Date post: | 26-Jun-2015 |
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Ciò che è un mistero non è come il mondo sia, ma il “fatto” che esso sia.
Ludwig Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus
Pino Blasone
“Stupor Mundi”
La meraviglia filosofica
1 – Immagini di Iride messaggera degli dei, su un antico vaso greco; e dell’arcangelo Gabriele in un’Annunciazione bizantina affrescata nella
Chiesa di Sioni Ateni in Georgia: XII secolo
Il páthos dei filosofi
L’espressione latina Stupor Mundi – “stupore del mondo” – era abitualmente
impiegata in chiave iperbolica, per encomiare personalità storiche di grande spicco politico
e militare, quali gli imperatori Giulio Cesare nell’antichità romana e Federico Secondo
Hohenstaufen nel Medio Evo europeo. Ma qui preferiamo intenderla in tutt’altro senso e
ben più in generale, per riferirci alla meraviglia di fronte al mondo che già i primi pensatori
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greci avrebbero provato e che sarebbe stata alla base della loro riflessione filosofica, almeno
stando ai più tardi Platone e Aristotele. Nel dialogo Teeteto, Platone fa dire al suo maestro
Socrate che “la meraviglia è la passione – páthos – di un filosofo, e la filosofia principia
nella meraviglia. Né fu un genealogista da poco colui il quale affermò che Iride è figlia di
Taumante” (155d). Questo “genealogista” sarebbe attendibilmente il poeta Esiodo nel
poema Teogonia, dove Iride, messaggera degli dei e lei stessa dea dell’arcobaleno, è
considerata mitica figlia di Taumante, titanide deità marina. L’allusivo gioco di parole è
etimologico, in quanto il nome Tháumas viene fatto derivare da tháuma, che in greco vuol
dire “meraviglia”, e quindi starebbe per “meraviglioso” o “colui che ispira meraviglia”.1
C’era dunque una componente sacrale nella meraviglia che i primi filosofi avrebbero
provato di fronte al mondo, tanto che potremmo anche definirla “sacro stupore”. Riferendosi
a loro, nel suo trattato sulla Metafisica Aristotele specifica: “Grazie alla meraviglia di quelli
gli uomini dapprima iniziarono e ancora adesso prendono a filosofare; in origine essi si
meravigliavano di fronte a problemi ovvi; in seguito, a poco a poco progredirono
affrontando problemi che riguardavano grandi questioni, come ad esempio i fenomeni
relativi alla luna e al sole o alle stelle, e in merito alla genesi dell’universo. Un uomo, che
sia in grado di sconcertarsi e meravigliarsi, per ciò stesso si scopre ignorante (ne consegue
che perfino l’amante dei miti lo è in un certo senso della sapienza, se non altro perché pure i
miti sono fatti di cose meravigliose)” (982b). Pertanto, a un sacro stupore subentra o si
sovrappone un senso di meraviglia cosmica. Questo è unito alla presa di coscienza della
propria socratica “ignoranza”, di una inadeguatezza di fronte agli enigmi posti dall’esistenza
e al connesso desiderio di superarla, ma anche alla capacità critica di distinguere fra scienza
e mito, in esso discernendo e interpretando gli elementi che avevano contribuito a suscitare
lo stupore iniziale, e che seguitavano a mantenerlo vivo e a rinnovarlo o ad accrescerlo.
Da parte sia di Platone sia di Aristotele, il termine usato per denotare la meraviglia è
in realtà un verbo sostantivato: tò thaumázein, “il meravigliarsi”. Aristotele vi associa un
altro verbo: philosophéin, cioè “filosofare”, quasi a rimpiazzare la coppia privilegiata di
1 Una opinabile etimologia del nome Iride, dal verbo éirein – “dire”, “parlare” –, si trova nel Cratilo di Platone (408b). La divina messaggera venne raffigurata alata e con attributi che la fanno somigliare all’angelo annunciante Gabriele, nella più tarda iconografia cristiana e a volte islamica. Quanto alla suggestiva associazione simbolica con l’arcobaleno, si legga Philip Fisher, Wonder, the Rainbow, and the Aesthetics of Rare Experiences, Cambridge, MA: Harvard University Press, 1998.
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verbi già impiegata dal “tremendo e venerabile” (così lo aveva appellato Platone, nel Timeo)
Parmenide. Questi, nel suo poema filosofico Sulla natura, aveva infatti sostenuto il
paradosso che “pensare ed essere” coincidano (frg. DK B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ
εἶναι). Se in qualche modo e misura pensare è essere, e in effetti difficilmente si potrebbe
pensare qualsiasi cosa senza implicitamente pensare al proprio esserci in quanto soggetto
pensante, il cogito me cogitare, ecco allora che tra l’essere e il pensare in maniera organica
o sistematica – il fare filosofia, appunto – si inserisce uno specifico páthos. Esso non è altro
che la capacità di meravigliarsi per qualcosa di particolare al mondo, o per quest’ultimo nel
suo complesso, la quale ispirata meraviglia induce a porsi domande conseguenti, motivando
e aprendo la via alla riflessione in quanto attività razionale qualificante della mente umana.
Di nuovo nel Teeteto, Platone/Socrate narra un aneddoto – o, meglio, apologo di
derivazione esopica –, in cui il filosofo naturale Talete di Mileto, intento ad ammirare e
scrutare gli astri camminando sotto la volta celeste, cade in un pozzo o cisterna. Richiamata
dalle sue attendibili invocazioni di aiuto, accorre una “spiritosa e graziosa” servetta di
Tracia. Lei si affaccia all’imboccatura del pozzo e irride il maldestro, rimproverandolo di
concentrarsi nel voler conoscere le cose del cielo, mentre non vedeva quelle davanti o tra i
suoi piedi (174a-b). Similmente a quanto fa Platone, si può commentare che la storiella
riflette un precoce contrasto fra teoria e pratica, o un’incomprensione da parte del “buon
senso” popolare. Si può insinuare che chi era davanti al distratto Talete era probabilmente la
ragazza stessa, da lui ignorata o trascurata. Ma si può anche interpretare che la meraviglia
del proto-filosofo, tutta rivolta a “grandi questioni”, a problemi remoti e ritenuti insolubili o
ancora privi di risvolti utilitari, avrebbe potuto prima applicarsi alle piccole cose della vita
quotidiana, verso cui una sensibilità femminile era solitamente più attenta nonché accorta.
Per la verità, suggerisce la storia della filosofia che l’apologo platonico qui in
questione rifletteva una conversione già avviata di recente – grazie peraltro alla sofistica –
dalla meraviglia cosmica di ascendenza pitagorica a quella che possiamo definire una
meraviglia antropica, incentrata piuttosto sull’uomo. Per rendersene meglio conto, conviene
ripensare a un non meno celebre coro tragico, quello del primo stasimo dell’Antigone di
Sofocle: “Molte le cose meravigliose, nessuna più sconcertante dell’uomo...” (v. 332: πολλὰ
τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει). Abbiamo qui tradotto lo stesso termine,
deinón, come “meraviglioso” prima e “sconcertante” poi, perché effettivamente esso
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comprende entrambe le sfumature di significato. La prefernza accordata dall’autore a tale
aggettivo anziché a uno derivato da tháuma, più semplicemente “meraviglia” o “stupore”,
non è dovuta solamente al contesto drammatico specifico. Per lo più in precedenza attribuita
a certe divinità, l’ambigua connotazione di terribilità che deinón può trasmettere viene ora
proiettata su un’umanità, capace tanto di straordinarie imprese quanto di nefandi delitti.
Rispetto a questa evoluzione in atto, in che cosa allora consiste la novità socratica?
Evidentemente ed eminentemente, in una attualizzazione del monito delfico “Conosci te
stesso” (γνῶθι σεαυτόν, gnōthi seautón). Non soltanto l’attenzione viene focalizzata
sull’essere umano, bensì anzitutto sull’uomo interiore invece che considerato dall’esterno.
Nella filosofia e psicologia occidentali, non è che l’inizio di un processo di scoperta e
perfino di stupore di fronte al proprio sé, che potremmo definire “auto-meraviglia” oltre che
introspezione, se non fosse che definizioni quali in tedesco Selbst-Verwunderung o in
inglese Self-Wonderment rendono forse il concetto relativo in maniera convenzionalmente
più efficace o sintetica. Secondo Hannah Arendt, in Vita activa. La condizione umana,
conseguenza rilevante di un tale atteggiamento mentale fu che il pensiero stesso “da Platone
in poi, e probabilmente da Socrate, […] fu inteso come il dialogo interiore di ciascuno con
se stesso (emé emautō, per richiamare l’espressione corrente nei dialoghi platonici)”.2 In
altre parole la forma dialogica delle opere platoniche, almeno in parte e in un certo senso,
sarebbe stata una simulazione dialettica e rappresentazione-drammatizzazione del sé.
2 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. S. Finzi, Milano: Bompiani, 1999 (ed. or. 1958); pp. 215-216. Ad opera della pensatrice ebraico-tedesca, si legga pure L’atto originario della filosofia politica è lo stupore, in La lingua materna. La condizione umana e il pensiero plurale, a cura di A. Dal Lago, Milano: Mimesis, 1993 (ed. or. 1965, ma la conferenza in oggetto risale al 1954); pp. 57-84. In effetti, l’organizzazione della società in quanto imitazione di una vagheggiata armonia cosmica fu un ideale pitagorico, che influenzò il platonismo politico: fra questi antichi pitagorici, presumibilmente anche una donna, Aesara di Lucania.
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2 – Roberto De Santis, Conversione di Agostino: Convento della Madonna della Misericordia, Fermo; 1986. Altro tema frequente
nell’iconografia agostiniana è quello della cosiddetta “Estasi di Ostia”, ispirato a un episodio narrato nelle Confessioni (IX 10)
Una vana curiositas
Con Platone nasce la scena filosofica, quasi un’intima agorá in cui páthos e lógos,
sentimento drammatico e ragione discorsiva, si incontrano e a volte scontrano, non di rado
sconfinando nella dimensione nostalgica del mito. Un piccolo mito è indubbiamente
l’aneddoto-apologo di cui sopra, adattato al personaggio storico di Talete. Nel 197 d. C., nel
suo primo scritto apologetico intitolato Alle Nazioni, lo scrittore latino cristiano Tertulliano
narra lo stesso episodio ma con alcune varianti e la morale della favola è diversa: Thales,
dum totum caelum examinat et ambulat oculis, in puteum cecidit turpiter, multum inrisus
Aegyptio illi: “in terra”, inquit, “nihil perspiciens caelum tibi speculandum existimas?”
Itaque casus eius per figuram philosophos notat, scilicet eos, qui stupidam exerceant
curiositatem, in res naturae quam prius in artificem eius et praesidem, in uacuum [lacuna
del testo manoscritto] dum habituros (“Mentre cammina osservando il cielo, Talete cadde
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miseramente in un pozzo. Venne così irriso aspramente da un tale egiziano: ʻTu, che nulla
discerni sulla terra, pretendi di studiare il cielo?’ Questo è un veritiero ritratto estensibile a
quei filosofi, che idulgono in vani propositi e in una stupida curiosità sulle cose della natura,
ancor prima di applicare le loro intelligenze a chi le ha create e le governa”; II 2).
Qui cambia, intanto, la figura del personaggio rappresentante la saggezza popolare:
non più la “spiritosa e graziosa” (emmelḕs kai chariéssa) ragazza di Tracia, o il generico
astronomo dell’originale esopico, bensì un severo Egiziano.3 Soprattutto, altro è il
commento dell’autore. Attendibilmente per la prima volta, affiora il motivo polemico della
vana curiositas, destinato ad attraversare tutto il Medio Evo, da Agostino di Ippona fino a
Dante Alighieri. Vano o perfino peccaminoso dedicarsi, in particolare, alla filosofia della
natura e alle scienze che ne sono derivate. Oltre a risultare superfluo ai fini religiosi, ciò
distrae dalla devozione verso l’unico Dio, e sfida i presunti limiti da lui stesso posti
all’umana conoscenza, potendo entrare in conflitto con la fede nelle verità rivelate.
Per Sant’Agostino, la meraviglia cosmica sussiste in quanto teodicea, sacro stupore
di fronte alla creazione e testimonianza fenomenica del suo creatore: Interroga
pulchritudinem terrae, interroga pulchritudinem maris, interroga pulchritudinem dilatati et
diffusi aeris, interroga pulchritudinem coeli, interroga ordinem siderum, interroga solem
fulgore suo diem clarificantem, interroga lunam splendore subsequentis noctis tenebras
temperantem, interroga animalia quae moventur in aquis, quae morantur in terris, quae
volitant in aere; latentes animas, perspicua corpora; visibilia regenda, invisibiles regentes:
interroga ista. Respondent tibi omnia: Ecce vide, pulchra sumus. Pulchritudo eorum,
confessio eorum. Ista pulchra mutabilia quis fecit, nisi incommutabilis pulcher? (Sermo
CCXLI, 2; P. L., 38).
In una traduzione, non è facile rendere tutta la portata estatica del senso di meraviglia
evocato da Agostino: “Interroga la bellezza della terra, del mare, dell’aria ovunque diffusa,
del cielo. Interroga l’ordine degli astri e il sole o la luna, i quali illuminano il giorno
splendente o schiariscono le tenebre della notte che ad esso subentra. Interroga gli animali
3 Nella Vita di Talete di Diogene Laerzio (circa 180-240 d. C.), il personaggio in questione subisce un’altra suggestiva trasformazione, in una vecchia e un po’ bisbetica fantesca. Cfr. Hans Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, trad. B. Argenton, Bologna: Il Mulino, 1988. Comunque, le varie versioni dell’aneddoto possono ben rispecchiare un’usanza degli antichi astronomi, di calarsi in pozzi o ristrette cisterne per meglio osservare una certa porzione di cielo.
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che si muovono nelle acque, che camminano sulla terraferma, che volano nell’aria: i loro
animi occulti e i corpi che si mostrano; in loro, il visibile che si fa guidare e l’invisibile che
li guida. Interroga pure. Ecco, tutte quelle cose ti risponderanno: osserva come siamo belle.
La loro bellezza è una confessione. Queste mutevoli bellezze chi le ha create, infatti, se non
Uno la cui bellezza è immutabile?”. Analoghe meditazioni abbiamo dei Padri della Chiesa
greci Teodoreto di Ciro e Giovanni Crisostomo, che però allo stupore abbina un biblico
tremore.4 Né sarà da meno la poesia cosmica del Cantico delle Creature, composto da San
Francesco d’Assisi intorno al 1224, spingendosi anzi oltre in una serafica visione. Tuttavia,
Aurelio Agostino è altresì il pensatore che cristianizza una vocazione contemplativa
all’interiorità già stoico-neoplatonica: in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas
(“torna in te stesso, all’interno dell’uomo abita la verità”; De vera religione, XXXIX 72).
Con una incursione nella storia dell’arte, possiamo accostare quest’abissale e intima
specularità fra macrocosmo e microcosmo alla diffusa architettura europea dei chiostri
medievali, romanici prima e gotici poi. Quello non a caso chiamato Cloître de la Merveille,
nell’abbazia benedettina di Mont Saint-Michel in Normandia, fu opera di Thomas des
Chambres e Raoul de Villedieu ultimata nel 1228. La vista di una porzione di cielo
circoscritta dall’edificio in questione è un quadrilatero irregolare. Da un lato del chiostro
stesso è possibile uno sguardo sul mare, attraverso tre archi ogivali. In particolare la vista
verso l’alto, per quanto ben più ampia, con uno sforzo di fantasia speculativa può ricordare
il cielo intravisto dal personaggio di Talete nel famoso apologo platonico. Ma qui non si
tratta di una caduta più o meno accidentale, bensì della volontà di rinuncia dei monaci alla
vita secolare, abbracciando l’ideale mistico di un’esistenza per lo più contemplativa. Per chi
non compisse tale scelta, permaneva invece un impedimento o veto all’esplorazione del
mondo in quanto tale, che non fosse giustificata da intenti di conversione religiosa altrui.
Nell’Inferno di Dante, canto XXVI, versi 85-142, questo veto si congiunge con una
drammatica condanna di ogni vana curiosità, in quanto empia e insieme rischiosa. Eppure, il
poeta fiorentino non nasconde ormai una contenuta ammirazione, per la sua quasi moderna
4 Johannes Chrysostomus, De incomprehensibili Dei natura (Perì akatalēptou), LXX 6: “Ci meravigliano la grazia di un colonnato, l’arte di affreschi dipinti, il rigoglio fisico della gioventù. Così pure l’alto mare sconfinato; ma, se chiniamo lo sguardo a sondarne la profondità, terrore si mescola a stupore”. È il mysterium tremendum analizzato da Rudolf Otto in particolare nell’Appendice prima di Das Heilige, edito per la prima volta nel 1917. La distinzione del teologo tedesco, fra una meraviglia razionale e una irrazionale, sembra tuttavia troppo netta.
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rivisitazione dell’eroe omerico Ulisse. Questi narra il suo ultimo viaggio sulla terra, anzi
sull’oceano. La sua sfida contro l’ignoto si concluderà in un fatale naufragio. Sempre
coinvolgente è l’“orazion picciola” rivolta dall’anziano navigatore ai suoi vecchi marinai,
prima di varcare con loro le “Colonne d’Ercole” tradizionalmente poste dalla Provvidenza a
guardia del Mar Mediterraneo: “...fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e
canoscenza”. Circa due secoli dopo Dante, Cristoforo Colombo tenterà la stessa impresa,
questa volta non nella finzione e con successo. Nel 1291 I fratelli genovesi Vivaldi avevano
provato a circumnavigare l’Africa, senza far ritorno. L’Inferno fu composto negli anni 1304-
09. La stagione delle grandi esplorazioni geografiche, precedenti l’avvento della modernità,
era appena iniziata. Né la prefigurazione dantesca è pura coincidenza. Essa riflette una
storica disillusione, mentre preannuncia a oltranza il tramonto di un’epoca.
Ciononostante Dante resta uomo medievale, al punto da apparire intransigente contro
ogni spirito scientifico. In un suo scritto latino intitolato De situ et forma aque et terre,
infatti leggiamo: Desinant ergo, desinant homines querere que supra eos sunt. [...] Et
denique audiant propriam Creatoris vocem dicentis: “Quo ego vado, vos non potestis
venire”. Et hec sufficiant ad inquisitionem intente veritatis (“Cessino dunque, cessino gli
uomini di investigare le cose al di sopra di essi. [...] Ascoltino infine la voce del Creatore,
che dice ʻDove io vado, voi non potete venireʼ. Ciò sia sufficiente all’intento della ricerca
della verità”; XXII). Esclusiva e quasi gelosa nel campo della conoscenza, una tale
percezione della divinità non poteva non suonare riduttiva e contraddetta dai successivi
progressi verificatisi. Né sorprende che nel Rinascimento e oltre, quando la scienza tornerà
in auge, alcuni astronomi cadranno nell’eccesso opposto, rifacendosi alla meraviglia
pitagorica di fronte a una presunta armonia cosmica, in senso letterale e perfino musicale: in
particolare il tedesco Giovanni Keplero in Harmonice Mundi (1619) e, più in generale, in
una prefazione al Mysterium Cosmographicum (1596). In nota ai Principia Mathematica
(1687), l’inglese Isaac Newton menzionerà Talete e Pitagora quali remoti precursori.
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3 – “Chiostro della Meraviglia”, nell’Abbazia di Mont Saint-Michel,
Normandia
Stupore e sgomento ontologici
In forma ancora embrionale, risulta che il primo a formularla fu Sigieri di Brabante
(1235–82 circa), nelle sue Quaestiones in Metaphysicam: quare magis est aliquid in rerum
natura quam nihil? (“perché in natura c’è qualcosa piuttosto che niente?”). È quella che in
seguito verrà definita “domanda metafisica fondamentale” o, in tedesco, Metaphysische
Grundfrage, neanche a torto posta a convenzionale fondamento della filosofia moderna. La
seconda e più celebre versione è quella del pensatore e scienziato tedesco Gottfried Wilhelm
von Leibniz, espressa in francese nei Principes de la nature et de la grâce fondés en raison
(1714), e in latino in De rerum originatione radicali (1697).5
Nel primo caso, essa suona così: pourquoi il y a plus tôt quelque chose que rien?
(“Perché vi è qualcosa piuttosto che niente?”). Nel secondo caso la domanda si presenta in
maniera implicita, unitamente a un’allusiva risposta: Ratio est in Natura cur aliquid potius
5 G. W. Leibniz, Die Hauptlehrsätze der Leibnizischen Philosophie (ovvero De rerum originatione radicali, manoscritto in latino del 1697), in Die philosophischen Schriften von G. W. Leibniz, a cura di C. J. Gerhardt, vol. VII, Berlin 1875-90, rist. an. Olms, Hildesheim 1965, p. 289 (trad. it. Dio e i possibili, in G. W. Leibniz, Scritti filosofici, UTET, Torino 1988, vol. I a cura di D. O. Bianca). Cfr. Résumé de metaphysique, in Opuscules et fragments inédites de Leibniz. Extraits des manuscrits de la Bibliothèque royale de Hanovre, a cura di L. Couturat, Presses Universitaires de France, Paris 1903, rist. an. Olms, Hildesheim 1966, p. 533.
9
existat quam nihil (“C’è una ragione in natura, perché esista qualcosa piuttosto che niente”).
È il controverso principio di “ragion sufficiente”, residuo di argomentazione medievale
attualizzato da Leibniz, che intuibilmente non ha mai incontrato un’alternativa plausibile.
Nello stesso paragrafo settimo dei “Principi della natura e della grazia fondati nella
ragione”, c’è però un seguito a volte dato un po’ troppo facilmente per scontato: Car le rien
est plus simple et plus facile que quelque chose. De plus, supposé que des choses doivent
exister, il faut qu’on puisse rendre raison pourquoi elles doivent exister ainsi, et non
autrement (“Infatti, il niente è più semplice e più facile di qualcosa. Per giunta, supposto che
debbano esistere delle cose, occorre che si possa rendere ragione del perché esse debbano
esistere così, e non altrimenti”).
Nei commenti critici, per la verità si è abbastanza discusso sull’interpretazione della
sentenza le rien est plus simple et plus facile que quelque chose. Un po’ meno ci si è
soffermati sul quesito immediatamente seguente, espresso in forma indiretta. Eppure, è qui
che Leibniz si distingue da quanti gli faranno eco, Schelling e Heidegger in particolare. 6
Egli non si accontenta di considerare l’esistenza di qualcosa in generale. Bensì scende nel
particolare, dall’indeterminato al determinato, dall’“essente” all’ente. Pressappoco il
contrario di quanto cercherà di fare Heidegger, nel corso del suo pensiero.
Se si conviene che i due interrogativi siano membri di una sola Grundfrage, come
effettivamente la chiamerà Martin Heidegger pur riferendosi solo al primo di essi, ne
consegue che l’asserto “il niente è più semplice e più facile di qualcosa” funge da cerniera
fra la prima e la seconda istanza della sequenza concettuale. Allo stupore che connota la
proposizione “Perché vi è qualcosa” e allo sgomento della successiva “piuttosto che
niente?”, subentra un’osservazione che diluisce lo sgomento quasi in una banalizzazione
esorcizzante del nulla, in quanto “semplice e facile” assenza di qualsiasi cosa.
Per quanto insignificante o precario possa apparire questo “qualcosa piuttosto che
6 Warum ist nicht nichts, warum ist etwas überhaupt? (“Perché non c’è niente, perché c’è qualcosa in generale?”): Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling, appunto manoscritto senza titolo in Werke, Leipzig 1907, vol. III, p. 781. Pressoché identica, la formulazione che l’autore dà nell’Esposizione del vero rapporto della filosofia della natura con la dottrina migliorata di Fichte, nel 1806. Su quella che Heidegger chiamerà Grundfrage, Schelling tornerà infine nei corsi di lezioni all’Università di Berlino nel 1841-43. Di M. Heidegger, cfr. le opere pertinenti: Introduzione alla metafisica (Einführung in die Metaphysik, 1935 e 1953), trad. it. di G. Masi e prefazione di G. Vattimo, Mursia, Milano 1968; Che cos’è metafisica? (Was ist Metaphysik?, 1929) e Introduzione a: “Che cos’è metafisica?” (Einleitung zu “Was ist Metaphysik?”, 1949), entrambe in Che cos’è metafisica?, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001.
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niente”, il suo sussistere è di estrema complessità rispetto all’inverificabile ipotesi di
un’assenza totale, la quale d’altronde può delinearsi solamente in relazione all’esistenza
presupposta di qualcosa. Da ultimo, la domanda metafisica radicale si schiude su un nuovo
sentimento di meraviglia. Coerente con l’ottimismo leibniziano, esso si condensa intorno a
quella che emerge come vera essenza del problema: “supposto che debbano esistere delle
cose, [...] perché esse devono esistere così e non altrimenti”?
La percezione del sussistere di qualcosa è connessa se non simultanea, da un lato, col
suo essere non-nulla; dall’altro, col definirsi di quel qualcosa in quanto tale. E questo
definirsi non può aversi se non in rapporto a qualcosa che è “altrimenti”. In pratica, a
qualcos’altro. Ci sono almeno un paio di modalità, da cui non si può prescindere nel rendere
una ragion sufficiente proprio del sussistere di qualcosa. Esse sono il suo esserci piuttosto
che niente e il suo non essere qualcos’altro, ovvero il suo essere non-altro. Esistenza,
identità e alterità – per dirla in tedesco e in un più tardo gergo ontologico: Dasein, Sosein e
Anderssein (“esserci”, “essere così”, “essere altrimenti”) –, sono dunque interdipendenti.
Si può del resto insinuare che l’esistenza di qualcosa è un fenomeno, il quale si
configura a metà fra il non-nulla e il non-altro. E questa illazione comporta che ogni ente,
nel bel mentre si emancipa dalla nullità essenziale del “ni-ente”, acquisti segni di
riconoscimento in base alla differenza che si instaura fra ente ed ente. A un certo livello, ciò
che si distingue in quanto altro può divenire non solo percepibile, bensì in vario modo
concepibile o appetibile. A ben vedere, sta qui la complessità dell’esserci di qualcosa, a
fronte di un’ipotizzata – per assurdo – “semplicità e facilità” del niente.
Fin dal periodo della sua formazione, Leibniz si era interessato a un problema.
Disputatio Metaphysica de Principio Individui (“Disputa metafisica sul principio di
individualità”) è il titolo della tesi di dottorato del 1663, in cui egli discuteva l’argomento
del “principio di individuazione”, nel Medioevo già esercizio di speculazione da parte di
Avicenna, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto. In tale riflessione, si innesta a un certo punto
l’influsso recente di Cartesio. En pensant à nous, nous pensons à l’Etre (“pensando a noi
stessi, noi pensiamo all’Essere”), afferma Leibniz nella Monadologie, paragrafo trenta.7
Proviamo qui brevemente a interpretare questa impostazione paradigmatica di
pensiero. Da parte nostra le cose sono identificabili e discernibili, nella misura in cui si
7 G. W. Leibniz, Principi della filosofia o Monadologia e Principi razionali della Natura e della Grazia, trad. it. a cura di S. Cariati, Milano: Bompiani, 2001.
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contrapponga loro un’alterità e non subiscano un’alterazione, che le faccia apparire altre da
quelle che erano. Come il loro esserci dipende dalla loro opponibilità a un relativo e
ipotetico nulla, così la loro identificabilità, dal confronto con l’alterità e dalla preservazione
da una profonda alterazione o da un eventuale annullamento. In tal modo, le loro rispettive
sostanze si presentano a un qualsiasi soggetto. Ed esse insistono a riflettersi nella memoria,
anche quando sottratte all’esperienza diretta.
Ma che accade quando sostanza e soggetto coincidono, quando un soggetto diventa
oggetto della domanda metafisica radicale riferita a se stesso? Parafrasando Leibniz, perché
vi è qualcuno piuttosto che nessuno? Supposto che debba esistere qualcuno, perché deve
esistere così e non altrimenti? Ad esempio, perché ciascuno di noi è se stesso anziché un
altro? Se una qualsiasi cosa ci si presenta quale non-nulla, a maggior ragione è da supporre
che sia quel qualcuno a proporsi come non-altro, proiettando tale sua condizione sul mondo
circostante. L’isolamento monadico delle “sostanze spirituali”, già paventato da Leibniz,
discende in parte da una serie di considerazioni consimili; in parte e a monte, da un rischio
implicito nel cogito ergo sum cartesiano, di costringere la coscienza soggettiva appena
modernamente rifondata nel vicolo cieco di una incomunicante individualità.
Mettendo qui fra parentesi l’intervento provvidenziale leibniziano di un’“armonia
prestabilita” trascendente al fine di superare tale impasse, va dato atto a Heidegger, almeno
nella sua Introduzione alla metafisica, di aver reso un suo spazio al soggetto umano in un
discorso incentrato sulla “domanda fondamentale della metafisica”. In La Posizione
dell’Uomo nel Cosmo era stato tuttavia un altro pensatore, Max Scheler, a riformularla in
questi termini: “Perché c’è in generale un mondo; perché e come mai sono ʻioʼ, in
generale?” (Warum ist überhaupt Welt, warum und wieso bin “ich” überhaupt?). Nello
stesso e in altri testi, è peraltro Scheler a cogliere meglio il contrasto fra Sosein e
Anderssein, “essere così” e “essere altrimenti”, nell’assunto originale leibneziano.8
8 M. Scheler, Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), trad. it. con titolo La Posizione dell’Uomo nel Cosmo a cura di G. Cusinato, Milano: FrancoAngeli, 2004; pp. 177 e 100. Per la verità, già N. Hartmann aveva individuato il problema fenomenologico del So-und-nicht-anders-Sein, di un forzoso “essere così e non altrimenti” dell’ente (cfr. Carlo Scognamiglio, Nicolai Hartmann: dalla fondazione alla costruzione dell’ontologia, in Giornale di filosofia, www.giornaledifilosofia.net, ottobre 2009).
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4 – Foto di Martin Heidegger in età avanzata: anni Settanta del
’900; e testa marmorea di antico busto di Talete, attendibilmente un ritratto immaginario del “proto-filosofo” (fotomontaggio)
La meraviglia delle piccole cose
Pure l’emblematica e virtuale monade di Leibniz, “senza porte né finestre”, può alla
lontana rammentare il pozzo in cui era scivolato Talete nell’apologo di Platone. Un
ambiente senza praticabile apertura o sbocco verso l’esterno, se non fosse per l’intervento
irridente ma tempestivo della servetta di Tracia, dall’aspetto così poco trascendente e anzi
del tutto immanente. Già Hannah Arendt in La vita della mente, uscita postuma nel 1978,
rivalutava l’incisivo personaggio platonico. E nel 1992 il francese Jacques Taminiaux, in La
fille de Thrace et le penseur professionnel: Arendt et Heidegger, ha potuto paragonare
allegoricamente la stessa Arendt alla “ragazza di Tracia”, nel suo controverso rapporto con
Martin Heidegger, che non fu solo intellettuale ma anche sentimentale. Ma qui piace citare
l’italiana Adriana Cavarero in La servetta di Tracia, capitolo di Nonostante Platone edito
nel 1990: “La caduta di Talete nel pozzo e il riso della servetta stanno insieme come
un’unica ed elementare verità dei fatti, tanto più vera quanto priva del minimo
compiacimento maligno nelle parole della servetta, pronunciate con efficace sobrietà:
13
appunto ʻle cose che ti stanno dappresso, e davanti ai piedi, ti rimangono nascosteʼ”.9
Queste cose nascoste in realtà non lo sono affatto. Per lo più, sono cose della vita
quotidiana spesso trascurate poiché ritenute prive di significati elevati, ma che una
sensibilità femminile – o, a volte, artistica – sembra meglio apprezzare in quanto esse
riflettono un esserci al mondo o insieme agli altri, Dasein e Mitsein, che in qualche modo
contribuiscono a mantenere vivo giorno per giorno. Nel dialogo platonico Il simposio, il
personaggio del medico Erissimaco distingue fra Urania, Musa dellʼastronomia, capace di
ispirare celesti affetti, e una minore quale Polimnia – “colei dai molti inni” –, imputandole
una troppo terrena inclinazione a volgarizzare e banalizzare quegli stessi sentimenti (187d-
e). Eppure, volendo ritrarre una Musa in atteggiamento riflessivo, alcuni artisti scelsero
proprio lʼumile Polimnia per impersonare il ruolo di Musa pensosa, pronta a meravigliarsi
per le piccole cose oltre che a subire il fascino – o lo smarrimento – di una cosmica
meraviglia. In particolare, è famosa una statua dello scultore ellenistico Filisco di Rodi.
Purtroppo questo capolavoro non ci è noto nellʼoriginale, ma tramite varie copie di
età romana. La più bella si può ammirare nei Musei Capitolini – Centrale Montemartini – a
Roma. La giovane donna è completamente avvolta in un manto, tranne la testa e compresa
una mano che ne sostiene il mento, mentre il gomito dello stesso braccio poggia su una
colonnina di roccia. Ciò di pressoché unico, che la rende una buona candidata a fungere da
Musa ispiratrice della filosofia, è lo sguardo dei grandi occhi spalancati, scolpiti nel marmo.
Nella realtà storica, può accadere che tale capacità di stupirsi di fronte allʼesistenza e
sussistenza delle cose si rinnovi in situazioni tragiche e possa aiutare ad affrontarle. È il caso
moderno della scrittrice olandese ebrea Esther Hillesum, morta nel campo di sterminio di
Auschwitz nel 1943. Nei suoi diari e lettere che ci sono stati tramandati, leggiamo quanto
magari non ci aspetteremmo in simili condizioni o nellʼimminenza di detto esito: la ricerca
di “un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e
disperazione”10, che sia non solo sia consolante per se stessi ma utile alla riedificazione di
un mondo da parte dei sopravvissuti a quella catastrofe bellica o delle generazioni a venire.
Ovviamente, le più o meno piccole cose riscoperte da “Etty” non sono “aspirapolveri,
forchette e cucchiai d’argento” che altri deportati si affannavano ingenuamente a mettere in
9 A. Cavarero, Nonostante Platone, Roma: Editori Riuniti, 1999; p. 58.10 Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, trad. C. Passanti, Milano: Adelphi, 2005; lunga lettera spedita
a destinatarie non identificate nel dicembre 1942, pubblicata nel 1943 dalla Resistenza olandese.
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salvo allʼultimo momento, ma più poetiche e naturali o perfino astratte. Il che le fa annotare,
in data 1° luglio 1942: “sono accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ogni giorno
– ma sono anche vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la mia finestra, in una
vita cʼè posto per tutto”. E, più problematicamente e filosoficamente, in data 19 giugno
1942: “Certe volte ho paura di chiamare le cose per nome: forse perchè non rimarrebbe più
niente, allora? Le cose devono poter essere chiamate per nome, e se non reggono a questa
prova non hanno il diritto ad esistere. Spesso si cerca di salvarle con una sorta di vago
misticismo. Il misticismo deve fondarsi su unʼonestà cristallina: quindi prima bisogna aver
ridotto le cose alla loro nuda realtà”. In data 18 agosto 1943 la stessa meraviglia cosmica,
già pretesa origine della filosofia, riaffiora nella forma pure originaria di un sacro stupore.
Lʼaggettivo “tua” è qui riferito alla divinità: “A volte, quando me ne sto in un angolino del
campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi
scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza”. E, il
20 luglio 1942, ancora Etty scrive: “I cieli si stendono dentro di me come sopra di me”.11
Non senza qualche reminiscenza democritea (“La verità è in un pozzo”), Etty
sintetizza le antiche figure di Talete e della servetta di Tracia: “Un pozzo molto profondo è
dentro di me”. Avere lʼonestà e il coraggio di nominare le cose per quel che sono, anche in
circostanze estreme: ancor più che una mistica delle piccole cose, questa è la sua sfida
contro ogni niente nullificante, che a volte ideologizzi o perfino teologizzi. Replicando qui
poi a Leibniz, in effetti ci sono tante cose al mondo che appaiono dover esistere così come
sono, almeno in rapporto alla condizione e ai tempi umani, ma pure poche altre che godiamo
del raro privilegio di poter cambiare in meglio. Non farlo è il vero scandalo, negazione di
ogni speranza. Una argomentazione più formalmente logica dellʼintera questione possiamo
ricavarla da un pensatore tedesco, lui pure di estrazione ebraica ma provocatoriamente ateo:
Ernst Bloch. In una intervista del 1974, “Contestuale allo Spirito dellʼutopia”, egli
socraticamente ironizza sulla domanda metafisica radicale posta da Leibniz: “Questa è una
domanda tipica dei dodici, tredici, quattordici anni, che insorge in tutti a questʼetà. Ma se
pensassimo che esistesse solo il nulla, ci chiederemmo: ʻPerché vi è nulla e non qualcosa?’”.
11 Da E. Hillesum, Diario 1941-1943, trad. C. Passanti, Milano: Adelphi, 2004. In italiano, cfr. la raccolta di saggi L’esperienza dell’Altro: Studi su Etty Hillesum, a cura di Gerrit van Oord, Sant’Oreste, Roma: Apeiron, 1990; e, in particolare sulla complessa religiosità della Hillesum, Pagine mistiche, a cura di Cristiana Dobner, Milano: Àncora, 2007.
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Questo irridente paradosso non impedisce affatto a Bloch di esaltare il rinnovato
alone di stupore ontologico, che accompagna la Grundfrage: “uno stupore assolutamente
interiore e profondo” (ein innerstes tiefstes Erstaunen).12 Specialmente nel capitolo
intitolato Lo stupore, nella raccolta di prose letterarie Tracce, tale meraviglia si concentra
però sulla seconda parte della celebre e duplice domanda, invece che sulla prima come farà
Heidegger: “Accompagnata dallo choc di vedere quanto è incerta e oscura la causa del
mondo, ma ancora nutrita dalla speranza che proprio per questo tutto possa ancora ʻessere’
diversamente” (si tenga presente lʼespressione exister ainsi, et non autrement di Leibniz, di
cui sopra). Di più, dal “filo dʼerba” al “ramo di pino”, lʼintera natura e non solo essa sarebbe
investita e pervasa da tale “stupore spontaneo” e “ʻstato finale’ che fermenta nelle cose”.13 In
altri termini, la capacità di infondere meraviglia sarebbe da sempre quasi uno sostrato
ontologico se non addirittura una intenzionalità latente nelle cose, ancor prima che un nostro
eventuale páthos riflesso; lo Stupor Mundi, una specie di grande sogno delle cose stesse,
disseminata pulsione tendente a tradursi in auto-coscienza. Un inconscio creativo e orientato
al futuro, ci tiene a puntualizzare e a distinguersi Bloch. Dal canto suo, ogni pur piccola
cosa ne parteciperebbe come un frammento di specchio, in grado di riflettere il tutto.
12 E. Bloch, Geist der Utopie (1918, 1923 e 1964), trad. it. con titolo Spirito dellʼutopia di V. Bertolino e F. Coppellotti, Milano: Sansoni, 2004; pp. XXIII-XXV e 247-48. In qualche misura, lʼespressione di Bloch può ricordare una analoga di Schelling: das absolut Erstaunenswerthe.
13 Bloch, Spuren (1930 e 1959), trad. it. con titolo Tracce a cura di L. Boella, Milano: Garzanti, 2006; pp. 232-34. Cfr. Micaela Latini, Il possibile e il marginale. Studio su Ernst Bloch, Milano: Mimesis, 2005, pp. 183-86; e Ernesto Balducci, Il sogno di una cosa. Dal villaggio all’età planetaria, Firenze: Giunti, 2006.
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5 – Statua marmorea della Musa Polimnia, copia del II sec. d. C. da
originale tardo-ellenistico, particolare: Centrale Montemartini, Roma; e fotoritratto di Etty Hillesum, eseguito da Bernard Meijlink nel 1937:
Joods Historisch Museum, Amsterdam
Stupore, come scandalo esistenziale
“C’è un essente che si fa avanti sempre di nuovo con insistenza in questo domandare:
quello degli uomini che pongono la domanda”: a questo punto, torniamo per un attimo al
primo capitolo della citata Introduzione alla metafisica di Heidegger, filosofo già
simpatizzante del nazismo. Che fine hanno mai fatto quegli interroganti, si presume
destinati a rimanere senza risolutiva risposta? Ne incontriamo di una categoria speciale, in
un racconto-resoconto di Luce d’Eramo, dal titolo allusivo Germania cinquant’anni dopo.
Con un dionisiaco tocco letterario, essi sono colti in procinto di festeggiare:
“ʻStasera abbiamo il ballo di Carnevale’, spiega l’uomo. ʻChi abita in questa zona?’,
domando io. ʻQui noi tedeschi siamo pochi’, risponde lui, ʻsiamo soprattutto stranieri di
ventisette nazionalità, verstehen Sie?’, mi ammicca, ʻfigli degli ex internati sopravvissuti nei
lager della zona, tutta gente rimasta qui dopo la liberazione, verstehen Sie?’, ripete, ʻnon
sapevano più dove tornare, deplaced persons, und so leben wir zusammen (viviamo
assieme), i nostri nipotini ormai parlano solo tedesco’”.14
14 In L. d’Eramo, Io sono un’aliena, Roma: Edizioni Lavoro, 1999; p. 101. Genericamente sul “lato
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Sebbene trasversale e provvisoria, troviamo qui accennata almeno una risposta alla
possibile variante del quesito fondamentale della metafisica: perché vi è qualcuno piuttosto
che nessuno? E perché noi siamo così, e non altrimenti? La risposta in questione risuona
quasi per caso, insieme dolente e beffarda: Und so leben wir zusammen, verstehen Sie?
(“[Non sapevamo più dove tornare.] E così viviamo assieme, tu comprendi?”). A sua volta,
essa si ribalta in una richiesta di comprensione: Verstehen Sie? Si aggiunga, nel caso
specifico, un sottofondo di “ammiccante” complicità.
Pochi, come l’ex internata, erano in grado di decifrare, contestualizzare e trasmettere
il messaggio. Affidiamoci perciò a quel tanto di comprensione riposto nel linguaggio,
filtrato attraverso le competenze esperenziali, linguistiche e filosofiche, della nostra
narratrice. Paradossalmente, nessuna materia dà prova di tanta irrequietezza linguistica
come la filosofia, nel suo sforzo di pervenire a un senso. Nel tedesco colto i composti So-
sein, Anders-sein e Mit-sein, significano nell’ordine “essere così”, “essere altrimenti” e
“essere assieme”. Essi sono altrettante dimensioni del Da-sein, vale a dire dell’“esserci” su
questa terra, quali definite da una determinata tradizione e corrente di pensiero.
Ritroviamo i concetti pertinenti, adombrati nel breve dialogo qui sopra. Essi
segnalano le tappe di un percorso, che apre la via verso la co-esistenza. Ma questa non si
realizzerebbe in pieno, se non vi fosse a monte la contingenza “spaesante” (in tedesco, un-
heimlich) di un “non saper più dove tornare”. Traslata su un piano metafisico, affine è la
condizione – überhaupt, in generale – dell’uomo contemporaneo. Con una frase a effetto di
Heidegger, il suo “essere-gettato-nel-mondo”, privato di punti fermi di riferimento. Eppure,
questo stesso sempre più non può che essere un Mit-welt, vale a dire un “mondo condiviso”.
Sulle contraddizioni esistenziali di Heidegger, si sono fatti fin troppi discorsi.
Cercando conferma al sospetto che un tacito referente dell’autrice italiana sia proprio lui,
vale la pena di esaminare la domanda iniziale da lei posta: “Chi abita in questa zona?”.
Cioè, “Chi è che abita qui?”. La risposta dell’interrogato racchiude la protesta di chi dimori
ancora con un piede nello spaesamento. Forse solo i nipoti avranno ritrovato un paese da
abitare, con una lingua comune. Chi abbia qualche familiarità col ricercato lessico e
immaginario del pensatore tedesco, non esiterà a riconoscere nei termini “abitare” e
oscuro” dello stupore, si legga Luigi Pareyson, Stupore della ragione e angoscia di fronte all’essere in Ontologia della libertà (Torino: Einaudi, 1995; pp. 385-437), dove l’autore si rifà specialmente a Schelling.
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“deplaced/spaesato” concetti suoi tipici, ma qui rivissuti con caustica e amara ironia.
Il paradosso evidenziato dalla D’Eramo è che un episodio di convivenza, a suo modo
esemplare, sia potuto scaturire non da un progetto di integrazione. Al contrario, esso era
germinato da un mosaico di genti, di lingue e culture, condannate allo spaesamento – in
inglese, deplaced persons –, all’asservimento o allo sterminio, dal delirio concentrazionario
di un regime totalitario e razzista (con cui Heidegger era stato perlomeno connivente).
È un po’ l’inverso del biblico episodio della torre di Babele, anche se qui Dio non
compare, quasi per un senso di imbarazzo o discrezione. Vi è invece sottinteso il sacrificio
di quanti erano periti. A tutti loro, era pur dovuto un fattivo riscontro. Il silenzio del sacro –
sia esso più o meno invano nominato come l’essere, il nulla o l’altro – risuona della voce
insistente del loro silenzio. Non ci sono trappole del linguaggio, né sordine imposte dalle
ideologie o debolezze di udito per pura convenienza, che possano trattenerla a lungo.
La fuga dall’alienità, lo stesso superamento dell’alterità, avevano resistito e reagito
all’annientamento. Un tale attentato aveva riguardato non solo e tanto l’esserci di qualcosa o
di qualcuno in particolare, quanto piuttosto l’essente in generale, nel dispiegarsi delle sue
cicliche alternanze e alterazioni. A voler essere meta-fisici a oltranza, si potrebbe tirare in
ballo l’essere in sé, nel suo aprirsi a fatica una “radura” (di nuovo in tedesco, Lichtung) da
illuminare oltre che da abitare. Una zona provvisoriamente liberata, dove quei superstiti o i
loro discendenti potessero perfino dare un ballo in maschera e parteciparvi, senza aver
nemmeno potuto o dovuto immaginare un posto dove tornare. Poiché, aveva scritto un
pensatore materialista eppure profetico come Bloch, “l’anima piange in noi e si strugge dal
desiderio di andare oltre, pone Dio e il sogno; e dall’anima, e solo da essa, nasce ciò che
respinge la tenebra come Orfeo le ombre e ha per meta solo questa intimissima Euridice”.15
15 E. Bloch, Spirito dellʼutopia, op. cit., pp. 208-09.
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6 – F. Nussbaum (Osnabrück, 1904 – Auschwitz, 1944), Autoritratto
eseguito circa nel 1943, particolare: Felix Nussbaum Haus, Osnabrück; e scena dal film brasiliano Orfeu negro di Marcel Camus,
ispirato a una pièce teatrale di Vinicius de Moraes: 1959
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