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INCONTRO DI STUDIO ORGANIZZATO DAL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA- Nona Commissione- Tirocinio e Formazione professionale LA NORMATIVA IN MATERIA DI STUPEFACENTI (corso condiviso con la formazione decentrata) Roma, 24-26 ottobre 2007 LA DISCIPLINA PREVISTA DALLA LEGGE 21 FEBBRAIO 2006 n. 49: LE NUOVE FATTISPECIE PENALI Relazione di Giuseppe AMATO, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Roma- Direzione distrettuale antimafia Introduzione.- Con il decreto legge 30 dicembre 2005 n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 è cambiata la disciplina sanzionatoria penale e amministrativa delle sostanze stupefacenti (v., rispettivamente, gli articoli 73 e 75 del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, comparati ora, da un lato, con il nuovo articolo 73, e, dall'altro, con i nuovi articoli 75 e 75 bis). In realtà, la modifica, pur fortemente ridotta rispetto al contenuto del primigenio progetto governativo, ha riguardato anche altri settori della disciplina. Basti pensare al settore del recupero, dove con una scelta totalmente innovativa, viene configurata una sostanziale parificazione delle strutture private a quelle pubbliche, attribuendosi alle prime finanche la competenza a certificare lo stato di tossicodipendenza (con effetti giuridicamente rilevanti, ad esempio, in materia di misure cautelari personali, di sospensione dell'esecuzione della pena e di affidamento in prova: cfr., rispettivamente, gli articoli 89, 90 e segg. e 94 del dpr n. 309/90). Basti pensare alle modifiche introdotte nella fase dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti del detenuto tossicodipendente, con un significativo ampliamento dell'ambito di operatività degli istituti della sospensione dell'esecuzione della pena detentiva (articoli 90-93 del dpr n. 309/90) e dell'affidamento in prova (articolo 94 del dpr n. 309/90), ispirate ad accentuarne l'utilizzo per favorire e/o premiare il recupero e la riabilitazione. Basti pensare, ancora, alle incisive modifiche che caratterizzano anche la disciplina dei poteri investigativi attribuiti alla polizia giudiziaria: in particolare, con la previsione di una più adeguata e completa disciplina dell'"acquisto simulato" di sostanze stupefacenti (v. articolo 97 del dpr n. 309/90). Qui, per corrispondere anche al tema della relazione, ci si vuole limitare alla ricostruzione delle modifiche che hanno riguardato l’intervenuta parificazione delle sostanze stupefacenti (tutte le sostanze vietate sono inserite nella tabella I ed hanno eguale trattamemto sanzionatorio) e la prevista “normativizzazione” dei parametri indiziari (articolo 73, comma 1 bis, lettera a), del dpr n. 309/90) utilizzabili per la dimostrazione della destinazione “illecita” della sostanza stupefacente in presenza di condotte (acquisto, ricezione, importazione, esportazione, detenzione) ex se non “autoevidentemente” dimostrative di tale destinazione. Una riflessione sarà poi sviluppata a proposito degli effetti del novum normativo sulla disciplina dell’attenuante del “fatto di lieve entità” (effetti della disciplina introdotta dalla coeva legge c.d. ex Cirielli e disciplina del lavoro di pubblica utilità introdotta con l’articolo 73, comma 5 bis, del dpr n. 309/90). La modifica sulla disciplina sanzionatoria.- Come si è accennato, la riforma introdotta nel 2006 ha toccato, principalmente ed incisivamente, la disciplina sanzionatoria penale e amministrativa
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INCONTRO DI STUDIO ORGANIZZATO DAL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA- Nona Commissione- Tirocinio e Formazione professionale LA NORMATIVA IN MATERIA DI STUPEFACENTI (corso condiviso con la formazione decentrata) Roma, 24-26 ottobre 2007 LA DISCIPLINA PREVISTA DALLA LEGGE 21 FEBBRAIO 2006 n. 49: LE NUOVE FATTISPECIE PENALI Relazione di Giuseppe AMATO, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Roma- Direzione distrettuale antimafia Introduzione.- Con il decreto legge 30 dicembre 2005 n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 è cambiata la disciplina sanzionatoria penale e amministrativa delle sostanze stupefacenti (v., rispettivamente, gli articoli 73 e 75 del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, comparati ora, da un lato, con il nuovo articolo 73, e, dall'altro, con i nuovi articoli 75 e 75 bis). In realtà, la modifica, pur fortemente ridotta rispetto al contenuto del primigenio progetto governativo, ha riguardato anche altri settori della disciplina. Basti pensare al settore del recupero, dove con una scelta totalmente innovativa, viene configurata una sostanziale parificazione delle strutture private a quelle pubbliche, attribuendosi alle prime finanche la competenza a certificare lo stato di tossicodipendenza (con effetti giuridicamente rilevanti, ad esempio, in materia di misure cautelari personali, di sospensione dell'esecuzione della pena e di affidamento in prova: cfr., rispettivamente, gli articoli 89, 90 e segg. e 94 del dpr n. 309/90). Basti pensare alle modifiche introdotte nella fase dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti del detenuto tossicodipendente, con un significativo ampliamento dell'ambito di operatività degli istituti della sospensione dell'esecuzione della pena detentiva (articoli 90-93 del dpr n. 309/90) e dell'affidamento in prova (articolo 94 del dpr n. 309/90), ispirate ad accentuarne l'utilizzo per favorire e/o premiare il recupero e la riabilitazione. Basti pensare, ancora, alle incisive modifiche che caratterizzano anche la disciplina dei poteri investigativi attribuiti alla polizia giudiziaria: in particolare, con la previsione di una più adeguata e completa disciplina dell'"acquisto simulato" di sostanze stupefacenti (v. articolo 97 del dpr n. 309/90). Qui, per corrispondere anche al tema della relazione, ci si vuole limitare alla ricostruzione delle modifiche che hanno riguardato l’intervenuta parificazione delle sostanze stupefacenti (tutte le sostanze vietate sono inserite nella tabella I ed hanno eguale trattamemto sanzionatorio) e la prevista “normativizzazione” dei parametri indiziari (articolo 73, comma 1 bis, lettera a), del dpr n. 309/90) utilizzabili per la dimostrazione della destinazione “illecita” della sostanza stupefacente in presenza di condotte (acquisto, ricezione, importazione, esportazione, detenzione) ex se non “autoevidentemente” dimostrative di tale destinazione. Una riflessione sarà poi sviluppata a proposito degli effetti del novum normativo sulla disciplina dell’attenuante del “fatto di lieve entità” (effetti della disciplina introdotta dalla coeva legge c.d. ex Cirielli e disciplina del lavoro di pubblica utilità introdotta con l’articolo 73, comma 5 bis, del dpr n. 309/90). La modifica sulla disciplina sanzionatoria.- Come si è accennato, la riforma introdotta nel 2006 ha toccato, principalmente ed incisivamente, la disciplina sanzionatoria penale e amministrativa

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delle sostanze stupefacenti (v., rispettivamente, gli articoli 73 e 75 del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, comparati ora, da un lato, con il nuovo articolo 73, e, dall'altro, con i nuovi articoli 75 e 75 bis). Per cogliere appieno la portata e la finalità della riforma sarebbe necessario un adeguato apprezzamento della disciplina finora vigente (che è contenuta nel dpr n. 309 del 1990, nel testo, peraltro, profondamente modificato a seguito degli esiti del referendum del 18/19 aprile 1993) e di quella che l'ha preceduta (cfr. la legge 22 dicembre 1975 n. 685). Per ovvie ragioni di sintesi, qui è sufficiente un sintetico richiamo alla disciplina del 1990, come originariamente costruita e come successivamente riformulata a seguito della consultazione referendaria del 1993. La disciplina del 1990.- Il sistema sanzionatorio dettagliato nel dpr n. 309/90, come si ricorderà, trovava il suo fondamento nel concetto di "dose media giornaliera" (individuata, per ogni sostanza, con il decreto ministeriale n. 186/90) e nella modulazione della risposta sanzionatoria attraverso la previsione di sanzioni amministrative (articoli 75 e 76) e di sanzioni penali (articolo 73). Le condotte caratterizzate dalla destinazione a terzi della sostanza stupefacente avevano rilevanza penale a prescindere dal quantitativo della sostanza (anche se inferiore alla dose media giornaliera). Rilevanza penale avevano, altresì, le condotte (importazione, acquisto, detenzione) pur non destinate ex se a terzi, qualora il quantitativo fosse stato superiore alla dose media giornaliera. Rilevanza amministrativa avevano, quindi, residualmente, solo le condotte di importazione, acquisto e detenzione caratterizzate dall'uso personale e da un quantitativo non superiore alla dose media giornaliera. La risposta sanzionatoria amministrativa era diversificata: in prima battuta, vi erano le sanzioni applicabili dal prefetto (articolo 75); in seconda battuta, erano previste sanzioni, sempre di natura amministrativa, ma più incisive, di competenza dell' autorità giudiziaria, irrogabili nei confronti dei recidivi e di coloro che avessero trasgredito i provvedimenti prefettizi. Ne derivava, in sintesi, un sistema sanzionatorio che presentava l' indubbio vantaggio della certezza applicativa, proprio in quanto basato su un parametro rigorosamente oggettivo e facilmente accertabile, quale quello della dose media giornaliera. Il referendum del 18/19 aprile 1993 ha radicalmente cambiato la prospettiva applicativa, avendo abrogato, per quanto interessa, vuoi il concetto giuridico di dose media giornaliera, vuoi, integralmente, le sanzioni amministrative di competenza dell'autorità giudiziaria (articolo 76). Ne è derivata una indubbia incertezza nell'applicazione della disciplina sanzionatoria nei casi non caratterizzati obiettivamente dalla destinazione a terzi della sostanza. Ne è derivato, inoltre, un sistema sanzionatorio amministrativo carente, per l'inidoneità delle solo sanzioni prefettizie a contrastare le condotte recidivanti e più gravi, e non in grado da funzionare come indiretta pressione psicologica nei confronti del trasgressore per indurlo, proprio per evitare l'applicazione delle sanzioni, a sottoporsi ad un programma terapeutico di riabilitazione e di recupero. Il funzionamento della disciplina degli stupefacenti dopo il referendum.- In sintesi, il sistema normativo del 1990, dopo gli effetti abrogativi determinati dal referendum, ha finora funzionato attraverso l'interpretazione della giurisprudenza e sulla base dei seguenti principi: a) quello del divieto penalmente sanzionato di qualsivoglia attività concernente gli stupefacenti non volta all'uso personale, ma di cui si fosse positivamente dimostrata la destinazione delle sostanze a terzi; e ciò a prescindere dal quantitativo della sostanza stupefacente (articolo 73 del dpr n. 309/90); b) quello del divieto amministrativamente sanzionato delle attività di importazione, di acquisto e comunque di detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope destinate all'uso esclusivamente personale; per queste, a prescindere dal quantitativo della sostanza stupefacente e nel difetto di una

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prova concreta della destinazione, anche solo parziale, della sostanza a terzi, trovava applicazione il disposto dell'articolo 75 del dpr n. 309/90. c) la previsione della sola competenza del prefetto nell'applicazione delle sanzioni amministrative (articolo 75 del dpr n. 309/90), essendo stato eliminato l'originariamente previsto ulteriore intervento da parte dell'autorità giudiziaria, diretto a colpire più incisivamente il trasgressore recidivo (articolo 76 dello stesso Dpr, abrogato in toto per effetto del referendum). La destinazione della droga: natura giuridica e onere della prova.- Il sistema come sopra costruito determinava che, per la configurabilità del delitto previsto e punito dall'articolo 73 del dpr n. 309/90, occorreva la concreta dimostrazione della destinazione a terzi della sostanza stupefacente, costituendo tale destinazione uno degli "elementi costitutivi" del reato de quo. In una tale ottica, secondo l'opinione prevalente e preferibile, il relativo onere probatorio doveva ritenersi posto a carico dell'accusa (in prima battuta, l'operatore di polizia, e, poi, il pubblico ministero), non essendo l'interessato a dover giustificare la destinazione all'uso personale (tra le altre, Cassazione, Sezione VI, 29 aprile 2003, Pezzella; Sezione VI, 2 novembre 2004, Sandri). E, nella medesima ottica, l'interessato aveva, semmai, semplicemente l'onere di fornire elementi di segno contrario rispetto all'impostazione accusatoria; quindi, elementi atti a dimostrare l'uso personale e, comunque, ad escludere la finalità di spaccio. Le conseguenze pratiche.- Ai fini della soddisfazione del menzionato onere probatorio in ordine alla destinazione a terzi della droga, secondo la giurisprudenza assolutamente costante, occorreva avere riguardo alle peculiari caratteristiche della fattispecie concreta, perchè da queste potevano e dovevano ricavarsi elementi indiziari utili ai fini della dimostrazione della finalità di spaccio. Ovviamente un problema di concreta acquisizione della prova della destinazione a terzi si poteva porre solo per le situazioni non caratterizzate da un accertamento in flagranza dell'attività di spaccio, giacchè questo risolveva ab imis ogni problema probatorio e deponeva per la pacifica applicabilità delle sanzioni penali di cui all'articolo 73 del dpr n. 309/90. In altri termini, la flagranza dello spaccio costituiva circostanza fattuale ex se ampiamente satisfattiva del richiamato onere probatorio, tale da potere fondare un giudizio positivo sulla sussistenza della responsabilità penale. Invece, per le condotte in cui mancava la flagranza dello spaccio l'onere posto a carico dell'accusa di dimostrare che la sostanza non era detenuta per uso personale, ma per finalità di spaccio, doveva essere assolto ricercando, nel caso concreto, elementi indiziari o probatori di supporto. In altri termini, nel caso in cui difettava la sorpresa in flagranza, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza stupefacente allo spaccio doveva essere effettuata dal giudice tenendo conto di tutte le circostanze soggettive ed oggettive del fatto incriminato. Al riguardo, il più importante elemento probatorio di cui si poteva disporre era quello "quantitativo": la presenza di quantitativi esorbitanti di sostanza stupefacente dimostrava esaustivamente, o poteva concorrere a dimostrare, che questa non era certamente destinata all'uso personale esclusivo del detentore, ma, almeno in parte, era destinata anche a terzi: di tale che risultava possibile contestare idoneamente l'articolo 73. In presenza di una quantità di sostanza stupefacente non elevata, il referente quantitativo, ovviamente, non poteva essere da solo idoneo a risolvere il problema della prova della destinazione a terzi della sostanza stupefacente: in tale ipotesi, dovevano soccorrere "altri eventuali elementi indiziari" ricavabili dalle specifiche modalità, oggettive e soggettive, della vicenda. In primo luogo, erano utilizzabili parametri di riferimento di ordine "soggettivo", tra i quali particolarmente significativi quelli basati sulla "qualità soggettiva del detentore" (tossicodipendente o no) e sul "giudizio di compatibilità tra le condizioni economiche dello stesso e la detenzione della droga". Per quanto concerne il primo, costituiva argomento probatoriamente importante la circostanza che la droga fosse stata trovata nella disponibilità di un soggetto non dedito all'assunzione della medesima, rappresentando tale dato fattuale un indizio decisivo per ritenerla

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destinata allo spaccio. Per quanto concerne il secondo, l'assenza di una dimostrata attività lavorativa e, comunque, di una sicura fonte di reddito poteva indurre fondatamente a ritenere che la droga, cioè il commercio di essa, costituisse la fonte (principale, se non esclusiva) di reddito del detentore, che proprio attraverso lo spaccio si procurava anche i mezzi di sussistenza. Altri elementi indiziari, di natura stavolta "oggettiva", a supporto della destinazione della sostanza a terzi potevano poi ricavarsi, per esempio: dalle "modalità di custodia" e dal "frazionamento in dosi" della droga; dalle "modalità spazio-temporali del sequestro" della medesima; dal "ritrovamento di sostanze stupefacenti di diversa natura"; dal "ritrovamento di notevoli quantitativi di sostanza da taglio", ecc. Le difficoltà operative.- Il sistema finora vigente ha presentato alcune evidenti insufficienze. L' eliminazione di un parametro oggettivo e predeterminato (la dose media giornaliera) e la costruzione di un sistema in cui la prova della destinazione a terzi, in assenza di flagranza, andava ricavata sulla base di elementi indiziari frutto di mera interpretazione giurisprudenziale hanno determinato indiscutibili difficoltà operative per le forze dell'ordine, le quali, nell'immediato, dovevano scegliere se coltivare la strada amministrativa (segnalazione al prefetto) ovvero quella penale (denuncia all'autorità giudiziaria; scelta tra la denuncia a piede libero e l'arresto in flagranza, ecc.). Le stesse ragioni hanno favorito, anche nel prosieguo, il rischio di un ingiustificato margine di eccessiva discrezionalità in capo all'autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi sulla vicenda: da cui le non infrequenti polemiche indotte da sentenze di assoluzione argomentate sulla base di un preteso uso personale e ciò pur in ipotesi di detenzione di quantitativi di droga anche di una certa consistenza. L'eliminazione delle sanzioni di cui all'articolo 76 del dpr n. 309/90, inoltre, ha fatto sì che il sistema risultasse, sul versante sanzionatorio amministrativo, monco ed insufficiente, soprattutto in un'ottica preventiva: è venuta meno, infatti, la rappresentazione di uno strumentario sanzionatorio realmente idoneo a determinare il trasgressore, proprio per evitarne l'applicazione, a seguire un programma terapeutico di riabilitazione e di recupero. E' per colmare queste lacune che si spiega l'intervento normativo del 2006, che ha operato sia sul versante dell’illecito penale, che su quello della risposta sanzionatoria amministrativa. Il nuovo sistema sanzionatorio.- Il sistema è stato ancora una volta costruito affiancando alle sanzioni penali (articolo 73) quelle amministrative (articoli 75 e 75 bis). Rispetto alle prime, come vedremo, ci si è mossi con l'intenzione di conferire alle forze dell'ordine, in prima battuta, ed all'autorità giudiziaria, poi, uno spazio di intervento più oggettivo e sicuro, diverso da quello ampiamente discrezionale che ha caratterizzato l'applicazione del dpr n. 309/90 dopo le modifiche referendarie. In questa prospettiva, si è operato attraverso l'introduzione all'interno della norma dei criteri "indiziari" che, finora, solo attraverso l'interpretazione della giurisprudenza, sono stati utilizzati per fondare probatoriamente la dimostrazione della destinazione della sostanza ad un uso diverso da quello personale (cfr. articolo 73, comma 1 bis, lettera a)). Il sistema amministrativo, invece, è stato costruito, con la duplice intenzione, da un lato, di rafforzare lo strumentario sanzionatorio, nella prospettiva di creare un meccanismo più efficace anche in chiave di recupero del tossicodipendente (sub specie, dell' indiretta pressione psicologica nei confronti del trasgressore per indurlo all'accettazione del programma terapeutico di riabilitazione e di recupero), e, dall'altro, di sanzionare efficacemente le condotte oggettivamente o soggettivamente più pericolose per la sicurezza pubblica (cfr. il "nuovo" articolo 75 bis). Solo le sanzioni penali saranno oggetto di disamina in questa sede; del tutto ultroneo rispetto al tema della relazione sarebbe l’affrontare anche la disciplina delle sanioni amministrative.

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L'assimilazione delle "droghe leggere" a quelle "pesanti".- Prima di esaminare il concreto funzionamento del progettato sistema sanzionatorio penale, va segnalata un' importante modifica che caratterizza le tabelle delle sostanze e il conseguente trattamento sanzionatorio delle stesse. Fino alla riforma del 2006, come è noto, le sostanze soggette a controllo erano state ripartite in sei tabelle, approvate con il decreto ministeriale 23 agosto 1977, e successivamente, più volte, modificate ed integrate (cfr. il testo previgente degli articoli 13 e 14 del dpr n. 309/90). Nelle tabelle I e III, erano state ricomprese le «droghe pesanti», cioè quelle in grado di produrre effetti sul sistema nervoso centrale e di determinare dipendenza fisica o psichica nell’assuntore: tra queste, l’oppio e i suoi derivati; le foglie di coca e i suoi alcaloidi; le anfetamine ad azione eccitante sul sistema nervoso (tra le quali l’ecstasy o MDMA); il tetraidrocannabinolo (che è il principio attivo dell’hashish) e i suoi analoghi; i barbiturici ad alto effetto ipnotico e sedativo. Nelle tabelle II e IV, erano state elencate, invece, le «droghe leggere», per le quali i pericoli di induzione di dipendenza fisica e psichica sono di intensità e gravità minori di quelli prodotti dalle sostanze elencate nelle tabelle I e III: tra queste, la cannabis indica e i suoi derivati (hashish, marijuana) e i prodotti di corrente impiego terapeutico che, presentando nella loro composizione talune delle sostanze indicate nelle tabelle I e III, potevano presentare problemi di dipendenza. Nelle tabelle V e VI, infine, erano stati inseriti dei prodotti usati con finalità terapeutica, i quali, per il fatto di contenere talune delle sostanze di cui alle precedenti tabelle, potevano dare luogo al pericolo di abuso ed alla possibilità di dipendenza e che, comunque, era opportuno sottoporre a controllo da parte dell’autorità: tra questi, gli ansiolitici, gli antidepressivi e gli psicostimolanti. Con la riforma del 2006, in vero, con un notevole mutamento di prospettiva, scompare la differenziazione tra "droghe pesanti" e "droghe leggere", le quali, quindi, sono parificate sono il profilo sanzionatorio (cfr. i "nuovi" articoli 13 e 14 del dpr n. 309/90). Tutte le sostanze vietate (che non trovano nessun impiego terapeutico e che, quindi, non possono essere prescritte) sono ricomprese in un'unica tabella (tabella I): nella stessa tabella, per intenderci, sono collocati indifferenziatamente l'oppio, le foglie di coca, la cannabis indica e le amfetamine. In un'altra tabella (tabella II, suddivisa in cinque differenti sezioni: numerate dalla A alla E) sono invece inseriti i medicinali regolarmente registrati in Italia contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope e che, come tali, pur avendo proprietà curative, possono diventare oggetto d'abuso. Tra questi, in particolare, sono ricompresi (sezione A della tabella II) i medicinali impiegati nella cosiddetta "terapia del dolore" (allegato III bis al dpr n. 309/90) ed altre sostanze che spesso sono impiegate come sostanze di abuso, potendo per l'effetto indurre una dipendenza fisica e psichica sostanzialmente paragonabile a quella delle sostanze vietate di cui alla tabella I. Per questi medicinali, come vedremo, è prevista una sostanziale assimilazione alle sostanze vietate di cui alla tabella I, nel senso dell'assoggettabilità a sanzione penale, anziché a mera sanzione amministrativa, anche della mera condotta di detenzione in assenza della prescrizione medica o in quantitativo superiore a quello prescritto (cfr. articolo 73, comma 1 bis, lettera b), del dpr n. 309/90). L'assimilazione tra "droghe pesanti" e "droghe leggere" è stata motivata, nella relazione di accompagnamento al progetto di legge governativo, dall'esigenza di aderire alle "più recenti ed accreditate conclusioni della scienza tossicologica" secondo cui il principio attivo presente in alcune sostanze stupefacenti è "incomparabilmente" maggiore che in passato: ciò è stato apprezzato soprattutto con riguardo alla cannabis, rispetto alla quale, normalmente a motivo di diversificate modalità di coltivazione, il principio attivo (tetraidrocannabinolo o THC) è passato dallo 0,5/1,5 per cento che caratterizzava i derivati della cannabis negli anni 70/80 a valori attuali pari al 20/25 per cento, con punte anche superiori. Tale assimilazione è frutto di una scelta discrezionale del legislatore basata sull'adesione ad una determinata opinione scientifica, cui ovviamente può opporsi, in sede di analisi e di commento, l'opinione opposta basata sulla non assimilabilità delle sostanze sotto il profilo della gravità degli effetti che queste sono in grado di determinare.

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Entrambe le opinioni non presentano, ovviamente, carattere risolutivo per smentire la fondatezza di quella opposta, onde ogni approfondimento in questa sede sarebbe del tutto sterile. Piuttosto, preso atto della scelta fatta propria dal legislatore, va considerato che per compensare l'oggettivo aggravamento del trattamento che ne deriva per le ex "droghe leggere", sicuramente apprezzabile, nell'ottica della valutazione dell'equilibrio sanzionatorio complessivo, si presenta la scelta "compensativa" di ridurre i minimi edittali (francamente esorbitanti) dell' originaria formulazione dell'articolo 73, comma 1, tale da consentire al giudice la facoltà di applicare la sanzione in modo adeguato, e ciò con attenzione proprio anche alla "natura" della sostanza oggetto della condotta incriminata (la "riduzione" avvantaggia, come è ovvio, solo le ex "droghe pesanti", per il cui trattamento sanzionatorio il minimo edittale era fissato in otto anni di reclusione). Nella medesima prospettiva, a compensare la scelta di rigore della "parificazione" tra le sostanze, si è intervenuti sulla circostanza attenuante del fatto di lieve entità, introducendo, con scelta di indiscutibile favore, la possibilità di applicare, anziché le pene detentiva e pecuniaria, quella del lavoro di pubblica utilità (articolo 73, comma 5 bis, del dpr n. 309/90). A ciò dovendosi aggiungere una ulteriore considerazione, che riguarda il trattamento sanzionatorio da applicare a chi venga trovato in possesso di sostanze stupefacenti di tipo e natura diversa. In precedenza, poiché le fattispecie di cui agli originari commi 1 e 4 dell'articolo 73, dedicati rispettivamente alle droghe "pesanti" ed a quelle "leggere", configuravano due distinte figure di reato, chi veniva trovato in possesso di droghe "pesanti" e di droghe "leggere" rispondeva di due diversi reati, uniti sotto il vincolo della continuazione: ergo, con la pena prevista per la più grave fattispecie di cui al comma 1, aumentata "sino al triplo" per la violazione anche del comma 4. La modifica determina, ora, che una condotta di tal genere, sparita la distinzione sanzionatoria basata sul tipo di sostanza, integra un solo reato, dovendosi tenere conto della quantità complessiva delle sostanze detenute solo ai fini del computo dosimetrico della pena: ragionevolmente, ora, a parità di condizioni, il trattamento sanzionatorio può risultare più attenuato proprio perché non trova più applicazione l'istituto della continuazione, che, pur ispirato al favor rei, finisce pur sempre con il determinare, in ragione della pluralità dei reati in contestazione, un aumento della pena base prevista per quello più grave. Il sistema tabellare.- Le considerazioni appena svolte sulla parificazione delle sostanze stupefacenti vietate offrono l’occasione per ricordare che, nel nostro ordinamento, il sistema sanzionatorio degli stupefacenti si basa sul principio tabellare, in forza del quale sono punite (solo) le condotte illecite che riguardino le (sole) sostanze che sono inserite nelle tabelle di cui agli articoli 13 e 14 del dpr n. 309/90. Come si è visto, con la riforma del 2006, le sostanze soggette a controllo sono state suddivise in due sole tabelle (rispetto alle sei che caratterizzavano la disciplina originaria), attribuendosi al Ministero della salute il compito di formare, modificare, implementare tali tabelle (articolo 13 del dpr n. 309/90). L’avere rimesso al Ministro della salute, e cioè ad un’autorità amministrativa, la competenza circa la formazione e la modifica delle tabelle determina la costruzione delle fattispecie penali in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope come «norme penali in bianco», nelle quali la sanzione è determinata con atto legislativo, mentre la condotta illecita è solo in parte descritta, dovendo essere specificata dal decreto ministeriale disciplinante le singole sostanze (e lo stesso vale, mutatis mutandis, per gli illeciti amministrativi). Non ricorre, a nostro avviso, alcuna violazione del principio costituzionale della legalità della pena, stabilito dall’articolo 25, comma 2, della Costituzione, in quanto, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza 23 marzo 1996 n. 26), per il rispetto di questo è necessario che sia soltanto la legge (o un atto equiparato) dello Stato a stabilire con quale misura debba essere repressa la trasgressione dei precetti che vuole sanzionati penalmente ed è altresì necessario e sufficiente che sia una legge dello Stato (o un atto equiparato) – non importa se proprio la

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medesima legge che prevede la sanzione penale o un’altra legge – ad indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena. Il che, senza dubbio alcuno, si verifica nel caso di specie, in quanto gli articoli 13 e 14 del dpr n. 309/90 contengono un’ analitica indicazione dei criteri cui il Ministro della salute deve fare riferimento per l’identificazione delle singole sostanze, prevedendo altresì un garantito modo di approvazione del decreto ministeriale, presupponente l'intervento consultivo di altri organi tecnico-amministrativi. Qualsiasi altra più rigorosa disciplina appesantirebbe il sistema, rendendo tra l’altro impossibile quel tempestivo aggiornamento degli elenchi, in relazione alla rapida evoluzione delle acquisizioni scientifiche ed alle eventuali convenzioni internazionali, che è tenuto in particolare considerazione dalla legge (v. articolo 13, comma 2, del dpr n. 309/90) per garantire una pronta ed uniforme risposta sanzionatoria al fenomeno degli stupefacenti (ciò che spiega l'opportuno snellimento della procedura di aggiornamento, attraverso la riduzione del numero degli organi coinvolti, che è stato realizzato con la legge di riforma). L'adozione del sistema tabellare delle sostanze assoggettate a controllo determina, come è ovvio, che possono essere sanzionate, sia penalmente che amministrativamente, solo le condotte che riguardino sostanze inserite nelle tabelle. Il sistema repressivo delle sostanze stupefacente, infatti, è qualificato dall'assenza di una nozione onnicomprensiva di "sostanza stupefacente", risultando piuttosto costruito sul principio delle "tabelle" delle sostanze vietate: di guisa che sono da considerare "sostanze stupefacenti", come tali sottoposte a controllo e, nel caso, vietate, solo quelle che risultano espressamente inserite nelle "tabelle" allegate alla legge, le quali assolvono alla funzione di "integrare" la norma incriminatrice nella parte relativa all'individuazione dell'oggetto materiale della condotta (e lo stesso vale, mutatis mutandis, per l’illecito amministrativo). Da qui, giova ribadirlo, la necessità del completo e tempestivo aggiornamento di queste, per evitare l'effetto della punibilità delle condotte riguardanti sostanze che, pur pericolose, non siano state tabellarizzate. Da qui, conseguentemente, le problematiche insorte nella pratica giudiziaria in relazione a vicenda relative a sostanze stupefacenti non (ancora) tabellarizzate (v., in passato, per la pianta della catha edulis, solo di recente inserita nella tabella I delle sostanze vietate, così come il principio attivo della catina da essa estraibile: cfr. Cassazione, Sezione VI, 23 giugno 2003, Hassan Osman, e Sezione IV, 18 aprile 2005, Hassan ed altro; di recente, per i semi della rosa hawaiana: cfr. Cassazione, Sezione I, 16 febbraio 2007, Barbieri). Il problema si pone in tutta la sua emergenza per le cosiddette nuove droghe (droghe sintetiche e droghe etniche) e per le smart drugs (sostanze per lo più naturali, ma anche sintetiche, in libera vendita negli smart shops o su internet, che tuttavia producono effetti stimolanti ed allucinogeni simili a quelli delle sostanze vietate) (di recente, opportunamente, il Ministero della salute si è attivato per inserire tra le sostanze vietate alcune piante contenenti LSA – amide di acido lisergico, finora in libera vendita, i cui semi masticati sono in grado di provocare allucinazioni simili a quelli dell’LSD: argyreia nervosa o rosa hawaiana, ipomea violacea e rivea corymbosa). I fatti di rilievo penale.- Per il discrimine tra fatti di mero rilievo amministrativo e fatti di rilievo penale sono stati introdotti parametri di riferimento, variamente combinati tra loro, correlati alla destinazione della sostanza, al quantitativo della stessa ed alle modalità complessive della condotta. Ciò per l'evidente scopo di evitare quelle incertezze operative determinate dal sistema finora vigente, come modificato a seguito del referendum del 1993, che, come si è accennato, ha funzionato attraverso il conferimento di un margine discrezionale di valutazione notevolmente ampio quando il fatto "attenzionato" non fosse stato caratterizzato oggettivamente dalla destinazione della sostanza a terzi accertata nella flagranza. La norma di immediato riferimento è quella contenuta nell'articolo 73, dove trovano la loro

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disciplina sanzionatoria le condotte illecite riguardanti sia le sostanze stupefacenti tout court vietate, sia le sostanze medicinali suscettibili di abuso. Si distingue, infatti, quanto al trattamento sanzionatorio, tra le sostanze vietate di cui alla tabella I (cfr., in particolare, articolo 73, commi 1 e 1 bis, lettera a)) e quelle medicinali incluse nella tabella II (cfr. articolo 73, commi 1 bis, lettera b), e 4). Tra queste ultime, un regime di maggiore rigore è configurato solo per quelle di cui alle Sezioni A, B e C, maggiormente pericolose per gli effetti di abuso che ne possono derivare. In particolare: per tutte queste sostanze medicinali, è configurata come reato la commissione di una condotta di spaccio o, comunque, di destinazione a terzi, così come per le sostanze tout court vietate di cui alla tabella I (la pena è comunque diminuita da un terzo alla metà) (articolo 73, comma 4); solo le sostanze di cui alla Sezione A sono poi sostanzialmente parificate al trattamento delle sostanze vietate di cui alla tabella I anche per quanto attiene la mera detenzione (e condotte assimilabili, perché non qualificate ex se dalla destinazione a terzi ovvero "ad un uso non esclusivamente personale": importazione, esportazione, acquisto, ricezione), nel caso in cui il quantitativo risulti esorbitante da quello legittimamente prescritto dal sanitario (articolo 73, comma 1 bis, lettera b)) (anche in questo caso, la pena è diminuita da un terzo alla metà). Il novum sanzionatorio penale, quindi, è opportunamente diversificato a seconda che la condotta incriminata riguardi le sostanze vietate di cui alla tabella I ovvero i medicinali suscettibili di possibile abuso di cui alla tabella II, Sezioni A, B e C. Le sanzioni penali: le sostanze vietate.- Quanto alle "sostanze vietate di cui alla tabella I", che non trovano alcun impiego terapeutico e che, quindi, non possono essere prescritte, vale quanto segue. Le condotte caratterizzate "oggettivamente" dalla destinazione a terzi.- Viene, in primo luogo, ovviamente ribadita anche nel sistema introdotto con la legge di riforma del 2006 la rilevanza penale delle condotte che si caratterizzano per la destinazione a terzi, a prescindere dal quantitativo della sostanza che ne costituisce l'oggetto (articolo 73, comma 1). Sotto questo profilo non vi sono novità rispetto al sistema previgente. Solo per due condotte ricomprese nel comma 1 si impone qualche precisazione. Intendiamo riferirci alle condotte di coltivazione e di trasporto, che ex se non sono autoevidentemente dimostrative della destinazione illecita (ad un uso non esclusivamente personale) della droga. La coltivazione.- Quanto alla coltivazione è da rilevare che trattasi di condotta che, anche dopo il novum normativo del 2006, con scelta evidentemente consapevole del legislatore, non è richiamata né nell'articolo 73, comma 1 bis, né nell'articolo 75, comma 1, ma solo nel comma 1 dell'articolo 73. In buona sostanza, il legislatore ha voluto attribuire scientemente a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale, quale che sia la dimensione della piantagione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dai fiori, dalle foglie, ecc. delle piante da stupefacenti. In tal senso, in effetti, possono trovarsi spunti anche nella disamina dei lavori preparatori. Il legislatore ha finito con l’aderire, quindi, all' opinione giurisprudenziale prevalente (tra le tante, di recente, Cassazione, Sezione IV, 15 novembre 2005, D’Ambrosio; Sezione IV, 19 gennaio 2006, Colantoni), fatta propria anche dalla Corte costituzionale (sentenza 24 luglio 1995 n. 360), secondo cui la condotta di coltivazione è intrinsecamente più grave rispetto a quella di mera detenzione, perché comunque aumenta il quantitativo di droga circolante, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave (ergo, rilevanza sempre penale della relativa condotta ed esclusione di qualsivoglia spazio per un intervento sanzionatorio solo amministrativo ex articolo 75

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del dpr n. 309/90, pur in presenza di coltivazioni di modestissime dimensione, rispetto alle quali inconcepibile sarebbe una destinazione al mercato del ricavato). Trattasi di impostazione che, per vero, è stata ribadita ancora più di recente, essendosi (ri)affermato che l’attività di coltivazione, in base al comma 1 dell’articolo 73 del dpr 9 ottobre 1990 n. 309, come modificato con il decreto legge 30 dicembre 2005 n. 272, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 (e analogamente a quanto previsto prima di tale riforma in base al combinato disposto dei previgenti articoli 26, 73 e 75 del medesimo dpr), è vietata e sanzionata penalmente anche qualora la finalità dell’agente sia di destinare il prodotto della coltivazione a consumo personale (Cassazione, Sezione VI, 15 febbraio 2007, Casciano, in una fattispecie nella quale la Corte ha quindi rigettato il ricorso avverso la sentenza di condanna pronunciata in una vicenda in cui si contestava all’imputato, tra l’altro, la coltivazione di 14 piante di marijuana). Questa prospettiva di rigore è parsa [già nella vigenza del testo originario del dpr n. 309/90] e pare tuttora [anche dopo le modifiche del 2006] eccessiva almeno rispetto alle condotte di coltivazione "domestica" di poche piantine, destinate a consentire il ricavo di modestissimi quantitativi di principio attivo, giacchè il rischio di destinazione a terzi è pressochè nullo (anzi, non è proprio articolabile alcuna prova di "un uso non esclusivamente personale" del ricavato della coltivazione) e parimenti nullo è il rischio per la salute individuale del coltivatore-assuntore. Da qui la necessità (per ragioni essenzialmente di equità e di ragionevolezza del trattamento sanzionatorio) di trovare, in via interpretativa, una soluzione equilibrata che, senza porsi in contrasto con la rilevata intenzione del legislatore e senza smentire l'autorevole fondamento dell'orientamento giurisprudenziale dominante cui il legislatore ha evidentemente fatto richiamo, possa consentire di escludere la sanzionabilità penale della condotta di "coltivazione" di pochissime piante da stupefacente, chiaramente finalizzata solo a soddisfare l'uso personale del coltivatore. Una soluzione equilibrata poteva e può essere tuttora rinvenuta distinguendo la coltivazione intesa in senso "tecnico-agrario", quale espressamente presa in considerazione e disciplinata negli articoli 26-28 del dpr n. 309/90, dalla modesta attività di coltivazione c.d. "domestica", che si sostanzia nella messa a dimora da parte di un tossicodipendente "in vasi detenuti nella propria abitazione di alcune piantine di sostanze stupefacenti o psicotrope". In questo ultimo caso, infatti, si potrebbe fondatamente sostenere che si è al di fuori della nozione di coltivazione presa in considerazione negli articoli 26-28 del dpr citato, di guisa che la condotta potrebbe essere inclusa "estensivamente" in un'ipotesi di detenzione colpita solo con sanzioni amministrative a norma dell'articolo 75 dello stesso dpr, se ed in quanto difettino elementi che possano far ritenere dimostrata una destinazione del ricavato della coltivazione "ad un uso non esclusivamente personale". Ergo, elementi che possano consentire all’accusa di soddisfare l’onere probatorio della destinazione illecita della sostanza stupefacente ai fini della idonea contestabilità del reato di cui all’articolo 73 del dpr n. 309/90. Questa tesi interpretativa ha di recente trovato un importante avallo nella giurisprudenza della Cassazione (Sezione VI, 18 gennaio 2007, Notaro; in termini, v. anche Sezione VI, 20 giugno 2007, Proc. Rep. min. Sassari in proc. Satta), laddove si è attribuita dignità alla richiamata nozione di “coltivazione domestica”. Trattasi di interpretazione che, lungi dal risolversi in un vulnus alla impostazione di rigore della normativa sanzionatoria degli stupefacenti, ribadita con forza anche dal legislatore del 2006, evita il risultato irragionevole di punire sempre e comunque il modesto autocoltivatore di quantitativi irrisori, destinati appunto a soddisfare il proprio fabbisogno personale, anche in situazioni nelle quali pacifica sarebbe l’irrilevanza penale della condotta quando quel medesimo soggetto fosse – “esaurita” l’attività di coltivazione- sorpreso a detenere il ricavato di tale attività. Resta da aggiungere che, per aversi “coltivazione domestica”, non è certamente necessario che l’attività sia svolta all’interno di una abitazione o su un terrazzo limitrofo; nulla esclude, infatti, che la piantagione sia effettuata in un giardino o in un terreno agricolo, magari neppure contigui all’abitazione del prevenuto. E’ però essenziale che si verta in ipotesi di piantagione oltremodo

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contenuta come dimensioni, tale da consentire il ricavato di quantitativi modesti di sostanza stupefacente, proprio perché solo in tal caso non sarebbe dimostrabile logicamente e giuridicamente la destinazione ad un uso non esclusivamente personale del coltivatore. Solo in tal caso, infatti, l’attività svolta sarebbe priva di quei caratteri che, invece, la sopra citata sentenza della Cassazione ritiene propri della coltivazione in senso tecnico, penalmente rilevante (la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti). Caratteri che, in tutta evidenza, connotano di pericolosità la condotta e giustificano la sanzionabilità penale della medesima. Il trasporto.- Quanto alla condotta di trasporto, si sono formulate da parte di taluno delle perplessità sostenendosi che si tratterebbe di condotta rispetto alla quale non potrebbe escludersi concettualmente la destinazione della sostanza stupefacente ad un uso esclusivamente personale, con conseguente irragionevolezza della mancata previsione di tale condotta tra quelle di possibile rilievo solo amministrativo (articoli 75 e 75 bis del dpr n. 309/90). Trattasi, a nostro avviso, stavolta, di un falso problema, ove si consideri che la fattispecie incriminatrice di cui all’articolo 73 del dpr n. 309/90 è costruita come norma a più fattispecie alternative, con conseguente assorbimento della o delle condotte “minori” quando più condotte siano commesse nello stesso contesto spazio-temporale e riguardino la stessa sostanza stupefacente. Nella stragrande maggioranza dei casi, quindi, la condotta di trasporto non ha una sua autonoma rilevanza sanzionatoria rispetto alla condotta di detenzione o a quella di cessione. Quando invece non ricorrono i presupposti dell’assorbimento e, quindi, la condotta di trasporto conserva una sua autonomia ai fini sanzionatori, risulta empiricamente evidente che deve pur sempre trattarsi di condotta che – per differenziarsi da quella di detenzione, acquisto, importazione, ecc.- deve qualificarsi per avere ad oggetto un quantitativo [così] significativo di droga da implicare necessariamente l’utilizzo di un mezzo di trasporto [risultando evidentemente impraticabile la movimentazione della droga custodendola sulla propria persona o in un bagaglio a mano]: ma proprio la dimensione quantitativa della sostanza stupefacente è indice dimostrativo di una destinazione diversa da quella dell’uso esclusivamente personale. Ciò che esclude ab imis qualsivoglia sostanziale censura di irragionevolezza della disciplina normativa. Le condotte non caratterizzate "oggettivamente" dalla destinazione a terzi.- Viene, poi, prevista la rilevanza penale delle condotte ex se non destinate obiettivamente a terzi (importazione, esportazione, acquisto, ricezione o, comunque, detenzione) che "appaiono", per le modalità oggettive e soggettive ("per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia, sentita la Presidenza del consiglio dei ministri-Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione"), destinate a terzi ovvero, più precisamente, "ad un uso non esclusivamente personale" (articolo 73, comma 1 bis, lettera a). La "normativizzazione" dei criteri indiziari e l'onere della prova dell'illecito penale.- E' questa la vera novità della legge di riforma, che è stata perseguita attraverso la "normativizzazione" dei criteri indiziari attualmente utilizzati, in giurisprudenza, per fondare un giudizio positivo di sussistenza del reato di cui all'articolo 73 del dpr n. 309/90 rispetto alle condotte (acquisto, importazione, detenzione, ecc.) ex se non qualificate oggettivamente dalla destinazione a terzi. Non è dubbio che rimanga tuttora valido, anche nel nuovo sistema, il principio secondo cui la prova della sussistenza della destinazione della sostanza "ad un uso non esclusivamente personale" costituisce un "elemento costitutivo" del reato di cui all'articolo73 e, come tale, è a carico dell'accusa (in prima battuta, l'operatore di polizia, e, poi, il pubblico ministero) (tra le tante, Cassazione, Sezione VI, 2 novembre 2004, Sandri; Sezione IV; 4 giugno 2004, Vidonis).

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L'accusa, peraltro, per soddisfare tale onere probatorio (allorquando la prova non è in re ipsa, siccome dimostrata dalla condotta, oggettivamente caratterizzata dalla destinazione a terzi della sostanza: cfr. il comma 1 dell'articolo 73), trova stavolta un supporto valutativo nei parametri "indiziari" indicati dalla norma: la "quantità" della sostanza (con attribuita rilevanza al superamento dei limiti di principio attivo indicati in apposito decreto ministeriale); le "modalità di presentazione" della sostanza (peso lordo e frazionamento in dosi commerciali); le "circostanze dell'azione" (circostanze oggettive del sequestro; rinvenimento di sostanza da taglio; rinvenimento di "contabilità" attestante il commercio illecito, ecc.) (cfr. il comma 1 bis, lettera a), dell'articolo 73). Rispetto a tale onere probatorio, che l'accusa ritiene soddisfabile argomentando positivamente dai suddetti parametri la destinazione della sostanza "ad un uso non esclusivamente personale", l'interessato ha un "onere di allegazione" di segno contrario, nel senso che può controdedurre elementi probatori a proprio favore, dimostrativi della destinazione della sostanza all'uso esclusivo proprio, sì da poterne fare discendere, con l'insussistenza del fatto incriminato, solo l' applicabilità delle sanzioni amministrative (ora previste dagli articoli 75 e 75 bis del dpr n. 309/90). Ciò, va detto a chiare lettere, non equivale affatto ad invertire l'onere della prova della responsabilità penale, che incombe certamente all'accusa, ma a stabilire i perimetri fattuali entro i quali il giudice può esercitare la sua valutazione, una volta che il fatto portato dall'accusa sia stato provato. Vale, infatti, anche in sede penale quanto stabilito dall'articolo 2697 del codice civile: incombe all'attore (qui, il pubblico ministero, e, prima di lui, l'autorità di polizia) provare i fatti che costituiscono il fondamento della domanda (qui, la dimostrazione della destinazione della droga ad un uso "non esclusivamente personale"); incombe al convenuto (qui, l'indagato/imputato) provare i dati della realtà che rendono inefficaci i fatti addotti dall'attore, ovvero, traducendo il precetto in termini penalistici, i fatti che impediscono la punibilità (qui, la dimostrazione della destinazione della droga ad un uso "esclusivamente personale"). E' ovvio che tale onere allegativo con finalità difensive risulterà tanto più difficile da soddisfare quanto più inequivocamente significativi della destinazione all'uso "non esclusivamente personale" risultino i parametri indiziari richiamati nella disposizione incriminatrice. Per esempio, in presenza di quantitativi significativamente superiori ai limiti di principio attivo indicati nel decreto ministeriale, un soggetto che non sia tossicodipendente ben difficilmente potrebbe sostenere, con buon esito, che trattasi di droga detenuta con finalità di "riserva" e di "accumulo" per il proprio futuro uso personale; sarebbe facile opporre che, almeno per una parte, la droga non può che essere destinata al mercato (ovvero, più specificamente, "ad un uso non esclusivamente personale"), con la conseguente contestabilità del reato di cui all'articolo 73. Mentre, in presenza di quantitativi inferiori o prossimi alla suddetta soglia, non potendo il referente quantitativo essere da solo idoneo a risolvere il problema della prova della destinazione "ad un uso non esclusivamente personale" della sostanza stupefacente, esso dovrà essere supportato dall'accusa con uno, o con più d'uno, degli altri eventuali elementi indiziari ricavabili dalle specifiche modalità, oggettive e soggettive, della vicenda: di guisa che, sempre esemplificando, laddove risultino un accertato frazionamento della droga in dosi commerciali e/o circostanze del sequestro inequivocamente dimostrative di un'attività di spaccio, ben difficilmente l'interessato potrebbe articolare, a propria difesa, un uso personale, che finirebbe con l'essere meramente apodittico ed indimostrato, nonostante un dato quantitativo della sostanza ex se non assorbentemente significativo. La presunzione (solo) relativa desumibile dai parametri indiziari.- E' comunque da ritenere, senza ombra di dubbio, che i criteri indiziari contenuti nell'articolo 73 comma 1 bis, lettera a), possano fondare una presunzione solo relativa (iuris tantum) della destinazione della droga ad un uso non esclusivamente personale.

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Che si tratti di una presunzione solo relativa (e non certo assoluta, tale da non ammettere prova contraria da parte della difesa) lo si desume in primo luogo dalla formulazione letterale della norma, laddove l'utilizzo del verbo "apparire" ("appaiono") dimostra che alla base della ritenuta sussistenza del reato vi deve essere pur sempre un apprezzamento del giudice, il quale, proprio utilizzando (anche, ma non solo: v. infra sul carattere "non esaustivo" dei parametri indiziari) i criteri indiziari, potrà condannare l'imputato se (e solo se) ritenga dimostrata con certezza la destinazione della droga "ad un uso non esclusivamente personale", potendo motivare al riguardo "al di là di ogni ragionevole dubbio" (cfr. articolo 533, comma 1, del Cpp). Lo si desume dalla corretta interpretazione logico-sistematica dei diversi criteri: anche a non voler considerare il criterio indiziario basato sul quantitativo della sostanza (per il quale, in astratto, potrebbe ipotizzarsi una valenza presuntiva assoluta), tutti gli altri non possono che essere valorizzati ai fini indiziari dal necessario apprezzamento giudiziale, non avendo di per sé una significatività autoevidente ed insuscettibile di interpretazioni alternative. Lo si desume ancora dall'iter legislativo, ove si consideri che il disegno di legge governativo, portato all'attenzione degli operatori del settore alla IV^ Conferenza nazionale sui problemi connessi alla diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope (Palermo, 5-7 dicembre 2005), era in origine caratterizzato da una sorta di presunzione assoluta di sussistenza del reato basata sul superamento di una determinata soglia quantitativa. Veniva prevista, infatti, la rilevanza penale anche delle condotte ex se non destinate obiettivamente a terzi (importazione, esportazione, acquisto, ricezione o, comunque, detenzione) quando la sostanza avesse superato una determinata soglia quantitativa: cosicchè il fatto integrava tout court la fattispecie incriminatrice, senza che dovesse dimostrarsi in concreto la destinazione possibile della sostanza allo spaccio e senza che il trasgressore potesse, in contrario, articolare alcuna prova liberatoria tale da consentirgli di eludere l'applicazione delle sanzioni penali. Trattavasi, in effetti, di una sorta di presunzione iuris et de iure che si basava sulla ritenuta pericolosità della condotta, in ragione del quantitativo che ne costituiva l'oggetto materiale, sia per la salute individuale del soggetto, sia per l'ordine pubblico e la salute collettiva. Il testo definitivo è stato però espressamente modificato, proprio attraverso l'eliminazione di tale presunzione assoluta e l' attribuzione di una valenza presuntiva solo relativa (anche, tra gli altri) al parametro indiziario basato sul quantitativo della sostanza stupefacente. Lo si desume, poi, dall'apprezzamento della diversa formulazione del comma 1 bis, lettera b), dello stesso articolo 73, dedicato ai medicinali suscettibili di abuso contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope, rispetto ai quali il reato è tout court integrato in caso di superamento del quantitativo prescritto, senza che vi sia spazio per una prova liberatoria da parte dell'interessato che possa "giustificare" la detenzione "oltre il prescritto" (a ben vedere, qui l'unica allegazione difensiva in grado di vincere la presunzione potrebbe articolarsi sul difetto del dolo, argomentando e dimostrando un errore in cui sia incorso il detentore vuoi sul contenuto della "prescrizione", vuoi sul quantitativo materialmente detenuto). Giova ribadire che, poiché la presunzione ex articolo 73, comma 1 bis, lettera a), è solo relativa, vi può essere spazio per un' allegazione difensiva atta a dimostrare l'inidoneità e la non concludenza della valenza indiziante prospettata dall'accusa, in coerente applicazione dell'articolo 2697 del codice civile. Non vi è, quindi, alcuna inversione dell'onere della prova, ma rispetto alle tesi prospettate dall'accusa (basate sulla riconosciuta valenza indiziante dei parametri) compete all'imputato articolare elementi atti a neutralizzare tale valenza: come già evidenziato, incombe all'imputato (convenuto) provare i fatti che rendono inefficaci (non concludenti) i fatti addotti dal pubblico ministero (attore). La posizione del giudice e la regola dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio".-

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Per cogliere il portato della presunzione relativa, occorre però soffermare l'attenzione sulla posizione che, rispetto ad essa, assume il giudice. La valenza della presunzione relativa va in proposito inevitabilmente apprezzata alla luce del principio dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio" richiesto ai fini della condanna (articolo 533, comma 1, del Cpp, nel testo da ultimo modificato dalla legge n. 46 del 2006: "il giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio"). Ciò significa che la valenza presuntivamente indiziante dei criteri legittima senz'altro la polizia giudiziaria e il pubblico ministero a contestare il reato e può legittimare anche la condanna, purchè però il giudice ritenga che la valenza indiziante superi il vaglio dell' "oltre ogni ragionevole dubbio", dovendo a tal fine apprezzare i criteri indizianti alla luce dell'evidenza disponibile e delle eventuali allegazioni difensive. Così, per intenderci, il giudice potrà condannare in presenza di una condotta di detenzione di un quantitativo di sostanza stupefacente il cui principio attivo risulti superiore al quantitativo massimo indicato in tabella se (e solo se) ritenga di poter motivare, alla luce delle complessive risultanze del caso concreto, "al di là di ogni ragionevole dubbio", che si tratti di droga che "appaia" destinata "ad un uso non esclusivamente personale". Con una motivazione che sarà tanto più approfondita ed analitica quanto più il quantitativo sia prossimo alla soglia indicata in tabella. E' ovvio che, a fronte di una valenza oggettivamente indiziaria dei parametri posti a fondamento dell'accusa, l' eventuale decisione liberatoria del giudice dovrà essere argomentata e motivata adeguatamente, per evitare inaccettabili arbitrii decisori: il giudice, cioè, dovrà giustificare ("in modo rafforzato", proprio a fronte della presenza del compendio indiziario fondato sui parametri normativizzati nell'articolo 73 comma 1 bis, lettera a)) sulla base di quali specifiche ragioni ritenga non raggiunta la prova della colpevolezza e, quindi, dovrà dare contezza degli elementi in forza dei quali consideri neutralizzata e non concludente la valenza indiziaria dei parametri. Sotto questo profilo la "normativizzazione" dei criteri indiziari evita (in ipotesi) tali possibili arbitrii decisori perché vincola la discrezionalità valutativa del giudice. Ciò autorizza a ritenere che tale compendio indiziario, laddove sussistente, può senz'altro essere ritenuto ex se sicuramente satisfattivo ai fini de libertate, ossia ai fini dei "gravi indizi" di cui all' articolo 273 del Cpp, siccome fondante la qualificata probabilità della colpevolezza, pur consentendo anche spiegazione alternative dei fatti (della detenzione e/o delle altre condotte assimilate) attraverso eventuali allegazioni difensive in grado di smentire la valenza accusatoria e di dimostrare positivamente quella destinazione "ad uso esclusivamente personale" della sostanza stupefacente che, prima facie, è smentita proprio dalla presenza di uno o più degli elementi indiziari individuati dalla norma. Mentre, ai fini della condanna, occorre pur sempre applicare la regola di giudizio ex articolo 533, comma 1, del Cpp, onde il giudice può e deve supportare la propria decisione sul compendio indiziario a carico, dando però contezza delle ragioni in forza delle quali questo, alla luce delle emergenze complessive, sia in grado di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la destinazione della sostanza stupefacente "ad un uso non esclusivamente personale". L’assenza di “automatismi” decisori e il rispetto del principio del libero convincimento.- Per l'effetto, deve escludersi qualsivoglia automatismo tra sussistenza del compendio indiziario e condanna Il compendio indiziario può certo essere ritenuto dal giudice satisfattivo ai fini della condanna purchè però soddisfi la regola dell' "oltre ogni ragionevole dubbio". Per esempio, il superamento della soglia -parametro indiziario inequivoco- può essere ritenuto satisfattivo a fini di condanna se e laddove il giudice lo ritenga con certezza dimostrativo della destinazione all'uso non esclusivamente personale, alla luce delle complessive emergenze disponibili.

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Ciò che consente di evitare ingiustificate automatiche condanne, ad esempio, per sforamenti modesti del limite quantitativo in situazioni non qualificate negativamente dagli altri parametri indiziari, ma anzi giustificate dalla qualità di tossicodipendente del prevenuto, tale da probatoriamente dimostrare l'uso esclusivamente personale della droga (si pensi, all'ipotesi del tossicodipendente necessitante di assunzioni ravvicinate e consistenti). Alla costruzione proposta (della “presunzione relativa” basata sull’apprezzamento dei parametri indiziari) ci sembra non si possa obiettare che tale nozione finirebbe con il pregiudicare il principio del libero convincimento (articolo 101, comma 2, della Costituzione) e il diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione). Infatti, la "presunzione relativa" basata sui parametri indiziari va inevitabilmente apprezzata alla luce del principio dell' "al di là di ogni ragionevole dubbio" richiesto ai fini della condanna (articolo 533, comma 1, del Cpp, nel testo da ultimo modificato dalla legge n. 46 del 2006). Ciò significa, ponendosi nell'ottica del giudicante, che questi può e deve tenere conto della valenza presuntivamente indiziante dei criteri, e può fondarvi anche la condanna, purchè però ritenga che tale valenza superi il vaglio dell' "oltre ogni ragionevole dubbio", dovendo a tal fine apprezzare i criteri indizianti alla luce dell'evidenza disponibile e delle eventuali allegazioni difensive. Nessun pregiudizio deriva, quindi, per il principio del libero convincimento: il giudice, infatti, è tenuto a pronunciare la sua sentenza dovendo necessariamente valorizzare, senza limiti preconcetti, tutti gli elementi, oggettivi e soggettivi, ricavabili dalla fattispecie concreta. I parametri indiziari, piuttosto, evitano soluzioni liberatorie arbitrarie, nel senso che, in loro presenza, il giudice dovrà motivare "rafforzatamente", dando contezza delle ragioni che lo inducano a ritenerne "neutralizzata" o non decisivamente significativa la valenza accusatoria. Nessun pregiudizio, poi, deriva per il diritto di difesa, giacchè, come si è argomentato ampiamente, l'onere della prova del reato è pur sempre a carico dell'accusa e l'onere di allegazione che ha la difesa per smentire la valenza indiziante degli elementi "portati" dall'accusa non si risolve in un'inversione dell'onere della prova, risultando solo coerente applicazione della regola di giudizio di cui all'articolo 2697 del codice civile, pacificamente applicabile anche in materia penale. Va poi soggiunto che, diversamente opinando, cioè volendo escludere che i parametri indiziari tratteggiati dall'articolo 73, comma 1 bis, lettera a), fondino una presunzione relativa nei termini e con i limiti di cui si è detto, si arriverebbe alla conclusione francamente inaccoglibile che si tratterebbe di una disposizione normativa inutiliter data. Del resto, non va neppure dimenticato che l'istituto delle "presunzioni" non è ignoto nel diritto penale, essendovi costruite anche varie fattispecie incriminatrici: basti pensare, solo a titolo esemplificativo, alla contravvenzione di cui all'articolo 707 del Cp, laddove il legislatore, in ragione della personalità del prevenuto (condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio), dalla disponibilità diretta ed immediata degli strumenti atti allo scasso fonda "la presunzione" di una probabile utilizzazione illecita di questi, in tal modo non incriminando un mero status, bensì una condotta costituita dal possesso attuale di determinate cose che, quoad personam, inducono al sospetto. Va soggiunto che i "parametri indiziari" rivestono particolare rilievo anche per l'attività della polizia giudiziaria, la quale dai medesimi può trarre elementi sintomatici della destinazione della sostanza stupefacente all'uso non esclusivamente personale, tali da potervi fondare un eventuale provvedimento di arresto in flagranza del trasgressore che regga al vaglio del giudice della convalida. Non va del resto dimenticato di considerare che la valutazione del giudice sulla legittimità dell'arresto, infatti, pur non potendo estendersi all'accertamento dell'esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, deve tuttavia essere intesa alla verifica della sussistenza delle condizioni legittimanti la privazione della libertà personale, condizioni tra le quali deve ritenersi inclusa la configurabilità (non solo astratta) del reato per cui si è proceduto all'arresto e la sua attribuibilità alla persona arresta; con la conseguenza che la semplice detenzione di sostanza stupefacente non legittimerebbe l'arresto in flagranza quando non emergano (non già gravi indizi, bensì) elementi sintomatici della destinazione della sostanza all'uso di terzi.

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La presa di posizione della Cassazione.- Anche la Cassazione si è espressa di recente in termini coerenti con la richiamata costruzione della “presunzione relativa”: Sezione IV; 4 maggio 2007, Proc. Rep. Trib. S. Maria Capua Vetere in proc. Torres, infatti, ha espressamente affermato che i parametri indiziari di cui all’articolo 73, comma 1 bis, lettera a), sono spendibili per la positiva dimostrazione della destinazione illecita (ad un uso non esclusivamente personale) della sostanza stupefacente detenuta, “valendo questi parametri indiziari come una sorta di presunzione relativa di tale destinazione illecita che assume particolare rilievo soprattutto per l’attività della polizia giudiziaria, la quale dai medesimi può trarre elementi sintomatici della destinazione della sostanza stupefacente all’uso non esclusivamente personale, tali da potervi fondare un eventuale provvedimento di arresto in flagranza del trasgressore che regga al vaglio del giudice della convalida”. La valenza probatoria dei criteri indiziari.- Per cogliere appieno la valenza dei criteri indiziari, anche e soprattutto nella prospettiva della decisione del giudice, è importante notare come questi debbano essere intesi come alternativi, complementari e, senz'altro, non esaustivi. Hanno valenza "alternativa", nel senso che anche la presenza di uno solo consente di ipotizzare presuntivamente il reato. L'utilizzo delle disgiuntive "o" e "ovvero" nell'articolo 73, comma 1 bis, lettera a), è in tal senso inequivoco. La valenza alternativa dei parametri è importante soprattutto per correttamente valutare quello della "quantità" della sostanza stupefacente: nel senso che, anche se non si supera il quantitativo di principio attivo indicato nella tabella ministeriale (decreto del Ministro della salute 11 aprile 2006), è pur sempre possibile contestare e ritenere il reato, sulla base della utilizzazione degli altri criteri (ad esempio, sembra indubitabile la possibilità di contestare il reato di cui all'articolo 73 in caso di detenzione di quantitativi "sotto soglia", ma in un contesto oggettivo inequivoco della destinazione ad un uso non esclusivamente personale: sostanza stupefacente frazionata in dosi commerciali, sequestro in un contesto deponente inequivocamente nel senso dello svolgimento di un'attività di spaccio, ecc.). Hanno valenza "complementare", nel senso che, tanto più sono presenti elementi indiziari convergenti, quanto più sarà difficile l'articolazione dell'onere di allegazione difensiva e quanto più potrà ritenersi tale compendio idoneo a giungere alla condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. E' conclusione imposta dalla logica e, del resto, perfettamente in linea vuoi con la natura presuntiva riconosciuta dalla norma ai criteri de quibus, vuoi con l'apprezzato rapporto tra la valenza presuntiva dei criteri e la regola di giudizio richiesta ai fini della condanna. Hanno poi valenza "non esaustiva", nel senso che possono e debbono considerarsi anche altri criteri di valutazione (specie di natura soggettiva) emergenti dalla fattispecie, utilizzabili per corroborare o smentire la valenza indiziante a carico. Si pensi al criterio soggettivo della qualità di tossicodipendente o no del trasgressore ovvero al criterio parimenti soggettivo basato sull'apprezzamento delle condizioni economiche del reo e sulla compatibilità di queste con l'acquisto e il possesso di droga, che possono decisivamente guidare l'apprezzamento del giudice ai fini della decisione, corroborando o, per converso, smentendo la valenza indiziaria dei parametri cui la norma fa esplicito riferimento. Anche questa è una conclusione imposta dal già rilevato rapporto tra la valenza presuntiva dei criteri e la regola di giudizio richiesta ai fini della condanna, la quale ultima, come è ovvio, non ammette limitazioni relativamente agli elementi utilizzabili dal giudice ai fini della formazione del suo convincimento, giusta l'assenza di prove legali in materia penale e il principio del libero convincimento che regola la materia della valutazione della prova. Per converso, pur nella rilevata "non esaustività" dei criteri indiziari, è da escludere che possano rivestire alcun rilievo "indiziante" (neppure ad colorandum) i precedenti penali pur specifici

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dell'interessato: questi, semmai, potrebbero valere, se specifici, solo a supportare il giudizio negativo sulla concedibilità dell'attenuante del fatto di lieve entità (articolo 73, comma 5, del dpr n. 309/90), nella misura in cui la recidiva specifica possa consentire di qualificare come di non lieve offensività una condotta che, per essere stata posta in essere da un pregiudicato specifico, venga ritenuta in concreto sintomatica di un’ attività delinquenziale professionale nello spaccio della droga (cfr., per utili spunti, Cassazione, Sezione IV, 8 febbraio 2005, Proc. gen. App. Firenze in proc. Ramsi). Analogamente, è parimenti da escludere che possa avere rilievo, stavolta nell' ottica di una pronuncia liberatoria, lo stato di incensuratezza dell'interessato, il quale, ex se considerato, non potrebbe certamente valere per neutralizzare la significatività indiziante desumibile aliunde dalle emergenze fattuali della vicenda. I singoli criteri indiziari.- Qualche considerazione si impone in ordine ai singoli criteri indiziari dettati dall'articolo 73, comma 1 bis, lettera a), costruiti nella norma attraverso il riferimento alla "quantità" della sostanza (con attribuita rilevanza al superamento dei limiti di principio attivo indicati in apposito decreto ministeriale), alle "modalità di presentazione" della sostanza (peso lordo complessivo e frazionamento in dosi commerciali) ed alle "circostanze dell'azione" (circostanze oggettive del sequestro; rinvenimento di sostanza da taglio; rinvenimento di "contabilità" attestante il commercio illecito, ecc.). La quantità della droga.- Il criterio della “quantità” è commisurato, in tutta evidenza, al principio attivo rinvenuto nella sostanza. E’ affermazione che non può essere messa in dubbio: se è vero infatti che il convincimento della natura stupefacente della sostanza ben può essere tratto anche da elementi diversi dalla perizia o dal narcotest, quali le ammissioni degli imputati, il contenuto delle intercettazioni, gli accertamenti di polizia o qualsiasi altro elemento di significato univoco (in tal senso, di recente, Cassazione, Sezione IV, 30 novembre 2005, Garuccio; nonché, Sezione IV, 28 ottobre 2005, Secchi), ciò non toglie, peraltro, che per formalizzare una contestazione basata proprio sul parametro indiziario del superamento della soglia quantitativa indicata in tabella, l'accertamento tecnico è ineludibile, non essendo surrogabile con altri mezzi di prova in grado di dimostrare con precisione la percentuale di "principio attivo" contenuta nella sostanza. Relativamente alla valenza da attribuire al criterio della “quantità”, è da sottolineare l’importanza dell'utilizzo nella norma dell'espressione "in particolare" correlata al dato fattuale rappresentato dall'essere la sostanza "superiore" ai limiti massimi stabiliti nell’apposito decreto ministeriale ("per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi…"). Tale formulazione, unita al rilievo che la norma incriminatrice, come si è visto, non è costruita come fondante una presunzione assoluta di sussistenza dell'illecito pur in presenza di quantitativi esorbitanti i valori soglia, autorizza la ricostruzione del sistema nei termini che seguono: a) la circostanza che la sostanza risulti "superiore" ai limiti massimi indicati nel decreto ministeriale integra elemento indiziario positivamente "spendibile" dall'accusa per ritenere dimostrata la destinazione ad un uso non esclusivamente personale; b) conseguentemente, tanto più viene superata la soglia indicata nel decreto, quanto più diventa oneroso lo sforzo che dovrà sostenere l'interessato per l'allegazione di elementi a difesa che possano vincere la valenza indiziaria del parametro quantitativo; c) la formulazione della norma, proprio per il rilevato utilizzo del termine "in particolare", non esclude, tuttavia, la rilevanza penale anche di quantitativi inferiori alla soglia, laddove gli altri parametri indiziari militino inequivocamente per una destinazione "non esclusivamente personale"; d) il superamento dei valori soglia non sempre e comunque è elemento bastevole a sostenere la sussistenza del reato, laddove l'interessato sia in grado di assolvere l'onere difensivo nei termini di cui supra sub b). Cosicchè, per intenderci, specie se il superamento dei valori massimi è superato di

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poco, dovranno e potranno utilmente soccorrere gli altri parametri di riferimento utilizzati dalla norma e le complessive emergenze della fattispecie concreta, i quali ben potranno concorrentemente fondare la positiva dimostrazione della destinazione illecita ("ad un uso non esclusivamente personale") della sostanza; mentre nulla esclude, per converso, che il superamento di poco dei valori massimi, nell'assenza di altri elementi indiziari "a carico" e a fronte di un'adeguata "giustificazione difensiva" (principalmente basata sulla qualità soggettiva di tossicodipendente e sulla necessità di assunzione di quantitativi particolarmente elevati di sostanza stupefacente), possa portare ad una decisione liberatoria in sede penale (e alla rilevanza solo amministrativa della condotta). In altri termini, per esemplificare, le particolari condizioni soggettive del trasgressore (legittimanti, per lo stato di tossicodipendenza, una detenzione di quantitativi superiori ai valori soglia per la soddisfazione di peculiari esigenze di assunzione) potranno rilevare nell'ambito dell'onere di allegazione difensiva di cui si è detto, per vincere la presunzione (iuris tantum) di sussistenza dell'illecito penale articolabile dall'accusa sul dato quantitativo esorbitante i valori soglia. Il decreto ministeriale.- Va a questo punto soffermata l'attenzione sul decreto che ha determinato i limiti massimi di principio attivo detenibile ai fini e per gli effetti del disposto dell'articolo 73, comma 1 bis, lettera a): ovvero che ha determinato quella che, nello stesso decreto, viene definita come la "quantità massima detenibile" (Q.M.D.) superata la quale può ritenersi sussistente, nei termini e con i limiti di cui supra, la presunzione che trattasi di sostanza "destinata ad un uso non esclusivamente personale". Trattasi del decreto dell'11 aprile 2006, adottato dal Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, contenente l'indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale delle sostanze elencate nella tabella I del dpr n. 309/90. Intanto, pregiudizialmente, è da condividere la scelta del legislatore di avere rimesso tale compito all'autorità amministrativa, per la eccessiva rigidità che sarebbe conseguita ad una previsione introdotta direttamente dalla legge. Si è in presenza, infatti, di una materia in cui preminenti sono le esigenze di garantire un sollecito adeguamento alle evenienze del mercato illecito: ad esempio, in caso di "nuove" sostanze stupefacenti ovvero in caso di un significativo mutamento delle percentuali di principio attivo che, nel tempo, caratterizzassero talune delle sostanze già tabellarizzate. Solo l'avere rimesso la competenza all'autorità amministrativa può consentire rapidi interventi correttivi o integrativi. In proposito, non sembra che si possa prospettare alcuna violazione del principio di legalità stabilito dall'articolo 25 della Costituzione, per l'assorbente rilievo che all'autorità amministrativa è devoluta semplicemente l'individuazione (rectius, la concretizzazione) di uno dei parametri di riferimento utilizzabili per potere dimostrare la sussistenza del reato, e non certo la ricostruzione della condotta integrante il reato. Sempre in via pregiudiziale, è parimenti da condividere la scelta operata di non prevedere l'individuazione dei limiti massimi dei quantitativi detenibili per tutte le sostanze vietate, essendosi legittimamente e non irragionevolmente limitata la determinazione di tali limiti solo relativamente alle sostanze di maggiore abuso, per le quali solo, a ben vedere, questa risultava praticabile ed utile. Per le altre sostanze, in realtà, un'operazione di determinazione sarebbe risultata arbitraria, almeno allo stato, mancando dati scientifici e statistici degni di reale attendibilità. Del resto, legittima questa soluzione limitativa il fatto che il quantitativo di principio attivo non costituisce altro che uno dei parametri di riferimento utilizzabili per dimostrare la destinazione illecita della droga. Ovviamente, per le sostanze rispetto alle quali è mancata la determinazione della “quantità massima detenibile”, potrà e dovrà farsi utilizzo (solo) degli altri parametri indiziari indicati nell’articolo 73, comma 1, lettera a). Venendo al contenuto del decreto ministeriale de quo.

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Base di partenza della determinazione dei limiti massimi di principio attivo (ossia, come si è accennato, della "quantità massima detenibile": Q.M.D.) di cui alla lettera a) del comma 1 bis dell'articolo 73, superati i quali si configura la presunzione relativa della sussistenza dell'uso non esclusivamente personale della droga (e, quindi, del reato di cui allo stesso articolo 73), è rappresentata dall'unico dato certo, dal punto di vista scientifico, che la Commissione di studio all'uopo istituita presso il Ministero della salute è stata in grado di fornire: quello della “dose media singola” (D.M.S.), intesa come "la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo". Il dato quantitativo della “dose media singola” è stato poi convenzionalmente "moltiplicato" avendo riguardo ad un "moltiplicatore variabile" calibrato "in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza, con particolare riferimento al potere di indurre alterazioni comportamentali e scadimento delle capacità psicomotorie": in una parola, avendo riguardo alla maggiore o minore pericolosità riconosciuta alla sostanza. A tal riguardo, va infatti segnalato che il moltiplicatore è stato opportunamente diversificato a seconda del tipo di sostanza stupefacente: cosicchè, per esempio, per le ex "droghe leggere" (i derivati della cannabis: hashish e marijuana) è stato calcolato in termini decisamente più ampi (20) (in considerazione della evidentemente riconosciuta minore pericolosità di tali sostanze) rispetto a quanto è stato previsto per gli stimolanti, i narcotici e gli allucinogeni. Ciò che dimostra come la "parificazione" delle sostanze stupefacenti perseguita dal legislatore del 2006 non esclude che si sia conservato uno spazio per un trattamento più favorevole per le ex "droghe leggere", che attenua l'aggravamento del trattamento sanzionatorio complessivo determinato dall'anzidetta parificazione. Esemplificando: per la cannabis (hashish e marijuana), la dose media singola è stata fissata in mg. 25, il moltiplicatore variabile in 20, conseguendone una quantità massima detenibile pari a mg. 500 (corrispondenti a circa 15/20 spinelli); per l'eroina, la dose media singola è stata fissata in mg. 25, il moltiplicatore in 10, conseguendone una quantità massima detenibile pari a mg. 250 (corrispondenti a circa 10 assunzioni); per la cocaina, la dose media singola è stata fissata in mg. 150, il moltiplicatore in 5, conseguendone una quantità massima detenibile pari a mg. 750 (corrispondenti a circa 5 assunzioni); per l'ecstasy (MDMA), la dose media singola è stata fissata in mg. 150, il moltiplicatore in 5, conseguendone una quantità massima detenibile pari a mg. 750 (corrispondenti a 5 compresse/assunzioni); per l'amfetamina, la dose media singola è stata fissata in mg. 100, il moltiplicatore in 5, conseguendone una quantità massima detenibile pari a mg. 500 (corrispondenti a circa 5 assunzioni); per l'LSD, la dose media singola è stata fissata in mg. 0,05, il moltiplicatore in 3, conseguendone una quantità massima detenibile pari a mg. 0,150 (corrispondenti a circa 3 francobolli/assunzioni). Il criterio della “quantità”, come sviluppato dalla norma, potrà essere utilizzabile anche ai fini dell’applicazione della circostanza attenuante del “fatto di lieve entità” (articolo 73, comma 5, del dpr n. 309/90), per dare concretezza ai parametri della “quantità” e della “qualità” della sostanza stupefacente ivi indicati. Sotto il primo profilo, è da prevedere che la giurisprudenza si orienterà a prendere in considerazione le soglie indicate in tabella per “parametrare” anche il quantitativo che possa consentire di concedere l’attenuante de qua (pur se, ovviamente, nell’ambito dell’apprezzamento “complessivo” dei diversi parametri di riferimento che è alla base della corretta lettura interpretativa del “fatto di lieve entità”: cfr., tra le tante, Cassazione, Sezione IV, 29 settembre 2005, Frank Williams). Sotto l’altro profilo, poiché con il “moltiplicatore” si è attribuita una diversa valenza “qualitativa” alle diverse sostanze stupefacenti, potrà utilizzarsi tale argomento per attribuire un rilievo (anche) alla “natura” della sostanza ai fini e per gli effetti dell’attenuante del fatto di lieve entità, superando così quell’orientamento, finora consolidato, in forza del quale per il parametro della “qualità” richiesto dal comma 5 dell’articolo 73 poteva attribuirsi spazio solo alla maggiore o minore “purezza” della sostanza stupefacente, restando invece indifferente la natura della stessa (cfr. Cassazione, Sezione IV, 20 giugno 1996, Miranda).

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Cosicché, per intenderci, per i derivati della cannabis, cui si è riconosciuta una minore pericolosità, tanto da utilizzarsi il moltiplicatore “20”, potrà riconoscersi un più ampio spazio per la concedibilità del “fatto di lieve entità” (purchè ovviamente non risultino ostativi gli altri parametri indicati nel comma 5 dell’articolo 73). Va comunque osservato che il criterio indiziario della “quantità”, proprio in quanto correlato alla percentuale di principio attivo, appare di scarsa utilità per le forze dell’ordine, le quali, nell’immediato, potendosi avvalere solo del narcotest o di altre metodiche analoghe, possono esclusivamente avere contezza che il reperto sequestrato contiene sostanza stupefacente, ma non possono calcolare, "su strada", la percentuale di principio attivo. Inevitabile sarà quindi, da parte degli operatori di polizia, il ricorso agli altri criteri indiziari indicati nell’articolo 73, comma 1 bis, lettera a), mentre il criterio "quantitativo" risulterà concretamente utilizzabile solo per l'autorità giudiziaria, la quale può comunque avvalersi del supporto di un accertamento tecnico tossicologico in grado di fornire il quantum di principio attivo effettivamente contenuto nella sostanza sequestrata. L’ aumento (bocciato) dei quantitativi della “cannabis”.- Per debito di informazione va ricordato che il decreto del Ministero della salute del 4 agosto 2006 si era intervenuti a modificare il decreto dell’11 aprile 2006, indicante i limiti quantitativi massimi riferibili ad un uso esclusivamente personale delle sostanze stupefacenti, provvedendosi a rideterminare “in alto” la “quantità massima detenibile” della cannabis. Per perseguire lo scopo di innalzare il quantitativo della cannabis, come si ricorderà, si era intervenuti sul "moltiplicatore variabile" della "dose media singola" (passato da "20" a "40"), sicchè il quantitativo massimo detenibile della sostanza, superato il quale poteva ritenersi sussistente la presunzione che si trattava di sostanza "destinata ad un uso non esclusivamente personale" (cfr. articolo 73, comma 1, bis, lettera a)), era stato determinato in mg. 1000, mentre nel testo originario del decreto ministeriale dell'11 aprile 2006 era fissato in mg. 500. Il Tar Lazio ha dapprima sospeso (ordinanza 14-15 marzo 2007 n. 1155) e poi annullato (sentenza 14-21 marzo 2007 n. 2487) il decreto di modifica sul parametro moltiplicatore relativo alla cannabis, sul rilievo che la motivazione dell’atto non spiegava le ragioni delle scelte operate, né appriva giustificata sulla base di approfondimenti specifici sugli effetti delle sostanze stupefacenti in questione. Il Tar, in sostanza, ha qualificato l’intervento di modifica sui limiti della cannabis come frutto di una scelta di natura solo politica, affatto supportata da una giustificazione di natura tecnica quale quella che ha caratterizzato la stesura del testo originario del decreto. La decisione caducatoria appare fondata sulla ritenuta sussistenza del vizio dell’eccesso di potere, sintomaticamente dimostrato dall’assoluta carenza dell’ attività istruttoria che avrebbe potuto (rectius, dovuto) caratterizzare la determinazione discrezionale dell’amministrazione. Come emerge con chiarezza dal dispositivo della sentenza, il Tar non ha in alcun modo intaccato il decreto ministeriale dell’11 aprile 2006, che è tuttora vigente, nel testo evidentemente anteriore alle modifiche “cassate” dal giudice amministrativo. E’ a tale decreto che, a tutt’oggi, occorre avere integrale riguardo per la determinazione dei limiti quantitativi massimi riferibili ad un uso esclusivamente personale delle sostanze stupefacenti. Il peso lordo.- Scarsamente utile, sia in generale che in particolare per le determinazioni immediate delle forze dell’ordine, è anche il criterio del “peso lordo” della sostanza. E’ un criterio che andrebbe in effetti sviluppato in concreto con apposite direttive e circolari che prendano a base il dato statistico dei sequestri di droga e delle percentuali di principio attivo ivi rinvenuto, sì da potersene desumere una valenza indiziante comparando dette risultanze con i dati ricavabili dalla tabella dei quantitativi massimi detenibili (in tal senso, mancando finora una circolare ministeriale con effetti su tutto il territorio nazionale, si vanno muovendo talune forze di

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polizia su base territoriale) (cfr., esemplificando, le “tabelle” in proposito redatte dai Comandi provinciali dei Carabinieri di Palermo e di Bolzano). È però criterio necessariamente residuale perché è e sarà sempre troppo empirico: partendo infatti dal dato fattuale che la sostanza non è mai allo stato puro, il quantitativo di principio attivo è sempre molto variabile, non foss’altro perché fortemente condizionato dalle modalità di confezionamento (dosi da strada, ovuli destinati ad ulteriore parcellizzazione, ecc.); anzi, le sostanze vegetali (marijuana e hashish) sono ancora più insuscettibili di una classificazione “statistica”, giacchè subiscono ulteriori condizionamenti a seconda del luogo di produzione e di conservazione. Ciò che concettualmente impedisce di poter attribuire a tale criterio, ex se solo considerato, una valenza indiziaria veramente attendibile. Trattasi, a ben vedere, di un criterio (inevitabilmente) "di contorno", utile per corroborare la valenza indiziaria aliunde apprezzabile in ragione delle complessive emergenze della fattispecie. In attesa del sopra evidenziato eventuale prontuario operativo, l'applicazione del criterio de quo è comunque rimessa, nei limiti del possibile, all' esperienza dell'operatore di polizia, il quale deve basarsi empiricamente sul rilievo che un quantitativo di una certa consistenza, specie se accompagnato dal rinvenimento di sostanza da taglio, è normalmente destinato ad essere "tagliato" per la successiva suddivisioni in dosi (il cui numero, più o meno elevato, può essere indicativo della destinazione ad un uso non esclusivamente personale). Inevitabilmente, inoltre, laddove si volesse procedere a “contestare” il reato di cui all’articolo 73 solo sulla base del criterio indiziante del “peso lordo”, dovrà attribuirsi rilievo solo a quantitativi lordi non minimali, ma tali da far logicamente desumere (pur con l’approssimazione data dal necessario ricorso al criterio prognostico) la possibilità di ricavare quantitativi di principio attivo della sostanza stupefacente senz’altro superiori alla soglia presuntiva indicata nel decreto dell’11 aprile 2006. Va comunque osservato che l' introduzione del parametro di riferimento basato sul peso lordo della sostanza e, a fortiori, l'introduzione di quello basato sul principio attivo della sostanza (sul quale v. supra), al di là dell'immediata utilità per l'operatore di polizia, presentano comunque un indiscutibile vantaggio pratico: infatti sono in grado di contribuire a provocare una contrazione della domanda, laddove possono costringere indirettamente il consumatore ad approvvigionarsi, onde evitare il rischio della sanzione penale, di quantitativi più esigui di quelli cui finora, per comodità o per garantirsi una "scorta", è stato abituato. Il frazionamento della sostanza stupefacente.- Molto più utile è il criterio basato sulle "modalità di presentazione [della sostanza], avuto riguardo…..al confezionamento frazionato": non ne è dubitabile la rilevanza indiziaria e l’ausilio soprattutto per le immediate determinazioni delle forze dell’ordine, giacchè detto frazionamento può far fondatamente ritenere che trattasi di sostanza stupefacente destinata ad essere venduta al dettaglio sul mercato illecito. Trattasi del resto di uno dei criteri che, tradizionalmente, finora, la giurisprudenza ha utilizzato per la dimostrazione della destinazione illecita della droga. Le circostanze dell'azione.- Quanto poi alle "altre circostanze dell'azione", nella relativa nozione (estremamente ampia) rientrano tutte le circostanze "oggettive" diverse da quelle espressamente codificate (quantitativo di principio attivo, peso lordo, frazionamento della sostanza) idonee a supportare logicamente la destinazione della sostanza ad un uso non esclusivamente personale: per esempio, vi rientrano le modalità di custodia della droga, le modalità spazio-temporali in cui è stato eseguito il sequestro della medesima; il ritrovamento di notevoli quantitativi di sostanza da taglio, ecc. (per utili riferimenti, di recente, Cassazione, Sezione IV, 8 luglio 2005, Orlando). L’utilità di tali circostanze ai fini della ricostruzione della destinazione della droga è talmente evidente da rendere superflui specifici commenti. Piuttosto, va qui evidenziato che la circostanza della detenzione di sostanze stupefacenti di diversa

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natura, che non infrequentemente, viene utilizzata come elemento dimostrativo della destinazione allo spaccio (ciò argomentando sul ritenuto dato di comune esperienza che il tossicodipendente, come il tossicofilo, normalmente fa uso di una sola specie di stupefacente) (cfr. Cassazione, Sezione IV, 6 giugno 2000, Proc. gen. App. Bologna ed altro in proc. Scarpellini), è in realtà equivoco e non può essere utilizzato sempre nella sua assolutezza. In effetti, nel caso della detenzione di sostanze di diversa qualità, si è in presenza di un dato che (solo unitamente agli altri) può effettivamente supportare il ragionamento probatorio della destinazione al mercato; mentre, ex se considerato, e cioè da solo, non è a tal fine sufficiente, essendo logicamente compatibile anche con una destinazione all’uso personale non foss’altro perché è usuale, per il tossicodipendente, il passaggio, nel tempo, dall’uso di sostanze meno dannose verso quelle più pesanti, stante l’effetto dell’assuefazione (cfr., di recente, efficacemente, Tribunale Napoli, 29 maggio 2006, Coladangelo ed altro; ma v. Cassazione, Sezione VI, 14 maggio 2003, Isacchi). In una tale prospettiva, la attribuzione di rilevanza al dato della diversa tipologia delle sostanze deve passare attraverso l'analisi delle complessive circostanze della vicenda, con particolare rilievo da attribuire ai quantitativi delle stesse. Le circostanze soggettive.- Come si è evidenziato, deve escludersi l’esaustività dei criteri indiziari, sì da ammettere la rilevanza solo di quelli espressamente elencati nella norma. Al contrario, una più attenta riflessione consente di riconoscere rilievo anche ai criteri di natura soggettiva basati sulla qualità del trasgressore (tossicodipendente o no) e sulle condizioni di reddito del medesimo (compatibilità o no delle condizioni di reddito con l'acquisto per soddisfare un proprio uso personale). Questa conclusione, lo si è più ampiamente argomentato supra, è imposta dal principio del libero convincimento e da quello dell’assenza di prove legali che caratterizzano la materia penale. Anzi, proprio tali criteri soggettivi, se attentamente intesi, possono sciogliere gli eventuali dubbi interpretativi e condurre ad un sicuro apprezzamento sulla finalità della condotta (ergo, sulla destinazione della sostanza stupefacente). L’”uso di gruppo”.- Per completare il quadro della disciplina sanzionatoria, resta da spendere qualche considerazione sul cosiddetto “uso di gruppo” di sostanze stupefacenti. La disciplina “ante” 2006.- In effetti, prima del novum normativo del 2006, una questione di estremo interesse interpretativo, specie dopo gli esiti del referendum del 18-19 aprile 1993, era costituita dal trattamento sanzionatorio da riservare al c.d. “uso di gruppo” di sostanze stupefacenti, con particolare riguardo all’ipotesi in cui un soggetto avesse proceduto all’acquisto ed alla successiva cessione della sostanza per farne "uso di gruppo" unitamente ai terzi mandanti, che previamente gliene avevano affidato l'incarico. Come si ricorderà, a comporre un significativo contrasto interpretativo [su cui è francamente inutile soffermare l’attenzione], erano intervenute le Sezioni unite, con la nota sentenza 28 maggio 1997, Proc. Rep. Trib. Modena in proc. Iacolare, dove, affrontando la questione controversa del trattamento sanzionatorio da riservare all’appartenente al gruppo che assuma l’incarico di procedere materialmente all’acquisto della droga da destinare all’uso comune, la Corte aveva aderito all’orientamento favorevole a considerare il fatto di mera rilevanza amministrativa. Secondo le Sezioni unite, in sostanza, doveva ritenersi l’illecito amministrativo di cui all’articolo 75 del dpr n. 309/90, e non il reato previsto dall’articolo 73 dello stesso dpr, non solo nel caso di "acquisto contestuale" di sostanza stupefacente per uso personale da parte di tutti gli appartenenti ad un gruppo, ma anche in quello in cui solo alcuni dei componenti del gruppo avevano proceduto all'acquisto della sostanza per conto (su "mandato") degli altri e poi avevano proceduto alla materiale suddivisione della stessa.

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In estrema sintesi, per le Sezioni unite anche nelll'ipotesi del "mandato ad acquistare" il fatto doveva considerarsi solo amministrativamente rilevante dovendosi applicare agli acquirenti in nome e per conto degli altri appartenenti al gruppo la disciplina civilistica del "mandato" e i relativi effetti quanto all'acquisto ed alla disponibilità della sostanza (articoli 1388 e 1706 del codice civile): tutti gli appartenenti al gruppo, in definitiva, fin da subito, proprio in ragione del mandato conferito acquisterebbero la disponibilità pro quota della sostanza, con l'effetto che la successiva ripartizione per l'uso in comune doveva considerarsi penalmente non significativa. La “nuova” disciplina dell’”uso di gruppo”.- La questione del trattamento sanzionatorio dell’ “uso di gruppo” sembra però ormai definitivamente risolta a seguito del novum normativo introdotto nel 2006. Basta porre attenzione alla nuova formulazione della fattispecie incriminatrice (cfr. articolo 73, comma 1 bis, lettera a), del dpr n. 309/90), laddove questa è configurata come sussistente, tra l'altro, quando la condotta (per il quantitativo della sostanza e/o per gli altri parametri di riferimento ivi indicati), si palesi dimostrativa di "un uso non esclusivamente personale" della sostanza stupefacente. Ne discende, in buona sostanza, il superamento dell'orientamento giurisprudenziale espresso dalle Sezioni unite (e poi seguito costantemente dalla giurisprudenza: tra le tante, Cassazione, Sezione IV, 5 maggio 2005, Rossi; Sezione IV, 13 luglio 2005, Ciotola), che, appunto, voleva confinare l'"uso di gruppo" in ambito esclusivamente amministrativo. Dalla norma incriminatrice si ricava, infatti, in termini sufficientemente chiari, la riconosciuta rilevanza penale dell'uso personale che non sia esclusivamente "personale", avendo il legislatore preso una netta posizione negativa nei confronti della rilevanza solo amministrativa delle condotte in genere riconducibili all'"uso di gruppo". Con il che, per il futuro, dovrebbe ammettersi ormai la rilevanza penale, non solo dell'uso di gruppo qualificato dal conferimento, esplicito o implicito, da parte degli appartenenti al gruppo, del "mandato ad acquistare" la droga solo ad uno o ad alcuni degli appartenenti al gruppo, ma anche dell'"uso di gruppo collettivo", qualificato dall'acquisto in comune della droga da parte di tutti gli appartenenti al gruppo per l'assunzione in comune. Nell'uno come nell'altro caso, infatti, l'uso non sarebbe esclusivamente "personale", e, per l'effetto, comunque di rilevanza penale. Una conferma di tale inequivoca opzione ermeneutica la si ricava anche dal disposto del "nuovo" articolo 75, comma 1, del dpr n. 309/90, laddove il fatto amministrativo, per quanto interessa, è costruito eccettuando le ipotesi "di cui all'articolo 73, comma 1 bis", quindi anche le ipotesi di detenzione che si palesino destinate "ad un uso non esclusivamente personale". La scelta merita senz'altro condivisione ove si consideri che l'"uso di gruppo", almeno quando si caratterizza nella forma del cosiddetto "mandato ad acquistare", costituisce una condotta potenzialmente pericolosa della diffusione di sostanze stupefacenti: trattasi, a ben vedere, della condotta di "procurare ad altri", espressamente prevista e sanzionata penalmente nell'articolo 73, comma 1, del dpr n. 309/90. Condotta per nulla meno pericolosa delle altre sanzionate dallo stesso articolo 73, ove si consideri che anch'essa finisce con il realizzare un’illecita diffusione (a terzi) della sostanza stupefacente non foss'altro perché, ove non vi sia chi si assuma l’incarico di procurare la droga, gli altri appartenenti al gruppo non ne potrebbero ottenere la disponibilità e/o, comunque, per soddisfare il proprio bisogno personale, dovrebbero organizzarsi diversamente (accettando, ad esempio, il rischio di un acquisto effettuato in prima persona). La presa di posizione del legislatore del 2006 è, in tutta probabilità, eccessivamente rigorosa per quanto attiene l'"uso di gruppo" caratterizzato dall'acquisto in comune della droga da parte degli assuntore: trattasi, infatti, di una condotta che non realizza un’indebita diffusione della sostanza stupefacente da chi materialmente acquista la droga a chi si limita solo ad assumerla, giacché all’operazione procedono congiuntamente tutti i soggetti. Peraltro, la formulazione letterale della norma, con l'inequivoco riferimento alla rilevanza penale di qualsivoglia usa "non esclusivamente personale", non consente interpretazioni correttive tali da

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consentire una rilevanza solo amministrativa dell'uso personale non meramente individuale, ma in forma collettiva. Piuttosto, tale situazione potrà essere considerata, per l'evidente minore gravità, nella ricorrenza delle condizioni di legge, per la possibilità applicabilità della circostanza attenuante del "fatto di lieve entità" di cui all'articolo 73, comma 5, del dpr n. 309/90 . Le novità relative all’ attenuante del “fatto di lieve entità.- Per completare la disamina nei termini richiesti dal tema della relazione, resta da dire degli effetti che la disciplina di modifica del 2006 ed altre pressoché coeve novità normative hanno determinato sull’ambito di operatività della circostanza attenuante del fatto di lieve entità, prevista dall’articolo 73, comma 5, del dpr n. 309/90, che, come è noto, introduce una risposta sanzionatoria più attenuata da parte dell’ordinamento, allorché i fatti delittuosi previsti dallo stesso articolo siano di «lieve entità», «per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze». Sotto il primo profilo, ci si è già soffermati supra sugli effetti che potrebbero derivare nell’apprezzamento del fatto di lieve entità (in particolare dei parametri della quantità e della qualità della sostanza stupefacente) dalle modalità con le quali è stato costruito il parametro indiziario della quantità dello stupefacente nell’articolo 73, comma 1 bis, lettera a). Sotto l’altro profilo, qualche questione è sorta, in conseguenza della natura giuridica della fattispecie di cui all’articolo 73, comma 5, in relazione alla determinazione della pena in caso di contestazione della recidiva reiterata. Fatto di lieve entità e recidiva.- Quest’ultima questione si pone perché la fattispecie della “lieve entità” è, ormai pacificamente, considerata una circostanza attenuante speciale dei delitti previsti dall'articolo 73 del dpr n. 309/90, e non una fattispecie autonoma di reato. L’affermata natura circostanziale della fattispecie in esame, ne importa, quale più significativa conseguenza operativa, la valutazione comparativa ex articolo 69 del Cp con le altre circostanze di reato, compresa la recidiva (tra le tante, Cassazione, Sezione VI, 28 aprile 2003, Proc. gen. App. Genova in proc. Tavernelli). Ciò detto, va quindi posta l'attenzione sul disposto del comma 4 dell'articolo 69 del Cp, come modificato dall'articolo 3 della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (cosiddetta legge ex-Cirielli), laddove si limita fortemente il potere discrezionale attribuito dall'articolo 69 del Cp al giudice in sede di comparazione tra le circostanze. Viene previsto, infatti, nel nuovo comma 4 dell'articolo 69, che le regole ordinarie sulla comparazione, contenute nei primi tre commi della disposizione, non si applicano, nella loro massima estensione, nell'ipotesi di recidiva reiterata (articolo 99, comma 4, del Cp) ed in quelle in cui siano state contestate e ritenute le circostanze aggravanti previste dagli articoli 111 e 112, comma 1, numero 4, del Cp (sono le circostanze aggravanti previste, nel concorso di persone nel reato, a carico di chi abbia determinato a commettere il reato, rispettivamente, persona non imputabile o non punibile ovvero un minore di anni diciotto o persona in stato di infermità o di deficienza psichica): in tutte queste ipotesi, le eventuali attenuanti che il giudice ritenga di dovere e potere concedere (in primis, quelle generiche, ma, per quanto interessa, anche quella del "fatto di lieve entità" ex articolo 73, comma 5) non possono mai essere ritenute prevalenti, ma solo equivalenti, rispetto alle ritenute circostanze aggravanti. E' disposizione notevolmente limitativa del potere di autonoma valutazione del giudice: infatti, nella ricorrenza delle suindicate condizioni, anche plurime circostanze attenuanti di cui fossero apprezzati i presupposti non potrebbero giovare appieno ai fini del riconoscimento di un trattamento sanzionatorio di favore, giacchè, per scelta del legislatore, il giudice potrebbe al massimo ritenerle equivalenti rispetto alle ritenute circostanze aggravanti. E ciò anche quando la circostanza aggravante "pregiudicante" fosse una sola, ricompresa ovviamente tra quelle di cui agli articoli 99, comma 4, 111 o 112, comma 1, numero 4, del Cp.

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La finalità restrittiva perseguita dal legislatore ha effetti particolarmente evidenti in materia di violazioni dell'articolo 73 del dpr n. 309/90, giacchè queste, non infrequentemente, sono commesse da recidivi reiterati: ne deriva che, pur in presenza di fatti illeciti modestissimi e tali da rientrare nell'ambito di operatività della fattispecie di cui all'articolo 73, comma 5, l' attenuante del "fatto di lieve entità", come pure le attenuanti generiche che fossero concorrentemente concesse, non potrebbero che essere ritenute "equivalenti" rispetto alla contestata recidiva, con conseguente applicabilità, per la determinazione della pena, del disposto dell'articolo 69, comma 3, del Cp, in forza del quale deve applicarsi "la pena che sarebbe inflitta se non concorresse alcuna di dette circostanze". Per cogliere la valenza di tale disciplina di rigore, basta pensare, ad esempio, ad una modestissima ipotesi di "spaccio" di sostanze stupefacenti commessa da un recidivo reiterato: pur laddove il giudice riconoscesse l'attenuante del fatto di "lieve entità" (e magari anche le attenuanti generiche), la pena "minima" applicabile sarebbe quella "base" indicata nel comma 1 dell'articolo 73 (laddove, come è noto, il minimo edittale è fissato nella misura di sei anni di reclusione e 26.000 euro di multa). L’evoluzione della giurisprudenza.- E’ noto come la giurisprudenza di merito, fin da subito, abbia cercato di trovare in via interpretativa una soluzione correttiva, vuoi sostenendo che l’effetto preclusivo ex articolo 69, comma 4, del Cp non sarebbe applicabile alle circostanze ad effetto speciale (cfr. Appello Brescia, 23 febbraio 2007; Tribunale Genova, 10 febbraio 2006), vuoi sostenendo la facoltatività anche dell’ipotesi della recidiva reiterata che si estenderebbe anche agli effetti diversi dall’aumento della pena (cfr. Tribunale di Rovereto, 15 dicembre 2006, Pernigo), vuoi sostenendo che l’effetto preclusivo concernerebbe solo l’aggravante “protetta” della recidiva, ma non impedirebbe la comparazione libera delle altre circostanze (cfr. Tribunale Grosseto, 8 maggio 2006). La giurisprudenza della Cassazione si è espressa, all’inizio, in termini restrittivi, sostenendosi che la recidiva è uno status soggettivo onde, laddove ritenuta dal giudice, comporterebbe l’effetto preclusivo della comparazione ex articolo 69, comma 4, del Cp, mentre facoltativo, semmai, sarebbe solo l’aumento di pena (Cfr. Cassazione, Sezione VI, 27 febbraio 2007, Proc. gen. App. Genova in proc. Nasrallah, nonché, Sezione IV, 27 febbraio 2007, Proc. Rep. Trib. Genova in proc. B.A.; in senso contrario, però, Sezione IV, 11 aprile 2007, Serra ed altro, e Sezione IV, 19 aprile 2007, Proc. gen. App. Genova in proc. Menadi ed altri, che patrocinano entrambe, sia pure con passaggi argomentativi non sovrapponibili, una lettura della recidiva reiterata in termini di “facoltatività”, da intendere come estesa anche agli effetti limitativi del giudizio di comparazione tra le circostanze). La questione pare, oggi, [superata e] diversamente risolvibile, alla luce degli spazi offerti dalla sentenza della Corte costituzionale 14 giugno 2007 n. 192, il cui intervento ha consentito il formarsi di un apprezzabile orientamento interpretativo nella giurisprudenza di legittimità, dove si patrocina un inquadramento di tutte le ipotesi di recidiva (tranne quella di cui al comma 5 dell’articolo 99 del Cp) come facoltative. Secondo tale prospettazione, in sostanza, quando il giudice ritiene di non applicare in concreto la recidiva [perché considera che il delitto commesso non sia espressione di una maggiore pericolosità del reo in ragione delle circostanze di cui all’articolo 133 del Cp: natura dei precedenti, tempo trascorso, natura del reato contestato, ecc.] non opera l’ effetto preclusivo ex articolo 69, comma 4, del Cp (cfr. Cassazione, Sezione IV, 2 luglio 2007, Proc. gen. App. Cagliari in proc. Farris). Va piuttosto notato che, volendo accogliere quest’ultimo orientamento interpretativo, una indiscutibile valenza per escludere l’applicabilità della recidiva reiterata la può avere l’apprezzamento della gravità del fatto sub iudice: rispetto a tale apprezzamento ben potrebbe riconoscersi rilievo alla “qualità” della sostanza stupefacente (maggiore o minore pericolosità della stessa) desumibile non tanto e non solo dalla percentuale di purezza, ma anche dal tipo di sostanza.

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Infatti, come già osservato, la parificazione tra tutte le sostanze vietate non ha impedito di differenziarne la pericolosità con la diversificazione del “moltiplicatore variabile” utilizzato per l’individuazione della Q.M.D. Da ciò conseguendone, per intenderci, un possibile più favorevole trattamento per l’hashish e la marijuana, la cui riconosciuta minore pericolosità ben potrebbe legittimare l’esclusione in concreto della contestata recidiva (laddove non ostino al giudizio di favore altre circostanze ricomprese nell’articolo 133 del Cp, tali da far propendere per una significativa pericolosità soggettiva). La sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità.- Per completare il discorso sull’attenuante del fatto di lieve entità, merita di essere richiamata l’attenzione su una delle novità più importanti che nella subiecta materia è stata introdotta con la legge n. 49 del 2006. Con l’intervento di riforma del 2006, con una finalità ampliativa delle possibilità di recupero del tossicodipendente, si è previsto, in un apposito comma 5 bis del "nuovo" articolo 73, che il giudice, nell'ipotesi in cui ritenga sussistente il "fatto di lieve entità", limitatamente ai reati di cui allo stesso articolo 73, possa applicare, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del Cpp, anziché le pene detentiva e pecuniaria, quella del lavoro di pubblica utilità prevista dall'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274. Sostanzialmente, l'applicazione del lavoro di pubblica utilità è subordinata al riconoscimento da parte del giudice dell'attenuante del "fatto di lieve entità" ex articolo 73, comma 5. Proceduralmente, l'applicazione del lavoro di pubblica utilità è subordinata a tre diverse condizioni. In primo luogo, alla circostanza che il giudice non ritenga di dover concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena. In secondo luogo, alla esplicita richiesta dell'imputato, che risulti peraltro essere "persona tossicodipendente" o "assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope" [si noti che il riferimento al semplice “assuntore di sostanze stupefacenti” è qui introdotto per la prima volta ai fini del funzionamento della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti, volendosi all’evidenza fare richiamo a chi faccia un uso saltuario delle sostanze vietate]. In terzo luogo, al parere (non vincolante) del pubblico ministero, che deve essere "sentito" sulla richiesta dell'imputato. La disciplina procedimentale.- Il lavoro di pubblica utilità trova la sua disciplina generale nell'articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, contenente le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace [sulla determinazione delle modalità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità v., peraltro, anche il D.M. Giustizia 26 marzo 2001]: a tale disciplina, laddove non diversamente disposto nell'articolo 73, comma 5 bis, e nei limiti della compatibilità, occorre fare riferimento per ricostruire il meccanismo che va seguito per la "sostituzione" delle pene detentiva e pecuniaria. L'applicazione della pena del lavoro di pubblica utilità presuppone tre diverse scansioni procedimentali: la richiesta dell'imputato, il parere del pubblico ministero e la decisione del giudice. La richiesta dell'imputato. La richiesta dell'imputato è presupposto essenziale della "sostituzione", non potendo il giudice provvedere d'ufficio. La richiesta può essere avanzata solo prima che il giudice abbia pronunciato la sentenza con cui definisce il giudizio, risultando chiaro, dalla formulazione letterale dell'articolo 73, comma 5 bis, che la "sostituzione" può avvenire solo contestualmente alla pronuncia della sentenza di condanna o di patteggiamento ("il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del Cpp, su richiesta dell'imputato…può applicare…"): la richiesta dell'imputato, in altri termini, deve essere formulata in via preventiva, per l'ipotesi in cui

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il giudice ritenga di doverlo condannare o di accedere alla richiesta di patteggiamento. E' evidente, quindi, la differenza rispetto al meccanismo procedimentale configurato nell'articolo 33 del decreto legislativo n. 274 del 2000, laddove la richiesta dell'imputato di applicazione del lavoro di pubblica utilità non può che essere successiva alla sentenza di condanna, giacchè è in tale sede che il giudice, laddove ritenga di poter applicare il lavoro di pubblica utilità, indica "il tipo e la durata" del lavoro di pubblica utilità, rispetto al quale l'imputato o il suo difensore munito di procura speciale possono avanzare la relativa richiesta. Che la richiesta debba essere formulata in via preventiva è confermato da un'altra decisiva considerazione. Il beneficio è applicabile solo al "tossicodipendente" o all'"assuntore" di sostanze stupefacenti, cosicchè, laddove tali condizioni soggettive non emergano aliunde dagli atti, onere dell'interessato sarà anche quello di articolarne positivamente la prova (producendo non solo documenti a supporto: ad esempio, il certificato di tossicodipendenza; ma anche articolando al riguardo, per tempo, prova testimoniale): e ciò l'interessato potrà fare solo prima della definizione del processo, con la pronuncia della sentenza da parte del giudice. Sembra corretto ritenere, nonostante il silenzio dell'articolo 73, comma 5 bis, che la richiesta, oltre che personalmente dall'imputato, possa essere presentata anche dal difensore, purchè munito di procura speciale (arg. ex articolo 33, comma 1, del decreto legislativo n. 274 del 2000). Tale conclusione è confortata da un duplice ordine di considerazioni: da un lato, la considerazione che la disciplina generale sul lavoro di pubblica utilità contenuta dalla normativa sul giudice di pace non è, sul punto, incompatibile con il disposto dell'articolo 73, comma 5 bis; dall'altro, l'ulteriore considerazione logico sistematica in forza della quale, poiché la richiesta di sostituzione può essere formulata in occasione della presentazione dell'istanza di patteggiamento, incomprensibile sarebbe il consentire la presentazione da parte del difensore munito di procura speciale della seconda (cfr. articolo 446, comma 3, del Cpp), ma non anche della prima. Il contenuto della richiesta.- Vi è da chiedersi, quanto al "tipo" di lavoro di pubblica utilità, se la richiesta dell'imputato possa essere avanzata genericamente, rimettendo cioè al giudice la relativa scelta determinativa, e se, in caso di richiesta specifica avente ad oggetto un particolare "tipo" di lavoro, il giudice ne risulti in qualche modo vincolato. Per una corretta soluzione di queste questioni non riteniamo possa essere utilmente invocata la peculiare disciplina relativa al processo penale davanti al giudice di pace, che pare strutturalmente incompatibile con quella dettagliata nell'articolo 73, comma 5 bis. In detta disciplina, infatti, la richiesta di applicazione del lavoro di pubblica utilità non è formalizzata in via preventiva, ma segue necessariamente la sentenza di condanna, qualora in questa il giudice, non solo si sia espresso nel senso della possibilità di procedere all'applicazione del lavoro di pubblica utilità, ma ne abbia anche individuato specificamente "il tipo e la durata": con la ovvia conseguenza che la richiesta dell'imputato non potrebbe che avere un oggetto rigorosamente predeterminato (cfr. articolo 33 del decreto legislativo n. 274 del 2000). Invece, nella disciplina in esame, come si è visto, la richiesta va necessariamente formulata in via preventiva, dovendo il giudice provvedere "contestualmente" alla sentenza di condanna o di "patteggiamento". Ciò consente di ritenere, anche perché la lettera della norma non autorizza interpretazioni restrittive, la possibilità di una richiesta indeterminata nell'oggetto, che rimetta cioè al giudice l'individuazione del tipo di lavoro di pubblica utilità. Una richiesta di tal genere, astrattamente ammissibile, presenta il rischio di essere rigettata, ove il giudice ritenga di non poterla accogliere proprio per la genericità e per la conseguente impossibilità di individuare un lavoro di pubblica utilità concretamente applicabile al caso di specie. Per converso, laddove l'interessato abbia articolata una richiesta avente uno specifico oggetto (ergo, avente ad oggetto un determinato "tipo" di lavoro di pubblica utilità), è da ritenere che il giudice, laddove l' accolga, non possa che accedere al tipo di lavoro di pubblica utilità richiesto, non essendo compatibile con il tipo di sanzione (che presuppone la collaborazione del soggetto sottopostovi) la scelta di modalità diverse

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da quelle rappresentate nella richiesta (il giudice, in questa prospettiva, è libero solo nella determinazione della "durata" del lavoro, commisurata per relationem alla durata della sanzione detentiva che ritenga irrogabile); con la conseguenza che laddove il giudice ritenga impraticabile il tipo di lavoro proposto dovrà necessariamente rigettare la richiesta (salvo che l'interessato, in subordine, abbia rimesso al giudice la scelta del lavoro di pubblica utilità ritenuto più opportuno). Il "parere" del pubblico ministero.- Ulteriore presupposto essenziale della "sostituzione" è l'intervento del pubblico ministero, il quale deve essere solo "sentito": ergo, svolge un ruolo necessariamente consultivo, ma non vincolante. Il giudice può aderire, quindi, alla richiesta dell'imputato anche andando di diverso avviso rispetto alle determinazioni del pubblico ministero. Dalla necessità di dover sentire il pubblico ministero discende, comunque, che l'eventuale inosservanza può costituire oggetto di specifico motivo di impugnazione. La decisione del giudice.- Sulla richiesta di "sostituzione" avanzata dall'imputato, il giudice, acquisito il parere del pubblico ministero, deve provvedere con la sentenza di condanna o di "patteggiamento". Peraltro, come si è accennato, il giudice è libero di decidere, sia non accogliendo la richiesta dell'imputato, anche a fronte di un parere positivo del pubblico ministero, sia accogliendola, andando di contrario avviso alle determinazioni sfavorevoli del pubblico ministero. La "sostituzione" con la pena del lavoro di pubblica utilità non costituisce, infatti, un diritto dell'imputato, essendo rimessa la relativa applicazione all'apprezzamento discrezionale del giudice (significativo l'utilizzo, nell'articolo 73, comma 5 bis, del termine "può") da esercitarsi avendo riguardo principalmente al parametro costituzionale espresso dall'articolo 27 (in particolare, sub specie, dell'idoneità della misura a tendere alla rieducazione del condannato), ai parametri di cui agli articoli 132 e 133 del Cp, oltre che ai parametri dettagliati nello stesso articolo 73, comma 5 bis (per esempio, in caso di lavoro da svolgersi presso una struttura autorizzata ai sensi dell'articolo 116 del dpr n. 309/90, la richiesta non potrebbe essere accolta laddove mancasse il "previo consenso" della medesima). Tale apprezzamento, se congruamente motivato, è insuscettibile di censura in sede di legittimità. L'insussistenza di un diritto all'applicazione del lavoro di pubblica utilità concerne anche l'istituto del "patteggiamento". Infatti, sembra corretto desumere dalla lettera della norma (il termine "può" è riferito non solo alla sentenza di condanna, ma anche a quella di "patteggiamento"), che l'accordo ex articolo 444 del Cpp può riguardare solo le pene detentiva e pecuniaria previste edittalmente per il reato, onde è su tale accordo che deve pronunciarsi il giudice, il quale, poi, laddove ritenga di accoglierlo, in sede di sentenza ed in presenza di specifica richiesta dell'imputato, "può" provvedere a "sostituire" la pena "patteggiata" con quella del lavoro di pubblica utilità. Che il lavoro di pubblica utilità sia fuori dall'accordo è confermato dal rilievo che sulla "sostituzione" deve essere solo "sentito" il pubblico ministero (il quale, all'evidenza, sulla richiesta di patteggiamento ha già prestato il suo "consenso"). Da quanto esposto discendono due importanti conseguenze. La prima concerne la posizione dell'imputato, il quale, laddove avanzi richiesta di patteggiamento, non può certo subordinarla alla sostituzione della pena edittale con quella del lavoro di pubblica utilità (una tale condizione sarebbe irrilevante e priva di effetti). L'altra concerne la posizione del pubblico ministero, il quale sulla sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità non può esprimere altro che un parere non vincolante per il giudice (inequivoco, va ribadito, è l'utilizzo dell'espressione "sentito"). Esecuzione del lavoro di pubblica utilità e esigenze di cautela.- Non è ovviamente concepibile, in difetto di esplicita previsione e in ossequio ai principi generali, che il lavoro di pubblica utilità possa essere applicato con efficacia immediatamente esecutiva. Per l’effettivo inizio della

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prestazione, quindi, dovrà inevitabilmente attendersi il passaggio in giudicato della sentenza. Nelle more, non sembrerebbe possibile l’applicazione nei confronti dell’imputato di una misura cautelare personale, anche diversa da quella custodiale in carcere. Ciò perché, logicamente, l’apprezzamento valutativo svolto dal giudice (nei termini di cui si è detto), sulla sussistenza dei presupposti per la concedibilità del beneficio sanzionatorio (in particolare, la rilevata prognosi favorevole in ordine al recupero del soggetto), ci sembra che escluda concettualmente la configurabilità concorrente di esigenze meritevoli di soddisfazione con l’imposizione di una misura cautelare. La durata del lavoro di pubblica utilità.- Quanto alla "durata" del lavoro di pubblica utilità dispone espressamente l'articolo 73, comma 5 bis, che, in espressa deroga a quanto previsto dall'articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000 (laddove si fissa una durata non inferiore a dieci giorni ma non superiore a sei mesi), la determina per relationem avendo riguardo alla durata della sanzione detentiva irrogata (vuoi in sede di condanna, vuoi in sede di "patteggiamento"). Il regime giuridico del lavoro di pubblica utilità.- Va ricordato che, ai sensi dell'articolo 58 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubblica utilità deve considerarsi, "per ogni effetto giuridico", come pena detentiva della specie corrispondente a quella originaria: e tra gli effetti giuridici evocati dalla norma deve annoverarsi anche quello relativo al computo della prescrizione. L'ambito di applicazione della sostituzione.- La sostituzione con il lavoro di pubblica utilità può riguardare solo la pena inflitta per i reati di cui all'articolo 73 del dpr n. 309/90 e solo qualora si ritengano sussistenti i presupposti dell'attenuante del "fatto di lieve entità". L'inequivoca formulazione del comma 5 bis dell'articolo 73 ("nell'ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui all'articolo 73") non sembra consentire interpretazioni estensive. Ne deriva che, per esempio, in caso di plurime violazioni dell'articolo 73 del dpr n. 309/90, poiché la configurabilità della circostanza attenuante del "fatto di lieve entità", anche nel caso in cui si ravvisi il vincolo della continuazione, va apprezzata in relazione ad ogni singolo episodio delittuoso, qualora il giudice la ritenga concedibile solo per alcune delle violazioni, solo per queste potrà provvedere, nel caso, alla sostituzione con il lavoro di pubblica utilità, scorporando la relativa frazione di pena. Ne deriva ancora, sempre esemplificando, che il giudice, in caso di riconosciuta continuazione con un reato diverso da quelli indicati nell'articolo 73, se ritenga di accogliere la richiesta dell'imputato, non possa che limitare la sostituzione alla frazione di pena applicata per il reato di cui all'articolo 73. La reiterabilità del beneficio.- A conferma della finalità di recupero posta alla base della sostituzione, è previsto (v. articolo 73, comma 5 bis, ultimo periodo) che questo possa essere concesso fino a due volte. I rapporti con la sospensione condizionale della pena.- Come si è visto, l'applicazione del lavoro di pubblica utilità presuppone, tra l'altro, che il giudice non ritenga di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena. Si potrebbero porre alcuni problemi interpretativi. Il primo concerne la posizione dell'imputato rispetto al beneficio della sospensione condizionale della pena, la cui concessione osta all' applicazione del lavoro di pubblica utilità. Proprio il collegamento tra i due benefici determina che l'imputato possa avere uno specifico interesse a non vedersi riconosciuto il beneficio della sospensione condizionale della pena, siccome ostativo a quello previsto dall'articolo 73, comma 5 bis. Cosicchè, sembra corretto ritenere che l'imputato, che abbia fatto richiesta di sostituzione della pena edittale con quella del lavoro di pubblica utilità e se la sia vista rigettare per avere il giudice riconosciuto i presupposti per la

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concessione della sospensione condizionale, possa impugnare, con il diniego della sostituzione, anche il riconoscimento della sospensione condizionale. Infatti, in tale evenienza, sussiste senz'altro l'interesse dell'imputato ad impugnare l'intervenuta concessione di quest'ultimo beneficio, giacchè questa confligge con il suo interesse giuridicamente apprezzabile a vedersi riconosciuto il diverso beneficio del lavoro di pubblica utilità. Il secondo riguarda la disciplina applicabile nell'ipotesi in cui la concessa sospensione condizionale della pena (ostativa al beneficio de quo) sia stata successivamente revocata. In altri termini, nel silenzio della norma, vi è da chiedersi quali conseguenze derivino da un eventuale revoca ex articolo 168 del Cp della sospensione condizionale della pena; in particolare, se l'interessato, condannato, con pena originariamente sospesa, per uno dei reati di cui all'articolo 73, con la concessione dell'attenuante del "fatto di lieve entità", possa chiedere in sede esecutiva, dopo la revoca della sospensione condizionale, la sostituzione delle pene detentiva e pecuniaria con quella del lavoro sostitutivo. E' da ritenere che nulla osti alla soluzione affermativa, dovendosi in proposito applicare il procedimento di esecuzione di cui all'articolo 666 del Cpp e, in particolare, il comma 5 di tale disposizione, che disciplina i poteri istruttori del giudice dell'esecuzione, facoltizzato a richiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni rilevanti per la decisione (in primo luogo, il fascicolo processuale) e di assumere, nel rispetto del contraddittorio, financo le prove a tal fine utili. Poteri istruttori che dovranno essere esercitati laddove, mancando elementi concreti negli atti processuali, si tratti di acclarare la condizione soggettiva di tossicodipendente/assuntore dell'interessato, necessaria per l'accesso al beneficio. La revoca.- L'ultima parte del comma 5 bis dell'articolo 73 disciplina le conseguenze della violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. E' prevista la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Competente, su richiesta del pubblico ministero o anche d'ufficio, è il giudice che procede, o quello dell'esecuzione, con le formalità di cui all'articolo 666 del Cpp, il quale deve, a tal fine, tenere conto dell'entità dei motivi e delle circostanze della violazione. Avverso il provvedimento di revoca è ammesso ricorso per cassazione, che non ha però effetto sospensivo. Nel silenzio della norma, vi è da chiedersi quali siano gli effetti della revoca. E' da ritenere che il lavoro di pubblica utilità, pur importando il non ingresso in carcere del condannato, rappresenti pur sempre una pena, con l’importante conseguenza che, in caso di revoca anche per comportamento incompatibile, il periodo di tempo trascorso positivamente a svolgere il lavoro di pubblica utilità deve essere considerato come pena regolarmente eseguita e, quindi, va computato nella pena complessiva da scontare: conforto in tal senso sembra trovarsi anche nel riferimento, operato nell'articolo 73, comma 5 bis, al "ripristino" della pena sostituita, che lascia propendere per l'efficacia ex nunc del relativo provvedimento del giudice, il quale, quindi, nella determinazione della pena da espiare dovrà detrarre il periodo di tempo in cui il condannato ha effettivamente e proficuamente svolto l'attività lavorativa. Va ancora precisato, con riguardo ai provvedimenti che il giudice può adottare a fronte dell'accertata violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, che la revoca della misura sostitutiva è solo una delle opzioni possibili (quella massima, conseguente alle violazioni più gravi, dimostrative dell'inefficacia della misura sostitutiva): il giudice, infatti, a tal fine deve tenere conto "dell'entità dei motivi e delle circostanze della violazione" e, all'esito, può anche non procedere alla revoca, limitandosi, piuttosto, ad adottare nuove e diverse prescrizioni più idonee a corrispondere alle esigenze del caso concreto (anche nella prospettiva della prevenzione del rischio di ulteriori inosservanze). In tale occasione, riteniamo che il giudice non possa mancare di "rideterminare" la pena residua ancora da scontare, scorporando dal periodo di tempo relativo al "presofferto" quello in realtà sostanzialmente non scontato in ragione dell'accertato comportamento violativo.

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Problemi di diritto intertemporale.- Va ancora soffermata l'attenzione su alcuni problemi interpretativi in materia di successione nel tempo di leggi penali. Non è infatti dubitabile che l'applicazione del lavoro di pubblica utilità si risolve in una disposizione di favore per il reo, che quindi dovrebbe trovare applicazione, ai sensi dell'articolo 2, comma 4, del Cp, anche ai fatti commessi sotto il vigore della previgente disciplina, laddove non definiti con sentenza irrevocabile. Va peraltro evidenziato che, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole, il giudice deve applicare questa nella sua integralità, ma non può combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo dell'altra legge secondo il criterio del favor rei, perchè in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando così il principio di legalità: da ciò discende che, laddove il giudice ritenga di accedere alla richiesta di applicazione del lavoro di pubblica utilità, per i limiti edittali della pena detentiva da sostituire dovrà avere riguardo (anche per le ex "droghe leggere") a quelli stabiliti nel nuovo comma 5 dell'articolo 73, essendogli imposto di applicare il novum normativo, in concreto più favorevole, nella sua integralità. L'applicazione del novum normativo ex articolo 2, comma 4, del Cp. può porre taluni ulteriori problemi laddove il processo sia stato già definito in primo grado e penda davanti al giudice dell'impugnazione. In appello, ai fini dell'eventuale applicazione del lavoro di pubblica utilità, dovrà procedersi alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale (articolo 603 del Cpp), se e qualora occorra accertare la sussistenza delle condizioni soggettive (l'essere l'imputato "tossicodipendente" o "assuntore" di sostanza stupefacente). Il giudice di legittimità, invece, laddove l'impugnazione sia ammissibile e i motivi di ricorso lo consentano, non potrà che annullare con rinvio al giudice di merito, affinchè sia questi a verificare l'eventuale applicabilità della nuova disciplina più favorevole. L'istituto de quo è concettualmente inapplicabile in cassazione, risultando non invocabile il disposto dell'articolo 620, comma 1, lettera l), del Cpp ed esulando dai poteri del giudice di legittimità, a tacer d'altro, quello di procedere alla determinazione delle modalità esecutive del lavoro di pubblica utilità.*

GIUSEPPE AMATO

* Per ulteriori approfondimenti, volendo, ci si permetta rinviare al volume G. AMATO, Stupefacenti. Teoria e pratica, sesta edizione, Laurus Robuffo-Roma, 2006