S tu d i e ricerche
Espansione e declino del comunismo in Europa occidentale 1939-1948
Donald Sassoon
Scopo di questo articolo è riesaminare, in un’ottica rigorosamente comparativa, l’itinerario compiuto dai partiti comunisti dell’Europa occidentale dall’inizio della seconda guerra mondiale agli esordi della guerra fredda. I dati riportati mostrano che, nell’insieme, il comuniSmo in Europa occidentale raggiunse il suo culmine nelle prime elezioni del dopoguerra, per avviarsi subito dopo sulla strada del declino, fatta eccezione per i comunisti italiani e francesi. La crescita del movimento non si può semplicemente imputare al prestigio dell’Urss, perché non si spiegherebbero in questo caso le differenze tra i singoli partiti. La variabile cruciale è rappresentata dall’ampiezza e importanza della resistenza: i partiti comunisti di Grecia, Albania, Jugoslavia, Italia e Francia operarono assai meglio dei loro “fratelli” dell’Europa settentrionale, finlandesi a parte. I comunisti si dimostrarono superiori ai socialisti nella lotta contro il nazismo grazie soprattutto alla loro organizzazione centralizzata di tipo militare, appositamente concepita per la guerra rivoluzionaria, e alla chiarezza del loro obiettivo, ossia la sconfitta del fascismo, al quale andava subordinato tutto il resto.Finita la guerra, i comunisti persero la loro peculiarità: la disciplina interna (centralismo democratico) non gli conferì più un vantaggio particolare, né la politica delle alleanze da loro perseguita valse a distinguerli gran che dagli altri partiti. La via insurrezionale al socialismo, che era stato il segno distintivo e la caratteristica originaria dei partiti comunisti, venne abbandonata in tutti i paesi, per ben precise ragioni che l’articolo si premura di spiegare attraverso un’analisi comparativa dei partiti italiano, francese, finlandese e ceco.
The aim o f this article is to re-examine, in a strictly comparative perspective, the itinerary o f the communist parties o f Western Europe from the onset o f the Second World War to the initial phase o f the Cold War. The data reproduced show that — taken as a whole — the peak o f West European communist strength occurred in the first postwar elections, thereafter decline set in except fo r the French and the Italians. The growth o f the movement cannot be simply attributed to the prestige o f the USSR, fo r this would not explain the differences between parties. The intensity and importance o f the Resistance is the crucial variable; communist parties in Greece, Albania, Yugoslavia, Italy and France did far better than the communist parties in northern Europe with the exception o f Finland. The communists turned out to be superior to the socialists in the struggle against Nazism also because o f their centralized and militaristic internal organization which had been devised fo r the purposes o f revolutionary warfare and because o f the clarity o f their goal, namely the defeat o f fascism to which all else had to be subordinated.Once the war was over, the communists lost their peculiarity; their internal discipline (democratic centralism) offered them no special advantage while their strategy o f coalition with other forces was not significantly distinguishable from other parties. The insurrectionary road to socialism, which had been the hallmark and the originary characteristic o f the communist parties, was abandoned by all o f them, fo r clearly definable strategic reasons which the article elucidates through a comparative analysis o f the Italian, French, Finnish and Czech party.
Italia contemporanea”, marzo 1993, n. 190
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Comunisti e socialisti nella resistenza antifascista
La prima guerra mondiale ha prodotto, nel 1917, il primo Stato comunista e, come conseguenza, nel 1919, un movimento comunista internazionale. Se si esclude la Repubblica popolare di Mongolia, tra le due guerre mondiali non nacque nessun nuovo stato comunista, mentre il secondo conflitto mondiale diede al comuniSmo europeo una seconda possibilità per imporsi come forza politica di rilievo. La guerra determinò l’estensione del modello sovietico a gran parte dell’Europa orientale, mentre, in quella occidentale, il comuniSmo raggiunse, fra il 1945 ed il 1946, l’apice dell’influenza e del potere. Ristabilita la pace, l’Europa e con essa il socialismo risultarono divisi. In parte dell’Europa centrale ed in quella orientale venne instaurata una forma di società socialista poi duramente attaccata dalla maggioranza (di orientamento socialdemocratico) del movimento dei lavoratori dei paesi occidentali. La situazione rimase invariata fino al 1989-1990; nel momento in cui, venuto meno il controllo sovietico, i singoli stati socialisti crollarono sotto il peso del dissenso interno, divenne evidente che (almeno in un prevedibile futuro) nessuna nuova fenice socialista sarebbe sorta dalle ceneri di oltre quarant’anni di regime autoritario di sinistra.
Nella metà occidentale dell’Europa, se si esclude la Francia (fino agli anni ottanta) e l’Italia (fino alla decisione assunta dal Pei, nel marzo 1990, di ricostituirsi come partito non comunista), la voce dominante della sinistra è stata quella dei partiti socialisti o socialdemocratici, eredi della Seconda internazionale.
Perché la socialdemocrazia ha potuto mantenere questo predominio? Fondamentalmente, la spiegazione sta nel fatto che, una volta concluso il conflitto e ristabilita la normalità, i partiti socialisti semplicemente
riacquisirono le precedenti posizioni di potere. Il loro prestigio non era stato seriamente intaccato nel corso della guerra sebbene, come vedremo, essi non si fossero ricoperti di gloria, non essendo stati all’avanguardia della lotta antifascista in nessuno dei paesi governati dai nazisti o dai loro alleati. Questa marcata continuità non dovrebbe sorprendere. La seconda guerra mondiale, il conflitto internazionale più devastante nella storia dell’umanità, produsse trasformazioni minime nel sistema degli stati europei, quali l’incorporazione delle repubbliche baltiche da parte dell’Unione Sovietica, lo spostamento verso ovest dei confini della Polonia e la divisione della Germania. Piccoli mutamenti se paragonati alla ristrutturazione complessiva che seguì le guerre napoleoniche o, ancor più, il primo conflitto mondiale.
Se qualcosa venne distrutto dalla guerra, fu proprio la già intaccata fede nella capacità del capitalismo di generare una “buona società” se lasciato libero di agire senza interferenze. Di conseguenza la guerra aveva anche danneggiato i partiti filocapitalisti che, nelle prime elezioni dopo la fine del conflitto, vennero ovunque ridimensionati. Per ottenere risultati significativi i conservatori dovettero ricomparire sulla scena politica riorganizzandosi all’interno di partiti confessionali democratico-cristiani, profondamente impregnati di populismo e impegnati nella realizzazione di riforme sociali, come in Italia e nella Repubblica federale tedesca. Il crollo della destra non fascista nelle prime elezioni del dopoguerra interessò persino i conservatori che avevano ottenuto ottimi risultati nel corso della guerra, come i Tory di Winston Churchill, che nel 1945 subirono una sconfitta particolarmente devastante ed umiliante. La ricostruzione dell’Europa nel dopoguerra richiese partiti favorevoli all’intervento dello
Il saggio è stato originariamente pubblicato, con il titolo The Rise and Fall o f West European Communism 1939- 48, in “Contemporary European History”, n. 2, 1992, rivista edita dalla Cambridge University Press.
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Stato nella misura necessaria a promuovere l’uguaglianza sociale e la redistribuzione della ricchezza. AlPordine del giorno vi era ora sempre più un tipo di politica più correlato all’interesse generale e, di conseguenza, almeno per il periodo immediatamente successivo alla fine del conflitto, più favorevole alla sinistra. In un continente distrutto dalla guerra ed ossessionato dal ricordo della depressione degli anni trenta non restava spazio per un conservatorismo incapace di riproporsi su basi diverse.
Come lo scoppio della prima, l’inizio della seconda guerra mondiale segnò la crisi della sinistra europea, dividendo socialisti e comunisti altrettanto profondamente che negli anni venti. Nel 1939 il motivo contingente fu il patto di non aggressione firmato il 23 agosto da Unione Sovietica e Germania. Non essendo stati previamente consultati o informati, i partiti comunisti vennero in tutto il mondo colti di sorpresa: i due pilastri portanti della loro politica, la difesa dell’Urss come primo Stato socialista e l’antifascismo, divenivano a quel punto tra loro incompatibili. La contraddizione venne in
un primo momento resa plausibile interpretando il patto, in maniera non del tutto ingiustificata, come l’inevitabile risposta sovietica alla politica di appeasement adottata da Gran Bretagna e Francia, percepita a Mosca come una strategia volta a dirigere verso est l’aggressione nazista1. In questa prima fase non vi fu neppure un partito comunista che mancò di indicare nella Germania nazista il nemico principale2. Per esempio, il 4 settembre, il giorno successivo alla dichiarazione di guerra anglo-francese, il partito comunista danese dichiarò che “il barbarico fascismo tedesco [aveva] scatenato una guerra di rapina in Europa”3. I comunisti francesi votarono i crediti di guerra; i titoli di testa de “L’Elumanité” del 26 agosto 1939 chiedevano “l’unità della nazione francese contro l’aggressione hitleriana” ed esortavano ad un riavvicinamento tra Parigi e Mosca4. Il governo francese rifiutò la proposta e iniziò invece una persecuzione su larga scala dei comunisti, vietando l’uscita de “L’Humanité”, arrestando i deputati comunisti, sciogliendo il Pcf e inviandone i principali attivisti in campi di prigionia5.
1 I timori dei sovietici erano stati ulteriormente accresciuti dal fatto che sia Lettonia che Estonia avevano concluso il 7 giugno un patto di non aggressione con la Germania (si veda David Kirby, The Baltic States 1940-1950, in Martin McCauley (a cura di), Communist Power in Europe 1944-1949, London, Macmillan, 1977, p. 23). Che la condotta di Stalin fosse del tutto comprensibile, se non giustificabile dal punto di vista degli interessi nazionali sovietici, era stata l’opinione di molti uomini politici del tempo, come ad esempio Attlee ed Eden (si veda: Kenneth Harris, Attlee, London, Weidenfeld, 1982, p. 161 e p. 167, e le memorie di Anthony Eden, The Eden Memories: The Reckoning, London, Cassel, 1965, pp. 55-56). Un autore fermamente antistalinista come Fernando Claudin ha criticato non il patto in sé, ma il modo nel quale esso venne utilizzato: si veda il suo volume The Communist Movement. From Comintern to Cominform, Harmondsworth, Penguin, 1975, p. 297 (ed. it. La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Milano, Feltrinelli, 1974; ed. orig. Paris, Ruedo Iberico, 1970). La storiografia non partigiana non considera il patto sorprendente sotto il profilo della realpolitik-, la migliore analisi sull’argomento è quella di Geoffrey Roberts in The Unholy Alliance. Stalin’s Pact with Hitler, London, I. B. Tauris, 1989, dove le motivazioni principali del patto vengono individuate nel fallimento del programma di sicurezza collettiva e dei negoziati tra Urss, Gran Bretagna e Francia.2 Aldo Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. Ili (1928-1943), Tomo 2, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 1163.3 Gerhard Hirschfeld, Nazi Rule and Dutch Collaboration. The Netherlands under German Occupation 1940-1945, Oxford, Berg Publishers Ltd., 1988, p. 110.4 Edward Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, London, Faber and Faber, 1984, pp. 283- 284.5 H.R. Kedward, Behind the Polemics: French Communists and the Resistance 1939-1941, in Stephen Hawes and Ralph White (a cura di), Resistance in Europe: 1939-1945, Harmondsworth, Penguin, 1976, p. 99. Questo saggio
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Fino al 24 settembre, quando la Terza internazionale definì la guerra imperialista piuttosto che antifascista, il Communist Party of Great Britain (Cpgb) si era arroccato in una intransigente posizione antinazista, arrivando perfino a rendere pubblica la propria analisi attraverso un pamphlet scritto dal suo leader, Harry Pollitt, stampato in50.000 copie e venduto per un penny. Fino ad allora soltanto Palme Dutt si era opposto a questa linea politica. Occorse una settimana di tormentate discussioni perché, il 3 ottobre 1939, il Comitato centrale del Cpgb annunciasse l’appoggio, approvato con ven- tun voti contro tre, alla linea indicata da Mosca6.
Tra il 17 e il 28 settembre vennero compiutamente applicati i protocolli segreti del patto Ribbentrop-Molotov. Truppe sovietiche occuparono l’Ucraina e la parte occidentale della Bielorussia, ristabilendo le frontiere russe anteriori al 1920; si trattò della prima di una serie di iniziative che avrebbero portato all’occupazione sovietica dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania e di parte della Polonia e all’invasione della Finlandia. Unione Sovietica e Germania stabilirono un nuovo accordo, questa volta un vero patto di amicizia e non soltanto un
trattato di non aggressione. Non era quindi più possibile assumere un atteggiamento ambiguo. I comunisti francesi e britannici seguirono la linea del Comintern sostenendo che la guerra non era antifascista ma imperialista, ed attribuirono a Francia e Gran Bretagna la responsabilità della sua continuazione. Il danno causato da questa nuova politica al movimento comunista in Occidente ed alla sua credibilità fu estremamente grave. I comunisti tedeschi perseguitati, molti dei quali in campo di concentramento a Dachau, si trovarono nella condizione grottesca di condannare l’imperialismo britannico e di insinuare che “il popolo tedesco [...] non avrebbe avuto nulla da guadagnare dalla sostituzione del regime nazista con un regime democratico”7. Altri assunsero un atteggiamento meno assurdamente servile: il partito comunista italiano, pur abbandonando la linea dell’unità antifascista, non smise mai di indicare nel fascismo e nel nazismo i nemici principali e dichiarò, nel giugno 1940, dopo la decisione di Mussolini di entrare in guerra, che “il popolo italiano non ha che un nemico, il fascismo”8.
Quando, il 22 giugno 1941, la Germania invase l’Unione Sovietica, lo status quo venne completamente alterato. La guerra “im-
confuta efficacemente la convinzione consolidata secondo la quale non si può parlare di un’attività di resistenza svolta dai comunisti francesi prima dell’invasione dell’Unione Sovietica. Per ulteriori conferme in questo senso, si veda John F. Sweets, Choices in Vichy France, Oxford, Oxford University Press, 1986, pp. 204-206 e Lynne Taylor, The Parti communiste français and the French Resistance in the Second World War, in Tony Judt (a cura di), Resistance and Revolution in Mediterranean Europe 1939-1948, London and New York, Routledge, 1989, pp. SJTI.6 I verbali delle riunioni del Comitato centrale del Cpgb del 25 settembre e del 2 e 3 ottobre 1939, recentemente resi noti dalle autorità sovietiche, sono stati pubblicati in About Turn. The British Communist Party and the Second World War, a cura di Francis King and George Matthews (London, Lawrence and Wishart, 1990). Essi dimostrano che la lealtà nei confronti di Mosca non costituiva una reazione automatica, ma il risultato di lunghe e difficili discussioni. Si veda anche la ricostruzione di Noreen Branson, History o f the Communist Party o f Gret Britain 1927- 1941, London, Lawrence and Wishart, 1985, pp. 266-267. In pratica l’atteggiamento della gran massa dei comunisti mutò assai poco; essi non smisero mai di considerare la Germania nazista come il principale nemico. Si veda Nina Fishman, The British Communist Party and the Trade Unions, 1933-1945: the Dilemmas o f Revolutionary Pragmatism, London, University o f London, 1991 (tesi di dottorato), pp. 111-115.7 A. Agosti, La Terza Internazionale, cit., pp. 1172.8 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista, vol. Ill, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970, p. 332.
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penalista” si era trasformata in guerra antifascista. Il 13 luglio Gran Bretagna e Urss si allearono e questa volta non vi fu alcun bisogno delle direttive di Mosca: la nuova linea venne spontaneamente adottata da tutti i comunisti e la difesa della madrepatria socialista e l’opposizione al fascismo divennero nuovamente aspetti della stessa lotta. Da quel momento e fino alla fine della guerra i partiti comunisti svolsero un ruolo importante, spesso quello principale, nella resistenza al nazismo. In Gran Bretagna il partito comunista, l’unico completamente legale in Europa occidentale (a parte quello della neutrale Svezia), sostenne senza riserve e patriotticamente lo sforzo bellico9. Nella neutrale Svezia i comunisti si sforzarono inutilmente di spingere il paese verso una cosiddetta neutralità attiva, tale cioè da favorire le forze antinaziste. In Spagna il partito comunista operò nell’illegalità per impedire l’entrata in guerra del paese10. La direttiva del Comintern del 22 giugno 1941 stabiliva in modo inequivocabile che l’obiettivo finale del movimento, il raggiungimento del socialismo, doveva essere temporaneamente accantonato, mentre assoluta priorità avrebbe dovuto avere la lotta antifascista. Questa direttiva venne portata alle estreme conseguenze con la decisione dell’Unione Sovietica di sciogliere il Comintern, presumibilmente allo scopo di migliorare i rapporti con gli alleati, e di lasciare svincolata da ogni obbligo ciascuna sezione dell’Internazionale11. Ebbe così fine la storia non precisamente gloriosa dell’Internazionale comunista di Lenin.
L’entrata in guerra dell’Unione Sovietica portò ad un considerevole riavvicinamento tra socialisti e comunisti. Questi ultimi fu
rono in grado di stabilire legami con tutti gli altri partiti antifascisti sia perché svolsero, rispetto ai socialisti, un ruolo più importante nella resistenza contro il nazismo, sia perché, essendo la difesa dell’Unione Sovietica il loro obiettivo principale, sembravano meno interessati a far sì che la ri- costruzione postbellica avvenisse sulla base di trasformazioni di tipo socialista. Nella maggioranza dei casi questo rispetto reciproco sarebbe durato soltanto fino alla fine delle ostilità o, al massimo, fino all’inizio della guerra fredda. Tutto considerato, restava una diffidenza non superabile, e di solito ben fondata, tra i comunisti e tutti gli altri partiti.
I socialisti europei reagirono alle vicende della guerra in maniera meno uniforme rispetto ai comunisti. Molto dipendeva dalla situazione che si trovavano a dover affrontare nei diversi paesi. Considerando i paesi neutrali, i socialisti costituivano una presenza insignificante in Svizzera e in Irlanda, mentre erano illegali in Spagna. Ma nella neutrale Svezia il primato costituito dai socialdemocratici al potere aveva tratti piuttosto ambigui. Come l’Unione Sovietica nel 1939, e con motivazioni altrettanto giustificabili, la socialdemocrazia svedese si preoccupò di evitare di essere costretta ad entrare in guerra. Di conseguenza cooperò senza riserve con la Germania in tutti i campi dell’attività economica e del commercio. La Svezia fornì alla Germania quasi tutto il minerale di ferro ed il legname da costruzione richiesto e — fino al 1943 — permise alla Wehrmacht di trasportare truppe ed equipaggiamenti attraverso il proprio territorio verso la Norvegia e da questa verso la Germania, rifiutandosi tuttavia di stipulare un
9 II giudizio comunemente accettato secondo il quale il Cpgb cercò sempre di impedire gli scioperi è radicalmente confutato da N. Fishman, The British Communist Party, cit., pp. 253-264 e 271-274.10 A. Agosti, La Terza Internazionale, cit., p. 1181.11 Per il testo si veda Jane Degras (a cura di), The Communist International 1919-1943, vol. Ili, London, Frank Cass and Co. Ltd., 1971, pp. 476-481.
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trattato con quest’ultima e di interrompere l’offerta di asilo ad ebrei ed appartenenti ai movimenti di liberazione12.
Nell’invitta Gran Bretagna il partito laburista era rientrato nel governo nel maggio del 1940, all’interno della coalizione nazionale guidata da Churchill; era quindi il solo partito socialista al potere in tutti gli stati europei coinvolti nel conflitto. Questa condizione eccezionale avrebbe messo il partito laburista britannico in grado di affrontare i compiti della ricostruzione postbellica avvalendosi di un’esperienza di governo senza uguali nel resto dell’Europa in guerra. Per quanto poi riguarda il conflitto, il partito non dovette prendere nessuna importante decisione strategica, una volta unita la propria sorte a quella della coalizione nazionale.
Completamente diversa era la situazione che dovettero affrontare i socialisti nei paesi dell’Asse, in quelli loro alleati o soggetti al dominio nazifascista — in pratica il resto dell’Europa continentale —, dove per la sinistra l’alternativa possibile era fra la passività e l’accettazione della situazione da una parte e la resistenza armata attiva dall’altra. In due dei paesi occupati, Danimarca e Francia, alcuni socialisti (in Danimarca praticamente tutti) cooperarono, pur senza entusiasmo, con il nazismo. In Danimarca il governo, formato da una coalizione di radicali e socialisti, deliberò “di porre la propria neutralità sotto la protezione dei tedeschi” e di formare un governo nazionale più rappre
sentativo insieme agli altri due maggiori partiti13. Il governo acconsentì alle richieste di dichiarare illegale il partito comunista danese (giugno 1941) e di aderire al Patto anti- Comintern (novembre 1941), mentre il vertice dell’esecutivo venne affidato al socialdemocratico Vilhelm Buhl nel maggio del 1942. La cooperazione tra nazisti e socialisti si interruppe praticamente dopo l’ondata di scioperi organizzati dai comunisti nel luglio del 1943. I nazisti cercarono senza successo di costringere il governo alla proclamazione dello stato di emergenza e furono così costretti a controllare direttamente la Danimarca14. Al di fuori dei ranghi del partito comunista, il solo atto di aperta sfida venne dai diplomatici danesi a Londra e Washington, che formarono un movimento contrario all’occupazione tedesca15.
I nazisti ebbero minor successo nei Paesi Bassi, dove il tentativo di allontanare i marxisti dal partito socialdemocratico (Sdap) fallì per l’intransigente opposizione della maggioranza della direzione e degli attivisti guidati da Koos Vorrik16. In Norvegia il gabinetto socialista a partire dal momento dell’invasione si oppose a Vidkun Quisling — collaborazionista per eccellenza e capo del regime fantoccio, la cui impopolarità fu tale da costringere i tedeschi a governare diretta- mente il.paese — e infine scelse l’esilio con il re. Entrambi raggiunsero a Londra il governo olandese e quello belga e divennero completamente dipendenti dalle iniziative britanniche17.
12 Henri Michel, The Second World War, London, André Deutsch Ltd., 1975, pp. 291-292 (trad. it. Storia della seconda guerra mondiale, Milano, Mursia, 1977). Sull’importanza strategica per la Germania dei rifornimenti svedesi, cfr. Alan S. Milward, War, Economy and Society 1939-1945, Harmondsworth, Penguin Books, 1987, pp. 308-313 (ed. orig. 1977; trad. it. Guerra, economia e società 1939-1945, Milano, Etas Libri, 1983).13 H. Michel, The Second World War, cit., p. 73.14 Susan Seymour, Anglo-Danish Relations and Germany 1933-1945, Odense, Odense University Press, 1982, pp. 168-169.15 Jdrgen Haestrup, Europe Ablaze. An Analisys o f the History o f the European Resistance Movements 1939- 1945, Odense, Odense University Press, 1978, p. 53.16 G. Hirschfeld, Nazi Rule and Dutch Collaboration, cit., pp. 94-100.17 H. Michel, The Second World War, cit., pp. 78 e 297.
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In Austria, parte del Terzo Reich dal 1938, quello che rimaneva del movimento socialista non fu in grado di organizzare un’attività clandestina di proporzioni significative. La sola seria forza politica operante nella clandestinità era il partito comunista (Kpò) che, dopo 1’Anschluss, aveva accresciuto la propria importanza all’interno della sinistra. Il fallimento dei socialisti nell’organizzazione di un movimento di resistenza probabilmente ne impedì il completo annientamento, preservandone così la forza per il dopoguerra18. Come la maggioranza della popolazione, i socialisti austriaci avevano abbracciato la rivendicazione di una Grande Germania. Essi accettarono che nel dopoguerra l’Austria tornasse ad essere uno Stato indipendente soltanto dopo la dichiarazione di Mosca del novembre 1943, con la quale i ministri degli esteri dei paesi alleati definirono l’Austria, in maniera schizofrenica ma corretta, vittima e al tempo stesso complice della Germania nazista, con la conseguenza che il paese sarebbe stato ricostituito come stato indipendente.
In Cecoslovacchia la principale forza di resistenza fu rappresentata dal partito comunista piuttosto che dai gruppi che facevano parte del governo in esilio di Eduard Be- nes, sostenuto dalla Gran Bretagna e comprendente anche i socialisti19. La Finlandia costituiva, come al solito, un caso a parte. Invasa dall’Unione Sovietica nel 1940, il governo guidato dal partito socialdemocratico accolse positivamente l’invasione nazista dell’Urss. Il portavoce socialista del parlamento finlandese dichiarò il 20 luglio 1941: “Noi non siamo soli, la nazione più efficiente e pronta a combattere d’Europa, la nazio
ne tedesca, sta in questo momento annientando con il suo esercito d’acciaio il nostro nemico tradizionale, sempre perfido e ingannatore”20. Con queste affermazioni i socialdemocratici erano all’unisono con l’opinione pubblica: fino all’autunno del 1942 una netta maggioranza, che includeva la maggior parte dei socialdemocratici, era per una vittoria finale della Germania21.
In Italia non si può parlare di resistenza armata fino al 1943. II suo manifestarsi fu preceduto dagli scioperi del marzo 1943 in alcune delle principali città del Nord, dalla decisiva avanzata degli alleati al Sud e dalla conseguente decisione del Gran consiglio del fascismo di costringere Mussolini alle dimissioni. Tutto questo determinò l’infamante volo del re, della corte e del nuovo presidente del Consiglio, Badoglio, che fuggirono verso il Sud lasciando nel caos più completo il popolo italiano e le forze armate — un caso da manuale, se mai ce ne è stato uno, di una classe “dirigente” spregevole e senza spina dorsale. II partito socialista italiano unì le proprie forze a quelle più numerose dei comunisti nelle Brigate Garibaldi che costituivano la spina dorsale della resistenza armata in Italia, sebbene, analogamente a quanto avveniva altrove, i lanci fatti dagli alleati di armi e generi alimentari mirassero a favorire i gruppi filomonarchici, quelli formati da cattolici o perfino le formazioni del radicale partito d’azione. Anche nelle zone liberate alla fine del 1944 (cioè a sud di Firenze) l’insieme dei membri del partito socialista era inferiore non soltanto a quello dei democratico-cristiani (il che non sorprende, data la tradizionale debolezza del partito al Sud, con l’eccezione della Puglia),
18 Radomir V. Luza, The Resistance in Austria 1938-1945, Minneapolis, University o f Minnesota Press, 1984, pp. 12, 21,83.19 J. Haestrup, Europe Ablaze, cit., pp. 282-285.20 John H. Hodgson, Communism in Finland. A History and Interpretation, Princeton, Princeton University Press, 1967, p. 195.21 David G. Kirby, Finland in the Twentieth Century, London, C. Hurst & Co., 1979, p. 152.
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ma anche a quello dei comunisti22. Nelle questioni politiche, così come in quelle militari, i socialisti italiani non ebbero mai l’iniziativa, mentre i comunisti, a partire dal ritorno di Togliatti dall’Unione Sovietica nel marzo 1944, sapevano esattamente quali scelte adottare. Il partito comunista seppe superare la situazione politica priva di sbocchi determinata dal rifiuto dei partiti antifascisti di riconoscere il governo Badoglio. I comunisti accettarono di cooperare con quest’ultimo posponendo al dopoguerra ogni problema attinente l’assetto costituzionale. Gli altri partiti accettarono la guida del Pci. Il 21 aprile i comunisti italiani entrarono, per la prima volta nella loro storia (e soltanto per tre anni) in un governo. Il 6 giugno, nelle sue “Istruzioni per tutti i compagni e per tutte le formazioni di partito” , Togliatti dichiarò: “Ricordarsi sempre che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista o comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata l’Italia tutta, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di una Assemblea costituente”23.
Sebbene “tutti gli altri problemi” dovessero essere risolti successivamente, le preoccupazioni di Togliatti erano in realtà dirette al dopoguerra, quando il partito comunista avrebbe dovuto consolidare la posizione di prestigio acquisita durante la resistenza. Doveva divenire un partito “nazionale” proprio come aveva fatto la socialdemocrazia
tedesca con la prima guerra mondiale ed i comunisti francesi durante l’apogeo del Fronte popolare. Accanto alla bandiera rossa, i simboli nazionali come il tricolore, Garibaldi e la tradizione risorgimentale avrebbero dovuto intrecciarsi nei discorsi politici dei comunisti. Nel dopoguerra lo statuto del partito prevedeva che al termine di congressi e manifestazioni organizzate dal partito i partecipanti avrebbero dovuto intonare l’inno nazionale — pur del tutto indegno, sotto il profilo musicale, della terra di Vivaldi e Verdi — insieme all’“Internazionale” e a “Bandiera rossa” .
Analogamente al Pei, anche il partito socialista italiano combattè durante la resistenza con un occhio rivolto, pur distratta- mente, al dopoguerra. Nenni cercò di scavalcare a sinistra i comunisti quando al congresso del partito, il 3 settembre 1944, si espresse a favore di una repubblica socialista intesa come obiettivo immediato della lotta24. All’estero tale dichiarazione produsse una impressione negativa, come dimostra un memorandum interno del Foreign Office che, con precisione priva di remore, notava: “È un’affermazione molto stupida [...] ma allora il partito socialista italiano è un partito particolarmente stupido. Vive in un mondo che si è costruito da solo, usando un linguaggio coniato negli anni venti, condannato ad essere divorato fino all’ultima briciola da un partito comunista molto più astuto”25. Nenni aveva un ulteriore problema: perfino durante la guerra il suo partito subiva le conseguenze della tradizionale lotta corpo a corpo tra le diverse fazioni, ulterior-
22 Francesca Taddei, Il socialismo italiano del dopoguerra: correnti ideologiche e scelte politiche (1943-1947), Milano, Angeli, 1984, p. 35.23 II documento è pubblicato in Pietro Secchia (a cura di), Il Pei e la guerra di liberazione 1943-1945, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 509.24 Cfr. Il partito socialista italiano nei suoi congressi, vol. V, 1942-1955, Milano, Edizioni del Gallo, 1968, p. 25. Si noti, tuttavia, che nella risoluzione finale non si parla di repubblica socialista.25 La citazione è tratta da David Ellwood, Italy 1943-1945, Leicester, Leicester University Press, 1985, p. 107, (ed. originale: L ’alleato nemico. La politica dell’occupazione anglo americana in Italia 1943-1946, Milano, Feltrinelli, 1977).
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mente esacerbata dal fatto che l’opposizione di destra aH’interno del partito riceveva fondi dagli Stati Uniti (in particolare dalla American Federation of Labor)26.
In Italia la situazione che i socialisti si trovarono a dover affrontare ebbe se non altro fin dall’inizio contorni precisamente definiti, nel senso che essi non si trovarono mai nella condizione di poter pensare ad una qualsiasi forma di compromesso con il fascismo. Il loro primato in senso antifascista rimase inattaccato. In Francia non avvenne lo stesso. Nel 1940 il paese era stato sconfitto ma non completamente occupato. Nella Francia di Vichy restò una parvenza di autonomia con il maresciallo Pétain. Quando nel 1940 il paese si arrese alla Germania i socialisti francesi della Sfio erano incerti sulle scelte da compiere. Contro il parere di Léon Blum, la maggioranza dei deputati e dei senatori socialisti (novanta su 168), guidata da Paul Faure, votò per l’attribuzione dei pieni poteri a Pétain, accettando quindi il dictât tedesco. Soltanto trentasei deputati e senatori socialisti votarono contro27. I collaborazionisti della Sfio giustificarono la propria scelta, determinata in misura assolutamente prevalente dall’anticomunismo, con motivazioni di carattere pacifista28. Parlando in generale, essi erano i tipici esempi di notabili socialisti per i quali il partito rappresentava spesso poco più che un mezzo per acquisire e mantenere posizioni di potere. La nuova situazione aveva aperto la strada per ulteriori affermazioni personali ed essi erano riluttanti a lasciarsele sfuggire. I collaborazionisti detenevano la maggioranza: soltanto ottanta parlamentari votarono contro Pétain
in un parlamento che, essendo stato eletto nel 1936 quando trionfava il Fronte popolare, costituiva probabilmente l’assemblea nazionale più spostata a sinistra eletta in Francia dal 1848. Si dovrebbe tuttavia aggiungere che questa maggioranza pétainiste rappresentava fedelmente l’opinione pubblica francese. Nel luglio del 1940 la grande maggioranza dei francesi non era disposta a resistere all’occupante.
I seguaci di Blum, guidati, tra gli altri, da Daniel Mayer, crearono il “Comité d’Action Socialiste” (Cas), riorganizzarono il partito in funzione della lotta armata e, nella primavera del 1943, acquisirono di nuovo il nome Sfio. Naturalmente vi furono molti che, considerandosi socialisti, appoggiarono, a livello locale, ogni forma di resistenza possibile, senza riguardo per le dichiarazioni o le scelte della leadership. Molti di questi attivisti avevano la non ingiustificata tendenza a diffidare delle etichette di partito ed aderirono alla Sfio soltanto più tardi, quando la liberazione era in vista e iniziavano a delinearsi i contorni del sistema politico del dopoguerra, inclusa l’aspettativa di un forte partito comunista29. Nell’elaborare il proprio programma e la propria strategia la Sfio seguì meticolosamente la strada maestra tracciata da Blum, che era stato arrestato dalle autorità di Vichy nel settembre 1940, quindi processato e consegnato alla Gestapo nel marzo del 1943, infine inviato nel campo di concentramento di Buchenwald dove rimase fino alla fine del conflitto. La più importante direttiva di Blum era il riconoscimento di Charles De Gaulle come unico leader della resistenza. In una nota del
26 Sull’ingerenza degli Stati Uniti negli affari interni del partito socialista, si veda Ronald L. Filipelli, American Labor and Postwar Italy, 1943-1953. A Study o f Cold War Politics, Stanford, Stanford University Press, 1989, pp. 51-68.27 Marc Sadoun, Les socialistes sous l ’occupation. Résistance et collaboration, Paris, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1982, p. 35.28 M. Sadoun, Les socialistes sous l’occupation, cit., pp. 50-53.29 M. Sadoun, Les socialistes sous l ’occupation, cit., p. 194.
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novembre 1942 inviata a De Gaulle (e scritta dietro sua richiesta), che doveva essere fatta pervenire a Roosevelt e Churchill, egli elogiava in continuazione il generale, descritto come l’incarnazione dell’unità dei francesi, aggiungendo che “senza di lui niente sarebbe stato possibile”30. In realtà i socialisti francesi avevano bisogno di De Gaulle per recuperare qualcosa della perduta legittimità31. A differenza dei comunisti, essi non avevano proprie organizzazioni di resistenza e, di conseguenza, il loro contributo specifico non emergeva in maniera altrettanto chiara32.
I socialisti si distinguevano dai comunisti per molti altri aspetti importanti e in particolare per la produzione di gran lunga maggiore di programmi e documenti politici33. Per timore di indebolire l’unità del fronte antifascista o di ritardare la vittoria alleata sulla Germania, i comunisti erano ansiosi, così come lo erano stati nel corso dei dibattiti che portarono alla creazione del Fronte popolare, di tenere in sospeso ogni discussione relativa ai mutamenti radicali da attuare nel dopoguerra. I socialisti non avevano invece preoccupazioni di questo genere. Tutti i progetti di riforma sociale della Sfio erano caratterizzati dalla convinzione che non vi potesse essere un ritorno al capitalismo degli anni trenta. La borghesia, avendo perso la sua volontà di dominio, non poteva più essere la classe dirigente. Diveniva inevitabile un processo di emancipazione sociale. Il “Projet de Charte économique et sociale” e il documento sulle “Réformes
économique de structure” (entrambi stesi nel 1944) affermavano che la piena occupazione sarebbe stato uno degli obiettivi dello Stato nel dopoguerra, quando si sarebbero attuate una redistribuzione della ricchezza e la pianificazione dell’economia. Le miniere di carbone, le industrie chimiche e quelle metallurgiche sarebbero divenute proprietà dello Stato accanto alle società di assicurazione, alle banche e a tutti i servizi pubblici. Il paese sarebbe stato completamente modernizzato: “la Francia non può rimanere un paese di artigiani e di agricoltori, come nel romantico sogno reazionario di Pétain”34. Le riforme sociali del 1936 sarebbero state difese e sviluppate e sarebbero stati introdotti sistemi volti ad assicurare la partecipazione dei lavoratori35; sarebbe stata offerta alle popolazioni delle colonie francesi la possibilità di instaurare nuove migliori relazioni. Sebbene non si accennasse alla completa decolonizzazione, si supponeva che alla fine essa si sarebbe realizzata dopo un lungo processo di educazione e di emancipazione.
Queste proposte erano prive di conseguenze per quanto riguarda il conflitto, i rapporti di forza all’interno della resistenza o la misura nella quale ciascuna di queste indicazioni sarebbe stata attuata nel dopoguerra. Come nota Andrew Sherman, “lo studio delle riforme da attuare nel dopoguerra venne messo da parte dalla maggioranza dei resistenti in quanto irrilevante rispetto all’obiettivo principale costituito dalla prosecuzione della lotta contro la Germa-
30 Si veda il testo in Léon Blum, L ’Oeuvre de Léon Blum (1940-1945), Paris, Editions Albin Michel, 1955, p. 383. Si veda inoltre Jean Touchard, La gauche en France depuis 1900, Paris, Editions du Seuil, 1977, p. 251.31 H. Michel, The Second World War, cit., p. 505.32 John F. Sweets, The Politics o f Resistance in France 1940-1944, DeKalb 111., Northern Illinois University Press, 1976, pp. 160-161.33 Per i piani di rinnovamento si veda Andrew Shennan, Rethinking France. Plan fo r Renewal 1940-1946, Oxford, Claredon Press, 1989, e Henri Michel, Les courants de pensée de la Résistance, Paris, Presses universitaires de France, 1972.34 Citato in H.Michel, Les courants de pensée de la Résistance, cit., p. 524.35 Cfr. H. Michel, Les courants de pensée de la Résistance, cit., p. 527.
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nia”36. La funzione principale di questi progetti, se mai ne ebbero una, era di costituire la linea di demarcazione tra fazioni e correnti di idee all’interno del partito stesso. Quello che nel corso della guerra i socialisti francesi dissero o pensarono ebbe un’assai scarsa rilevanza. In realtà all’interno della resistenza francese esistevano soltanto tre forze di qualche peso. La prima era costituita da De Gaulle e dai suoi sostenitori a Londra e in ogni parte della Francia. La seconda erano i cosiddetti Mouvements Unis de la Résistance (Mur), la resistenza organizzata formata da coloro che non aderivano a partiti e che, alla fine del 1942, avevano accettato la leadership politica gaullista37. La terza era costituita dal partito comunista.
Ideologicamente agli antipodi, De Gaulle e i comunisti avevano, per il resto, molto in comune: entrambi erano in apparenza indifferenti rispetto ai piani proposti per la ricostruzione postbellica e consideravano come questione principale la prosecuzione della guerra. Di conseguenza il partito comunista francese non ebbe alcuna riserva ad accettare l’incisivo e succinto programma che l’intrepido Jean Moulin aveva proposto, a nome di De Gaulle, alla prima riunione del Conseil National de la Résistence. Il primo paragrafo, in modo elegante e conciso, enunciava Faire la guerre, mentre i seguenti comprendevano generici impegni per la ricostituzione della democrazia repubblicana e del prestigio francese. Moulin spiegò in quell’occasione che De Gaulle riteneva che, pur essendo i partiti necessari in una democrazia, quelli della Francia postbellica non avrebbero dovuto essere gli stessi dell’ante
guerra; essi avrebbero dovuto rispecchiare le principali ideologie politiche (“les larges blocs idéologiques”). I comunisti concordarono con decisione38. Il generale e i comunisti erano entrambi, per ragioni compieta- mente diverse, molto sospettosi nei confronti dei loro alleati anglosassoni. Per i comunisti essi costituivano l’ala “capitalista” dell’alleanza antifascista, compagni per il momento e futuri avversari. Per De Gaulle gli alleati, e in particolare il detestato Churchill, erano colpevoli di sfruttare ogni possibile vantaggio derivante dalla posizione intollerabilmente umiliante nella quale egli — la personificazione vivente della Francia — era stato costretto a causa dell’esilio e della mancanza di potere politico. Questo indusse De Gaulle a provare di gran lunga più simpatia per l’Urss e per i suoi sostenitori di quanta non ne avrebbe diversamente sentito. La simpatia era reciproca: l’Urss riconobbe il Comitato francese di liberazione nazionale prima della Gran Bretagna; De Gaulle adottò, letteralmente, lo slogan coniato dal partito comunista, “la liberazione nazionale non può essere separata dall’insurrezione nazionale”39.
Naturalmente in parecchie occasioni De Gaulle e i comunisti si scontrarono: il primo voleva scegliere quali comunisti dovessero far parte del suo governo, mentre il partito comunista voleva designare direttamente i propri rappresentanti; De Gaulle fu inoltre restio nell’epurazione dei collaborazionisti dall’amministrazione dell’Algeria liberata40. Ciò nondimeno molto univa gaullisti e comunisti, entrambi egualmente diffidenti nei confronti degli altri partiti: i comunisti perché gli altri non erano comunisti, De Gaulle
36 A. Shennan, Rethinking France, cit., p. 35.37 H. Michel, Les courantes de pensée de la Résistance, cit., p. 226.38 Si veda: Charles De Gaulle, Mémoires de Guerre. L ’Unité 1942-1944, Paris, Libraire Plon, 1956, p. 492.39 Maurice Adereth, The French Communist Party. A Critical History (1920-1984) from Comintern to “the colours o f France”, Manchester, Manchester University Press, 1984, p. 122.40 Stéphane Courtois, Le Pcf dans la guerre. De Gaulle, la Résistance, Staline..., Paris, Editions Ramsay, 1980, cap. 15.
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sulla base di una profonda ripugnanza per i partiti politici, considerati litigiose associazioni composte da politicanti petulanti e pomposi che perseguivano il proprio rafforzamento piuttosto che quello della Francia — una valutazione abbastanza precisa della vita politica durante la Terza repubblica. Naturalmente anche il partito comunista francese era un partito, ma, almeno per il momento, sembrava aver messo da parte la sua aberrante ed antipatriottica ideologia per dedicarsi alla salvezza della nazione.
I socialisti, al pari di De Gaulle, attenuarono il proprio anticomunismo con il procedere della guerra. Così, dopo il coinvolgimento nel conflitto dell’Unione sovietica, nel suo libro autocritico A l’échelle humaine, scritto in prigione nel 1941, Blum descrisse il Pcf come un “partito nazionalista straniero” in ragione del suo attaccamento all’Unione Sovietica. Meno di due anni dopo, il 15 marzo 1943, in una lettera a De Gaulle egli scrisse tuttavia che una “nazione francese senza la partecipazione del partito comunista non sarebbe stata né completa né vitale” proprio come “nessuna comunità internazionale sarebbe stata completa o vitale senza l’Urss”41. Questo atteggiamento non venne contraccambiato dai comunisti che, con l’avvicinarsi della liberazione, divennero più critici nei confronti dei socialisti42.
Non soltanto in Francia, ma anche in Jugoslavia, Grecia, Cecoslovacchia, Italia e in altri paesi, i comunisti furono “i più eroici tra gli eroi”43. Ciò si verificò perfino dove l’eroismo era più difficile, cioè in Germania. Le attività dei ristretti circoli conservatori anti
nazisti, che culminarono nella congiura dei generali che tentarono di uccidere Hitler il 20 luglio 1944, hanno portato a mettere in ombra l’audacia e l’eroismo dimostrati dai militanti di sinistra e, in particolare, dai comunisti44.
Comunisti e socialisti di fronte alla Ricostruzione
La guerra finì per offrire ai comunisti dei paesi dell’Europa occidentale il loro momento di gloria. Essi poterono combattere il fascismo ed il nazismo, essere veri internazionalisti, difendere l’Urss, dimostrarsi perfetti patrioti, e tutto questo senza contraddizione alcuna. Invece di essere insultati ed isolati in un ghetto, essi venivano elogiati da tutti: da Churchill, da Roosevelt e da De Gaulle. Nella prospettiva dei partiti comunisti il male e il bene finivano cosi per contrapporsi in modo manicheo: da una parte il fascismo ed il nazismo e dall’altra parte la democrazia e il progresso sociale, con i quali si schierava chiunque volesse e potesse combattere i primi. Altrettanto chiara era la strategia, che doveva basarsi su scontri armati e tattiche insurrezionali, gli strumenti politici che i comunisti avevano sempre considerato superiori a tutti gli altri. Il tipo di organizzazione richiesto da questo tipo di conflitto si avvicinava a quello proprio di un esercito e, di conseguenza, a quello di un partito organizzato secondo il modello leninista, con una struttura di comando verticistica e una ferrea disciplina militare. I partiti comunisti rivoluzionari costituiti dal Comintern tra il 1920 e il 1922,
41 Si veda L. Blum, L ’Oeuvre de Léon Blum, cit., pp. 457, 402.42 S. Courtois, Le P cf dans la guerre, cit., p. 416.43 M.R.D. Foot, Resistance. An Analysis o f European Resistance To Nazism 1940-1945, London, Eyre Methuen, 1976, p. 86. Questo riconoscimento risulta significativo in quanto l’autore non ha alcuna simpatia per la dottrina comunista.44 Si veda il saggio di Hans-Joachim Reichhardt, Resistance in the Labour Movement, in Hermann Grami et al., The German Resistance to Hitler, London, B.T. Batsford, 1970, e l’introduzione di F.L. Carsten al volume, in particolare a p. X; si veda inoltre Anthony Williams, Resistance and Opposition among the Germans, in S. Hawes and R. White (a cura di), Resistance in Europe 1939-1945, cit., p. 154.
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quando si riteneva che l’Europa fosse alla vigilia di una rivoluzione, possono essere stati inadatti alla lotta politica elettorale, ma risultarono, sotto il profilo organizzativo, la migliore arma per la condotta di una guerra partigiana disciplinata e coraggiosa.
Nel dibattito politico i comunisti non proposero con forza la questione della trasformazione che la società avrebbe dovuto subire nel dopoguerra. La maggior parte dei militanti riteneva che sollevando troppo presto il problema si sarebbero introdotti motivi di divisione che avrebbero indebolito la coalizione antifascista. In ogni caso, non vi poteva essere alcun dubbio sul fatto che la prospettiva futura fosse rappresentata dal socialismo. Il fascismo ed il nazismo erano stati l’espressione più pura della violenza capitalistica, al cui annientamento la terra madre del socialismo, l’Urss, aveva contribuito in maniera decisiva ed indiscutibile. Tra il 1943 e il 1946 il prestigio dell’Unione Sovietica raggiunse il punto più alto della sua parabola. La pianificazione e la collettivizzazione, la leadership comunista e la direzione di Stalin avevano dimostrato la superiorità del sistema sovietico. Nel resto dell’Europa la depressione degli anni trenta aveva confermato che il capitalismo poteva offrire soltanto disoccupazione e miseria, mentre in Germania e Italia aveva prodotto dei mostri. Per la maggior parte dei comunisti e per molti socialisti era quindi semplicemente inconcepibile che le popolazioni dell’Europa liberata, una volta in grado di scegliere autonomamente il proprio destino, non si radunassero dietro la bandiera rossa.
Anche se, almeno in Europa occidentale, la resistenza non diede ai comunisti, alla fine della guerra, la possibilità di una insurrezione che instaurasse il socialismo, fornì un notevole impulso al processo di legittimazione dei comunisti stessi. Avendo combattuto coraggiosamente, essi non potevano più essere posti ai margini del sistema politico in ragione del loro antipatriottismo. I comuni
sti, di conseguenza, avrebbero potuto prendere parte alla creazione del nuovo ordine postbellico che — come era convinzione generale — sarebbe stato radicalmente diverso rispetto a quello precedente il 1939. Per i comunisti, come per tutte le altre forze politiche coinvolte, la resistenza era importante essenzialmente sotto il profilo politico. Per molti di coloro che vi presero parte, tuttavia, la resistenza fu un processo di grande significato morale, un modo per riscattare il proprio paese ed i propri concittadini da una colpa collettiva: il marchio d’infamia derivante dall’aver permesso l’instaurazione di regimi repressivi e guerrafondai (in Italia e Germania) o dal non essere stati in grado di metterli in crisi. Non si può ignorare questa dimensione morale e psicologica che consentì ad intere popolazioni, e non soltanto ai pochi che presero parte alla resistenza, di rivendicare di non aver subito passivamente gli avvenimenti storici, venendo prima ridotte in schiavitù dal nazismo e poi liberate da stranieri, ma di meritare la propria libertà avendo combattuto per ottenerla. Questo ricupero dell’orgoglio nazionale costituì nel dopoguerra un fattore importante per l’instaurazione dei regimi democratici dell’Europa occidentale. Il senso del proprio valore e della propria dignità e la fiducia in se stessi che ad essi si accompagna sono indispensabili alla vita politica di una democrazia.
Il dibattito storiografico, sicuramente interessante, sull’importanza della resistenza sotto il profilo militare trascura l’aspetto centrale che si è appena delineato. Soltanto l’Albania e la Jugoslavia furono effettivamente liberate dalla resistenza. In altri paesi (ad esempio in Italia e in Grecia e, in misura molto minore, in Francia) la resistenza impedì quasi sicuramente maggiori perdite tra gli alleati, ma non fu decisiva per l’esito del conflitto. Altrove, come in Norvegia, le forze tedesche dominavano più saldamente il paese quando Berlino dovette soccombere di fronte all’Armata rossa, che non dopo i pri
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mi mesi di occupazione45. In alcuni casi un atteggiamento generale di rifiuto della cooperazione, come quello indicato in un rapporto tedesco sulle ferrovie francesi, diede risultati così ampi da impedire alle autorità naziste di utilizzare efficacemente la rete ferroviaria46.
Nell’Europa occidentale del dopoguerra la resistenza fu il fattore decisivo nella definizione dei rapporti fra la componente socialista e quella comunista della sinistra tradizionale. Esistono alcune relazioni fra l’affermazione della resistenza ed i successi politici conseguiti dai comunisti immediatamente dopo la guerra. Nei paesi che non erano stati occupati dai tedeschi, come la Gran Bretagna e la neutrale Svezia, o che avevano avuto un movimento di resistenza insignificante per dimensioni, come in Danimarca, o ampiamente controllato da Londra, come in Belgio e in Olanda, i partiti comunisti, dopo un iniziale e breve successo elettorale (si veda la tabella sulla Percentuale dei voti assegnati ai comunisti a p. 20) restarono una forza politica di importanza trascurabile così come erano stati nel periodo tra le due guerre, mentre socialisti e socialdemocratici monopolizzarono praticamente la sinistra.
Lasciando da parte i territori liberati dall’Armata rossa, soltanto in cinque paesi, Albania, Jugoslavia, Grecia, Italia e Francia, la resistenza armata rappresentò un importante fenomeno. In questi paesi i partiti comunisti, il cui ruolo nel corso della lotta di liberazione era stato preponderante, accrebbero più che altrove la propria influenza ed
il proprio prestigio. In Albania e Jugoslavia i comunisti furono in grado di impadronirsi del monopolio del potere, di instaurare un regime a partito unico ed un sistema economico non capitalistico, restando, a differenza di tutti gli altri paesi dell’Europa orientale, completamente indipendenti rispetto all’Urss.
La Grecia rappresenta un caso a parte. Il partito comunista (Kke) cercò di seguire la strada, imboccata dalla Jugoslavia e dall’Albania, della conquista armata del potere, ma ciò gli fu impedito da una coalizione costituita dalle forze conservatrici e dagli alleati che intervennero direttamente. Il Kke dominò il Fronte di liberazione nazionale (Eam) e la sua ala militare, l’Esercito popolare di liberazione nazionale (Elas) che, tra il 1942 e il 1943, erano divenuti grandi organizzazioni di massa. Quando la Grecia venne liberata, il Kke, un partito di importanza trascurabile prima della guerra, aveva 300.000 membri e il Fronte e la sua ala militare disponevano di due milioni di aderenti, quasi il trenta per cento della popolazione47. Con il 1944 le due organizzazioni erano in guerra contro il loro principale avversario, il movimento di resistenza (Edes, Unione nazionale greca democratica) sostenuto da Churchill, deciso ad impedire ai comunisti di conseguire un’influenza politica commisurata al ruolo svolto nella resistenza. Nel gennaio 1945 il Kke accettò infine di firmare un armistizio48. Nelle elezioni che si tennero il 31 marzo 1946 il quaranta per cento dell’elettorato si astenne ed i partiti filomonarchici risultarono vittoriosi. I risultati del successivo refe-
45 Alan Milward, The Economie and Strategie Effectiveness o f the Resistance, in S. Hawes and R. White (a cura di), Resistance in Europe 1939-1945, cit., p. 200. Per alcune delle ragioni per le quali si potè verificare tale situazione, cfr. T. Gjelsvik, Norwegian Resistance 1940-1945, London, C. Hurst & Co, 1979, in particolare p. IX.46 II testo è riportato in M.D.R. Foot, What Good Did Resistance Do?, in S. Hawes and R. White (a cura), Resistance in Europe 1939-1945, cit., p. 211. Il rapporto è del tutto attendibile, come potrebbe testimoniare chiunque abbia potuto sperimentare la mancanza di collaborazione in Francia o in Gran Bretagna.47 Haris Vlavianos, The Greek Communist Party: in Search o f Revolution, in T. Judt (a cura di), Resistance and Revolution in Mediterranean Europe 1939-1949, cit., p. 169.48 H. Vlavianos, The Greek Communist Party: in Search o f Revolution, cit., p. 191.
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rendum sulla monarchia, che si tenne il 1° settembre 1946, vennero manipolati e la monarchia risultò vincitrice con i due terzi dei voti49. Questi avvenimenti, insieme allo sviluppo, non ostacolato da misure repressive del terrorismo di destra convinsero il Kke dell’impraticabilità in Grecia della via parlamentare al socialismo che tutti i partiti comunisti occidentali avevano propugnato con l’approvazione di Mosca. I comunisti greci si riorganizzarono e lanciarono un’insurrezione, ma a quel punto la situazione internazionale era completamente mutata. Era iniziata la guerra fredda e gli Usa avevano assunto il ruolo di difensori dell’Occidente e, sotto l’egida della dottrina Truman, avevano promesso di “appoggiare i popoli liberi che stanno resistendo contro l’asservimento ad opera di minoranze armate o di pressioni esterne”50. La Grecia era divenuto il principale campo di battaglia della guerra fredda. L’esercito regolare greco, avvalendosi dell’ingente aiuto americano, sconfisse il Kke dopo una lotta accanita che si svolse durante tutto il 1948 fino all’estate del 1949. In conseguenza di questi avvenimenti il partito comunista venne messo fuorilegge e la decisione fu realmente applicata (il partito fu costretto a presentarsi alle elezioni con altri nomi e simboli), mentre i socialdemocratici non riuscirono a divenire una forza credibile fino alla metà degli anni settanta, quando anche il partito comunista venne legalizzato. La pratica eliminazione della sinistra greca dal corso principale della politica fu una delle principali conseguenze della singolare peculiarità del partito comunista greco: esso fu il solo partito all’interno della sfera d’influenza americana che cercò di imboccare la via dell’insurrezione.
L’Italia e la Francia sono gli altri due paesi nei quali vi era stata una forte resistenza
armata, gli unici in Europa occidentale in cui i partiti comunisti riuscirono, mantenendo poi la posizione per molti anni a venire, a sostituire i socialisti come forza principale della sinistra. L’affermazione deve però essere precisata. In Francia il Pcf raccolse maggiori consensi rispetto al partito socialista proprio a partire dalle prime elezioni del dopoguerra e soltanto fino alla metà degli anni settanta. In Italia il Pei venne battuto dai socialisti soltanto nelle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente, riuscendo a superarli già alla fine dell’anno nelle elezioni amministrative. Anche in Finlandia, come in Francia, i comunisti emersero nel 1945 come il partito principale della sinistra, ma vennero sorpassati dai socialisti alle successive elezioni del 1948. L’anomalia francese e italiana, costituita dalla presenza di partiti comunisti che godevano di un appoggio più ampio rispetto ai socialisti, era unita ad un’altra anomalia: Francia e Italia rimasero i soli paesi democratici dell’Europa occidentale nei quali non venne mai formato nessun governo di sinistra. In Francia la sinistra raggiunse il potere soltanto nel 1981, quando il Pcf non era più il principale partito della sinistra.
Con l’eccezione dell’Italia (e della Francia dove i comunisti ottennero il miglior risultato, raggiungendo il 28,6 per cento, nella seconda prova elettorale che si svolse nel 1946), i primi risultati elettorali del dopoguerra furono anche i migliori nella storia dei partiti comunisti, che non avrebbero mai più ottenuto un appoggio popolare di tali dimensioni (si veda la tabella che segue). L’Unione Sovietica costituì la ragione principale della popolarità raggiunta dal comuniSmo nell’Occidente e al tempo stesso della sua successiva impopolarità.
49 H. Vlavianos, The Greek Communist Party: in Search o f Revolution, cit., p. 195.50 Citato in Michael Dockrill, The Cold War 1945-1963, London, Macmillan, 1988, p. 40.
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Percentuale dei voti assegnati ai comunisti alle prime elezioni dopo la fine del conflitto in alcuni paesi dell’Europa occidentale
PaeseAnno
della prima consultazione
Votiassegnati
ai comunisti (%)
Austria 1945 5,4Belgio 1946 12,7Danimarca 1945 12,5Olanda 1946 10,6Finlandia 1945 23,5Francia 1945 26,0Italia 1946 19,0NorvegiaGermania
1945 11,9
occidentale 1949 5,7Svezia 1944 10,3
La storia di quarantacinque anni di regimi autoritari in Europa orientale non deve nascondere la verità storica secondo la quale la relativa fortuna del comuniSmo in Occidente all’indomani della guerra era dovuta al generale riconoscimento del ruolo preponderante e determinante svolto dalPUrss nella sconfitta della Germania nazista. Le campagne russo-tedesche costituirono “la guerra più terribile che sia mai stata intrapresa”51. Mentre Gran Bretagna, Francia e Italia subirono minori perdite in confronto alla prima guerra mondiale, ed i territori continentali degli Stati Uniti non vennero in alcun modo danneggiati, l’Unione Sovietica ebbe venti milioni di vittime — più dei morti di tutte le nazioni durante la Grande guerra52. È un’altra strana ironia della storia che l’Europa occidentale sia stata resa libera di costruire dei sistemi democratici dall’implacabile avanzata dell’Armata rossa di Stalin, dal bagno di sangue di Stalingrado e dal saliente di Kursk fino al bunker di Berlino nel quale ebbe termine il tragico cammino del Terzo Reich.
La guerra fredda e il declino comunista nell’Europa occidentale
Dopo gli iniziali successi comunisti del 1945- 1946, iniziò rapidamente il declino. Con il 1948 il comuniSmo cessò di avere un qualsiasi significato politico come forza indipendente in Danimarca e Norvegia, in Austria e Germania occidentale, in Belgio e Olanda così come in Gran Bretagna dove, nel 1950, il partito comunista perse i due seggi parlamentari che aveva ottenuto nel 194553. In Svezia il partito comunista sarebbe alla fine servito da sostegno del principale partito della sinistra, quello socialdemocratico. Soltanto in paesi governati da regimi autoritari di destra, come la Spagna ed il Portogallo, i comunisti continuarono ad essere la principale forza di opposizione, un ruolo che abbandonarono con l’instaurazione della democrazia.
Perché la crescita iniziale non venne mai consolidata e perché i considerevoli risultati raggiunti nel dopoguerra dai comunisti in, diciamo, Belgio, Danimarca e Norvegia, non portarono ad un’avanzata decisiva? Molti fattori determinarono improvvisamente la morte di questa creatura appena nata, i più importanti dei quali furono la guerra fredda e la divisione dell’Europa. I comunisti avevano ipotizzato l’esistenza di una corrispondenza tra politica internazionale e nazionale, ritenendo che sarebbe continuata Veniente internazionale tra paesi capitalisti “progressisti” (cioè gli Usa ed i suoi alleati) e l’Urss. Questa ampia coalizione antifascista internazionale, essi pensavano, avrebbe comportato la nascita e lo sviluppo di altre analoghe coalizioni nazionali. Se la supposizione dell’esistenza di una tale corrispondenza era corretta, essa funzionò tuttavia nella direzione opposta: la fine della coalizione internazionale antifascista e l’inizio della guerra
51 Peter Calvocoressi e Guy Wint, Total War, Harmondsworth, Penguin, 1972, p. 487.52 P. Calvocoressi e G. Wint, Total War, cit., pp. 551-552.53 Kenneth O. Morgan, Labour in Power 1945-1951, Oxford, Claredon Press, 1984, p. 295.
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fredda resero impossibile per i comunisti continuare far parte delle coalizioni nazionali. Il 1947 fu Vannus horrendus del comuniSmo. I partiti comunisti furono esclusi o si ritirarono dalle coalizioni di governo in Francia, Italia, Norvegia, Belgio, Lussemburgo e Austria. I comunisti danesi erano già usciti dal governo nel 1945, quelli finlandesi passarono all’opposizione nel 1948 mentre i comunisti olandesi avevano rifiutato di entrare nella coalizione nazionale a causa della prosecuzione delle guerre coloniali da parte del loro paese. L’altro fattore principale che, una volta finita la guerra, segnò il destino del comuniSmo nella maggior parte dell’Europa occidentale fu l’offuscarsi della distinzione tra le richieste politiche avanzate dai comunisti e quelle dei socialdemocratici. I comunisti potevano offrire soltanto una versione più militante di socialdemocrazia e, di conseguenza, erano in grado di ottenere unicamente il sostegno dei lavoratori che avevano una maggiore coscienza di classe e degli intellettuali più impegnati. Se un nucleo compatto di militanti organizzati secondo le direttive leniniste poteva essere tutto quanto era richiesto per sfruttare una situazione rivoluzionaria, al contrario, nel momento in cui si trattava di perseguire una crescita in termini elettorali in una situazione non rivoluzionaria, diveniva necessario fare appello ad un’ampia parte della popolazione senza provocarne l’allarme con eccessi di attivismo. Se il terreno della competizione elettorale era tale da rendere possibili soltanto piccoli passi in una prospettiva
di progresso sociale, allora erano i socialdemocratici a presentarsi come la migliore scelta per un elettorato già spaventato dalla repressione attuata dai comunisti in Europa orientale. Naturalmente alcuni leader comunisti capirono che il partito strettamente coeso di tipo leninista doveva essere rimpiazzato. In Italia Togliatti patrocinò la creazione di un “partito nuovo” meno centralizzato e più aperto. Egli sosteneva che il partito doveva “diventare un’organizzazione che sta in mezzo al popolo e soddisfa tutti i bisogni che si presentano alla massa del popolo. Questa è la grande trasformazione che dobbiamo far compiere al nostro partito”54.
In Europa occidentale la maggior parte dei partiti comunisti era persino troppo debole per pensare ad una presa del potere attuata con la forza. Quelli che erano abbastanza forti per prendere in considerazione tale possibilità, come i finlandesi, i francesi e gli italiani, non lo fecero55. In Occidente pochi comunisti — a parte il Pei di Togliatti — capirono che al mutamento della strategia doveva corrispondere una completa ristrutturazione dell’organizzazione del partito. Ma perfino leader meno lungimiranti di Togliatti capirono di non avere molta scelta: non era possibile un ritorno alla strategia rivoluzionaria patrocinata negli anni venti, una politica che si era risolta in un tetro fallimento. Così la fine della seconda guerra mondiale segnò il definitivo abbandono da parte dei partiti comunisti dell’Europa occidentale della via insurrezionale, intesa come strada percorribile per raggiungere il potere
54 P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale, discorso tenuto a Firenze il 3 ottobre 1944, in Id., Opere 1944-1955, vol. V, a cura di Luciano Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 104, ripubblicato in P. Togliatti, On Gramsci and Other Writings, a cura di Donald Sassoon, London, Lawrence and Wishart, 1979, pp. 91-92.55 Per l’assenza di intenzioni insurrezionali da parte dei comunisti francesi, si veda Irwin Wall, French Communism in the Era o f Stalin. The Quest for Unity and Integration, 1945-1962, Westport Connecticut and London, Greenwood Press, 1983, p. 29 e Jean-Jacques Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir? La stratégie du P cf de 1930 à nos jours, Paris, Editions du Seuil, 1981, pp. 152-165; per il partito comunista italiano, cfr. D. Sassoon, The Strategy o f the Italian Communist Party. From Resistance to the Historic Compromise, London, Frances Pinter, 1981, pp. 31-33 (ed. inglese di Togliatti e la via italiana al socialismo, Torino, Einaudi, 1980).
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in una democrazia liberale. Era certamente questa l’opinione prevalente nella maggioranza della leadership, sebbene molti militanti di base nutrissero il sogno di una rivoluzione di tipo sovietico.
Se il completo fallimento dell’insurrezione greca può aver indotto i comunisti a riconoscere la necessità di mutare strategia, si devono tuttavia cercare altrove i fattori determinanti per l’abbandono della strategia basata sull’insurrezione. In primo luogo vi erano ovvie considerazioni di natura geopolitica: gli americani ed i loro alleati controllavano i diversi paesi ed avevano sia la volontà che la forza per impedire la presa del potere da parte dei comunisti. Né era possibile aspettarsi alcun aiuto da parte dell’Urss: persino i comunisti greci del Kke non se ne attendevano alcuno pur ritenendo, erroneamente, che i partigiani jugoslavi di Tito potessero aiutarli55. Inoltre, in tutta Europa i comunisti avevano ottenuto un certo appoggio popolare dietro la bandiera della lotta per la democrazia e del ritorno al confronto politico elettorale. Essi tuttavia non potevano contare sullo stesso grado di consenso popolare qualora avessero deciso di iniziare una conquista armata del potere. Infine, la remota possibilità di attuare una insurrezione avrebbe potuto essere realmente presa in considerazione soltanto in aree di forte presenza comunista: in Francia, in Italia e in Finlandia. Altrove i rapporti di forza tra i comunisti e gli altri partiti politici erano appunto troppo sfavorevoli ai primi. La stessa Urss, in effetti, aveva abbandonato il comuniSmo dell’Europa occidentale se si esclude l’Italia e la Francia. Così quando, nel settembre del 1947, a Szk- larska Poreba, in Polonia, l’Urss costituì il Cominform, una versione più snella e meno grandiosa del Comintern, esso riguardò unicamente i partiti comunisti che importavano 56
realmente: quelli al governo più quello francese e quello italiano. Nessun altro partito comunista dell’Europa occidentale venne invitato ad aderire all’organizzazione.
Il comunismo tra “democrazia popolare” e “vie nazionali”
Avendo abbandonato la strada dell’insurrezione e della lotta armata, il comuniSmo europeo fece propria la strategia mirante alla conquista del potere statale attraverso la partecipazione a governi di coalizione. La prosecuzione delle alleanze degli anni di guerra divenne uno degli obiettivi principali perseguiti dai partiti comunisti. Persino nel Regno Unito essi promossero una campagna in favore della continuazione della coalizione nazionale, pur non avendovi preso parte, per abbandonare poi tale linea una volta indette le elezioni. Questa strategia favorevole alle coalizioni era basata sull’assunto secondo il quale vi sarebbe stata una considerevole continuità tra la politica che si era affermata durante il conflitto e quella del dopoguerra. Si pensava che sarebbe continuata la cooperazione con gli altri partiti antifascisti e che i comunisti si sarebbero gradualmente imposti come forza politica egemone. Attraverso misure legislative come la nazionalizzazione, i governi del dopoguerra avrebbero indebolito le fonda- menta economiche del grande capitale, privando cosi i grandi gruppi conservatori della loro base di appoggio. Tuttavia, dal momento che la conservazione delle coalizioni di governo era divenuto l’obiettivo primario, era necessario contenere, in qualche misura, le espressioni più estreme, sotto il profilo economico, della lotta di classe, come gli scioperi e l’occupazione delle fabbriche, dal momento che esse avrebbero soltanto destabiliz
56 II leader del Kke Nikos Zachariades affermò che gli era stato assicurato dagli iugoslavi il massimo aiuto possibile; si veda D. George Kousoulas, Revolution and Defeat. The Story o f the Greek Communist Party, Oxford, Oxford University Press, 1965, p. 237.
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zato l’economia e spaventato le classi medie. Nel periodo tra le due guerre i comunisti avevano appreso l’importanza di evitare l’isolamento e, nel corso del conflitto, avevano appreso l’importanza di essere una forza nazionale. L’espressione “democrazia popolare” venne coniata proprio per indicare una forma di Stato o di regime guidato da una coalizione di governo all’interno della quale il partito comunista avrebbe avuto una quota significativa di potere. Le politiche di tale regime sarebbero state l’allargamento del settore pubblico attraverso la nazionalizzazione delle principali industrie, il rafforzamento dei sindacati, lo sviluppo di strumenti di “democrazia diretta” (definiti in modo vago) e una politica estera orientata, in termini generali, all’amicizia con l’Urss. Con lo sviluppo della guerra fredda, l’espressione “democrazia popolare” divenne un eufemismo per designare i regimi comunisti dell’Europa orientale, ma ebbe una sua originalità nel rappresentare una nuova tendenza nella terminologia comunista. Essa rappresentò un tentativo di andare oltre la rigida dicotomia secondo la quale tutti i regimi non socialisti erano semplicemente “borghesi” e tutti i regimi socialisti dittatura del proletariato.
Per il successo della strategia della “democrazia popolare” era necessaria la prosecuzione delle coalizioni nazionali e internazionali della guerra. Esso implicava inoltre l’individuazione di una autonoma “via nazionale al socialismo”, differente da quella intrapresa nel 1917 dai bolscevichi. I comunisti consideravano ora quella che continuavano a chiamare “rivoluzione” come parte di un processo di sviluppo, una continuazione delle tradizioni radicali delle singole borghesie, dei cui simboli essi si potevano ora appropriare, e non più come una drammatica rottura nella
vita delle diverse nazioni. Gli antecedenti di questa strategia nazionale erano rappresentati dai fronti popolari degli anni trenta, con la differenza che, mentre in quel decennio i partiti comunisti erano riluttanti ad entrare nel governo (come avvenne in Francia e, inizialmente, in Spagna), ora essi erano impazienti di ottenere la maggiore partecipazione possibile al governo del paese. Ovunque poterono, essi svilupparono una strategia di alleanza che avrebbe sostenuto la loro presenza all’interno della coalizione. Questa presenza si articolava in due diversi modi:
1. Per quanto riguarda gli avversari socialdemocratici, i comunisti avrebbero cercato di sviluppare al massimo i rapporti di alleanza, arrivando probabilmente perfino all’unificazione. Anche se in Europa occidentale non vi furono conseguenze pratiche, il problema di una fusione tra socialisti e comunisti era stato posto sia da Thorez sia da Togliatti. Nel novembre 1946 Thorez, in una intervista rilasciata a “The Times”, dichiarò: “Il partito francese dei lavoratori che noi intendiamo creare attraverso l’unione di comunisti e socialisti sarebbe una guida verso questa democrazia, nouvelle et populaire”51. Togliatti si espresse con maggiore cautela. Parlando a Firenze il 3 ottobre 1944 accennò al problema della fusione con i socialisti: “è necessario attendere la liberazione del Nord, per tentare di realizzare in Italia la creazione di un partito unico”57 58. La fusione era, infatti, praticamente imposta dai più forti partiti comunisti in alcune democrazie popolari di recente costituzione dell’Europa orientale e centrale come Cecoslovacchia, Polonia e Germania orientale. Per conseguire questo obiettivo in Occidente sarebbe stato necessario isolare l’ala anticomunista all’interno della socialdemocrazia.
57 Citato in E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit. p. 332. Si noti che la Sfio aveva preso l’iniziativa per la fusione (cfr. J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 183).58 P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale, cit., p. 97.
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2. Per quanto riguarda i partiti “borghesi” di centro, era necessario raggiungere il più possibile un compromesso sulle tradizionali richieste avanzate dai socialisti, allo scopo di evitare che vi fossero motivi per la rottura della coalizione (proprio come, durante la guerra, le richieste di tipo socialista furono lasciate cadere nell’interesse dell’unità nazionale e dello sforzo bellico).
L’obiettivo di questa strategia era l’inserimento permanente dei partiti comunisti, con piena legittimità, nei diversi sistemi politici nazionali. Ciò richiedeva la totale rimozione dal linguaggio politico corrente del tradizionale anticomunismo. Il nuovo vincolo ideologico che avrebbe mantenuto l’unità dei partiti “democratici” di una democrazia popolare sarebbe stato l’antifascismo. In altri termini, la legittimazione del comuniSmo richiedeva la delegittimazione dell’anticomunismo e dei partiti anticomunisti. Il che poneva, a sua volta, una drastica alternativa, in base alla quale essere anticomunisti era incompatibile con l’essere veri antifascisti.
Come abbiamo visto, questa strategia delle “vie nazionali” fallì in tutta l’Europa occidentale. L’asserzione dei comunisti secondo la quale una democrazia popolare sarebbe stata una forma più avanzata di democrazia borghese non era credibile. Essi vennero espulsi dalle coalizioni di governo o messi in una posizione tale da non lasciar loro nessuna alternativa all’uscita dall’esecutivo. In tutti i casi, con l’eccezione dell’Italia, i partiti socialisti o socialdemocratici rimasero nella coalizione o divennero il principale partito dell’opposizione legale. Tutta la direzione della strategia comunista in Occidente aveva mirato a rendere l’antifascismo il concetto chiave per distinguere ciò che era legittimo oppure inaccettabile sotto il profilo politico. Il fallimento fu completo. In Oc
cidente la condizione per accedere al potere risultò essere l’anticomunismo, cioè l’accettazione dei valori “occidentali” definiti nei termini propri della guerra fredda.
La giustificazione successivamente addotta dell’espulsione dei comunisti dai governi di coalizione di tutta l’Europa fu la presa del potere da parte dei comunisti in Cecoslovacchia, che venne presentata come la dimostrazione della loro inaffidabilità come membri di una coalizione. Si trattava, decisamente, di una spiegazione post facto, dal momento che in Occidente l’espulsione dei comunisti dal governo si verificò principalmente nel 1947, mentre la presa del potere in Cecoslovacchia ebbe luogo nel 1948; cionondimeno, la giustificazione conteneva in effetti molto di vero. La strategia vittoriosa adottata dal partito comunista ceco assomigliava a quella (sebbene infruttuosa) dei suoi omologhi occidentali e merita di essere sinteticamente descritta. Al suo congresso del 1946 il partito comunista cecoslovacco (Ksc) aveva attirato l’attenzione sul fatto che la fase in cui si trovava il paese era quella di una rivoluzione nazionaldemocratica piuttosto che socialista. Al pari degli altri partiti comunisti, inclusi il francese e l’italiano, accettava che vi potessero essere vie diverse al socialismo. Esso era il partito dominante all’interno della coalizione nazionale e rappresentava anche la forza principale nelle organizzazioni di massa che erano in breve tempo sorte nel paese (i sindacati, il movimento giovanile, le organizzazioni degli agricoltori e delle donne, le associazioni sportive)59. Nelle elezioni del 1946 aveva ottenuto il 38 per cento dei voti e 114 dei 300 seggi dell’Assemblea nazionale; con i suoi alleati social- democratici disponeva, con 153 seggi, della maggioranza. Klement Gottwald, il leader comunista ceco nonché capo del governo,
59 Vladimir V. Kusin, Czechoslovakia, in M. McCauley (a cura di), Communist Power in Europe 1944-1949, cit., pp. 78-79.
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aveva preso tanto sul serio la strategia della democrazia popolare da essersi perfino dimostrato favorevole al Piano Marshall prima di esserne dissuaso dall’Unione Sovietica. Così i comunisti cechi si trovarono in una situazione non diversa da quella dei comunisti francesi e italiani, analogamente messi al bando all’interno di governi di coalizione che comprendevano partiti non di sinistra. La guerra fredda rese indifendibili queste coalizioni. Nel 1947 i comunisti francesi e italiani vennero espulsi dai governi dei rispettivi paesi e, successivamente, nello stesso anno, al congresso di fondazione del Cominform, rimproverati per aver subito senza reagire il proprio allontanamento dal potere60.
A differenza di quanto avveniva negli altri paesi dell’Europa occidentale, tuttavia, alla fine del 1947 il Ksc era ancora al potere, controllava i principali ministeri e poteva formare, nel febbraio del 1948, un governo senza partiti di centro e di destra. Avendo fatto ciò sulla base di un consistente appoggio popolare, esso soppresse tutti gli altri partiti con l’eccezione dei socialdemocratici che in ogni caso vennero assorbiti pochi mesi dopo. A differenza dei comunisti italiani e francesi, il Ksc fu in grado di mobilitare, per restare al governo, la forza della classe operaia organizzata61. Questa via per raggiungere il potere, la via cecoslovacca, venne assunta come il modello strategico cui si ispirava il comuniSmo occidentale e come la ragione in base alla quale i comunisti non potevano essere creduti. I comunisti — si diceva — fingono soltanto di seguire una via democratica, ma preparono in segreto la sovversione della democrazia. Sembra che cerchino alleati ed appaiono desiderosi di con
dividere con loro la gestione del potere, ma in realtà li considerano “utili idioti” da mettere da parte al momento opportuno; proclamano il proprio patriottismo mentre difendono gli interessi dell’Unione Sovietica al di sopra di quelli dei loro stessi paesi, come era risultato evidente dopo il patto fra Urss e Germania del 1939. Ciascuna di queste affermazioni e molte altre analoghe potevano essere sostenute (come in effetti furono) sulla base di esempi tratti dalla recente storia politica. In nessuno Stato cosiddetto socialista il partito comunista ha affrontato la prova del voto popolare in una competizione elettorale non fittizia fino al 1990. In ogni caso non si può instaurare democraticamente nessun sistema monopartitico, dal momento che nessuna maggioranza, per quanto ampia essa sia, può impegnare gli elettori delle successive generazioni.
I comunisti occidentali non potevano proporre nessuna argomentazione ragionevole per confutare queste affermazioni. Il comportamento prudente e democratico, la moderazione, il riconoscimento delle garanzie costituzionali, la difesa dei diritti civili non costituivano una prova valida di fronte al convincimento che tutto questo faceva parte di un inganno. La loro credibilità sarebbe stata accresciuta soltanto dal rifiuto di offrire un sostegno acritico e sistematico alla politica estera sovietica e dalla critica delle politiche messe in atto dal socialismo in Europa orientale e in Urss. Ma nell’immediato questa non era una scelta possibile per i comunisti occidentali. La leadership dei partiti comunisti non poteva ignorare i propri sostenitori, convinti che ciò che si stava costruendo in Urss e negli altri paesi dell’Europa orientale era il socialismo; e, parlando in
60 Eugenio Reale, Nascita del Cominform, Milano, Mondadori, 1958, pp. 17, 118-119, 123. Nella sostanza questo resoconto non è mai stato messo in dubbio da nessuno dei presenti.61 Si veda Jon Bloomfield, Passive Revolution. Politics and the Czechoslovak Working Class 1945-1948, New York, St. Martin’s Press, 1979, pp. 216-217.
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generale, questa convinzione era condivisa dai militanti così come dai leader. Inoltre, denunciando il socialismo sovietico si sarebbe cancellata la principale linea di demarcazione tra socialdemocratici e comunisti; sarebbe stato come sciogliere il partito ed unirsi ai socialdemocratici. E gli attivisti comunisti, tanto inaffidabili per i socialdemocratici, a loro volta non nutrivano alcuna fiducia verso questi ultimi: i socialdemocratici parlavano sempre di socialismo, dimostrandosi al tempo stesso sempre disponibili al compromesso con il capitalismo.
In Europa occidentale il requisito principale per l’instaurazione di un regime di “democrazia popolare” , ossia un forte partito comunista, esisteva soltanto in Italia, in Francia e in Finlandia. In questi paesi i comunisti si trovarono alleati ad un partito socialista o socialdemocratico e ad un partito di centro: in Francia con il Mouvement républicain populaire (Mrp) a base cattolica, in Italia con la Democrazia cristiana e in Finlandia con il partito agrario. Queste coalizioni sopravvissero fino al 1947 o al 1948. In questi tre paesi i comunisti ottennero, in questo periodo, il consenso di circa un quarto dell’elettorato, più del doppio della media dei voti ottenuti dai comunisti in Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Svezia e Norvegia. In termini elettorali il più forte partito comunista fu senza dubbio quello francese, che ottenne circa il 26 per cento nelle due elezioni del 1945 ed il 28,6 per cento nel 1946, divenendo così il maggiore partito francese sia nel paese che nell’Assemblea nazionale. Era inoltre diventato un vero partito nazionale, con almeno un deputato eletto, in pratica, in ogni dipartimento62. In tutte le elezioni esso risultò più forte dei socialisti della Sfio. Più deboli apparivano al paragone i comunisti italiani che, alle elezioni per l’Assemblea costituente, ottennero il 19 per cento, mentre il
partito socialista li superò appena con il 20,7 per cento, un risultato ben al di sotto di quello del principale partito, la Democrazia cristiana, che raggiunse il 35,2 per cento dei suffragi. Più tardi, nel 1948, comunisti e socialisti affrontarono insieme, con un’unica lista, lo scontro elettorale, ottenendo il 31 per cento dei voti, con una perdita quindi di otto punti in percentuale rispetto ai risultati del 1946. In Finlandia i comunisti raccolsero nel 1945 il 23,5 per cento dei suffragi, risultando secondi rispetto ai socialdemocratici, che raggiunsero il 25,1 per cento; nel 1948 essi ottennero il 20 per cento in confronto al 26,3 per cento dei socialdemocratici ed al 24,2 per cento del partito di centro.
La relativa debolezza elettorale del Pei rispetto al Pcf era in parte compensata dal più alto numero di iscritti. Alla fine del 1946 il Pei aveva quasi due milioni di aderenti in confronto agli 800.000 del Pcf. Questo distacco era in qualche misura il risultato di diverse scelte politiche. L’obiettivo di Togliatti era di raggiungere il più alto numero possibile di iscritti, senza preoccuparsi troppo delle credenziali ideologiche dei nuovi proseliti. I comunisti francesi furono più prudenti, anche perché potevano permettersi di avere un partito di dimensioni minori rispetto a quello italiano. In Francia non vi era una tradizione di partiti di massa: né i cattolici del Mrp né i socialisti della Sfio avevano una organizzazione lontanamente paragonabile a quella dei comunisti. In Italia la Democrazia cristiana stava emergendo — con il decisivo appoggio della Chiesa — come partito di massa, al centro, non diversamente dai comunisti italiani, di una rete di associazioni e di attività organizzate. Sia i comunisti francesi che quelli italiani perseguirono coerentemente la strategia di coalizione delle “democrazie popolari” . Entrambi erano desiderosi di dimostrare le proprie
62 J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 174.
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qualità nella direzione dello Stato e il proprio senso di responsabilità nell’affrontare i problemi nazionali. Entrambi erano impegnati a migliorare, a prezzo di concessioni, i propri rapporti con le classi medie, per ottenerne il favore e isolare quelli che chiamavano trust (Pcf) o monopoli (Pei). Di conseguenza essi scoraggiarono gli scioperi e le richieste di alti salari, per una politica mirante ad accrescere la produttività nell’industria, la quale ovviamente costituiva la migliore politica da seguire dato il basso livello raggiunto nei due paesi dalla produzione industriale. Il contenimento degli scioperi dimostrava che entrambi i partiti erano decisi a divenire forze politiche nazionali e non i rappresentanti dei ristretti interessi corporativi della classe lavoratrice.
Così il 21 luglio 1945 Thorez affermò, di fronte ai minatori di Waziers, che il loro dovere di classe era di produrre più carbone63, mentre Gaston Monmousseau, un veterano del sindacalismo comunista, dichiarò che “gli scioperi sono un’arma dei trust”64. Nel suo famoso discorso di Waziers, Thorez insistette sulla disciplina, suggerì che i lavoratori avrebbero potuto prendere in considerazione la rinuncia alle vacanze, attaccò l’assenteismo (“i fannulloni non saranno mai buoni comunisti o buoni rivoluzionari, mai, mai...”), ma insistette anche sul fatto che le condizioni di lavoro dovevano essere migliorate, che, allo scopo di accrescere il numero degli addetti, il lavoro nelle miniere avrebbe dovuto essere reso più appetibile, che le donne avrebbero dovuto essere incoraggiate
ad impiegarsi nell’industria (a dispetto dei “reazionari che abbracciano l’opinione secondo la quale le donne dovrebbero restare a casa. Non vi sarà nessuna emancipazione delle donne se non saranno le donne stesse ad ottenerla”)65. Nonostante ciò non vi è alcun dubbio sul fatto che l’aumento della produzione rappresentasse una priorità assoluta; così il Programme d ’action gouvernementale del Pcf del novembre 1946 poneva, nel capitolo sull’industria, un’enfasi molto maggiore sulle necessità della produzione piuttosto che sulla nazionalizzazione, mentre non accennava al controllo dei lavoratori sulla produzione o alla democrazia industriale66. Nonostante la loro retorica radicale, i comunisti francesi corteggiavano le classi medie con meno remore del Pei, dichiarando di essere per il massimo sviluppo dell’iniziativa individuale e bloccando il piano di Mendès France per imporre il cambio delle banconote in circolazione. Scopo della manovra era la tassazione degli illeciti profitti di guerra accumulati in contanti nei materassi67. In Italia l’attuazione di un analogo piano era stata iniziata dal ministro delle Finanze, il comunista Mauro Scoccimarro, ma venne poi bloccato dai democristiani, i più coerenti protettori degli interessi economici della classe media.
Nell’agosto 1945 Togliatti, al convegno economico indetto dal Pei, si oppose ai sussidi, ad una pianificazione economica nazionale (definita “utopistica”), a controlli di tipo sovietico dell’economia e richiese invece un accrescimento della produzione, controlli
63 Si veda M. Adereth, The French Communist Party, cit., p. 141 e J.-J. Becker, Le parti comuniste veut-ilprendre le pouvoir?, cit., p. 161.64 E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit., p. 347.65 Per il testo del discorso di Waziers, si veda Maurice Thorez, Oeuvres, vol. 5, Parte 21 (giugno 1945-marzo 1946), Paris, Editions Sociales, 1963; per i riferimenti alle condizioni di lavoro ed ai più alti salari, cfr. p. 158 e p. 160, alle donne p. 159, alla disciplina, alle vacanze, all’assenteismo e alla pigrizia, pp. 163-168.66 II testo del Programme è pubblicato in M. Thorez, Oeuvres, vol. 5, Parte 23 (novembre 1946-giugno 1947), cit., pp. 152 sgg.67 I. Wall. French Communism in the Era o f Stalin, cit. pp. 35-36.
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analoghi a quelli adottati dalla Gran Bretagna nel corso della guerra, una politica an- tinflazionistica per proteggere i piccoli risparmiatori (questa “parte ingente della popolazione italiana [...] se venisse rovinata da una inflazione, potrebbe essere gettata nelle braccia di correnti reazionarie e fasciste”). Infine mise in guardia i sindacati perché si interessassero più all’aumento della produzione che ai livelli salariali68. Si dovrebbe aggiungere che sia in Francia che in Italia questo atteggiamento non portò alcun vantaggio ai comunisti. Togliatti commentava amaramente il 19 febbraio 1947, pochi mesi prima della rottura della coalizione tripartita: “Non ha avuto luogo negli ultimi anni in Italia nessuno sciopero politico [...] siamo un Paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale [...] Questo è l’assurdo della situazione economica nella quale noi viviamo: da parte delle classi lavoratrici e dei sindacati si danno tutti gli esempi e si compiono tutti gli atti necessari per mantenere la disciplina della produzione, l’ordine e la pace sociale, per consentire la ricostruzione, mentre dall’altra parte un pugno di speculatori economici e politici approfittano di questa situazione”69.
Sia in Italia che in Francia i due partiti erano dunque sensibili non soltanto alle obiettive esigenze economiche del dopoguerra, ma anche alla necessità di stabilire un’alleanza con le classi medie. La differenza decisiva tra le due forze politiche era che per i comunisti francesi stabilire un’alleanza con le classi medie non significava giungere ad un accordo con i partiti delle classi medie. Al contrario la loro politica cercava di isolare il partito con il più vasto seguito nella classe media, il Mrp, cattolico e di centro-destra, e di ostacolare qualsiasi riavvicinamento tra quest’ultimo e la Sfio. Durante
tutto questo periodo il Pcf si impegnò per arrivare ad una coalizione di sinistra insieme alla Sfio, supponendo ancora, di conseguenza, che fosse possibile per la sinistra tradizionale rappresentare una sezione significativa delle classi medie. È questo il motivo per cui nel periodo tra il 1945 e il 1947 vi furono continui appelli rivolti dal Pcf alla Sfio per formare un governo senza il Mrp. Con la guerra fredda la Sfio, costretta a scegliere tra gli inaffidabili comunisti alla propria sinistra e il Mrp, sicuro e rispettabile sul piano internazionale, alla sua destra, preferì quest’ultimo ed il Pcf si trovò al di fuori della coalizione di governo.
Altrettanto insuccesso ebbero i comunisti italiani nel tentativo di restare al governo, ma la loro strategia delle alleanze era molto diversa da quella del partito francese. Se è vero che, come il Pcf, essi cercarono di fare appello direttamente alle classi medie, riconobbero anche al tempo stesso il ruolo centrale svolto dalla Democrazia cristiana come loro espressione politica. Di conseguenza tutti gli sforzi del partito furono diretti al mantenimento della coalizione tripartita tra socialisti, comunisti e democristiani. Il compromesso con le classi medie al quale miravano era volutamente inteso in senso ampio, al punto da includere la Democrazia cristiana (sebbene questo permettesse ai socialisti di opporsi ai comunisti da sinistra). Naturalmente si può sostenere che in Italia, a differenza che in Francia, la sinistra non aveva la maggioranza e che il Pei non aveva quindi la possibilità di battersi per un governo di sinistra; di conseguenza la differenza nella strategia perseguita rifletteva una diversa forza elettorale. Comunque, è altrettanto chiaro che Togliatti sperava che tale compromesso con la De potesse mantenere quest’ultima su di una linea riformista e impedire la ricosti
68 P. Togliatti, Opere, vol. V, 1944-1955, cit., pp. 165-167 e 171-172.69 P. Togliatti, Discorsi parlamentari, vol. I, Roma, Camera dei deputati, 1984, pp. 45-46.
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tuzione di un blocco di potere conservatore. Togliatti era ben conscio della complessa composizione sociale della Democrazia cristiana e della sua forza. Nell’importante discorso tenuto a Firenze il 3 ottobre 1944, egli sottolineò la vitalità delle organizzazioni cattoliche, che erano state capaci “per venti anni [di] esistere legalmente, o quasi legalmente, in regime fascista e quindi hanno una quantità di quadri i quali in questo momento rientrano nella vita politica e possono rapidamente lavorare per l’organizzazione di un grande partito” , sostenendo che nella De vi fossero non soltanto appartenenti alle classi possidenti borghesi, ma anche “grandi masse di lavoratori, di operai anche, ma soprattutto di contadini”70. Togliatti cercava di sviluppare quella che i politologi avrebbero successivamente chiamato democrazia consociativa, una grande coalizione semipermanente il cui asse centrale sarebbe stata la sinistra dello schieramento politico di centro. Il progetto di Thorez era molto più vicino al funzionamento del modello britannico: un sistema bipolare con una contrapposizione tra destra e sinistra e chiare demarcazioni di natura ideologica. Le differenze nella tattica adottata dai partiti francese e italiano possono essere meglio comprese confrontando il loro modo di affrontare i problemi costituzionali. Nel 1945 era generale l’accordo sul fatto che non vi potesse essere un ritorno ai precedenti regimi costituzionali: la Terza repubblica in Francia e lo Stato liberale prefascista in Italia. Entrambi i paesi stavano quindi affrontando il problema della stesura di una nuova costituzione. Per la prima volta nella storia, dei partiti comunisti vennero invitati a partecipare alla definizione della forma costituzionale di uno Stato non socialista. Sia il Pcf che il Pei erano per una singola assemblea rappresentati
va dotata di poteri reali e non ostacolata da una seconda camera, per un presidente autorevole, per un esecutivo forte o una corte suprema. In pratica entrambi immaginavano un sistema politico nel quale le principali forme di organizzazione sarebbero state rappresentate da partiti politici autonomi e potenti, in grado di controllare completamente i processi decisionali. Questa presa di posizione coincideva con un’ottimistica stima delle possibilità elettorali dei partiti comunisti e della sinistra in generale. Più ristretto era il sistema di controlli e contrappesi di tipo costituzionale, più facilmente una maggioranza parlamentare di sinistra avrebbe potuto trasformare la struttura economica e sociale del paese.
In Francia il Pcf fu in grado di convincere una Sfio molto riluttante, contro l’opposizione del Mrp, e lacerata al suo interno ad appoggiarlo nella difesa del principio di una unica ed autorevole camera legislativa e ad unirsi ad esso nella presentazione del progetto costituzionale del maggio 1946 che venne sottoposto a referendum. La strategia si rivelò disastrosa. L’elettorato, con l’appoggio, pare, anche di 600.000 voti socialisti, rifiutò il progetto71. Un nuovo progetto costituzionale emendato, che prevedeva una seconda camera, venne approvato di misura, con i comunisti costretti, non senza esitazioni, a sostenerlo. Poco più di un terzo dell’elettorato votò a favore, mentre poco meno di un terzo votò contro e il 31,2 per cento si astenne. La nuova costituzione comprendeva molti articoli progressisti, come l’uguaglianza tra i sessi, la piena occupazione, il diritto di sciopero, il diritto all’istruzione, la nazionalizzazione dei monopoli, un sistema di previdenza sociale e la creazione nei luoghi di lavoro di comitati misti tra direzione e lavoratori72. Ma l’intransigenza del Pcf nella
70 P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale, cit., pp. 97-98.71 E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit. p. 350.72 M. Adereth. The French Communist Party, cit. p. 139.
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battaglia politica per la costituzione aveva portato al suo isolamento ed al tanto temuto riavvicinamento tra la Sfio e il Mrp.
I comunisti italiani, pur partendo con progetti costituzionali analoghi a quelli dei loro compagni francesi, arrivarono in breve a sacrificarli allo scopo di assicurare la stabilità delPalleanza con i democristiani. Arrivarono fino al punto di votare insieme alla De (nonostante le forti pressioni dei socialisti) per la conservazione nel testo costituzionale del Concordato del 1929 e di accettare le idee dei democristiani in materia di decentramento amministrativo a livello regionale. Il testo costituzionale finale comprendeva così i tradizionali principi liberali e i diritti economici e sociali quali il diritto di sciopero e di organizzazione sindacale. Includeva inoltre una disposizione (il secondo paragrafo del terzo articolo) secondo la quale “è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione della politica, economica e sociale del paese”73.
Anche se la strategia politica seguita dai comunisti italiani fallì poiché non poterono restare al governo con la Democrazia cristiana, la loro strategia costituzionale ebbe successo. La forma statuale che essi contribuirono a creare sopravvisse all’intero corso della guerra fredda a differenza della Quarta repubblica francese. Essi potevano a ragione affermare di essere i principali difensori della costituzione e, di conseguenza, un partito
costituzionale, e di aver contribuito in maniera decisiva al consolidamento della democrazia nel paese74. Il sistema elettorale proporzionale, pur non previsto dalla costituzione, garantiva loro un peso parlamentare adeguato all’appoggio popolare, appoggio che crebbe ininterrottamente fino al 1979. Il tipo di organizzazione scelto dai comunisti, il partito di massa sostenuto da una rete di associazioni fiancheggiatrici, consentì al partito di affermarsi come presenza permanente nel panorama politico. L’alleanza con il partito socialista durò fino alla fine degli anni cinquanta. Il partito comunista non venne mai relegato in un ghetto, tagliato fuori dal potere, in costante attesa dello scioglimento di un dramma politico nel quale non recitava nessuna parte. Il consenso popolare di massa ottenuto dai comunisti in Italia centrale, e specialmente nelle città e nei paesi dell’Emilia, consentì loro di sviluppare una forma di socialismo municipale molto ammirato e studiato75. A paragone di quello del Pei, il curriculum del partito comunista francese non è certamente brillante. La costituzione a malincuore accettata durò poco più di dieci anni. Nel momento in cui i comunisti ne divennero entusiasti difensori, la crisi algerina riportò De Gaulle al potere e condusse direttamente alla fine della Quarta repubblica e ad una nuova costituzione che attribuì al presidente i principali poteri esecutivi.
La traiettoria descritta dai comunisti finlandesi presenta una marcata analogia con quella dei francesi e degli italiani sebbene la Finlandia rappresenti, come sempre, un ca-
73 Si veda il capitolo sulla costituzione nel mio volume Contemporary Italy, London, Longman, 1986, pp. 195-209 (traduzione italiana: L ’Italia contemporanea. Ipartiti le politiche la società dal 1945 a oggi, Roma, Editori Riuniti, 1987).74 Per un’analisi più dettagliata, si veda il mio saggio su The Role o f the Italian Communist Party in the Consolidation o f Parliamentary Democracy in Italy, in Geoffrey Pridham, Securing Democracy. Political Parties and Democratic Consolidation in Southern Europe, London and New York, Routledge, 1990 (in precedenza comparso in “Critica marxista”, 1985, n. 1, con il titolo Togliatti e la centralità del parlamento).75 Si veda ad esempio la positiva descrizione di Bologna fatta dai tre giornalisti svizzeri Max Jàggi, Roger Miiller e Sii Schmid, Red Bologna, London, Writers and Readers, 1977.
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so a parte. Grazie ai suoi primati elettorali nel dopoguerra il partito comunista finlandese (Skp) si colloca tra i forti partiti comunisti, insieme a quello italiano e a quello francese, con un risultato sorprendentemente buono alle elezioni del 1945. A differenza di questi ultimi due partiti, tuttavia, non si può attribuire il successo alla lotta armata, dal momento che non vi fu un importante movimento di resistenza armata antitedesca nel paese. La popolazione finlandese aveva ben pochi motivi per essere grata all’Urss: l’aggressione sovietica aveva portato alla “guerra d’inverno” del 1939-1940 e poi, nel 1941-1944, alla guerra combattuta dalla stessa parte della Germania nazista. Quando la guerra ebbe inizio, il partito comunista, già illegale, era ancora un gruppo di dimensioni minime e privo di influenza ed è probabilmente infondata l’ipotesi secondo la quale esso godeva di un occulto appoggio di massa, che potè palesarsi soltanto dopo il 194576. Tuttavia il partito aveva ereditato un nocciolo duro di attivisti dal Suomen sosiali- stinen tyòvàenpuole (Sstp), il partito socialista finlandese dei lavoratori che era, tra il 1919 e il 1923, la principale alternativa di sinistra ai socialdemocratici e che rappresentava una forma di radicalismo di sinistra tipico del paese77. Inoltre il partito comunista finlandese fu l’unico beneficiario del generale spostamento verso sinistra che si ebbe nel dopoguerra. L’avversario più prossimo, il partito socialdemocratico, portava il marchio derivante dall’aver partecipato ad un governo che aveva combattuto dalla stessa parte dei nazisti.
Nel corso del suo primo congresso legale
che si tenne il 4 e il 5 ottobre 1944, il partito comunista finlandese decise di seguire la strategia altrove concepita e praticata della democrazia popolare. Di conseguenza abbandonò il programma rivoluzionario e si impegnò in una politica rispettosa della costituzione sulla base di un ampio schieramento popolare78, mirando inoltre ad una unione con i socialdemocratici e ad una intesa con il partito agrario. Tuttavia l’obiettivo di creare un unico partito della sinistra venne frustrato dall’espulsione dal partito socialdemocratico del gruppo filocomunista di Vapaa Sana, guidato da Karl Wiik. Al suo posto venne costituita la Lega democratica del popolo finlandese (Skdl), una alleanza elettorale tra Skp, il gruppo di Vapaa Sana ed altri gruppi di sinistra79. La lega era dominata, anche se non in misura schiacciante, dai comunisti. È stato stimato che 130.000 dei 398.618 voti da essa ottenuti provenivano dai gruppi di Vapaa Sana e da altri socialdemocratici di sinistra. Insieme questi gruppi ottennero 9 dei 49 eletti dalla lega in parlamento. Anche se il posto chiave di segretario generale venne occupato da comunisti fino al 1965, quando venne eletto il socialista indipendente Eie Alenius, per tutto il dopoguerra la presidenza della Skdl non venne affidata ad un comunista80. Il programma elettorale della lega era coerente con la strategia della democrazia popolare: esso difendeva l’antifascismo come ideologia unificante e sosteneva di conseguenza la messa al bando delle organizzazioni fasciste, una politica estera conforme ai principi delle Nazioni unite ed uno speciale stretto legame con l’Urss81.
76 J.H. Hodgson, Communism in Finland, cit., p. 221.77 Si veda David Kirby, New Wine in Old Vessels? The Finnish Socialist Workers’ Party, 1919-1923, “The Slavonic and East European Review”, 1988, n. 3, p. 443.8 Anthony Upton, Finland, in M. McCauley, Communist Power in Europe 1944-1949, cit., p. 134.
79 J.H. Hodgson, Communism in Finland, cit. pp. 206-207.80 J.H. Hodgson, Communism in Finland, cit., pp. 212 e 230.81 A. Upton, Finland, cit., p. 136.
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I risultati elettorali positivi ottenuti nel 1945, quando la lega ottenne il 23,5 per cento dei voti ed emerse come il gruppo più numeroso in parlamento, incoraggiò i leader comunisti a discutere un progetto di fusione con gli altri due principali partiti. Nell’aprile del 1945 si arrivò ad un accordo. I comunisti e i loro alleati ottennero quasi un terzo degli incarichi ministeriali compreso, come in Cecoslovacchia, il ministero degli Interni, che naturalmente consentiva il controllo della polizia. Un modello non dissimile rispetto agli eventi che si susseguirono in Cecoslovacchia. Nella primavera del 1946 il partito comunista lanciò un grande movimento di massa sostenuto da dimostrazioni che chiedevano l’attuazione di riforme sociali, la democratizzazione dell’esercito ed il servizio civile. A differenza del movimento praghese, esso fallì e i socialdemocratici poterono riprendere l’iniziativa. Riuscirono a posporre le elezioni degli organismi sindacali addu- cendo irregolarità, e, quando alla fine nel 1947 si tennero le elezioni, i sociademocratici ottennero la maggioranza sulla base di una piattaforma anticomunista82. Entro il maggio 1948 l’accordo tra i tre maggiori partiti era nella pratica completamente superato e l’anticomunismo era allora riemerso come risultato dell’elezione. La lega, che nel 1945 aveva ottenuto 49 dei 200 seggi della Camera, ora aveva soltanto 34 seggi e riceveva l’offerta di entrare al governo con un ruolo di minore importanza. Essa rifiutò, abbandonando il governo e restando quindi all’opposizione fino al 196683.
Sono rimasti controversi i motivi per cui in Finlandia il partito comunista non seguì la strada intrapresa dal partito comunista cecoslovacco84. Coloro che cercano di spiegare la presa del potere comunista in Europa orientale e centrale unicamente sulla base di motivazioni geopolitiche si trovano in questo caso di fronte ad una vicenda che confuta la validità della loro tesi: sotto il profilo geopolitico la posizione dei due paesi era molto simile, dal momento che nessuno dei due si trovava nella sfera d’influenza occidentale o occupato dall’Armata rossa. È chiaro che l’Unione Sovietica era ben contenta di avere in Finlandia una situazione nella quale l’amicizia con l’Urss veniva condivisa da tutti i principali partiti politici, compresi quelli conservatori. Essa aveva perseguito ed ottenuto l’epurazione di tutti coloro che avevano collaborato con i tedeschi (in particolare i socialdemocratici come Vaino Tanner che era stato ministro degli Esteri durante la guerra), come simbolo del- l’avvenuta espiazione del passato. La Finlandia rimase la sola dimostrazione del fatto che era perfettamente possibile praticare l’anticomunismo in politica interna senza essere antisovietici in politica estera. La differenza più evidente tra i due paesi riguardava la politica interna. I comunisti cechi avevano il 40 per cento dei voti, i finlandesi soltanto il 25. Tra il 1947 e il 1948 in tutta Europa le coalizioni nazionali che comprendevano comunisti ed anticomunisti subirono il contraccolpo della rottura della coalizione antifascista internazionale, cioè della
82 David G. Kirby, Finland in the Twentieth Century, London, C. Hurst & Co., 1979, p. 194.83 Anche in questo caso, come in molti altri simili, non esiste alcuna prova che dimostri la validità dell’interpretazione, proposta, ad esempio, da Pekka Haapakoski, Brezhnevism in Finland, “New Left Review”, 1974, n. 86, p. 34, secondo la quale la condotta moderata dei comunisti al governo nel periodo 1945-1948 ne erose la credibilità tra i lavoratori portando il partito alla sconfitta. L’abbandono da parte dei lavoratori delle fila del partito comportò la loro adesione alla più moderata socialdemocrazia, come dimostrano i risultati delle elezioni nei sindacati.84 Alcuni storici scelgono di esprimersi nel modo più ovvio; si veda per esempio la considerazione non molto utile di L.A. Puntila in The Political History o f Finland 1809-1966, London, Heinemann, 1975, p. 205: “L’esperienza maturata con l’instaurazione delle democrazie popolari nei paesi occupati dell’Europa orientale non era evidentemente applicabile alla Finlandia”.
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guerra fredda. Nella maggior parte dei casi gli anticomunisti furono abbastanza forti da allontanare i comunisti da ogni responsabilità all’interno del governo. È quello che avvenne in Italia e in Francia, per non parlare dei paesi dell’Europa occidentale dove i comunisti rappresentavano il 10 per cento o anche meno dell’elettorato. In Finlandia gli anticomunisti furono abbastanza forti da umiliare i comunisti e costringerli ad uscire dal governo. Soltanto in Cecoslovacchia i comunisti erano troppo forti per poter essere espulsi.
La socialdemocrazia e il declino comunista nell’Europa occidentale
Il ruolo svolto dai socialisti o dai socialdemocratici è cruciale per spiegare la fine della partecipazione comunista ai governi dell’Europa occidentale. In Francia i socialisti non ebbero timore di combattere i comunisti ed ebbero forti alleati al centro. In Italia soltanto una minoranza del partito socialista scelse di collocarsi con gli anticomunisti, ma ciò fu sufficiente per fornire alla Democrazia cristiana la forza necessaria per espellere la sinistra dal governo. Di nuovo diversa è la situazione in Cecoslovacchia. Pur impegnandosi a fondo, l’ala destra del partito socialdemocratico venne sconfitta da una maggioranza realmente desiderosa di cooperare con i comunisti così come era avvenuto durante la guerra85. In Finlandia i socialdemocratici avevano combattuto insieme ai tedeschi durante la guerra e, dopo la sua conclusione, soltanto con molta riluttanza avevano deciso di cooperare con i comunisti. Inoltre, una volta espulso il gruppo di Vapaa Sana dal partito socialdemocratico, il partito comunista non potè più contare su una tendenza favorevole all’unità
all’interno della socialdemocrazia, che, in ogni caso, era stata abbandonata durante la guerra da molti dei suoi attivisti86. In realtà, nonostante i successi elettorali, in Finlandia il partito comunista era troppo debole sia per prendere il potere nel paese attraverso la lotta armata (una via che non aveva alcuna intenzione di intraprendere) sia per divenire un elemento permanente all’interno della coalizione di governo. La sua condizione era quindi di gran lunga più simile a quella dei partiti francese e italiano che a quella dei comunisti cecoslovacchi.
A pochi anni dal raggiungimento del miglior risultato sotto il profilo elettorale, si può tracciare rapidamente il bilancio finale del comuniSmo in Occidente. Al di fuori dei tre paesi appena esaminati, nei sistemi politici delle altre nazioni esso cessò semplicemente di rappresentare una forza significativa. In Europa orientale, invece, il comuniSmo trionfò grazie alle pressioni o all’intervento diretto sovietico. Per anni le solenni dichiarazioni dei dirigenti sovietici avrebbero ricordato che qualunque fossero le caratteristiche della società che si andava costruendo in Europa orientale, essa rappresentava la sola forma di “socialismo reale” . I territori sottoposti a tale regime erano situati, con qualche eccezione, nelle aree che nel secolo precedente erano state soggette al dominio prussiano o a quello degli imperi zarista, austriaco e turco — tutti territori che avevano rappresentato per l’Europa liberale e progressista dell’Ottocento il punto di forza della reazione. È in quest’area, storicamente così refrattaria alla fioritura di una robusta tradizione democratica, che il socialismo venne instaurato, imprigionato all’interno di un blocco relativamente monolitico, vanificato entro una ideologia ufficiale, incapace di sviluppo, di
85 Si veda J. Bloomfield, Passive Revolution. Politics and the Czechoslovak Working Class 1945-1948, cit. pp. 199-200 e 225-226.86 Su quest’ultima questione si veda Pertti Hyhynen, The Popular Front in Finland, “New Left Review”, 1969, n. 57, pp. 8-9.
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adattamento o mutamento. Di conseguenza veniva distrutta non soltanto la tradizione socialdemocratica, ma anche la possibilità di un genuino sviluppo di quella comunista. Ciò che avvenne fu l’imposizione dall’alto di un più o meno uniforme modello sovietico di costruzione di una società socialista in paesi che erano differenti in misura significativa sia tra loro sia rispetto all’Urss.
L’imposizione del modello sovietico in Europa orientale e centrale non può essere separata dalla particolare congiuntura rivoluzionaria che si presentò tra il 1917 e il 1920. La creazione del Comintern si basò sull’ipotesi centrale che il processo rivoluzionario in corso avrebbe avuto una dimensione internazionale ed avrebbe di conseguenza richiesto un coordinamento a tale livello. In questo senso il Comintern era davvero figlio del XX secolo, non soltanto per la sua ideologia, ma anche perché l’assunto che ne stava alla base era l’interdipendenza e la dimensione globale delle trasformazioni. Questi concetti svolsero un ruolo centrale nell’originario credo comunista, secondo il quale la rivoluzione sovietica non poteva sopravvivere senza l’avvio di un analogo processo in altri paesi. Una tale trasformazione sarebbe stata favorita da una crisi generale del capitalismo, che richiedeva l’adozione di strategie analoghe da parte dei comunisti dei diversi paesi. Ma la moderna ipotesi di una società globale interdipendente coesisteva con una struttura delle relazioni internazionali molto più vecchia e stabile: il moderno sistema degli stati derivato, senza soluzione di continuità, dall’Europa del Settecento, quello cioè di una comunità di stati i cui interessi in conflitto vengono risolti attraverso la diplomazia e/o la forza. Così i bolscevichi si trovarono alla direzione non soltanto del loro Stato — l’Unione dei soviet, la terra del socialismo che ancora doveva essere inventata — ma anche di uno Stato che era l’erede dell’impero zarista, uno Stato con precisi interessi attinenti la sicurezza nazionale
che non potevano cambiare del tutto semplicemente perché erano guidati da una nuova ideologia. L’Urss, al pari della Russia zarista, aveva bisogno di frontiere ben difese, di Stati cuscinetto, di cinture di sicurezza attorno ai propri confini, di trattati internazionali, di una diplomazia segreta e via dicendo. Chiunque volesse governare l’Unione Sovietica avrebbe dovuto affrontare questa realtà.
Alla metà degli anni trenta esisteva una correlazione oggettiva tra gli interessi della politica estera sovietica e quelli del movimento comunista in Europa occidentale: il fascismo rappresentava una minaccia non soltanto all’interno di ciascuno Stato europeo, ma anche, data la potenza della Germania e la sua posizione geopolitica, per l’Urss. La politica dei fronti popolari rappresentava il riconoscimento del fatto che era nell’interesse dell’Urss che ogni partito adottasse politiche coerenti rispetto alle peculiarità nazionali del proprio paese, dal momento che tale strategia rappresentava il modo migliore per fermare il fascismo.
Una volta adottato il principio delle vie nazionali non vi era alcun motivo per cui dovesse sopravvivere la concezione leninista fatta propria dal Comintern di un coordinamento delle attività rivoluzionarie. I partiti comunisti erano pronti per affrontare i propri avversari socialisti sulla base delle “politiche democratiche” e, su quella base, di unirsi a loro in alleanze più o meno temporanee. Una volta accettata la possibilità di una pacifica transizione al socialismo attraverso gli strumenti propri della democrazia liberale e una volta fatto proprio l’orizzonte politico dello Stato nazionale, non vi era più bisogno di una specifica tradizione comunista. I partiti comunisti, se fossero sopravvissuti, avrebbero potuto semplicemente finire per rappresentare una tendenza più radicale tra le diverse espressioni del socialismo nazionale.
In assenza della guerra fredda e della pau
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ra del comuniSmo sovietico, i partiti comunisti avrebbero potuto svilupparsi piuttosto che vedere ridotto il proprio seguito in nazioni come il Belgio e i Paesi Bassi o si sarebbero uniti ai partiti socialisti per creare un’autorevole forza politica di ispirazione radicale. In Francia sarebbe stata possibile una sinistra unita e in Italia, dove socialisti e comunisti cooperarono fino alla fine degli anni cinquanta, essi avrebbero potuto insieme frenare la crescita dell’establishment democristiano.
Il processo di graduale riconciliazione delle due ali del socialismo si era avviato, non senza esitazioni, alla metà degli anni trenta, continuando con maggiore sicurezza durante la guerra. La guerra fredda ne arrestò bruscamente il corso. In Europa orientale le vie nazionali al socialismo vennero abbandonate per seguire la strada intrapresa dal- l’Urss. In Europa occidentale quella delle vie nazionali rappresentava una strategia impossibile o difficile da seguire poiché tutti i comunisti venivano considerati, inevitabilmente e, nella maggior parte dei casi, correttamente, come sostanzialmente subordinati agli interessi della politica estera sovietica. Dove il comuniSmo sopravvisse, come in Francia, in Finlandia o in Italia, ciò avvenne perché diventò l’erede e il rappresentante di una forte tradizione nazionale radicale di sinistra a spese dei socialdemocratici. Nel caso francese esso si sostituì nella direzione di una forte corrente operaista che altrove (per esempio in Gran Bretagna o in Germania) era presente nei partiti socialdemocratici. In Italia il Pei divenne il rappresentante di gran parte della tradizione radicale “sovversiva”, specialmente in Toscana e in Emilia Romagna, e si trasformò in un polo d’attrazione per l’intellighenzia non clericale.
In ogni caso i comunisti dei paesi occiden
tali vissero gli inizi della guerra fredda come eventi loro imposti dall’esterno. La cortina di ferro, il Cominform, la dottrina Truman, il Piano Marshall, perfino la loro partecipazione al governo, erano tutti fenomeni che li ponevano — come il generale di Gabriel Garda Marquez — alla mercé di un destino che non era il loro. Essi divennero il bersaglio di una propaganda delirante e furono ritenuti responsabili di una repressione che essi non avevano iniziato e che, comunque, si trovarono costretti a giustificare. In quanto forza di minoranza essi difesero tenacemente e con coerenza tutti i diritti civili che la democrazia occidentale offriva loro; in quanto comunisti essi difendevano in modo altrettanto tenace tutte le violazioni di questi diritti nelle “democrazie popolari” dell’Europa orientale. Raramente una forza politica si era trovata tanto invischiata in una situazione schizofrenica. Lo sviluppo della guerra fredda e la divisione dell’Europa segnarono il destino dei comunisti nella maniera più umiliante. Essi non si opposero all’espulsione dal governo e sulla base di una buona motivazione. Entro il 1947 essi erano arrivati a rendersi conto di non poter più influenzare gli avvenimenti stando all’interno dei governi e, proprio per questo motivo, di non poter dare nuovo impulso all’opposizione. In Francia, in particolare, non potevano rischiare di permettere ai militanti trotzkisti di fomentare il radicalismo tra le classi lavoratrici, come era avvenuto in due stabilimenti della Renault nell’aprile del 194787. Ci si aspettava che, al governo, i comunisti dell’Europa occidentale continuassero a sostenere i programmi di austerità che pesavano fortemente sulle classi lavoratrici. In Francia il Pcf non poteva continuare a sostenere l’intervento militare in Indocina, contro il movimento anticolonialista guidato dai
87 E. Mortimer, The Rise o f French Communist Party 1920-1947, cit., p. 145 e J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 193.
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comunisti88. A livello sia nazionale che internazionale la tendenza predominante stava di nuovo spostandosi verso la restaurazione dell’ethos e dei valori capitalistici. I venti radicali suscitati dalla guerra, e sulla cui vitalità e forza i comunisti dell’Occidente avevano rischiato il proprio futuro politico, si erano calmati.
Completamente diverso fu il destino riservato in Europa occidentale a socialisti e socialdemocratici, che poterono arrivare al potere — e lo fecero — giovandosi delle condizioni democratiche e di libertà che essi avevano contribuito in maniera così decisiva ad istituire, a dispetto dell’opposizione o costringendo la destra, pur fortemente contraria, ad accettarle.
Il significato della guerra fredda, tuttavia, era che i socialisti potevano arrivare al potere soltanto dopo aver accettato l’egemonia internazionale degli Stati Uniti, la sola potenza capitalistica priva di un forte partito socialista. In Europa occidentale il socialismo si dovette quindi sviluppare sotto la protezione internazionale di un paese il cui ethos, le cui tradizioni e il cui modo di percepire la realtà erano profondamente ostili al socialismo e tali da non permettere neppure la speranza di un governo favorevole ad un progetto socialista qualunque esso fosse. Era un ordine
internazionale che a certe condizioni poteva tollerare il socialismo, ma che non avrebbe mai potuto incoraggiarlo.
Questa fondamentale subordinazione delle idee socialiste alle necessità di un mondo bipolare costituiva semplicemente un aspetto della decadenza della potenza europea successiva alla seconda guerra mondiale. Il destino del socialismo era inseparabile dal destino politico dei singoli stati nazionali. In una Europa divisa e soggetta a costrizioni esterne i socialisti si trovarono ad operare su un terreno ostile. Cadde su di loro l’arduo compito di vivere un paradosso particolarmente gravoso. Essi dovevano far avanzare la causa del socialismo combattendo al tempo stesso una guerra fredda contro la sola nazione “socialista” esistente.
Naturalmente anche i partiti conservatori e confessionali, che costituivano i principali avversari dei socialisti, erano condizionati dalla debolezza dell’Europa, che però funzionava a loro vantaggio. Essi erano, dopotutto, i naturali alleati della superpotenza americana; a differenza dei socialisti, essi non dovevano dimostrare la propria affidabilità all’ombra della sovranità esercitata dagli Stati Uniti.
Donald Sassoon[traduzione dall’inglese di Paolo Ferrari]
J.-J. Becker, Le parti communiste veut-il prendre le pouvoir?, cit., p. 197.
Donald Sassoon è docente di storia al Queen Mary and Westfield College dell’Università di Londra. Ha pubblicato in Italia Togliatti e la via italiana al socialismo (Einaudi) e L ’Italia contemporanea (Editori Riuniti). Attualmente sta scrivendo una storia comparata dei partiti della sinistra dell’Europa occidentale dal 1889 ad oggi.