad uno sforzo di inventiva e di originalità più o meno intenso.Come sinonimo di “varianza di compiti” si usa talora, in questo contesto, anche l’e-spressione “incertezza dei compiti”, che – analogamente – non sta a significare “compi-ti di contenuto incerto” (vale a dire che non si sa bene cosa siano), bensì compiti di cui èincerto il modo di darvi esecuzione, nel senso che non è mai perfettamente tracciato, nétracciabile a priori – risultando così, per l’appunto, “incerto” – il percorso da compiereper la loro attuazione. Il compito, ad esempio, di definire politiche generali in questa oin quella materia è in sé concettualmente chiaro, ma assume concreta determinatezzasolo attraverso una elaborazione intellettuale che non si risolve, né si può risolvere, inoperazioni di tipo “copia e incolla”.

Volendo mettere ulteriormente a fuoco il concetto, si potrebbe partire da un’imma-gine, quella dell’organizzazione come una scala, più o meno lunga, in cima alla quale sidefiniscono indirizzi e linee guida generali, che, scendendo di gradino in gradino, si van-no sempre più dettagliando, fino ad arrivare, giunti in fondo alla scala, al gradino dove cisi limita alla più o meno meccanica esecuzione di semplici routine o di ordini elementa-ri. In cima alla scala la varianza dei com-piti, nel senso appena detto, è massima,mentre alla base è minima.

Per quanto questa visione possarisentire della tradizionale concezionedell’organizzazione come piramide gerar-chica, è un fatto che, a seconda dei ruoliricoperti, significativamente assai diver-so può essere lo “spazio di varianza” dagestire. Non c’è dubbio – per usare un’al-tra metafora dopo quella della scala – cheanche il solo limitarsi a seguire segnaliindicatori ben precisi non sarà mai un’o-

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perazione puramente passiva: in un sentiero, seppure ben tracciato, ci possono ugual-mente essere buche da evitare, sassi da scansare, terreno sdrucciolevole da aggirare, ecc.Tutt’altra cosa è però costruire e piantare cartelli e segnali indicatori in un ambiente pernulla stabile e caratterizzato anzi da elevata turbolenza, qual è quello in cui in genere simuovono gli interpreti e gli operatori del diritto tributario.

In breve, c’è varianza quando gli output richiesti dal ruolo (atti, provvedimenti,contratti, pareri, stesura di rapporti, relazioni ed appunti, ecc.) o la dinamica della loroproduzione non sono routinari o comunque lo sono solo limitatamente e non in modorilevante (invece di output “routinario”, si può anche dire – sono tutti sinonimi ricorren-ti – “standardizzabile”, “proceduralizzabile”, “predeterminabile”, “strutturabile”, ecc.).Un lavoro ad alta varianza (o incertezza) è un lavoro per il quale l’organizzazione preten-de dal titolare del ruolo elevata autonomia di pensiero, con la conseguente impossibilitàper l’interessato di agire come semplice esecutore66.

Indicativamente, si possono distinguere nell’Agenzia delle Entrate quattro livellicrescenti di varianza dei compiti:• esecuzione di istruzioni semplici;• attuazione di procedure operative;• applicazione di norme (quella che i giuristi chiamano “sussunzione” di casi sotto una

regola di cui è stato previamente chiarito il significato);• attività di:

– interpretazione di norme (“sussunzione” di casi sotto una regola di cui occorre inve-ce ancora chiarire il significato67 in relazione alle fattispecie concrete rispetto allequali occorre provvedere);

– partecipazione al processo di “fabbricazione” delle norme;– produzione di direttive e istruzioni generali;– investigazione operativa nei campi d’indagine non di routine.

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66 La nozione di “varianza dei compiti” corrisponde a quella che nella metodologia Hay di pesatura delleposizioni viene definita Thinking Environment (Thinking = pensiero e Environment = ambiente), ossia ilcontesto entro cui è chiamato ad operare il pensiero. Dalle caratteristiche del Thinking Environment dipen-de, a sua volta, la Freedom to Think (libertà del pensiero). Il concetto è che in relazione alla tipologia dicompiti che fanno carico all’interessato nell’ambiente in cui egli opera, l’organizzazione esige da lui, inmisura più o meno intensa, capacità di elaborazione intellettuale e quindi Freedom to Think. Il termine“libertà” non deve qui indurre in equivoci. La “libertà” non è un capriccio che viene graziosamente con-cesso al titolare del ruolo, ma una responsabilità di cui egli deve farsi carico. La “libertà del pensiero” sirisolve nell’imperativo: “Non chiedermi ad ogni passo cosa devi fare e come devi muoverti! Sei tu che devistabilirlo, sforzandoti di pensare”. Nelle vecchie organizzazioni basate su automatismi burocratici si erasoliti dire: “Non sei pagato per pensare!”. La “varianza dei compiti” comporta invece che si venga appunto“pagati per pensare”.

67 Chiarire il significato di una norma significa essenzialmente risolverne gli eventuali elementi di ambiguitàe vaghezza, delucidando il reticolo di obblighi, divieti, permessi e facoltà che vi sono connessi nelle diver-se situazioni in cui la norma stessa si applica (obbligo = cosa si deve fare; divieto = cosa non si deve fare;facoltà = cosa si può fare; permesso = cosa si può non fare). Usando la terminologia dei giuristi, lo si puòchiamare il “reticolo deontico” (derivato dal greco “deon” = dovere. Si parla anche di “logica deontica” perindicare quella parte della logica che analizza gli enunciati normativi che esprimono appunto l’obbligo, ildivieto, il permesso o la facoltà di compiere determinate azioni).

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Quanto più elevata è la varianza dei compiti, tanto maggiore è la “sfida intelletti-va”68 cui deve far fronte l’interessato e quindi l’abilità ideativa e la capacità di invenzio-ne argomentativa di cui deve dar prova. Il concetto di varianza dei compiti riguarda icontenuti oggettivi della prestazione richiesta, mentre il concetto di sfida intellettivariguarda l’aspetto soggettivo della prestazione eseguita, e cioè le conoscenze e capacitàche il soggetto deve possedere ed esprimere per eseguire al meglio la prestazione attesa.

C’è sfida intellettiva laddove vi siano attività nelle quali, come si dice in gergo,“mancano i precedenti” o è molto limitata la possibilità di farvi ricorso (non ci sono – osono poco significativi nell’economia complessiva del lavoro – passaggi procedurali che èpossibile ripetere meccanicamente o con qualche minima variazione, e ci sono invecesempre nuove obiezioni da affrontare, nuovi dati di fatto da interpretare, nuovi rapporticoncettuali da istituire, ecc.). In altri termini, non ci sono soluzioni predeterminate (“bellee pronte”) da mutuare o da adattare con minime variazioni, ma ci sono invece soluzionida inventare o da assemblare con interventi modificativi rilevanti. I giudizi che general-mente segnalano l’incapacità di qualcuno a svolgere attività di questo tipo sono: “Di frontealla novità si perde” o “È capace solo di riempire stampati” o anche “Se non lo si imbocca,si blocca” o ancora “Cammina con i paraocchi”, ecc. Le attività dove non funziona o fun-ziona male il richiamo al precedente sono quelle ove sorgono problemi che non hanno“the right answer” (per usare l’efficace formula della metodologia Hay), cioè che non han-no “una e una sola risposta giusta”, ma ammettono più alternative, di ognuna delle qualioccorre soppesare pro e contro, senza possibilità di individuarne una che massimizzi tuttii vantaggi e minimizzi tutti gli svantaggi (tale sarebbe appunto “the right answer”).

Come si affronta la sfida intellettiva? In una organizzazione – e tanto più in unaorganizzazione pubblica – non è consentita l’adozione di scelte arbitrarie, ma è richiestauna costruzione argomentata della soluzione del singolo caso. Tale costruzione è ciò chegeneralmente si chiama “motivazione” (il termine è qui usato in senso ampio: non desi-gna solo la motivazione di un provvedimento, ma, più in generale, la dimensione argo-mentativa di un atto o di una condotta). Un’attività intellettualmente sfidante è quella incui non ci si può adagiare su schemi precostituiti, ma neppure sono consentite decisioniarbitrarie. L’unica scelta consentita – anzi obbligata, data l’impossibilità di sfruttarecomodamente un qualche precedente – è quella di “ragionare bene con la propria testa”.

In generale, comportano un’elevata sfida intellettiva le attività per le quali sonorichieste un alto livello di competenza linguistica e di abilità argomentativa, qualità, que-ste, che tipicamente si combinano nella capacità di elaborare motivazioni calibrate sullapeculiarità del singolo caso (rientra, ad esempio, fra tali attività, come già detto, l’inter-pretazione normativa, per la quale è richiesta, oltre ad una solida e approfondita prepara-zione, una notevole capacità di “tradurre pensieri per iscritto”, abilità, questa, ove ilmero ricorso al precedente non è di significativo ausilio ed anzi porta non di rado a solu-zioni “posticce”).

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68 Nella metodologia Hay di pesatura delle posizioni “sfida intellettiva” corrisponde a Thinking Challenge(challenge = sfida).

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Difficoltà dei compiti

Alta “varianza dei compiti” significa generalmente anche elevata complessità dellavoro69. Questo vuole forse dire che, nei lavori connotati invece da minore varianza deicompiti, il pensiero non possa, inevitabilmente, fare altro che “girare al minimo”? No.C’è routine e routine. Una cosa – come abbiamo prima detto – è la routine di una catenadi montaggio in una fabbrica di bulloni e un’altra è la routine di una sala operatoria in uncentro di trapianti cardiaci.

Ma ancora prima di approfondire ulteriormente la distinzione fra il concetto di“varianza” dei compiti e quello di “difficoltà” dei compiti, conviene chiedersi: che utili-tà c’è a fare questa distinzione? I due termini servono a distinguere i diversi tipi di com-plessità delle funzioni dell’Agenzia, consentendo, di riflesso, di mettere meglio a fuocole caratteristiche professionali dei mestieri correlati a quelle funzioni.

Compiti ad alta varianza sono quelli che pongono problemi la cui soluzione nonpuò essere cercata – o può esserlo solo in misura limitata – in un repertorio consolidatodi “precedenti”. La soluzione, per essere efficace ed appropriata, deve avere connotazio-ni originali, che richiedono all’operatore abilità inventiva ed attitudine a costruire rispo-ste intelligentemente calibrate – nella delucidazione dei problemi e nell’argomentazionecon cui vi si dà soluzione – sulle specificità delle questioni affrontate. In sostanza, laddo-ve c’è varianza, non ci si può affidare a routine consolidate.

Viceversa, vi possono essere in generale compiti di elevata difficoltà dove perònon c’è alta varianza perché ci si basa proprio su routine ben collaudate e sperimenta-te. E dove è allora il difficile? La difficoltà sta nel fatto che l’apprendimento di questeroutine è considerevolmente gravoso (si pensi al training – fatto di studio meticoloso edi rigorosa disciplina – cui si sottopone un violinista per eseguire alla perfezione unpezzo musicale o, per riprendere l’esempio di prima, un chirurgo per eseguire con lamassima precisione possibile un determinato tipo di intervento operatorio) e la loroesecuzione richiede elevata concentrazione e sforzo mentale. Esaminiamo distinta-mente queste due componenti della difficoltà dei compiti: il know-how e l’impegnointellettivo.

In ogni lavoro il “fare” ha come sua condizione un “sapere” e un “saper fare”. Illoro intreccio è ciò che si chiama know-how. Generalmente, tanto maggiore è la varian-za da gestire, tanto più elevato è il know-how richiesto. Bisogna distinguere tra ilknow-how di base (che funge da requisito di accesso alla posizione ricoperta ed è legatoal possesso di un determinato livello di istruzione scolastica o universitaria) e ilknow-how di lavoro (che identifica il bagaglio di specifica conoscenza tecnica acquisibi-le solo on the job e che è necessario per svolgere bene il ruolo rivestito). La distinzione

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69 In assoluto non si può escludere che vi siano attività semplici ma con notevole varianza nei modi in cuipossono essere realizzate. Presenta, ad esempio, queste caratteristiche un’attività di tipo artigianale che,seppure semplice, in quanto richieda un limitato know-how, abbia però, come fattori principali di compe-titività, l’inventiva e la fantasia nella realizzazione dei prodotti. Si tratta tuttavia di una possibilità che nonha concreto riscontro nei mestieri dell’Agenzia delle Entrate.

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fra know-how di base e know-how di lavoro è importante poiché, a parità di know-howdi base, vi può essere, tra i diversi ruoli di una medesima area d’inquadramento, unadifferenziazione significativa in termini di conoscenze di cui è necessario impadronirsisul posto di lavoro per interpretare al meglio il proprio ruolo (può essere richiesta l’ac-quisizione di variegate conoscenze tecniche per gestire ruoli connotati da polivalenzaprofessionale, quali quelli legati all’attività di informazione ed assistenza, oppure l’ac-quisizione di approfondite conoscenze specialistiche per gestire, ad esempio, processicome quello della riscossione).

Come si valuta la complessità del know-how richiesto (sia quello di base che quel-lo di lavoro)? Analizzando le caratteristiche del percorso di apprendimento necessarioper acquisirlo e mantenerlo aggiornato. Un know-how elevato (vale a dire specializza-zione tecnica approfondita o vastità interdisciplinare del sapere) è correlato a un per-corso di apprendimento lungo e cognitivamente oneroso, per via dello studio, dell’ap-plicazione, dell’esperienza e del costante aggiornamento richiesti per raggiungere lapadronanza del mestiere.

L’acquisizione e la crescita della polivalenza richiedono un know-how che si acqui-sta con un training impegnativo, così come impegnativo – e spesso anche molto impe-gnativo – è il processo di apprendimento per acquisire un adeguato sapere specialisticoin materie tecnicamente ardue.

Passiamo ora all’impegno intellettivo. Esistono nell’Agenzia attività a ridottavarianza e tuttavia di significativa difficoltà? La risposta è sì, e per individuarle puòessere utile servirsi di una metafora. Comporre un puzzle è un’attività totalmente prede-terminata nella soluzione e priva quindi di varianza nel senso sopra specificato. E tutta-via una cosa è comporre un puzzle di 10 pezzi, un’altra è comporne uno di 100 e un’al-tra ancora comporne uno di 1000. In tutti e tre icasi, c’è un modo, ed uno solo, di comporre ilpuzzle (varianza, dunque, pari a zero), ma essi ciònonostante presentano una grande differenza, poi-ché l’incastro di un gran numero di pezzi richiedeun forte impegno intellettivo. Ecco allora – perriprendere i concetti prima esposti – che possonoesistere lavori a bassa varianza di compiti che peròcomportano notevole impegno mentale. Sintetiz-zando, si potrebbe dire, sia pure un po’ sommaria-mente, che mentre le attività ad alta varianza eintellettualmente sfidanti sono, nell’Agenzia, quelle tipiche delle professionalità spe-cialistiche che richiedono una preparazione di base di tipo universitario, le attività avarianza meno elevata, ma tali da comportare comunque un grado consistente di impe-gno intellettivo, sono quelle che non richiedono, per il loro adeguato svolgimento, unapreparazione di quel tipo.

L’impegno intellettivo è correlato all’intensità del lavoro intellettuale richiestoper costruire i ragionamenti necessari a risolvere le questioni di lavoro proprie del ruoloricoperto. L’intensità dello sforzo può dipendere dalla molteplicità degli elementi da

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combinare (come nell’esempio del puzzle prima citato), dalla difficoltà intrinseca deiconcetti che occorre padroneggiare (in questo caso, si va da nozioni elementari di comu-ne esperienza a nozioni più sofisticate la cui acquisizione richiede lunghi e impegnativipercorsi di apprendimento), dalle risorse di attenzione e di memoria che occorre mobi-litare, dalla ramificazione più o meno folta dell’albero logico lungo il quale si snoda laconcatenazione dei diversi aspetti di un problema e dei suoi elementi risolutivi (unesempio al riguardo, tratto dall’ingegneria del software, è la corretta nidificazione degliif-then-else in un programma informatico, operazione, questa, che, pur non avendoalcuna parentela con le attività che abbiamo definito incerte, può nondimeno risultarementalmente assai estenuante).

Del resto, a parità di area di varianza, il lavoro del pensiero può essere più o menodifficoltoso, a seconda appunto della maggiore o minore complicatezza delle situazionida affrontare all’interno di quell’area. In altre parole, assumendo che l’area di varianzadi compiti in cui due persone sono chiamate ad operare sia la stessa – ad esempio quelladell’interpretazione normativa che presenta, comparativamente ad altre aree di compiti,elevata varianza – le situazioni non per questo sarebbero per forza identiche in terminidi complessità del lavoro, proprio perché vi possono essere normative che presentano –rispetto ad altre – possibilità assai maggiori di combinazione di norme in fase applicati-va (il caso tipico è quello della normativa fiscale, specie in determinati ambiti come ilreddito d’impresa).

Prima di passare oltre, proviamo a serrare, in un quadro d’insieme, i concettiappena enucleati. Nelle funzioni in cui esistono aree di varianza, c’è anche sfidaintellettiva, che può variare di intensità a seconda della “natura del terreno” compre-so, per così dire, nell’area di varianza. Più il terreno è “accidentato” (scarsità dei pre-cedenti, normative instabili, eterogeneità delle fattispecie applicative), maggiore è illavoro che il pensiero deve compiere per individuare bene i problemi e approntaresoluzioni efficaci. Ma il pensiero può essere chiamato al lavoro anche quando l’areadi varianza è ridotta e ridotta è pure, di conseguenza, la sfida intellettiva. Comemostra lo studio della matematica, un problema difficile da risolvere non è necessa-riamente un problema incerto per il quale non vi è una regola precostituita di decisio-ne. Sommare due numeri interi (5+7) e risolvere un’equazione di secondo grado sonoin entrambi casi esecuzione di un calcolo, cioè un’attività priva di varianza. Nondi-meno però le due operazioni sono molto diverse dal punto di vista dell’impegno intel-lettivo richiesto (la prima operazione può essere eseguita da un bambino, mentreoccorre un lungo apprendimento per arrivare a calcolare un’equazione di secondogrado). Analogamente, esaminare una dichiarazione dei redditi può essere, a parità digrado di varianza (generalmente basso), un lavoro molto semplice in un caso (es.dichiarazione di un lavoratore dipendente che possieda solo la casa in cui abita edesponga come unico onere deducibile gli interessi sul relativo mutuo), mentre in unaltro caso può risultare intellettualmente impegnativo (es. dichiarazione sempre di unlavoratore dipendente che però possieda diversi fabbricati e abbia anche redditi dialtra natura, oltre a numerose tipologie di oneri deducibili, alcune delle quali pocofrequenti).

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Conclusioni

Volendo riassumere la tematica qui illustrata, i concetti essenziali da cui occorrepartire per descrivere la complessità del lavoro sono due: il tipo di prestazione lavorativache l’organizzazione richiede al proprio personale e il tipo di capacità cognitive necessa-rie per far fronte a tale richiesta. Il primo concetto riguarda la dimensione oggettiva dellavoro (ciò che va fatto, ossia i contenuti della prestazione richiesta), mentre il secondoriguarda la dimensione soggettiva del lavoro (la natura della performance intellettiva chedeve saper esprimere la persona per eseguire la prestazione richiesta). Ragionandosecondo la dimensione oggettiva, possiamo differenziare la complessità del lavoro (e cor-relativamente i mestieri che raggruppano i diversi tipi di attività lavorativa) in base allavarianza e alla difficoltà dei compiti da eseguire. Ragionando, invece, secondo la dimen-sione soggettiva, possiamo distinguere nel “lavoro del pensiero” in cui deve cimentarsi ilpersonale dell’Agenzia due diversi aspetti: uno è la sfida intellettiva, che ha come para-digmi l’invenzione argomentativa e la brillantezza investigativa, e l’altro è l’impegnointellettivo, che ha, come modelli concettuali di riferimento, l’impostazione logica di“formule di calcolo” e la loro applicazione metodica (rispondere a quesiti fiscali non ele-mentari, assemblando con ordine i diversi elementi di risposta attinti da un’ampia bancadati, è una tipica espressione di “impegno intellettivo” nel senso appena detto). Se la pri-ma forma di attività intellettuale esprime “intelligenza creativa”, la seconda esprime“intelligenza combinatoria”.

Schematizzando, i nessi fra la dimensione oggettiva e quella soggettiva della com-plessità del compito sono questi:

dimensione oggettiva dimensione soggettivavarianza dei compiti Ö sfida intellettivadifficoltà dei compiti Ö impegno intellettivo

La combinazione delle variabili sopra descritte secondo “dosaggi” diversi (non cisono lavori dove tutto è “varianza” o dove tutto è routine, né – dove c’è routine – i com-piti sono tutti facili e nessuno difficile, ma c’è sempre un mix di tutte queste componen-ti) concorre a determinare la configurazione e la rilevanza del singolo ruolo professionale(ciò che chiamiamo “mestiere”) e, di riflesso, concorre all’individuazione e alla pesaturadelle competenze occorrenti per esercitare quel ruolo.

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Esempio 1

Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza)

e innovatività

Consulenza legale“Una società svizzera aveva immobili in Italia, ma non una sede nel nostro Paese.Le era stato notificato un avviso di accertamento per svariati miliardi che lasocietà aveva contestato dichiarando di non avere domicilio in Italia.Dovevo dimostrare che la notifica in Italia non fosse nulla, come eccepito dalcontribuente e che la società avesse domicilio nel nostro Paese.Non era un caso standard, mancavano i precedenti. Non c’erano indirizzi, nonavevo punti di riferimento.Ho trovato nell’archivio storico una vecchia dichiarazione con cui la società anniprima aveva chiesto il codice fiscale con domicilio in Italia, ho consultato l’Ana-grafe tributaria e lì ho trovato l’informazione.Ho anche ricercato dottrina, normativa e giurisprudenza, ecc. Ho analizzato leinformazioni e le ho sintetizzate. Ho combinato norme diverse, dovevo fare uncollegamento complesso, non univoco e neppure immediato.In questo modo sono riuscito a contrastare vittoriosamente l’eccezione sollevatadalla società sulla nullità della notifica in Italia”.

Esempio 2

Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza)

Controllo“Mi occupo di contribuenti che operano nel settore del commercio al detta-glio. Stavo facendo un controllo sulla posizione di una società con una conta-bilità formalmente corretta che dichiarava un reddito molto basso negli ultimianni.Ho verificato l’ubicazione del negozio: era in centro, le vetrine davano sulla stra-da principale, il negozio era nuovo ed esponeva marche famose. Ho analizzato ilreddito dichiarato nei diversi anni per capire se c’erano stati episodi particolari.Ho fatto delle interrogazioni sui beni immobili, sui rapporti con altri soggetti esul numero dei soci, per vedere quante persone vivessero grazie a quella attività.Valutando questi elementi ho concluso che i dati dichiarati da quel contribuentenon erano in sintonia con la situazione che avevo rilevato”.

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Si riportano di seguito alcuni esempi di comportamenti che hanno dato luogo aprestazioni significative di dinamismo intellettivo (Intuito & Costruzione logica).

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Esempio 3

Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza)

Controllo“Stavo facendo una verifica ad una pasticceria artigianale. Formalmente qua-drava tutto. Ho trovato a bilancio numerosi imballaggi il cui valore era moltoalto. In magazzino ho appurato che gli imballaggi erano molto ingombranti. Hopensato di confrontarli con il numero di viaggi fatti dall’autocarro di cui si servi-va la ditta.Le fatture recenti relative agli imballaggi erano state emesse da un fornitore con ilcontratto della tentata vendita. Sulle fatture c’era la targa dell’autocarro del for-nitore. Ho telefonato alla motorizzazione ad una impiegata che avevo conosciutoin occasione di una precedente verifica. Avevo conservato il suo numero di tele-fono per mantenere un contatto interno in grado di farmi evitare perdite di tem-po. Attraverso la targa dell’autocarro sono riuscita a risalire alla sua portata, sta-bilendo che non era congruente con il numero di viaggi effettuati per quella ditta.A questo punto ho pensato di eseguire un’indagine presso la ditta fornitrice diimballi e ho riscontrato che non esisteva. Si trattava di un soggetto evasore totaleche vendeva fatture false. La pasticceria invece aveva dedotto costi di imballosuperiori a quelli effettivamente sostenuti”.

Esempio 4

Indicatori rilevati di abilità intellettiva: congruenza (completezza e accuratezza)

e innovatività

Controllo“Ci fu una segnalazione della Prefettura riguardo a un centro di attrazione poli-sportivo che dichiarava lo svolgimento di attività non lucrative. In ufficio nonc’erano elementi disponibili per l’avvio della verifica, sicché ho pensato bene diiniziare con un accesso. Ho visto che figuravano 5 società anziché un’associazio-ne: una era la polisportiva, una gestiva la piscina, una il bar, una il campo di cal-cetto, una i campi da tennis. La polisportiva si faceva pagare dalle società gliaffitti di pertinenza. Ho pensato di estendere le ricerche anche alle altre società.Ho cercato poi di individuare gli elementi comuni alle varie attività perché ladocumentazione che avevo acquisito per ognuna era insufficiente e la metodolo-gia in uso non mi forniva indicazioni per casi come questo. Non potevo desumereil volume d’affari. Quindi ho cercato di fare una ricostruzione unitaria partendodai consumi dell’energia elettrica per arrivare ai consumi relativi a tutti gli

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impianti. Sono andato all’ENEL per indagare sui Kw/h. Ho raccolto gli orari diapertura degli impianti per capire a cosa fosse collegato il consumo dell’energiae come si correlasse al numero di clienti. Ho calcolato quanto consumava lapiscina, per scorporare poi questo consumo dal consumo totale. Ho somministra-to dei questionari agli istruttori per conoscere il loro stipendio e per rilevare ilnumero di allievi per ogni turno e per ogni vasca. Ero a conoscenza dei prezzimedi per allievo, dovevo solo capire quante persone frequentavano gli impiantipoiché loro avevano buttato tutte le matrici relative. Ho dedotto il numero mediodi allievi per vasca e per turno e ho stabilito il numero degli allievi. Ho procedutoin questo modo anche per le altre attività, riuscendo così estendere la verifica atutto il centro polisportivo”.

Esempio 5

ControlloVerdi è stato distaccato presso la Direzione regionale per svolgere verifiche dirilevanti dimensioni. Tale attività non ha prodotto risultati lusinghieri: la verificada lui eseguita come capo nucleo nei confronti della soc. … era affetta da macro-scopici errori di impostazione dei rilievi, di calcolo e di procedimenti applicati(quali: uso di medie aritmetiche, anziché ponderate). Errori che hanno compor-tato la necessità di un supplemento di indagini da parte di altri verificatori e inseguito, stante l’impossibilità di mutare totalmente l’impostazione della verifica,l’abbandono da parte dell’Ufficio della pretesa di circa un miliardo e mezzo dilire per ognuna delle annualità verificate che emergevano dalle conclusioni origi-narie. In buona sostanza il controllo dell’Ufficio, sulla base della verifica che evi-denziava rilievi per circa 3 miliardi di imponibile, si è concluso per adesione conuna maggiore imposta di poche decine di milioni.Nello stesso anno Verdi ha eseguito anche alcune verifiche a piccole imprese,ugualmente conclusesi con risultati deludenti.L’anno successivo è stato impegnato nella verifica di un soggetto di grandidimensioni (S.p.A. …), con esiti molto modesti. Le altre verifiche che ha eseguito

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Si apprende non solo dall’osservazione di esempi virtuosi, ma anche dalla rifles-sione su comportamenti che virtuosi non sono. Nella galleria che stiamo percorrendo,non sta male quindi, accanto a ritratti di bravura professionale, qualche “cammeo” diperformance tutt’altro che brillante. La vicenda di seguito descritta riguarda un verifica-tore, che, per ovvie ragioni di riservatezza, viene qui identificato (con notevole sforzo difantasia) con lo pseudonimo “Verdi”.

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nell’anno hanno riguardato soggetti di piccole dimensioni. Neanch’esse hannodato significativi risultati.In base a questi precedenti negativi non sono state più affidate a Verdi, dall’anno…, verifiche di grandi dimensioni. Attualmente esegue solo verifiche a soggetti dipiccoli dimensioni sotto la costante vigilanza del capo team controlli.

Esempio 6

Controllo“Quando arrivo in azienda non guardo solo le carte e la contabilità, ma ascoltoanzitutto il contribuente. Perché ciò che mi dice all’inizio non lo ripeterà più:quelle sono informazioni molto preziose. Incontro il titolare e cerco di farmi spie-gare il contesto in cui opera: questo non è scritto nelle procedure standard.Faccio un giro in azienda e, curiosando qui e lì, provo a capire il processo pro-duttivo oppure le modalità di commercializzazione. In quel caso feci domandedel tipo: ‘Dove ha acquistato il filato? Ha solo un fornitore?’ Le informazioni rac-colte dovevano trovare riscontro nelle fatture. Di solito quando inizio la verificanon so esattamente quali domande farò. Mi nascono dentro spontaneamenteguardandomi intorno in azienda”.

Esempio 7

Riscrittura di un testoIl brigadiere è davanti alla macchina per scrivere. L’interrogato, sedutodavanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a diretutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo:«Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovatotutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per

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L’episodio di seguito riportato descrive i momenti iniziali di una verifica. Nel-la descrizione non viene detto quali siano state le conclusioni della verifica stessa, néquali ne siano state le motivazioni, sicché non si è di fronte, in questo caso, a compor-tamenti sfociati in un prodotto suscettibile di valutazione. L’interesse dell’episodio (edè solo questa la ragione che ne ha determinato l’inclusione nel manuale) è quello dirappresentare un atteggiamento di apertura alla ricerca e all’esplorazione, che rivelaattitudine a coniugare intuizione e costruzione logica.

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bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era statascassinata».Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione.«Il sottoscritto, essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali del-lo scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’es-sere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodottivinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimentodel combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articolinell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo aconoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante.»

È evidente che l’episodio sopra riportato non è accaduto negli uffici finanziari.Non è neppure accaduto negli uffici di Polizia, né in una stazione dei carabinieri.È una invenzione narrativa di Italo Calvino (ma si sa che le autentiche invenzioninarrative sono più reali della realtà, nel senso che ne esprimono il senso profon-do). Il grande scrittore raccontò quarant’anni fa questa storia in un articolo appar-so su un quotidiano dell’epoca (Il Giorno, 3 febbraio 1965). Il suo intento eraattaccare quella che lui chiamava l’antilingua, termine, questo, che costituiva iltitolo stesso dell’articolo. Cos’è l’antilingua?Questa era la spiegazione che ne dava Calvino:

Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormaiautomatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mental-mente, con la velocità di macchine elettroniche, la lingua italiana in un’anti-lingua inesistente. Avvocati, funzionari, ministeri e consigli di amministra-zione, giornali e telegiornali scrivono, pensano, parlano nell’antilingua.Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il «terroresemantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stessoun significato, come se «fiasco», «stufa», «carbone» fossero parole oscene,come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi.Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondoa una prospettiva di vocaboli che di per sé non vogliono dire niente o voglio-no dire qualcosa di vago e sfuggente.

È ben difficile contestare la fondatezza di questa analisi, ma, senza voler minima-mente mancare di rispetto all’autorità di Calvino, bisognerebbe chiedersi se,coniando il termine “antilingua” e dandogli il significato che vi ha dato, lo scritto-re abbia veramente centrato il problema o ne abbia invece colto solo una parte, eforse neppure quella più significativa. In fin dei conti, se il guaio fosse solo quelloche gli impiegati pubblici traducono, veloci come macchine elettroniche, dallalingua all’antilingua, la cosa non sarebbe al giorno d’oggi tanto grave, perché esi-stono ormai macchine elettroniche – assai più potenti di quelle dell’epoca in cuiscriveva Calvino e molto più veloci degli impiegati pubblici – che sistemerebberotutto all’istante, ritraducendo egregiamente (ci sono già software di questo tipo)

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dall’antilingua alla lingua (trasformando, ad esempio, in un batter d’occhio la fra-se “eseguire l’avviamento dell’impianto termico” in “accendere la stufa”).In realtà, il registro più importante e delicato della comunicazione istituzionalenon è tanto quello descrittivo, bensì quello argomentativo. Il punto critico,insomma, non è la rappresentazione naturalistica di oggetti (fiaschi, stufe, carbo-ne, ecc.), ma la costruzione logica di concetti (diritti, obblighi, facoltà, scelte di-screzionali di opportunità, ecc.). È in questa seconda operazione che è difficile –e lo è tanto più quanto più complessi sono i concetti in gioco – dare prova dichiarezza, efficacia, congruenza e completezza. E i computer, in questo caso, dan-no ben poco aiuto.Nei corsi di affinamento della qualità della scrittura amministrativa, un esercizioricorrente è quello di partire da un testo pressoché impresentabile per oscurità edifetto di logica, bersagliarlo poi con notazioni pungenti, così come si trafiggevail saracino nelle giostre medievali, e riscriverlo infine di sana pianta. Qui, invece,attingendo sempre alla pratica degli uffici, si fa un esercizio un po’ diverso, maforse ancora più utile, perché più aderente all’esperienza reale, ove, fortunata-mente, “l’aborto linguistico” non è poi così frequente. Si prende un testo di di-screta fattura e si cerca di migliorarne ulteriormente la tessitura (il lettore, ovvia-mente, potrà cimentarsi in altre riscritture, poiché il processo di miglioramentolinguistico non ha di per sé mai fine, e solo considerazioni di economia di tempoe di fatica vi pongono di volta in volta termine). È un testo di una certa importan-za, trattandosi di una direttiva del Direttore dell’Agenzia ai Direttori regionali inmateria di relazioni sindacali.

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Lo scrivente ha già avuto modo, inoccasione della riunione dei Diret-tori regionali del 4 dicembre scor-so, di sottolineare l’importanza dicorrette relazioni con le organizza-zioni sindacali, a tutti i livelli, a parti-re dal posto di lavoro.

• Viene eliminato il burocratico“Lo scrivente”, sostituendolocon il pronome in prima per-sona.

• Nella versione originaria si leg-ge: “in occasione della riunionedei Direttori regionali del 4dicembre scorso”. La direttiva ègià indirizzata però ai Direttoriregionali che sanno perciò per-fettamente di essere loro i par-tecipanti a quella riunione. È undifetto, seppure lieve, di accu-ratezza, che può essere elimi-nato dicendo semplicemente:“in occasione della riunione del4 dicembre scorso”.

• Invece di “lo scrivente ha giàavuto modo di sottolineare” vie-ne detto, con espressione piùforte: “ho ritenuto necessariosottolineare”.

In più occasioni, e da ultimo pro-prio in apertura della riunione del 4dicembre scorso, ho ritenutonecessario sottolineare l’importan-za di corrette relazioni con le orga-nizzazioni sindacali a tutti i livelli, siaa quello centrale e regionale, chea quello locale del singolo ufficio.

Versione originaria Interventi sul testo Versione finale

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A tal proposito, preme innanzituttoricordare quanto la capacità dicoinvolgere le risorse umane asse-gnate al dirigente assuma partico-lare rilevanza in una pubblicaamministrazione come la nostra,investita da ormai più di dieci annida un costante processo di riformaorganizzativa. Questa capacità èancor più rilevante nell’attualefase, ancora iniziale, di trasforma-zione da branca di un Ministero inEnte pubblico dotato di quell’am-pia autonomia che con coerenzarivendichiamo quale condizioneper il pieno raggiungimento degliobiettivi posti dal Governo.

• Viene rimarcato che l’importan-za di corrette relazioni sindacaliè stata evidenziata dal Direttoredell’Agenzia in più occasioni enon solo nella riunione del 4dicembre (da questo punto divista la versione originaria delladirettiva difetta di completez-za).

• Si sottolinea ancora di più l’im-portanza di corrette relazioni sin-dacali, rimarcando che il richia-mo a tale principio è avvenuto“proprio in apertura” della riunio-ne con i Direttori regionali (equindi in testa a tutti gli argo-menti all’ordine del giorno).

• Si enfatizza la rilevanza di corret-te relazioni sindacali “a tutti ilivelli”, specificando tali livelliuno per uno. Viene inoltre elimi-nata la frase “a partire dalposto di lavoro”, perché la cor-rettezza delle relazioni sindacalinon deve partire solo “dal bas-so” (cioè dal singolo posto dilavoro), ma è anche – e, forse,soprattutto – questione di “buo-ni esempi dall’alto”.

• Viene eliminato lo stilema, unpo’ consunto e burocratico, “Atal proposito, preme anzituttoricordare…”.

• La versione originaria sviluppa aquesto punto, per ben dueparagrafi, il concetto dell’impor-tanza della capacità del diri-gente di coinvolgere le risorseumane affidategli. Il concetto èin sé condivisibile però non èben contestualizzato. In altreparole, non viene spiegatobene che legame vi sia tra taleconcetto e quello della necessi-tà di corrette relazioni sindacali.C’è qui un difetto di congruenzaal quale se ne aggiunge subitodopo un altro, quando si accen-na al legame fra “la capacitàdel dirigente di coinvolgere lerisorse umane” e il tema dell’au-tonomia dell’Agenzia. Anche quisi rischia di “andarsene per latangente”, ingenerando nel let-tore l’impressione che il richiamoall’autonomia dell’Agenzia siaormai una stucchevole “clauso-la di rito” che immancabilmente

I risultati assai positivi raggiunti dal-l’Agenzia delle Entrate già dal suoprimo anno di attivazione nonsarebbero stati possibili senza l’am-pia e convinta partecipazione delpersonale alle attività di missione eal processo di cambiamentoorganizzativo culminato nell’istitu-zione dell’Agenzia.

Versione originaria Interventi sul testo Versione finale

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Si tratta di un profondo processo diriforma che è stato possibile porta-re avanti e che potrà continuaread essere sostenuto solo attraversol’ampia condivisione da parte delpersonale degli obiettivi di trasfor-mazione in una struttura semprepiù capace di dare risposte in ter-mini di efficienza ed efficacia del-l’azione amministrativa.

ricorre ogni volta che si parla diAgenzie fiscali. Meglio quindiespungere questo concetto eimpostare così la strategia argo-mentativa della direttiva:– mettere in evidenza i positivi

risultati raggiunti dall’Agenziafin dal suo primo anno diattivazione;

– sottolineare il fatto che il rag-giungimento dei risultati èdipeso dalla convinta parte-cipazione del personale alprocesso di riforma;

– concludere dicendo chequesta partecipazione pre-suppone, a sua volta, unbuon clima di relazioni sinda-cali (il personale annette mol-ta importanza alla costruttivitàdelle relazioni sindacali, co-me è testimoniato, fra l’altro,dall’alta affluenza alle elezionidelle RSU).

• La strategia argomentativa ap-pena delineata trova articola-zione nella nuova versione, nel-la quale si inizia appunto adescrivere con semplicità e niti-dezza il nesso fra i risultati rag-giunti dall’Agenzia e la parteci-pazione del personale.

• La versione originaria presentainoltre difetti di efficacia stilisti-ca. Alcuni passaggi, invece diattrarre l’attenzione del lettore,rischiano di smorzarla o persinodi ingenerare fastidio. Il para-grafo a fianco riprodotto dellaversione originaria presenta, adesempio, toni stentorei (“Entepubblico dotato di quell’ampiaautonomia che con coerenzarivendichiamo quale condizio-ne...”) che rischiano di renderetroppo enfatica la direttiva, chegià solo per il suo contenuto èesposta a questo rischio.

Il concetto che la direttiva deve aquesto punto esprimere è che lapartecipazione del personale alprocesso di riforma trova corrispon-denza nel forte sostegno dato dalleOOSS all’avvio del progetto “Agen-zie fiscali”. Questo sostegno – cosìimportante per il successo dellariforma – non viene invece focaliz-zato nella versione originaria, che

Nel rilevare questo, è giusto ricono-scere il forte sostegno dato dalleorganizzazioni sindacali al proget-to di riforma dell’Amministrazionefinanziaria. Tale appoggio è statodeterminante – in considerazioneanche delle resistenze opposte daaltre parti – per consentire, prima, ilvaro delle Agenzie fiscali in sedelegislativa e, poi, la concreta atti-

Versione originaria Interventi sul testo Versione finale

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D’altra parte, l’elevatissima parte-cipazione del personale dell’Agen-zia alle recenti elezioni delle Rap-presentanze Sindacali Unitarietestimonia l’importanza del ruolodella rappresentanza sindacale sulposto di lavoro e dell’interesse cheil personale attribuisce al pieno uti-lizzo degli strumenti di partecipa-zione regolati dalla contrattazionecollettiva.

In questo quadro sembra abba-stanza evidente che il sottolinearel’importanza di corrette relazionisindacali non intende essere unformale richiamo al rispetto diregole già sancite da norme dicarattere giuridico e contrattuale,ma vuole bensì essere un’indica-zione verso una reale e piena con-divisione dell’obiettivo di relazionisindacali che, a partire dal postodi lavoro, divengano uno strumen-to effettivo per il coinvolgimentopieno del personale, attraverso levarie forme già definite dalla nor-mativa legislativa e contrattuale.

È ovvio che il raggiungimento degliobiettivi sopra esposti, trattandosi direlazioni sindacali, richiede com-portamenti coerenti al rispettivoruolo da ambedue le parti. Tantopiù sarà possibile pretendere com-portamenti adeguati dalle contro-parti, quanto più noi stessi avremoadottato comportamenti corretti ecoerenti col ruolo rivestito.

sotto questo aspetto presenta per-ciò un difetto di completezza e dicongruenza (in una nota che tendea rimarcare l’importanza di correttee costruttive relazioni sindacali, nonpuò mancare una forte sottolinea-tura del ruolo svolto dalle OOSS per ilvaro e l’attuazione della riforma).

• Dalla versione originaria, ove iverbi sono in terza persona(“sembra abbastanza evidenteche il sottolineare …non inten-de essere” ecc.), si passa, nellanuova versione, all’uso di verbiin prima persona (“non inten-do…ma voglio”). L’espressionene risulta ben più incisiva (primaera appesantita anche dal gof-fo infinito “il sottolineare”).

• È reso con maggiore chiarezzail concetto che le relazioni sin-dacali devono essere interpre-tate e vissute dalla dirigenzanon come un fastidioso adem-pimento, ma come uno stru-mento di coinvolgimento delpersonale nei processi di cam-biamento.

Nella versione originaria si omettedi sottolineare l’importanza delruolo dei sindacati non solo perl’avvio della riforma ma anche perla sua continuazione. L’inserimentodi questo concetto è importanteper la completezza della direttiva.

Nella versione finale si esprime conmaggiore scorrevolezza e concisio-ne il concetto della reciprocità chedeve informare le relazioni sindaca-li. I dirigenti si lamentano spessodella scarsa “affidabilità” della par-te sindacale. Si può però pretende-re senso di responsabilità dalla con-troparte solo se si è disposti a dareper primi prova di responsabilità.

vazione delle nuove strutture, nelcui ordinamento le forze sindacalihanno visto, oltre che la possibilitàdi dare una più efficace risposta intermini di servizio ai singoli contri-buenti e alla collettività, un’impor-tante e inedita opportunità di valo-rizzazione delle risorse interne.

La partecipazione assai elevatadel personale dell’Agenzia allerecenti elezioni delle Rappresen-tanze Sindacali Unitarie testimonial’importanza del ruolo della rap-presentanza sindacale sul posto dilavoro e dell’interesse che il perso-nale attribuisce al pieno utilizzodegli strumenti di partecipazionedisciplinati dalla contrattazionecollettiva.

In questo quadro, non intendo quin-di semplicemente rivolgere un invitoformale al rispetto di regole sanciteda norme legislative e da disposizio-ni contrattuali, ma voglio sottolinea-re che il mantenimento e lo svilup-po – nella naturale distinzione deiruoli – di corrette e costruttive rela-zioni con le rappresentanze sinda-cali costituisce, ancor più che undoveroso adempimento di prescri-zioni normative, una manifestazioneessenziale da parte della dirigenzadi autentica sensibilità e attenzioneper l’importanza del coinvolgimentopieno del personale nei processi dicambiamento in atto.

Così come è stato nella fase diprogettazione e di avvio della rifor-ma, allo stesso modo non puòmancare per la prosecuzione e ilsuccesso dell’opera intrapresa l’a-desione del personale e delle for-ze che lo rappresentano.

Tanto più sarà possibile richiederealla controparte sindacale com-portamenti all’altezza del ruolo rive-stito, quanto più noi stessi sapremoconcretamente dare prova di con-sapevolezza e responsabilità nelruolo di parte pubblica.

Versione originaria Interventi sul testo Versione finale

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1. Affidabilità

Il termine affidabilità include diverse caratteristiche. La prima – richiesta a chiunquelavori nell’Agenzia delle Entrate – è l’onestà personale e, congiunta a questa, la correttezzaprofessionale. Non meno importante è il grado di coinvolgimento nel proprio lavoro.

La persona affidabile tiene fede agli impegni lavorativi che assume e mette in attocomportamenti chiari e trasparenti in coerenza con i valori dell’Agenzia. È disposta adinvestire risorse ed energia nel lavoro, trasmettendo entusiasmo e “contagiando” anche icolleghi. Il suo apporto è costante e spesso è al di sopra di quanto richiesto.

Le competenze che esprimono queste caratteristiche sono “Coerenza” e “Passioneper il lavoro”.

1.1 Coerenza

Alla domanda: “Perché pagare le tasse?”, la risposta è in genere: “Per finanziare iservizi sociali”. È una risposta ineccepibile ma incompleta. Non sono solo i diritti sociali(istruzione, salute, ecc.) che dipendono dal pagamento delle imposte, ma anche i dirittidi libertà (come osservano due giuristi americani in una loro recente opera dal titolo elo-quente70, cosa ne sarebbe della proprietà privata, della libertà di parola, di associazione,di movimento, ecc. se, per citare un esempio, non vi fossero efficienti – e quindi costose– forze dell’ordine a garantirne il rispetto?). Se quindi si deve esigere coerenza e integritàda ogni funzionario pubblico, a maggior ragione occorre esigerle da chi vigila sull’osser-vanza di un dovere da cui dipende la libertà di tutti. Non a caso, se a un bravo direttoredi un ufficio tributario fosse chiesto di riassumere in quattro parole i tratti che vorrebbeche i suoi funzionari avessero, risponderebbe quasi sicuramente: “intelligente, preparatoe lavoratore”, ma prima ancora è certo che direbbe: “onesto”.

Come si può descrivere questa qualità e come la si può valutare? Una definizionedi “coerenza” potrebbe essere questa: disposizione ad agire in accordo con i valori e i

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70 S. Holmes e C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, trad. it. Bologna, ilMulino, 2000.

Competenze extraintellettivee clima di lavoro

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principi della propria organizzazione, anche (e soprattutto) quando ciò comporti sacrifi-ci personali. Intesa in questo senso, la coerenza coincide con l’integrità professionale e la“lealtà istituzionale”.

Più difficile è il discorso relativo ai criteri operativi di valutazione di questa compe-tenza. Sarebbe troppo ingenuo, se non ipocrita, ignorare che ci si muove qui su un terrenoscivoloso. Che cosa, di quella costellazione di atteggiamenti in cui si esprime la coerenzapersonale, si può realisticamente andare a sondare con qualche sicurezza? Almeno duetipi di comportamenti, di cui alcuni negativi (quelli, cioè, che è bene che non siano postiin essere) e altri positivi (quelli, cioè, che è bene invece che siano posti in essere).

In negativo la caratteristica della coerenza è evidenziata dall’assenza di comporta-menti che diano luogo (o siano suscettibili di dare luogo) a conflitti di interesse e a situa-zioni di incompatibilità. Il regolamento volto a tutelare l’indipendenza e l’autonomia tec-nica del personale delle Agenzie fiscali (D.P.R. 16 gennaio 2002, n. 18) introduce a questoriguardo disposizioni ancora più rigorose di quelle vigenti per la generalità dei dipen-denti pubblici e fissa due principi di ampia portata. Il primo stabilisce che “il dipenden-te salvaguarda l’immagine e la credibilità dell’Agenzia di appartenenza e delle funzioniistituzionali a questa demandate, evitando ogni possibile condizionamento dell’attivitàdi servizio”. Il secondo dispone che “il dipendente evita le attività che possono condurrea conflitti di interesse con l’Agenzia di appartenenza e che possono interferire con la suacapacità di adottare decisioni imparziali”.

Nell’ambito dell’altra classe di comportamenti – quelli positivi – occorre distingue-re tra i comportamenti relativi ai rapporti con l’esterno e quelli invece relativi ai rapportiinterni. Nel primo caso, il comportamento richiesto consiste nel tenere rapporti con icontribuenti ispirati alla più scrupolosa correttezza. Nel mondo anglosassone si usano aquesto proposito le parole fair play e fair game (entrambe collegate al sostantivo fair-ness), traducibili grosso modo in italiano con “gioco leale” o “gioco pulito”. Il loro signi-ficato si lascia forse più facilmente afferrare ex contrario riflettendo sul termine opposto“gioco sporco”, che sta a designare comportamenti o tattiche che, senza formalmente vio-lare una specifica norma giuridica, vengono più o meno subdolamente adottati per impe-dire o rendere comunque gravosi alla controparte l’esercizio dei suoi diritti o la messa afrutto di opportunità riconosciutele dall’ordinamento. In questo senso la “correttezza”sta a denotare uno stile di condotta che va al di là della mera osservanza legalistica diquesta o quella norma e indica piuttosto un atteggiamento complessivo di leale rispetto,sia nella lettera che nello spirito, dei diritti e degli interessi dei contribuenti, nei cui con-fronti l’esercizio dell’autorità non deve mai assumere nessuna delle connotazioni che,pur non ricadendo sotto un espresso divieto di legge, possono essere sintomatiche di un“abuso di posizione di potere”. Non è superfluo sottolineare che il comportamento cheabbiamo chiamato fair play o “gioco leale” va adottato nei riguardi della generalità degliinteressati, senza favoritismi nei riguardi di qualcuno o, viceversa, vessazioni nei con-fronti di altri, e in questa caratterizzazione semantica (riassumibile come “avversioneallo spirito di parte”) la nozione di coerenza va ad apparentarsi a quelle di “imparzialità”e di “neutralità”, tipiche del tradizionale linguaggio amministrativo (è questo uno deicasi in cui “tradizionale” non significa “obsoleto”).

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Quanto invece ai rapporti interni, che legano il dipendente alla propria organizza-zione, la valutazione della coerenza va commisurata all’entità dei sacrifici compiuti oche si è disposti a compiere nell’interesse dell’istituzione. Questo comporta anzituttocapacità di resistenza a indebite sollecitazioni interne o esterne al proprio ambiente dilavoro e, specularmente, netta avversione a farsi tramite o ispiratori di tali sollecitazioniper tornaconto personale.

Gli elementi appena descritti sono indicatori diretti della coerenza, ma vi sonoanche indicatori di tipo indiretto. Uno è l’attitudine a comunicare le proprie idee in modoaperto e ad agire con autenticità e trasparenza anche quando considerazioni opportunisti-che indurrebbero ad atteggiamenti meno franchi. Un altro indicatore è la refrattarietà adassumere atteggiamenti caratteristici di un tipo di persona che nel linguaggio comune vie-ne solitamente descritto con un termine attinto al repertorio degli strumenti orchestrali:“il trombone”. L’espressione viene qui usata in un’accezione specifica che non ha a chefare con la dimensione psicologica del carattere, ma con la valutazione etica del compor-tamento organizzativo. In altri termini, il comportamento che si vuole stigmatizzare conquella parola non è semplicemente quello di esagerare o enfatizzare le proprie capacità,ma è quello di attribuire a se stessi meriti che non si hanno e di negarli ad altri cui andreb-bero invece riconosciuti. Praticato abitualmente, tale comportamento è tra i più deleteri,perché ostacola l’affermazione del senso di equità in un’organizzazione, e proprio perquesto motivo assume particolare rilevanza sotto il profilo della coerenza e dell’integrità.

Indicatori

A. Non è un modello di coerenza. Dimostra di essere permeabile a pressioni esterne e a inde-bite sollecitazioni. Intraprende azioni che possono danneggiare l’immagine o gli interessidell’Agenzia. Antepone i propri interessi a quelli dell’organizzazione di cui fa parte. Uti-lizza la sua posizione di autorità per ottenere vantaggi. Non mantiene gli impegni presi.

B. Si uniforma alle regole. Segue le procedure e si attiene alle regole deontologiche del-l’Agenzia evitando situazioni di conflitto di interessi e di incompatibilità. Rispetta gliimpegni assunti, portando a termine il lavoro nei tempi concordati.

C. Agisce lealmente. Non esita ad assumersi la responsabilità dei propri atti senza scari-carla su altri. Dà prova di autentica correttezza nell’applicazione delle norme, fornen-do, ad esempio, al contribuente le informazioni giuste che gli consentono di ottenerebenefici fiscali o di evitare errori.

D. È un modello di coerenza. Non bada solo alla propria condotta personale, ma si preoc-cupa che anche il proprio ambiente di lavoro sia permeato dei principi e dei valoridella propria organizzazione. Mostra la determinazione necessaria per assumere deci-sioni “scomode”. Evita e contrasta atteggiamenti e comportamenti collusivi con gliinterlocutori. Non si fa intimorire ed è pronto ad affrontare un contrasto anche fortecon la controparte quando vede posti in discussione i principi cui si ispira. Quando ènecessario, antepone le esigenze dell’ufficio a quelle personali e anche alle preferenzeprofessionali (assume, ad esempio, incarichi gravosi o non particolarmente gratifican-ti quando lo richiedono le strategie aziendali).

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Di seguito sono riportati gli esempi relativi alla competenza Coerenza.

1.2 Passione per il lavoro

“È un gran lavoratore”. Solitamente è questa l’espressione che nel linguaggiocomune designa le persone animate da “passione per il lavoro”. Si tratta di una caratteri-stica personale che può essere valutata su due dimensioni. La prima è l’intensità dell’e-nergia che si è disposti a spendere, giorno per giorno, nel proprio lavoro. La seconda è la

Esempio 1

Livello C della competenza Coerenza

Servizi al contribuente“In un caso di compravendita di terreni mi è capitato che nell’atto di cessione erastata dimenticata, per colpa del notaio o del contribuente, la frase che invocava ibenefici fiscali concessi dalla legge. In questi casi l’impiegato dovrebbe segnalareal contribuente questa dimenticanza e rappresentargli i benefici cui ha diritto.Alcuni miei colleghi sono legati a formalismi burocratici di vecchio stampo e quin-di si asterrebbero sempre dal ricordare ai contribuenti quali siano le opportunità ei benefici accordati loro dalla legge, ritenendo che ciò rappresenti un danno perl’Amministrazione. Io invece credo che l’impiegato debba dare un buon servizio alcontribuente, e questo significa anche fornirgli sempre l’informazione giusta”.

Esempio 2

Livello D della competenza Coerenza

Controllo“Stavo facendo una verifica ad un contribuente ed erano emersi elementi piuttostogravi. Stavo per emettere l’atto di accertamento quando venne a trovarmi un perso-naggio assai influente, parente del contribuente, per informarsi sulla pratica. Si èpresentato in modo arrogante e dopo che gli avevo spiegato la situazione ha cercatodi convincermi con vari argomenti che non era opportuno proseguire nell’emissio-ne dell’accertamento. Avrei potuto forse agevolmente cavarmela, dicendo a quelsignore che la questione era delicata e che avrebbe dovuto perciò rivolgersi al diret-tore. Ma non volevo dargli un’impressione di remissività: se uno fa vedere che tienedritta la schiena, non difende solo la propria immagine, ma anche quella dell’uffi-cio di cui fa parte. Sono stato perciò molto deciso nel mantenere la mia posizione ea un certo punto, visto che non desisteva, ho posto fine all’incontro dicendogli abrutto muso che ero in possesso di elementi sicuri che mi obbligavano, salvo a veni-re meno ai miei doveri, ad emettere l’atto di accertamento”.

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natura della motivazione che dà impulso, sorregge e accompagna l’impegno personale. Ildato caratteristico è rappresentato qui dal fatto che la motivazione al lavoro si trasformada estrinseca in intrinseca. In altri termini, chi ha passione per il proprio lavoro, si rico-nosce facilmente perché vuole dare sempre di più, al di là dello stretto dovere, e trova,nella propria attività, sempre nuovi interessi e stimoli, traendo soddisfazione da quelloche fa, più ancora che da quello che riceve per ciò che fa.

L’autentica passione per il lavoro non si traduce in un attivismo caotico, né va con-fusa con l’effimero entusiasmo. Esprime, al contrario, un forte senso di autodisciplina edi perseveranza, che aiuta a non disperdere le energie personali e a focalizzarle sullameta da raggiungere, prendendo a cuore i problemi, senza mai demordere fino a che nonsiano stati risolti.

La si può considerare una “metacompetenza” o una competenza di base (basiccompetence), poiché si ritrova, come “energia motrice”, nei livelli alti di tutte le altrecompetenze. È difficile sopravvalutarne l’importanza per la vita di un’organizzazione. Lapossibilità stessa del cambiamento dipende, in larga misura, dalla presenza di personeche, con la loro passione professionale, riescono a “contagiare” gli altri e a suscitare inloro la voglia di impegnarsi.

Indicatori

A. Lavora svogliatamente. Cerca di fare meno del minimo indispensabile. È più attentoall’orologio che al lavoro che svolge. Quando si avvicina la fine della giornata, “mollala penna” o la tastiera del computer qualunque cosa stia facendo e si precipita davantial tornello ad aspettare che scocchi l’ora di uscita. Evita scrupolosamente di farsicoinvolgere in attività che teme possano rivelarsi impegnative e rifugge le novità, spe-cie quando richiedano applicazione. I prodotti deI suo lavoro rivelano superficialitàed approssimazione nell’approccio ai problemi e sono spesso inficiati da errori, cau-sati da sviste e distrazioni, che costringono il supervisore a onerosi interventi diaggiustamento, quando non a veri e propri rifacimenti.

B. Esegue quanto richiesto. Esegue disciplinatamente quanto gli è assegnato senza peròmostrare particolare coinvolgimento: non approfondisce la logica di ciò che gli vienechiesto e non ha quindi capacità autocorrettiva (questa capacità si rivela, ad esempio,nell’attitudine ad integrare o ad adattare, in funzione della mutevolezza delle circo-stanze, le prescrizioni ricevute). I prodotti o il servizio offerti soddisfano comunquegli standard normali di qualità e di accuratezza.

C. Va oltre quanto richiesto. Sollecitato dal desiderio di fare, “non stacca” fino a quandonon ha portato a termine il lavoro. Quando si trova di fronte ad un’emergenza si attivaautonomamente senza aspettare “ordini dall’alto”. Sa mantenere elevati e costantistandard di accuratezza nel lavoro, anche quando il carattere seriale delle attività ten-de a ridurre il livello di attenzione. Propone spontaneamente di fermarsi oltre l’orarioquando lo richiedano le esigenze di servizio, senza aspettare che sia il superiore achiederglielo. È pronto ad assumere carichi di lavoro aggiuntivi per sostituire colleghimomentaneamente assenti.

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D. Lavora con entusiasmo. Dà prova di grande dedizione nel risolvere i problemi di lavoro,dimostrando un impegno che eccede di gran lunga quello ordinario. Ha un vivo sensodell’urgenza e delle priorità, che lo spingono a dedicarsi “anima e corpo” alle questionifino a quando non sono state risolte. È curioso, sta sempre con le “antenne dritte”, ancheal di fuori dell’ambiente di ufficio, pronto a cogliere tutti i segnali, anche deboli, chepossano avere un impatto positivo sul proprio lavoro (ad esempio, se fa il verificatorenon lesina sforzi nel cercare indizi utili ad aprire nuovi e fruttuosi filoni di indagine).Promuove innovazioni nei processi lavorativi, ne sperimenta la validità e se ne fa pro-motore presso i colleghi. Ricerca sempre nuove opportunità e occasioni di miglioramen-to, sforzandosi di apprendere dall’esperienza altrui e da quella personale, che sa analiz-zare con determinazione e schiettezza senza cercare scuse per i propri eventuali insuc-cessi. Rivede in modo critico il proprio operato per evitare di ripetere gli errori.

Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Passione per il lavoro.

Esempio 1

Livello C della competenza Passione per il lavoro

Controllo“Mi è capitato di lavorare in momenti successivi su casi di segnalazione di residentiall’estero che però, in base a circostanze specifiche, erano residenti fiscalmente inItalia. La prima volta ho lavorato in modo superficiale ed ho ricopiato il verbaleriportandone acriticamente la motivazione: davo per scontato che il lavoro fossestato fatto bene. Quando il contribuente si è presentato in ufficio per l’accertamentocon adesione, mi sono reso conto di quanto eravamo stati approssimativi. Non ave-vamo infatti considerato diversi elementi importanti. In seguito, in un caso analogo(si trattava di un contribuente con residenza a Montecarlo) ho letto riga per riga ilverbale e gli allegati, ho fatto una ricerca su Internet e ho trovato ulteriori elementisulla posizione fiscale del contribuente non inseriti nel verbale. Per esempio, misono accorto che tutti gli accrediti bancari avvenivano su una banca di Roma e misono allora chiesto: ‘Se abita a Montecarlo, perché tutti i soldi sono accreditati aRoma?’. Alle motivazioni ho aggiunto anche questi nuovi elementi grazie ai qualisono arrivato ad un atto di accertamento decisamente più completo del primo, cheha consentito di formulare una proposta di adesione assai migliore per l’ufficio”.

Esempio 2

Livello D della competenza Passione per il lavoro

Controllo“Stavo facendo una verifica in un noto ristorante della città. Vado in cucina dovetrovo lo chef che lavorava la pasta all’uovo. Vedo sul tagliere 10 gusci di uova con

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2. Dinamismo realizzativo

Nel Dinamismo realizzativo sono raggruppate le competenze che consentono al perso-nale, nella quotidianità delle situazioni di lavoro, di giungere a risultati significativi sia sottoil profilo quantitativo che sotto quello qualitativo. Il cluster comprende tre competenze: l’I-niziativa, la Tensione al risultato e lo Sviluppo e il trasferimento del sapere. La prima espri-me la “proattività”, cioè l’attitudine ad agire autonomamente senza sollecitazioni esterne. Laseconda costituisce un intreccio di motivazione e capacità: motivazione a perseguire obietti-vi non facilmente realizzabili e capacità di impegnarsi a fondo per raggiungerli. La terzadenota l’attitudine e la determinazione a sviluppare il proprio patrimonio di conoscenze edesperienze a beneficio della propria performance lavorativa e di quella dei colleghi.

2.1 Iniziativa

C’è un termine che non è di uso comune ma serve molto bene a riassumere le carat-teristiche di una persona dotata di spirito d’iniziativa: “autopropulsivo”. L’iniziativa èappunto la capacità “proattiva” di attivarsi autonomamente senza aspettare di essere sol-lecitati. Implica il desiderio di cercare comunque soluzioni, anche attraverso strade maipercorse. Caratteristica tipica dell’iniziativa è la tendenza ad anticipare gli eventi percoglierne le opportunità, senza farsi intimorire dai rischi che vi sono collegati.

Indicatori

A. Non prende iniziative. Agisce solo su richiesta esterna e fa solo ciò che gli vieneespressamente richiesto. Trova scuse per non prendere iniziative e si limita per lo piùa sterili recriminazioni (per esempio, incolpa la burocrazia, il “sistema”, la mancanzadi risorse, la scarsa cooperazione altrui, ecc.).

B. Si attiva autonomamente a fronte di un problema o di una scadenza. Quando si trovain situazioni di emergenza e criticità non aspetta impulsi esterni e sollecitazioni, mareagisce prontamente, assumendo le necessarie iniziative.

1,5 kg di farina. Il ristorante dichiarava che con quegli ingredienti faceva 10 por-zioni di pasta all’uovo. Il fatto mi ha molto incuriosito e ho voluto provare anch’io.Sono andato al supermercato, ho comprato 1,5 kg di farina e 10 uova. Sono torna-to a casa e, con qualche fatica, ho impastato il tutto. Alla fine, lo spettacolo dellacucina a soqquadro era desolante e ancora più desolante era lì, in mezzo alla cuci-na, mia moglie che urlava imbestialita. Ma ho potuto concludere che con quellafarina il ristorante faceva molti più pasti di quelli dichiarati (18 invece di 10) equindi avrebbe dovuto fatturare assai più di quanto aveva dichiarato.”

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C. Previene le criticità. Cerca, per quanto gli è possibile, di prevenire le situazioni diemergenza (ad esempio, picchi di lavoro) adottando per tempo gli opportuni accorgi-menti. Quando gli imprevisti si accumulano, non si scoraggia, ma persevera e fa ripe-tuti tentativi per superare gli ostacoli. Si ingegna con le risorse che ha a disposizione,senza accampare mai scuse o alibi per l’inazione o l’attesa passiva degli eventi.

D. Opera sistematicamente in modo proattivo. Dimostra una radicata abitudine a riflette-re criticamente sulle proprie esperienze, per trarre lezioni dal passato, con l’obiettivodi anticipare gli eventi, evitando di farsi sorprendere impreparato e di ripetere errorieventualmente commessi in precedenza. Guarda al futuro più che come fonte diincertezze e rischi da cui cautelarsi, come sfida a cogliere nuove opportunità e a cerca-re soluzioni inedite, che non tiene gelosamente per sé, ma è pronto a proporre ad altri.

Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Iniziativa.

2.2 Tensione al risultato

Esprime la motivazione a lavorare sodo e bene e a stabilire propri standard realisti-ci ma sfidanti, con l’obiettivo di migliorare il livello quantitativo e qualitativo della pre-stazione ed accrescere la soddisfazione dei contribuenti e del “cliente interno”.

Indice sicuro del possesso di questa competenza è la capacità di improntare la pro-pria azione a criteri di proficuità, bilanciando costi e benefici. Tra le diverse “competenze

Esempio 1

Livello B della competenza Iniziativa

Controllo“Eravamo in periodo di scadenze e c’erano degli atti da notificare. Non c’era ilmesso comunale e quindi ho preso la mia macchina e sono andato personalmen-te a notificarli.”

Esempio 2

Livello C della competenza Iniziativa

Controllo“Stavo facendo una verifica in un’azienda. L’impiegato addetto all’amministra-zione non era in grado di calcolare, con il software della contabilità, i saldi delmagazzino.Gli ho chiesto di mettermi in contatto con la ditta che aveva fornito il programmadi contabilità, ma questa aveva chiuso. Ho chiamato la Camera di Commercio peravere i nominativi dei titolari della ditta, li ho rintracciati e contattati e mi sonofatto spiegare quale era il modo per stampare i mastri di conto di ogni prodotto”.

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d’azione”, è, generalmente, quella che più influisce sull’utilizzo appropriato delle capacitàintellettive, poiché esercita un ruolo decisivo nell’orientare l’attenzione sugli aspetti piùimportanti di una situazione critica, evitando che la riflessione si disperda senza costruttoin una miriade di aspetti secondari, con effetti pregiudizievoli sul piano dell’efficienza (ètipico, ad esempio, di analisi mal indirizzate sotto il profilo della tensione al risultato fina-le, l’attivazione di dispendiose e improduttive iniziative di controllo).

Indicatori

A. Non è all’altezza del proprio compito. Lavora in modo disattento, discontinuo eapprossimativo. Tutto ciò che realizza richiede normalmente rifacimenti e integrazio-ni. È lento e lascia che le pratiche si accumulino. Non mette mai nulla di nuovo nelsuo lavoro, ed anzi respinge per principio le novità senza tentare mai di sperimentarle(“tanto non funziona”, “chi me lo fa fare” ecc.). La mancanza di tensione al risultato sicoglie talora anche nel tempo sproporzionato che dedica a dettagli insignificanti ocomunque di scarso peso, perdendo di vista il senso complessivo del lavoro e l’esi-genza di assicurare soddisfacenti livelli di servizio e di produttività.

B. Si attiene agli standard. Si uniforma agli standard definiti e agli aspetti formali. Puntasolo a raggiungere i risultati che gli vengono strettamente richiesti. L’accuratezza concui lavora è quella minima prescritta.

C. Migliora le modalità di lavoro. È attento alle implicazioni che le proprie decisionicomportano in termini di costi e di consumo di risorse. Si pone obiettivi di migliora-mento. Promuove nuove modalità di lavoro, superando abitudini consolidate pocoproduttive. Sa gestire il suo tempo e fissa le priorità in un’ottica di efficienza.

D. Si pone obiettivi sfidanti. La metafora sportiva che più si attaglia al suo modo di agireè quella dell’atleta di salto in alto che si mette continuamente alla prova alzando sem-pre più l’asticella. Si prefigge obiettivi che richiedono grande impegno e non rispar-mia sforzi per realizzarli, conseguendo risultati eccellenti. Pianifica la sua attività inuna prospettiva temporale non limitata al breve periodo. Si assume fino in fondo laresponsabilità delle proprie scelte. Giudica il proprio lavoro con obiettività, raffron-tandolo a quello dei colleghi e traendo dal confronto spunti per migliorare.

Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Tensione al risultato.

Esempio 1

Livello C della competenza Tensione al risultato

Controllo“Disponevamo di una metodologia di controllo consolidata, che non mi sembravaperò completa e che, soprattutto, era, a mio avviso, poco efficace per le difficoltà dicomprensione cui dava luogo. Ne erano prova i riscontri negativi in termini di effi-

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2.3 Sviluppo e diffusione del sapere

È l’attitudine a sviluppare il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze abeneficio della propria performance lavorativa e di quella degli stessi colleghi, nei cuiconfronti ci si adopera attivamente per mettere in comune l’acquisizione del sapere efavorire così l’apprendimento organizzativo.

Questa competenza si coglie nei comportamenti che:• manifestano un forte desiderio personale di crescere professionalmente attraverso lo

studio e l’aggiornamento continuo;• esprimono una lucida e schietta consapevolezza delle proprie carenze formative;

cacia/efficienza. Ho preso perciò il manuale e mi sono messa a riscriverlo, prefig-

gendomi due obiettivi: rendere più chiara e comprensibile la metodologia ed even-

tualmente arricchirla di nuovi elementi di controllo. Ho iniziato dalla riscrittura,

perché la comprensibilità mi sembrava l’elemento prioritario”.

Esempio 2

Livello D della competenza Tensione al risultato

Consulenza giuridica

Una persona dichiarava il domicilio a Montecarlo ma era stato accertato che

risiedeva in Italia. L’ufficio gli aveva notificato un atto di accertamento. Il contri-

buente si era dichiarato disponibile ad un accertamento con adesione e calco-

lammo perciò una percentuale forfetaria dei costi che abbattesse i ricavi per

quanto riguardava le imposte dirette. Proponemmo un abbattimento nella misu-

ra del 30%, perché risultava equo in base all’indagine svolta. Per l’IVA, invece, il

versamento con autofattura era stato regolarmente effettuato da chi per legge ha

questo obbligo (cioè da chi riceve la prestazione). Il team di controllo voleva però

procedere ad un accertamento anche per l’IVA. Ho caldamente consigliato di

non farlo, assumendomene tutta la responsabilità, perché mancava a mio avviso

il presupposto, avendo l’Agenzia già riscosso la quota spettante.

Di fatto, si sarebbe determinata una doppia imposizione, con la conseguenza

pressoché certa di un lungo contenzioso, che, con ogni probabilità, avremmo per-

so, rimettendoci le spese in base al principio della soccombenza. La determina-

zione con cui ho affermato, senza la minima titubanza, che mi sarei preso tutta

la responsabilità delle conseguenze di quello che proponevo ha indotto i colleghi

a seguire il mio consiglio”.

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• denotano una seria intenzione di colmare le proprie lacune ed ampliare il propriobagaglio professionale;

• tendono a diffondere nell’ambiente di lavoro le conoscenze acquisite.

Considerati nel loro insieme, tali comportamenti consentono di distinguere tra lapersona professionalmente preparata e quella che solitamente si definisce un “topo dibiblioteca”. È la finalizzazione della crescita del sapere che distingue l’una dall’altra. Laprima si differenzia dalla seconda per due motivi: a) sviluppa le proprie conoscenze perutilizzarle come strumenti di lavoro; b) tende a capitalizzare ciò che apprende a benefi-cio dei colleghi e dell’organizzazione nel suo complesso.

Indicatori

A. Si accontenta di quello che sa. Le conoscenze che utilizza sono generalmente poche,insufficienti e non aggiornate. Ne risente visibilmente la qualità e l’affidabilità del suolavoro. Ritiene sufficiente il livello di conoscenza raggiunto senza chiedersi se le pro-prie conoscenze siano adeguate al ruolo che svolge. Considera le iniziative di forma-zione a cui deve partecipare più come una “pausa lavorativa” che un’occasione diapprendimento. In sintesi, è la persona cronicamente impreparata: quando la si inter-roga su qualche questione di lavoro, risponde quasi sempre in modo confuso eapprossimativo; messa alle strette, cerca di cavarsela prendendo tempo, che si guardaperò dall’utilizzare per aggiornarsi un po’.

B. Ha un livello di conoscenza sufficiente per svolgere il lavoro. Integra le proprie cono-scenze con l’utilizzo dei mezzi e degli strumenti informativi che l’Agenzia mette adisposizione per l’aggiornamento. Partecipa attivamente e proficuamente alle iniziati-ve formative dell’Agenzia.

C. Ha un bagaglio professionale ampio e aggiornato che applica per migliorare l’efficaciadel proprio lavoro. Le sue conoscenze gli consentono di risolvere anche problemicomplessi e nuovi e quando gli si chiedono informazioni specifiche sulle materie dicui si occupa (ad esempio: cosa prevede esattamente quella norma? Come si applicain questo caso?) la risposta è sempre precisa e completa. Dedica tempo e risorse perso-nali all’aggiornamento, per esempio acquistando libri, consultando quotidianamentel’Intranet, abbonandosi a riviste del settore, ecc.

D. È l’esperto cui i colleghi si rivolgono. Non limita il suo studio ad alcuni aspetti dellapropria attività (ad esempio, quelli che di volta in volta rivestono maggiore urgen-za), ma lo estende a discipline e argomenti che gli consentono di avere una visionepiù ampia e completa delle problematiche di lavoro. La vasta preparazione e la curache dedica all’aggiornamento e all’ampliamento delle proprio sapere ne fanno “l’e-sperto” dell’ufficio e il punto di riferimento dei colleghi per le problematiche piùcomplesse.

Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Sviluppo e diffu-sione del sapere.

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3. Dinamismo relazionale

Le competenze raggruppate in questo cluster sono quelle legate alla relazione ehanno impatto immediato sulla qualità e sull’efficacia del rapporto interpersonale. Lacapacità di costruire relazioni positive e quella di comporre conflitti sono fondamenta-li sia per creare le condizioni più favorevoli ad un proficuo scambio comunicativo neirapporti con i contribuenti, sia per instaurare un clima interno sereno, senza il quale illavoro di gruppo e, in più in generale, la cooperazione stentano a produrre effetti signi-ficativi. Il dinamismo relazionale interagisce con quello cognitivo, dal momento chel’attitudine a porsi in modo non conflittuale nel rapporto con gli altri e con il mondoesterno influenza molto la capacità di comprendere pienamente la realtà circostante e isuoi mutamenti. Alla base del dinamismo relazionale si ritrova sempre un atteggia-mento di fiducia e di sicurezza in se stessi, indispensabile per mettersi in gioco nelconfronto con gli interlocutori, ed essere pronti a riconoscere, in un aperto scambiodialettico, la validità delle posizioni degli altri senza rinunciare a portare avanti le pro-prie tesi.

Il cluster comprende tre competenze: Orientamento all’altro, Fare squadra eFlessibilità.

Esempio 1

Livello C della competenza Sviluppo e diffusione del sapere

Segreteria“A seguito di una riorganizzazione della struttura operativa nella quale lavoro,la nuova assegnazione richiedeva una conoscenza dei programmi Word edExcel maggiore di quella che avevo. Ho seguito con interesse i corsi organizzatied ora riesco a sfruttare le potenzialità dei due programmi e gestisco i docu-menti in modo più razionale e proficuo. Ho già chiesto di partecipare ai corsiavanzati”.

Esempio 2

Livello C della competenza Sviluppo e diffusione del sapere

Controllo“Prima quando non sapevo qualcosa cercavo di cavarmela chiedendo ai colle-ghi. È inutile nasconderlo: non mi piaceva sgobbare sui libri. Adesso, invece, stu-dio a fondo i singoli casi e, prima di consultarmi con altri, mi impegno a cercareda solo le soluzioni, riuscendo a gestire il mio lavoro autonomamente. Spessoconsulto testi specialistici per approfondire le materie che tratto e apprendere lenovità del settore in cui lavoro”.

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3.1 Orientamento all’altro

“È una persona che sa ascoltare e capire” oppure “è un tipo che si fa in quattro per aiu-tarti”. Sono queste, di solito, le espressioni che nel linguaggio comune designano “l’orienta-mento all’altro”. Lo si può definire come la capacità di stabilire relazioni costruttive con glialtri (contribuenti, colleghi, ecc.), cercando seriamente di comprenderne il punto di vista.

Richiede un paziente lavoro su se stessi in una duplice direzione: sviluppo dell’au-tocontrollo e affinamento della sensibilità interpersonale.

L’autocontrollo è necessario per evitare di farsi influenzare oltre misura dalle emo-zioni negative degli altri, precludendosi la possibilità di valutare obiettivamente la situa-zione e di trovare vie di sbocco al conflitto.

La sensibilità interpersonale è la disposizione ad ascoltare e a porsi in sintonia coni pensieri, i sentimenti e le preoccupazioni degli altri.

Nel rapporto con i contribuenti – che rappresenta il campo tipico di azione dellacompetenza in esame – le due dimensioni appena delineate (l’una di interdizione dei pro-pri impeti emotivi e l’altra di apertura ai sentimenti e alle idee altrui) appaiono stretta-mente intrecciate: l’autocontrollo serve ad impedire che i sentimenti negativi di ansia e diira che il contribuente non di rado manifesta nel suo primo approccio all’ufficio inneschi-no negli operatori reazioni conflittuali destinate ad allontanare la soluzione dei problemi,se non addirittura a precluderla. La sensibilità interpersonale consente invece di captare einterpretare le preoccupazioni e le esigenze dei contribuenti, andando anche al di là dellaloro formulazione espressa (inevitabilmente non sempre chiara, dato il tecnicismo dellamateria). Costituiscono espressione di tale atteggiamento l’attitudine ad adattare lo stile dicomunicazione alla tipologia degli interlocutori (consulente, piccolo imprenditore, pen-sionato ecc.) e, più in generale, l’impegno forte nell’attività di assistenza e informazione.

Indicatori

A. Si pone in modo brusco, arrogante o indisponente, come colui che detiene un “potereindiscusso” (e indiscutibile). Considera il contribuente come una fonte di “fastidi”inevitabili e non mostra alcuna disponibilità a comprenderne i problemi e a dare unamano per risolverli. Reagisce all’irritazione del contribuente aggredendolo. In genera-le, non pone attenzione a quanto gli altri affermano, né tanto meno ai sentimenti cheessi provano. Questa difficoltà ad entrare in relazione con l’altro, lo induce a lavorarequasi esclusivamente “sulle carte”, evitando il più possibile il contatto diretto con gliinterlocutori. Non si preoccupa di appurare se le informazioni che richiede al contri-buente non siano già in possesso dell’Agenzia.

B. Opera in maniera professionalmente corretta. Ascolta e dà informazioni esaurienti,fornendo, ad esempio, chiarimenti e spiegazioni precise sui modelli da compilare. Sidimostra rispettoso delle opinioni degli altri e disponibile a prenderne in esame senzapreconcetti le argomentazioni.

C. Profonde impegno nel servizio. Assiste il contribuente, fino ad occuparsi personal-mente dei suoi problemi (ad esempio, invece di costringerlo a cercare informazioni

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disseminate tra più uffici, telefona direttamente ai colleghi per acquisire quelle noti-zie e le comunica poi all’interessato). È prodigo di spiegazioni e motiva sempre chia-ramente le proprie richieste, senza trincerarsi dietro criptiche citazioni normative.Adegua il proprio comportamento e lo stile di comunicazione alle caratteristiche del-l’interlocutore, utilizzando modi e termini appropriati. Ascolta con attenzione leragioni del contribuente, senza atteggiamenti di saccenza, e laddove non sia in gradodi fornire compiuta risposta alle sue domande o alle sue osservazioni, non lo liquidafrettolosamente, ma si assume l’impegno (che poi onora) di approfondire la questionee di comunicargli rapidamente la soluzione.

D. Si mette dalla parte dell’altro. Eccelle nella sensibilità interpersonale: coglie subitole preoccupazioni che stanno alla base dei comportamenti altrui e ne comprendeintimamente le ragioni, anche al di là della formulazione, non sempre chiara e preci-sa, che riescono a darne gli stessi interessati. Sa interpretare anche i “bisogni latenti”dei contribuenti e fornisce servizi non esplicitamente richiesti. È ineccepibile nel-l’autocontrollo e ne dà dimostrazione pratica riuscendo, per esempio, ad evitare latipica trappola emotiva consistente nel trasformare l’irritazione o la rabbia del contri-buente in un’occasione di risentita affermazione della propria autorità (ad esempio,fa “sbollire” un contribuente in preda all’ira, senza farne una questione di leso pre-stigio personale).

Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Orientamentoall’altro.

Esempio 1

Livello B della competenza Orientamento all’altro

Controllo“Entrato nell’azienda, mostrai il tesserino e la lettera d’incarico dell’ufficio inmodo che la parte sapesse che ero autorizzato, qual era il motivo della verifica equali erano gli anni da sottoporre a verifica. Illustrai le modalità, i tempi della veri-fica e i momenti in cui avrei avuto bisogno della presenza del titolare dell’attivitàsottoposta a verifica, dichiarandomi disponibile a fornire ulteriori chiarimenti”.

Esempio 2

Livello C della competenza Orientamento all’altro

Servizi al contribuente“Venti giorni fa è arrivato un contribuente con una cartella relativa a una tassazio-ne separata. Era convinto di non doverla pagare. Ho pensato che dovevo mettere ilcontribuente in condizione di comprendere il motivo per il quale doveva pagarequell’importo e gli ho illustrato in ordine i singoli passaggi. Ho cercato le informa-

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zioni sul terminale, le ho stampate e le ho mostrate al contribuente. Gli ho spiegatoche si trattava di un conguaglio d’imposta, perché l’importo trattenuto dal datore dilavoro era inferiore al dovuto. Per spiegarmi ho fatto ricorso ad un esempio pratico:‘Ha presente la bolletta del gas? Il cliente versa degli acconti e poi alla fine dell’an-no, se ha consumato di più, deve pagare un conguaglio. Lo stesso accade con letrattenute fatte dal datore di lavoro che sono dei versamenti in acconto’. Il contri-buente si è convinto ed ha accettato visibilmente soddisfatto la mia risposta”.

Esempio 3

Livello C della competenza Orientamento all’altro

Servizi al contribuente“Il contribuente si presentò senza la cartella. Gli chiesi: ‘Di che anno è?’. Risposta:‘L’ho ricevuta di recente’. ‘E cosa c’è scritto?’ ‘Non me lo ricordo’. Come inizio, nonera male… Pensai allora di chiedergli: ‘Di che colore è?’ Di solito i contribuenti siricordano del colore e in effetti se lo ricordava anche quel contribuente. Il colore mifece pensare agli atti del registro. ‘Di quanti fogli è formata la cartella?’ ‘Un solofoglio.’ Il numero di fogli è indicativo della natura dell’avviso. Poteva essere un avvi-so di mora, perché, ad esempio, la correttiva ha un numero di fogli maggiore.Quindi gli chiesi: ‘Ha ricevuto altre cartelle di recente?’ ‘No’. La risposta non miconvinse perché le informazioni sembravano in contrasto tra loro.Ho fatto delle interrogazioni. Ebbi la conferma di ciò che pensavo: era un avvisodi mora originato da una cartella relativa a una vecchia compravendita dellaquale il contribuente non si ricordava più.Stampai quello che appariva sul video e glielo consegnai, spiegandogli di cosa sitrattava”.

Esempio 4

Livello D della competenza Orientamento all’altro

Servizi al contribuente“Un giorno è arrivata in ufficio una contribuente agitata e molto nervosa. Misono avvicinata e le ho chiesto se potevo aiutarla. Risposta: ‘Ho poco tempo adisposizione e devo prendere mio figlio all’uscita di scuola. Qui c’è una lungafila e non riuscirò sicuramente a fare in tempo!’. La vedevo sempre più agitata.Ho cercato di calmarla un po’ dicendole: ‘Può passare avanti, se gli altri davantia lei sono d’accordo.’ Nessuno però ha accettato di cederle il proprio posto nellafila. Sentivo che dovevo fare di tutto per aiutarla. ‘Mi lasci l’atto ed il suo numerodi prenotazione. Ci penso io. Torni all’ora di chiusura e vedrà che la sua praticasarà pronta.’ Quando la coda si esaurì, chiesi alla mia collega di sbrigare la pra-tica. La contribuente rimase molto sorpresa: ‘Non me lo sarei mai aspettato. Leiha fatto per me qualcosa che nulla e nessuno la obbligava a fare’ ”.

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3.2 Fare squadra

È la capacità di instaurare un rapporto permanente di collaborazione stretta con ipropri colleghi in funzione di obiettivi comuni. Nelle organizzazioni il lavoro di gruppo(inteso non come soluzione transitoria ed occasionale limitata a particolari evenienze, macome “mattone” dell’edificio organizzativo) non è stato sempre considerato con favore elo si è anzi guardato a lungo con sospetto, nella convinzione che potesse solo attivare mec-canismi di deresponsabilizzazione (“un lavoro di cui tutti sono responsabili, è un lavorodi cui nessuno più è responsabile”). Per molto tempo questo modello organizzativo haavuto applicazione stabile ed estesa solo in miniera, dove la vita di ognuno è legata all’ef-ficienza della squadra di cui fa parte e ai legami di solidarietà che la cementano (ed èinfatti proprio dal lavoro in miniera che ha preso avvio in letteratura, attorno agli anni ’40del ’900, una riflessione approfondita sui presupposti e sulle dinamiche del lavoro digruppo, come modalità fondamentale di prestazione dell’attività lavorativa). Oggi, il lavo-ro di team si va progressivamente affermando come la soluzione più efficace per lo svolgi-mento di funzioni che hanno elevata complessità, forte varianza e stretta interdipendenza(tali sono, per lo più, le funzioni legate alla prestazione di servizi che richiedono il con-corso coordinato di conoscenze altamente specialistiche e in continua evoluzione). Unteam non vive, né tanto meno riesce a funzionare bene, se abbandonato alla spontaneitàdelle sue dinamiche interne. Da questo punto di vista, lavorare in team (che non è, giovaripeterlo, il convergere episodico di individualità che, terminato il compito, riprendonopoi ognuna la propria strada) è tutt’altro che facile e “naturale” e, per certi versi presentaanzi difficoltà analoghe a quelle della quadratura di un cerchio. In altri termini, occorreche ciascuno dei componenti del gruppo accetti come compito proprio quello di discipli-nare spinte contrapposte o comunque potenzialmente divergenti, senza però soffocare leenergie di nessuno ed anzi assicurandone il pieno sviluppo. Cosa comporta tutto questo?Dare spazio ai talenti individuali, spegnendo però sul nascere eventuali competizionidestinate a corrodere lo spirito di gruppo. Richiamare, quando occorre, la necessità delrispetto degli obblighi comuni, evitando però di alimentare l’istinto gregario. Favorire loscambio aperto di esperienze e conoscenze, senza però mai smarrire, nella discussione,l’urgenza ineludibile del momento decisionale. Coniugare, insomma, autonomia indivi-duale e senso di appartenenza. In termini di comportamenti organizzativi, sono queste lecondizioni che consentono ai componenti di un gruppo di operare efficacemente insieme.

Indicatori

A. Fa il “solista”. Preferisce lavorare da solo. Ritiene che lavorare con gli altri, soprattut-to se più inesperti di lui, determini solo una perdita di tempo. Si limita a fare ciò che èdi sua stretta competenza. È piuttosto geloso delle proprie conoscenze e tiene per séinformazioni che potrebbero invece essere utili anche ai colleghi. Chiede o dà aiutoagli altri solo se è inevitabile. Può capitare che manifesti in modo non appropriatoopinioni diverse da quelle del collega anche davanti al contribuente, senza preoccu-parsi dell’impatto negativo che ciò può avere per l’immagine dell’Agenzia.

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B. Collabora. Ha un atteggiamento positivo verso il lavoro di gruppo (per esempio, aiutai colleghi in difficoltà). Di fronte ai contribuenti, tende sempre a sottolineare le posi-zioni su cui concordano i componenti del team e se deve evidenziare eventuali diver-genze interne, lo fa comunque con toni misurati, spiegando come la diversità dei pun-ti di vista sia obiettivamente giustificata dall’opinabilità della materia. Mette in comu-ne le informazioni di cui dispone e mantiene aggiornati i colleghi.

C. Fa lavoro di squadra. Agisce in sintonia con i colleghi, concordando con loro piani diazione e sollecitandone il contributo. Partecipa attivamente con il proprio lavoro econ la propria esperienza al raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Offre sponta-neamente il proprio aiuto, senza aspettare che i colleghi glielo chiedano. Si confrontacon i componenti del team mettendo a disposizione informazioni e conoscenze persviluppare insieme nuove idee e realizzare progetti.

D. Fa da punto di riferimento nel gruppo. È convinto che il singolo possa vincere soloinsieme alla squadra e, di conseguenza, fa di tutto per formarla. Instaura un rapportodi fiducia con i colleghi, cerca un approccio comune alle situazioni, difende le posi-zioni del gruppo, favorisce lo scambio sistematico delle informazioni all’interno dellasquadra, promuove la ricomposizione dei diversi punti di vista tra i colleghi con l’in-tento sia di rendere più efficace l’azione comune, sia di trasmettere all’esterno un’im-magine di unità e di coesione tale da rafforzare il prestigio del gruppo.

Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Fare squadra.

Esempio 1

Livello B della competenza Fare squadra

Consulenza giuridica“Un collega impegnato in un accertamento riguardante una cessione di aziendafatta da un minore, mi chiede: ‘Non so dove trovare riferimenti normativi perquesto caso. Cerchiamo di vedere insieme cosa possiamo fare’. Non avevo larisposta pronta. Abbiamo letto il TU, il codice commentato, il manuale di dirittocivile. Abbiamo collegato due norme ed elaborato insieme la soluzione. Andràdal suo capo con la nostra proposta. Mi ha ringraziato, era soddisfatto”.

Esempio 2

Livello C della competenza Fare squadra

Controllo“Se sono in verifica con un collega meno esperto devo fargli capire il motivo dicerte scelte e di determinati comportamenti. Spendere un po’ di tempo per tra-sferire conoscenze non allunga invano i tempi di lavoro: non sono geloso di quel-

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3.3 Flessibilità

Nel linguaggio comune, una persona flessibile è quella che “si sa adattare” alle cir-costanze. L’espressione può essere accettata, purché non le si dia una connotazione di“adeguamento passivo” o, peggio, “camaleontico” alle dinamiche del cambiamento. Inun contesto organizzativo in evoluzione, la flessibilità esprime piuttosto la versatilità alavorare in differenti situazioni o con diverse persone o gruppi, nella convinzione diampliare così il proprio bagaglio professionale e di acquisire, fino a rendersene padroni,nuovi e più produttivi schemi di organizzazione del lavoro (rientrano, ad esempio, fraquesti schemi l’integrazione delle professionalità nel lavoro di team e lo sviluppo dellapolifunzionalità nelle attività di base). Oltre alla capacità di comprendere le logichesecondo cui evolvono le situazioni, la flessibilità implica anche una disponibilità di fon-do ad apprezzare – senza preclusioni e rigidità – differenti o contrastanti prospettazionidi un problema, mostrandosi aperti al confronto e pronti a riconoscere la validità delletesi altrui, invece di arroccarsi in atteggiamenti di difesa ad oltranza delle proprie tesiquando queste vengono poste in discussione con argomenti convincenti.

Indicatori

A. È avverso ai cambiamenti. Rimane caparbiamente attaccato alle proprie idee anchecontro l’evidenza dei fatti e non fa alcuno sforzo per comprendere punti di vista diver-si dal suo. È restio ad assumere nuovi compiti. È ostile ai cambiamenti che vede comeuna minaccia al proprio consolidato modo di lavorare.

B. Si uniforma al cambiamento. Avverte il cambiamento come una necessità dettata dalmutare delle situazioni e alla quale non può sottrarsi. È comunque disponibile a con-frontarsi apertamente, senza preconcetti e pregiudizi, con nuove idee e a prendere inseria considerazione la possibilità di modificare schemi e atteggiamenti consolidati.Nelle trasformazioni in atto, l’aspetto cui presta maggiore attenzione non è però tantoquello della comprensione delle logiche sottostanti, ma, piuttosto quello della confor-mità estrinseca alle prescrizioni e alle procedure, che non gli sembrano mai abbastan-za “chiare e precise”.

C. Accoglie con favore il cambiamento. Vive positivamente la trasformazione dei compi-ti e degli schemi di lavoro, interpretandoli, in primo luogo, come una risposta all’esi-

lo che so. Non penso mai che un collega meno esperto possa dire stupidaggini,qualsiasi idea può essere utile.Quindi tutto il lavoro viene fatto insieme e c’è un effettivo scambio di informa-zioni. Bisogna dare un’immagine di coesione e di unitarietà di fronte al contri-buente, stando bene attenti ad evitare che chi guarda dall’esterno pensi che ilgioco prevalente nel nostro gruppo sia quello di gareggiare a chi è più bravo”.116

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genza di migliorare i servizi nell’interesse della collettività, e, in secondo luogo, comeuna preziosa opportunità di arricchimento professionale. Nell’applicazione delleregole e delle procedure, dà prova di duttilità, evitando inutili formalismi e cavilliburocratici e adottando, fra più opzioni tutte legittime, quella meglio rispondente agliobiettivi da perseguire e più ragionevole ed equilibrata sotto il profilo della pondera-zione degli interessi in gioco.

D. Promuove il cambiamento. Modifica i propri programmi adattandoli all’evoluzionedel contesto. Coinvolge i colleghi per facilitare la diffusione del cambiamento, senzascoraggiarsi di fronte ad ostacoli e imprevisti. Promuove nuove soluzioni operativevolte a favorire la trasformazione dei modelli organizzativi e degli schemi di lavoro.Mostra forte propensione al cambiamento, senza però cadere in atteggiamenti acriticiche eludono le difficoltà ed evitano il necessario confronto con persone di diversoorientamento e approccio rispetto ai processi di trasformazione in atto.

Di seguito è riportato un esempio relativo alla competenza Flessibilità.

4. Leadership

Per leadership si intende qui la capacità di pianificare e coordinare l’attività di ungruppo di persone per raggiungere gli obiettivi assegnati. Il leader può anche non avere unpotere gerarchico. L’autorità che gli è riconosciuta deriva principalmente dalla sua autorevo-lezza, cioè dalle sue riconosciute capacità di gestione, dalla sicurezza che dimostra di averedentro di sé e che sa infondere negli altri nelle situazioni critiche, dall’abbinamento, infine,di un elevato livello di conoscenza tecnico-professionale con l’attitudine a trasferirla e dif-fonderla nei colleghi e, più in particolare, nei componenti del gruppo che gli è stato affidato.

I comportamenti tipici di questo cluster trovano analitica descrizione nelle compe-tenze Team building (Organizzazione e sviluppo di un gruppo) e Influenza.

Esempio 1

Livello C della competenza Flessibilità

Riscossione“Stavo lavorando su un fallimento, quando mi sono resa conto che mancavanodiversi dati.A questo punto ho contattato il curatore che ci ha aiutato a ricostruire molti dati.Ho deciso di convocarlo informalmente, evitando di seguire l’iter proceduraleclassico (la formalizzazione ufficiale dell’atto) che avrebbe sicuramente allunga-to i tempi se il curatore lo avesse impugnato. Questa scelta mi ha consentito diaccorciare il procedimento e di emettere un atto che ha avuto buon fine”.

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4.1 Team building (Organizzazione e sviluppo di un gruppo)

È la capacità di guidare un gruppo e di indirizzarne l’azione al raggiungimentodegli obiettivi. In termini di “saper fare”, i tratti che denotano in modo caratteristico ilpossesso di tale capacità sono:• saper pianificare, organizzare e monitorare il lavoro del gruppo, mantenendone e raf-

forzandone la coesione interna;• saper svolgere un paziente e metodico lavoro di diffusione delle conoscenze all’inter-

no del gruppo, sviluppandone la professionalità.

Di seguito vengono descritti gli indicatori comportamentali relativi ai diversi livel-li di intensità della competenza in questione. In estrema sintesi, il livello A si distingueessenzialmente da quello B, per il fatto che mentre nel primo le risorse del gruppo nonvengono utilizzate (le potenzialità del gruppo sono come “sprecate”), nel secondo sonoinvece impiegate, seppure senza sfruttarle totalmente. Nel livello C vi è un’utilizzazioneottimale o comunque più che soddisfacente del gruppo (in termini matematici, si direbbeche si “saturano” le capacità attuali del gruppo), mentre nel livello D il gruppo viene por-tato, per così dire, “al di là di se stesso”, nel senso che si va oltre la meta di utilizzarloappieno nel suo attuale valore, e si punta invece ad accrescere in misura significativa talevalore (in questa prospettiva, il teamleader eccellente è quello che consegna al suo suc-cessore un team molto più motivato ed efficiente di quello che gli era stato affidato).

Indicatori

A. Non sa gestire il gruppo. Non ha abilità organizzativa. Non definisce piani d’azione per ilgruppo, né individua in modo chiaro le priorità; oppure le cambia inopinatamente, senzaadeguata motivazione e senza considerare le implicazioni delle sue scelte sulle attivitàdel gruppo, che viene ad esserne disorientato. Non si preoccupa di verificare se il livellodelle conoscenze del gruppo è sufficiente a svolgere con efficacia i compiti assegnati.

B. Sa gestire il gruppo. Propone al gruppo obiettivi chiari e ne organizza l’azione defi-nendone le priorità. Si accerta che il gruppo possieda le informazioni e le conoscenzesufficienti per agire in modo corretto ed efficace.

C. Ottimizza le attività del gruppo. Intraprende azioni specifiche per accrescere quantopiù possibile il livello di operatività del gruppo. Per esempio, pianifica in modo moltoaccurato le attività, assegna compiti calibrati rispetto alle capacità dei singoli, forniscestrumenti e risorse per l’organizzazione del lavoro, attiva iniziative di formazione,curandone anche personalmente lo svolgimento.

D. Fa crescere il gruppo, curandone il clima interno. È attento ai fattori che possonofavorire o compromettere l’armonia tra i componenti del gruppo. Facilita e promuovelo scambio di informazioni e di conoscenze all’interno del gruppo e tiene abitualmen-te riunioni per comunicare l’andamento delle attività e dei risultati. Ricerca attiva-mente il contributo di tutti per migliorare l’efficacia del gruppo e valorizzare le com-petenze di ciascuno.

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Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Team building.

4.2 Influenza

È la capacità di sostenere con successo le proprie tesi e di convincere gli interlocu-tori della loro fondatezza. L’influenza è un aspetto importante della leadership, dalmomento che la possibilità di ottenere dagli altri sostegno e collaborazione dipende inlarga misura dalla propria capacità di persuasione. Questa competenza attinge sia allaricchezza dell’emotività che alle risorse dell’intelligenza. Sotto il primo aspetto è richie-sta, infatti, una sensibilità particolare (la si chiama talora “empatia”) per riuscire a perce-pire, magari da dettagli apparentemente poco significativi, quali siano le preoccupazionie le esigenze (non sempre chiaramente esplicitate) da cui l’interlocutore è mosso, inmodo da selezionare di conseguenza i canali comunicativi e il linguaggio più appropriatial contesto della discussione. Sempre sotto l’aspetto emotivo, è indispensabile inoltreforza di carattere e autocontrollo, per mantenere calma e sicura l’esposizione del propriopunto di vista, specie quando incontra opposizioni più o meno forti.

Esempio 1

Livello C della competenza Team building

“Ho pensato di fornire ulteriori elementi affinché gli operatori si potessero senti-re più preparati per rispondere ai quesiti durante il periodo delle dichiarazioni.Nelle ore che precedono il servizio ho fatto un lavoro di lettura del modello uni-co. È scritto in modo molto tecnico e ho capito che dava luogo a difficoltà dicomprensione. Ho chiesto: volete che lo leggiamo insieme? Sono stati contenti,hanno imparato tanta nuova terminologia. Alla fine mi hanno ringraziato”.(Team leader di un call center)

Esempio 2

Livello D della competenza Team building

“Ho messo nella stessa stanza persone che provenivano dalle IIDD con altre pro-venienti dall’IVA perché potessero imparare le une dalle altre. Io per primo, cheprovengo dal mondo IVA, mi sono messo in stanza con un collega che venivadalle IIDD. Questo però non bastava per assicurare un’efficace organizzazioneinterna del gruppo. In passato il funzionario faceva l’accertamento a mano e lopassava al terminalista che lo inseriva a sistema. Oggi il funzionario deve farloda solo e se non ha perciò familiarità con un computer il lavoro si blocca. Misono quindi messo a fianco di persone che non conoscevano il computer e hoinsegnato loro ad usarlo”. (Capo del team legale di un ufficio locale)

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Per quanto invece riguarda il versante più strettamente intellettuale, la capacità diconvincere richiede attitudine ad argomentare la propria posizione in modo chiaro e coeren-te e a controbattere tempestivamente con ragionamenti validi e pertinenti le altrui obiezioni.

Nella graduazione della competenza in esame occorre quindi tenere al tempo stes-so conto di due fattori:• maggiore o minore sensibilità e padronanza emotiva richieste per far fronte all’ambi-

guità, all’imprevedibilità e allo stress propri della situazione in cui deve esercitarsi losforzo di convinzione degli interlocutori;

• maggiore o minore complessità intellettuale degli argomenti che, nel contesto di rife-rimento, è necessario produrre per convincere gli interessati.

Indicatori

A. Non è capace di convincere. Ha difficoltà a sostenere una tesi e ad argomentarne conchiarezza e con tratto sicuro i punti salienti. Può essere, ad esempio, prolisso, pedanteo troppo assertorio nell’esposizione, indisponendo l’interlocutore, oppure si presentain modo titubante e mostra poca convinzione nelle proprie opinioni. In definitiva,non sa con-vincere e riesce solo a vincere, quando può eventualmente appellarsi alruolo formale rivestito.

B. In situazioni normali sa convincere. Nelle situazioni che non presentano particolarecomplessità per le variabili in gioco e nelle quali il confronto con gli interlocutori sievolve in modo abbastanza conforme alle previsioni iniziali, senza assumere fortecoloritura emotiva, riesce a produrre argomenti chiari e plausibili, che trovano il con-senso degli interessati.

C. Ha buone capacità dialettiche. Riesce in genere a prevedere le mosse dell’interlocutoree ne tiene conto nell’elaborazione e nello svolgimento delle proprie argomentazioni.Non rimane comunque smarrito di fronte a obiezioni non previste, anche laddove inve-stano questioni complesse, ma reagisce prontamente, sfoderando argomenti persuasivi.

D. Attua strategie di persuasività. Programma e mette in atto, anche in situazioni di parti-colare complessità, più iniziative coordinate, volte, nel loro insieme, a influenzare econvincere gli interessati. Sa rapportarsi ad una molteplicità, anche assai eterogenea, diinterlocutori diversi, mostrando notevole abilità nella scelta e nella modulazione dellostile comunicativo e degli schemi argomentativi per persuadere coloro che ha di fronte.

Di seguito sono riportati alcuni esempi relativi alla competenza Influenza.

Esempio 1

Livello C della competenza Influenza

Consulenza giuridica“Nel corso di un’udienza l’avvocato del contribuente ha eccepito il vizio dellamancata costituzione in giudizio dell’ufficio. Il momento era delicato, perché

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l’ufficio in effetti non si era fino allora costituito e la posizione dell’Amministra-zione appariva a quel punto compromessa. Ma ho avuto la prontezza di sfruttareil fatto che la parte aveva chiesto la pubblica udienza. Sono intervenuto al dibat-timento sostenendo che, secondo la normativa vigente, chi è presente in aula puòparlare. Facendo poi appello alle mie conoscenze ho aggiunto: ‘L’ufficio puòcostituirsi anche in udienza: è un principio di diritto civile applicabile anche alprocesso tributario’”.

Esempio 2

Livello D della competenza Influenza

Servizi al contribuente“Nel mio ufficio c’erano cinque sportelli dedicati a cinque servizi diversi. Quat-tro su cinque avevano un flusso contenuto di contribuenti mentre uno avevasempre persone in coda. La situazione era insostenibile: presso uno sportello silavorava senza tregua, negli altri c’erano parecchi tempi morti. Ho segnalato alCapo Area questa criticità.Sapevo che non sarebbe stato facile parlare di polifunzionalità, cioè della possi-bilità di distribuire tutte le attività su più sportelli, perché da parte degli operato-ri c’era la paura di dover svolgere compiti nuovi e quindi di sbagliare. Bisognavasuperare le resistenze interne.Dopo i corsi, al momento dell’avvio dello sportello polifunzionale, ho coinvolto ilcollega che tra i cinque addetti allo sportello mi sembrava più convinto dellabontà dell’operazione. Gli dissi: ‘Domani facciamo in questo modo: apriamoquattro sportelli su cinque e tu parti con quello polifunzionale. Ognuno deglialtri quattro colleghi liberi osserverà a turno come lavori. Vorrei che si capisseche il lavoro allo sportello polifunzionale è fattibile e che variare attività durantela giornata può rappresentare un arricchimento professionale’. Il giorno dopoabbiamo fatto come concordato e, pure in un momento di picco d’affluenza, honotato che gli altri colleghi che hanno ruotato come osservatori sembravanomeno intimoriti. Ho continuato l’esperimento per una settimana e al termine,alla mia richiesta di aprire a turno uno sportello polifunzionale, nessuno si ètirato indietro”.

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DIZIONARIO DELLE COMPETENZE

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1. Testare la competenza invece dell’“intelligenza”*

L’avvio del cosiddetto “Movimento delle competenze” viene generalmente fattorisalire ad un famoso articolo di McClelland del 1973, dal titolo Testing for CompetenceRather Than for “Intelligence”, che si può tradurre: Testare la competenza invecedell’“intelligenza”. È da notare che nel titolo dell’articolo la parola “intelligenza” è ripor-tata fra virgolette, poiché McClelland intendeva riferirsi non all’intelligenza in sé, maall’intelligenza quale pretendevano di misurare i tradizionali test di abilità intellettiva.

Leggendo l’articolo, si incontrano di continuo frasi come “predict (predire) la per-formance superiore” e “individuare predictors (indicatori) di performance superiore”. Leparole predict e predictors, e altre simili, costituiscono tipiche espressioni di una ricercache ambisce ad essere scientificamente valida, dal momento che la validità di una teoriascientifica risiede appunto nella sua capacità di prevedere, sulla base di determinate ipo-tesi esplicative, un certo corso di eventi.

L’articolo apparve sulla rivista American Psychologist (1973, n. 1, pp. 1-14), pub-blicata dall’Associazione degli psicologi americani. Quasi venti anni dopo, la stessarivista (1991, n. 10, pp. 1012-1024) pubblicò un articolo dal titolo A Reconsideration ofTesting for Competence Rather Than for Intelligence, di Gerald V. Barrett e Robert L.Depinet, nel quale gli autori, dopo aver riconosciuto la vasta adesione che aveva nelfrattempo avuto l’impostazione di McClelland, la sottoponevano ad una analisi forte-mente critica, riaffermando la tesi che i tradizionali test di abilità intellettiva rappresen-tavano i migliori predittori del successo nel lavoro e non davano luogo a discriminazio-ni a danno delle minoranze, delle donne e dei ceti sociali meno abbienti. Tre anni dopo,sempre in quella rivista (1994, n. 1), apparvero le risposte di Boyatzis (Rendering UntoCompetence the Things That Are Competent, pp. 64-66) e dello stesso McClelland (TheKnowledge-Testing-Educational Complex Strikes Back, pp. 66-69), assieme alla contro-replica di Barrett (Empirical Data Say it All, pp. 69-71). Per il suo elevato tecnicismo,non avrebbe senso dibattere ulteriormente in questa sede una problematica – peraltrosolo collaterale all’oggetto principale di questo manuale – qual è quella del valore pre-

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* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 17.

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71 L’intervista fu rilasciata da McClelland nel 1997, l’anno prima della sua morte. Il testo completo è consulta-bile su Internet: http://competencyandei.com/Interview-with-David-McClelland.

dittivo che i cosiddetti test d’intelligenza hanno rispetto al successo delle prestazioni dilavoro (problematica invece molto viva negli Stati Uniti, dove quei test hanno da tantis-simo tempo una enorme rilevanza sociale che in Italia non hanno mai avuto). Di sfuggitasi può qui solo osservare che, secondo un’opinione comune – banale quanto si vuole,ma non per questo meno vera –, il più bravo chirurgo di un ospedale (per citare solo unesempio) difficilmente potrà anche esserne il miglior direttore (non di rado, anzi, sirivela un mediocre se non un pessimo direttore ospedaliero), poiché, come si dice, sitratta di mestieri molto diversi. È indubbio che occorrono elevate capacità intellettiveper svolgere sia l’uno che l’altro mestiere, ma ci deve essere allora qualcos’altro chespiega perché un eccellente chirurgo è spesso incompetente per il lavoro di direttoresanitario. Ebbene, come possono cogliere questo “qualcos’altro” test puntati solo a rile-vare l’“intelligenza”?

Può essere utile, infine, una precisazione terminologica. In inglese esistono duevocaboli – “competence” e “competency” – al posto dell’unico vocabolo italiano “com-petenza”. Nell’uso comune, queste due parole inglesi hanno lo stesso significato (l’unicadifferenza è che competence è più frequentedi competency). Nell’approccio di McClel-land, il termine competency ha invece unsignificato tecnico: è una categoria di compor-tamenti dai quali dipende il giudizio se la persona abbia o no competence nel lavoro(Competence at Work è appunto il titolo del libro di Spencer & Spencer più volte citato,che non si chiama infatti “Competency at Work”, mentre il Dizionario generale dellecompetenze contenuto in quel libro si chiama “Competency Dictionary” e non “Compe-tence Dictionary”). La competency – o, più precisamente, un insieme di competencies(che è il plurale di competency, mentre il plurale di competence è competences) – è lacausa della competence lavorativa. In una sua intervista, McClelland spiega così la cosa:“‘Competency’ è un termine che abbiamo introdotto in sostituzione della parola più bre-ve: ‘skill’ (capacità). Negli Stati Uniti si può frequentare un istituto tecnico professionaleper imparare il mestiere di addetto a una stazione di servizio. Si apprende a svitare tappi,mettere la benzina, e così via. Ma in base alle mie osservazioni, tutto questo è relativa-mente poco importante per determinare quanto spesso un automobilista si fermerà a unastazione di servizio. È più importante che l’operatore sorrida al cliente o abbia invece unfare accigliato. Così abbiamo sviluppato una competency chiamata ‘orientamento alcustomer service’, che copre un ampio spettro di modalità di ‘being nice to customers’(‘essere gentili con i clienti’). La chiamammo una ‘competency’ perché è ovviamentequalcosa di più che delle semplici ‘skills’. Essa copre una varietà di tipi di azioni, ognu-no dei quali è incluso nella definizione che nel dizionario si dà di quella particolarecompetency. Ci sono specifici comportamenti behind (dietro) ogni competency e sonotutti suscettibili di osservazione”71.

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Competency (competencies) Õ Competence

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2. I “superior performers” e il concetto di deviazione standard*

Nella letteratura la nozione di superior performers è collegata al concetto statisticodi deviazione standard. I superior performers sono coloro che eseguono performancepari a una deviazione standard al di sopra dellaperformance media, collocandosi quindi – inuna distribuzione normale a 4 fasce (inferiori,medio-inferiori, medio-superiori, superiori) –nella fascia “top” del 15% dei componenti diun’organizzazione. La nozione di deviazionestandard può essere resa facilmente comprensi-bile ricordando il noto apologo di Trilussasecondo cui se una persona mangia due polli euna non ne mangia nessuno, per la statisticaconterebbe solo questo: che le due persone han-no mediamente mangiato un pollo a testa. L’e-quivoco non sarebbe possibile se, insieme allamedia, fosse anche indicata una misura delladispersione rispetto alla media, una misura cioèdi quanto, mediamente, i valori dati si discostino dalla loro media. In statistica, la misurageneralmente utilizzata per calcolare la dispersione di una serie di valori rispetto allamedia è appunto la deviazione standard72.

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APPENDICE

La statistica

Sai ched’è la statistica? È na cosache serve pe’ fa’ un conto in generalede la gente che nasce, che sta maleche more, che va in carcere e che spòsa.Ma pe’ me la statistica curiosaè dove c’entra la percentuale,pe’ via che, lì, la media è sempre egualepuro co’ la persona bisognosa.Me spiego: da li conti che si fannosecondo le statistiche d’adessorisurta che te tocca un pollo all’anno:e, se nun entra ne le spese tue,t’entra ne la statistica lo stessoperché c’è un antro che ne magna due.

Trilussa

* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 18.72 La deviazione standard (indicata con la lettera greca σ, cioè sigma minuscolo) è uguale alla radice quadrata

della media aritmetica della somma dei quadrati degli scarti dei valori dalla media. Sentendo questa for-mula, e ancor più leggendo come si scrive:

è possibile che il lettore non avvezzo alle tecniche statistiche sia tentato dallo stesso atteggiamento cuidesiderava abbandonarsi il maresciallo Göring quando sentiva parlare di “cultura”: mettere mano alla fon-dina della pistola. Riflettendoci un po’ sopra, la cosa è però alla fine meno complicata di quanto potrebbesembrare, e del resto il concetto di deviazione standard è di uso diffusissimo nei sistemi di valutazione,sicché vale la pena dedicarvi uno sforzo minimo per acquisirne sufficiente padronanza. Se abbiamo 3 valo-ri – ad esempio 3, 4 e 8 – la loro media aritmetica è 5. Di quanto si scostano mediamente questi tre valoridalla media? Rispetto a 5 (che è appunto la media) 3 ha uno scarto di 2, 4 uno scarto di 1 e 8, infine, unoscarto di 3 (è chiaro che bisogna tenere qui conto solo dei valori assoluti, poiché altrimenti la loro somma –cioè +2, +1, -3 – non potrebbe che dare 0). Se sommiamo questi tre scarti (2+1+3) e dividiamo la somma per3, otteniamo uno scostamento medio di 2 (in statistica si chiama “scostamento semplice medio”). Gli stati-stici, però, invece di sommare gli scarti semplici dei valori dalla media, preferiscono sommare i quadratidegli scarti dalla media. Nel nostro caso la somma degli scarti sarebbe: 22+12+32 = 14. Dopo di che si dividela somma per 3 e se ne estrae la radice quadrata: il risultato è 2,16. Questa è la deviazione standard e il cal-colo che abbiamo appena fatto altro non è che l’applicazione della formula – apparentemente tanto astrusa– riportata all’inizio di questa nota. Ma perché gli statistici preferiscono sommare i quadrati degli scartidalla media, anziché gli scarti semplici? Con l’operazione di elevamento al quadrato degli scarti, l’effettomatematico è di amplificare notevolmente il peso degli eventuali valori anomali in una distribuzione didati (valori anomali sono quelli che si discostano molto dalla media aritmetica e quindi dalla netta maggio-ranza dei valori della distribuzione stessa), facendo così spostare verso di essi l’indice di variabilità. Di

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Se è concettualmente chiara la nozione di superior performers, potrebbe però sem-brare un punto debole della ricerca di McClelland il fatto che egli abbia demandatoall’Amministrazione il compito di individuare in concreto il campione dei superior per-formers. In altre parole, chi ci dice che l’Amministrazione non potesse sbagliare in que-sta opera di individuazione, segnalando come superior performer chi in realtà non lo erae omettendo invece di segnalare persone che lo erano veramente? Naturalmente, l’erroresingolo è sempre possibile, ma – a parte la considerazione che non si vede chi potessemai ritenersi abilitato a fare quella scelta in alternativa all’Amministrazione – McClel-land non ha lavorato con singoli superior performers, ma con gruppi statisticamentesignificativi73, che non comprendevano solo persone caratterizzate da elevata perfor-mance, ma anche average performers. Va inoltre osservato che il metodo dell’intervistaBEI stabilisce che gli intervistatori non debbano conoscere a quale campione appartengala persona intervistata, proprio per evitare condizionamenti di giudizio nello svolgimen-to dell’intervista e nella sua successiva codifica74.

Un metodo di individuazione delle competenze che prescinde da una previa indi-viduazione di best performers e di average performers è quello dell’analisi funzionale,che ha però l’inconveniente di individuare solo le competenze soglia, ma non le compe-tenze distintive (quelle cioè che spiegano la performance superiore). Si tratta quindi diun metodo che, se ha il vantaggio di non richiedere una individuazione a priori dei bravie dei meno bravi, ha però il torto di non consentire questa individuazione neanche aposteriori. La questione viene meglio chiarita a p. 131.

Un altro approccio, molto originale, che non richiede di individuare preventiva-mente un campione di best performers è quello di un ricercatore svedese, Jörgen Sand-berg, che ha fatto uno studio presso gli stabilimenti Volvo coinvolgendo un gruppo diingegneri impegnati nel lavoro di ottimizzazione dei motori. Intervistando un campionesignificativo di questi ingegneri, Sandberg scopre che essi non hanno la stessa concezione

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conseguenza, la deviazione standard assume valori tanto più elevati dello scostamento semplice medio,quanto maggiore è lo scarto tra i valori anomali della distribuzione e la media aritmetica. In sostanza, ladeviazione standard è – rispetto allo scostamento semplice medio – un indice di variabilità che meglio rap-presenta l’esistenza di valori anomali all’interno di una distribuzione. Nell’esempio che abbiamo fatto, ladeviazione standard è 2,16, e quindi è di pochissimo superiore allo scostamento semplice medio. La forbi-ce tenderebbe a crescere, e di molto, quanto più fosse anomala la distribuzione dei dati.Torniamo ora all’apologo di Trilussa. Lì, se facciamo i conti, la deviazione standard è 1. Domanda: 1 è unvalore basso o elevato? Dare una risposta in assoluto non avrebbe senso: essa dipende, evidentemente, dalvalore della media da cui ci si discosta. Poiché in quel caso la media è anch’essa pari a 1, una deviazionestandard uguale a 1 sta a significare che i due valori posti a raffronto (due polli e zero polli) hanno unoscarto in più o in meno rispetto alla loro media che è uguale a ben il 100% della media stessa (in statisticail rapporto fra deviazione standard e media aritmetica si chiama “coefficiente di variazione”). Si trattaquindi di una deviazione standard notevolmente alta. Ecco allora spiegato l’equivoco in cui cade Trilussa.Non è affatto vero che la statistica assimila indebitamente situazioni diverse, perché la statistica non lavorasolo con il concetto di media, ma anche con quello di dispersione rispetto alla media. La situazione A incui due italiani mangiano effettivamente ognuno il proprio pollo e la situazione B in cui un italiano man-gia due polli e l’altro nessuno, sono sì uguali sotto l’aspetto della media aritmetica (è 1 in entrambi i casi),ma non lo sono affatto sotto l’aspetto della deviazione standard (è 0 nel primo caso e 1 nel secondo).

73 I criteri sono dettagliatamente esposti da Spencer & Spencer, op. cit., p. 97 dell’edizione originale.74 Si tratta del procedimento del doppio cieco, in cui il ricercatore direttamente a contatto con il soggetto non

è a conoscenza (al pari del soggetto stesso) del gruppo sperimentale cui il soggetto è assegnato.

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di lavoro. In altre parole, alcuni di loro ritengono che “ottimizzare bene” i motori richiedaun ottimizzatore con determinate caratteristiche (conoscenze, capacità e altri attributi),mentre altri ingegneri del gruppo campione ritengono che il “bravo ottimizzatore” ne deb-ba avere delle altre. Scavando più in profondità, Sandberg ritiene di poter arrivare allaconclusione che le concezioni di lavoro sottese all’attività degli ingegneri intervistati sonofondamentalmente tre (lo studio di Sandberg viene meglio analizzato più avanti). Doman-da: qual è la concezione migliore? La questione è cruciale, poiché Sandberg parte dall’as-sunto implicito che chi ha la concezione di lavoro migliore realizzerà anche la performan-ce migliore (assunto sicuramente problematico, poiché non spiega come mai a parità diconcezione di lavoro, le performance possano poi essere molto diverse), e sarà quindianche il best performer. Come risponde Sandberg a questa domanda? Con l’ipotesi della“inclusività” delle concezioni di lavoro: la concezione migliore è quella che incorpora lealtre, come in una specie di matrioska. La conclusione lascia perplessi. In primo luogo, vanotato che quando Sandberg cerca un riscontro empirico della sua ipotesi, non fa altro chericorrere alla classica peer evaluation, cioè alla “valutazione dei colleghi”. Ma se è la valu-tazione di persone competenti (in questo caso non i capi, ma i colleghi) a dover alla finestabilire chi è più bravo, che problema c’è a partire fin dall’inizio con questa valutazione,sia pure sottoponendola poi al vaglio critico della riflessione negli expert panels? Insecondo luogo: è proprio vero che fra le diverse concezioni di lavoro in una organizzazio-ne è sempre possibile trovare questo magico rapporto di inclusività o non si tratta invecespesso di concezioni in conflitto fra le quali occorre scegliere per individuare qual è quel-la migliore ai fini della performance superiore? E se è così, perché non partire dal datoempirico dell’esistenza di best performers (siano essi individuati da capi, colleghi o clien-ti, o attraverso un mix di queste fonti di giudizio), sia pure – è bene ripeterlo – con la suc-cessiva revisione critica ad opera degli expert panels?

3. La distinzione fra competenze e risultati*

Fra competenze e risultati viene fatta spesso una distinzione analoga a quella framezzi e fini. Se i risultati rappresentano cosa bisogna fare, le competenze indicano come(cioè con quali comportamenti) si riesca a raggiungerli. Questa distinzione può dare luogoa un duplice malinteso. Il primo è di pensare che ciò che conta è alla fine sono solo i risul-tati, sicché il discorso sulle competenze avrebbe, tutto sommato, importanza solo seconda-ria. Il secondo malinteso – corollario del primo – è che, assumendo come essenziali solo irisultati e avendo le competenze caratteristiche meno tangibili (e quindi meno “oggettive”)dei risultati, occorrerebbe limitarsi alla considerazione di questi ultimi, evitando di soffer-marsi sulle competenze. I malintesi nascono dal fatto che non si tiene conto della distin-zione fra risultati a breve e risultati a medio e lungo termine. Prestare attenzione alle com-petenze, significa focalizzare l’aspetto chiave della continuità e del miglioramento pro-gressivo dei risultati: “Se, per esempio, hai venduto e acquisito un ordine, hai un sicuro

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* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 22.

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risultato, che finisce nel tuo budget e che ti rende felice. Ma la domanda però è: ‘come’ haivenduto. Qui si aprono altre domande: il cliente è soddisfatto? Il cliente continuerà adessere soddisfatto? Il cliente saprà adoperare bene ciò che ha acquistato? Gli hai vendutociò che gli serve davvero, o solo ciò che ti ha chiesto? E poi: hai accumulato conoscenza ecompetenza sul suo processo di acquisto, sulla tua argomentazione di vendita, sulla quali-tà del tuo processo di vendita? E poi la tua vendita ha utilizzato il prodotto a magazzino?Ha utilizzato una standardizzazione a monte, per customizzare a valle? Ha ridotto lo spre-co del tuo assortimento? Gli ha ‘venduto’ – oltre al prodotto, alla sua prestazione, alla suafunzione d’uso – anche una relazione affidabile, una integrità? Così la tua azione ha pro-dotto, oltre a un risultato visibile, una pluralità di effetti secondari che – nel tempo – costi-tuiranno un patrimonio: il valore sta qui” (U. Capucci, La generazione di valore nellasocietà della conoscenza, in FOR, Rivista per la formazione, FrancoAngeli, n. 62, gennaio-marzo 2005, p. 7). Insomma, se si allarga lo sguardo oltre l’arco del breve periodo, si puòdire che le competenze sono in qualche modo esse stesse risultati. La distinzione netta frail cosa e il come viene quindi a sfumare, e le competenze si affermano come il reale valoredi un’organizzazione nel tempo. Peraltro, in termini teorici più generali, la distinzionetranchant fra azione (comportamento) e risultato si presenta problematica, poiché unrisultato si qualifica in un senso piuttosto che in un altro a seconda di come qualifichiamol’azione che gli è correlata. Per citare un caso immediatamente comprensibile, la “morte diun individuo” è qualificabile come evento-risultato “omicidio” se l’azione era volta, adesempio, ad impadronirsi dei beni del defunto, mentre è qualificabile come “difesa legitti-ma” se il comportamento che ha determinato la morte era di difesa da un’aggressione. Inogni caso, è opportuno qui ricordare che nel modello delle competenze dell’Agenzia, lecompetenze riconducibili al “dinamismo intellettivo” non sono rilevate attraverso com-portamenti, ma, per ragioni di semplicità, attraverso il loro output (vedi p. 26).

4. L’iceberg delle competenze*

Cosa c’è “dietro” o “sotto” i comportamenti generatori di superior performance? Inquesta direzione ha scavato un filone distudi che ha avuto larga risonanza anchepresso il vasto pubblico. Ne sono esponen-ti autori (alcuni dei quali allievi dello stes-so McClelland), come Richard Boyatzis,Spencer & Spencer e Daniel Goleman,noto, quest’ultimo, per le sue brillanti ope-re divulgative sulla cosiddetta “intelligen-za emotiva” (non mancano però i critici75

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* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 23.75 Tra i più recenti si può vedere E.A. Locke, Why emotional intelligence is an invalid concept, in «Journal of

Organizational Behavior», 26 (4), June 2005, pp. 425-431.

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che contestano la scientificità di tale concetto). La domanda di partenza è stata all’incircaquesta: cosa consente ad una certa persona, piuttosto che a un’altra, di mettere in attocomportamenti che generano prestazioni lavorative di livello superiore? La rispostasarebbe, secondo Spencer & Spencer, nell’iceberg delle competenze. Nello strato disuperfice della personalità, vi sarebbero conoscenze e capacità (in inglese, skills), poi,più giù, sotto il pelo dell’acqua, la comprensione di sé (self-concept), che include gliatteggiamenti, i valori e l’immagine di sé e, infine, nello strato più profondo (la core per-sonality), le motivazioni e i tratti. Secondo questo approccio, non basterebbe dire che lecompetenze sono i comportamenti tipici del best performer in un determinato lavoro.Bisognerebbe piuttosto dire che sono le caratteristiche individuali che stanno sotto aquei comportamenti. Precisamente, le competenze sarebbero underlying characteristicsof an individual (caratteristiche “sottostanti” di un individuo o, per usare dei sinonimi,soggiacenti o sottese) che causano – e quindi consentono di predire – una outstandingperformance on the job (una prestazione lavorativa fuori del comune). In italiano“underlying characteristics of an individual” viene solitamente tradotto con l’espressio-ne “caratteristiche intrinseche di un individuo”. Probabilmente è l’unica traduzioneaccettabile nella nostra lingua, che ha però il difetto di non rendere la radice “sotto” delvocabolo inglese, che nel caso di specie ha un preciso valore semantico, come mostral’immagine dell’iceberg.

C’è anche da osservare che quell’immagine può intuitivamente servire a porre l’ac-cento sulle difficoltà che si possono incontrare nei processi di formazione e sviluppodelle competenze. In essa, però, vengono affastellati aspetti troppo diversi ai fini di unasoddisfacente spiegazione e previsione dei comportamenti. È importante, ad esempio,distinguere se una persona non ha una buona performance per mancanza di conoscenzee capacità (migliorabili con la formazione) o per carenza di motivazione (in questo caso,non si tratterebbe tanto di attivare processi di formazione, ma piuttosto di ricorrere aincentivi, sia materiali che immateriali). Su questo punto vedi A. Grandori, Organizza-zione e comportamento economico, cit., pp. 92-93.

5. Il dibattito sulla nozione di “competenza”*

Viene generalmente riconosciuto che l’approccio alle competenze scaturito dallavoro pionieristico di McClelland ha il vantaggio del saldo ancoraggio a dati empirici: siparte dall’evidenza che esistono in un’organizzazione best performers e average perfor-mers e si risale per via induttiva, utilizzando strumenti tipici dell’indagine scientificacome i gruppi di controllo, alla enucleazione delle caratteristiche predittive di superiorperformance. Tra gli svantaggi viene, di contro, sottolineato la “staticità” dell’approccio ecioè il fatto che sarebbe rivolto al passato invece che orientato al futuro: se un’organizza-zione è in fase di cambiamento, mettere a fuoco le caratteristiche del best performer diieri dirà ben poco delle qualità del “bravo di domani” ed è invece proprio questo che ci

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* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 23 e a p. 32.

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interesserebbe sapere, se l’organizzazione ha in mente di “cambiare pelle”. Nel caso delleamministrazioni pubbliche il passaggio topico potrebbe essere quello della trasformazio-ne da una “amministrazione burocratica” ad una “imprenditiva” – per usare la contrap-posizione resa popolare dal celebre libro di Osborne e Gaebler dal titolo ReinventingGovernment76 pubblicato agli inizi degli anni ’90 e da cui trasse ispirazione il program-ma di riforma dell’amministrazione federale americana lanciato dalla Presidenza Clintonall’inizio del suo primo mandato – oppure il cambiamento dell’organizzazione del lavo-ro, come, ad esempio, il passaggio da rigide segmentazioni di attività specialistiche alavorazioni per processi e da modalità di trattazione individuale delle pratiche al lavoroper team (entrambe le trasformazioni sono intervenute fra la fine degli anni ’90 e i primianni del 2000 nell’Agenzia delle Entrate, con la soppressione della miriade di vecchiuffici frammentati per specializzazione d’imposta – imposte dirette, IVA e registro – e lacreazione di nuovi uffici unificati, articolati al loro interno nei due grandi processi delservizio ai contribuenti e del controllo fiscale e basati su modalità di lavoro che privile-giano la polivalenza e l’integrazione in team).

Quale sarebbe allora la soluzione più appropriata nel caso di strutture che nonsiano già consolidate nel loro modello organizzativo ma si trovino in fase di forte cam-biamento? C’è un filone di studi, ben rappresentato nel mondo della consulenza, secon-do il quale l’approccio giusto non sarebbe, in una evenienza del genere, quello induttivomesso a punto da McClelland e dai suoi collaboratori (definito, in questo filone di studi,un po’ riduttivamente – e con una sfumatura negativa – “psicologico-individuale”).L’approccio giusto sarebbe invece quello di ricavare per deduzione dalle caratteristichedel nuovo business aziendale e dalla sua strategia le competenze che le persone devonoavere (questo approccio – definito dai suoi fautori “strategico-organizzativo”, termineche, già solo per la sua risonanza molto più suggestiva di quella del termine “psicologi-co-individuale”, tende ad imporsi subito al lettore – trae origine dalle pubblicazioni didue autori, G. Hamel e C.K. Prahalad, sulla “Core Competence of the Corporation”,ovvero sulla “competenza distintiva delle aziende”, come è stato tradotto in italiano).Ad esempio, se l’azienda opera in un business in cui la competizione si gioca sulla con-tinua innovazione di prodotto, si potrebbe dedurre che una capacità organizzativa chia-ve è la capacità dell’organizzazione di produrre innovazione, il che porterebbe ad iden-tificare, tra le competenze importanti delle persone, la creatività, la capacità di tenersiaggiornati a livello di eccellenza tecnologica, l’orientamento allo scambio di know-howecc. (Performance Improvement, a cura di E. Oggioni e A. Rolandi, Milano, Etaslibri,1998, p. 15). Questo approccio sembra convincente, ma sembrava assai convincenteanche la politica di selezione che il Dipartimento di Stato seguiva per il reclutamentodei funzionari da inviare all’estero presso gli uffici dell’USIS. Se il business di questiuffici era la diffusione della cultura americana all’estero, perché non dedurre che lacompetenza-chiave di quei funzionari dovesse essere la perfetta conoscenza della lin-gua e della cultura americana? L’analisi induttiva di McClelland dimostrò che quella

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76 Il libro è stato tradotto in italiano con il titolo Dirigere e governare (Milano, Garzanti, 1995). La prefazioneall’edizione italiana è di Sabino Cassese.

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conoscenza era una “competenza soglia”, ma non una “competenza distintiva” per rea-lizzare performance eccellenti. Il dubbio, quindi, è che il cosiddetto approccio “strategi-co-organizzativo” costituisca, metodologicamente, una riproposizione, sotto nuove for-me, dell’approccio tradizionale che crede di poter dedurre dalle caratteristiche funzio-nali di un job le caratteristiche ideali della persona che deve eseguire quel job77. Taleapproccio rischia di mettere in luce solo le caratteristiche minime per svolgere un lavo-ro, cioè le caratteristiche di un average performer, e di fallire invece nella messa a fuocodelle caratteristiche del best performer.

In sintesi, le osservazioni che si possono qui fare sono tre.La prima, di carattere generale, è che l’approccio “psicologico-individuale” e quel-

lo “strategico-organizzativo” operano su piani radicalmente diversi, in quanto rispondo-no a esigenze diverse, sicché va considerato comunque con cautela il tentativo di ricon-durli sul terreno di un’unica problematica. Il primo approccio mira a spiegare le differen-ze di performance fra una persona e l’altra all’interno di una organizzazione, mentre ilsecondo mira invece a spiegare le differenze di performance fra un’organizzazione e l’al-tra (in altri termini, l’eventuale “vantaggio competitivo” di un’impresa rispetto a un’al-tra), tant’è che propone una definizione di “competenza distintiva” che va al di là del raf-fronto tra le competenze delle singole persone appartenenti ad una medesima realtàaziendale: “Le competenze distintive rappresentano ciò che l’azienda ha appreso collet-tivamente soprattutto sul come coordinare le diverse capacità produttive e integrare dif-ferenti correnti tecnologiche” (G. Hamel e C.K. Prahalad, La competenza distintiva delleaziende, in «Harvard Espansione», 1990, n. 49, p. 10). Per chiarire ulteriormente il pro-prio pensiero, gli autori appena citati proseguono così: “se, quando si parla di competen-ze, si parla di armonizzare differenti correnti tecnologiche, si parla anche dell’organizza-zione del lavoro”. È evidente che un confronto fra le differenze tra le persone in terminidi competenze si può fare solo a parità di organizzazione del lavoro, poiché altrimenti simescolano in modo scriteriato cose diverse (attribuendo, ad esempio, alla bravura dellepersone ciò che va attribuito alla bontà del modello organizzativo). Peraltro, proprio per-ché focalizza la questione del “vantaggio competitivo”, l’approccio “strategico-organiz-zativo” è calibrato sul mondo delle imprese, più che su quello delle amministrazioni

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77 Nell’intervista già citata, McClelland ricorda ad esempio il caso di una compagnia petrolifera che avevacommissionato un modello di competenze per i suoi strateghi di business. In base all’analisi funzionale, ilcompito principale di quelle persone sembrava essere la pianificazione. I consulenti incaricati di predi-sporre il modello proposero quindi una lista di competenze essenziali, che includevano il “pensiero con-cettuale” e il “ragionamento deduttivo”. Ma le interviste BEI – che erano state separatamente richieste aMcClelland dalla società petrolifera – rivelarono che una competenza fino allora insospettata (l’influenza)era molto importante per distinguere gli outstanding dagli average performers. I migliori strateghi di busi-ness ritenevano infatti che il loro lavoro fosse ben più che scrivere un buon piano strategico. Era ancheimportante che la dirigenza di vertice comprendesse il piano e fosse preparata ad adottarlo. Conseguente-mente, i più bravi si assicuravano che i propri dirigenti fossero coinvolti nelle decisioni già nella primafase di elaborazione del piano. I meno bravi non afferravano questo punto, né i consulenti l’avevano colto.Come concludeva McClelland, con l’analisi funzionale “the danger is that you leave things out” (“c’è ilpericolo di tralasciare qualcosa”). Per citare un altro esempio, il tipico slogan “chi lavora in R&D [Researchand Development] deve essere creativo” risulterebbe “ampiamente smentito da una realtà di Ricerca in cuila creatività non risultava affatto tra le competenze distintive, ma soltanto tra quelle ‘di soglia’” (Perfor-mance Improvement, a cura di E. Oggioni e A. Rolandi, cit., p. 19).

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pubbliche, riguardo alle quali solo in senso molto lato si può parlare di concorrenza (puòessere invece interessante notare che la ricerca pionieristica di McClelland ha origineproprio nell’ambito di amministrazioni pubbliche: prima il Dipartimento di Stato degliStati Uniti – esperienza questa che abbiamo già ampiamente raccontato – e poi la CivilService Commission, cioè la Commissione del pubblico impiego, del Massachusetts).

La seconda osservazione è che l’approccio “strategico-organizzativo” funziona perl’individuazione delle competenze delle persone solo se non è interamente deduttivoed utilizza quindi – grazie anche ad operazioni di benchmarking – la base empiricacostituita dalle best performances rilevabili in aziende di successo nel business di rife-rimento. In altri termini, le competenze-chiave necessarie ad un’azienda che sta trasfor-mando la sua missione vengono induttivamente ricavate, se non dai best performers diquell’azienda (perché questo significherebbe guardare al passato), dai best performersdi aziende già affermatesi come leader nel nuovo business (attingendo ai modelli dicompetenze di tali aziende).

La terza e ultima osservazione è che un modello di competenze ha rilevanza prati-ca solo se non si riduce a indicazioni assai generiche su cosa le persone dovrebbero fare,ma riesce a formulare, con un linguaggio chiaro e condiviso e ben orientato al saper fare,una descrizione analiticamente graduata dei comportamenti da seguire o da evitare(insomma una scala sufficientemente univoca di comportamenti osservabili). Solo unadescrizione di questo tipo può infatti soddisfare le condizioni di validità ed affidabilitàdi un modello di competenze, indispensabili come base di una valutazione oggettiva del-le competenze. Questa è, a sua volta, necessaria per promuovere efficaci processi di svi-luppo delle competenze (se non si stabilisce quali siano i miei punti di forza e quali quel-li di debolezza come si fa a potenziare ulteriormente i primi e a lavorare sui secondi permigliorarli?). Tutto ciò, peraltro, è riconosciuto dagli stessi fautori dell’approccio strate-gico-organizzativo, i quali sottolineano che “il passaggio più delicato della metodologia[di individuazione delle competenze] è la definizione del grading”, cioè la costruzionedella scala su cui si misura la “bravura” in una certa competenza. E la definizione delgrading (graduazione) richiede “il contributo diretto della linea, che aiuta a individuare icomportamenti reali che ‘fanno la differenza’, attraverso l’esperienza diretta e l’osserva-zione dei ‘più bravi’” (Business, strategia, competenze, a cura di U. Capucci, cit., pp.102-104). Ma in questo modo non si finisce per riprendere i costrutti fondamentali delcosiddetto approccio “psicologico-individuale” rispetto al quale si intendevano invecemarcare le distanze? Questa domanda appare ancora più legittima quando, nell’operaappena citata (pp. 71-72), si legge una definizione di competenza del tutto analoga aquella dell’approccio “psicologico-individuale”: un “aggregato” di conoscenze e capacitàche sono definite attraverso il comportamento osservabile e sono strettamente collegatealla performance eccellente desiderata. L’autore aggiunge che la performance eccellente èquella richiesta “dal business, dalla strategia competitiva e dai suoi fattori critici di suc-cesso”, ma anche nell’approccio “psicologico-individuale” è l’organizzazione e non cer-to l’individuo che stabilisce cosa debba intendersi per prestazione eccellente. Nellavicenda dei funzionari USIS, per citarla ancora una volta, fu il Dipartimento di Stato cheindividuò, in base appunto alla sua idea di best performance, chi fossero “i più bravi”.

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Nel dibattito va anche ricordata la posizione, assai autorevole (A. Grandori,Organizzazione e comportamento economico, cit., pp. 95-99), secondo cui bisognereb-be “sviluppare un’analisi delle competenze più dinamica e generativa, rispetto all’ap-proccio suggerito nei modelli di gestione delle risorse umane” (l’autrice si riferisce, inparticolare, ai contributi di R.E. Boyatzis e di Spencer & Spencer). Tale approccio,infatti, “nulla dice su quali altre combinazioni di competenze sarebbero state possibilie forse più efficaci, né su quali altri comportamenti si sarebbero potuti generare con lestesse competenze”. L’idea alternativa è “di partire dalle competenze stesse e dalle par-ticolari combinazioni in cui si presentano negli attori che le posseggono. Il fatto che lerisorse siano incorporate nelle persone in modo scarsamente divisibile, rende spesso lerisorse di fatto a disposizione più ricche di potenzialità rispetto ai particolari serviziper cui sono state selezionate. Sono le competenze possedute dagli attori, e ancor piùle combinazioni possibili con le competenze di altri, che possono aiutare a definirecompiti interessanti, piuttosto che viceversa. Si pensi ad esempio a docenti di unascuola di management. Un’analisi delle competenze di tipo generativo non dovrebbepartire dalle richieste dei compiti generici del docente, né da quelle specifiche di corsie prodotti esistenti. Dovrebbe ricercare soprattutto competenze possedute ma finoranon applicate, o non applicate in combinazione con altre complementari. Una mappa-tura di questo tipo potrebbe portare a scoprire che, per esempio, qualcuno custodiscecompetenze, diciamo, di metodi quantitativi di analisi reticolare, e qualcun altro dianalisi reticolare dell’organizzazione che, se combinate, potrebbero generare un nuovocorso di valore”.

Insomma, più che guardare al best performer reale bisognerebbe immaginare il bestperformer ideale (la persona che – sollecitata ad esprimere competenze fino allora solopotenziali o a combinarle in maniera inedita con le competenze di altri – riesce a produr-re comportamenti ancora più efficaci di quelli espressi da coloro che sono consideratiattualmente “i più bravi”). Sono spunti di riflessione importanti ai fini di una progetta-zione “generativa” dell’organizzazione. Non bastano però per generare un modello dicompetenze valido e affidabile per i processi di rilevazione, valutazione, remunerazionee sviluppo delle competenze. Per costruire un modello che abbia quelle caratteristicheoccorre una base empirica – cioè fattuale e non solo immaginata – di casi di best perfor-mance e si può disporre di una base del genere solo quando il best performer concepitocome ideale non è più solo nell’immaginazione generativa, ma è divenuto reale, e cioèsolo quando la nuova situazione organizzativa progettata è stata effettivamente generataed è divenuta operativa. Con il che rientra alla fine in gioco l’approccio esperienziale“suggerito nei modelli di gestione delle risorse umane”.

Per concludere, un’impostazione molto interessante, che riguarda sempre il temadella definizione di “competenza”, ma che sembra finora rimasta abbastanza isolata, èquella delineata da un ricercatore svedese, Jörgen Sandberg (Interpretare le competen-ze, in «Sviluppo & Organizzazione», n. 182, novembre/dicembre 2000, pp. 95-107 e111-114), in uno studio su un campione di ingegneri impegnati nel lavoro di ottimizza-zione dei motori della Volvo (vi si è già accennato a p. 128). In questo studio vieneapprofonditamente analizzata l’idea che in una organizzazione possano convivere, più

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o meno implicitamente, concezioni diverse su cosa debba intendersi per best perfor-mance e best performer. Nel campione esaminato, Sandberg individua tre diverse con-cezioni: “ottimizzare qualità separate”, “ottimizzare qualità interagenti” e “ottimizzaredal punto di vista del cliente”. È danotare che ognuna di queste conce-zioni interpreta a suo modo le cono-scenze e le capacità – Sandberg lechiama “attributi” – necessarie persvolgere il lavoro richiesto (ad es.conoscenza del motore, conoscenzadei sistemi di monitoraggio, capacitàdi autoapprendimento, capacità dicooperazione, ecc). Per proseguirenell’esempio, mentre nel contesto della concezione “ottimizzare qualità interagenti”l’attributo “capacità di autoapprendimento” significa “accrescere la conoscenza deinessi tra le qualità di un motore”, nel contesto della concezione “ottimizzare dal puntodi vista del cliente” l’attributo “capacità di autoapprendimento” significa avere “sensopratico del motore” e cioè accrescere la conoscenza della relazione tra desideri delcliente e motori. Di conseguenza, gli attributi non sono context-free, non sono cose ooggetti a sé stanti, descrivibili in sé e per sé e che, come pezzi del gioco del Meccano,produrrebbero diverse forme di competenza a seconda di come si aggregano e si “mon-tano” tra loro (questa visione meccanica delle competenze, Sandberg la chiama “ogget-tivistica” o “razionalistica”), ma sono “situazionali”, cioè acquisiscono un particolaresignificato a seconda della concezione del lavoro in cui vanno a inserirsi. Ora, è pro-prio dalla diversità delle concezioni di lavoro che dipende la diversità di competenza(ovvero ciò che fa la differenza tra i più bravi e i meno bravi), poiché queste concezioninon hanno pari valenza, ma presentano un ordinamento gerarchico, in termini di mag-giore o minore “inclusività” dell’una rispetto all’altra. In altre parole, le concezionisono come cerchi concentrici. È più “inclusiva” una concezione che, per ognuno deidiversi attributi necessari per svolgere il compito assegnato, rivela una visione piùampia e organica del lavoro, risultando così complessivamente più efficace per gli sco-pi che l’organizzazione persegue (quindi la concezione “ottimizzare dal punto di vistadel cliente” è superiore a quella “ottimizzare qualità separate”, poiché la prima com-prende tutti gli attributi della seconda, nel significato che assumono nell’ambito diquest’ultima, mentre non vale l’inverso). La funzione di un modello di competenze –che si costruisce appunto attraverso l’interpretazione e la discussione sistematica dellediverse concezioni del lavoro e degli attributi che vi ineriscono – è di rendere esplicitala gerarchia di concezioni. Con l’esplicitazione di tale gerarchia, il modello può attiva-re un processo di cambiamenti nella concezione del lavoro, che, a sua volta, facilita losviluppo di competenza nell’organizzazione. Come scrive Sandberg, “i tre distintimodi di concepire l’ottimizzazione rappresentano tre differenti forme di competenza”.Differenti, nel senso appunto di sovraordinate l’una all’altra. Semplificando molto, lostudio di Sandberg costituisce uno sviluppo assai interessante della intuizione comu-

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ne secondo cui è la “mentalità” con cui si fa una cosa che determina alla fine la qualitàdi ciò che si fa78.

Negli expert panels con cui è stato costruito il modello delle competenze dell’A-genzia si è svolto un lavoro di riflessione (vedi p. 21) che ha non poche affinità con l’ap-proccio interpretativo di Sandberg. Fra le domande che venivano rivolte ai funzionariesperti che partecipavano ai panels, ricorrevano spesso proprio quelle del tipo che Sand-berg poneva al suo gruppo di ingegneri ottimizzatori dei motori Volvo (ad es.: chi èsecondo te il “bravo” verificatore? In cosa consiste una verifica fiscale fatta bene?). Piut-tosto, è da osservare che le risposte non hanno messo in luce solo concezioni via via piùinclusive, ma anche concezioni fra loro contrastanti e fra le quali bisognava quindi sce-gliere se si voleva spiegare cos’è che determina la superior performance (lo studio diSandberg è stato analizzato sotto questo particolare profilo a p. 128). Anche queste sceltehanno portato alla configurazione del modello delle competenze dell’Agenzia.

6. Il metodo degli expert panels*

L’expert panel è uno dei metodi utilizzabili per sviluppare modelli di competenze.L’intervista BEI è considerata un metodo più accurato, ma ha il serio inconveniente diessere notevolmente lungo e costoso, sicché viene generalmente impiegato per individua-re competenze relative a un numero limitato di posizioni di particolare rilevanza. Tenutoconto invece della molteplicità di figure professionali da coinvolgere nella costruzionedel modello delle competenze dell’Agenzia, si è ritenuto, d’accordo con i consulentidell’Hay Group, che l’expert panel fosse allo scopo la tecnica più conveniente da seguire,anche grazie al fatto che il modello generale delle competenze delineato nel libro di Spen-cer & Spencer già menzionato forniva comunque molto materiale utile per la definizionedel modello dell’Agenzia. Una panoramica dei metodi di raccolta dei dati occorrenti perla costruzione di un modello di competenze si può trovare nell’edizione originale dellibro di Spencer & Spencer più volte citato, pp. 97-104 (cap. 10 intitolato Designing Com-petency Studies, non incluso nella traduzione italiana).

Per onestà intellettuale non si può comunque passare sotto silenzio l’osservazionedi Spencer & Spencer secondo cui gli expert panels avrebbero un grado di accuratezza dicirca il 50% inferiore rispetto alle interviste BEI. In particolare, gli esperti partecipanti aipanels individuerebbero competenze che nel 25% dei casi non troverebbero riscontronelle interviste BEI, mentre non riuscirebbero, di contro, a captare – in un altro 25% dicasi – le competenze che sarebbero intercettate dalle interviste BEI. Le ragioni di questaparziale defaillance del metodo degli expert panels sarebbero due.

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78 Peraltro, nell’approfondire tale intuizione, lo studioso svedese scomoda – probabilmente senza realenecessità – l’etica della comunicazione universale di Apel e, ancor più vistosamente, la fenomenologia diHusserl, richiamando il postulato che “persona e mondo siano inestricabilmente legati dall’esperienza delmondo vissuta dalle persone”. Non è escluso che vi sia qui una eccessiva semplificazione fino al frainten-dimento di complesse posizioni filosofiche, così come equivoca sembra essere la contrapposizione cheSandberg istituisce fra “approccio razionalistico” e “approccio interpretativo” al tema delle competenze.

* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 21.

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Gli expert panels tenderebbero a dare ingresso ai “Folklore or Motherhood Items”(“Motherhood” significa letteralmente “maternità” e “Items” significa in questo contesto“temi”. “Motherhood Items” non ha un preciso corrispondente in italiano: si può appros-simativamente tradurre con “concetti familiari”), cioè a costrutti che sono in realtà solofiliazione dei pregiudizi e delle concezioni tradizionali che vivono in tutte le organizza-zioni79. Ovviamente, luoghi comuni e stereotipi privi di reale fondamento non mancanomai in ogni organizzazione, rendendo non di rado controintuitive verità la cui acquisizio-ne sarebbe di grande beneficio (per un caso molto interessante vedi p. 144). Tuttavia c’è unaltro pregiudizio – sottile ma ugualmente ingiustificato e dannoso – ed è il pregiudizio chevede ovunque solo pregiudizi. Gli expert panels servono certo al vaglio critico dei Folkloreor Motherhood Items, ma anche ad evitare che prevalga il pregiudizio appena accennato.

Se i Folklore or Motherhood Items indurrebbero a individuare competenze in realtànon rilevanti, c’è un secondo fattore che avrebbe l’effetto opposto: precludere l’indivi-duazione di competenze che sono invece rilevanti. Questo fattore è il “Lack Psycologicalor Technical Vocabulary” (“carenza di vocabolario tecnico o psicologico”)80. Anche que-sta criticità, però, sembra tutt’altro che insuperabile. L’inserimento negli expert panels divalidi consulenti esterni (e proprio questo è avvenuto con gli expert panels in cui è statoelaborato il modello dell’Agenzia delle Entrate e a cui hanno dato il proprio supportotecnico qualificati consulenti dell’Hay Group) può apportare quel valore aggiunto di tec-nicalità che consente di superare la “carenza di vocabolario tecnico o psicologico”.

In conclusione, benché il senso critico sia sempre salutare, non sembra che in que-sto caso giustifichi un eccessivo scetticismo nei confronti del metodo degli expert panels,che rimane comunque, per le ragioni precedentemente illustrate, quello più convenienteper la costruzione di un modello di competenze che abbia ad oggetto vaste popolazioniprofessionali. Si è poi già osservato che la parte più difficile del lavoro di costruzione delmodello delle competenze dell’Agenzia non è stata tanto l’individuazione delle compe-tenze, ma la specificazione degli indicatori comportamentali di ciascuna competenza.Ebbene, decisivo è stato a questo riguardo proprio il contributo degli expert panels.

7. Dall’analisi dei singoli comportamenti al disegno della mappadelle competenze*

Come si arriva, partendo dalla rilevazione di singoli comportamenti, a disegnare lamappa delle competenze di una organizzazione? Con il metodo induttivo di McClelland,

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79 Spencer & Spencer accennano ad esempio al “coraggio morale” che nelle organizzazioni militari i massimicomandanti indicano spesso come un requisito tipico dei buoni ufficiali. Le interviste BEI relative amigliaia di episodi critici descritti da ufficiali della Marina e dell’Esercito avrebbero invece rivelato che ledecisioni con cui in genere hanno a che fare gli ufficiali riguardano temi gestionali e non ardue questionietiche, sicché le competenze veramente critiche sarebbero quelle manageriali e non quelle etiche.

80 Spencer & Spencer fanno ad esempio riferimento alla capacità di suscitare immagini tattili e visive (“elici-ting imagery”). Competenza, questa, che sarebbe distintiva degli ottimi venditori di tessuti, i quali – adavviso degli autori appena menzionati – pensano in termini di colori e di natura dei tessuti.

* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 19.

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il veicolo che consente questo percorso è l’intervista BEI. Le tappe del tragitto sonoessenzialmente due:• una prima strutturazione di dati che si compie già nel corso delle interviste BEI;• una elaborazione dei dati acquisiti con le interviste che avviene successivamente alle

interviste stesse e che si compie grazie ad una analisi di tipo contrastivo.

Esaminiamo con cura questi due distinti momenti.

7.1 Strutturazione dell’intervista BEI

Nell’intervista BEI, come già accennato, non si chiedono “racconti liberi”, ma rac-conti strutturati secondo una griglia ben precisa, riportata di seguito in lingua originale,per fissare meglio i concetti:• “What was the situation?” (Qual era la situazione?)• “Who was involved?” (Chi era coinvolto?)• “What did you think about, feel, want to accomplish?” (Cosa pensavi, sentivi o inten-

devi fare?)• “What did you do or say?” (Cosa hai fatto o detto?)• “What was the outcome – what happened?” (Qual è stato il risultato, cosa è accaduto?)

Chiedendo di conoscere, insieme ai fatti accaduti e alle persone coinvolte, i pensieri,i sentimenti e le volizioni che accompagnavano quei fatti e che avevano come oggetto quel-le persone, il materiale grezzo e spesso ambivalente degli accadimenti riceve un primo fon-damentale inquadramento. Si risale dai singoli comportamenti alle categorie di comporta-menti (che sono appunto le competenze) attraverso la messa a fuoco degli schemi concet-tuali (Thought patterns), dei modi di sentire e delle motivazioni (ciò che sta dietro alle sin-gole volizioni) dei protagonisti dei comportamenti raccontati nelle interviste. L’assunto dibase è che il comportamento organizzativo si caratterizza per la sua intenzionalità81 e l’in-tenzione è determinata dai pensieri, sentimenti e motivazioni degli interessati.

7.2 Analisi contrastiva nell’intervista BEI:somiglianze e differenze significative

L’elaborazione successiva alle interviste BEI consiste essenzialmente in una com-plessa analisi di tipo contrastivo che si può così schematizzare:

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81 “Un comportamento senza intenzione (intent) non definisce una competenza. Un esempio è il cosiddettomanagement by walking around (aggirarsi per gli uffici). Se non sappiamo perché il manager si aggira pergli uffici, non è possibile dire se dimostra una competenza. L’intenzione del manager potrebbe essere indif-ferentemente desiderio di scacciare la noia, di sgranchirsi le gambe, di controllare la qualità del lavoro o di‘farsi vedere dalla truppa’” (Spencer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 35). Dare rilievo alla “intenzione” delcomportamento non significa dare spazio a intuizioni incontrollabili. Nella semplice osservazione diretta,l’intenzione del comportamento, quando non la si può immediatamente inferire dal comportamento stesso(ove questo sia in concreto suscettibile di più letture), la si ricava dall’analisi del contesto (come avviene,del resto, per qualunque altro tipo di comportamento e non solo per quello organizzativo).

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Per vedere come l’analisi concretamente funzioni, può essere utile ragionare su uncaso concreto. Rievocando la storia dei funzionari dell’USIS all’estero, si è già accennatoa quel giovane che, inviato in missione in un paese africano, raccontò di aver capito subi-to che “ad avere in mano la politica petrolifera di quel paese era il nipote dell’amante delvice primo ministro”. Egli, di conseguenza, cercò subito di farsi invitare a un party, nelquale poté incontrare quel nipote e cominciare a perorare la causa degli Stati Uniti. È daun episodio come questo, e da altri simili, raffrontati con altri dissimili, che McClellandritenne di poter inferire che la competenza di cui aveva dato prova quel funzionario erala “rapidità a capire le relazioni politiche”. Se si va però più a fondo con il ragionamento,ci si accorge che quell’inferenza non era affatto scontata. La verità è che i casi della vitapossono presentare innumerevoli somiglianze o diversità a seconda del punto di vista dacui li si osserva. Se si andassero, ad esempio, ad esaminare gli altri episodi rilevati daMcClelland nei quali anche si manifestava, a suo avviso, la “rapidità a capire le relazionipolitiche”, si sarebbero magari potuti trovare altri tipi di somiglianza fra quegli episodi,oppure anche, per altri aspetti, diversità assai forti. Se, ad esempio, un altro funzionarioo, magari anche lo stesso funzionario, avesse raccontato che in un altro episodio erariuscito a mettere a segno un altro grosso successo grazie al fatto che aveva individuatol’amante di un altro importante uomo di potere, perché non concludere che la competen-za mobilitata da quel giovane era la “sensibilità a captare relazioni affettive extraconiuga-li”? Si potrebbe ribattere che questa particolare somiglianza nei casi esaminati non erarilevante (“non c’entrava”, come si usa dire). Ma allora, ciò che bisogna cercare non è unaqualsivoglia somiglianza (se ne possono trovare a iosa nelle situazioni concrete poste araffronto), bensì una somiglianza rilevante. E, analogamente, le differenze che contanosono solo quelle rilevanti. Ma rilevanti rispetto a che? Rispetto allo scopo perseguito cheè quello di trovare in tutti i casi posti a raffronto un elemento che possa individuarsicome causa dei successi riscontrati. Il criterio di somiglianza e di diversità non è passiva-mente desunto dai casi osservati (da essi potrebbero infatti ad uguale titolo desumersialtri n criteri di somiglianza e di diversità), ma è introdotto dal ricercatore come ipotesiesplicativa. In sostanza, osservando questo o quell’episodio il ricercatore concepisce,con un “salto intuitivo”, la categoria “rapidità a capire le relazioni politiche” e poi mettealla prova l’efficacia esplicativa di tale categoria, verificando se essa permette di assimi-lare casi fra loro diversi per tanti altri aspetti o, viceversa, di differenziare casi fra lorosimili per tanti altri aspetti. Ad esempio, somiglianze rilevanti fra comportamenti di suc-cesso di più best performers o dello stesso best performer possono indicare competenzedistintive di performance superiore, così come possono indicarlo differenze rilevanti fracomportamenti di successo di best performers e comportamenti di insuccesso di average

Gruppo dei best performers Gruppo degli average performers

Episodi di successo Episodi di successo

Episodi di insuccesso Episodi di insuccesso

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performers82. Mentre somiglianze rilevanti fra comportamenti di successo di best perfor-mers e di average performers possono denotare competenze soglia (per la distinzione fraquesti due tipi di competenze vedi p. 20).

Insomma, l’analisi contrastiva serve a favorire la formulazione di ipotesi circa lecompetenze che generano performance superiore. Se la verifica dell’ipotesi ha successo,il ricercatore si sente legittimato a inserire – sia pure provvisoriamente e con riserva dialtre convalide – quella categoria nel modello di competenze che sta costruendo. Insom-ma, la verità è questa: più che limitarci passivamente a trovare casi simili o dissimili, noiin realtà – con quell’atteggiamento attivo chiamato “invenzione di ipotesi” – li assimilia-mo o li differenziamo83. Tutto questo spiega perché l’analisi tematica degli episodi cuifaceva riferimento McClelland, ben lungi dall’essere una meccanica fotografia della real-tà, è “la parte più difficile e creativa del processo di analisi delle competenze”, per citarele parole di Spencer & Spencer tratte dall’opera più volte citata (Thematic analysis is themost difficult and creative part of the competency analysis process)84. Difficult significaappunto che non si tratta di trovare semplici somiglianze o differenze, ma solo quellesignificative, per cogliere le quali non funzionano semplici regole meccaniche, né tantomeno basta limitarsi alla mera “osservazione dei fatti” (ammesso che possa esistere uncomportamento passivo del genere). Creative significa che occorre inventiva per afferrarele somiglianze (o le differenze) rilevanti.

Come qualcuno ha detto, le buone intuizioni vengono solo a menti ben preparatead accoglierle (o, meglio, a “generarle”). L’ingegnosa analisi contrastiva ideata da McClel-land con lo strumento dell’intervista BEI serviva appunto a facilitare il concepimento dibuone intuizioni. Se la metafora può servire, il metodo appena descritto funziona comeun disegno a chiaroscuro, che mira a evidenziare il rilievo plastico delle cose attraversoil contrasto di luci (nel nostro caso i “comportamenti produttivi di successo”) ed ombre(nel nostro caso, “assenza di comportamenti che producono successo” e “presenza dicomportamenti che causano insuccesso”).

7.3 Criteri guida

Il principio di semplicità e il principio di scopo

Chiarito che il disegno della mappa delle competenze è un lavoro difficile e creati-vo, anzi the most difficult and creative part di tutto il lavoro, è opportuno però chiedersi,visto che le energie non sono illimitate, se c’è qualcosa che possa rendere quel lavoro unpo’ meno difficile e un po’ meno faticosamente creativo. La risposta è sì ad entrambe le

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82 Si può qui ricordare il caso del funzionario USIS che aveva fallito nell’organizzare corsi di inglese per glistudenti del paese straniero in cui lavorava (vedi p. 20).

83 Appunto per favorire la ricerca volta a cogliere il carattere di rilevanza sia delle somiglianze che delle dif-ferenze, l’intervista BEI si focalizza non su episodi ordinari, ma – come dice già la sua denominazione – suepisodi critici (di successo o di insuccesso). Per la precisione la procedura BEI chiede a un soggetto didescrivere, sotto forma di racconto breve, tre grossi successi e tre grossi fallimenti.

84 La citazione è tratta dal cap. 12 (p. 135), che porta il titolo Developing a Competency Model, non riportatonell’edizione italiana.

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domande e quanto verrà detto di seguito – a volte con vere e proprie indicazioni di meto-do, a volte con suggerimenti pratici che hanno più che altro la natura di consigli – cer-cherà di darne dimostrazione.

La tracciatura delle competenze è guidata, come qualunque altra ricerca che aspiraad essere scientifica, da un principio di minimo o di semplicità, che viene spesso enunciatocon il cosiddetto “rasoio di Occam”: “Entia non sunt multiplicanda sine necessitate”.Come a dire: “se una cosa può avere una spiegazione più semplice, perché cercarne unapiù complicata?” (Guglielmo di Occam era un filosofo inglese, appartenente all’ordinefrancescano, vissuto tra la fine del ’200 e gli inizi del ’300).

Questo comporta che un modello di competenze deve includere il numero minimodi competenze utili a spiegare la performance di successo. Tuttavia, come diceva Ein-stein, una teoria deve essere la più semplice possibile, senza però divenire semplicistica.Riprendendo il rasoio di Occam, gli enti non vanno moltiplicati senza necessità, ma que-sto di converso significa che, quando necessità invece c’è, non occorre esitare troppo amoltiplicarli. È evidente, ad esempio, che si potrebbe definire un modello con un’unicacompetenza: quella formata dalla classe di tutti i comportamenti che hanno effetti positi-vi sulla performance. Un modello siffatto sarebbe semplicissimo, ma a che servirebbe?

La domanda mette sulla giusta strada. Una spiegazione deve essere la più sempli-ce possibile, ma deve però tenere distinto ciò che va distinto. E la distinzione obbediscea un principio di scopo. Insieme a un principio di minimo ciò che ci deve guidare nellacostruzione di un modello di competenze è un principio di scopo. Una classificazionedi comportamenti dipende dagli scopi per cui la facciamo. Stabilire se un risultato bril-lante è dipeso da una intelligente soluzione sotto l’aspetto concettuale o da una saldacapacità di leadership in un momento di grave incertezza è una distinzione di cui unmodello di competenze non può non tenere conto, perché l’uno e l’altro tipo di compor-tamento mobilitano conoscenze e capacità diverse, che – in base a cognizioni comuni –vanno selezionate, apprese e sviluppate con azioni assai diverse. E fra gli scopi essen-ziali di un modello di competenze c’è appunto la selezione, l’apprendimento e lo svi-luppo – attraverso appropriate azioni valutative – delle conoscenze e capacità che ser-vono all’organizzazione.

Se il principio di minimo spinge a ridurre quanto più possibile il numero dellecompetenze e gli indicatori utili a individuarle, il principio di scopo obbliga a non con-trarre tale numero fino al punto da sacrificare distinzioni che vanno invece fatte in rela-zione agli scopi che il modello persegue. Sulla realizzazione più o meno felice dell’equi-librio fra questi due principi si giudica la validità e l’affidabilità di un modello e quindidella mappatura di competenze definita da una organizzazione. Ciò può stabilirlo solo ilbanco di prova dell’esperienza, e quindi la verifica empirica del funzionamento delmodello, che può indicare le correzioni e gli affinamenti da apportare.

Suggerimenti pratici

Ecco alcuni consigli che possono servire nell’operazione di equilibratura cui si èappena fatto cenno.

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Il primo è quello di evitare di affannarsi a reinventare la ruota, ovvero a scoprireciò che da altri è stato già scoperto, spesso faticosamente. Ragioni di convenienza e ragio-ni etiche di rispetto del lavoro altrui, spingono a dedicare adeguata attenzione a ciò che,con impegno e ingegno, è stato fatto prima di noi e per noi. Anche questa – per riprende-re il titolo del bel libro di Arthur Lovejoy, un insigne storico delle idee – è la “grandecatena dell’essere” che lega fra loro gli uomini e le generazioni.

Bisogna quindi tenere anzitutto conto della letteratura che si è da molti anni accu-mulata su questa materia, e questo spiega lo sforzo che si fa in questo manuale di riassu-merne, quanto più chiaramente possibile, i principali filoni.

Richiamandoci ancora al principio di minimo, cominciamo con il dire che qua e làsi leggono a volte indicazioni semplicistiche di numeri “magici”, ad esempio le compe-tenze individuate non devono essere meno di X e non più di Y. Più plausibile ci sembrainvece l’affermazione che le competenze da individuare ed inserire nel modello sono tut-te quelle a cui l’organizzazione e le persone che vi lavorano attribuiscono rilevanza –esplicitamente o, come più spesso capita, implicitamente – siano poi esse tre, cinque,sette ecc. Se gli interessati danno importanza, ad esempio, ad una categoria di comporta-menti del dirigente configurabile come “autocontrollo” e si accerta che tale competenzaserve realmente al buon dirigente, non ha senso escluderla dal modello perché altrimentiil numero delle competenze diverrebbe “troppo elevato”. E quel che si è detto dell’auto-controllo si può dire per ogni altra categoria di comportamenti che dovesse anch’essarisultare importante nel contesto organizzativo in cui si opera.

Richiamandosi a un importante studio di Boyatzis85 del 1982, che aveva per pri-mo enunciato una definizione generale di competenza ed era anche riuscito a indivi-duare una serie di competenze “generiche”, cioè ricorrenti nelle più diverse organizza-zioni, Spencer & Spencer hanno analizzato i dati con cui erano stati costruiti in prece-denza circa 300 modelli specifici di competenze ed elaborando questo materiale hannodefinito un modello di 20 competenze generali86, con circa 360 indicatori comporta-mentali (ogni competenza è corredata, oltre che di una definizione, di un set di indica-tori comportamentali da 3 a 6), raggruppate in 6 grandi cluster (competenze di realizza-zione e operative, competenze di assistenza e di servizio, competenze di influenza,competenze manageriali, competenze cognitive, competenze di efficacia personale).Tale modello è quello più affermato a livello internazionale e ha preso forma nel dizio-nario contenuto nella classica opera pubblicata dai due autori nel 1993 e più volte cita-ta in questo manuale. Il modello Antares dell’Agenzia delle Entrate comprende 11competenze, articolate in 5 cluster e corredate complessivamente di circa 300 indicato-ri comportamentali.

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85 R.E. Boyatzis, The Competent Manager: A Model For Effective Performance, New York, Wiley, 1982.86 Esse coprono, secondo gli autori, l’80-95% delle caratteristiche distintive della performance superiore nel-

la maggior parte delle mansioni osservate. A queste 20 competenze, si aggiunge un altro gruppo di compe-tenze particolari, alcune più comuni, come il saper scrivere e il non aver paura di risultare poco simpatici(low fear of rejection), altre più insolite, come la competenza giuridica, il sense of humour e la riservatezza.All’analisi di queste competenze, Spencer & Spencer dedicano, per la loro minore incidenza, non più diuna pagina rispetto alle 64 dedicate alla disamina delle altre 20 competenze generali.

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Alcune di tali competenze riprendono, mentre altre sintetizzano, competenze giàdescritte nel dizionario generale di Spencer & Spencer (solitamente questo Dizionarioviene chiamato “Dizionario McBer” – e così lo citeremo d’ora in poi – dal nome dellasocietà di consulenza presso cui lavoravano i due studiosi87), apportando però gli adatta-menti e le “personalizzazioni” occorrenti in funzione della realtà specifica dell’Agenzia.Alcune categorie, come “Sviluppo e trasferimento del sapere” e “Passione per il lavoro”,sono invece specifiche di Antares.

In pratica, il punto critico nella costruzione del modello dell’Agenzia (e lo stessovale ovviamente per qualunque organizzazione che intendesse elaborare un propriomodello di competenze) non è stato tanto quello della enucleazione delle competenze (ilrepertorio fornito da Boyatzis e Spencer & Spencer è abbastanza completo, almeno perquello che si è potuto sperimentare in relazione alla concreta realtà dell’organizzazione),quanto piuttosto lo sforzo di adattamento degli indicatori di tali competenze. Volendosintetizzare molto, non si andrebbe lontano dal vero affermando che l’impegno richiestoper la definizione di un modello è per il 10% individuazione delle competenze richiesteper il lavoro che si fa nella specifica organizzazione in cui si lavora, e per il 90% definizio-ne degli indicatori comportamentali destinati a graduare con la maggiore oggettività possi-bile l’intensità delle competenze in relazione alla concreta realtà organizzativa – al “vissu-to”, potremmo dire – degli uffici cui il modello è riferito. Mentre nell’individuazione dellecompetenze il Dizionario McBer aiuta molto, nella descrizione dei rispettivi indicatoricomportamentali aiuta invece molto meno. Di fatto, negli indicatori comportamentali delDizionario Antares si troverà ben poco degli indicatori comportamentali del DizionarioMcBer, perché suonavano astratti e avulsi dalle situazioni tipiche degli uffici dell’Agen-zia. È a questa esigenza di tuning che devono appunto rispondere gli expert panels.

È perciò di fondamentale importanza curare bene la composizione di questi grup-pi. Al loro interno, è essenziale che vi siano figure che possano somigliare a dei Postcogs.Chi sarebbero costoro? Il lettore che ha visto Minority Report (se ne parlerà più avanti a p.157) sa che i Precogs (abbreviazione di Precognitive Thinkers88) sono in quel film indivi-dui sensitivi che prevedono eventi futuri e, precisamente, gli omicidi che saranno com-messi. I Postcogs dovrebbero essere figure assai meno inquietanti, ma non meno utili:Postcognitive Thinkers, persone capaci di riflettere su esperienze passate e ricorrenti e diestrarne, grazie appunto all’acuta capacità riflessiva di cui sono dotati, il significato cheracchiudono in termini di competenze. Generalmente, queste figure non abbondano: lepersone che lavorano hanno spesso ricche esperienze da narrare, ma a questa ricchezzadi esperienza vissuta non è frequente che si abbini un’analoga ricchezza di autoriflessio-ne. I Postcogs hanno questa particolare abilità – denominiamola pure, se vogliamo,“competenza” – di abbinare esperienza e riflessione sull’esperienza89. Quali caratteristi-che deve avere questa riflessione?

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87 La società venne fondata da McClelland e da David Berlew (McBer è appunto l’acronimo dei due soci fon-datori). La società McBer è poi confluita negli anni ’90 nell’Hay Group.

88 Thinkers significa letteralmente “pensatori”.89 Un esempio emblematico di Postcog potrebbe essere Sherwood F. Moran, leggendario maggiore dei Marines

che, durante l’ultima guerra mondiale, si occupò della formazione dei militari incaricati di interrogare i pri-

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Almeno due: cura del linguaggio e attenzione agli scopi cui deve essere finalizzato ildizionario che descrive la mappa delle competenze. Il linguaggio in cui si deve esprimerela riflessione deve essere vicino a quello comunemente accettato nella vita pratica degliuffici (e quindi occorre tenersi alla larga da certo gergo consulenziale). Quanto agli scopi,il dizionario deve poter servire come base oggettiva per la rilevazione e la valutazione deicomportamenti, e deve quindi individuare comportamenti facilmente osservabili.

In questa prospettiva, proviamo ora a dare alcune indicazioni ancora più concrete,che possano valere come suggerimenti pratici.

Si è già detto che, nell’individuazione delle competenze del modello Antares, sisono in gran parte riprese le categorie del Dizionario McBer, introducendo, però, alcuneinnovazioni significative. Può essere utile darne qui conto, per acquisire confidenza coni tipi di problemi concretamente connessi al disegno di una mappa di competenze. Laprincipale innovazione riguarda il cosiddetto dinamismo intellettivo, cioè – in estremasintesi – la capacità di applicare l’intelligenza ai problemi pratici. Nel Dizionario McBersi distinguono al riguardo due categorie di pensiero: quello analitico (Analytical Thin-king) e quello concettuale (Conceptual Thinking), per designare grosso modo, con il pri-mo termine, la capacità di ragionamento logico e, con il secondo, la creatività intellettua-le. Le distinzioni fra questi due ambiti e, soprattutto, l’individuazione dei diversi gradidi intensità dà luogo però a distinzioni troppo sottili per gli scopi pratici cui il Dizionarios’ispira, che identificano come prioritaria l’esigenza della comprensibilità. Il Dizionariodeve servire per un vasto pubblico come base sufficientemente oggettiva per la rilevazio-ne e valutazione dei comportamenti. Le descrizioni devono essere perciò comprensibilida chiunque (sia pure con un po’ di formazione) e non solo da psicologi cognitivisti.

Ecco, per fare solo un esempio, come nel Dizionario McBer vengono graduati ilivelli bassi dell’Analytical Thinking:1. Scompone i problemi: Scompone meccanicamente i problemi operativi in elenchi ele-

mentari di compiti o di attività, cui non viene assegnato un ordine particolare o unagraduazione di importanza (A, D, B, C, …).

2. Individua le relazioni di base: Scompone i problemi insiti in una situazione, aggregan-done in blocchi le parti costitutive. Collega le parti con nessi semplici e unidirezionalidel tipo “A conduce a B” oppure “se…allora” oppure ancora “questi sono i pro e que-sti i contro”. Ordina le componenti di un problema secondo criteri di rilevanza.

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gionieri giapponesi. Uomo di raffinata sensibilità e profondo conoscitore della lingua e della cultura giappo-nese, Moran, distillando in un linguaggio semplice e avvincente una ricca riflessione sulla propria esperien-za umana e professionale, tracciò, in un rapporto datato 17 luglio 1943 e indirizzato alla direzione dell’intel-ligence dei Marines, una sorta di “modello di competenze”, abbastanza controintuitivo, del bravo addettoall’interrogatorio di prigionieri giapponesi. Il 17 luglio 2003, 60 anni dopo, l’associazione del corpo deiMarines che riunisce gli interpreti e gli addetti a interrogatori ha reso pubblico quel rapporto (lo si può leg-gere su Internet all’indirizzo: http://www.bigstory.us/downloads/Tort-SFMoran_on_interrogation_1943_familyproof_.pdf). La pubblicazione del rapporto è però passata del tutto inosservata, soprattutto da parte diquelle che vengono comunemente denominate “Autorità competenti”. Circa 6 mesi dopo sono accaduti adAbu Ghraib i gravi fatti che hanno avuto risonanza mondiale. I comandi americani stanno ora rivedendo ilmodello delle competenze dell’addetto agli interrogatori. È possibile che, in quest’opera di revisione, il“modello Moran”, che ha funzionato molto bene con prigionieri fortemente ideologizzati quali erano i sol-dati dell’impero del Sol Levante, venga assunto come punto di riferimento.

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È facile intuire quale possa essere per gli appartenenti ad una organizzazione – chenon sia appunto un’associazione di psicologi cognitivisti – la facilità a maneggiare indi-catori di questo tipo.

Nel Dizionario delle competenze organizzative dei dirigenti dell’Agenzia delle Entra-te (il Dizionario è la base del sistema di valutazione Sirio), si sono perciò fatte due scelte:• Sono state unificate le categorie del “Pensiero analitico” e “Pensiero concettuale” nel-

l’unica categoria del “Pensiero ideativo”, che esprime l’attitudine a coniugare rigorosoraziocinio e libera creatività mentale. Questo in base all’assunto che capacità di ragio-namento e creatività di pensiero, seppure concettualmente distinte, si presentano inconcreto strettamente intrecciate, tant’è che nell’uso linguistico comune (e a questi usioccorre sempre rifarsi per estrarne criticamente la verità che di solito essi contengono)affermare che una persona è intelligente significa sia che ha capacità di analisi logica,sia che sa “tirare fuori” (o che spesso le “vengono in mente”) buone idee quando servo-no. E ciò è vero ancor più nell’ambito delle professioni tecniche intellettuali (qualisono quelle dell’Agenzia delle Entrate) ove la capacità intuitiva ha pregio solo se con-giunta a una robusta capacità argomentativa.

• Sono stati individuati indicatori di intensità di competenza assai più vicini alla con-creta esperienza delle persone e quindi assai meglio utilizzabili da tutti gli attori inte-ressati (valutati e valutatori). Per consentire un utile raffronto, ecco qual è ad esempio,nel manuale Sirio, il set di indicatori del grado più basso di Pensiero ideativo:– Argomentare non è il suo forte: La tecnica che utilizza per identificare i problemi,

articolarli e risolverli si fonda quasi esclusivamente sul ricorso alla tradizione e al“precedente”, e laddove il precedente non basta o non è utile, dà l’impressione diessere disorientato e di non avere più risorse. Difficilmente riesce a percepire i “falsiproblemi”, specie quando s’impongono alla riflessione per abitudine o per tradizio-ne, e quanto ai veri problemi raramente riesce a darne una prospettazione, se nonoriginale, almeno utile a facilitarne la soluzione. Coglie con difficoltà le implicazio-ni concettuali delle questioni che affronta e stenta ad inserirle in un quadro esplica-tivo più ampio. Tende a smarrirsi nei dettagli, senza riuscire a mettere a fuoco ordi-natamente gli elementi essenziali di un problema. Il suo modo di pensare, di argo-mentare, di inquadrare i problemi e di trovare soluzioni difetta di “visuale strategi-ca”. Anche se tratta da lungo tempo le materie di cui si occupa, l’approccio scarsa-mente critico con il quale le affronta spiega perché dia in genere la percezione dimuoversi al loro interno un po’ spaesato, come rivelano l’incongruenza non infre-quente delle decisioni che adotta e l’insufficiente accuratezza tecnica dei prodottidel suo ufficio, che necessitano abbastanza spesso di estesi “ricicli di lavorazione”sotto il profilo qualitativo.

Nel Dizionario delle competenze Antares (che riguarda non i dirigenti ma i funzio-nari) si è adottata una soluzione pratica ancora più semplice, in funzione dell’osservabi-lità dei comportamenti. Il dinamismo intellettivo viene descritto per quello che è (eanche con ricchezza espositiva, poiché in un’organizzazione di knowledge workers qualè l’Agenzia delle Entrate questa competenza è essenziale), ma viene rilevato attraverso

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indicatori delle caratteristiche più significative dell’output generato (chiarezza ed effica-cia della scrittura, congruenza, ecc. vedi p. 73 e ss.).

Oltre al richiamo ai dizionari di competenze già elaborati, vi sono altri due tipi diausilio utili a rendere meno difficile la messa a punto di un modello di competenze.

Il primo è rappresentato dagli schemi di codifica in uso, più o meno impliciti e piùo meno ricorrenti, che in ogni organizzazione servono a tipizzare i comportamenti suiquali vi è larga condivisione per quanto concerne i loro effetti negativi o positivi sullaperformance (ecco alcuni esempi di tali schemi: “pensa solo a coprirsi le spalle”, “sipreoccupa esclusivamente della sua carriera”, “va al nocciolo dei problemi e s’ingegna arisolverli”, “è sempre pronto ad assumersi le proprie responsabilità”, ecc.). Come si èaccennato, uno degli assunti di base di McClelland era che la gente si accorda più facil-mente su chi è outstanding (fuori del comune) piuttosto che su che cosa rende qualcunooutstanding. In realtà, però, questo accordo non di rado c’è e le spiegazioni che lo moti-vano sono spesso plausibili, anche se possono richiedere affinamenti o correzioni, e rap-presentano comunque – per il fatto che sono alimentate da molte e ripetute esperienze –una fonte importante da cui trarre ipotesi per il difficult and creative lavoro di classifica-zione che sta alla base di un modello di competenze.

Infine, può essere utile accennare – sempre in una prospettiva di suggerimenti pratici –ad alcune tipiche perplessità nelle quali pressoché inevitabilmente ci si imbatte quando sicostruiscono e si applicano categorie di comportamenti. Possiamo sintetizzarle così: interse-zioni, ridondanze e ambivalenze. È opportuno esaminarle, anche per rendersi conto che essenon sono necessariamente indice di difetti di costruzione di un modello di competenze.

Intersezioni

Per lo più, le competenze si presentano intrecciate fra loro. Quando l’intreccio èparticolarmente stretto, esse generalmente fanno parte di un unico cluster. Questo aspet-to viene trattato con accuratezza nel Dizionario generale delle competenze sviluppatonell’opera di Spencer & Spencer. Per ognuna delle 20 competenze sono analizzati i rap-porti (links) con le altre competenze (un solo esempio fra i tanti riportati nel Dizionario:“l’orientamento al cliente è supportato dalla ricerca delle informazioni e dalla sensibilitàinterpersonale. Lo spirito d’iniziativa è talmente implicito nell’orientamento al clienteche le scale B (sforzo) delle due competenze sono praticamente identiche”90). Si potran-no forse intravedere qui possibili motivi di confusione, ma si tratta piuttosto di indica-zioni che mostrano la dinamica viva e la sinergia delle competenze, e questo serve a ren-derne più accurato il processo di valutazione e a favorirne lo sviluppo.

Ridondanze

Una competenza o alcuni suoi indicatori possono apparire ridondanti, nel sensoche descrivono comportamenti che, se non proprio identici, sembrano però presentare

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90 Spencer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 68.

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forti affinità con quelli già descritti in altre competenze o in qualcuno dei rispettivi indi-catori. La ridondanza può segnalare una insufficiente applicazione del principio di mini-mo prima enunciato. In altre parole, può indicare la necessità di procedere ad accorpa-menti di classificazioni, per eliminare inutili “doppioni”. Un certo grado di ridondanzanella individuazione delle competenze può però considerarsi fisiologico, quando adesempio l’enucleazione di una categoria a sé stante per la classificazione di comporta-menti, che potrebbero in astratto anche ricondursi sotto un’unica categoria, è giustificatadalla particolare rilevanza che si intende così attribuire a quei comportamenti.

Ambivalenze

Se, con riferimento a un sistema classificatorio, “ridondanza” significa presenzanel sistema di elementi di per sé non strettamente necessari, “ambivalenza” significa cheelementi del sistema possono di per sé trovare più di una classificazione. Ad esempio, lacompetenza “Sviluppo e trasferimento del sapere” presente nel modello Antares potreb-be essere in teoria classificata sia nel dinamismo cognitivo (riguarda infatti sicuramentela dimensione della conoscenza professionale), ma anche nel dinamismo realizzativo(certamente è una competenza che contribuisce a “fare risultato”), come pure nella lea-dership (è un buon capo chi sa trasmettere conoscenza ai propri collaboratori per arric-chirne la professionalità). Qual è la classificazione giusta? La risposta è che ognuna diqueste classificazioni può essere giusta a seconda degli scopi perseguiti. Nel caso specifi-co la scelta potrebbe dipendere dall’interesse che ha l’organizzazione a porre l’accento suuna classificazione piuttosto che su un’altra. Se, ad esempio, si vuole sottolineare la fina-lizzazione dell’accrescimento della conoscenza al miglioramento della performanceindividuale e collettiva, la classificazione “giusta” sarà quella dell’inserimento di quellacompetenza nel cluster del dinamismo realizzativo, e questa è appunto la scelta che èstata fatta con Antares.

Così come nella costruzione, anche nell’applicazione di un modello di competenzepossono presentarsi ambivalenze, nel senso che può sorgere il dubbio se un determinatocomportamento vada classificato in un modo piuttosto che un altro. A questo propositoSpencer & Spencer scrivono quanto segue: “I comportamenti competenti possono essereispirati da una o più motivazioni, anche in combinazione. Per esempio, l’intenzione disviluppare la skill di un subordinato e di prepararlo ad una promozione potrebbe esseremotivata dal desiderio di potere (‘voglio avere un effetto su di lui’), dall’orientamento alrisultato (‘Se riuscisse a far bene X, Y e Z, risparmierei tot ore o dollari’) o dal desideriodi rapporti cordiali (‘Se lo sviluppo e lo promuovo, me ne sarà riconoscente, mi stimerà’)o da una combinazione di queste motivazioni”91.

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91 Spencer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 46. È da notare che gli autori stanno qui alludendo a quelle che,secondo McClelland, sono le tre fondamentali motivazioni del comportamento manageriale: need (“biso-gno”) for Power, bisogno di influenzare gli altri, need for Achievement, bisogno di riuscita, need for Affilia-tion, bisogno di avere il consenso altrui. Per inciso, è facile fraintendere il significato di queste tre motiva-zioni, come rileva lo stesso McClelland, quando scrive, ad esempio, che la “power motivation” non si rife-risce a un “dictatorial behavior” ma “al desiderio di avere un impatto, di essere forte e influente”. McClel-

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Come risolvere queste ambivalenze di tipo applicativo? La prima cosa da sottoli-neare è che non ci troviamo in casi come questi di fronte a situazioni di singolare stranez-za, ma a evenienze normali nell’applicazione di codici comportamentali, evenienze cuisi viene addestrati fin da bambini. Le prassi e le consuetudini che si sviluppano con l’e-sperienza consentono alle persone di acquisire padronanza di tecniche efficaci di inter-pretazione dei comportamenti, tecniche, cioè, utili a gestire e risolvere le inevitabiliambiguità.

C’è da aggiungere che se questo vale per l’immenso territorio del comportamentoumano – territorio tutt’altro che sconosciuto, dal momento che la sua esplorazione costi-tuisce forse l’occupazione prevalente della gente sotto qualunque latitudine – vale ancheper il comportamento organizzativo, che è una provincia relativamente assai piccola diquello sconfinato continente. Pur essendo anch’essa molto battuta, poiché il lavoro è fra leprincipali esperienze della vita, sarebbe irrealistico affermare che in quella provincia tuttoè sempre chiaramente catalogabile. Le sfumature non mancano e non è sempre facilecoglierle, e labili sono anche talora le linee di demarcazione fra una categoria di compor-tamenti e l’altra. Con questo intendiamo dire che un certo grado di ambivalenza può con-siderarsi fisiologico in un modello di competenze, come in qualunque altro modello com-portamentale, ma intendiamo anche dire che le persone acquisiscono – magari a livello diconoscenza tacita – una buona padronanza delle tecniche di gestione delle ambivalenze.L’episodio, ad esempio, appena citato da Spencer & Spencer è un caso in cui l’inquadra-mento di un comportamento in una categoria piuttosto che in un’altra dipende dall’inten-zione dell’attore, e questa si legge non con particolari doti “sensitive” ma con il confrontoaperto fra gli attori della valutazione, tenendo conto del contesto del comportamento.

E siccome gli esempi sono sempre utili, eccone un altro, tratto questa volta dall’ap-plicazione pratica del sistema di valutazione dei dirigenti dell’Agenzia. Nella sua rela-zione sull’attività svolta, un ispettore riferì che il personale di uno degli uffici ispeziona-ti non aveva l’anno prima beneficiato del premio di produzione perché risultava che gliobiettivi non erano stati raggiunti al livello concordato. L’ispettore si accorse però che lamancata percezione del premio era dipesa non da una bassa performance dei dipendenti,che avevano invece lavorato bene, ma da un’errata applicazione delle norme di consunti-vazione che aveva portato ad escludere dal computo alcuni output che si sarebbero inve-ce dovuti includere nel rendiconto. L’ispettore diede in quel caso chiare istruzioni sucome andasse fatta la consuntivazione e si preoccupò pure che nell’ufficio si svolgesseun po’ di formazione degli addetti per evitare che l’errore si ripetesse in futuro. Grazieall’intervento dell’ispettore, il personale ebbe i soldi che si era guadagnato.

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land distingue, in particolare, il potere “socializzato” – che è l’influenza esercitata per realizzare un qual-che bene comune più grande di quello proprio o per rafforzare (empower) gli altri: far sentire gli altri forti,“make others feel strong” – dal potere “personale”, che è l’influenza esercitata per ambizione personale: farsentire agli altri che si è forti, “make others feel he or she is strong”. Per una chiara e concisa presentazionedi questi concetti si può vedere H.L. Tosi, M. Pilati, N.P. Mero e J. Rizzo, Comportamento organizzativo,cit., pp. 70-71. Un’esposizione assai più ampia e ricca di esemplificazioni si trova in un articolo dello stes-so McClelland pubblicato nel 1976, dal titolo Power is the Great Motivator, ristampato in un numero spe-ciale della «Harvard Business Review», January 2003, pp. 117-126.

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Sotto quale competenza va classificato questo comportamento? Il valutatore di pri-ma istanza ritenne che il comportamento in questione manifestasse forte “assertività”(una tipica competenza richiesta agli ispettori), che è la capacità di far rispettare le regole“costi quel che costi”, e quindi anche a prezzo di sacrifici personali (in altre parole, l’as-sertività è la capacità di dire “no”, quando è giusto dire “no”, pur essendo magari “impo-polare”). In effetti, l’ispettore aveva in quel caso provveduto a far applicare correttamentele regole in materia di consuntivazione, ma se si va a guardare la sua intenzione comeappariva in modo trasparente da tutto il contesto e come l’interessato stesso la dichiaravanella descrizione dell’episodio (la mancata corresponsione del premio di produttività“non rendeva giustizia dell’attività accertatrice dell’ufficio”) era chiaro che non si tratta-va in quel caso di una manifestazione di “assertività” (a chi o a cosa l’ispettore avevainteso dire “no”?), ma dell’espressione di capacità manageriali, come la propensione asostenere la motivazione al lavoro dei collaboratori (cosa demotiva di più del non riceve-re ciò che si è acquisito titolo ad avere con impegno e applicazione?). È appunto in que-sto senso che venne corretta la valutazione – come chiedeva l’interessato – in sede divalutazione di seconda istanza.

Se ben costruito, un dizionario delle competenze dovrebbe agevolare la classifica-zione dei comportamenti sotto il profilo dell’intenzione che li muove. La definizione diuna competenza ha infatti lo scopo di precisarne con chiarezza qual è la finalità (la ratio,direbbero i giuristi), ossia l’intenzione fondamentale che lega i comportamenti da ricom-prendere in una stessa categoria.

Tutto semplice dunque? No, la costruzione di un modello di competenze o il dise-gno di una mappa delle competenze, che sono due nomi diversi per la stessa cosa, riman-gono un lavoro very difficult and creative. Come però abbiamo visto, la conoscenza del-l’esperienza altrui e la riflessione sull’esperienza propria possono facilitare non pocoquesto lavoro.

Non resta che un’ultima considerazione. È stato osservato che un limite delle clas-sificazioni delle competenze è che “l’elenco potrebbe continuare in linea di principioall’infinito. In effetti, un rigonfiamento delle ‘liste’ di oggetti, fino a perdere potere pre-dittivo in quanto tipologie, è un limite ricorrente e probabilmente intrinseco a tutte letipologie basate sui contenuti – delle competenze come dei bisogni, dei tratti culturali, odegli obiettivi”. E ancora: “Le classi delle competenze sono proliferate fino a raggiungerele svariate decine, basandosi su distinzioni molto generali e di base fra tipi di capacità edi stili cognitivi – capacità analitiche e operative, tecniche e sociali, professionali emanageriali, ecc.”92.

Si tratta di una critica che non può essere passata sotto silenzio, anche per la suaautorevolezza. Come già accennato, il modello generale delle competenze delineato, sul-la scia di Boyatzis, da Spencer & Spencer contiene 20 competenze (che coprono però ununiverso di circa 300 organizzazioni anche molto diverse fra loro). Di questo modello –che è un punto di riferimento nella letteratura internazionale – si è tenuto conto nell’A-

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92 Tutte queste citazioni sono tratte da A. Grandori, op. cit., pp. 94-95.

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genzia delle Entrate sia per la costruzione del sistema Sirio (riguardante le competenzedei dirigenti) sia per la costruzione di Antares. Il numero di competenze di Sirio e Anta-res è, peraltro, assai più contenuto del modello Spencer & Spencer, e non c’è pienasovrapposizione di contenuti neanche fra Sirio e Antares. Di fatto, ogni organizzazioneha una sua classificazione di competenze e in letteratura sono stati proposti altri modellidi classificazione93. Non v’è dubbio che un quadro del genere può trasmettere un’im-pressione di “erraticità” nelle classificazioni delle competenze. Ma è proprio fondataquesta impressione?

In verità, quando si vanno ad analizzare attentamente le diverse categorie di classi-ficazione, ci si accorge che i nomi variano, ma la sostanza spesso è molto simile. È indub-bio invece che assai diversi possono essere gli indicatori comportamentali delle compe-tenze, ma è giusto che sia così per le ragioni precedentemente illustrate (in particolarequella relativa all’esigenza di “personalizzazione”). Ciò che potrebbe quindi sembrare diprimo acchito “erraticità”, dovrebbe forse più propriamente definirsi “storicità” o – perusare un termine più vicino alle moderne teorie dell’organizzazione – “contingenza” deimodelli delle competenze rispetto alla peculiarità delle situazioni organizzative in cuivanno a calarsi. Insomma, il ritaglio delle competenze nel variopinto tessuto dei compor-tamenti organizzativi è un’operazione che ha margini di libertà anche ampi, che nonsono però arbitrari, essendo determinati dalle variabili della situazione in cui si opera edagli scopi che in quel contesto si perseguono.

Un modello di competenze mira, in definitiva, ad esplicitare (tutte e solo) le cate-gorie di comportamenti che in una data organizzazione sono realmente funzionali allasuperior performance. In questa operazione le domande chiave sono due:• gli interessati si “riconoscono” nelle categorie individuate dal modello? In altri termi-

ni: le condividono pienamente o ritengono che qualche categoria, a loro avviso neces-saria, è stata invece dimenticata o che, al contrario, qualcuna che compare nel modelloè superflua o addirittura non pertinente alla missione aziendale?

• è stato effettuato (in primo luogo negli expert panels) un vaglio critico della condivi-sione del modello da parte degli interessati? In altre parole: è stato analizzato l’effetti-vo rapporto di causalità fra le competenze ipotizzate nel modello e la performance del-l’organizzazione, in modo da verificare se la mancata condivisione dipenda da erroriod omissioni dei costruttori del modello o, invece, dai “Folklore or Motherhood Items”degli appartenenti all’organizzazione?

Dalla risposta a queste domande dipende la validazione del modello. Se il modelloè validato, il numero e la configurazione delle competenze in cui esso concretamente siarticola non dovrebbe essere più un problema. La questione vera, insomma, non è l’e-

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93 Un quadro sinottico dei principali modelli si trova in L.M. Spencer, The Economic Value of EmotionalIntelligence Competencies and EIC-Based HR Programs. Questo lavoro costituisce il capitolo IV di C. Cher-niss e D. Goleman, The Emotionally Intelligent Workplace: How to Select for, Measure and Improve Emo-tional Intelligence in Individuals, Groups and Organizations, San Francisco, Jossey-Bass/Wiley, 2001. Lostudio di Spencer è consultabile su Internet al seguente indirizzo: http://www.eiconsortium.org/research/economic_value_of_ei.htm.

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stensione della mappa di competenze, ma la sua adeguatezza alla conformazione del ter-ritorio cui si riferisce. Se il modello è validato, si potrà pure ritenere che le classi di com-portamenti individuate siano troppe o troppo poche, ma ciò non è imputabile al modellobensì alla natura e alla complessità dell’organizzazione. Questa, però, è un’altra storia.

8. Linguaggio qualitativo e linguaggio quantitativo nella descrizionedelle competenze*

8.1 Il linguaggio qualitativo

Così come la regolazione dei comportamenti, la descrizione delle competenze (chesono categorie di comportamenti) può essere effettuata con due tecniche molto diverse,ognuna delle quali presenta pregi e difetti. La prima (tipica, ad esempio, degli ordinamen-ti giuridici dell’Europa continentale) è quella di usare definizioni generali e astratte, men-tre la seconda è quella di individuare casi emblematici – individuali e concreti – da utiliz-zare come precedenti dotati di autorità (questa tecnica è tipica, invece, degli ordinamentigiuridici anglosassoni). Antares cerca di combinare entrambe le tecniche nell’intento direndere quanto più chiari e univoci possibile i criteri di rilevazione delle competenze.

Tutte e due le tecniche presentano poi la criticità tipica dei codici comportamentali,che è però al tempo stesso il “segreto” della potenza di questi codici: l’utilizzazione dellinguaggio ordinario, di per sé caratterizzato (al contrario dei linguaggi artificiali comequello del calcolo matematico) da grande plasticità espressiva. Questa plasticità, infatti,ha come suo naturale risvolto un margine di elasticità semantica che, se per un verso puòa volte dare adito ad ambiguità (e questo è appunto l’aspetto critico cui si è appena accen-nato), dall’altro, però, permette di ricondurre casi nuovi nelle fattispecie codificate (e quista la potenza dei codici comportamentali, cioè la capacità di “abbracciare” l’inesauribili-tà dei casi reali). Le prassi che maturano con l’applicazione delle regole rendono poi pos-sibile una gestione efficace dei casi ambigui. Nel definire le singole competenze, il Dizio-nario Antares fornisce chiavi di lettura che consentono di individuare affinità o analogieidonee a inquadrare, con sufficiente univocità, nelle fattispecie espressamente descritte lesituazioni non immediatamente riconducibili a quelle stesse fattispecie.

Occorre aggiungere che il carattere analitico degli indicatori comportamentali spe-cificati in un modello di competenze consente di tracciare una fondamentale distinzio-ne: quella fra rilevazione e valutazione dei comportamenti. Una cosa è rilevare fatti ecomportamenti (Tizio ha fatto questo o quello e ha adottato questo o quel comportamen-to), altro è valutare fatti e comportamenti, dove valutare significa “attribuirvi un valore”.Il compito dei dirigenti sarà solo quello di rilevare fatti e comportamenti, mentre il valo-re da attribuire a quanto si è rilevato non sarà compito dei dirigenti (che sotto questoaspetto dovrebbero propriamente qualificarsi come “rilevatori” piuttosto che come“valutatori”), ma del sistema di valutazione. Ad esempio, un comportamento suscettibile

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* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 25 e a p. 42.

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di essere rilevato potrebbe essere quello della disponibilità del dipendente a sosteneretemporaneamente un carico di lavoro aggiuntivo per sostituire il collega assente. Se aquesto comportamento dovrà poi essere o no attribuito un particolare valore ai fini, adesempio, dell’apprezzamento – per la retribuzione accessoria – del grado di impegno nellavoro, sarà il sistema di valutazione a stabilirlo. Se vi attribuirà valore, quel comporta-mento conterà ai fini della valutazione complessiva. In caso contrario, sarà irrilevante equindi non dovrà essere rilevato dal dirigente. Questa distinzione fra rilevazione e valu-tazione è molto importante per l’oggettività dei giudizi.

In letteratura le scale di valutazione legate alla descrizione dei comportamenti sonodenominate BARS (Behaviorally Anchored Rating Scales = “scale di valutazione ancoratea comportamenti”). Il loro maggiore pregio è di assicurare la massima oggettività possibilenella formulazione dei giudizi. Lo svantaggio è nella laboriosità dello sviluppo di questescale. Impegnativa è anche la loro manutenzione evolutiva, necessaria per mantenerne neltempo la validità (cioè la capacità di intercettare i comportamenti organizzativi significati-vi) e l’affidabilità (cioè l’univocità applicativa, che comporta affinamenti o modifiche agliindicatori comportamentali per superare ambiguità o incertezze eventualmente emersenella concreta esperienza valutativa). Questo processo di manutenzione evolutiva richie-de un forte coinvolgimento della linea operativa. A tale scopo, nella fase di applicazionedel sistema valutativo, si può prevedere una procedura di autovalutazione strutturata, gra-zie alla quale gli interessati possano proporre, per i diversi gradi di intensità delle compe-tenze, altri indicatori comportamentali in aggiunta o a modifica di quelli già previsti, cosìda rendere quanto più rigorosa e univoca possibile la rilevazione delle competenze stesse.L’importanza di avere “behavioural anchors” che definiscano in dettaglio ogni competen-za è stata sottolineata da McClelland nell’intervista rilasciata nel 1997 (è stata già citata ap. 126), nel corso della quale egli dice: “Imprese come queste [McClelland si sta riferendoa imprese che non hanno fatto un lavoro di chiara definizione delle competenze] potrannodire a qualcuno che ha un basso punteggio nella leadership. Ma quando gli interessatichiedono cosa ciò significhi, tutto quello che viene loro detto è che, qualunque cosa s’in-tenda per leadership, lì vanno male (you’re low in it)”.

8.2 Il linguaggio quantitativo

È pensabile una descrizione delle competenze basata su un linguaggio quantitati-vo? Se si tratta solo di pensarla (e non anche di chiedersi se ciò che si pensa sia realizza-bile) la risposta è sì.

Occorrerebbe passare da descrizioni di comportamenti affidate al linguaggio ordina-rio (queste descrizioni si chiamano “qualitative”) a descrizioni formulate in linguaggiomatematico (descrizioni, quindi, “quantitative”)94. In estrema sintesi, si tratterebbe di

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94 “L’affermazione che una sbarra di ferro aumenta di lunghezza, quando è riscaldata, è un’affermazione qua-litativa. L’affermazione che una sbarra di ferro aumenta la sua lunghezza di una certa quantità, quando èriscaldata a una certa temperatura, è un’affermazione quantitativa” (R. Carnap, I fondamenti filosofici dellafisica, Milano, il Saggiatore, 1971, pp. 343-344).

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sostituire i numeri (che non siano però semplicemente numeri con valore nominale o ordi-nale) alle parole. Un salto del genere si è compiuto, quattro secoli fa, nel campo delle scien-ze della natura, con il passaggio dalla fisica qualitativa di Aristotele alla fisica quantitativadi Galileo, basata appunto sul linguaggio matematico. La logica e il senso di questo cambia-mento – per il quale non è, una volta tanto, sprecato l’aggettivo “epocale”, poiché è all’ori-gine di ciò che chiamiamo “il mondo moderno” – trovano chiara spiegazione nell’ultimaopera pubblicata da Rudolf Carnap, uno dei maggiori studiosi di logica e di filosofia dellascienza del ’900 (dopo l’avvento del nazismo, Carnap emigrò nel 1935 dalla Germania negliStati Uniti e in quel paese insegnò nelle Università di Chicago e di California, fino alla mor-te avvenuta nel 1970). Il brano che riportiamo qui di seguito è di ammirevole chiarezza.

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95 “Questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), non sipuò intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli èscritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i qualimezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscurolaberinto”. Come risulta chiaro da questa famosa citazione, tratta da Il Saggiatore, i concetti quantitativisono, secondo Galileo, nella natura e l’uomo può solo cercare di scoprirli. Nel brano che abbiamo invecesopra riportato, Carnap sembra dire che i concetti quantitativi non sono nella natura, ma è l’uomo che vel’introduce per i propri scopi. La contrapposizione non potrebbe sembrare più netta. Tuttavia, Carnap si èsempre opposto all’idea che la scienza sia una pura convenzione umana. Come stanno le cose? È facileintuire che la questione evocata è fra quelle più importanti della storia del pensiero. Il lettore curioso nonpotrà ovviamente trovare in questo manuale nessuna indicazione per una possibile risposta. Se però ne havoglia, troverà invece nella lettura del libro di Carnap qui citato un eccellente viatico per un affascinanteviaggio nel cuore della questione.

“I concetti quantitativi non sono forniti dalla natura, ma derivano dalla nostraabitudine di applicare i numeri ai fenomeni naturali. Quali sono i vantaggi di questaoperazione? Se le grandezze quantitative fossero fornite dalla natura, potremmorispondere a questa domanda come si risponderebbe alla domanda: quali sono i van-taggi dei colori? La natura potrebbe non avere i colori, ma è piacevole vederli: sonosemplicemente una parte della natura e non possiamo farci nulla. La situazione non èla stessa nei confronti dei concetti quantitativi: essi fanno parte del nostro linguaggio enon della natura. Siamo noi che li introduciamo, ed è, quindi,legittimo chiederci perché li introduciamo. Perché affrontiamotutte le difficoltà inerenti alla formulazione di regole e postula-ti complicati, che ci permettono di avere grandezze che posso-no essere misurate su scale numeriche?

È stato detto più volte che i grandi progressi della scien-za, specialmente in questi ultimi secoli, non ci sarebbero statisenza l’impiego del metodo quantitativo (esso fu introdotto inmaniera precisa per la prima volta da Galileo naturalmente altri lo usarono prima dilui, ma fu Galileo che ne diede per primo le regole esplicite)95. Ogni qual volta possi-bile, il fisico cerca di introdurre concetti quantitativi. Nell’ultimo decennio altri setto-ri della scienza hanno seguito lo stesso cammino. Non dubitiamo che questo sia van-taggioso, ma è bene sapere più precisamente dove si trovano questi vantaggi.

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Innanzitutto – anche se si tratta solo di un vantaggio minore – si ha un aumentodell’efficienza del nostro vocabolario. Prima che sia introdotto un concetto quantitativooccorre usare dozzine di termini o di aggettivi qualitativi diversi per descrivere i varistati possibili di un oggetto rispetto a una data grandezza. Ad esempio, senza il concettodi temperatura, dovremmo parlare delle cose in termini di ‘molto caldo’, ‘caldo’, ‘tiepi-do’, ‘freddino’, ‘freddo’, ‘molto freddo’, e così via. Questi concetti sono quelli che abbia-mo chiamato classificatori. Se avessimo un centinaio di questi termini, probabilmentenon sarebbe necessario, almeno per gli scopi normali, introdurre il concetto quantitati-vo di temperatura. Invece di dire, ‘Oggi ci sono 25°’, avremmo un aggettivo opportunoper indicare tale temperatura, ne avremmo un altro per indicare 26°, e così via.

Che cosa ci sarebbe di sbagliato in tutto questo? Innanzitutto dovremmo fare ungrandissimo sforzo di memoria. Dovremmo non solo conoscere un gran numero diaggettivi diversi, ma anche ricordare il loro ordine in modo da sapere immediatamen-te se un certo termine sulla scala è più alto o più basso di un altro. Introducendo,invece, il solo concetto di temperatura, che collega ai numeri gli stati di un corpo,dobbiamo ricordare un solo termine: l’ordine di grandezza è, infatti, immediatamentefornito dall’ordine dei numeri. Naturalmente, occorre prima memorizzare i numeri,ma una volta fatto questo possiamo applicare i numeri a qualsiasi grandezza quantita-tiva. In caso contrario dovremmo memorizzare un diverso insieme di aggettivi perogni grandezza e, in ciascun caso, dovremmo anche memorizzare il loro ordine speci-fico. E questi sono solo due vantaggi secondari del metodo quantitativo!

Il vantaggio principale, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, è il fattoche i concetti quantitativi ci permettono di formulare legge quantitative. Queste leggisono enormemente più potenti sia per spiegare i fenomeni noti, sia per prevederenuovi fenomeni. Anche con un ricchissimo linguaggio qualitativo, che caricherebbela nostra memoria con centinaia di aggettivi qualificativi, incontreremmo gravi diffi-coltà anche nella formulazione delle leggi più semplici.

Supponiamo, ad esempio, di essere in una situazione sperimentale in cui siosserva che una certa grandezza M dipende da una certa altra grandezza P […] Piùspecificatamente, supponiamo che M si riferisca alle qualità termiche, e che P si rife-risca ai colori. Una legge che collegasse queste due qualità sarebbe costituita da uninsieme di cinquanta frasi condizionali del tipo: ‘Se l’oggetto è molto, molto, moltocaldo’, naturalmente ci sarebbe un aggettivo per esprimere questo concetto ‘allora èrosso brillante’. In verità, l’italiano dispone di un gran numero di aggettivi per i colo-ri, ma questo è il solo settore di qualità per il quale abbiamo tanti aggettivi. Per moltealtre grandezze della fisica vi è una notevole scarsità di aggettivi nel linguaggioquantitativo. Una legge espressa in un linguaggio quantitativo è molto più breve emolto più semplice dell’ingombrante espressione che sarebbe necessaria, se tentassi-mo di esprimere la stessa legge in termini qualitativi. Invece di un’equazione sempli-ce e compatta, avremo dozzine di proposizioni ‘se... allora’ ciascuna delle qualiaccoppia un predicato di una classe a un predicato dell’altra.

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A che scopo la trascrizione di questo lungo brano? Oltre al desiderio di comunicare ilpiacere di una straordinaria abilità divulgativa di temi assai complessi e di fondamentaleimportanza culturale, l’intento è di portare fino in fondo un esperimento mentale. Per sag-giare pienamente l’utilità di uno strumento di cui già disponiamo (nel nostro caso le scaleBARS), può servire immaginare qualche altro strumento che possa in teoria apparire anco-ra più utile al nostro scopo. Se l’esperimento riesce, siamo contenti di aver trovato unasoluzione migliore. Se fallisce siano ancora più contenti dello strumento che già abbiamo,poiché, essendoci sforzati di esplorarne i limiti, possiamo ora apprezzarne meglio l’utilità.

Ebbene, ipotizzare una svolta dal qualitativo al quantitativo – come quella cui si èassistito nella fisica – anche nell’ambito di cui ci stiamo occupando (che rientra nel cam-po più vasto delle scienze comportamentali), richiederebbe la scoperta di una legge che

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96 R. Carnap, op. cit., pp. 136-140.

Il più importante vantaggio della legge quantitativa non è, però, la sua brevità, mal’uso che se ne può fare. Quando si dispone di una legge in forma numerica, è possibileimpiegare quella potente parte della logica deduttiva che chiamiamo matematica e, conessa, fare delle previsioni. Naturalmente, anche nel linguaggio qualitativo può essereimpiegata la logica deduttiva per fare delle previsioni. Dalla premessa: ‘Questo corpo èmolto, molto, molto caldo’ potremmo dedurre la previsione: ‘Questo corpo sarà rossobrillante’. Ma la procedura sarebbe ingombrante rispetto ai metodi di deduzione potentied efficienti che fanno parte della matematica. È questo il maggior vantaggio del metodoquantitativo: ci permette di formulare le leggi sotto forma di funzioni matematiche,mediante le quali è possibile fare previsioni nel modo più preciso ed efficiente.

Questi vantaggi sono così grandi, che nessuno oggi si azzarderebbe a proporre aifisici di abbandonare il linguaggio quantitativo e di tornare al linguaggio qualitativoprescientifico. Però, ai primordi della scienza, quando Galileo calcolava la velocitàcon la quale una sfera rotola su un piano inclinato e il periodo di un pendolo, moltiprobabilmente si chiedevano: ‘Che ci verrà di buono da tutto questo? In che modo ciservirà nella vita di ogni giorno? Non mi interesserà mai ciò che accade ai piccoli cor-pi sferici quando rotolano lungo una guida. È pur vero che i piselli sbucciati rotolanosu una tavola inclinata, ma che valore ha il calcolo della loro accelerazione esatta?Quale uso pratico può avere questa nozione?’.

Oggi nessuno parla in questi termini, poiché tutti usiamo moltissimi strumenticomplicati – automobili, frigoriferi, televisori – che sappiamo non esisterebbero, se lafisica non si fosse sviluppata come scienza quantitativa. Ho un amico che sosteneva chelo sviluppo della scienza quantitativa è deplorevole, perché porta alla meccanizzazionedella vita: gli ho replicato che se voleva essere coerente con le sue opinioni non avrebbemai dovuto usare né un aereo né un’automobile né un telefono. L’abbandono dellascienza quantitativa significherebbe l’abbandono di tutte le comodità che sono i prodot-ti della tecnologia moderna: non credo che molti accetterebbero questo sacrificio”96.

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leghi comportamenti organizzativi e stati psicosomatici. Per capirci, una legge che stabi-lisca, ad esempio, che comportamenti, ripetuti e intensi, di leadership generino traccestabili a livello psicosomatico di modo che possano essere rilevate con opportune tecni-che (rilevazione di parametri biochimici, registrazione dell’attività elettromagnetica dideterminate aree cerebrali, ecc.). Sicché, per rilevare le competenze non siano più neces-sarie “classificazioni comportamentali”, ma bastino appunto misurazioni psicosomati-che. Un po’ come, per rilevare la febbre, non si fa ricorso a descrizioni di “comportamen-ti febbrili”, ma ci si affida alla scala numerica di un termometro. Potremmo così andare aldi là delle semplici comparazioni qualitative (Giorgio ha più leadership di Mario) e stabi-lire precisi rapporti di comparazione quantitativa (Giorgio ha un una volta e mezzo dileadership più di Mario).

È chiaro che questa ipotesi è pura fantascienza, ma nella sua bizzarria (che scaturi-sce evidentemente dal “riduzionismo fisiologico” che sembra sottendere l’ipotesi stessa)può servire a mettere meglio a fuoco il senso del problema che stiamo qui affrontando.

In un film di fantascienza di qualche anno fa, Minority Report97, il tema era quellodella previsione scientifica di comportamenti futuri (in particolare, di comportamenticriminosi). Nell’ipotesi appena accennata, il tema sarebbe invece quello della rilevazionescientifica di comportamenti già posti in essere.

Quale potrebbe essere il senso di Minority Report? Con la spettacolarità del grandecinema di Hollywood, il film di Spielberg propone questioni eterne, come quella dellibero arbitrio, riformulate sullo sfondo attuale degli angosciosi problemi di sicurezzacollettiva, obbligando lo spettatore a interrogarsi sulla possibilità di farvi fronte con azio-ni preventive efficaci e, al tempo stesso, moralmente e giuridicamente accettabili.

Un senso assai più modesto ha invece l’ipotesi di tecnologie che rilevino le compe-tenze, come i termometri la febbre, e il senso è questo: mostrare che nel campo dei com-portamenti umani è ben difficile immaginare la fine dei concetti classificatori. Se abbia-mo la sensazione che una persona sia sfebbrata, ma, mettendole il termometro, ci accor-giamo che segna 37,5°, non abbiamo difficoltà a dare subito ragione al termometro. Ma seregistreremo invece un contrasto fra ciò che indicano, ad esempio, i parametri biochimicie ciò che invece indicano le consuete classificazioni dei comportamenti, a quale istanzadaremo ragione? Se la misurazione dell’intensità di attivazione di una determinata zonadel cervello sembrerà indicare che ci troviamo di fronte a un “grande leader”, mentre lanormale rilevazione dei comportamenti dovesse denotare una capacità di leadershipassai modesta, a quale criterio daremo prevalenza?98.

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97 Il film è ambientato in un futuro lontano (anche se non troppo lontano: il 2054) nel quale uno speciale cor-po di polizia – la sezione Precrimine – arresta gli autori degli omicidi prima che questi vengano commessi.Ciò grazie a sofisticate strumentazioni che sfruttano le misteriose capacità sensitive di tre individui chia-mati Precogs (abbreviativo di Precognitive Thinkers).

98 Del resto, un’eventuale, futuribile scala quantitativa della leadership (come di ogni altra competenza)richiederebbe comunque classificazioni comportamentali per definire i valori estremi della scala stessa, unpo’ come nella scala centigrada della temperatura il valore zero è quello dell’acqua che congela, mentre ilvalore 100 è quello dell’acqua che bolle. Inoltre, poiché non sembra plausibile che l’intensità delle compe-tenze possa costituire un continuum come il calore o un’altra grandezza fisico-naturale, dovremmo comun-que definire classificazioni comportamentali cui agganciare i gradi intermedi della nostra ipotetica scala

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9. L’equità procedurale*

Nell’economia della conoscenza – e quindi nel mondo delle organizzazioni in cui illavoro è basato sulla conoscenza – il principio dell’equità procedurale ha un’importanzadifficile da sopravvalutare. W. Chan Kim e Renée Mauborgne, due studiosi che insegnanoentrambi all’INSEAD – European Institute of Business Administration, scuola aziendaledi fama internazionale che ha sede a Fontainebleau in Francia, argomentano con chiarez-za questa tesi citando alcuni significativi casi aziendali (Fair Process: Managing in theKnowledge Economy, in «Harward Business Review», January 2003, pp. 127-136).

Nel 1992 la Volkswagen, in un momento di forte espansione, decise, accompagnan-dola con generosi aumenti retributivi, una parziale revisione dei processi di lavoro perrendere più efficiente la fabbrica di Puebla in Messico, determinante per la penetrazionenel grande mercato americano. Contraddicendo clamorosamente le aspettative degli stes-si sindacati, la riorganizzazione suscitò forti proteste da parte dei lavoratori. Le perditeche la produzione subì furono gravissime e la prospettiva di forti incrementi della vendi-ta di auto negli Stati Uniti venne sconvolta. Tutto questo perché le ragioni della riorga-nizzazione non erano state spiegate con chiarezza alle maestranze, che persero fiducianel management, benché le modifiche introdotte fossero in sé favorevoli ai lavoratori.

Al contrario, la Siemens-Nixdorf, qualche anno dopo, nel 1994, in una fase di gra-vissima crisi produttiva, varò un piano aziendale che comportava forti sacrifici per ilpersonale, ma che gli interessati accettarono, partecipando attivamente al processo diriorganizzazione. A differenza dei dirigenti della Volkswagen, quelli della Siemens-Nix-dorf, a cominciare dall’amministratore delegato, si impegnarono in un capillare lavoro dispiegazione delle finalità e dei contenuti del piano di ristrutturazione, sollecitando dagliinteressati – sia dirigenti di base che impiegati – modifiche o proposte migliorative. Inappena due anni, la Siemens-Nixdorf condusse in porto una trasformazione che entrònella storia dell’industria europea e riportò in attivo il bilancio dell’impresa. Gli impie-gati si erano gettati a capofitto nel processo di riorganizzazione (parteciparono a iniziati-

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quantitativa delle competenze. Non rimane che ripetere che nel campo dei comportamenti umani è bendifficile immaginare la fine dei concetti classificatori e la loro sostituzione con concetti quantitativi. Se,nella sua controversia con Newton, sappiamo ormai che Goethe aveva torto nel ritenere che la natura deicolori dovesse essere studiata, per una migliore conoscenza scientifica, con il metodo qualitativo anzichécon quello quantitativo (Goethe scrisse un grande trattato sui colori, che considerò spesso più importantedella sua intera opera poetica), nella spiegazione del comportamento sociale il linguaggio comune resta –pur con i suoi (o grazie anche ai suoi?) noti problemi di incertezza, polisemia e circolarità – lo strumento dianalisi più potente e raffinato: “Si tratta di un sistema molto potente, che abbraccia una gran quantità ditipi di fenomeni sociali e individuali ed è di notevole sottigliezza e raffinatezza. Il suo livello attuale disofisticazione è il prodotto di un lungo processo storico, durante il quale esso è stato influenzato in partedai bisogni pratici della vita sociale, e in parte dal bisogno di esprimere le sottigliezze dell’interazioneumana, bisogno avvertito da drammaturghi, romanzieri, poeti, avvocati, medici, insegnanti e altre personeimpegnate in attività pratiche. Pensiamo che il linguaggio ordinario e il suo sistema concettuale costitui-scano degli strumenti scientifici molto più raffinati di qualsiasi terminologia prodotta a priori e ad hocdagli psicologi, sebbene, ovviamente, un vocabolario psicologico molto sofisticato possa essere prodottodagli stessi processi che hanno prodotto il linguaggio ordinario” (R. Harré e P.F. Secord, La spiegazione delcomportamento sociale, trad. it. Bologna, il Mulino, 1977, pp. 191-192).

* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 34.

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ve di formazione anche dopo l’orario di lavoro, spesso fino a mezzanotte), poiché aveva-no ritenuto – come osservano Kim e Mauborgne – che il processo avviato dall’aziendafosse un fair process (fair significa equo, corretto, come nella nota espressione fair play).

Cos’è un fair process? Tre cose, rispondono gli autori appena menzionati: Engage-ment (coinvolgimento), Explanation (spiegazione) ed Expectation clarity (chiarezza diaspettative). Engagement significa acquisizione del punto di vista degli interessati nellaformazione delle decisioni organizzative. Explanation significa spiegazione dei motividelle decisioni prese e dei loro contenuti. Expectation clarity significa che, una voltaadottata una decisione, vengono ben chiarite e comprese le aspettative che vi sono con-nesse (nuove regole, nuovi obiettivi, chi è responsabile di che cosa, ecc. in modo daminimizzare il political jockeying – come a dire: i “giochi di potere” – e i favoritismi). Ilfair process – sottolineano Kim e Mauborgne – non significa “decision by consensus”(decisione consensuale). Non consiste, in altre parole, nel prefiggersi lo scopo dell’armo-nia o della conquista dell’appoggio della gente attraverso compromessi. Il suo grandevantaggio è di dare vita alla cooperazione volontaria, non per ciò che le decisioni azien-dali assunte prevedono (può trattarsi anche di decisioni spiacevoli), ma per il modo incui le decisioni vengono prese, poiché le persone ne traggono la percezione del rispetto edella considerazione delle proprie opinioni, e quindi della propria intelligenza. Questapercezione crea un clima di fiducia e la fiducia, a sua volta, suscita la “voluntary coope-ration”, che catalizza iniziative e sprigiona idee, generando risposte che vanno persino aldi là delle aspettative. Se questo è vero, la conclusione cui pervengono gli autori non èpoi così enfatica: l’esperienza dimostra il “tremendous (enorme) power of fair process –fairness (equità) in the process of making and executing decisions. Fair process pro-foundly influences attitudes (atteggiamenti) and behavior critical (comportamento criti-co) to high performance”. A questo “tremendous” potere corrisponde il pesante “price ofUnfairness”. La violazione della procedural justice scatena, per contrappasso, la retribu-tive justice. La perdita di fiducia nel management spinge il personale “a politiche chesono minuziosamente dettagliate, rigide e spesso soffocanti sotto il profilo amministrati-vo”, fino magari a rigettare decisioni cruciali per la competitività dell’impresa, pur sevantaggiose per gli stessi lavoratori. “Such is the emotional power that unfair processcan provoke” (“Tale è la potenza emotiva che l’unfair process può scatenare”).

10. I limiti delle casistiche*

Pensare che si possa chiarire una regola enunciando un’ulteriore regola esplicativadella prima, conduce a un regresso all’infinito, che, peraltro, non porta ad una sempremaggiore chiarezza, perché, come sapevano bene i giuristi romani, se una norma è troppodettagliata la sua applicazione tende a complicarsi invece che risultare più semplice.Questo succede perché le norme servono a regolare casi futuri e se le si appesantisce controppi dettagli riferiti a singole fattispecie concrete diventa più difficoltosa la possibilità

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APPENDICE

* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 44.

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di adattarle, in fase di applicazione, all’imprevedibile e innumerevole combinazione dicasi che si possono presentare in futuro.

Lo scarto tra regola astratta di giudizio (la norma) e la concreta formulazione del sin-golo giudizio (l’applicazione della norma) è ben illustrato in questo brano di Kant: “Se l’in-telletto in generale vien definito la facoltà delle regole, la capacità di giudizio è la facoltà disussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualche cosa stia o no sotto una regola data(casus datae legis) ... Se [l’intelletto] volesse poi indicare in maniera generale, come si deb-ba sussumere sotto queste regole, distinguere cioè se qualcosa vi rientri o no, questo nonpotrebbe avvenire altrimenti che, ancora, mediante una regola. Ma questa, appunto perchéregola, esige da capo un ammaestramento della capacità di giudizio; e così si vede che l’in-telletto bensì è capace di istruirsi e di munirsi con regole, ma la capacità di giudizio è untalento particolare, che non si può insegnare, ma soltanto esercitare. Quindi il giudizio èl’elemento specifico del così detto ingegno naturale, al cui difetto nessuna scuola può sup-plire; perciò, per quanto a un intelletto limitato questa possa somministrare e, per così dire,innestare in grande abbondanza regole tolte dalla scienza altrui, la capacità tuttavia di ser-virsene rettamente deve appartenere allo stesso scolaro; e non c’è regola che si possa sugge-rire a tale scopo, la quale, in mancanza d’un tal dono di natura, sia sicura dall’abuso. Quin-di un medico, un giudice, un uomo di Stato può avere nella testa molte belle regole patolo-giche, giuridiche, politiche, tanto da poterne essere egli stesso un profondo maestro, e tut-tavia all’applicazione sbagliare facilmente, o perché manchi di capacità di giudizio natura-le (sebbene non manchi di intelletto) e comprenda bensì l’universale in abstracto, ma nonsappia decidere se un caso particolare in concreto vi rientri, o anche per non essere statosufficientemente indirizzato a un tal giudizio mediante esempi e casi pratici”. Dopo il pas-so citato Kant aggiunge in nota che “il difetto di capacità di giudizio è propriamente quelloche si chiama grulleria, difetto a cui non c’è modo di arrecare rimedio. Una testa ottusa olimitata, alla quale non manchi altro che un conveniente grado di intelletto e dei suoi con-cetti, si può bene armare mediante l’insegnamento fino a farne magari un dotto. Ma, poichéin tal caso di solito avviene che si sia sempre in difetto di quello (di Secunda Petri), non èpunto raro il caso di uomini assai dotti, i quali nell’uso della loro scienza lascino spessoscorgere quel tal difetto, che non si lascia mai correggere”. La Secunda Petri è la facoltà delgiudizio, così detta scherzosamente da Kant con allusione alla II parte della Logica di PietroRamo (1512-1572), che tratta appunto della facoltà del giudizio. I brani qui citati di Kantsono tratti dalla Critica della ragion pura (Introduzione al libro secondo).

11. Il dilemma del prigioniero*

Il “dilemma del prigioniero” illustra, nel linguaggio della teoria dei giochi, questofondamentale problema: il bisogno di cooperazione nella vita sociale e la possibilità chetale bisogno abbia il sopravvento sulle tendenze egoistiche. In un carcere sono rinchiusi,in due celle isolate, e quindi senza la possibilità di comunicare fra loro, i prigionieri Neri

160

APPENDICE

* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 48.

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e Bianchi, fortemente sospettati di aver commesso una rapina a mano armata. Il giudiceistruttore interroga separatamente ciascuno di essi, e fa loro un discorso che poneentrambi di fronte a questo dilemma: confessare o non confessare?

Il giudice dice a Neri: “Non ho ancora la prova che tu, insieme al tuo socio, siate gliautori della rapina, ma ciò che so di entrambi è sufficiente per mandarvi in galera unanno per possesso illegale di armi da fuoco. Tieni conto tuttavia che il reato più grave dicui sei incolpato prevede una pena di 10 anni. Ora, se tu ti dichiari colpevole di questoreato e il tuo compagno invece non confesserà, farò un patto con te: te la caverai con unacondanna a 3 mesi di carcere, mentre il tuo complice passerà in carcere 10 anni. Se inve-ce confessate entrambi sarete tutti e due condannati a 5 anni di carcere”. Cosa dovrebbefare Neri? Confessare subito e beneficiare così – sempreché l’altro non confessi – di unapena assai mite di tre mesi di detenzione? Oppure non confessare, augurandosi sempreche anche l’altro non confessi, e farsi così tutt’al più un anno di carcere? Ma attenzione!Neri deve anche considerare che se non confessa e confessa invece Bianchi, una condan-na a 10 anni non gliela toglie nessuno. Meglio allora confessare subito ed essere così con-dannato – se anche Bianchi confessa – tutt’al più a 5 anni.

Niente di più facile che anche Bianchi arrivi alle stesse conclusioni e si precipiticosì pure lui a confessare. Il risultato è che tutti e due dovranno stare in carcere 5 anni,mentre, se non avessero confessato, sarebbero entrambi usciti di prigione dopo solo unanno. Morale della favola: quando entrambi i prigionieri agiscono egoisticamente, perchénon si fidano l’uno dell’altro, il dilemma: “confessare o non confessare?” viene scioltoadottando un comportamento (la confessione) che li porta entrambi a una lunga penadetentiva. Nel corso del tempo, il dilemma del prigioniero ha avuto numerose versioni.Una di queste, di stampo “popolare”, si ritrova nel film A beautiful mind dedicato allavita di John Nash, matematico americano, premio Nobel. Chi ha visto il film ricorderàforse l’episodio in cui il protagonista, mentre si trova in un bar con alcuni compagni di

Il dilemma del prigionieroNERI

Confessa Non confessa

BIANCHI

5 anni

5 anni 3 mesi

10 anni 1 anno

10 anni

3 mesi 1 anno

Confessa

Nonconfessa

Gioco non cooperativo:scelta sub-ottimale

Gioco cooperativo:scelta ottimale

161

APPENDICE

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università, descrive loro, per spiegare i principi della sua teoria, una scenetta in cui quat-tro giovanotti si contendono l’amore di una splendida ragazza circondata da quattro ami-che. La competizione che ingaggiano li vede tutti e quattro miseramente perdenti. Coope-rando le cose vanno molto meglio…

Analogamente, finiscono per adottare una scelta che non è certo la migliore inassoluto (è una scelta “subottimale”, nel linguaggio degli economisti), i valutatori chenon possono fidarsi (o non ritengono di potersi fidare) l’uno dell’altro. In questo caso, lascelta subottimale è quella dell’indiscriminata attribuzione a tutti i valutati del giudiziopiù favorevole possibile. I valutatori avrebbero interesse a una valutazione “giusta” (cioè“aderente alla realtà” e rispondente quindi al valore reale delle persone), perché questapuò servire a motivare chi lavora di più e meglio. Ma poiché colui che valuta teme che ilcollega possa dare valutazioni tutte “gonfiate”, il suo timore è che la propria valutazione,benché “giusta”, finisca per non essere “equa”, in quanto suscettibile di penalizzare unproprio collaboratore che in un altro ufficio sarebbe magari, per la stessa prestazione dilavoro, valutato assai più generosamente. Il risultato è che ognuno rinuncia allora toutcourt alla serietà della valutazione, dando a tutti, indifferentemente, giudizi ottimi. Chesi può fare per evitare questo esito?

Come abbiamo visto, il dilemma del prigioniero avrebbe una soluzione tutta diversae assai più favorevole per entrambi i prigionieri, se essi scegliessero di cooperare, vale adire di non confessare. Ma occorre fidarsi l’uno dell’altro! Si tratta allora di apprestaremeccanismi di garanzia che sorreggano la fiducia reciproca dei valutatori, trasformandola– se non proprio da “azzardo” in “certezza” – quanto meno da “azzardo” in “rischio calco-lato” o, ancora meglio, in “affidamento ragionevole”. Tali meccanismi devono riguardaresia l’aspetto dell’oggettività del sistema di valutazione (ancorare le valutazioni a criteri digiudizio sufficientemente univoci, in modo tale che ognuno possa ragionevolmente atten-dersi che il collega valuterà una determinata prestazione di lavoro analogamente a comeegli la valuta) che quello della veridicità delle valutazioni (ideare “contrappesi” che depo-tenzino la tendenza dei valutatori ad esprimere, nei confronti dei propri collaboratori,valutazioni irrealistiche, in modo tale che ciascuno possa ragionevolmente attendersi cheil collega “non giocherà al rialzo” nell’esprimere le sue valutazioni).

12. Il valore della medietà e lo spazio della formazione*

Potrebbe sembrare incoerente parlare del valore positivo della medietà, quandoinvece, nell’approccio di McClelland e dei suoi continuatori, le competenze costituisconociò che i più bravi fanno di differente oppure meglio o di più rispetto agli altri (e cioè pre-senza/assenza, grado di frequenza e livello di intensità di determinati comportamenti).

L’incoerenza non c’è.In primo luogo, i medi non sono i just average performers di cui parlava McClel-

land (“coloro che fanno quel tanto che basta per non essere licenziati”, “people who did

162

APPENDICE

* Vengono qui approfonditi temi trattati a p. 53.

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their jobs just well enough not to get fired” ), ma sono persone che svolgono adeguata-mente e onestamente il proprio lavoro. In secondo luogo, i medi sono coloro che eseguo-no una prestazione di (apprezzabile) valore medio, e non coloro che sono predestinati apoter eseguire solo una prestazione di quel tipo, come se fosse loro precluso lo spazio perulteriori miglioramenti99.

Se, partendo dall’esperienza di best performers, si arriva a delineare un modello dibest performance, l’intento non è di cristallizzare, nel numero e nella composizione, lacategoria di coloro che attualmente eseguono ottime prestazioni. L’intenzione è invecedinamica: definire un modello che possa valere come chiaro punto di riferimento per tut-ti coloro (non importa a quale categoria attualmente appartengano) che sono attivamenteinteressati a migliorare e sviluppare le proprie capacità.

Fare un “elogio della medietà” non significa quindi porsi come obiettivo quello dicongelare un’organizzazione nel suo attuale livello di medietà. Al contrario, un onestoriconoscimento della realtà di tale livello costituisce la premessa necessaria per la defini-zione e il perseguimento di un obiettivo veramente strategico di formazione: trasformareun’eventuale diffusa “mediocrità” (area di performance medio-inferiore) in una estesa“medietà” e una consistente quota di quest’ultima in una larga “medio-superiorità”. Ledimensioni prospettiche di questo programma formativo si possono facilmente intuirepartendo dal grafico seguente che descrive la distribuzione statistica dei dati riguardantiil valore che, in una popolazione sufficientemente numerosa, una determinata variabile(ad es. la competenza professionale) tende ad assumere in assenza di interventi esplicitivolti ad imprimere a quella variabile caratteristiche migliorative.

La distribuzione gaussiana raffigurata nel grafico seguente è suddivisa in 5 fasce:quella centrale C presenta la frequenza più affollata (38% dei casi) e corrisponde a risul-

163

APPENDICE

99 Nel suo celebre articolo del 1973, McClelland parlando della necessità di costruire test che riflettano i cambia-menti derivanti da ciò che gli individui apprendono, fa questo esempio: “Se l’eccellenza per un agente di poli-zia è in parte espressa mediante un atteggiamento imparziale verso tutti i gruppi minoritari, si potrebbe utiliz-zare per la selezione un test sulla imparzialità (o sulla mancanza di etnocentrismo), che dovrebbe riflettere lacrescita in questa dimensione così come il poliziotto la sviluppa sul lavoro dopo il suo reclutamento. Uno deipiù nascosti pregiudizi della psicologia, derivato dal concetto di attitudine immodificabile ed innata, è chequalunque tratto, come il pregiudizio razziale, non è modificabile con l’educazione. Chi nasce bigotto rimarràper sempre bigotto. Non esiste nessuna solida evidenza che questo tratto o qualunque altro tratto umano nonpossa essere modificato” (McClelland, Testing for Competence Rather than for “Intelligence”, p. 8). Per quantola contrapposizione fra i sostenitori dell’origine genetica di alcuni tratti del comportamento umano, come inparticolare l’intelligenza, e quelli che ne danno una spiegazione riferita all’ambiente continui ad essere piutto-sto aspra, né gli uni, né gli altri pretendono che tutta la vicenda possa essere interpretata in chiave genetica oambientale. In altre parole, “da entrambe le posizioni si riconosce che in una certa misura le rispettive teorienon sono in grado di spiegare le variazioni che si riscontrano in questi tratti comportamentali. E questo è unpunto particolarmente importante sotto l’aspetto formativo. Se si ammette infatti che il livello attitudinale pos-sa essere almeno in parte modificato, si lascia aperta la via a un intervento esplicito che si proponga di ottenerequesto risultato” (B. Vertecchi, Le parole della scuola, Milano, La Nuova Italia, 2002, p. 47). C’è, ovviamente,un problema fondamentale di costi, poiché, per dirla con le parole di un direttore del personale americano, “Èpossibile insegnare a un tacchino ad arrampicarsi sugli alberi, ma è più facile assumere uno scoiattolo” (Spen-cer & Spencer, op. cit., trad. it., p. 33). Tuttavia, una volta che le assunzioni sono state fatte, bisogna sempreattentamente considerare non solo quali siano i costi della formazione, ma anche quali siano i costi connessiall’eventuale rinuncia a miglioramenti di prestazione lavorativa resi possibili da appropriate azioni formative.Per un’analisi della convenienza economica dei programmi di sviluppo delle competenze, si può vedere L.M.Spencer, The Economic Value of Emotional Intelligence Competencies and EIC-Based HR Programs, cit.

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tati medi; le fasce B e D (24% dei casi ciascuna) corrispondono rispettivamente a risultatimedio-inferiori e medio-superiori; infine le fasce estreme A ed E (7% ciascuna) compren-dono la prima i risultati peggiori e l’altra i migliori.

Nei modelli più avanzati di mastery learning (apprendimento per la padronanza),si ipotizza che efficaci programmi di formazione individualizzata (che non significa“individuale”) possano spostare la distribuzione dei dati dalla classica curva normale acampana ad una curva a j, così chiamata perché asimmetrica, con frequenze più elevatein corrispondenza dei risultati migliori (B. Vertecchi, Decisione didattica e valutazione,Firenze, La Nuova Italia, 1993, pp. 297-300).

Bisogna poi sempre ricordare la comune verità – appresa fin dalle prime esperien-ze scolastiche – secondo la quale il concetto di media non è assoluto ma relativo (l’abilità

0

10

20

30

40

50

60

70

A B C D E

Distribuzione a j

Distribuzione pentenaria normale

7 7

0

10

20

30

40

A B C D E

in ciascuna

fascia

rientrano i

punteggi

compresi

nell'intervallo

di una deviazione

standard

% media

fascia

7%38%

24%7%

164

APPENDICE

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media di un gruppo è la media di quel gruppo: una cosa è essere “medi” in una classe di“brocchi”, un’altra è essere “medi” in una classe di “bravi”) e non è statico ma dinamico:crescendo il livello complessivo di abilità di un gruppo, vi aumenta anche il valoremedio di abilità, sicché è tutt’altro che incongruo fare, ad esempio, confronti tra dueorganizzazioni, giungendo alla conclusione che in una organizzazione vi sono, a diffe-renza che nell’altra, elementi medi di “buon livello”. In effetti, ciò che fa grande unagrande organizzazione non sono poche punte di eccellenza ma il raggiungimento di ele-vati standard medi100.

In conclusione, l’apprezzamento del valore della medietà non è deterministico inalmeno due sensi:• all’interno di un gruppo è sempre possibile (o almeno non lo si può mai escludere a

priori) che con adeguate azioni formative sia possibile elevare la fascia dei medio-superiori e ridurre, correlativamente, quella dei medi, spostando la composizione delgruppo da una distribuzione a campana dell’abilità professionale a una distribuzione aj. In sintesi, questo significa ridurre sensibilmente la percentuale dei medi e far cresce-re di riflesso la percentuale dei medio-superiori ovvero – per dirla ancora più sempli-cemente – far diventare maggioranza i “bravi”;

• anche assumendo che la consistenza percentuale dei medi e dei medio-superiori nonpossa significativamente cambiare, si può sempre puntare, grazie alla formazione, adelevare il livello di professionalità dei medi, ed è proprio questa crescita complessivadei medi che può costituire il vantaggio competitivo di un’organizzazione rispettoall’altra (negli anni ’80 una delle principali differenze tra una fabbrica di auto europeae una giapponese stava proprio nella capacità media di lavoro degli addetti). In questaipotesi, non cambierebbe molto, all’interno dell’organizzazione, il rapporto quantitati-vo fra medi e medio-superiori, ma, in assoluto, i medi raggiungerebbero un livello diprofessionalità significativamente maggiore rispetto al livello precedente o rispetto allivello di professionalità dei medi di un’altra organizzazione.

165

APPENDICE

100 Questa considerazione di semplice buon senso, tratta dall’esperienza comune, sembrerebbe addiritturapoter assumere una cifra interpretativa più profonda alla luce della teoria dell’evoluzione: “Qualsiasi col-lettività può giovarsi, al suo interno, di una piccola percentuale di individui con caratteristiche estreme,ovvero ‘vicini alla punta della coda’: ma è necessario che questi individui non siano troppo numerosi. Èdunque un bene che vi siano dei creativi, e magari anche taluni individui molto creativi, e magari anchequalcuno così creativo da essere visionario; ma un qualsiasi gruppo diventa caotico se le persone con que-ste caratteristiche sono più che pochissime. Oppure possiamo supporre che una tribù, o un villaggio, trag-ga vantaggio dalla presenza di una certa percentuale di coraggiosi entusiasti; però andrà verso il baratro sele persone pronte a entusiasmarsi non sono controbilanciate da un numero adeguato di persone più cautee pensose, e magari da pochissime persone (non troppe!) estremamente caute e pensose. E così via.

101 Peraltro, la curva di Gauss testimonia che l’evoluzione stessa delle specie – e dei gruppi – ha operato inmodo tale da distribuire sempre in proporzioni accettabili il rapporto fra medietà ed eccezionalità. Sche-matizzando, possiamo ritenere che le società con troppi individui banali si siano estinte non meno facil-mente di quelle con troppi individui originali” (G. Jervis, Prime lezioni di psicologia, Bari, Laterza, 2000,pp. 130-131). Considerazioni del genere – che in sé sono tutt’altro che implausibili – vanno tuttaviaaccolte sempre con qualche cautela, poiché nella “psicologia evoluzionistica” si manifesta a volte questatendenza: “il semplice fatto di poter concepire un’interpretazione adattiva di un dato fenomeno compor-tamentale diventa la ragione prima per sospettarne un’origine genetica” (H. Allen Orr, Favolistica darwi-niana, in «La Rivista dei Libri», n. 9, 2005, p. 18).

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A

Allen Orr, H.; 165Apel, K.O.; 137Argyris, C.; 15Aristotele; 20; 42; 154

B

Barrett, G.V.; 125Berlew, D.; 144Boyatzis, R.E.; 55; 125; 130; 135; 143; 144; 150

C

Calvino, I.; 93Capucci, U.; 51; 130; 134Carnap, R.; 153; 154; 156Cassese, S.; 132Cherniss, C.; 151Clinton, B.; 132Croce, B.; 41

D

Dalí, S.; 37Darley, J.M.; 71Davis, K.; 15Depinet, R.L.; 125

F

Fish, R.; 69; 71

G

Gaebler, T.; 132Galilei, G.; 74; 154; 156Gandhi, M.; 74

Glucksberg, S.; 71Goethe, J.W.; 158Goleman, D.; 55; 130; 151Göring, H.; 127Grandori, A.; 34; 55; 131; 135; 150

H

Hamel, G.; 132; 133Harré, R.; 158Hay Group; 21; 137; 138; 144Holmes, S.; 99Husserl, E.; 137

I

Isotta, F.; 34

J

James, W.; 16Jervis, G.; 165

K

Kamprad, I.; 70Kant, I.; 15; 160Kaspar; 13Kelsen, H.; 75Kim, W.C.; 158; 159Kinchla, R.A.; 71Klein, G.D.; 51

L

La Torre, M.; 37Lévi-Strauss, C.; 72Locke, E.A.; 130Lovejoy, A.; 143

167

Indice dei nomi

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M

Mauborgne, R.; 158; 159McBer; 144; 145McClelland, D.; 17; 18; 19; 20; 21; 125; 126;

128; 130; 131; 132; 133; 134; 138; 140;141; 144; 147; 148; 149; 153; 162; 163

McKee, A.; 55Mero, N.P.; 32; 34; 45; 49; 149Miller, W.; 74Moran, S.F.; 144; 145

N

Naidu, S.; 74Napoleone; 59Nardi, E.; 37Nash, J.; 161Newton, I.; 158Normann, R.; 70

O

Occam, G. di; 142Oggioni, E.; 132; 133Osborne, D.; 132

P

Pilati, M.; 32; 34; 45; 49; 149Poincaré, R.; 66Prahalad, C.K.; 132; 133

R

Ramo, P.; 160Rizzo, J.; 32; 34; 45; 49; 149Rolandi, A.; 132; 133

S

Sandberg, J.; 32; 128; 129; 135; 136; 137Schrödinger, E.; 40Scott, W.G.; 15Secord, P.F.; 158Senge, P.M.; 65Simon, H.A.; 66; 69Sorokin, P.A.; 42Spencer, L.M.; 151; 163Spencer, L.M. & Spencer, S.M.; 18; 19; 24; 51;

126; 128; 130; 131; 135; 137; 138; 139;141; 143; 144; 147; 148; 149; 150; 151;163

Spielberg, S.; 157Sunstein, C.R.; 99

T

Tosi, H.L.; 32; 34; 45; 49; 149Totò; 75Trilussa; 127; 128

V

Vertecchi, B.; 37; 163; 164Visalberghi, A.; 41

W

Watzlawick, P.; 69; 71Weakland, J.H.; 69; 71Weick, K.; 16Wittgenstein, L.; 39; 44

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INDICE DEI NOMI

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1. Quarto rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. –Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali (maggio 2001)

2. La riforma del welfare e le nuove competenze delle amministrazioni regionali e locali (giugno 2001)

3. Patti territoriali e agenzie di sviluppo (giugno 2001)

4. Il ruolo delle agenzie locali nello sviluppo territoriale(luglio 2001)

5. Comuni e imprese – 56 esperienze di Sportello Unico(ottobre 2001)

6. Progetto Officina – Sviluppo localee eccellenza professionale (febbraio 2002)

7. Quinto rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. –Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali (maggio 2002)

8. Lezioni sul nuovo ordinamento amministrativo italiano(ottobre 2002)

9. Le Province nell’attuazione del piano di e-government(novembre 2002)

10. Integrazione dell’offerta formativa – La normativa nazionale(aprile 2003)

11. Sesto rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. –Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali (maggio 2003)

12. L’Amministrazione liberale – Appunti di lavoro(giugno 2003)

13. La valorizzazione sostenibile delle montagne(giugno 2003)

14. Governare lo sviluppo locale – Le aree protette marine della Sardegna(giugno 2003)

15. Le Agenzie di Sviluppo al Centro Nord – Strategie di rete e comunità professionali(giugno 2003)

16. Contabilità ambientale negli enti locali(giugno 2003)

17. Le Agende 21 Locali(giugno 2003)

18. Integrazione dell’offerta formativa –Normativa regionale(luglio 2003)

19. Piani di azione e politiche di innovazione – Il caso dello Sportello Unico(dicembre 2003)

171

Le collane del Formez

Quaderni

Page 160: Strumenti 34 IMPAG. · 2017-01-17 · luppatesi in questi anni nell’Agenzia delle Entrate sotto la denominazione di “progetto Antares”. Nel volume vengono organicamente presentati

20. Le autonomie locali nelle regioni a Statuto speciale e nelleProvince Autonome(marzo 2004)

21. La Pubblica Amministrazione e il sistema delle imprese – Rapporto di ricerca(marzo 2004)

22. La comunicazione pubblica – Linee operative(giugno 2004)

23. La semplificazione amministrativa nelle regioni(giugno 2004)

24. Settimo rapporto nazionalesulla formazione nella P.A. –Lo scenario della formazionenel sistema delle autonomie locali(luglio 2004)

25. La formazione nella P.A. che cambia – L’esperienza del Ministero dell’Ambiente(luglio 2004)

26. L’attrattività dei territori nelle politiche diinternazionalizzazione(ottobre 2004)

27. La governance dell’internazionalizzazioneproduttiva – Il Laboratorio(ottobre 2004)

28. La governance dell’internazionalizzazioneproduttiva – L’Osservatorio(ottobre 2004)

29. La comunicazione interna nella P.A. regionale e locale(novembre 2004)

30. La public governance in Europa (7 voll.)(dicembre 2004)

31. Nuovi soggetti della governance esterna(dicembre 2004)

32. L’analisi di impatto della regolazione in dieci Paesi dell’Unione europea(gennaio 2005)

33. Le risorse culturali – Studi di fattibilità ed esperienze di gestione(gennaio 2005)

34. Scenari per il ‘buon governo’ delle Regioni(aprile 2005)

35. Qualità nei Servizi per l’Impiego – Sistemi locali e nuovi strumenti di rilevazione(aprile 2005)

36. Ottavo rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenario della formazione nel sistema delle autonomie locali(luglio 2005)

37. L’empowerment degli Sportelli unici(settembre 2005)

38. Note e commenti sul sistema amministrativo italiano/2004 (3 voll.)(ottobre 2005)

39. Autonomia tributariae federalismo fiscale(novembre 2005)

40. Nuovi profili di accountabilitynelle P.A. (2 voll.)(novembre 2005)

41. Il governo della salute – Regionalismie diritti di cittadinanza(dicembre 2005)

42. Autonomia regionale e unitàdella Repubblica(dicembre 2005)

43. La contrattazione integrativanei comparti della P.A. –Quadriennio 2001/2004(febbraio 2006)

44. Sostenibilità urbana e decentramento –La Rete dei Municipi di Romaper Agenda 21 Locale(febbraio 2006)

45. Scenari e tendenzedella formazione pubblica(marzo 2006)

46. I livelli essenziali delle prestazioni –Questioni preliminari e ipotesidi definizione(giugno 2006)

172

Page 161: Strumenti 34 IMPAG. · 2017-01-17 · luppatesi in questi anni nell’Agenzia delle Entrate sotto la denominazione di “progetto Antares”. Nel volume vengono organicamente presentati

1. Il contenzioso nel lavoro pubblico (maggio 2001)

2. Modello e strumenti di valutazione e monitoraggio dei corsi RIPAM (luglio 2001)

3. Appunti di programmazione, bilancio e contabilità per gli enti locali(gennaio 2002)

4. Project Cycle Management – Manuale per la formazione(marzo 2002)

5. Il governo elettronico – Rassegna nazionale e internazionale (marzo 2002)

6. Il governo delle aree protette(aprile 2002)

7. Il contenzioso nel lavoro pubblico – L’arbitrato(aprile 2002)

8. Common Assessment Framework –Uno strumento di autovalutazione per le pubbliche amministrazioni(giugno 2002)

9. Il controllo di gestionenegli enti locali(luglio 2002)

10. Comunità di pratiche,apprendimento e professionali –Una metodologia per la progettazione(dicembre 2002)

11. Modello e strumenti web-based di valutazione e monitoraggio dei corsi RIPAM (marzo 2003)

12. L’impresa artigiana e lo Sportello Unico per le attività produttive(marzo 2003)

13. Programmazione e realizzazione di progetti pubblici locali – Un sistemadi monitoraggio degli interventi(giugno 2003)

14. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico –Regione Lombardia(giugno 2003)

15. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione Emilia-Romagna(settembre 2003)

16. Il sistema normativo della protezione civile(novembre 2003)

17. Il ruolo delle Province in materia di viabilità(febbraio 2004)

18. Investimenti pubblici e processo decisionale(maggio 2004)

19. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione Campania(maggio 2004)

173

Strumenti

47. Nono rapporto nazionale sulla formazione nella P.A. – Lo scenariodella formazione nel sistemadelle autonomie locali(luglio 2006)

48. L’amministrazione per sportelli(ottobre 2006)

49. I confronti di performance tra Comunicome strumento di apprendimento(ottobre 2006)

50. La semplificazione tra Stato, Regionie Autonomie locali – Il casodella legge 241(novembre 2006)

51. Note e commenti sul sistemaamministrativo italiano in contestointernazionale. 2006(3 voll.)(dicembre 2006)

Page 162: Strumenti 34 IMPAG. · 2017-01-17 · luppatesi in questi anni nell’Agenzia delle Entrate sotto la denominazione di “progetto Antares”. Nel volume vengono organicamente presentati

1. Sportello Unico e servizi alle imprese – Le azioni delle Regioni (novembre 2002)

2. L’impatto economico dello Sportello Unico (novembre 2002)

3. Scambio di innovazioni tra amministrazioni (aprile 2003)

4. Il Bilancio di Competenze –Una proposta per la Pubblica Amministrazione (giugno 2003)

5. Progetti integrati e sviluppo territoriale – Regioni Obiettivo 1 (luglio 2003)

6. L’attuazione della riforma del welfare locale (2 voll.) (agosto 2003)

7. Le politiche di incentivazione del personale nella P.A. (agosto 2003)

8. Lo sviluppo delle risorse umane – Casi di sistemi premianti (agosto 2003)

9. Lo Sportello Unico e le politiche regionali per le imprese (dicembre 2003)

10. Modelli di gestione per i Progetti Integrati Territoriali (dicembre 2003)

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Azioni di Sistema per la Pubblica Amministrazione

20. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione del Veneto(giugno 2004)

21. Il contratto di servizio – Elementiper la redazione e la gestione(luglio 2004)

22. Guida alla progettazione dell’offerta formativa integrata(luglio 2004)

23. Programmazione e gestionedella formazione – Il sistema Informal(novembre 2004)

24. Manuale per il responsabile dello Sportello Unico – Regione Piemonte(dicembre 2004)

25. La Governance locale – Linee guida per i Comuni(agosto 2005)

26. Il lavoro coordinato e continuativo nella P.A. – Linee guida (settembre 2005)

27. La finanza di progetto –Esperienze a confronto (ottobre 2005)

28. La Governance locale – Linee guida per le Province(novembre 2005)

29. La governance locale – Linee guidaper le Comunità montane(dicembre 2005)

30. Le garanzie nel sistema localedelle comunicazioni: le delegheai Co.Re.Com. – Linee guidaper le materie delegate(dicembre 2005)

31. Manuale per il responsabiledello Sportello unico –Regione Lazio(dicembre 2005)

32. Le misure del cambiamentonella P.A. – Indicatori di performance(febbraio 2006)

33. La governance locale – Strumentie buone pratiche(3 voll.)(maggio 2006)

34. Scenari della riformadell’Unione europea(dicembre 2006)

Page 163: Strumenti 34 IMPAG. · 2017-01-17 · luppatesi in questi anni nell’Agenzia delle Entrate sotto la denominazione di “progetto Antares”. Nel volume vengono organicamente presentati

11. Governance e sviluppo territoriale (dicembre 2003)

12. Le competenze delle Agenzie di sviluppo – Sperimentazione in Calabria e Sardegna (dicembre 2003)

13. Il partenariato socioeconomico nei progetti integrati territoriali (dicembre 2003)

14. Apprendimento e cambiamento organizzativo nella P.A. – Tre casi europei a confronto (aprile 2004)

15. L’esperienza dei PIT – Studi di caso (aprile 2004)

16. La formazione continua nella P.A. –L’esperienza del Progetto Gymnasium (aprile 2004)

17. Flessibilità e lavoro pubblico –Manuale operativo (maggio 2004)

18. Gestione delle proceduretelematiche di acquisto nelle P.A. –Linee guida sul marketplace (maggio 2004)

19. Sistemi informativi per i progetti integrati territoriali (luglio 2004)

20. Percorsi evolutivi dei Piani di Zona – Analisi di sfondo(novembre 2004)

21. Riforma del welfare e gestione dei servizi sociali – Quadro normativo e strumenti di lavoro(dicembre 2004)

22. Lo sviluppo dei sistemi turistici locali – Regioni Obiettivo 1(dicembre 2004)

23. Gli osservatori provinciali sociali (febbraio 2005)

24. Strategie di utilizzo del marketplacenelle amministrazioni pubbliche(marzo 2005)

25. Sviluppo territoriale Agenzie e Pubblica Amministrazione – Interpretazioni e pratiche innovative(maggio 2005)

26. La programmazione sanitaria – Metodologie e strumenti di valutazione per le Regioni e le aziende sanitarie(giugno 2005)

27. Dai sistemi di qualità alla qualitàdi sitema – La domanda-offertadi formazione per la P.A.(dicembre 2006)

175

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FormezUfficio Stampa ed Editoriavia Salaria 226, 00198 Romatel. +39 06 [email protected]

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2007Pubblicazione non in vendita


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