Sulla didattica della storia nella scuola secondaria
Un anno fa « Italia contemporanea » ospitava un’ampia rassegna di Giuseppe Ricuperati e Dino Carpanetto su Editoria e insegnamento della storia (fase. 128), utile occasione per verificare, nell’intreccio tra ragioni didattiche e condizioni di mercato, l ’incidenza delle esperienze post-sessantottesche in un settore nevralgico qual è quello dell’editoria scolastica. Sulla ammissibilità culturale dell'« istituzione » manuale si è soffermato ampiamente Ivo Mattozzi (fase. 131) e sullo stesso tema tornano ora Claudio Costantini e Antonio Gibelli. Entro un quadro tematico più ampio si muove invece Raffaella Lamberti, riaffrontando per intero la problematica della strumentazione didattica ed agganciandola con l’elaborazione in atto, anche in sede legislativa, dei nuovi programmi della scuola secondaria superiore. Ospitando questi contributi, « Italia contemporanea » vuole non solo riconoscere la rilevanza degli aspetti da essi investiti e l’insegnamento della storia in una fase centrale del corso scolastico, ma anche sottolineare come la scuola nel suo complesso costituisca, in misura crescente, un mercato di consumo privilegiato per valutare i modi di trasmissione del « sapere storico » nella realtà sociale italiana di oggi.
Per un laboratorio di storia« L’universo (che altri chiama la Biblioteca) ... » (J.L. Borges, Finzioni) « Ogni potere di violenza simbolica, cioè ogni potere che riesce a imporre dei significati e a imporli come legittimi dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza specificamente simbolica, a questi rapporti di forza » (P. Bourdieu,J.C. Passeron, La riproduzione) Il
Il punto di vista che assumo nel corso di questo contributo è quello di un’insegnante di scuola secondaria superiore che non può né vuole prescindere dal suo ruolo e dal momento storico che ne segna l’esercizio. 1968, 1977: sono date rilevanti nella storia dell’istituzione scolastica e nella esperienza di ogni insegnante, anche di storia. Questo insegnante si domanda non già « perché’ » fare storia o « come » farla, ma « perché » trasmetterla e « come » trasmetterla. Le sue domande non coincidono dunque con quelle dello storico, anche se alla radice può esservi un’analoga crisi di identità. Nel caso dell’insegnante la crisi e le domande sono complicate dal ruolo di riproduttore-ripetitore che gli è affidato e dalla disaffezione specifica che questo ruolo induce.Emersa nel 1977 (condenso in una data la fase più acuta di disgregazione negli istituti secondari superiori è dello scaricarsi al loro interno di violente tensioni gio-
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vanili), tale disaffezione è legata alla presa di coscienza di un più profondo grado di subalternità che inerisce allo status degli insegnanti: la loro figura di « lectores », di dilettanti estromessi dal circuito della produzione culturale in senso lato. Che questo riconoscimento — e la voglia di farvi i conti — avvenga in presenza della crisi sociale, politica e ideologica che attraversiamo e in rapporto all’emergere di soggetti portatori di nuove istanze (donne, giovani), poco toglie al fatto che il modello politico di stampo sessantottesco di un docente democratico, sindacalizzato e portavoce delle classi lavoratrici, non sia più sufficiente *.L ’insufficienza di tale modello appare ancora più netta se si pensa che il processo di riforma della scuola graverà in buona parte sugli insegnanti, investendo la loro capacità di rinnovarsi per rinnovare contenuti e metodi delle discipline. È in questa prospettiva che mi appaiono inadeguati — fino al punto di diffidarne — i molti e riduttivi richiami ad assumersi le proprie responsabilità come se in tale assunzione risiedesse il segreto per risolvere la crisi della scuola e di chi vi lavora. I problemi sarebbero veramente pochi e semplici se bastasse la « responsabilità » dell’adulto verso il giovane, del docente (in particolare di storia) verso il discente, a promuovere il recupero di identità da parte degli studenti2.Che « nelle questioni intellettuali, come nelle altre, l’orrore della responsabilità non sia un sentimento da raccomandare » ce l’ha insegnato, tra gli altri, Bloch nella sua Apologia della storia. Che rifugiarsi nel pessimismo sociologico sia analiticamente povero e praticamente sterile, poiché esistono nella scuola contraddizioni e forze su cui fare leva, che dare le dimissioni dal ruolo e dall’istituzione sia un’illusione del soggetto, ce l’ha insegnato la militanza politica. Per questo la riflessione teorica e la battaglia politica non possono attardarsi nella denuncia scontata di coloro che si riconoscono « sempre solo in ciò che assume il ruolo di negativo, di marginale, di non conformista » e sanno « pensarsi solo in funzione di opposizione » 3. Il problema che va posto e risolto è un altro.Perché mai è sempre più stanco della scuola proprio l’insegnante che in passato non si è disperso nel « sociale », non si è confuso immediatamente con gli studenti, non si è dimenticato di essere « adulto » e di avere un ruolo? In questa stanchezza, io credo, non c’è fuga dalle responsabilità, ma disagio per la loro bassa qualità in termini di potere e competenze. A questa stanchezza, che viene dalla « miseria » del ruolo, non si può rispondere con appelli volontaristici alla coscienza, ma con interventi specifici che modifichino, nella pratica, la qualità del lavoro didattico. In questa opera di modifica occorre che anche gli insegnanti siano chiamati a svolgere oggi un ruolo di protagonisti e non di subalterni su cui scaricare, domani, la responsabilità del mancato rinnovamento. E occorre anche tenere ferme certe acquisizioni politiche del 1968 (di nuovo condenso in una data la fase che, per chi già operava nella scuola, va dalla Lettera a una professoressa alla rivendicazione delle 150 ore da parte della FLM). L’esigenza di un bilancio critico sul terreno della didattica — che Ricuperati, tra gli altri, avviava fin dal 1972 — non può suonare come una liquidazione. Suonano invece come tali molte interpretazioni che oggi si formulano; in esse si esprime una concezione regressiva della
1 Le tematiche della crisi di identità del soggetto, dell’emergenza di istanze connesse all’individualità, etc. sono state discusse da un gruppo di donne insegnanti del sindacato scuola CGIL di Bologna in riferimento al ruolo di riproduzione « naturale » e « culturale » cui è relegata la donna nella divisione del lavoro. Su questo tema cfr. DWF, 1977, n. 2. Si è rilevato in particolare l’inconsistente contributo richiesto all’insegnante — uomo o donna — nella produzione culturale e lo specifico stato di derealizzazione che ciò comporta.2 cfr. LUISA passerini, Storia e identità in « Rivista di storia contemporanea », 1978, n. 3.3 Ibid., p. 420.
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scuola c si configura il ritorno dell’insegnante a un ruolo puramente « tecnico », con tutte le deleghe e le mistificazioni che questo comporta.Rifiuto della selezione di classe, spaccatura della corporazione docente, rivendicazione della figura di lavoratori e non di pubblici funzionari, contestazione della separatezza della scuola, riferimento alla fabbrica: furono questi i modi attraverso cui si comprese il carattere politico del ruolo insegnante (ben pochi erano, dentro la scuola, gli iscritti ai partiti o i lettori dei « Quaderni rossi »); ma non è tutto: di qui venne anche un salto di qualità nella domanda di sapere e una singolare esperienza di accelerazione dell’apprendimento dalla « storia che si fa ». « Scoprire » di trasmettere la « storia delle classi dominanti » fu, insieme, scegliere un « punto di vista » ed eleggere un passato non detto che andava studiato e trasmesso: quello della classe operaia e delle sue lotte. La formula gramsciana « tecnici e politici » sembrò riassumere le caratteristiche del nuovo ruolo che si voleva costruire.Non si può tagliare netto con la forma incompiuta di quell’esperienza solo perché molti hanno preso la scorciatoia del primato assoluto della politica, della identificazione di cultura e politica, di scuola e società. Non siamo all’anno zero quanto al dibattito e alle esperienze. Le tematiche sono tracciate: rapporto scuola/lavoro, governo democratico della scuola, rinnovamento di contenuti e metodi, aggiornamento. Certo non si può dire che siamo in una fase di prevalente tensione al rinnovamento. La disgregazione ha camminato. Vi sono segni notevoli di un ritorno aH’indietro, a una « serietà degli studi » che ripropone il messaggio della selezione e del vecchio modo di fare scuola, in un rinnovato rifiuto della scuola di massa. Ma una terza via che eviti il « ritorno al passato » e il « rifiuto del ruolo » ha bisogno d’insegnanti competenti, politicamente consapevoli, e di una scuola che si voglia socialmente produttiva.
Obiettivi di un insegnamento della storia
Non è cosa di poco conto ridurre il tasso di riproduzione-ripetizione nella scuola sia per l’insegnante sia per lo studente, renderli entrambi protagonisti della situazione didattica, promuovere una comune capacità di « lettura » e di inserzione nel presente. Se si vuole, come scrive de Certeau, « introdurre lo studente come attore nella città storiografica » e renderlo « produttore di storia e storiografia » 4 occorre un lungo lavoro di riflessione collettiva e di elaborazione di strumenti idonei. Non vedo, quindi, come si possa per ora andare oltre la formulazione di alcuni orientamenti.Lo scarto tra ricerca e didattica è comune a tutte le discipline. Secondo Bourdieu e Passeron si tratta di un dato strutturale. Ogni sistema scolastico tenderebbe « a riprodurre con un ritardo proporzionale alla sua autonomia relativa i cambiamenti sopravvenuti nell’arbitrario culturale che ha il mandato di riprodurre (ritardo cultuale della cultura scolastica) » 5. La storia insegnata registra questo ritardo con particolare evidenza. Essa non sembra essere stata scossa in profondità e in estensione dai rivolgimenti sociali e politici avvenuti a livello mondiale, né dalle risultanze del lungo e fitto dibattito epistemologico svoltosi tra gli storici. Del resto, se non si è disposti a chiamare « ricerca » ogni iniziativa che trasgredisca i programmi
4 Michel de certeau, dibattito pubblicato dal « Magazine litteraire », 1977, n. 123, cit. in ivo mattozzi, Contro il manuale, per la storia come ricerca. L'insegnamento della storia in « Italia Contemporanea» 1978, n. 131, p. 40.5 p . bourdieu , j .c. passeron, La riproduzione, Firenze,- 1972, p. 111.
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o metta tra parentesi il manuale, bisogna riconoscere che, nella pratica e nella teoria, è prevalso il riferimento a un’indagine di tipo sociologico mediante questionari, interviste, ecc. oppure la valorizzazione delle forme democratiche di didattica. Intendiamoci: la democratizzazione della didattica è indispensabile, le ricerche sul campo sono necessarie per molti problemi, ma poche sono state le ricerche specificamente storiche. E questo deve farci pensare se è vero che « il problema decisivo sta nel fare scuola quotidianamente in modo diverso e non nell’or- ganizzare una bella ricerca domenicale » 6. Per questo è forse più fecondo misurarsi con le molteplici difficoltà specifiche prima di pronunciarsi per la sola ricerca o per la combinazione di propedeutica e ricerca o per il modulo tradizionale di spiegazione-interrogazione-voto. Preferisco personalmente parlare di formazione di base che fornisca strumenti per pensare storicamente e per ricercare storicamente, senza inseguire l’impossibile idea di produrre uno « storico di mestiere » nella scuola secondaria. Ma veniamo alle difficoltà.Una didattica non ripetitiva deve rendere visibile il modo in cui si costruiscono le rappresentazioni storiografiche, deve fare apprendere il linguaggio storico, a meno che non si creda che la « pratica » farà da sé. Sappiamo che questo linguaggio — tratto com’è dal linguaggio comune, con terminologia costruita dagli storici stessi o desunta dalle altre scienze sociali, aperto a molti transfert — è difficile7. Non si vuole qui entrare nel merito del dibattito se la storia sia scienza e fino a che punto, se lo storico sia un detective che insegue le piste lacunose dell’accaduto o un tecnico di laboratorio che prepara il suo reperto da analizzare o un’artigiano, secondo la formula di Bloch, o, infine, tutte queste cose insieme e altre ancora. Si vuol solo dire che chi non condivide l’idea di una storia costruita secondo le regole dell’« empatia » e della «comprensione», ma crede piuttosto a una storia capace di « promuovere una classificazione e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi e quasi senza limiti » 8, non può esimersi — dinnanzi a una spiegazione storica — dal valutare la tenuta e la specificità dei vari tipi di « causalità » impiegati, dei vari criteri di « periodizzazione » adottati, dei vari statuti storici dei « fatti » indicati.Promuovere e verificare l’apprendimento di questo linguaggio e di queste categorie da parte degli studenti è un obiettivo irrinunciabile. Prendiamo per esempio Che cos’è la storia di Chesneaux. Questo testo che mette la pratica sociale e il presente al posto di comando in opposizione a una culturale mandarinale, corporativa e gerarchica, riconosce tuttavia la necessità di un «minimo previo di conoscenze», di una « accumulazione primitiva » in cui vengano « definite » e messe « a disposizione di tutti » informazioni basilari di storia e di tecnica dell’indagine9. Riconoscimento importante, al quale mi riferisco senza per questo voler ridurre o piegare al mio ragionamento il senso dello scritto di Chesneaux. Ma come riuscire a realizzare questa accumulazione originaria quando il linguaggio e le categorie degli studenti funzionano in senso realistico e tendenzialmente semplificatorio? Ha senso reprimere, rifiutare questo linguaggio comune e questo realismo? Non lo credo. Condivido infatti la tesi di chi riconosce al linguaggio comune — inteso come amalgama di vari usi linguistici, specialistici e non, e come base comune storicamente, socialmente e culturalmente determinata -— la capacità di cogliere significati
6 Alberto cabella, Una proposta alternativa per le superiori: il lavoro di gruppo, Torino, 1976, p. 15.7 cfr. marc bloch, Apologia della storia, Torino, 1950, pp. 130-52; il i . Marrou, La conoscenza storica, Bologna, 1962, pp. 148-178.' MARC BLOCH, op. di. p. 28.5 Cfr. JEAN chesneaux, Che cos’è la storia. Cancelliamo il passato?, Milano, 1977, pp. 181-190.
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e collegamenti che possono sfuggire ai linguaggi specializzati10 11 12. Del resto la tendenza realistica degli studenti esprime la giusta convinzione o la sana pretesa che le « parole » abbiano a che fare con le « cose ». Si tratta allora piuttosto di promuovere un arricchimento della competenza linguistica sia in termini di comprensione sia di produzione. Bisogna passare da spiegazioni semplici che trattano il fatto storico come un « dato » o la causa come un « soggetto » ” , a spiegazioni più complesse che mettano in gioco fatti non puntuali, processi, sistemi di causalità. Per questa via si potrà forse evitare una delle situazioni più imbarazzanti della scuola che consiste proprio in un fìngere di capire e di capirsi prima ancora di avere posto dei problemi.Dalla complessità delle « parole » bisogna risalire alla complessità dello « stato di cose ». Se dovessi riassumere il senso della riflessione epistemologica indotta dalla nuova storiografia, direi che esso consiste in un enorme complicarsi del- l’immagine della storia. Si è consumata da tempo la fine delle teleologie e del- 1’« ampio e molle guanciale deH’evoluz'onismo » comtiano, per dirla con Lucien Febvre n. L’ipotesi stessa di un « motore della storia » sembra perdere di vigore. In ogni caso è la fine di una serie di miti storiografici: la « totalità » come organismo sociale omogeneo in ogni suo elemento e in continua evoluzione nel tempo, il tempo come schermo omogeneo della successione di fatti unici e irripetibili, lo spazio come neutra geometria dei popoli, etc. Subentra invece la registrazione delle discontinuità, la misura degli scarti, il rilevamento di temporalità diverse, la descrizione di spazi che dicono le pratiche degli uomini. Lo storico, per così dire, si storicizza, prende atto della sua incidenza nella costruzione del « fatto», sa che l’idea di totalità può avere per lui, come per Kant, valore « regola- tivo » e non « costitutivo ».Come tradurre nell’insegnamento questa complessità, rapidamente richiamata, quando la situazione didattica evoca costantemente quelle semplificazioni e quei « fantasmi » che l’epistemologia vorrebbe già demoliti? Appare dunque inevitabile che nell’insegnamento della storia non si possano separare riflessione metodologica e acquisizione dei contenuti. In altri termini, bisogna tenere compresenti almeno tre «attenzioni»: una di ordine epistemologico, una di ordine contenutistico e una di ordine pedagogico. È necessaria una riflessione mediante la quale tenere sotto controllo l’intero circuito didattico. « Riflessione » quindi, e non solo « pratica » e, insieme, «riflessione» che proceda dalla «pratica». Non basta quindi cambiare la materia del consumo didattico: dalla storia generale alla histoire nouvelle con i suoi «nuovi problemi», «nuovi approcci», «nuovi oggetti» o alla Orai History. È la situazione subalterna di puro consumo di storia che va modificata. Perciò bisogna storicizzare la storiografia e rendere trasparenti i vincoli che legano gli storici a determinate « comunità » che hanno i loro paradigmi, le loro convenzioni, le loro strategie, i loro mezzi. Se è vero che « ogni ricerca storiografica si articola su un luogo di produzione socio-economico, politico e culturale » 13 allora non ha molto senso dare in mano agli studenti dei libri o
10 Cfr. la voce Creatività curata da E. Garroni in Enciclopedia, Torino, IV 1978, pp. 26-28.11 Cfr. L. von friedeburg e p. hübner, Immagine della storia e socializzazione politica in Scuola, potere e ideologia, a cura di M. Barbagli, Bologna, 1972, pp. 271-284. A. calvani, l. pentolini, a. tendi, p. scardigli, Uso di categorie storiche nell’adolescenza: la personalizzazione della stona in « Scuola e città », 1977, n. 6, pp. 241-250.12 lucien febvre, Problemi di metodo storico, Torino, 1976, p. 70.13 Michel de certeaux, L ’opération historique in Faire de l’histoire, sous la direction de J. Le Goff et P. Nora, Paris, 1974, I, p. 4.
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delle antologie di interpretazioni senza che gli autori siano ricondotti alla posizione che occupano nella rete della produzione storiografica. In assenza di tale collocazione, i conflitti di interpretazione rischiano di ridursi a divergenze tra autori, occultando così gli schieramenti ideologici e politici che animano la produzione storiografica ed esprimono i legami contratti dallo storico con le problematiche emergenti nella «storia che si fa». Ovviamente ricondurre un testo al suo luogo d’origine, non significa ridurlo ad esso. Finora si è parlato solo di orientare gli studenti tra i libri, non delle regole del loro uso.Non vi è tuttavia consapevolezza metodologica che possa esimere l’insegnante dal tematizzare le scelte di contenuto, dall’esibire un punto di vista, dal privilegiare una determinata strategia dell’attenzione. Nulla vieta infatti che possa darsi una didattica raffinata su questioni irrilevanti. Per questo bisogna decidere che la didattica deve realizzare una formazione di base orientata alla comprensione dei conflitti e delle tendenze del proprio tempo e all’intervento consapevole nel presente. Porsi questo problema, scegliere quali siano le conoscenze storiche oggi indispensabili, non significa ignorare che la ricchezza teorica e problematica del presente permette una misura sempre rinnovata della distanza e della prossimità del passato; significa semplicemente fare i conti col tempo-scuola e prendere atto che la storia contemporanea è entrata più nei temi di maturità con cui il ministero fa mostra di aggiornarsi e nei ponderosi manuali dell’ultimo anno che nella pratica deU’insegnamento. Si tratta anche di constatare che la storia insegnata è ancora prevalentemente — se non esclusivamente — nazionale, mentre già da due secoli l’espansione del capitalismo ha unificato la storia del mondo. È quindi indispensabile respingere le tradizionali partizioni cronologiche e geografiche senza per questo cadere nel « presentismo ». Scrive Barraclough che « la storia contemporanea ha inizio quando i problemi che sono attuali nel mondo odierno assumono per la prima volta una chiara fisionomia » 14. Ciò vuol dire che si ha « presentismo » solo quando si annullano i tempi propri dei problemi. Il rifiuto, quindi, delle ricerche improvvisate non implica la rivalutazione di quella sensibilità « antiquaria » (prevalente nella nostra scuola, specie nei bienni) che schiaccia il presente in nome del passato. Più spazio dunque alla storia contemporanea. Ma con quali contenuti?È ormai un luogo comune, anche se scarsamente praticato, sostenere che va respinta la storia « trattati-e-battaglie » e va invece promossa la storia delle strutture economiche, delle istituzioni, delle mentalità, di ciò che dura e non si riduce a puro « avvenimento ». I conflitti del presente generano domande sulla natura dello stato e sul ruolo delle formazioni politiche, sul peso delle ideologie e sull’esercizio del potere economico, sulla composizione delle classi e sulla dinamica dei movimenti, sulla logica dei sessi e sulle differenze delle generazioni, sui bisogni degli individui, sulla rilevanza dell’ambiente « naturale » e sull’organizzazione degli spazi. Restituire a questi temi la loro storia è difficile perché richiede competenze di ordine sociologico, economico, giuridico, ecc. che la formazione universitaria non ha dato agli insegnanti. A tale acquisizione di competenze deve poi accompagnarsi la conoscenza dello stato del dibattito storiografico. Problemi rilevanti («transizione», «crisi», continuità/discontinuità, etc.) hanno suscitato vasti dibattiti che raramente trovano eco nell’insegnamento. Ed è un’altra caratteristica imbarazzante della storia insegnata che spesso vi tornano dei conti che non tornano affatto nella storiografia. Piano « logico » e piano « genetico » vanno tenuti insieme. Non si tratta di studiare storia risalendo all’indietro nel tempo,
14 Geoffrey barraclough, Guida alla storia contemporanea, Bari 1975.
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ma di avere presenti due movimenti: la forma sviluppata del processo illumina il passato, le tappe del processo chiariscono come si è giunti a quella forma. In breve, i due percorsi già additati dalla riflessione teorica di Marx 15. Ricapitolando: più spazio alla storia contemporanea, più risalto ai momenti «critici», attenzione al piano evolutivo e a quello strutturale.Ma nella didattica rispunta il problema della « totalità ». Mi riferisco, da una parte, al fatto che le unità di apprendimento devono avere una dimensione significativa quanto ai tempi e ai temi che coprono; dall’altra, mi riferisco alla domanda di totalità — cioè di coerenza e completezza — nella quale lo studente individua la forma che devono assumere le conoscenze acquisite. Richiamo rapidamente due esperienze fatte in anni successivi in classi terze di liceo scientifico. Nel primo caso si era concordato di analizzare più a fondo la formazione econo- mico-sociale propria dell’alto e basso medioevo e di farlo privilegiando la lettura di documenti. Questi vennero reperiti a partire da un registro tematico che conteneva divisione del lavoro, rapporti di classe, tecniche produttive, rapporto città/ campagna, ideologia del lavoro ecc. Nel secondo caso si era deciso uno studio della vita quotidiana dell’« uomo » medievale. Ci si è affidati a una ricerca bibliografica sulla famiglia, i giovani, le donne, la sessualità, i divertimenti, le credenze, il lavoro. In entrambi i casi i testi non erano scolastici e venivano usati contestualmente al manuale. Necessariamente, in entrambe le unità di studio affrontate, si è cercata una relativa razionalità sistematica sulla base della quale procedere nel « giuoco » delle relazioni e delle dipendenze fino ad abbozzare la « ricostruzione » di una totalità.Pratica libresca? Non è un’obiezione rilevante. Qualcuno chiama ricerca anche quella sui libri purché abbia il carattere di un’indagine orientata coerentemente da una domanda e sottoposta ai necessari controlli di rilevanza e pertinenza. Personalmente preferisco chiamarla didattica della sollecitazione. Mi preme invece sottolineare che in entrambi i casi ci siamo trovati a ricostruire visioni «globali», « totalità ». È un errore? Non credo che sia questo il problema. Non credo cioè che abbia senso sottomettere meccanicamente la didattica della storia al « divieto di totalità » su cui convergono le analisi epistemologiche, le quali — per altro — accolgono la totalità come « ambizione » 16 e « orizzonte » 17 della ricerca storiografica. Si tratta piuttosto di controllare se è una « buona » totalità, che studenti e insegnanti sappiano essere forma transitoria di conoscenze acquisite con sufficiente ricchezza documentaria e consapevolezza metodologica. Per sottolineare il grado di approssimatezza della totalità conseguita, per evitare i rischi di riduzionismo e di semplificazione che essa comporta, per impedire appunto che « i conti tornino » più di quanto non avvenga in sede storiografica, tendo a valorizzare una didattica che chiamerei « strabica » o « dispersiva » fondata sulla presentazione di testi dalle logiche divergenti come possono essere per es. Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg e Problemi di storia del capitalismo di Maurice Dobb. Ma se a queste letture non si accompagnasse una conoscenza di base, un parallelo patrimonio di informazioni desunto da altri testi, la scelta sarebbe assurda e il suo effetto disorientante.Muovendomi in questa prospettiva, che vuol tener legati informazione di base e
15 cfr. Maurice godelier, prefazione a Marx, Engels, Lenin. Sulle società pre-capitallsliche, Milano, 1970.16 pierre Vilar, Storia marxista, storia in costruzione in Problemi di metodo storico a cura di F. Braudel, Bari, 1973, p. 602.17 François furet, Le quantitatif dans l’histoire in Faire de l’histoire, cit. p. 55.
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« ricerca » sui libri, non posso condividere la scelta di Mattozzils. Il filo del suo ragionamento mi sembra il seguente: gli studenti imparino a far ricerca, poi, appreso il metodo, continueranno ad applicarlo. Anch’io sono convinta che promuovere l’abito della ricerca sia d’importanza decisiva. Ma sono anche convinta che non si possa eludere, come invece sembra fare Mattozzi, il compito di dotare lo studente di un capitale di conoscenze storiche più o meno acquisite. Un interrogativo: lo studente che, finita la scuola secondaria si iscriverà a ingegneria farà ricerca sulla crisi del ’29 mai affrontata a scuola? Ma chi, anche tra i ricercatori di professione, ricerca su tutto? La fine della bella certezza cartesiana, di un dio che garantisce i nostri assiomi, ci impone delle scelte e, tra le scelte, anche quella di utilizzare le ricerche degli altri. Questa unilaterale riduzione-dissoluzione del lavoro didattico a esecuzione di una ricerca, mi sembra d’altra parte privilegiare ancora l’idea di un rinnovamento giuocato tutto su singoli insegnanti innovatori e non su una sperimentazione-aggiornamento di massa che sappia darsi delle ipotesi e costringersi a delle verifiche.Si chiamano in causa i « bisogni culturali delle masse giovanili » I9. L’enunciato è generale, per non dire generico. Quali sono queste esigenze? Personalmente conosco le domande di conoscenza e le proposte di ricerca fattemi dagli studenti negli ultimissimi anni: crisi economica e politiche economiche, ruolo dello stato nella storia moderna e contemporanea, meccanismi della esclusione in riferimento al «folle» e al «delinquente», movimenti di massa più recenti e radici del terrorismo, rapporti tra cultura popolare e cultura delle classi dominanti, infine, ricorrente, la nota domanda brechtiana. Mi chiedo: in quanti casi e in che misura si può rispondere con una storia «orale» e «locale»? con l’iniziativa di singoli insegnanti? con competenze strettamente storiche? Ricordo due delle risposte fornite: un corso extracurriculare di economia tenuto da docenti di Bologna e Modena, sul tipo di quelli già tenuti dagli stessi docenti per le 150 ore e pubblicati da «Inchiesta»; un incontro con Carlo Ginzburg per discutere — sulla traccia del suo libro — la problematica della cultura popolare, l’orientamento storiografico da lui privilegiato, etc. Fare entrare « esperti » nella scuola, programmare itinerari di lavoro sono momenti di ciò che intendo per «laboratorio».
Il laboratorio di storia
Forse anche « laboratorio » conoscerà la stessa sorte di altri termini — come « ricerca », « sperimentazione », ecc. -—■ i quali, nati all’insegna del rinnovamento sono venuti via via coprendo realtà che nulla vi hanno a che fare fino a comparire nel mistificante linguaggio ministeriale. Con questo termine intendo un luogo e un modo —• « fisicamente » e teoricamente attrezzato — che permetta a insegnanti e studenti l’esercizio quotidiano delle loro capacità operative.Oggi si parla molto di « creatività » nell’ambito della didattica, ma spesso la si intende come spontaneità, libera espressione, ecc. In questa concezione spiritualistica si perdono di vista gli aspetti decisivi della creatività: la « costruttività » e la « legalità », si dimentica che la specificità dell’apprendimento umano è di essere innovativo e insieme fondato su regole. Il laboratorio è il luogo e il modo in cui apprendere operativamente le « regole del giuoco » e, insieme, la possibilità di modificarle. Teoria della conoscenza ed esperienza didattica convergono nel
1! cfr. i. mattozzi, Contro il manuale, cit. 19 i. mattozzi, art. cit. p. 34.
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riconoscere che l’apprendimento non procede per «definizioni», ma per «regole d’uso». Il ’68 si limitò a «cambiare solo gli eroi» (lotta delle masse al posto di storia politica-diplomatica). Il problema consiste invece nel rendere visibile agli studenti il modo di produzione storiografico e nel rendere accessibile un ricercare storico sui cui limiti di scientificità tornerò. La logica del laboratorio, le condizioni del suo funzionamento (strumentazione tecnica, ricchezza documentaria, attenzione metodologica) sono incompatibili con ogni « robinsonata » pedagogica che si affidi al singolo insegnante di buona volontà e all’interesse dello studente motivato. L’apporto individuale di insegnanti e studenti, il peso delle loro motivazioni è certo rilevante, ma non decisivo per effettuare cambiamenti di vasta portata.«Lettura», «analisi secondarie», «ricerca» — ed altro ancora — hanno a che fare col « laboratorio ». I libri di storia (manuali e monografie) non offrono lo «spettacolo della ricerca», ma i suoi risultati. Bisogna quindi imparare a interrogare libri e documenti. Il passaggio da « il testo è tutto » a « tutto è testo » 20, ha reso più arduo e non più semplice il dominio dei segni. Passare da una lettura impressionistica, che scivola sulle pagine dei libri, a una lettura guidata da una scheda problematica non è cosa che avvenga da sé. Ed ancora: oggi bisogna imparare a leggere grafici, statistiche, serie, bilanci, documenti di « cultura materiale », ecc. Nel laboratorio lo studente deve imparare a costruire questi grafici e queste tabelle se non vuole essere tagliato fuori non solo dalla lettura di molte monografie ma anche da quella dei migliori manuali, senza dire del peso che questi strumenti hanno oramai nel quotidiano. Non sostengo affatto la esclusività delle analisi quantitative. L’indagine qualitativa è insostituibile in molti casi. Dico solo che bisogna imparare a « quantificare » là dove è necessario. Lo studente deve saper misurare la legittimità e plausibilità di un nesso causale, deve capire che la forza relativa di un modello sta nella quantità e nella coerenza delle variabili che mette in movimento, deve abituarsi al giuoco dei « giudizi controfattuali » per rendersi conto delle differenze di « peso » dei fattori in esame. Funzionali a tale scopo sono anche procedimenti più « selvaggi » come l’enumerazione quel procedimento primitivo e inadeguato che consiste nell’elencare come in un giuoco il maggior numero possibile di esempi ... senza nessuna prevenzione e senza disdegnare nemmeno i più sciocchi » 21. Non si tratta infatti di « programmare » tutto, di indulgere a « tecnicismi » esasperati, di credere all’efficacia di prontuari « regole/cspedienti ». In breve, la tecnica da sola non fa l’arte. Per questo lo studente va sollecitato a cimentarsi nel «teorizzare», a costruire «congetture». Non sarà « teoria » 22, ma servirà a non far confondere i fatti con i concetti e ■— se mi si permette il riferimento ad altri aspetti decisivi della « personalità » implicati nell’apprendimento — a dare fiducia nelle proprie capacità di pensare, a rifiutare gli « automatismi » della riproduzione-ripetizione, a decidere ciò che, essendo plausibile ha diritto alla credibilità.Per questa via lo studente può arrivare a comprendere che il fatto storico non è dato « ma creato dallo storico e, quante volte?, inventato e fabbricato per mezzo
20 Cfr. Michel de certeau, L ’operation historique, cit., p. 22. La specificità del gesto odierno in ordine allo stabilimento delle fonti è che vengono « costituiti in documenti, degli attrezzi, delle ricette di cucina, dei canti..., non si tratta solamente di far parlare questi (immensi settori dormienti della documentazione>... Si tratta di cambiare qualcosa che aveva il suo statuto e il suo ruolo, in un’altra cosa che funziona diversamente ».21 R. m u s il , L ’uomo senza qualità, Torino, 1978, voi. II, pp. 1077-78.22 Cfr. F. de Bartolomeis, Sistema dei laboratori, Milano, 1978. Il testo di De Bartolomeis è un importante punto di riferimento; giustamente vi si parla di laboratori per tutte le discipline.
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di ipotesi e congetture » n, può arrivare a liberarsi dallo schema di spiegazione monocausale e a realizzare che un processo non è pensabile con la categoria di « soggetto ». Con questo strumento diventa possibile fare delle « analisi secondarie » che utilizzino per una propria ipotesi risultati di ricerche svolte altrove o che pieghino a strategie originali materiali come « repertori » di documenti e dati completi che dovrebbero rimpiazzare le antologie già confezionate.Ma allora, manuale sì o manuale no?Non faccio parte di quel 5 per cento di insegnanti (il dato è europeo) che hanno eliminato il manuale. Ho seguito la trafila del suo rinnovarsi, adottandone più d’uno nella stessa classe. Il manuale, così com’è, può dare solo una immagine della storia, ma non dice nulla del modo in cui si fa storiografia. Non sono tuttavia uguali le immagini di storia che i manuali danno, né la cultura storiografica che presuppongono, né la lettura delle fonti che sollecitano. Essi possono accreditare una storiografia come narrazione, come visione pluriprospettica o come ricerca delle forze e delle idee che hanno mosso gli uomini nel tempo. Alcuni ritengono che sia possibile un manuale-laboratorio. Io ne dubito e per questo privilegio il libro non scolastico pur usando il manuale tra gli altri libri. La prospettiva è quella di un insegnante di storia che diventi « un programmatore di ricerche sociali, di un vero laboratorio di scienze sociali, che sappia inventarsi ogni anno i lavori e gli obiettivi » 23 24 In altri termini, « cogliamo le indicazioni dei nuovi manuali e risolviamo (con o anche senza di loro) i problemi nuovi che essi stessi ci pongono » 2S. Mi appaiono perciò deboli le indicazioni della rassegna Editoria e insegnamento della storia di Carpanetto e Ricuperati26, deboli anche in riferimento ad alcune positive esigenze che gli autori esprimono. Vi troviamo un’utile fotografia dell’esistente più che una sollecitazione al rinnovamento. Non vi traspare minimamente la necessità di utilizzare il libro tout court, né si mette in guardia dalla presenza in queste collane scolastiche di opere di valore del tutto diseguale. In definitiva, si resta subalterni a ciò che il mercato editoriale offre.Se la questione del manuale non può essere posta in termini di ripudio o adozione, allora non può nemmeno porsi in termini di aut-aut l’alternativa di manuale o ricerca. Giova talvolta ricordare che di fronte ai paradossi di Zenone sul movimento, è bene alzarsi in piedi e mettersi a camminare. Vi sono già insegnanti cui il manuale non impedisce di tentare la ricerca. A scuola si può e si deve fare ricerca, pur dando per scontati inevitabili limiti di scientificità: «limiti», sì, «surrogati», no. Farò un rapido cenno a due esperienze. In un caso si trattava di studiare il sistema scolastico italiano dall’Unità a oggi e, in particolare, le vicende del liceo scientifico a partire dalla sua istituzione gentiliana. Provvisti del sufficiente bagaglio conoscitivo extrafonti, gli studenti frequentarono a lungo la cantina-archivio del primo liceo scientifico istituito a Bologna reperendo materiali, molti dei quali — fotografie, temi scolastici — non avevano un già definito sta
23 L. FEBVRE, op. CÌt., p. 73.24 scipione guarracino, Nuovi manuali e immagine della storia in « Riforma della scuola », 1978, n. 5, p. 61. L’articolo andrebbe conosciuto per l’analisi corretta che vi si fa delle differenze tra i manuali, oltre che per la prospettiva indicata di costruire laboratori di storia. Prospettiva corretta secondo me per non dividere l’insegnamento in fasi propedeutiche e fasi di ricerca.25 scipione guarracino, ibidem.26 pino carpanetto e Giu se ppe ricuperati, Editoria e insegnamento della storia, in « Italia contemporanea », 1977, (XXIV), n. 128. Degli stessi autori, più utile l’articolo Didattica della storia all’Università in « Riforma della scuola », 1977, n. 2, che si misura con le difficoltà del rapporto tra formazione e ricerca e dà alcune indicazioni in positivo per affrontarlo. Altrettanto rivolto a evitare le scorciatoie facili, ma dannose, il primo articolo di G. Ricuperati: Tra didattica e politica: appunti sull’insegnamento della storia in « Rivista di storia contemporanea, 1972, n. 4.
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tuto di documenti che invece avevano gli usuali materiali archivistici della scuola e la raccolta degli « Annali » della scuola fascista (ceduti poi all’Istituto Storico della Resistenza di Bologna). Nel secondo caso si voleva ripercorrere la storia delle lotte operaie a Bologna, dalle occupazioni di fabbrica nel ’20 all’« autunno caldo ». Gli studenti hanno consultato le fonti prefettizie nell’Archivio di Stato, hanno reperito giornali e infine, hanno utilizzato lo strumento dell’intervista, incontrando operai e operaie che avevano organizzato gli scioperi del ’44 in alcune fabbriche di Bologna. A ricerca compiuta si doveva montare un audiovisivo e questo costrinse gli studenti a organizzare il materiale secondo i criteri e le ipotesi fissati durante il lavoro e a costruire una loro spiegazione-esposizione27.Si può certo dire che si trattò in entrambi i casi di un compromesso tra didattica dei libri e didattica della ricerca. Ma mi chiedo se non debba inevitabilmente essere così, quando non si vuole rinunciare a conoscenze indispensabili e quando per ricerca in senso « forte » si intenda un’effettiva esplorazione nell’universo delle fonti e non un dispersivo curiosare qua e là. Se si è d’accordo che un « centro di interesse » non è ancora un’ipotesi di lavoro, il reperimento di materiali non è ancora la loro organizzazione e questa organizzazione non è ancora la costruzione di modelli esplicativi, bisogna riconoscere che di ricerca in senso « forte » se ne può fare una sola, magari proiettata su due anni. E questo è altrettanto vero se si vogliono praticare e mettere a profitto le tecniche dell’Oral History. La sua utilizzazione nella didattica viene oggi suggerita da più parti28. Non può sfuggire la importanza e la suggestione di una storia costruita « dal basso », dove chi informa non separa fatti «personali» e fatti «generali», permettendo così un approccio non intimistico all’« individuale » e alla sua singolare stratigrafia. L’Orai History può dare qualcosa che i documenti scritti non danno con la stessa ampiezza e ricchezza: « la conoscenza non tanto dei fatti quanto del giudizio contemporaneo e successivo, (diacronico e sincronico) che i protagonisti proletari danno sui fatti » 29. Tuttavia non trovo che si tratti di una tecnica più immediata delle altre se, si deve « spremere » da essa conoscenza storiografica.Con queste cautele e questi obiettivi — si tratti di fonti scritte o orali — il problema è di mettervi gli studenti a contatto, realizzando una ricerca che non tema l’accusa di dilettantismo che in modo fin troppo facile può esserle mossa dal rigore altezzoso della «grande scienza». Ricordiamoci la spregiudicata saggezza di Burckhardt che nel celebrare « le prerogative eterne » della fonte30 giungeva ad accettare il « dilettantismo » 31 di chi, non specialista, si cimenta nella sua lettura.
27 Gli studenti si incaricarono anche di presentarlo in diverse sedi extrascolastiche. La realizzazione dell’audiovisivo fu possibile grazie alla collaborazione di un’eccezionale collega di Disegno e Storia dell’Arte, che già aveva costituito un suo laboratorio e alle condizioni di agibilità politica presenti nella scuola (con rispetto di orari, di scansioni disciplinari ecc.).28 Cfr. p. Thompson , Storia orale e storia della classe operaia in « Quaderni Storici », 1977, n. 35, pp. 403-432, vedi anche L. passerini e L. scaraffia, Didattica della storia e fonti orali in « Rivista di storia contemporanea », 1977, n. 4, pp. 602-610. Sulla non univoca vocazione della Orai History a essere « storia dal basso », cfr. L. passerina Conoscenza storica e storia orale in Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, a cura di L. Passerini, Tori- no, 1978.25 s. portelli, Ricerca, intervento e storia di classe in « I giorni cantati », Bollettino di informazione e ricerca sulla cultura operaia e contadina, a cura del Circolo G. Bosio, 1977, n. 10. Di recente è uscito il libro I giorni cantati a cura del circolo G. Bosio di Roma. Istituto Ernesto De Martino, Milano, 1978.30 j. Burckhardt, Meditazioni sulla storia universale, Firenze, 1959, n. 21.31 ibidem, p. 23.
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Riforma e aggiornamento
La scuola secondaria superiore attraversa una profonda crisi di legittimazione né appare probabile che basti la sua riforma per uscirne. Tuttavia questa riforma si farà e sarà, comunque, occasione di un processo generalizzato di aggiornamento e rinnovamento di contenuti e discipline.Qualche considerazione in riferimento all’insegnamento della storia. Se — come appare probabile — la nuova scuola si articolerà in un anno (di collegamento e completamento dell’obbligo) più altri quattro, è impensabile che si possa insegnare storia antica a un quindicenne che andrà a lavorare. Lo stesso discorso varrebbe anche nel caso di una soluzione biennio/triennio. Vi sarà una commissione preposta alla stesura dei programmi. Sarebbe bene che essa si limitasse a definire criteri e obiettivi e non programmi e gabbie cronologiche. Ma questo appare improbabile. A mio avviso si dovrebbe partire dalla transizione dal feudalesimo al capitalismo e dedicare l’ultimo anno alla sequenza che va dalla crisi del ’29 a oggi, senza che questo vieti la lettura di libri con tagli verticali di più ampio respiro del tipo, per fare un esempio, della Storia dell’antisemitismo di L. Poliakov. Nella ri- partizione (area comune, area d’indirizzo, area elettiva), la storia rientra nell’area comune e nella stessa area dovrebbero essere inserite le scienze sociali (a quanto si capisce dalle formulazioni generiche dell’art. 1 e dell’art. 4) 32. Basta scorrere gli indici di « Scuola e Città » o di « Riforma della scuola » per accorgersi che l’inserimento delle scienze sociali è uno dei punti più dibattuti fin dalla fine degli anni ’60. I! modo in cui verrà introdotto il loro insegnamento non è di secondaria importanza. Vi è infatti chi tende a un arricchimento della storia mediante le scienze sociali e chi tende invece alla riduzione della storia a « storia generale », sfondo su cui dovrebbero imporsi le scienze sociali, delegate a fare intervenire il presente nella scuola e a garantire i livelli di « scientificità » nella comprensione del sociale33. Si tratta di logiche diverse che investono la distribuzione di « peso » delle varie discipline, il giuoco delle loro relazioni nonché l’aggiornamento degli insegnanti. Resta comunque il fatto che la traduzione in discipline delle indicazioni generali sull’area comune è oggetto di delega (art. 26) e poco si capisce del loro eventuale numero e degli eventuali abbinamenti. Sembra tuttavia già chiaro che prevarrà una logica « disciplinare » e non « tematica » o per blocchi. A me sembra una giusta scelta, ma la ricomposizione in settori di discipline affini è un grosso problema. Va evitato il rischio di « ammucchiate ».Nel testo di legge si intrecciano tre diverse concezioni della scuola: quella di un’area cattolico-spiritualista che mira alla formazione della personalità umana; quella di un’area laica, molto vasta, che mira alla formazione del cittadino; quella di una parte della sinistra che mira alla formazione di un « produttore » capace di esercitare un controllo sui processi produttivi. Schieramenti analoghi sono presenti tra gli insegnanti e le forze sociali. Il fatto che questa riforma si proponga di fare acquisire insieme formazione culturale e capacità preprofessionali, inci
32 Mi riferisco al testo approvato daU’VIII commissione permanente (Istruzione), il 14 giugno 1978, ora in discussione in Parlamento.33 aa. vv., Scienze sociali e riforma deila scuola secondaria, Torino, 1977, p. 117. Sui blocchi di studio pp. 83-119. È evidente l’importanza dell’introduzione delle scienze sociali. Il libro elaborazione di una commissione incaricata dal Consiglio italiano per le scienze sociali — propone una sequenza di blocchi tematici assai validi quanto agli obiettivi conoscitivi,'tuttavia tali blocchi hanno l'aspetto di sezioni del processo storico e di comparazione tra sezioni diverse. Gli autori si richiamano a M. Weber, richiamo più che legittimo. Ma, per restare ai classici, il modello di Marx pare più congruo alla conoscenza storica, essendo in esso considerata la problematica della trasformazione; cfr. witold kula , Teoria economica del sistema feudale, Torino, 1970, pag. 10.
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derà profondamente sul peso dell’area comune, sulla relativa autonomia della formazione culturale e — specificamente — sull’insegnamento della storia e delle scienze sociali. E questo tanto più quanto maggiori saranno l’esperienze dello studente nel mondo del lavoro.Il testo di legge non prevede alcuna sperimentazione, generalizzata e controllata, per i primi anni di entrata in vigore della riforma, né fa capire la fine che faranno le varie e positive sperimentazioni da tempo in atto (per es. a Reggio Emilia e a Parma). Ma la riforma costringerà comunque a sperimentare una nuova situazione didattica che richiederà un processo di aggiornamento. Ritengo esemplare, sotto l’aspetto politico-organizzativo, l’esperienza di aggiornamento che è stata fatta a Torino34 con l’assunzione di impegni da parte dell’Università a livello di senato accademico e non di singoli docenti o istituti. Docenti universitari e insegnanti conducono insieme corsi che hanno dimensioni di massa e che sono capaci di decentrarsi a livello delle scuole. L’art. 22, a proposito dell’aggiornamento parla di un piano che deve essere elaborato dal Ministro della P.I. con l’assistenza tecnica dei vari Istituti Regionali per la Sperimentazione e l’Aggiornamento (IRSA) e in collaborazione con l’università. Ma i decreti delegati prevedono una categoria di aggiornatori di professione, insegnanti distaccati presso i vari IRSA, e ciò contraddice il modello di Torino quanto al rapporto diretto scuola-università, rapporto che vede l’università sede deH’aggiornamento, in quanto già sede della formazione degli insegnanti e luogo in cui dovrebbe farsi ricerca.Una corretta impostazione deH’aggiornamento deve tenere distinti due livelli: quello disciplinare, relativo all’acquisizione di conoscenza, e quello professionale, relativo alla programmazione didattica, ai criteri di verifica, ecc. L’aggiornamento disciplinare deve avere il carattere della ricerca, deve conseguire il massimo di approssimazione ai criteri scientifici della ricerca storiografica contemporanea. Questo si scontra con una Università che ha tradizionalmente ignorato tali problemi e che, al suo interno, specie nelle facoltà umanistiche non ha saputo legare ricerca e didattica. Per non parlare poi delle difficoltà che incontra la riforma universitaria. A Bologna una commissione di insegnanti sindacalizzati affronta da qualche anno il problema dell’aggiornamento. La linea prescelta è stata quella di un « connubio » tra storia, economia e diritto. Si sono già effettuati due corsi, il primo dei quali, nel 1976-77 era organizzato dall’Istituto Storico della Resistenza di Bologna, col patrocinio dell’Università locale e del Centro Didattico Nazionale di Firenze. Il secondo, svoltosi l’anno scorso, era direttamente legato all’Università. I Corsi erano finalizzati alla costruzione di itinerari di lavoro e di « repertori » da utilizzare nella scuola. Si trattava nel primo caso della storia economica e istituzionale degli ultimi cinquant’anni in Italia. In esso fu particolarmente positiva la partecipazione di docenti delle Facoltà di Storia, Economia e Giurisprudenza. Nel secondo caso, si affrontava la transizione dal feudalesimo al capitalismo, ma non fu possibile realizzare un identico grado di interdisciplinarietà. I limiti di queste esperienze rispetto alla prospettiva dei « laboratori » e della ricerca sono ancora notevoli, ma esse vanno nella direzione giusta: modificare una situazione che L. Febvre descriveva sin dal 1933 con queste parole: « agli insegnanti di storia non
34 Cfr. Il comitato universitario torinese per l’aggiornamento degli insegnanti, in « Cooperazione educativa », 1978, n. 1. Cfr. guido quazza, L ’Università e l ’aggiornamento degli insegnanti in « Rivista di storia contemporanea », 1978, n. 1. Questo articolo si segnala per l’ispirata attenzione ai problemi della trasmissione culturale — spesso assente nei docenti universitari ■— e per la chiarezza con cui si motiva l’elezione della università a sede di aggiornamento. I risultati del primo anno di esperienza sono stati presentati nelle Giornate pedagogiche di settembre, organizzate dal suddetto Comitato in collaborazione con gli enti locali.
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si domanda se sappiano leggere e, se necessario, comporre e in ogni caso criticare una statistica; né se conoscano gli elementi del diritto e i primi rudimenti della sua evoluzione; né ... se siano capaci di spiegare che cos’è una moneta nel suo corso quotidiano, che cosa significhi un cambio, che cosa realmente avvenga dietro la facciata di una borsa o dietro gli sportelli di una banca; ...ci si limita a chiedere quasi unicamente parole, date, nomi di luogo e di uomini » 35.Ma oggi vi è dell’altro. L’insegnante di storia deve misurarsi col fatto che i punti di vista degli adulti e dei giovani sul tempo e sulla storia, si vanno divaricando. I giovani cercano la geografia più che la storia, la libertà degli spazi più che la disciplina dei tempi. « Vivere alla giornata è la passione dominante. Vivere per te stesso: né per chi ti ha preceduto né per chi ti seguirà. Stiamo rapidamente perdendo il senso della continuità storica » 36. Questa descrizione ha la sua verità ma essa è lontana dalla lezione di quel maestro di modernità, che era Baudelaire, quando scriveva che « il piacere che ricaviamo dalle rappresentazioni del presente dipende non solo dalla bellezza di cui può essere rivestito, ma anche dalla sua qualità essenziale di presente » 37. Il fatto è che l’attenzione esclusiva al presente sembra determinata oggi più dalla disperazione per il futuro che da quel piacere. A questo fatto non si può rispondere né con l’indulgenza della facile sociologia né con la sterile condanna del moralismo. Non credo che l’insegnamento della storia possa fungere da «terapia»; credo invece che esso possa avere una parte rilevante nel promuovere una formazione culturale capace di resistere alle sempre risorgenti mitologie e nel dare un senso meno problematico alla formula « conoscere per trasformare». Gli studenti pongono domande: siano esse «tradizionalmente» storiche o partano dall’immediato, dall’esigenza di autoconoscenza, dal sentimento personale dell’« esser gettato», tali domande costituiscono comunque un ponte verso la storia. Esse ripropongono l’utilità di una storia « critica », la necessità di una cultura storiografica che faccia posto ai nessi tra « l’individuale » e il « collettivo », tra vicende personali e processi sociali. Da qui si può tornare a percepire quella « solidarietà dei tempi » così descritta da Witold Kula: « le domande alla storia sono poste dal presente e dalla sollecitudine per il domani; in ciò ... consiste l’eterna giovinezza della scienza storica » 38.
RAFFAELLA LAMBERTI
Ma la colpa è tutta del manuale?
Due cose ci trovano perfettamente d’accordo con l’intervento di Ivo Mattozzi sulla didattica della storia, pubblicato sul n. 131 di questa rivista: la sua voglia evidente di opporsi in qualche modo all’alluvione restauratrice nella scuola e il suo odio per l’imbecillità abilitata dal ministero.Risollevare le questioni da lui poste in un momento in cui il processo di involuzione, arretramento, congelamento di tutte le idee innovative maturate nell’ultimo decennio è così manifesto e avanzato, è cosa certamente utile. I progetti restau
35 L. FEBVRE, op. d t. p. 72.36 Christopher lasch, Jerry Rubiti. Da giovane ribelle a profeta della società narcisistica. New York, 30 settembre, 1976, riportato nel « Manifesto » dei 28 aprile 1978.37 CHARLES BAUDELAIRE, Scritti di estetica, Firenze,1948, p. 186.38 WITOLD KULA, Problemi e metodi di storia economica, Milano, 1972, p. 649-650. Tra le sempre più numerose espressioni degli storici volte al domani, propongo questa, perché in essa la speranza che la conoscenza storica abbia senso, si copre di certezza.
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ratori procedono a grandi passi, nel tentativo illusorio di rispondere alla crisi sempre più grave della scuola rivitalizzandone meccanismi e « valori » (selezione, efficienza, meritocrazia). Si assiste alla liquidazione senza riserve di ogni spazio di sperimentazione, mentre qualche brandello delle idee di rottura viene ripreso in modo distorto e falsamente « modernizzante » tanto da parte dei consulenti ministeriali quanto da parte deH’industria editoriale. Il pericolo che si cambi qualche cosa per non cambiare nulla, o meglio che si cambi tutto in peggio, è dunque reale. Il sospetto che avanzi una modernizzazione di facciata degli strumenti didattici che non muti la sostanza autoritaria della scuola ma anzi la rafforzi sotto vesti meno pedestri e più suggestive, è tutt’altro che infondato.Ben vengano quindi le provocazioni polemiche, se il loro senso e scopo è appunto quello di ostacolare questo processo, impedendo che si svolga nel silenzio generale o incontrando tutt’al più la resistenza isolata di singole esperienze esemplari. La polemica sui libri di testo, che ha ormai dietro di sé molti anni, è senza dubbio una di quelle da mantenere o riportare in vita. Per cui richiamare una serie di considerazioni sul carattere dei libri di testo, sulle concezioni mistificate del sapere che sottendono, sulla loro struttura impositiva e deprimente, ci sembra opportuno. Se le aule scolastiche sono perfettamente funzionali allo scopo di « contenere » e di « custodire » della gente, e i banchi a quello di permettere a questa gente, zitta e ferma, di ascoltare, i libri di testo di solito non sono da meno: compendi di sapere di genesi e uso indecifrabili, che invece di stimolare l’attitudine e il gusto di capire le cose, li ostacolano e li mortificano, simili in questo a certi cibi industriali che al solo vederli fanno scappare l’appetito.A questo punto però tutto il discorso resta ancora da fare e per procedere è indispensabile precisare i bersagli polemici, anche per evitare di portare acqua al mulino degli avversari.Da questo punto di vista ci sembra fuorviante la polemica di Mattozzi contro i manuali di storia. In primo luogo la sua polemica non è rivolta in modo chiaro (come sarebbe necessario) contro Yobbligo dei libri di testo, che viola la libertà d’insegnamento, crea un mercato privilegiato, addossa alle famiglie un onere economico iniquo (in quanto strumento esplicito di selezione sociale), determina un enorme e stupido spreco imponendo che in ogni classe uno stesso libro sia presente in tanti esemplari tutti uguali, mentre ogni altro libro è bandito. In secondo luogo la polemica di Mattozzi non è neppure rivolta contro questo o quel modo concreto di confezionare i libri di testo. È rivolta soltanto contro il manuale di storia, e —- insieme — contro qualunque manuale di storia. Il manuale di storia, insomma, è messo sotto accusa in quanto specifico genere letterario.Una disputa sui generi letterari non ci interesserebbe affatto (e probabilmente non interesserebbe neppure Mattozzi) se in essa non confluissero — ma in gran disordine — gli echi di sacrosante battaglie per lo più perdute, i ricordi di esperienze innovative variamente deluse ed avvilite, la nostalgia di attese e speranze un tempo vive ed oggi manifestamente impossibili: se non vi confluissero insomma i preziosi frammenti di un’epoca recente, che è stata singolarmente felice — unica, anzi, nella scuola italiana — per partecipazione, inventiva, intelligente entusiasmo, voglia di fare. Ma per quanto nobili e preziosi siano questi frammenti, il disordine non è rivoluzionario (se non quando è il disordine degli altri) e il loro eventuale coagulo intorno ad obiettivi incongrui rischia di far scivolare quel che resta del fronte progressivo nella scuola verso isolate e inconcludenti scaramucce, a tutto vantaggio dei falsi riformatori, che anche sulla confusione delle idee, oltre che sullo scoraggiamento della gente, riescono a far politica.Perché ci sembra che l’obiettivo polemico scelto da Mattozzi — il manuale di
storia — sia del tutto sbagliato? Il manuale — dice Mattozzi — è il prodotto di una concezione precisa dell’attività storiografica. È nato nella seconda metà dell’ottocento come glorificazione dell’unità nazionale e come legittimazione del potere delle classi dominanti. All’intento celebrativo la concezione positivistica ha sovrapposto la presunzione dell’oggettività della storia. Sicché ogni manuale è segnato dai peccati dell’origine: ideologismo e determinismo.C’è qualche sconnessione in questa definizione del manuale di storia: è evidente, ad esempio, che le caratterizzazioni di Mattozzi non possono applicarsi ai manuali scritti prima che l’unità d’Italia si compisse. Il che significa che esistono manuali per i quali quella definizione non vale. Ma vale sicuramente per tutti quelli scritti dopo? Si può forse sostenere sul serio che tutti i manuali oggi esistenti abbiano — a parte gli ovvi aggiornamenti e una diversificazione di toni che potrebbe essere puramente strumentale — la stessa matrice culturale e politica, lo stesso riferimento temporale? La continuità con i manuali dell’età liberale e di quella fascista era palese sino a una dozzina di anni fa, ma oggi appare ben più che incrinata; né potrebbe essere altrimenti, visto che i titoli di legittimità delle classi al potere sono così radicalmente cambiati. Forse il senso del cambiamento è angoscioso, preoccupante: il regime liberale era, almeno per certi aspetti, più civile della moderna democrazia autoritaria; il regime fascista, poi, era più facile da combattere. Resta comunque il fatto che un cambiamento c’è stato e che non giova far confusione tra il nazionalismo liberale, il fascismo e quella specie di democrazia che propriamente si autodefinisce pluralismo. Tra l’altro il pluralismo ha questo di buono: che non può avventurarsi nella persecuzione sistematica dei suoi avversari senza mettere in crisi più o meno gravemente i suoi meccanismi di consenso. Il che, nel nostro caso, vuol dire che almeno teoricamente è possibile pensare ed usare manuali di storia che non siano uggiosi catechismi pluralistici, ma ricostruzioni del passato coerenti con la battaglia democratica che resta da dare.
Certo, non è questa coerenza che dispiace a Mattozzi. La coerenza di un’opera di storia con l’impegno politico e la vocazione umana di chi la scrive non rappresenta un attentato autoritario alla felice ingenuità del lettore, ragazzo o adulto che sia.La coerenza non è peccato e l’ingenuità è un mito, oltre tutto deprimente. Se così stanno le cose, che motivo c’è di suggerire, in alternativa al manuale, l’uso di monografie o di antologie magari « regionali » o di « opere di sintesi » (che Mattozzi contrappone al manuale senza spiegare quale sia la differenza per lui significativa)? Quello che vale per il manuale vale infatti per ogni altro genere storiografico: lo stesso intento apologetico è uno dei caratteri originari dell’attività storiografica ed è impossibile accorgersene solo a proposito dei manuali di scuola. Quanto al vizio teleologico ed a quello deterministico, i lavori « originali » ne sono forse esenti?La discriminazione ai danni del manuale rispetto ad altri generi storiografici richiama irresistibilmente il disdegno accademico per compendi e sunti che non fanno titolo (almeno di norma). Quel che è certo è che Mattozzi giudica il manuale una violazione degli « statuti attuali » delle discipline storiografiche, un residuo del passato, una collezione di ex-fatti, un prodotto insomma che intorbida, offusca o cela ai più il nitore della scienza.A parte il fatto che non è tutto oro quel che luccica e che non è sempre facile stabilire dove finisce lo « statuto scientifico » e dove comincia la moda o il ghiribizzo, resta da vedere se sia proprio di questi « statuti » che la scuola ha bisogno. Mattozzi in proposito sembra non aver dubbi: studenti e insegnanti devono fare
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«come fanno gli storici», devono ripetere a scuola «proprio quello che fanno gli storici». Se gli storici non leggono i manuali, neppure a scuola si devono leggere; se gli storici non vogliono o non sanno più « narrare », anche dalla scuola bisogna bandire la narrazione storica; se gli storici si dedicano alle microanalisi, a scuola ci si sbarazzerà della storia generale, e così via.È la vecchia immagine della scuola che insegue affannosamente (per via di brevi corsi e di conferenze) un improbabile «aggiornamento». Una scuola tutta subalterna al mondo accademico e ai suoi variabili interessi, dove lo sforzo di capire il mondo rischia di esaurirsi nel patetico scimmiottamento della ricerca « adulta » e dove — visto che quel che vale per la storia deve valere anche per le altre « materie » — lo studente ideale è quello capace di rifare il verso a cento specialisti (con la speranza che le deformazioni professionali di ciascuno di loro sommate insieme diano un uomo di buon senso). Che è poi proprio l’immagine della scuola che i falsi riformatori, dopo averla combattuta per anni, cercano oggi di riaccreditare.
È certo anche che le proposte didattiche di Mattozzi riecheggiano la fortuna di cui attualmente godono nel mondo accademico la storia locale e la storia orale. La storia orale e la storia locale sono ottime cose, tra una miriade di altre ottime cose. Ma il percorso didattico proposto da Mattozzi non è affatto convincente: dal semplice al complesso, dal particolare al generale, dal prossimo al remoto, dall’orale allo scritto. Ma chi ha detto che la microanalisi sia più semplice della macroanalisi, che la fonte orale sia più accessibile della fonte scritta, che le sofferenze di nonno Agostino siano più comprensibili della logica delle multinazionali? E il passaggio dal particolare al generale è davvero un itinerario senza salti e senza traumi percorribile per successive e spontanee approssimazioni? Quando nel secolo scorso il ministero invitava gli insegnanti ad iniziare lo studio della geografia dall’aula scolastica per passare poi a tutto l’edificio della scuola e poi al villaggio, alla provincia, alla nazione, al mondo intero (come si vede le mode didattiche hanno questo di peculiare, che sono sempre le stesse) un geografo di buon senso — e democratico — ebbe a obbiettare che non necessariamente il prossimo del bambino è ciò che gli sta più vicino. Nel che c’era forse anche il ricordo di un insegnamento evangelico.Il fatto è che l’universo conoscitivo del ragazzo (come quello dell’adulto) non è fatto di nozioni semplici, ma di immagini, concetti, stereotipi e schemi interpretativi complessi, che per quanto riguarda la profondità cronologica vanno ben oltre la vita delle ultime due o tre generazioni e per quanto riguarda l’ampiezza geografica vanno ben oltre i « luoghi patri » (a proposito: quali sono i « luoghi patri » di una scolaresca di Sampierdarena formata per due quinti da calabresi e per tre quinti da siciliani e sardi?). In questo senso la storia trova la sua legittimità nella scuola non nel suo adeguamento alle mode accademiche, ma proprio in quella che è la funzione peculiare (e unica, anche nelle classi superiori) della scuola stessa: l’alfabetizzazione. Parole come agricoltura, produttività, salario, rivoluzione, crisi, monopolio, stato, ecc. trovano in sede storica la loro illustrazione e solo in questa sede possono recuperare la perdita o la distorsione di significato che subiscono nel linguaggio corrente, in quello dei politici e dei predicatori, in quello dei mezzi di comunicazione di massa.Se quest’opera di alfabetizzazione non riesce, non diamo la colpa ai manuali. Diamo la colpa alla scuola. Ci sono manuali buoni e manuali cattivi. Ma in una scuola « buona » sarebbe perfino inutile distinguere tra manuali buoni e manuali cattivi, perché una buona scuola dovrebbe insegnare ad usare con uguale profitto le cose buone e le cattive. Usare le cose, ossia i manuali e i saggi monografici,
ma anche i romanzi, i film, i manifesti, la memoria di nonno Agostino, le ricette della zia Rosina, i discorsi di Berlinguer, i monumenti e i documenti di un mondo che è quello che è, ma che potrebbe anche essere diverso.Se vogliamo fare qualcosa in direzione di questa scuola che insegna a leggere, a scrivere e a fare, non a credere e a rispettare, cominciamo con l’impegnarci sul serio ad imporre l’abolizione dell’obbligo dei libri di testo, a qualunque genere essi appartengono. Nelle biblioteche scolastiche saranno indispensabili — a nostro avviso — alcuni manuali. Se poi qualcuno preferirà non usarli, sarà certamente una scelta discutibile, ma finalmente legittima.
CLAUDIO COSTANTINI ANTONIO GIBELLI
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Società e storian. 3 del 1978
cesare mozzarelli, Strutture sociali e formazioni statuali a Milano e Napoli tra ’500 e 700; marco della pina, Le crisi di mortalità in un territorio a crescente specializzazione economica: Carrara 1600-1830; annalucia forti Messina, La « disciplina degli operai » in Lombardia dopo la soppressione delle corporazioni (1787-1796); bruno pellegrino, Legittimismo borbonico e devozione alla cattedra di Pietro: i vescovi del Mezzogiorno e il rifiuto della rivoluzione nazionale.Orientamenti e dibattitihaim burstin, Movimento contadino e rivoluzione francese: nuovi indirizzi di ricerca; marcello verga, La « Sicilia dei feudi » o « Sicilia dei grani » dalle « Wiistungen » alla colonizzazione interna; Antonio prampolini, Il « ritorno alla terra » e la crisi del capitalismo negli anni trenta: note introduttive.Beni culturali e organizzazione della ricercafabrizio dolci, I regolamenti di fabbrica (1870-1925) nella sezione « Pubblicazioni minori » della Biblioteca nazionale centrale di Firenze; maria luisa betri, Una fonte per la storia della medicina: le carte Robolotti presso l’Archivio di Stato e la Biblioteca statale di Cremona; licia riva, Materiali per la storia del movimento sindacale: l’Archivio della Camera del lavoro di Milano (1945-1975); duccio bigazzi, L’Archivio della Direzione generale dell’Alfa Romeo (1933-1945).Schede, a cura di: Franco Angioini, Livio Antonielli, Michele Battini, Francesco Bo- gliari, Elena Brambilla, Pietro Calascibetta, Carlo Capra, Miriam Castiglione, Claudia di Filippo Bareggi, Claudio Donati, Luigi Faccini, Giovanni Federico, Emilio Franzina, Giorgio Gattei, Lorenzo Gestri, Ada Gigli Marchetti, Gaetano Greco, Teresa Isenburg, Francesca Klein, Paolo Malanima, Daniela Maldini, Ivo Mattozzi, Andrea Menzione, Renato Pasta, Sandro Petruccioli, Paolo Pezzino, Giorgio Politi, Sandra Tortoli, Marcello Verga.Libri ricevuti
Comitato di direzione: Franco Bonelli, Carlo Capra, Giovanni Cherubini, Giorgio Chitto- lini, Alberto De Bernardi, Franco Della Peruta, Luisa Dodi, Luigi Faccini, Teresa Isenburg, Aurelio Macchioro, Paolo Macry, Mario Mirri, Mario Rosa, Andrea Schiaffino, Francesco Sirugo.Redazione e amministrazione: MOIZZI Editore, Via Fiori Chiari 12, Milano, tei. 863235. Pubblicazione quadrimestrale: Abbonamento annuo Italia L. 12.000 - Estero L. 15.000 da versarsi sul c/c n. 4464206 intestato a GHISONI libri S.p.A., via Traiano 38/A, Milano.
Contributi sulla formazione culturale e politica di Mario Alicata
Nel 1966, ricordando Mario Alicata, Giorgio Amendola sottolineava la necessità di ricostruire l’itinerario politico-culturale di quel gruppo di giovani, formatosi nella università romana negli anni quaranta, che divenne un tramite di grande importanza nel collegare « il vecchio gruppo dirigente illegale del PCI con la nuova realtà nazionale come si era venuta maturando nel secondo decennio antifascista » (« L’Unità » 7 dicembre 1966).Per molti anni le uniche raccolte di testi di Mario Alicata sono state le due antologie Scritti letterari (Milano, Il saggiatore 1968) e La battaglia delle idee (Roma, Editori Riuniti 1968), nelle cui introduzioni Natalino Sapegno e Luciano Gruppi si soffermano più sugli aspetti memorialistici e sulle lotte politiche e culturali che sottendevano i nessi profondi della scelta politica di Alicata. D’altra parte la scelta dei curatori di dividere gli scritti alicatiani in letterari e politici, non agevolava certo questo sforzo di approfondimento.Soltanto negli ultimi anni gli studi sulla « cultura fascista » o in generale sui rapporti tra cultura e fascismo e le opere numerose sulla storia del Partito comunista prima e dopo la Resistenza hanno aperto nuove prospettive sulla formazione antifascista di tanti giovani. Per questi motivi la pubblicazione delle Lettere e taccuini di Regina Coeli (Torino, Einaudi 1977), dell’antologia Intellettuali e azione politica (Roma, Editori Riuniti 1976) e del recente volume Mario Alicata, intellettuale e dirigente politico (Roma, Editori Riuniti 1978) permette di riprendere finalmente su nuove basi e con nuovi elementi l’invito di Giorgio Amendola. L’antologia Intellettuali e azione politica curata da Renzo Martinelli e Roberto Maini raccoglie in un unico volume i più importanti articoli e saggi politico-letterari di Alicata dal 1940 al 1966 e si avvale di una bibliografia pressoché completa utile per ricercare la vasta produzione sparsa su vari giornali e riviste. L’introduzione di Renzo Martinelli, come del resto quella di Albertina Vittoria alle Lettere e taccuini, si incentra in particolar modo sulla prima formazione culturale di Alicata nel tentativo di ricercare i nessi e i collegamenti con la militanza politica post- resistenziale. Tuttavia se l’esigenza di sottolineare l’inseparabilità del momento politico da quello letterario ci sembra assai giusta, bisogna pur notare che le due introduzioni non evitano, ancora una volta, di presentare la formazione politica e culturale di Alicata come un «lungo viaggio», come una linea ininterrotta dove le date periodizzanti, i momenti di rottura, ma anche le sottili connessioni non emergono in tutta la loro complessità. Come abbiamo già ricordato lo stadio avanzato degli studi su questi temi, le ricerche più generali di Alberto Asor Rosa e di Luisa Mangoni, ma anche i numerosi saggi su alcuni momenti particolari della
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cultura durante il fascismo sollecitano ad entrare più nel merito della formazione di Alicata.Nel periodo preso in esame dalle due introduzioni, che grosso modo va dal 1937 al 1943, ciò che ci sembra importante è l’intreccio stretto tra i primi approcci all’antifascismo attivo e i luoghi culturali dove questo antifascismo poteva manifestarsi. I giornali, le riviste diventano così momenti particolarmente significativi per seguire attraverso quali vie Alicata si accostò alla politica. Dal « Piccolo » a « Il meridiano di Roma », a « Leonardo », « Oggi », « Cinema », « La ruota », «Primato», i suoi interessi si allargano e mettono a frutto quegli incontri clandestini in casa Zangrandi o in casa Calogero, quelle sue « fughe » a Perugia per ascoltare Aldo Capitini dove si finiva per parlare della guerra di Spagna e di Croce, dell’URSS e di Gentile e De Sanctis.La collaborazione di Alicata alle riviste non ebbe sempre lo stesso taglio, al contrario noi pensiamo che con il precipitare degli avvenimenti internazionali, con i contatti più intensi con gli ambienti dell’antifascismo, anche i suoi interventi diventano più stringenti ed evidenziano meglio i rapporti tra politica e cultura, definendo criticamente il ruolo dell’intellettuale in quel frangente storico.Gli scritti sulla rivista « La ruota » sono il punto più alto di questo primo periodo non soltanto perché Alicata ebbe la possibilità di gestire una propria rubrica, questo era già avvenuto sulle colonne del «Piccolo» e del «Meridiano di Roma >, e di portare a maturazione in saggi di più ampio respiro i propri gusti letterari, ma perché « La ruota » diventa momento di un lavoro collettivo più vasto, tentativo di aprirsi uno spazio anche attraverso esclusioni, insofferenze, polemiche, tessendo, attraverso una linea culturale netta, una trama di intese e resistenze. Questo programma proietterà la propria ombra ben oltre quegli anni, negli indirizzi culturali del dopoguerra, nel dibattito sul nazional-popolare e il neorealismo, nelle polemiche che accompagnano l’affermazione e il declino di questi indirizzi.Sarebbe dunque stato opportuno inserire nella antologia due scritti importanti di Alicata apparsi nel 1940 rispettivamente nel primo e nel secondo numero de « La ruota ». I saggi Nota su Montale e Notizia per un saggio su Carducci avrebbero permesso non solo di valutare il diverso peso che questi due poeti ebbero nella formazione di altri giovani intellettuali, ma soprattutto di valutare attraverso quali modelli Alicata veniva formulando il proprio impegno in quel momento storico.La nota su Montale è indubbiamente più filologica, più interna, ma anche qui traspare la volontà di ritrovare i segreti profondi della poesia montaliana. L’ermetismo di Montale risulta non un prodotto di compiacenza intellettualistica, ma un intreccio tra arte e vita, un rapporto con il quale « la sua poesia risulta una dura, secca precisa testimonianza di gesti umani, di dati, di fatti o, come egli ci suggerisce di occasioni». Crogiuolo e mosaico di esperienze poetiche diverse la lingua di Montale diventa «sociale [...] immediata, quotidiana, spietatamente reale come il contenuto della sua poesia, è insomma <vita>».Questo incontro con la « vita », che solcherà tante pagine delle lettere dal carcere, è, per altri versi, presente nel saggio sul Carducci, il lavoro certamente più denso scritto da Alicata in questi anni. Nel riproporre Carducci come « classico » della letteratura italiana Alicata non soltanto realizzava una scelta immediata di direzione de «La ruota», indicando un passato di moralità culturale, che, ponendosi al di sopra e in avanti rispetto al vuoto morale e politico del momento, si batteva contro « le miserie, gli errori, i divertimenti oziosi », ma riproponeva con drammaticità la propria condizione di intellettuale travagliato tra una stagione che muore e il nuovo che si avvicina con fatica « ma non si sa se sarà più felice o più triste». In questo scritto, in cui Alicata tira le fila di tutto il dibattito critico
sulla figura di Carducci, la prosa si fa più calma e distesa quasi a sottolineare che « l’età dei processi si è ormai conclusa ed è venuta, o dovrebbe essere di là da venire, l’età della critica». È soprattutto attraverso Serra che c’è «intera una storia del carduccianesimo da rifare», non tanto, come è stato scritto, per rimettere il Carducci nel panorama europeo, ma per ricongiungersi, al pari di Serra, con il letterato e con l’uomo. Riteniamo dunque che ancora nel 1940, nonostante la militanza e l’iscrizione al Partito comunista, nonostante le amicizie con Bufa- lini, Trombadori, Salinari, Antonio Amendola e altri Alicata non avesse ancora deciso. La lezione de « La voce » e soprattutto di Boine e Serra continuava a vivere; « il letterato » e « l’uomo » che in Carducci si ricomponevano, rimanevano in lui ancora scissi. Alicata riteneva che bisognava impegnarsi a fondo anche sul piano politico perché era la coscienza morale, era la drammaticità di quegli anni che lo richiedevano, ma senza che questa scelta intaccasse la propria separatezza di intellettuale. Nel mettere a frutto la lezione di Boine nella rubrica Plausi e botte, che riprendeva il titolo di un vecchio lavoro boiniano, pur sviluppando una specie di corpo a corpo con l’autore esaminato, in un confronto pieno di umori e di giudizi personali, Alicata non riusciva a saldare il conto con la propria formazione.Si può notare a questo proposito che negli anni dal ’37 al ’42, ma in definitiva anche nel periodo carcerario, egli non dedichi un’attenzione particolare ai lavori di Benedetto Croce; non un saggio, non una nota vengono a confutare le posizioni del filosofo abruzzese. La presenza di Croce, che nel dopoguerra Alicata attaccherà ripetutamente e duramente, è avvertibile sotterranea in tutta questa prima parte, ma non viene mai portata al centro delle proprie riflessioni. Nel venir meno di tante certezze, nell’appannarsi della lezione di Borgese e Gargiulo, che pure in anni passati aveva « assunto l’abito e i modi di un maestro » (« La ruota », 1940 n. 3), nello stemperarsi in De Robertis dell’amore e della fedeltà disinteressati alle lettere in un semplice « buon gusto » che nulla ormai aveva a che spartire con il « gusto estremo » delle letture di Renato Serra, nel fallimento della giovane critica ermetica, da Bo a Falqui, tutta rinchiusa « nell’egoismo intellettualistico » («La ruota», 1940 n. 9), l'unico intellettuale che poteva insegnare qualcosa rimaneva Benedetto Croce e non tanto o non solo per la sua resistenza al fascismo, ma per l’esempio di moralità, per la fedeltà alla propria ricerca che niente concedeva alle facili mode. Solo negli anni successivi la liberazione fino alla fine degli anni cinquanta Alicata avvertirà la necessità di sbarrare la strada non solo alle linee politiche di Croce, ma anche alla sua influenza su tanti quadri del movimento operaio.Prima di indagare il taglio di questi scritti, converrà tuttavia ancora soffermarsi sulla prima formazione per comprendere meglio le tappe che contraddistinguono la vicenda politico-culturale di Alicata da quella di altri giovani. Già alla fine degli anni quaranta si intravedono gli esiti diversi di questo cammino. Nell’articolo sul romanticismo apparso su « Primato », una rivista che risentirà anch’essa degli eventi sconvolgenti della guerra, Alicata traccerà una sorta di propria storia intellettuale. In maniera forse meno lucida ma più coinvolgente ed intensa delle conclusioni di Della Volpe, Alicata affrontava il tema della crisi ormai europea della cultura. Davanti alla possibilità di « tracciare un crocione nero, una ingenua e ingiusta condanna » sulle esperienze della precedente generazione o alla necessità, espressa nell’intervento di Pintor, di appellarsi ancora alla Dea Ragione recuperando la lezione delPilluminismo, Alicata con uno sforzo tenace in cui « le parole stanno arrivando ad assumere un tono abbastanza diverso e lontano da quello che avrebbero avuto agli inizi » leggeva la crisi della propria generazione come « crisi morale, definitiva in un certo senso, diciamo pure della cultura borghese,
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per la quale nessuna vecchia misura o strumento o terapia potrà giovare ». La conclusione era che davanti ad un « nostro segreto e personale Sturm und Drang » veniva messa in discussione proprio la lezione de «La voce», la tradizione dei chierici tenacemente difesa da Pintor. La crisi che investiva la cultura e la società borghese non lasciava più spazio agli appelli, ai ritorni al passato; si trattava al contrario « di mettere in serbo il coraggio necessario a scendere tra gli altri, fra gli uomini per ricercare le condizioni nuove della nostra nuova esistenza ».
Come sappiamo fu rincontro con la politica, con il Partito comunista che portarono Alicata a concretizzare questi suoi « astratti furori ». L’attività nell’organizzazione clandestina comunista e l’esperienza carceraria gli consentiranno di bruciare nel fuoco della lotta i legami con il suo passato uscendo definitivamente dall’ottica, fortemente presente in tanti intellettuali, del ristretto gruppo clandestino. Non è dunque un caso che il più importante intervento politico di Alicata, scritto insieme a Franco Rodano e frutto di una più stretta collaborazione con i cattolici-comunisti, porti come titolo Dal gruppetto clandestino al partito di massa. Stupisce in questo scritto la capacità di Alicata e Rodano di leggere la crisi interna del regime, la lucidità di prevedere alcuni sbocchi della situazione politica italiana, la lettura attenta di alcuni testi di Lenin. Davanti al nuovo capitolo della storia italiana apertosi con la guerra, l’antifascismo, secondo Alicata, si era rinchiuso o « nel fuoriuscitismo sterile e statico, dei Nitti, dei conti Sforza, dei don Sturzo »0 nell’inazione di chi, pur rimanendo in Italia, « attende pur esso da forze esterne alla sua volontà e capacità politica la caduta del regime ». Sembra quasi una polemica ante litteram contro l’attendismo. La costruzione dunque di un partito di massa che rompa definitivamente con questo vecchio modo di fare politica è posto da Alicata e Rodano con insistenza. Soltanto costruendo il partito di massa e seguendo gli insegnamenti di Lenin, la guerra imperialista potrà trasformarsi in guerra rivoluzionaria mobilitando anche la classe borghese rimasta impotente per l’esaurirsi dei vecchi gruppi antifascisti.Le Lettere e taccuini di Regina Coeli si pongono dunque come rottura violenta e definitiva con le scelte precedenti e come continuità, cerniera con il periodo postresistenziale. L’introduzione di Albertina Vittoria, che si avvale della testimonianza di tanti protagonisti del gruppo romano, preferisce soffermarsi sugli anni precedenti. È invece proprio in queste lettere e taccuini che Alicata compie prima di altri suoi compagni la scelta di diventare un « rivoluzionario di professione ». Con la passionalità e la franchezza che saranno sempre una componente non trascurabile del suo carattere, Alicata rimetterà in discussione tutto il suo lavoro precedente attraverso una verifica che coinvolgerà affetti e amicizie. Ciò che si può subito rilevare in questi scritti è il cambiamento dei suoi interessi; ora è soprattutto la letteratura dell’ottocento italiano ed europeo ad incontrare maggiormente1 suoi consensi, mentre giudizi sempre più severi vengono espressi sull’esperienza delle avanguardie del primo novecento. Affiorava così un ideale ottocentesco astrattamente indenne dalla crisi del primo novecento, un ideale che anche in Alicata risentirà della rimozione troppo rapida di certe esperienze giovanili. Sarebbe tuttavia ingiusto e fuorviante insistere, come pure è stato fatto dalla critica più recente, sulla incapacità di Alicata nel rendersi conto dei pericoli di queste scelte. Al contrario, proprio riflettendo sull’esperienza comune del film Ossessione egli sottolineerà l’ambiguità, la allusività del messaggio contenuto nel film e in particolare nella figura dello Spagnolo nella quale il richiamo alla guerra di Spagna, alla irregolarità, all’amore per la libertà aveva finito per trasformarsi in un mito, quello della via giusta, diritta dal quale nasceva il reale autentico significato antifascista del personaggio.
Vecchio e nuovo s’intrecciano dunque in queste lettere e taccuini, mentre emerge con forza l'interesse per la storia, attraverso il quale Alicata cominciava a pagare il debito con il « bagno crociano ». I rapidi appunti stesi nei taccuini sulla costruzione e i primi anni dello stato unitario dimostrano come egli si andava progressivamente distaccando dalla concezione crociana. La lotta delle classi espunta dal Croce nella sua Storia d’Italia veniva messa al centro delle riflessioni alica- tiane, quasi a sottolineare il ruolo nuovo avuto dalle masse nel processo storico e l’incapacità del Croce di comprenderne l’importanza. Rileggendo La questione meridionale di Antonio Gramsci, Alicata sottolineerà nell’importante saggio Benedetto Croce e il mezzogiorno («Rinascita», 1952 n. 12), la strada diversa da quanti, prendendo le mosse da Fortunato e Dorso più che dal pensiero di Croce arriveranno, durante la lotta contro il fascismo e la Resistenza, a collocarsi su posizioni democratiche o a militare nel partito socialista e in quello comunista.
Queste brevi note sulla prima formazione culturale di Alicata vogliono tuttavia sottolineare come il compito più impegnativo e arduo rimanga quello di cercare attraverso quali vie e mediazioni si arrivi al periodo post-resistenziale. Questo non tanto per misurare ciò che è vivo e ciò che è morto nella sua elaborazione o per dare giudizi affrettati e liquidatori su una vicenda certamente complessa, ma per mettere a fuoco gli esiti di scelte che ancora oggi hanno un loro peso. Emergono così nella sua attività del dopoguerra due grandi questioni nazionali: il Mezzogiorno e la politica culturale. Seguendo la lezione di Gramsci, Alicata vive intensamente la questione meridionale come uno dei termini su cui direttamente e in modo più impegnativo si deve esercitare la capacità dirigente e la funzione nazionale della classe operaia. Il tema della riforma agraria come chiave del riscatto meridionale, come condizione di una industrializzazione che investa tutto il tessuto economico del Mezzogiorno non sarà mai abbandonato neanche negli anni diffìcili del boom economico, dell’espansione monopolistica. La complessità dei problemi nazionali e la nuova fase politica dopo il 1956 e il XX Congresso imponevano, secondo Alicata, una ripresa del dibattito teorico sia all’interno del partito sia con altre forze politiche e culturali. A questa situazione Alicata aveva g à dato una risposta nel 1955 con l’importante relazione al Comitato centrale che, impostando in maniera nuova il rapporto intellettuali-masse, individuava nella scuola il cardine di una strategia di largo respiro, ma sarà soprattutto nel 1960, con l’intervento al IX Congresso che egli, riprendendo uno spunto sulla tolleranza contenuto nella relazione di Togliatti, sottolineerà la necessità di abbandonare gli schematismi del periodo della guerra fredda e di confrontarsi con i nuovi fenomeni e le nuove posizioni culturali proprie della società di massa. Tuttavia non si sfugge all’impressione che in questo campo vi fosse ancora un nodo non risolto, la contraddizione tra la visione lucida del marxismo come pensiero non dogmatico, come strumento di interpretazione del reale e zone in cui questa visione veniva in qualche modo ad attenuarsi, a ridursi, alcune volte a contraddirsi. La consapevolezza che la cultura si rinnova non più nell’ambito dei suoi problemi, bensì attraverso il rapporto intellettuali-masse attraverso la presenza della classe operaia nella vita culturale e nella lotta delle idee risultava alcune volte appannata nella letture dei Quaderni dal carcere.
Ci si limitava a ricavare valori, modelli, stimoli, per un generoso appello contro la separatezza degli intellettuali, o a postulare un concetto di nazional-popolare che non veniva letto nella ricchezza delle sue indicazioni e come nuovo livello del politico, in quanto per la prima volta si poneva il nesso « politica-classe-stato » radicato al nesso «popolo-nazione-stato», ma come motivo di un diverso rapporto con il popolo-nazione che nella critica letteraria diventava forma valutativa, giudizio
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estetico, esame contenutistico dell’opera d’arte. Più che interpretare Gramsci, lo si usava e inevitabilmente lo si riduceva e forzava in determinate direzioni.Da questo tipo di lettura ci sembra che Alicata non fu immune, ma anche per questo occorre ricostruire tutta la sua vicenda, perché solo attraverso questa volontà di capire il fatto personale diventa un fatto di tutti.
GIANFRANCO TORTORELLI
Il ponteAnno XXXIV nn. 7-8 31 luglio-31 agosto 1978Direttore: Enzo Enriques Agnoletti; Redattore capo: Giuseppe Favati
Enrico PeaEugenio montale, All’amico Pea; Enrico pea, Viareggio a cent’anni con una Postfazione di Marcello ciccuto; Gianfranco contini, Una lettera di Enrico Pea; Rita badassarri, La poesia di Enrico Pea, Fole - Montignoso - Lo Spaventacelo - Poesie 1914-1940; anna barsotti, Il teatro novecentesco di Enrico Pea e i « maggi »; Silvio guarnieri, La trilogia di Moscardino, Moscardino - Il Volto Santo - Il Servitore del Diavolo; lorenzo greco, Il mondo magico del primo Pea: mito di una cultura sommersa. Religione e magia - Lo straniero e il mare - Forestiero come « aduena », - Peregrinus - Il Nonno e Moscardino - Pea, gli esclusi e il riscatto magico; Giancarlo bertoncini, La tensione utopica nella narrativa di Pea da « La figlioccia » in poi; franco petroni, Scrittore d’avanguardia; Antonio tabucchi, L ’orto di Pea; Costantino paolicchi, Vita e morte; Bibliografia.
Questo numero speciale è stato curato da Silvio guarnieri, in collaborazione con la redazione della rivista
Guerra, dopoguerra e fascismo nella interpretazione di Giorgio Candeloro
Quanto Giorgio Candeloro osservava, nel 1956, presentando il primo volume della sua Storia dell’Italia moderna, non potrebbe certo ripeterlo oggi, o quantomeno non con la stessa determinazione. Scriveva allora che, a dispetto delle molte e gravi lacune riscontrabili nelle ricostruzioni e analisi del nostro passato prossimo, « il lavoro degli storici non deve neppure esaurirsi in una serie infinita di ricerche particolari », ma « anche manifestarsi con tentativi di delineazioni generali, che oltre a venire incontro alle esigenze di un pubblico di non iniziati, servono a saggiare la validità di talune interpretazioni attraverso la ricostruzione di periodi storici di notevole ampiezza e a stimolare nuove ricerche particolari mostrando rinsuffìcienza degli studi in determinati settori». Le sintesi apparse alla metà degli anni settanta — dal saggio di Giampiero Carocci alla Storia d’Italia edita da Einaudi — ed i numerosi, taluni impegnativi, programmi editoriali in corso, indicano che in effetti il panorama è mutato, che la base di letture oggi disponibile si è sensibilmente arricchita, che anzi, semmai, si possono cogliere alcuni sintomi di insofferenza (e sarebbe interessante disporre, in proposito, anche di indici di mercato) per il moltiplicarsi delle opere generali. In realtà esse si offrono come validi strumenti per provocare riflessioni complessive — e, insieme, confronti di tesi interpretative — ma rappresentano anche, in varia misura, armature troppo rigide, troppo condizionate da evidenti ragioni di sistematicità espositiva, di « proporzione » tra le parti per dare comunque respiro ad un discorso storiografico che, malgrado i propositi (o le velleità) innovatrici, continua ad innervarsi sul filone degli avvenimenti politici. Del resto anche le sintesi, non meno della restante produzione, sono « datate », e non tanto nel senso che rispecchiano lo stato della letteratura disponibile, quanto piuttosto per l’evidente rispondenza che denunciano con esigenze trasmesse al lavoro storiografico dalla congiuntura politica e culturale. Quando disporremo di un capitolo di critica sufficientemente ampio su queste opere recenti, potremo meglio valutare il tipo di replica che prospettano ai problemi imposti dalla storia nazionale dell’ultimo trentennio, anche se una qualificante base comune è percepibile nello sforzo di individuare e definire quale blocco di potere possa dirigere il processo di modernizzazione della società italiana riassorbendo e superando i più gravi squilibri del periodo unitario. Le elaborazioni ideologiche degli anni sessanta hanno esercitato una indiscutibile influenza nella elaborazione delle risposte a tale quesito, laddove un lavoro come quello di Candeloro, intrapreso oltre vent’anni or sono, non può che riportarci, nella sua impostazione originaria, ad un clima politicointellettuale e ad uno stadio della ricerca storica altrimenti caratterizzati. Anche taluni elementi apparentemente esterni non mancano di fornire spie significative di tale diversità. Candeloro, ad esempio, ha scelto — sono parole sue — una « forma prevalentemente narrativa, la forma classica e tradizionale della storia », che in parte contrasta con l’impianto prevalentemente « saggistico » di alcuni dei lavori recenti, evidentemente più necessitati ad accentuare il taglio interpretativo, ovvero la rimessa in questione delle acquisizioni precedenti. Occorrerà allora chiedersi sino a qual punto lo schema espositivo adottato da Candeloro, che nel concreto porta a frequenti spezzature tematiche e cronologiche, non rappresenti un ostacolo insidioso proprio sulla via che l’autore intende per
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seguire: quella di affrontare i nodi della struttura di classe, dello sviluppo delle forze e dei rapporti di produzione. Più dall’interno della costruzione dell’opera, è analogamente inevitabile chiedersi quale validità conservi l’affermazione iniziale di muoversi entro il perimetro delle indicazioni gramsciane rispetto all’accumulo di studi e dibattiti degli anni più vicini. Basterebbe riferirsi alle recenti utilizzazioni in sede storiografica (si veda il Carocci della Storia d’Italia dall’unità ad oggi) del concetto di egemonia per misurare distanze e problematiche nuove.Se abbiamo insistito su questi rilievi sin troppo ovvi è per sottolineare come l’approccio all’ampia sintesi di Candeloro presenti oggi qualche difficoltà sia in sede di collocazione dell’opera complessiva, sia, di conseguenza, per la valutazione dei singoli volumi. Quello ora pubblicato (Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna. Vili. 1914-1922. La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l ’avvento del fascismo, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 465, lire 10.000) è in proposito esemplare. Il racconto abbraccia gli anni che seguono il trapasso dal liberalismo al fascismo attraverso la prova lacerante della prima guerra mondiale e la crisi profonda, già aperta, che questa porta a maturazione. La gravità della crisi, osserva Candeloro, derivò dalla « sovrapposizione e dalla fusione tra la crisi generale dell’Europa, che si manifestò con la grande guerra, e la crisi interna dell’Italia, già in atto negli anni 1912-13 » (p. 417). Ma lo sbocco del processo non fu «una rivoluzione, come sostennero i fascisti e come ammette tuttora qualche studioso, ma fu al contrario una reazione, caratterizzata peraltro da molti aspetti nuovi rispetto ai sistemi reazionari tradizionali » (p. 419). E qui Candeloro si richiama a due degli interrogativi di fondo (le ragioni della sconfitta del movimento operaio, la natura ed i contenuti dell’insorgenza fascista) per ribadire la necessità di una loro comprensione calata nel quadro europeo. Dal proletariato e dalle sue istituzioni, osserva in sostanza Candeloro, si guardò alla guerra, erroneamente, come ad un fattore di indebolimento e scompaginamento delle fila borghesi, laddove queste ultime, all’apposto, accrebbero enormemente il loro potere, anche se la crisi delle strutture politiche tradizionali indusse, specialmente in Italia, a ritenere il contrario. L’ottobre sovietico agì da catalizzatore delle aspettative rivoluzionarie, ma queste si imbatterono in un nemico la cui forza era stata grossolanamente sottovalutata. Né lo schieramento operaio, trascinato dalla velleitaria fiammata massimalista, seppe levarsi a difesa delle istituzioni parlamentari, imponendone una rifondazione che ne garantisse il carattere autenticamente democratico. « Dovevano passare venti anni di dittatura fascista — prosegue Candeloro suggerendo esplicitamente la natura della alternativa allora non perseguita — perché la democrazia trovasse nella classe operaia e nelle masse del popolo italiano una grande forza propulsiva e un formidabile sostegno » (p. 420). Quanto alle origini del fascismo, Candeloro si sofferma soprattutto sulle tesi di Renzo De Felice che sanciscono l’equazione tra classi medie emergenti e fascismo come movimento (da cui la potenzialità rivoluzionaria di quest’ultimo, che non andrebbe confuso con gli equilibri di potere dettati dal fascismo come regime) per respingerle, ribadendo la sostanziale disomogeneità di quei ceti e le ragioni della loro disponibilità, quale base di consenso e di manovra, ad una soluzione autoritaria della crisi, non certo di forza capace di realizzare una diretta presa del potere. La profondità del conflitto sociale, reso incandescente dal regime di guerra, spiega, nelle condizioni date, il precipitare dell’Italia nell’alternativa fascista anche in forza della fragilità delle strutture istituzionali, della « base clientelare e [del] carattere trasformistico del demoliberalismo italiano » e del « persistente carattere autoritario e repressivo dell’apparato amministrativo militare, poliziesco e giudiziario » (p. 424).Il richiamo di Candeloro ad una costante comparazione tra caso italiano ed Europa occidentale è indiscutibilmente opportuno per una storiografìa da sempre propensa a caratterizzazioni strettamente autarchiche della storia nazionale; così come attento ed equilibrato appare l’esame dell’intrinseca debolezza del movimento operaio, cresciuto impetuosamente senza saper esprimere un gruppo dirigente all’altezza dei nuovi compiti, e della organica incapacità dello stato liberale italiano di evolversi verso forme di reale democratizzazione. Ma le considerazioni conclusive di Candeloro sollevano anche alcuni dubbi e perplessità. Può essere utile, ad esempio, rinnovare la confutazione delle tesi defeliciane, utile ma in definitiva scontato, soprattutto se ciò va a detrimento di una più approfondita analisi del ruolo avuto dai centri del potere economico e della reciproca integrazione e complementarietà tra ristrutturazione produttiva imposta dagli esiti della guerra e funzione
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antioperaia della reazione fascista. Egualmente si dica del rapporto movimento e partiti operai - istituti rappresentativi. Postulare, come abbiamo visto, un processo di identificazione tra queste due componenti, quale significato assume rispetto ai termini in cui la lotta di classe si veniva allora sviluppando? È un discorso sulle alleanze della classe operaia e dunque sulle possibilità di trasformazione dall’interno dello stato liberale? E come si poteva porre il rapporto tra simile prospettiva e il rimodellarsi del sistema capitalistico nel fuoco degli imperialismi che avevano scatenato la guerra?Qualche rinvio puntuale a singole parti del volume può aiutare a meglio formulare questi interrogativi, a precisare quali fattori Candeloro chiami in causa per costruire le sue risposte. A proposito dell’interventismo, Candeloro sottolinea che, pur presentandosi come fenomeno prevalentemente borghese, « non è possibile tuttavia dare a questa minoranza una precisa connotazione sociale » e « non si può dire neppure che un settore economicamente determinato fosse alla base del movimento» (p. 115), per concludere che: «in realtà l’interventismo ha le sue radici in un certo clima morale e culturale, formatosi in Italia negli ultimi anni dell’età giolittiana per effetto di uno sviluppo economico sociale caratterizzato da acute contraddizioni che tendevano ad accentuare gli squilibri interni e stimolavano le propensioni imperialistiche e lo spirito di avventura» (p. 116). Ciò può valere senza dubbio per una caratterizzazione sociologica dell’opinione interventista, o meglio per cogliere la sua capacità di recepire il malessere di determinati strati sociali, la sua possibilità di catturare consistenti minoranze all’ideologia della guerra. Ma non approfondisce i nessi tra quelle « acute contraddizioni » e la collocazione dell’Italia rispetto ai conflitti interimperialistici. Si possono naturalmente respingere le conclusioni cui perviene R. Webster nel suo L ’imperialismo industriale italiano 1908-1915 (Torino, Einaudi, 1974) (e la nota bibliografica lo definisce infatti discutibile nella tesi di fondo), ma resta il problema di capire modi e strumenti della presenza italiana nella fase imperialistica, senza di che il discorso sull’interventismo resta privo del suo retroterra, né si illumina sino in fondo la irreparabile fragilità del cosiddetto interventismo democratico o, su altro versante, le radici della condotta diplomatica dell’intervento e della guerra, degli sforzi dì un Sonnino (e non di esso soltanto), tutto teso a guadagni territoriali che non lacerino la tela del venerato « concerto europeo ». Il nodo internazionale è qui strettamente riconnesso al nodo interno, al conflitto tra vecchie e nuove componenti del blocco di potere, questione sulla quale hanno da ultimo richiamato l’attenzione alcune penetranti valutazioni di Rochat in sede di bilancio storiografico (G. Rochat, L ’Italia nella prima guerra mondiale. Problemi di interpretazione e prospettive di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976, in particolare p. 54 sgg.). Le conseguenze del maggiore o minor respiro dato alla problematica ora indicata sono facilmente intuibili. Candeloro, ad esempio, dedica molto spazio alla questione adriatica; la segue con puntualità e grande padronanza della documentazione dal Patto di Londra alla conferenza della pace, alla spedizione dannunziana a Fiume. Ma nelle pagine ad essa dedicate ricompaiono raramente le grandi forze economiche e politiche interne, mentre l’esposizione si snoda sulla falsariga delle vicende diplomaticomilitari assumendo così, sotto il profilo quantitativo, un posto sin troppo ampio nell’economia del volume. Il richiamo ai programmi espansionistici elaborati nel corso del conflitto e alle pressioni dei gruppi industriali e finanziari sulla classe politica di fronte alla conferenza di Parigi avrebbero quanto meno consentito di cogliere assonanze e dissonanze tra queste e l’immediato retroterra politico del groviglio fiumano, destinato altrimenti a figurare soprattutto come emblema del caos post-bellico.Altro aspetto rilevante è quello relativo alle classi popolari e alle organizzazioni del movimento operaio nel regime di guerra. Candeloro delinea molto felicemente le motivazioni dell’ostilità popolare al conflitto, l’ulteriore spaccatura che questo scava nei confronti delle classi dirigenti, nonché la sostanziale passività della parola d’ordine « né aderire né sabotare » lanciata dal partito socialista. Ma sulle condizioni di vita e di lavoro egli è molto parco di notizie e di analisi, cosi come lo è, sotto lo stesso profilo, sui rapporti tra esercito combattente e fronte interno. Candeloro insiste, e a ragione, sui trasferimenti di ricchezza che la guerra provoca. Sottolinea il vertiginoso incremento dei profitti delle aziende impegnate nelle produzioni belliche (e la fitta rete di complicità che queste instaurano con l’amministrazione statale), il carattere del tutto relativo e limitato dei miglioramenti strappati da alcune categorie operaie, le forti perdite subite dai ceti medi percettori di redditi fissi, i vantaggi conseguiti nelle campagne da affittuari e speculatori a danno di
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certi strati proprietari e del proletariato agricolo. Questi singoli elementi non si ricompongono tuttavia in un quadro che dia il senso anche delle trasformazioni complessive provocate dalla guerra nella mentalità collettiva e nella percezione del rapporto tra classi subalterne e classi detentrici del potere. Si pensi al ruolo (demagógicamente esaltato dalla retorica ufficiale) dei fanti-contadini, al coinvolgimento drammatico e irreversibile dell’Italia rurale, alle acute osservazioni che Ragionieri dedica a questo tema per concludere: « non si sottolineerà, dunque, mai a sufficienza il fatto che l’Italia del fronte è fondamentalmente un’Italia preindustriale » (E. Ragionieri, Storia d’Italia. IV. Dall’unità ad oggi, t. Ili, Torino, Einaudi 1976, p. 2003). È certo superfluo aggiungere quanto simile lacuna pesi sull’intelligenza delle vicende postbelliche e anzitutto sul rapporto tra lotte agrarie e movimenti proletari urbani. L’attenzione di Candeloro è peraltro quasi interamente rivolta ai vertici del partito socialista e della Cgil, così che i movimenti di massa sono come spartiti tra la cronaca di singoli episodi e il loro completo assorbimento a livello istituzionale. Non si tratta certo di invocare artificiose, e stanche, contrapposizioni tra spontaneità e organizzazione, ma di penetrare il problema nella sua interezza, nel suo insorgere dall’interscambio tra i diversi momenti e livelli. Altrimenti non si arriva a comprendere quale spiegazione trovi nella realtà di classe dell’Italia postbellica una Cgil che, enormemente cresciuta, continua, in piena ondata massimalistica, ad essere guidata da una maggioranza riformista. Analogamente si dica per le pagine molto pacate che Candeloro dedica alla crisi del PSI e alla scissione di Livorno, dove legare il difficile e sostanzialmente deludente decollo del nuovo partito comunista all’estremismo della direzione bordighiana e al ritardo degli ordinovisti, dello stesso Gramsci, nell’elaborare una puntuale analisi del fascismo (p. 362) acquista significato soprattutto se non rimane una caratteristica solo interna ad un gruppo dirigente in formazione, ma si risolve, e si misura, ancora una volta, sull’arco complessivo del conflitto sociale in atto.L’immagine conclusiva del volume è dunque inevitabilmente condizionata dagli interrogativi che abbiamo cercato di esemplificare e che ci riportano alle osservazioni iniziali. La solidità degli elementi sui quali Candeloro fonda la propria ricostruzione, la padronanza con la quale l’autore si muove anche all’interno di aspetti sui quali la letteratura si rivela estremamente carente sono fuori discussione. In questo senso l’opera conserva ed anzi accresce, via via che si completa, il proprio indubitabile valore strumentale. Al tempo stesso, tuttavia, la divaricazione tra l’impostazione originaria e le esigenze scaturite dal lavoro storiografico più recente tende ad accentuarsi. Sotto quest’ultimo profilo, il taglio prevalentemente politico-istituzionale della ricostruzione di Candeloro traccia un limite non irrilevante alla sua utilizzazione.
MASSIMO LEGNAMI
Recensioni e schede
Strumenti
aa.vv. , Dizionario dei termini marxisti, a cura di Ernesto Mascitelli, Milano, Vangelista, 1977, pp. 436, lire 7.000.
Concepito come rapido strumento di consultazione, senza avere la pretesa (ed è giustamente rilevato) di sostituirsi ad alcun testo organico dei « classici », questo Dizionario (« repertorio di nomi disposti in ordine alfabetico che recano accanto una breve illustrazione del loro significato ») si presenta sufficientemente ampio, anche se — giustamente — selettivo nei « vocaboli » illustrati. Quasi esclusivamente elaborato sui testi di Marx, Engels, Lenin e Gramsci (ma sono utilizzabili opere di Brecht, Dimitrov, Hilferding, Lukacs, Plek- hanov, Schaff, Stalin e Togliatti, senza precisare i motivi delle inclusioni e delle esclusioni), attento anche ad alcuni termini non propriamente marxisti (idealismo, marginalismo), sufficientemente esaustivo pur nella sobrietà delle definizioni, non sempre completo, forse, nell’accennare al dibattito relativo ad alcuni concetti-base. L’assenza di certe « voci » (ad esempio alleanze ci parrebbe particolarmente significativa) non ci sembra sufficientemente spiegata dall’in- troduzione che avrebbe potuto forse meglio illustrare i criteri di scelta dei lemmi.
Luciano Casali
Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, voi. Ili, H-M, Milano, La Pietra, 1976, pp. XV-872, lire 30.000.
Il terzo volume di questa enciclopedia presenta rispetto ai due precedenti, un forse maggior ordine nella distribuzione e/o nell’accorpamento delle voci, tanto da rendere meno dispersiva la ricerca dei lemmi.Questo per quanto riguarda la tecnica di compilazione del volume e lo schedario delle voci forse rivisto, ampliato e sistemato in modo più organico in base all’esperienza del lavoro già svolto.In relazione al contenuto il volume accentua, positivamente, la caratteristica di opera che trascende la tematica indicata dal titolo dell’opera per divenire uno strumento che abbraccia l’intero arco della storia contemporanea e, pur mantenendo alla storia d’Italia una condizione di centralità, amplia lo sguardo, introduce voci riguardanti nuovi continenti, si occupa di temi del Terzo Mondo, esplora le cause che portano all’istaurazione di regimi autoritari in certi stati, senza tuttavia applicare formule meccaniche di analisi valide per regimi fascisti europei, ma non utilizzabili, e al limite distorcenti, per regimi autoritari o militari.In taluni casi le voci dell’enciclopedia superano la periodizzazione classica che tende a concludere l’analisi al 1945, accupan- dosi anche degli anni del dopoguerra e giungendo fino all’inizio degli anni settanta (si veda, ad es. la voce « Messico »). Va e- spresso tuttavia rammarico perché questo principio non sia stato assunto sin dall’inizio e per tutte le voci possibili.Non soltanto in questo terzo volume è avvertibile uno sforzo di ordinamento generale per facilitare la consultazione con i raggruppamenti tematici (ad es. sotto « Jugoslavia »), ma si nota un maggiore sforzo
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di organicità panoramica e analitica insieme rispetto a voci di precedenti volumi (si facciano i paragoni tra « Mantova » o « Milano » di questo volume rispetto a « Genova ») o l’esemplare ricchezza di certi lemmi compilati da Enzo Collotti su temi di storia tedesca rispetto a stesure di voci di tema analogo comparse nei volumi precedenti.Nonostante la maggiore organicità di cui si è detto rimangono disparità e assenze (non spiegabili alcune come « Montecatini » o « Motomeccanica ») che andranno certamente corrette. La prima necessità è che, almeno nei prossimi volumi, si superi la camicia di forza delle datazioni la barriera del 1945, per arricchire i lemmi anche trattando i temi posteriori alla data della liberazione. Ciò vale, ma in parte la carenza è stata superata, anche per il passato, per arrivare alle radici e alle genesi dei fenomeni storici. In secondo luogo lo sforzo da compiere è quello di non dimenticare voci e biografie che costringono poi ad appendici e addenda che spezzano l’organicità dell’opera.Si è detto prima della caratterizzazione in senso di opera di storia contemporanea che l’Enciclopedia è venuta assumendo; accanto a questo va sottolineata anche la peculiarità di opera di storia del movimento operaio che convive, pur con disparità e dislivelli, con la storia tout-court. Questo non significa tuttavia che l’analisi sia rigidamente marxista, nel metodo, o che l’insieme del lavoro abbia un andamento di ispirazione esclusivamente comunista. Non era nelle intenzioni di Pietro Secchia che diede mano all’opera, dirigendola, né dell’attuale direttore, Enzo Nizza, di farne uno strumento «comunista», ma di raccogliere contributi di diverse scuole, pur in un ambito prefigurato. È su questa strada che l’opera dovrà continuare a muoversi.
Adolfo Scalpelli
Italia 1943-1945. La Resistenza, a cura di Alberto Preti, Bologna, Zanichelli, 1978, pp. 274, lire 3.200.
Fra gli strumenti didattici posti a disposizione degli studiosi in questi ultimi anni non mancano saggi di ampia informazione
bibliografica, ma raramente essi assumono la completezza e l’ampiezza di prospettiva di questo agile volume che si inserisce nel quadro di una produzione editoriale assai attenta e specializzata.L’intento del curatore è quello di ricostruire il dibattito storiografico sulla Resistenza con particolare attenzione per le acquisizioni degli ultimi anni. Limitato quindi il contesto événementlelle ad una cronologia assai precisa del biennio 1943-45, Preti delinea le caratteristiche strumentali e finalizzate a occasioni politiche, volte comunque a isolare l’esperienza di lotta resistenziale e a chiuderla nell’epopea, degli anni immediatamente successivi la liberazione e la ripresa degli studi negli anni sessanta e soprattutto nell’ultimo decennio secondo nuove prospettive metodo- logiche, che comportavano l’allargamento della scansione cronologica, l’analisi più attenta delle realtà locali, delle forze politiche e dei rapporti internazionali.Questa accurata antologia della critica è strutturata secondo canoni tradizionali e divisa in « lineamenti interpretativi » e in « settori di ricerca ». Il curatore ha premesso ad ogni brano una scheda biografica sull’autore, sull’opera e sulla rilevanza di certe tesi rispetto alle linee di tendenza della storiografia. La scelta, compiuta con criteri molto rigorosi, privilegia i temi generali e le opere di più vasto respiro, specialmente nell’ultimo decennio.Il tentativo di allargare la ricerca al di là dei limiti tradizionali della guerra di liberazione, e di cogliere certi processi di lungo periodo, ha comportato scelte assai drastiche: non compaiono quindi autori e testi su cui a lungo si è discusso, basta pensare a opere famose come quelle di Battaglia e di Vaccarino, ma purtroppo mancano anche riferimenti, che ci sembrano importanti, come i contributi di Ernesto Ragionieri, anche se le linee di tendenza della storiografia italiana sono sufficientemente rappresentative. Basti per citare qualche nome ricordare i testi di Quaz- za di Collotti, di Pavone e di Carocci, e per alcune opere più monografiche la ricerca di Agosti su Morandi, o il breve ma non inutile cenno alle testimonianze alle fonti e alla memorialistica.L’antologia è completata da una ricca bibliografìa ragionata e da una filmografia, una rassegna nuova e assai importante su un materiale che da poco tempo è stato oggetto dell’attenzione degli storici.
Nanda Torcellan
Rassegna bibliografica 105
TAMARA gasparri, La Resistenza in Italia, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1977, pp. 219, lire 2.500.
Il volume, che fa parte di una collana di guide biblografiche su « temi e problemi della cultura contemporanea » appronta una serie di strumenti critici indispensabili a tutti i livelli della ricerca, secondo modelli di produzione editoriale, già ampiamente diffusi nei paesi stranieri, ma poco conosciuti in Italia nella pratica didattica. Il saggio è diviso in due parti, di cui la prima ripropone attraverso i problemi centrali della lotta di liberazione — la svolta di Salerno, la « spontaneità » delle lotte operaie e il carattere delle agitazioni contadine, gli organismi locali, una trama essenziale degli avvenimenti stessi e delle discussioni e interpretazioni degli storici, o- perando una efficace sintesi di storia e di storiografia in cui il fatto e l’analisi successiva acquistano rispettivamente rilievo e problematicità, rendendo conto delle molteplici valutazioni in un quadro articolato e ampiamente utilizzabile.Nella seconda parte, che si configura come una biblografia ragionata, Gasparri raccoglie una serie di schede sufficientemente analitiche e funzionali all’esemplificazione del dibattito storiografico, prendendo le mosse dalla celebre opera di R. Battaglia, che aprì la polemica sulla Resistenza, attraverso le posizioni dei democratici-laici di derivazione azionista, fino alle ultime puntualizzazioni di Ernesto Ragionieri nella Storia d’Italia Einaudi. La scelta degli autori, tutti significativi in un dibattito ancora aperto, è sufficientemente esaustiva, anche se, come ogni scelta, risponde a criteri anche soggettivi e parziali. Tuttavia, al di là del carattere ovviamente discutibile di ogni scelta, il metodo delle schede se da una parte esemplifica assai chiaramente le caratteristiche e il valore dell’opera stessa, dall’altra rischia di stemperare la problematicità e le risposte che essa ha suscitato nel dibattito. Si pensi ad esempio alle discussioni suscitate da opere come Resistenza e storia d’Italia di Guido Quazza. L’intenzione di dare un panorama completo di trent’anni di produzione storiografica, attenua un poco il carattere delle discussioni di questi ultimi anni relativa a temi quali la continuità dello stato, la periodizzazione e i programmi della Resistenza.Il Saggio bibliografico non si limita alle opere generali, ma offre una scelta anche
di opere monografiche e specifiche, in cui qualche indulgenza a predilezioni personale, come il Potente, Aligi Barducci comandante della divisione Garibaldi « Arno » di Gino ed Emirene Varlecchi, è compensata dall’abile e accurata selezione del moltissimo materiale prodotto negli ultimi anni.L’opera è completata da una bibliografia, che raccoglie in ordine cronologico, secondo temi generali, tutta la produzione a stampa uscita negli ultimi trent’anni e che si configura come uno strumento indispensabile per chi voglia accingersi allo studio della Resistenza italiana.
Nanda Torcellan
andrea polcri, Le cause della resistenza italiana, Milano, Isedi, 1977, pp. 171, lire2.000.
Motivi economici, legati alle esigenze di una editoria più spregiudicata che avveduta, hanno trovato un mercato assai vasto nelle esigenze di informazione più ampia e monografica, specialmente nel campo della storia contemporanea, e hanno suscitato a loro volta un rinnovato interesse, a livello divulgativo verso i temi della Resistenza. La coincidenza di questa necessità di informazione con la celebrazione « canonica » del trentennale della liberazione e della Costituzione ha inoltre avviato discussioni a tutti i livelli, stimolato dibattiti e offerto anche il destro a non riuscite demitizzazioni.È questo il caso del volume di Andrea Polcri che fa parte di una collana di vasta divulgazione su temi legati ai nodi cruciali e ai temi centrali della storia. Riprendendo quindi la categoria di derivazione aristotelico-tomistica delle « cause » (usata crediamo solo in qualche scuola del- l’obbligo) l’A. si propone di analizzare l’opposizione al regime e le forze antifasciste che prepararono la lotta di liberazione. Le cosiddette cause della Resistenza risalgono quindi all’inizio del regime fascista. Ed è cosa ovvia. È tuttavia meno facile intuire nel saggio quale fu il peso di questa opposizione, e di converso quanto grande fu la capacità di organizzare il consenso del regime e quanto isolate nel paese e all’estero le organizzazioni antifasciste, che con difficoltà e tenacia riuscirono solo a prezzo di grandissimi sacrifici individuali a riprendere la rete cospirativa.
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È stato ampiamente dimostrato che solo la guerra fece maturare i germi di questa opposizione, e contribuì a dare alla storia italiana una svolta decisiva. Far coincidere gli inizi della Resistenza con gli anni centrali del regime, allarga i limiti temporali, sfuocando i temi reali della lotta armata e delle prospettive che si aprirono di fronte alla guerra e alle esperienze più tragiche del nazifascismo.Per quanto riguarda il periodo resistenziale, l’autore si sofFerma in particolare su alcuni temi già ampiamente trattati da alcuni storici (di cui il più citato è Del Car- ria) che riassumiamo sommariamente: spontaneità e centralità delle lotte operaie; subordinazione ad opera dei partiti, e in particolare del PCI di questo potenziale rivoluzionario alle esigenze dell’unità ciellenistica; esito limitato e quindi sconfitta del movimento.Tutte queste tesi sono già state ampiamente discusse e non varrebbe la pena di riprenderle se questo volume non avesse finalità didattiche, non presupponesse quindi per la sua stessa natura una più ampia, documentata e critica esposizione delle fonti, e una bibliografia, che non sia parziale e che dia un panorama, il più possibile ragionato ed aggiornato dello stato del problema. E non è questo il caso. E passando più nel merito — cercando anche di non cogliere lo stile da giornalino studentesco dell’opera — possiamo vedere che le citazioni, quando ci sono, si limitano ad indicare l’autore (Romeo, Spriano ecc., supponendo che gli studenti-lettori conoscano a menadito tutta la bibliografia, anche se Ganapini-Salvati vale come riferimento per Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44) e molto spesso queste citazioni sono incomplete e volutamente imprecise. Un esempio: a proposito del carattere limitato dei Protocolli di Roma (p. 131) si cita Secchia, senza naturalmente indicare l’opera che è II Partito comunista italiano e la guerra di liberazione (Milano, 1973) eliminando la frase « Fu in base a queste considerazioni che i delegati del CLNAI, seppure a malincuore, si decisero a sottoscrivere la convenzione » (p. 792- 793) e poco prima si afferma che gli Alleati non garantirono alcun aiuto ai partigiani, cosa smentita dal comma 5 degli stessi Protocolli, pubblicati nella stessa pagina.E ci limitiamo a questo solo caso di citazione equivoca. Tuttavia gli errori o le imprecisioni sono ancora più numerosi:
così « il vecchio Giolitti aveva una concezione socialdemocratica dello stato » (p. 11); dopo il delitto Matteotti (1924) « ondate di arresti, preparati dalla polizia segreta (l’Ovra) si succedettero a centinaia a migliaia » (p. 19), mentre l’Ovra, come o- gnun sa, fu fondata nel 1927; Ettore Conti, industriale, finanziere, presidente della Confmdustria e della Comit, diventa « un noto economista fascista » (p. 33). Ci limitiamo a pochi dati per non cadere in un nozionismo respinto giustamente nella nuova scuola, per la quale si esige però un’informazione seria, documentata e corretta.
Nanda Torcellan
Istituto storico della Resistenza-Ravenna, Il movimento di liberazione a Ravenna (Catalogo n. 3: 1944-1946, CLN e Giunte popolari), a cura di Luciano Casali, Imola, Galeati, pp. IX-482, s.i.p.
Questo catalogo (successivo a quelli più direttamente legati al periodo della guerra di liberazione, pubblicati in occasione del XX anniversario della Resistenza) riveste un interesse particolare, non solo in quanto ci fa conoscere la consistenza di un fondo archivistico e ce ne dà una sistemazione razionale e convincente (attraverso la suddivisione in cartelle tematiche ordinate cronologicamente), ma soprattutto per la qualità del materiale documentario che riguarda in maniera precipua il periodo così complesso e determinante per la storia del nostro paese, il periodo cioè della ricostruzione.Il volume si inserisce nel dibattito in corso sulle vicende dell’Italia nel secondo dopoguerra, mettendo in luce le tensioni innovatrici e la carica ideale della Resistenza da un lato, e scoprendo le tendenze già presenti nel ’44, ma che si palesano maggiormente con un taglio più chiaro nel corso del ’45 e del ’46, miranti a non modificare i rapporti di forza precedenti, sia in termini sociali, sia istituzionali. Luciano Casali, che ha curato la sistemazione dell’archivio dell’Istituto storico della Resistenza di Ravenna, con questo nuovo catalogo, entra all’interno della complessa problematica del momento successivo alla liberazione del capoluogo, avvenuta nel dicembre 1944, quando ancora una parte del territorio provinciale, nonché regionale e nazionale, era occupata dai na
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zifascisti, facendoci cogliere la peculiarità di un esperimento di « governo diretto » messo in atto da tale data, ma che trovava i suoi antecedenti nei mesi della clandestinità, fino alla sua conclusione nell’estate del 1946.La suddivisione per nuclei tematici (agricoltura, industria, alimentazione, rivendicazioni mezzadrili e bracciantili, attività dei CLN, partiti politici, epurazione, ecc.) favorisce una ricostruzione storica del periodo a livello locale, con punti di riferimento precisi a livello nazionale e alla politica degli Alleati nella ricostruzione italiana. L’Appendice, che raccoglie un centinaio di documenti, costituisce di per sè, grazie alla scelta fatta dal curatore, un discorso storico vero e proprio . Il raggruppamento dei documenti, fondato sui nodi centrali della situazione e delle scelte politiche ed economiche a livello provinciale, preceduti da brevi ed agili Introduzioni, ci dà modo di cogliere, attraverso l’immediatezza del documento stesso, un quadro vivo e dialettico in cui si muovono forze reali, con interessi non sempre identici, spesso contrastanti.il punto di riferimento centrale di ogni attività era costituito dal Comitato di liberazione provinciale che continuava, alla liberazione, la funzione di governo della provincia, attuando, attraverso forme di potere decentrato, le Giunte popolari, un modo nuovo di gestione del potere. Di fronte alle difficoltà economiche e di approvvigionamento, alle distruzioni di case, attrezzature, infrastrutture, erano le Giunte popolari, che, in mancanza di chiare direttive e scelte a livello centrale, governavano una zona, un comune, tendendo a risolvere i problemi della fame, della casa, della disoccupazione, attraverso scelte di ricostruzione che miravano ad eliminare ogni residuo fascista, risolvendo la crisi a favore delle masse lavoratrici. L’esperimento, tuttavia, veniva intralciato e ostacolato non solo dai partiti di centro-destra presenti nel CLN, ma anche e soprattutto dalle autorità anglo-americane che, del resto, favorivano, nella vertenza agraria in corso, i proprietari terrieri, i Consorzi agrari contro ogni esperienza cooperativistica, frenando ogni processo di epurazione.I rapporti di forza interni alla provincia (ma non solo) risaltano con evidenza attraverso la documentazione: dalla fase iniziale in cui le tensioni per la realizzazione di un « mondo migliore » sembravano essere vincitrici dopo la sconfitta del nazifa
scismo, alla fase finale, attraverso momenti intermedi, in cui queste tensioni venivano disilluse e la ricostruzione assumeva l’aspetto di una restaurazione capitalistica e conservatrice. In questo e contro questo contesto si muoveranno le forze del movimento operaio e soprattutto il Partito comunista, per salvaguardare e portare avanti quel processo messo in movimento dalle lotte della Resistenza.
d. g.
Francesco omodeo zorini, Conoscere la Resistenza novarese. Bibliografìa ragionata, presentazione di Alberto Jacometti, Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara, in « Quaderni di mezzosecolo », Novara, 1978, pp. 72, s.i.p.
L’autore ha raccolto e sistemato i titoli che compongono questa bibliografia della Resistenza novarese secondo un criterio preminente di suddivisione geografica cui fa seguito, all’interno, un raggruppamento tendenzialmente tematico. I primi due capitoli sono dedicati alle opere generali e alla fonti documentarie, archivistiche e a stampa, periodici compresi ad eccezione di quanto pubblicato dal mensile novarese « Resistenza unita », che è invece schedato in appendice sotto 147 titoli.I successivi capitoli raccolgono la bibliografia suddivisa secondo il criterio geografico che si è detto, cioè Ossola, Verbano, Valsesia, Novara ecc. Un apparato di indici e l’elenco dei periodici citati completano la raccolta bibliografica.Questa bibliografia, guidata da giudizi critici rigorosi, permette di misurare l’ampiezza e l’importanza che assunse in provincia di Novara il movimento di liberazione. Tuttavia, ci sembra, i criteri di raggruppamento operano in senso riduttivo in relazione al panorama generale, privilegiando le aree geografiche anche se, al contrario, esaltano e completano la visione del movimento all’interno di determinati confini. Forse l’utilizzazione del criterio tematico come suddivisione fonda- mentale della materia, con al suo interno una partizione per argomenti pur suddivisi per aree, avrebbe permesso una visione più ampia del periodo storico.Ciò non toglie al lavoro la sua piena validità di guida alla ricerca storica e come strumento di conoscenza del grado di svi
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luppo della studi sulla Resistenza a Novara.
a. se.
GIUSEPPINA FOIS, ELISABETTA PILIA, I giornali sardi. 1900-1940. Catalogo, prefazione di Luigi Berlinguer, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1977, pp. 186, lire 4.000.
Questo catalogo ci offre un preciso e accuratissimo regesto delia stampa sarda nel primo quarantennio del nostro secolo, condotto attraverso ricerche in biblioteche pubbliche e private. L’indagine ha permesso di individuare 466 testate — un numero assai rilevante in una regione che all’inizio del novecento contava un numero di analfabeti superiore all’80 per cento della popolazione — con prevalenza di quelle a carattere locale e strettamente legate all’economia e alla dinamica politica provinciale, testimoni tuttavia di una vivacissima attività ed interesse polemico, specialmente negli anni antecedenti il fascismo.La catalogazione condotta dalle autrici con grande precisione filologica permette di rilevare oltre alle caratteristiche esterne del periodico (tipografia, direzione, redazione, periodicità, fonti e qualità delle collezioni), anche, limitatamente ai giornali politici di maggiore tiratura, le caratteristiche interne, le tendenze politiche, la « storia » editoriale, le battaglie giornalistiche di maggiore rilevanza, mediante alcune sintetiche schede descrittive.Per la precisione con cui è stato impostato e redatto, questo catalogo si offre quindi non solo come uno strumento indispensabile per studiare la vita politica ed economica di una regione, ma anche come un utile approccio allo studio della formazione dell’opinione pubblica e dei massmedia.
n. t.
La Stella alpina. 1944-1946, Borgosesia, Pubblicità Valsesia-Divisione tipolitografia, 1973, pp. 307, s.i.p.
A una prima lettura il giornale, con la sua testata ricca di allusioni e di simboli (« Il fiore delle altezze — si legge nel primo articolo di fondo — Il fiore dei semplici e dei prodi. La sua solitaria bian
chezza, il fascino del rischio, l’attrattiva segreta che esercita » ecc. ecc.) e con la figura leggendaria del direttore (Cino Moscatelli), sembra volerci immergere nell’immagine mitica della Resistenza piuttosto che nella sua realtà quotidiana e nelle vicende politiche che più propriamente la caratterizzano. E la raccolta propostaci dall’Istituto storico di Vercelli suggerisce senza dubbio ogni sorta di immagini legate alla « retorica », nel senso migliore, della lotta di liberazione, riproponendoci tutto ciò che si lega ai valori più puri e più semplici degli ideali di libertà sociale per i quali combatterono i garibaldini di Cino.Il reprint non manca, tuttavia, di ricondurci ben presto, per la varietà della cronaca e per il vasto periodo coperto dai numeri pubblicati, anche ai problemi più concreti della Resistenza e, di riflesso, della « letteratura partigiana » (Battaglia) che della lotta clandestina e, aggiungiamo, di quella del postliberazione fu una delle e- spressioni più vive.Il primo numero della «Stella alpina», organo del Comando unificato garibaldino della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, reca la data del 15 ottobre 1944. Il giornale nasce, dunque, come altri giornali clandestini (la «Baita», ad esempio, della 50a brigata Garibaldi, operante nella zona limitrofa del Biellese, inizia le pubblicazioni nel settembre), in un periodo critico della resistenza armata, quello in cui allo sviluppo notevole delle strutture organizzative partigiane fa riscontro il progressivo esaurirsi delle iniziative di lotta e delle offensive alle quali le formazioni erano state chiamate dal centro milanese durante la stagione estiva, in vista di una rapida conclusione della campagna d’Italia.La « Stella alpina » del periodo invernale (ed è gran parte della raccolta dei numeri clandestini, in tutto dieci, dal 15 ottobre 1944 al 20 aprile 1945) è il giornale della difesa e della stasi partigiana: nelle colonne si avvertono soprattutto, fra le righe degli articoli di incitamento alla lotta — per non abbandonarsi al « classico letargo delle marmotte » (n. 4, 30 novembre 1944) —, tutte le difficoltà, le insidie, le perdite provocate dalle condizioni ambientali e rese ancora più dure dai rastrellamenti e dalla mancanza di aiuti. Tenuto conto di tale situazione, se volessimo definire il giornale di Moscatelli, non ci sentiremmo di collocarlo cor
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rettamente fra la stampa « d’informazione » o la stampa « d’orientamento », nel difficile equilibrio tratteggiato dal Battaglia nella sua Storia delle Resistenza italiana, (Torino, 1964, p. 389): la « Stella alpina », per il difficile momento che dovette vivere, fu portata necessariamente a intensificare la parte di pura cronaca militare e patriottica e a sacrificare l’esigenza della « politicizzazione » a vantaggio di un incessante ed efficace stimolo alla lotta.Dopo la liberazione, la « Stella alpina » diverrà quasi subito settimanale e, stampata prima a Novara poi a Milano, sarà il « giornale dei volontari della libertà » per tutti i mesi di maggio, giugno e luglio. Dopo un’interruzione di poco più di un mese, uscirà il 15 settembre del 1945 con una nuova testata « La Squilla alpina ». Settimanale indipendente di informazioni politiche, economiche, culturali e sportive », sempre sotto la direzione di Moscatelli (a questi si affiancherà Ciro Gastone nel gennaio del ’46). Ritornerà la vecchia testata clandestina il 24 febbraio, « con l’animo di allora, immutato [...] », ma continuerà le sue pubblicazioni solo fino all’agosto, quando prenderà una nuova veste, fondendosi con la « Baita ».Bene hanno fatto i curatori della raccolta a voler presentare nella sua completezza la vita intera della « Stella alpina » che offre ai lettori, anche nel periodo postliberazione, molteplici motivi di interesse sia sul piano della cronaca politica sia su quello, più appariscente ma ricco di dati e di notizie, della memorialistica. Concludiamo con una nota tecnica per rilevare la notevole qualità della riproduzione fotografica e, come unica pecca, la mancanza di un elenco dei ¡numeri pubblicati.
Gaetano Grassi
Il Pioniere. Giornale d’azione partigiano e progressista. Reprint della collezione del periodo clandestino (30 giugno 1944-27 a- prile 1945), Torino, Claudiana, 1976, lire 18.000.
Giornale « partigiano e progressista » — come si legge già nel sottotitolo del primo numero del giugno 1944 —, il « Pioniere », creato dal gruppo di giovani antifascisti che diede vita e guidò il movi
mento di resistenza nelle valli valdesi (Val Pedice, Val d’Angrogna, Val Germana- sca), rappresenta senza dubbio « una delle più interessanti testimonianze della vitalità e del significato della guerra parti- giana in Piemonte ». Questo reprint di beila ed elegante fattura che molto opportunamente la Claudiana ci presenta con la raccolta completa dei numeri usciti nel periodo clandestino fornisce l’occasione per confermare il giudizio ora citato, e- spresso da Emilio Castellani in un articolo sulla stampa partigiana apparso nel 1945 sul n. 5-6 dei «Nuovi quaderni GL». Sono da fare anzitutto alcune considerazioni di carattere « tecnico » : sulla straordinaria tiratura del « Pioniere », che dalle ottocento copie dei primi numeri raggiunse le 15 mila copie; sulla sua natura, inconsueta per un giornale clandestino, di settimanale: e sulla distribuzione, che gradatamente uscì dalle valli vai- desi per estendersi, seguendo l’espandersi dei partigiani della 5a divisioine GL nella pianura fino a Torino e nell’Astigiano. Tali aspetti del « fenomeno Pioniere » — per usare la stessa espressione usata da Castellani nel ’45 — sono, del resto, facilmente spiegabili quando s’inquadri la vita del giornale nelle vicende dell’attività organizzativa del Partito d’azione in Piemonte durante il periodo clandestino. Si vede allora che Torre Pellice costituì, fin dall’inizio della lotta di liberazione, un vero e proprio centro tipografico del PdA: la tipografia « L’Alpina » diede alla stampa molti dei numeri dei giornali e degli opuscoli azionisti, da « Voci d’officina » al « Partigiano alpino », dai « Quaderni di Italia libera » ai « Nuovi quaderni GL », e, naturalmente, stretti e continui furono i rapporti fra il gruppo delle valli vai- desi e il centro azionista di Torino che, per la parte stampa di partito e GL, aveva come responsabile Franco Venturi.Il fatto, tuttavia, di seguire « una linea politica [...] ortodossamente azionista » — come rileva Donatella Gay Rochat nella sua opera sulla resistenza nelle valli valdesi (p. 157) — e di costituire da tramite dei principi e delle idee espresse dalla stampa nazionale del Partito d’azione piuttosto che da semplice notiziario dell’attività partigiana locale, non esaurisce il discorso sulle caratteristiche ideologiche del giornale: si veda soprattutto il risalto che viene dato, nella prospettiva della formazione di un nuovo stato democratico, ai temi del federalismo euro
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peo e del decentramento amministrativo, secondo le tradizioni culturali delle popolazioni alpine e della minoranza valdese. « Precisiamo — si legge sul n. 10 del 1° settembre 1944 — che non siamo esattamente un giornale del Partito d’azione. Siamo nella sua linea d’idee, ma anche di fronte ad esso conserviamo la nostra indipendenza di giudizi, e ci pare che questo sia nel suo stesso spirito ». E ancora: « Desideriamo dare a tutto il giornale un tono europeo, sopranazionale che contrasti i limitati nazionalismi, così come intendiamo dargli un tono democratico e sociale » (n. 6, 4 agosto 1944).La « nota informativa » allegata al volume contiene chiare ed esaurienti presentazioni di Franco Venturi, Roberto Malan e Gustavo Malan: di particolareinteresse per le notizie sulla storia del giornale la « nota » di quest’ultimo che fu il vero e proprio « autore » del « Pioniere », ne ideò il titolo, ne curò la redazione, la tiratura e la distribuzione per tutto il periodo clandestino.
Gaetano Grassi
I giornali sindacali. Catalogo dei periodici Cgil 1944-1976, a cura di B. Colarossi, T. Corridori, M. Macchiusi, Roma, Editrice sindacale italiana, 1977, pp. 396, lire 4.500.
La pubblicazione di questo catalogo dei periodici prodotti dalle organizzazioni confederali, territoriali e categoriali della Cgil dalla sua ricostruzione dopo il fascismo al 1976, rappresenta un fatto senza dubbio notevole. L’importanza e la novità di tale iniziativa si presentano e si spiegano in fondo da sole, proprio perché un catalogo del genere è rivolto non solo agli studiosi di storia del movimento sindacale o ai sindacalisti di professione, per i quali è strumento di lavoro, ma soprattutto — grazie anche al prezzo contenuto, relativamente alla mole del volume •— ad un più vasto strato di utenza formato sia da studenti, che in numero sempre maggiore vanno orientando i loro interessi verso temi di storia del movimento operaio in questi ultimi trenta anni, che da militanti sindacali « di base », i quali sentono continuamente il bisogno di documentarsi « storicamente » sull’attività passata del movimento operaio nel suo complesso, del loro sindacato
di categoria, della loro Camera del lavoro.Il catalogo, che organizza e sistema per la prima volta un numero notevole di periodici della Cgil che riguardano tutte le categorie per tutto il territorio nazionale, rappresenta inoltre per gli studi storici un passo in avanti verso una migliore organizzazione della ricerca e un buon segno della nuova attenzione rivolta dalle forze sindacali all’opera di reperimento delle fonti onde evitarne la distruzione o la eccessiva e inutile dispersione.La paziente raccolta delle schede e il controllo delle testate che sta alla base del catalogo è stata intrapresa dalla biblioteca del Centro studi e formazione della Cgil di Ariccia — ove sono raccolti e conservati buona parte dei periodici schedati — ed è indubbiamente uno stimolo importante che un’opera analoga sia compiuta anche dalle organizzazioni categoriali e territoriali, non solo della Cgil ma anche delle altre confederazioni. Il lavoro, coordinato dalle tre collaboratrici della biblioteca di Ariccia, è stato condotto anche in altre bibloteche del territorio nazionale, specializzate e non, delle quali la più ricca di materiali per il catalogo è la Biblioteca nazionale di Firenze.Le 1.453 testate schedate e raccolte sono divise e ordinate in tre parti per sede di produzione: quelle prodotte dalla Cgilcentrale e dalle sue strutture parallele nazionali (Ecap, Inca, Etli); quelle degli organismi centrali delle federazioni nazionali di categoria; quelle delle organizzazioni decentrate regionali e provinciali, sia orizzontali che verticali: federazioni regionali Cgil, federazioni regionali di categoria, Camere del lavoro, federazioni provinciali di categoria. Questa ultima parte è naturalmente la più ricca ed è facilmente consultabile perché le schede sono raccolte per regione.Le schede dei periodici contengono le indicazioni complete per l’identificazione e il reperimento delle testate: oltre al titolo e sottotitolo riportano il luogo di pubblicazione, la tipografia, il direttore responsabile, la periodicità, l’anno di inizio e quello di cessazione, i numeri e le annate ritrovate e l’indicazione della biblioteca dove il periodico è conservato.Questo catalogo permette tra l’altro, data la completezza delle notizie fornite, di intraprendere un lavoro di ricognizione non limitato a zone ristrette sui « cicli » temporali o spaziali della diffusione e/o pro-
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Iterazione di testate sindacali della Cgil. Cicli finora solo individuati o dedotti per grandi e generiche linee, ma essenziali — naturalmente come complemento ad altre direttrici di ricerca e ad altre fonti -—• per comprendere la dinamica del processo di ricostituzione delle strutture sindacali nel dopoguerra e alcuni caratteri della loro articolazione nel corso di questo trentennio.Nel catalogo sono compresi solo gli organi di strutture della Cgil ed anche molti periodici unitari Cgil-Cisl-Uil prodotti dopo il 1972, sia da organizzazioni nazionali che territoriali. Mancano i giornali di fabbrica e quelli di zona, il cui reperimento e la cui sistemazione pongono problemi molto più vasti e impegnativi di quelli affrontati per questo catalogo; un’opera in tal senso è comunque avviata sia ad Ariccia che, ad esempio, a Milano (Archivio CdL) ed in altre sedi e istituti, sindacali e non. Per giungere ad avere dei cataloghi dei giornali di fabbrica e di zona sarà comunque necessario ancora molto tempo, ma l’iniziativa presa dalla Cgil con questa pubblicazione — anche perché presentata ai delegati del IX Congresso della Confederazione nel 1977 — ha di certo stimolato nei quadri e militanti del sindacato una maggiore attenzione alla conservazione, raccolta e catalogazione di quella grande parte della « memoria collettiva » della classe operaia che sono sempre stati i giornali di fabbrica.Concludono il libro tre indici ragionati: uno generale alfabetico di tutte le testate; uno che raccoglie e suddivide i periodici nelle federazioni di categoria che li hanno prodotti; un terzo, infine, alfabetico dei periodici unitari posteriori al 1972. Negli indici sono contenute indicazioni essenziali sul luogo di stampa e sulle annate disponibili accertate dalla ricerca.
Martino Pozzobon
Movimento operaio
pierò sanna, Storia del PCI in Sardegna dal 25 luglio alla Costituente. Le lotte politiche e sociali, il dibattito sull’autonomia e la battaglia per la terra 1943-1946. Cagliari, Edizioni della Torre, 1978, pp. 22, lire 4.500. Il
Il saggio di Piero Sanna sulla storia del PCI in Sardegna abbraccia gli anni 1943-
1946, gli anni cioè in cui si assiste al risveglio dell’attività politica e alla incubazione dei primi germi di nascita di raggruppamenti politici destinati ad acquistare consistenza organizzativa e peso politico determinanti per le sorti dell’isola. Sono anche gli anni di più intensa mobilitazione delle masse operaie e contadine che, per la prima volta, anche rispetto a precedenti momenti della loro storia, in particolare del primo dopoguerra, si impongono come centri di riferimento obbligati di una concreta elaborazione politica e strategica dei partiti. L’analisi che Sanna compie di questi fatti, dei rapporti tra partiti e masse urbane e rurali, della questione contadina e di quella dell’autonomia per quanto concerne il PCI, dei rapporti tra gruppo dirigente sardo e gruppo dirigente nazionale comunista, è puntuale e precisa. Anzi, direi che la sottile tendenza di Sanna a teorizzare, a volte limita l’esposizione e la narrazione dei fatti; e, ancora, può destare preoccupazioni di ordine metodologico la ristrettezza dell’arco temporale prescelto in quanto esso può impedire di cogliere appieno processi, sviluppi non immediatamente visibili malgrado l’attenta lettura che l’A. compie del materiale consultato.Con tutto ciò, il lavoro di Sanna rappresenta una prima organica sistemazione delle vicende socio-politiche di quegli anni e il primo serio tentativo di impostare una rigorosa ricerca sui fatti della Sardegna nell’immediato secondo dopoguerra. L’arco cronologico prescelto può, d’altra parte, rivelarsi di notevole vantaggio ai fini di cogliere l’azione politica, i dibattiti, i rapporti dei gruppi dirigenti con le lotte operaie e contadine nel loro farsi e attuarsi nel vivo dell’azione pratico-politica. Proprio questa prospettiva, permette all’A. di rilevare la divaricazione che si produce tra movimento reale, lotte delle masse e gruppo dirigente del PCI che, in casi determinati, deve aggiornare continuamente la propria linea e ricuperare terreno di fronte alla spontaneità dei moti contadini per il possesso della terra, particolarmente intensi nel Sassarese. Mi pare cioè che tutta la intelaiatura della ricostruzione di Sanna sia costruita sulla falsariga del binomio spontaneità-consapevolezza, azione « rivoluzionaria » delle masse- moderatismo comunista, facendo propri alcuni risultati non effimeri della storiografia di questi ultimi anni, che si è soffermata con particolare attenzione sull’ana-
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lisi del rapporto tra gruppi dirigenti e movimento delle masse. E mentre quella storiografia non sempre si è caratterizzata per riscontri puntuali tra ipotesi di partenza e ricerca concreta di dati, di fatti, proprio l’analisi della realtà sarda condotta da Salina sembra dimostrare oggettivamente la fecondità della sua premessa metodologica. Il dato oggettivo, fondamentale, messo in rilievo dall’A. è la scarsa o nessuna consistenza dell’antifascismo organizzato all’indomani del 25 luglio; la maturazione lenta e poco numerosa di giovani che si orientano verso il PCI, da un lato; e, dall’altro, la ricerca affannosa, nei pochi comunisti usciti da un lungo periodo di carcere o politicamente inattivi durante il fascismo, di una linea politica che spezzasse l’antico isolamento e settarismo di origine bordighiana nei confronti delle altre forze politiche. Di qui, mi pare, la partecipazione del PCI ai Comitati di concentrazione antifascista anche se composti di rappresentanti delle vecchie clientele, la disponibilità verso il governo Badoglio, la scarsa presenza nei moti contadini, l’accettazione del quadro istituzionale ancora intatto dopo la caduta del fascismo: il moderatismo del PCI, insomma, precursore della « svolta » to- gliattiana di Salerno, secondo Sanna. Di qui, in definitiva, la divaricazione tra masse e gruppo dirigente derivante dall’assenza di una precisa analisi della realtà sarda più che da diffidenza verso il mondo contadino o dal proposito di tenersi abbracciati alla classe dirigente sarda. La quale viene articolandosi e precisandosi a partire dal primo Congresso regionale sardo di Iglesias (marzo, 1944) sia sul piano organizzativo — inizio della emarginazione dell’opposizione reale anche se larvata alla politica togliattiana, ricambio del vecchio quadro dirigente, ecc. —, sia sul piano teorico: questione contadina, questionedell’autonomia, considerate nell’ambito più vasto della « questione sarda ».La questione contadina, con la questione dell’autonomia, comporta una serie di implicazioni sia di ordine teorico e politico per il nuovo gruppo dirigente comunista, sia una definitiva chiarificazione con la direzione centrale circa l’assimilazione piena della « politica delle alleanze » inaugurata con la svolta di Salerno.Su questa problematica, complessa e irta di difficoltà data la scarsa omogeneità della struttura agraria sarda, si scontrano tesi diverse sulla individuazione degli strati
sociali — contadini poveri, pastori, servi pastori, piccoli proprietari — destinati a costituire l’asse portante della politica del PCI nelle campagne. D’altra parte, la scoperta del mondo contadino presuppone un ridimensionamento dell’ottica « operaistica » incentrata sulla classe operaia delle miniere; e, per altro, lo scontro col PSd’A, che del mondo contadino conservava ancora l’egemonia, scontro che, mentre permette al PCI di radicarsi nella campagna, impedisce di scorgere l’affiorare prepotente della DC, ben più agile del PSd’A nel- l’incanalarsi nei meccanismi del potere. Ancora più acuta la lotta all’interno del gruppo dirigente sulla concezione dell’autonomia: rivendicazione di un programma di riforme democratiche a favore di ceti medi, di borghesia progressista alleati alla classe operaia e contadina per Laconi; richiesta di nazionalizzazione delle risorse sarde, per altri del gruppo dirigente; rinascita della Sardegna affidata alla classe operaia del nord alleata ai contadini, per Spano.Mi pare che il frutto del prevalere della concezione di Laconi e quindi della omogeneizzazione della linea del PCI in Sardegna e quella nazionale, pur nel rispetto della specificità della « questione sarda », venga colto dal nuovo gruppo dirigente alle elezioni amministrative del marzo-aprile 1946 e alle elezioni per il referendum e per la Costituente, dove si ha una prima netta caratterizzazione dei partiti isolani: la DC passa a condurre il blocco agrario isolano, il Psd’A viene ridimensionato nella sua consistenza numerica, il PCI prevale sul PSI, il che costituisce — a detta dell’A. — una sostanziale rifondazione dell’esperienza comunista sia nelle campagne che nei centri urbani. Affermazione che si ricava dall’analisi puntuale e precisa del voto, esaminato minuziosamente sia nella sua distribuzione geografica, sia come e- spressione della mobilità e spostamento delle forze sociali.È questa una delle parti del lavoro più efficaci e interessanti, dove l’A. dimostra notevoli capacità di penetrare all’interno di una realtà ampiamente sfaccettata. Con l’analisi del voto e della ripresa delle lotte contadine del ’46, avendo, questa volta, come obiettivo preciso i meccanismi di oppressione e di rapina fiscale dello stato, i possessi delle grandi famiglie, i rapporti sociali e di lavoro divenuti ormai insopportabili ma, ancora una volta, senza un legame organico col PCI, si conclude il la
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voro di Sanna, punto di riferimento obbligato per ogni ulteriore ricerca sulla Sardegna di questo secondo dopoguerra.
Giampaolo Pisu
Umberto morelli, I consigli di gestione dalla liberazione ai primi anni cinquanta, Torino, Fondazione Agnelli, 1977, pp. 176, lire 3.000.
Il volumetto assolve egregiamente il limitato compito, dichiarato dall’autore nella Premessa, di « ricostruire la storia del movimento dei consigli di gestione » senza addentrarsi nelle singole vicende aziendali né inseguire i mille fili che legano quella storia al contesto della situazione nazionale e internazionale del dopoguerra. Ne emerge una lineare e semplice relazione sul dibattito tra i protagonisti (persone, partiti, sindacato) più che sui fatti che l’hanno determinato, mettendo in tal modo ancor più in evidenza il carattere prevalentemente ideologico che — soprattutto nei mesi immediatamente successivi alla liberazione — ebbe la caotica discussione sul riconoscimento giuridico della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. L’essersi strettamente attenuto ai documenti ufficiali e alla stampa nazionale ha fatto talvolta perdere di vista all’autore la varietà di posizione — cui pure in generale egli accenna — esistenti in tutti i partiti e lo fa cadere in qualche giudizio un po’ affrettato e ingenuo, come quello sulla proposta azionista del novembre 1945 di costituire consigli di soli lavoratori non per la gestione ma per il controllo, puntando invece a inserire i lavoratori nei consigli d’amministrazione, in quanto « l’azienda, e non dimentichiamolo mai, è oggi ancora capitalistica » (p. 50). « La proposta azionista — annota Morelli — per quanto interessante e acuta nei suoi giudizi e informata a una visione piuttosto realistica, non era certamente destinata a farsi strada stante il debole peso politico del partito e il suo quasi inesistente seguito a livello di fabbrica » (p. 51). Dove è da chiedersi come mai l’acutezza e il realismo non si traducano in peso politico e in adeguato seguito (a meno che si consideri quella che allora si chiamava « la massa operaia » come formata da imbecilli privi di visione politica generale). Così più avanti: « la distanza tra il progetto social
comunista e quello liberale era lunga, ma bisogna chiedersi se la strada della ricerca di un compromesso fosse davvero impraticabile. Il clima politico dei mesi che vanno dal 25 aprile alla fine dell’anno era generalmente favorevole a soddisfare le esigenze del rinnovamento » (p. 57). In questo caso la motivata rinuncia a trattare l’intreccio delle questioni politiche generali si traduce nella dimenticanza del fatto che l’impasse tra i partiti all’interno del CLNAI sulla questione dei CdG è contestuale all’apertura della crisi del governo Parri voluta dai liberali e che non secondaria in quest’ultima manovra era appunto quella questione, per la quale al PLI veniva un’oggettiva facilitazione proprio dalla posizione rinunciataria — perché massimalista — del partito del presidente del consiglio, che così oltre tutto vi isolava dal resto della sinistra indebolendola e indebolendosi.Morelli finisce poi per esaltare la causticità antigestionale di Ernesto Rossi che, sulla base di un pregiudizio antioperaio, si sarebbe in seguito fatto propugnatore, piuttosto che di consigli di gestione, della chiamata di « rappresentanti operai (...) a risolvere i problemi riguardanti l’aumento di produttività in ciascuna branca d’industria, in comitati sul tipo degli Industriai Development Councils istituiti dal governo laburista » (p. 129). A Rossi daranno retta i governi centristi nei primi anni cinquanta lanciando quei Comitati per la produttività, bandiera anche della Cisl delle origini, contro i quali si batté strenuamente la Cgil allora impegnata in una dura e sofferta lotta contro il « super- sfruttamento », i monopoli e i rischi di un ritorno all’economia di guerra: miope certo sugli sbocchi dello sviluppo italiano, ma non cieca riguardo al contenuto nettamente antioperaio di simili proposte. Un’assenza grave nel volumetto di Morelli, pur tenendo conto dei limiti consapevolmente assunti, è quella di riferimenti più ampi allo stretto nesso esistenti tra il dibattito sui consigli di gestione e quello sulla pianificazione, che fu uno dei temi di divergenza tra socialisti e comunisti e che incideva non poco sulle formulazioni dei poteri dei CdG. Tuttavia, per quanto nettamente superato — per il livello dell’elaborazione e dell’analisi critica — dal contemporaneo lavoro di Piero Craveri (Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Bologna, 1977, capitolo II), quello di Morelli si segnala per la completezza del pano
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rama delle posizioni, la precisione delle citazioni e l’accurata appendice bibliografica, preziosa base d’appoggio per ogni lavoro di ulteriore approfondimento sul tema.
Gianfranco Petrillo
Fascismo
romain rainero, La rivendicazione fascista sulla Tunisia, Milano, Marzorati, 1978, pp. 580, lire 10.000.
Per ricostruire l’evoluzione della politica fascista verso la Tunisia, le rivendicazioni annessionistiche del regime e la strumentalizzazione della grossa colonia dell’emigrazione italiana, Romain Rainero ha condotto ricerche molto ampie in primo luogo negli archivi romani dei ministeri degli Esteri e degli Interni, ma anche in quelli delle Colonie e della Cultura Popolare, negli archivi tunisini ufficiali e in quelli della colonia italiana e infine nell’archivio del PCI. Ha visto inoltre la stampa italiana di Tunisia, gli studi esistenti sull’argomento (pochi e mediocri) e la copiosa produzione propagandistica fascista. Come risultato, Rainero ha potuto affrontare lo studio della politica tunisina del regime fascista con tutta la documentazione e sistematicità necessarie, fornendo anche contributi parziali, ma non meno interessanti sulle vicende tunisine (il nazionalismo arabo, l’antifascismo italiano, le organizzazioni ufficiali e quelle di classe dell’emigrazione italiana) e sul quadro più ampio della politica estera del regime. Per questo quadro generale Rainero rifiuta sia gli schematismi marxisti (ma non i contributi equilibrati di Carocci e Ragionieri), sia la tendenza di Salvemini e quella di segno opposto di Renzo De Felice ad accentuare oltre misura il ruolo personale di Mussolini, sia i tentativi di riva- lutazione del fascismo della scuola moderata defeliciana. Rainero sottolinea che « le chiavi di interpretazione paiono essere molte e quindi molti i fatti da collegare e da porre in relazione » (p. 18), ma conclude che la politica tunisina del fascismo sembra fatta apposta per evidenziare i limiti di fondo della politica estera musso- liniana e la sua strumentalizzazione brutale delle aspirazioni nazionali delle minoranze italiane in terra straniera. Aderisce quindi esplicitamente all’interpretazio
ne di Di Nolfo (tenendo presente anche quella più recente di Petersen) scrivendo che le scelte fasciste sul problema tunisino confermano che la politica estera del regime fu soprattutto « la mera proiezione esterna di una serie di esigenze e di scelte le cui basi rimanevano ben ancorate a considerazioni di ordine interno », tanto da avere sempre la caratterizzazione « della episodicità, dell’improvvisazione e del- l’incongruenza » (pp. 11-12).Come è noto, la colonia italiana in Tunisia costituiva sin dall’Ottocento la maggior componente dell’emigrazione europea nel protettorato francese con i suoi circa centomila membri, che Rainero divide o- rientativamente in una piccola élite benestante (in genere ebrei di origine livornese, ricchi commercianti e professionisti), alcune migliaia di piccoli borghesi molto attivi, nerbo delle agitazioni nazionaliste, la grande massa di operai e artigiani, pesantemente sfruttati dalla borghesia italiana e francese ma incapaci di assumere un ruolo proprio, e una piccola ma combattiva emigrazione politica, l’unica capace di stabilire collegamenti con le minoranze progressiste arabe e francesi. La protezione di questa colonia era stata una preoccupazione costante dei governi liberali che, malgrado la tensione con la Francia del periodo crispino, riuscirono ad assicurarle una posizione privilegiata che contemperava il pieno godimento dei diritti civili con la conservazione della cittadinanza italiana e di una rete di organizzazioni nazionali politico-culturali. Questi successi erano resi possibili dalla cautela con cui la Francia trasformò il suo protettorato sulla Tunisia in pieno dominio e dalla stessa forza numerica ed economica della colonia italiana. È degno di nota che la rivendicazione della Tunisia non compare nei programmi nazionalistici del primo novecento, degli interventisti, dei negoziatori del Patto di Londra e delle destre nel dopoguerra, evidentemente in considerazione dei rapporti di forza e degli equilibri internazionali.La prima scelta di fondo del governo fascista, l’unica condotta sempre con continuità, fu lo sviluppo dell’organizzazione della colonia italiana attraverso l’opera spregiudicata delle autorità consolari, dei dirigenti della comunità e di emissari inviati da Roma con mezzi relativamente grandi. Una notevole somma di energie fu dedicata a combattere l’attività dei piccoli gruppi antifascisti, su cui Rainero, come abbiamo detto, fornisce molte notizie di
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grande valore. Come risultato di quest’opera e della sua tradizione e formazione nazionalista, la grande maggioranza della co- 'jinia italiana si schierò fermamente con il regime fascista lungo tutto l’arco del ventennio, anche durante la guerra, pagando poi duramente questa sua fedeltà nazionalista.L’altra e più importante scelta di fondo della politica fascista, seguita con costanza nell’alternanza di atteggiamenti opposti, fu infatti la brutale strumentalizzazione della colonia italiana in Tunisia. Né gli ambienti fascisti né quelli diplomatici (esemplare la denuncia delle responsabilità di Guariglia) seppero infatti attribuire alla Tunisia e alla sua colonia italiana un ruolo preciso nella loro politica, ma da una parte assicurarono ripetutamente alla colonia italiana tutto l’appoggio della madrepatria per la difesa delle posizioni raggiunte (si vedano, tra le tante espressioni di solidarietà piena, le dichiarazioni di Mussolini nell’aprile 1926 a Tripoli, pp. 145-47), dall’altra manifestarono la massima disponibilità a venire incontro alle esigenze francesi, tutte le volte in cui il governo fascista cercava di avvicinarsi al potente vicino (« noi bramiamo così poco la Tunisia, siamo così poco disposti a recarvi degli imbarazzi, che se la Francia desiderasse trasformare il protettorato in annessione pura e semplice, l’Italia per prima sottoscriverebbe al nuovo ordine di cose », diceva Mussolini nell’ottobre 1926, p. 150), ma contemporaneamente lasciarono via libera alla propaganda annesionista più accesa, anche per bocca di esponenti del regime autorevoli come Balbo (aprile 1926, pp. 147-48).La colonia italiana di Tunisia, in sostanza, era vista di volta in volta come un pegno delle aspirazioni italiane alla conquista del paese e come una pedina di scambio nel quadro dei rapporti con la Francia (p. 207). La rinuncia alle posizioni di privilegio degli italiani in Tunisia fu infatti il prezzo pagato da Mussolini per il consenso francese all’aggressione italiana all’Etiopia (accordi con Lavai del gennaio 1935, pp. 232 sgg.): un risultato, nota Rainero, raggiunto in modo assai limitato (pp. 235-38). Per la colonia italiana la delusione fu profonda, anche se la fine dei diritti particolari era rinviata nel tempo, tanto che gli accordi del 1935 di fatto non trovarono applicazione per il precipitare della situazione. La maggioranza degli italiani di Tunisia reagì stringendosi fideisticamente attorno alle organizzazioni fasciste, ma per la prima volta la combat
tiva minoranza antifascista riuscì a prendere forza, sviluppando i suoi collegamenti con l’emigrazione antifascista in Francia, con il Partito comunista francese e con le organizzazioni arabe in Tunisia (pp. 248-94: si tratta di pagine tra le più dense e nuove, anche se Rainero dichiara di non poter affrontare la storia dell’antifascismo in Tunisia in tutta la sua complessità, p. 261).Il rapido peggioramento dei rapporti con la Francia dopo il 1936 indusse il governo fascista a rovesciare la sua politica tunisina, fino al famoso discorso di Ciano del 30 novembre 1938 alla Camera sulle « naturali aspirazioni del popolo italiano », che una preorganizzata dimostrazione dei deputati accolse al grido di «Tunisi, Gibuti, Corsica » (pp. 303-05); lo stesso giorno Mussolini precisava al Gran Consiglio del fascismo che Tunisi e la Corsica erano tra gli obiettivi dell’espansione fascista (p. 306). Nel 1938-39 la lotta politica in Tunisia raggiunse il massimo sviluppo sia da parte fascista (il governo organizzò il rimpatrio di un migliaio di connazionali come dimostrazione dell’italianità della nostra emigrazione, pp. 331-32), sia da parte antifascista (i comunisti giunsero a fondare un quotidiano diretto da G. Amendola, V. Spano, M. Venanzi e R. Gallico), mentre si inaspriva lo scontro tra autorità francesi e movimento nazionalista di Bourghiba, che il fascismo italiano pensava con molta ingenuità e ignoranza di poter volgere a proprio vantaggio (pp. 297-302).Lo scoppio della guerra mondiale fece precipitare la situazione: mentre il governo fascista non riusciva a elaborare una politica precisa verso il Nordafrica francese, facendosi anticipare dai tedeschi, né una politica « musulmana » di qualche serietà e incisività (indicative le illusioni del 1943 sulla possibilità di strumentalizzare Bourghiba e il nazionalismo arabo, pp. 361-67), la comunità italiana in Tunisia pagava duramente l’allineamento alle rivendicazioni fasciste con una serie di duri provvedimenti (internamento in campo di concentramento, arruolamenti forzati in unità di lavoro, espulsione di quadri e sequestri di beni collettivi e privati), che dopo la cacciata degli italo-tedeschi nel 1943 si inasprirono ulteriormente, in un clima di squallida rivincita gestito dagli antifascisti francesi dell’ultima ora. A nulla valsero i tentativi dei governi italiani: nel 1946 De Gasperi dovette accettare la cancellazione dei privilegi che avevano consentito alla colonia italiana di Tunisia di mantenere la sua
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compattezza nazionale. Come conclude Rai- nero, « la comunità italiana di Tunisia, utilizzata senza scrupoli dal fascismo per i suoi fini spettacolari, interni e propagandistici, pagava così amaramente la sua ingenuità e in pochi anni, col mutare radicale del contesto politico ed economico nel quale trovava un’indubbia prosperità, vedeva diminuita la propria importanza economica e la propria consistenza numerica » (p. 378), fino a ridursi dalle 85.000 anime del 1946 alle 10.000 del 1969.Pregio non ultimo di questo volume di Rai- nero, che abbiamo sinteticamente riassunto, è l’ampia appendice di documenti quasi sempre inediti (pp. 379-571), prevalentemente tratti dall’archivio del ministero degli Esteri, che forniscono una serie di punti di riferimento e controllo e arricchiscono e articolano il discorso.
Giorgio Rochat
Primato 1940-1943, antologia a cura di Luisa Mangoni, Bari, De Donato, 1977, pp. 551, lire 6.500.
Dopo un denso intervento sulla interpretazione del fascismo dei Quaderni gramsciani, Luisa Mangoni riprende la ricerca sul rapporto intellettuali-regime reazionario di massa attraverso lo « spettro » delle riviste, avviata con il notevole saggio sul- V Interventismo della cultura pubblicato nel 1974, curando per l’editore De Donato una antologia della rivista «Primato». Proseguimento di un itinerario critico e, ad un tempo, ulteriore approssimazione al nucleo problematico che aveva offerto la denominazione medesima del primo studio. L’interventismo della cultura è, infatti, l’asse programmatico e il comune denominatore di quella ricca e contraddittoria esperienza collettiva sviluppatasi attorno alla rivista tra il 1940 e il 1943.L’antologia del quindicinale fondato e diretto da Giuseppe Bottai, si articola in tre scansioni cronologiche e tematiche. Al saggio preliminare è assegnata una funzione di inquadramento complessivo del progetto culturale e del ventaglio di collaborazioni — da Galvano Della Volpe a Renato Guttuso, da Carlo Morandi e Giaime Pintor, da Giansiro Ferrata a Carlo Mu- scetta — individuati dalla rivista.La partizione in tre nuclei, i cui temi centrali vengono ripresi in altrettante note introduttive, corrisponde già ad una ipotesi
interpretativa, tesa a cogliere la dialettica tra riflessione culturale ed evoluzione del quadro politico negli anni della guerra. Nell’arco 1 marzo 1940 - 15 giugno 1941, la Mangoni individua la fase di più incisiva realizzazione della « funzione di chiarimento » ed « inventario » assegnata da Bottai a «Primato». Nata per operare il superamento del distacco tra cultura e politica, tra intellettuali e regime, « nel nome e nell’interesse della Patria», maturato sul finire degli anni trenta di fronte al ridimensionamento del ruolo medesimo del fascismo sul piano nazionale e internazionale, la rivista deve ad un tempo affermare il « primato spirituale degli italiani » nel « Nuovo Ordine » emergente.Da qui la spregiudicata e spesso eclettica apertura a quanto di nuovo si muove nel panorama culturale non solo nazionale, il frequente richiamo ad una connotazione « occidentale » i cui valori paiono emarginati, se non compromessi, dall’egemonia germanica. Mentre costante risulta la sottovalutazione della guerra come trauma storico, come cesura per la stessa coscienza intellettuale: «Guerra non vera», siesclama rimuovendo l’ombra di un approccio che ricalchi la dolorosa esperienza u- mana e culturale di Renato Serra. L’attacco all’URSS e più ancora le tragiche vicende dell’essere individuale e collettivo «dentro la guerra», aprono, a partire dal luglio 1941, una seconda fase della rivista. L’accentuazione posta nell’appello all’impegno dei « chierici » — ad essi non « spetta un’accettazione passiva del fatto compiuto » ■— si coniuga con la sensazione via via più intensa di un fascismo in pericolo. La « guerra di ideologie » e « di continenti » incrina l’immagine del regime ed avvia l’esito centrifugo della « convergenza concreta » realizzatasi un anno prima. Tale parabola trova nella riflessione di Carlo Morandi una voce di notevole interesse, che è merito della Mangoni aver sottolineato puntualmente. Nondimeno, l’attenzione a più voci per la letteratura americana e ancor meglio le note sulla cultura tedesca di Giaime Pintor, rappresentano altrettanti punti di osservazione privilegiata per cogliere la presa di coscienza antifascista di una generazione di giovani intellettuali italiani.L’ottica prescelta dall’autrice consente, infine, l’individuazione del versante sul quale Bottai opera il delicato tentativo di separare limiti contingenti e valore storico del fascismo. È l’ultimo periodo della ri
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vista, coincidente con una fase della guerra che « mette in dubbio gli stessi concetti di equilibrio e di nazionalità » e contemporaneamente accelera la revisione profonda della collocazione intellettuale, lino a spingere al rifiuto di una tradizione culturale « il cui maggior torto storico — commenterà Pintor — sarà di aver vissuto >n pacifica contemporaneità col fascismo ». Non solo « contemporaneità » pare doversi dire. La vischiosità e l’ambivalenza dell’aggregazione politico-culturale attorno al « Primato » di Bottai, smentisce l’immagi- ne troppo lineare di una rivista nata come « strumento di penetrazione nelle file dell’opposizione per lusingarla e ricondurla addomesticata all’ovile fascista » e divenuta poi « strumento per rinnovare e rafforzare Ja resistenza al fascismo». Tortuoso, molecolare e non univoco appare, anche neU’uitima fase, l’emergere di nuove consapevolezze. Ove non si ponga l’accento sulla sola figura di Pintor, ma si osservi la molteplicità dei protagonisti, risulterà altrimenti incisivo l’intento complessivo di Bottai: il coinvolgimento passivo, se non attivo dei « chierici », facendo leva sull’intervento diretto nella dialettica delle idee — ed in specie sul versante della critica anti-crociana — come sulla organizzazione corporativa del ceto intellettuale entro una trama istituzionale moderna. Scuola, università, editoria, centri artistici, sono i soggetti di altrettante inchieste la cui eco culturale e politica si prolunga ben oltre la vita della rivista. Nell’indicazione di una serie assai ampia di percorsi critici praticabili a margine della propria interpretazione globale, sta la ricchezza dell’approccio a « Primato » proposto dalla Mangoni. Nè questo carattere stimolante è il solo merito che distingue questa selezione dalla precedente curata da V. Vettori nel 1968. Essa certo pone definitivamente da parte l’ottica nostalgica di quanti, nella convergenza di personalità e orientamenti dissimili in un progetto di indubbio respiro, hanno visto « il chiaro valore di un < mito > creativo contrapposto alla sterilità partigiana del neo-fascismo e del neo-antifascismo attuale » (Vettori).A s s a i p i ù s ig n i f i c a t i v o c i p a r e i l t e n t a t i v o , p e r s e g u i t o c o n s u c c e s s o , d i o f f r i r e u n a p r i m a r i s p o s t a a d a l c u n e in d i c a z i o n i p r o v e n i e n t i d a l l a s t o r i o g r a f i a c u l t u r a l e p i ù r e c e n t e m a a n c h e d a l l e p a g i n e d i E u g e n i o G a r i n n e La cultura italiana tra ’800 e ’900. S i p e n s i d a u n l a t o a l l a s u g g e s t i v a r a s s e
gna proposta dalla Mangoni, di quel denominatore comune alle diverse fasi della rivista che è rappresentato dall’attenzione per la letteratura americana, su cui oggi si sofferma la critica non solo letteraria. D’altro canto, per accennare anche ad uno dei nodi più densi della riflessione, va notata la necessità, frequentemente rimarcata dalla curatrice, di una lettura di « Primato » correlata alla « critica » crociana. L’urgenza, infine, di una più attenta valutazione del persistere e/o riemergere di una tradizione idealistica — la cultura « disinteressata » — a cui faceva riferimento, nel 1958, lo stesso Garin, proprio riflettendo sulla rivista di Bottai.Da quest’insieme di considerazioni scaturisce l’apprezzamento per una antologia che, pur nei limiti di una selezione non priva di consapevoli forzature, oltre a proporre una ricca testimonianza della continuità- discontinuità della tradizione culturale italiana, illumina un passaggio decisivo di quella storia degli intellettuali durante il fascismo a cui la studiosa napoletana è da tempo impegnata.
Pier Paolo d’Attorre
Giuseppe mayda, Ebrei sotto Salò. La persecuzione atisemita 1943-1945, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 274, lire 6.000.
Il volume descrive con grande accuratezza le vicende delle comunità israelitiche italiane durante gli ultimi anni di guerra e la loro distruzione ad opera dei nazisti e dei repubblichini. L’indagine è stata condotta da Mayda ricostruendo con scrupolo, in lunghi anni di indagini sull’ebraismo italiano, le caratteristiche sociologiche, economiche e culturali delle varie comunità, basandosi, fra l’altro sulla ricca serie di documenti e di pubblicazioni provenienti dal Centro di documentazione ebraica, dall’Archivio centrale dello stato, dalla memorialistica e dalle fonti orali. Ne emerge un quadro estremamente particolareggiato non solo delle comunità, (esemplare la ricostruzione della storia del nucleo ebraico di Saluzzo) ma anche delle singole famiglie ed una cronaca minuta delle misure poliziesche che portarono prima all’isolamento, poi all’internamento ed infine alla deportazione nei lager tedeschi di 8451 ebrei italiani, da cui meno di un migliaio tornarono.L’autore esamina nella prima parte la po
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litica razziale di Mussolini: la stanca accettazione delle dottrine antisemitiche na- ziste e il sostanziale cinismo con cui permise la « soluzione finale » negli anni di Salò, mostrano un atteggiamento contraddittorio rispetto alla indifferenza, più che tolleranza, ed alla opportunistica politica filosemita degli anni venti e trenta. L’antisemitismo italiano, a cui non seppe dare rigore logico Giovanni Preziosi, con i suoi scritti deliranti, i suoi progetti legislativi e la sua organizzazione burocratica, ci appare perciò come un risvolto fra i più tragici del fascismo repubblichino; non per nulla ad esso aderirono Farinacci, e sia pure con diversi tatticismi anche Buffarmi Guidi, la burocrazia, e la milizia i quali, come documenta ampiamente il volume, si prestarono e favorirono le persecuzioni e le razzie.L’indagine ha permesso all’autore di raccogliere dati estremamente particolareggiati sulle comunità italiane e sugli ebrei stranieri — molti fuggiaschi dall’Europa orientale — residenti in Italia nel 1943 (circa 44.500, di cui 32.000 italiani), le modalità del loro arresto, l’internamento a Fos- soli, a Bolzano o nelle varie carceri locali, la deportazione in Germania: affiora un quadro disperato di vecchi e di bambini, ignari o rassegnati alla loro sorte, poveri e modesti. E contemporaneamente viene delineata da una parte la rete di omertà, di taciti consensi e di aperte delazioni che permisero le razzie e dall’altra la preziosa solidarietà del popolo, della chiesa e della stessa polizia, che favorirono la salvezza di tanti ebrei, anche nei luoghi dove più accanita fu la persecuzione come a Roma, a Trieste, a Venezia.Eppure nella meticolosa ricostruzione delle vicende della persecuzione antiebraica, manca una visione d’insieme sia delle linee generali della politica razziale italiana e tedesca, che appare legata alla personalità di Preziosi o dei vari comandanti tedeschi, e contraddittoria nelle sue stesse direttive, sia del peso reale che questo dramma ebbe nella vita del paese. Al di là della tragedia dei singoli e delle comunità, al di là della brutalità e della rapina, ancora una volta e con minuzia documentate, restano allo storico interrogativi non risolti e nessi da chiarire. Forse quello che rimane un pregio del libro, cioè l’aver limitato l’indagine ad un accurato mosaico di situazioni locali, non permette, al tempo stesso di cogliere quale fu in definitiva il prezzo pagato dalla comunità ebraica in termini
economici: proprietà immobiliari, società,industrie confiscate, di cui non dovrebbe essere diffìcile ricostruire la sorte (se ci si limita ai dati offerti dall’A. sui sequestri bancari il conto diventa tragicamente ridicolo!). Altrettanta curiosità ci resta per i dati sociologici: la maggioranza dei deportati erano vecchi, bambini, appartenenti alle classi più povere, ma quanti erano gli industriali, i banchieri, gli intellettuali e in quale misura e come essi si salvarono?
Nanda Torcellan
Resistenza
emilio sarzi amadé, Polenta e sassi, Torino, Einaudi, 1977, pp. 168, lire 2.500.
Ecco un bel libro che ha avuto una storia singolare e che solo per un fortuito ritrovamento ha potuto vedere la luce a tren- t’anni di distanza dagli avvenimenti.Scritto infatti subito dopo la liberazione per raccontare la storia della Brigata Leo Di Biasi della divisione Garibaldi « Belluno » in realtà questo lungo racconto-testimonianza ripercorre le vicende di quei giovani che a vent’anni si ritrovarono a combattere al fianco di altri giovani sconosciuti su montagne che imparavano a conoscere giorno per giorno, attraverso i sentieri impervi, le grotte, le casere, la silenziosa, ospitale, amica gente della montagna. Un racconto quindi che nasce della memoria, ma privo dell’esaltazione acritica di molta autobiografia, piuttosto un racconto della modesta fatica quotidiana, della disciplina accettata con riottosa solidarietà, dello scanzonato adattamento alle dure condizioni di vita, al rischio, al mutamento delle stagioni e dei luoghi.All’epica della battaglia, alle imprese disperate ed eroiche si preferisce il rituale delle piccole imprese senza gloria, ma legate forse più delle altre alla sopravvivenza: « Questo servizio di marciare ore e ore attraverso la montagna con degli zaini sulle spalle si chiama corvée ed è uno spiacevole servizio perché andare in paese non vuol dire vedere il paese, e le case che formano il paese, e la gente che c’è dentro le case. Ma c’è sempre qualcuno che ci tiene a fare la corvée. Io per esempio perché devo imparare a conoscere la montagna e devo farmi i muscoli delle gambe » (p. 15).
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Gli episodi militari ■— dicevamo — sono pochi: l’individuazione e il processo delle spie, i rastrellamenti tedeschi, i lanci alleati, l’attacco finale e descritti con la nuda semplicità della cronaca. Si afferma invece al di là di una prosa tutta cose l’attenzione al momento politico, alla lenta progressiva conquista di motivazioni e di ideologie, alla discussione e al confronto in cui tutta una generazione giunta impreparata alla crisi del ’43 seppe operare scelte coraggiose e formarsi nella difficoltà della lotta le armi per costruire un avvenire diverso. « Una sera l’ora politica l’abbiamo fatta in tre, io William e Turiddu. Io dovevo spiegare al battaglione cosa vuol dire comuniSmo e avevo cominciato bene, con slancio e con foga [...]. Ma poi, forse per via di quelle cento e venti paia di occhi — duecento- quaranta occhi — che mi guardavano o forse per via del solo paio d’occhi di Venezia che erano un po’ seccati, un po’ diffidenti e un po’ maliziosi, mi aggrovigliai in una frase infernale. Mi sembrava di essere uno di quei muli condannati a girare la macina di un mulino che per l’eternità girano attorno a se stessi senza rimedio. Allora William d’un balzo mi fu al fianco e attaccò lui là dove io mi ero fermato: — Tosi il comuniSmo vuol dire più scuole per i vostri figli e più fabbriche per quando saranno operai —. E poi finì Turiddu, al quale l’idea di tutti quei figli di quei centoventi partigiani di diciotto anni era andata di traverso. E disse che intanto i comunisti dovevano combattere per liberare l’Italia, e poi si sarebbe visto » (pp. 47-48). Il libro di Sarzi Amadé ci restituisce quindi, con la sua attenzione ai problemi della lotta per la costruzione dello stato nuovo e per una diversa partecipazione alla vita politica, il senso più vivo della Resistenza: una lotta combattuta innanzi tutto per la liberazione nazionale, senza miti di palingenetiche rivoluzioni, ma fianco a fianco, dal comunista Franco, dal cattolico Venezia, da Tom, dalle staffette e dai « veci » delle montagne friuliane.
Nanda Torcellan
Cornelio ciarmatori-bibi, Morire a maggio. Racconti partigiani, Urbino, Argalia editore, 1976, pp. 229, lire 3.000.
Quel racconti partigiani posto nel titolo del libro rischia di essere un elemento di equivoco che potrebbe far pensare al ge
nere narrativo. Invece qui Ciarmatori non fa che ricostruire una serie di episodi autenticamente storici della Resistenza marchigiana. Quindi nulla di inventato, nulla del genere fantasioso. L’A. si è affidato ai ricordi (lasciandoci di sé, scomparso prematuramente, sia questi racconti che un libro di ricostruzione storica, Arcevia e la sua valle nella Resistenza) e alle testimonianze raccontando efficacemente fatti, episodi, sacrifici, esaltazioni di uomini della sua terra che presero le armi contro il nemico, decisi a far trionfare valori diversi e antitetici rispetto a quelli imposti dalla dittatura e dall’occupazione militare.
a. se.
Annibale SOLAVI, Fuochi nell'Oltrepò. Diario di un partigiano della 87 Brigata Garibaldi Crespi, Milano, Vangelista, 1978, pp. 219, lire 5.000.
In un incrocio di episodi militari, di osservazioni sulla realtà sociale dell’Oltrepò pavese, di curiosità politiche, si contribuisce qui, fondamentalmente, a dare una immagine, vista con gli occhi di un protagonista, della zona libera dominata in gran parte dalla divisione Aliotta. Sciavi, che fu definito il comandante del miglior distaccamento della zona libera dell’Oltrepò, descrive le vicende sotto forma di diario, diario che tenne effettivamente dall’8 settembre 1943 allTl maggio 1945. Entro queste due date si snoda tutta l’esperienza vissuta durante la guerra partigiana e l’attività politica all’interno delle formazioni. Le notazioni, gli appunti presi durante lo scorrere delle vicende sono il nucleo principale di questo libro. Tuttavia l’autore ha rielaborato quegli appunti, li ha arricchiti di particolari, ha esteso lo sguardo. Questo, se ha il pregio di rendere complesso l’episodio o l’avvenimento, ha però fatto perdere per strada la freschezza dei rapidi appunti, delle notazioni immediate che sarebbe stato forse importante poter leggere nella forma originale (contrassegnata e contraddistinta tipograficamente dagli arricchimenti o dalla ricostruzione successiva) non tanto per un fatto formale di rigore filologico, quanto per comprendere oggi come venissero colti e avvertiti dai combattenti partigiani avvenimenti di cui erano anche interessati protagonisti. L’osservazione è naturalmente di metodo e non mette in discussione l’interesse della testimonianza di
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retta su vicende avvenute in un’area importante dello schieramento partigiano.
a. se.
Secondo dopoguerra
pierò barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Bologna, Il Mulino, 1978 pp. 496, lire 5.000.
Piero Barucci ha raccolto in questo volume i risultati di studi e ricerche in parte già noti (pensiamo alla Introduzione agli scritti di Saraceno, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Bari, Laterza, 1969 a quella a // Mezzogiorno alla Costituente, Milano, Giuf- fré, 1975, pp. 425, lire 7.500 e alla più recente a Ezio Vanoni, La politica economica degli anni degasperiani, Scritti e discorsi politici ed economici, Firenze, Le Monnier, pp. 399, lire 10.000, 1977). Forse anche perché risente della stratificazione di questi risultati, del sommarsi di varie scritture — alcuni passaggi sono riprodotti letteralmente dalle opere precedenti — il lavoro si presenta di non facile lettura e nella sostanza tale da sembrare più destinato a porre degli interrogativi che a risolvere delle questioni. Indubbiamente questo è un merito, in una congiuntura storico-politica in cui tutti si affrettano a sbarrare porte e finestre e a liquidare i dubbi; ma anche gli interrogativi vanno sottoposti a verifica.Il nocciolo della ricerca di Barucci è il tentativo di cogliere il rapporto tra le analisi e le riflessioni degli economisti e le scelte dei politici, « di vedere come la scienza economica nel suo progredire analitico diviene cultura economica, intesa questa ultima come consapevolezza critica dei risultati ottenuti dalla prima e che investe o anche solo lambisce il sistema di conoscenze di chi sceglie » (p. 10, il corsivo è nel testo). È questo un modello di ricerca che, per gli anni del secondo dopoguerra, è stato raramente seguito; mentre offre certamente molte possibilità di approfondire ed ampliare l’inflazionata e superficiale storia politica, che con piglio polemico e paradossale, tutt’altro che ingiustificato, Barucci chiama « la grande assente » dal dibattito storiografico attuale.Barucci individua tre momenti diversi di questo rapporto: il periodo delia ricostruzione materiale, dominato dalle scelte ob
bligate di una congiuntura d’eccezione; quello dell’egemonia liberista in senso stretto, tra 1947 e 1949; quello infine che si chiude con il 1955, coincidente col pieno dispiegarsi del dibattito sulla pianificazione attorno allo schema Vanoni. Su ciascuno di questi periodi Barucci suggerisce notazioni di non piccolo rilievo tanto in merito al ruolo che gli economisti si trovarono a svolgere quanto all’uso che della cultura economica fu fatto dalle forze politiche. La sottolineatura energica dello « stato di necessità » nel quale si trovò ad agire tra il 1944 e il 1947 la dirigenza economica è la prima acquisizione di rilievo che conviene segnalare; anche se ci sembra che (forse per l’influenza eccessiva di documenti quali l’Intervista di Saraceno, appartenente più all’apologetica che alla memorialistica) nel pur fondato richiamo alle capacità « persuasive » della congiuntura giochi un elemento giustificatorio che ha ben poche ragioni d’essere. Il problema, semmai, sarebbe quello di aprire una breccia nel mito dell’atmosfera liberista per mettere in evidenza quali furono le forze che seppero porre a frutto proprio le necessità congiunturali per spiazzare i propositi dei partiti politici, le cui elaborazioni del periodo clandestino -— l’analisi di Barucci ci sembra confermarlo con molta chiarezza; si veda ad es. il giudizio sulla DC, a p. 95 •— mostrano un orientamento certamente sfocato e fuori tempo, ma comunque per molti aspetti qualificanti lontano dal « liberismo » della ricostruzione. Se la meccanica di questo ribaltamento attraverso le necessità congiunturali è chiara, per quanto pochi prima di Barucci vi abbiano prestato attenzione, le conseguenze restano ancora sfocate. La scarsa chiarezza con cui — Io nota ancora Barucci — sono state finora esplorate le parti sociali in gioco contribuisce certamente a rendere diffìcile un giudizio interpretativo più netto e circostanziato; ma indubbiamente l’analisi di questa prima fase della ricostruzione deve essere esaminata più a fondo, se non altro perché suscettibile di funzionare da cartina di tornasole rispetto alla coscienza che i partiti e le forze politiche nutrivano nei confronti del paese e delle sue condizioni reali. Anche su questo tema in realtà non mancano nel lavoro notazioni preziose: dall’osservatorio dell’Assemblea Costituente Barucci sottolinea la debolezza e l’arretratezza delle analisi degli uomini politici rispetto al Mezzogiorno; una analisi, scrive, « che guardava troppo al passato, ad un mondo che si riteneva do
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vesse essere permanentemente agricolo, fatto di braccianti, di emigranti, di analfabeti » (pp. 308-9). È un giudizio per qualche aspetto schematico: tanto più che a nostro avviso Barucci trascura la varia e diversa articolazione delle parti politiche, a tutto vantaggio di un complesso solidale di forze la cui compattezza appare eccessivamente forzata nei capitoli finali, fino a cadere nel luogo comune — oggidì in voga — dell’affratellamento De Gasperi-Togliatti solidali nel volere la Costituzione repubblicana. Non mancano in altri momenti del lavoro indicazioni precise sui profondi travagli e le contraddizioni che percorrono il corpo politico: ma gli uni e le altre sembrano in realtà nascere dall’esterno, da un complesso di situazioni in cui prevale il gioco delle parti, la necessità di riferirsi in modo determinante ai grandi fattori della politica internazionale o alle esigenze tattiche degli scontri elettorali. Ma il giudizio di Barucci resta comunque un giudizio finalmente coraggioso, traccia utile per ripercorrere le vicende di un rapporto tra i partiti ed il paese, tra le istituzioni e la società civile, al quale non fa tuttavia riscontro un adeguato approfondimento dei fattori che spingevano appunto i partiti sulla strada di un’analisi arretrata e fuori tempo. Giustamente Barucci ricorda come nel novero degli economisti italiani dell’epoca non mancassero persone e ambienti anche acutamente consapevoli della realtà delle trasformazioni introdotte dal fascismo, delle necessità e delle implicazioni di un processo di industrializzazione come elemento risolutore degli storici squilibri e scompensi del paese; e opportunamente ricorda come essi si presentassero tuttavia dispersi e ignorati, rispetto alla ben più compatta e prestigiosa scuola liberista. Il rimando, che chiude il volume, ad una più approfondita analisi del fascismo come alla chiave per comprendere questa situazione non appare tuttavia sufficiente a risolvere la questione: resta, a nostro parere, un’indicazione utile per cogliere le ragioni di un fatto specifico, non per affrontare il nodo complessivo che Barucci stesso propone. La somma di questa debolezza degli economisti « giovani e moderni » con lo stato di necessità non rende ragione della « doppia svolta » verso cui si orientò De Gasperi nel 1947. «Doppia svolta » — i termini sono quelli usati da Barucci per indicare l’estromissione delle sinistre e la contemporanea rinuncia a mantenere in mani democristiane i ministeri- chiave dell’economia — è un’indicazione
ancora una volta di rilievo che rimette in discussione tagli interpretativi di diversa o contrastante origine e direzione. Ma lascia aperti più problemi di quanti non ne risolva. Se nel paese, proprio in quegli anni, si coagularono attorno alla SVIMEZ (Mo- randi e Saraceno i primi della schiera) economisti e politici tanto consci della necessità di una politica economica diversa, soprattutto rispetto al Mezzogiorno, resta oscuro il meccanismo della estromissione non tanto loro, quanto di idee ed orientamenti pur presenti nella Democrazia cristiana. A meno di un giudizio assai negativo sulle capacità politiche di De Gasperi, sulla sua lungimiranza — cui Barucci ci parrebbe riluttante; o di un riferimento, ancora una volta del tutto meccanico, a cause esogene. In realtà un discorso così impostato assume ben presto una piega fuor- viante: e la ragione ci sembra risiedere nel carattere da « eroe positivo » che tale gruppo di economisti e politici assume nella vicenda. La stessa figura di Morandi si coglie appena, misurata com’è sulla pura e semplice espressione delle proposte industrializ- zatrici per il Mezzogiorno, che non permettono di cogliere né l’originalità della proposta (proveniva pur sempre da un dirigente socialista) né i suoi limiti, sui quali forse — al di fuori della pietas che spesso anima gli storici — varrebbe la pena di richiamare l’attenzione. In questo taglio, che è quello dominante, va indicato l’elemento di maggior debolezza dell’intero lavoro: nell’eccessiva estrapolazione di una corrente culturale rispetto al contesto e nel simultaneo sovrapporla alla realtà politicosociale del paese per tentare una sintesi che supera largamente i confini di una storia della cultura economica. Nel tentativo c’è molto coraggio e ci sono molte acquisizioni stimolanti; ma il risultato complessivo è deludente, i fantasmi dei « precursori » si addensano in modo preoccupante sulla scena; e non saremmo alieni dal dire che, nella sua polemica contro la tesi della « rivoluzione mancata » (e perché non usare a questo proposito la pur modesta cura filologica di indicare opere ed autori, rinunciando al generico « nuova sinistra»?) l’autore abbia finito per cadere in quella del « riformismo jellato ». Per certi aspetti va detto anche che la linea dell’analisi passa troppo al di fuori delle trasformazioni reali dell’economia e degli aspetti di potere per cogliere a fondo i momenti e le convergenze decisivi. Anche il « miracolo » dello schema Yanoni non si
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sottrae a questa rarefazione di dati ed elementi, cui concorre anche una sorta di innamoramento del personaggio che ci sembra testimoniato da alcuni lirici passaggi della prefazione agli Scritti più sopra citati. Non ci sembra da sottovalutare tra l’altro l’assenza, dal quadro della politica economica, di riferimenti agli effetti degli aiuti ERP sulla struttura economica italiana (se non sotto il profilo notoriamente parziale del richiamo al rapporto Hoffmann): sono in sostanza le trasformazioni più rilevanti della fine degli anni quaranta ad essere poste in ombra. Ne nasce che la presentazione dello schema Vanoni si inserisce in un filone di puro dibattito economico, cui solo circostanze esterne — l’occasione di un inventario della ricostruzione compiuta — offrono uno sbocco. Ma la tesi del fiume sotterraneo ci pare assai poco consona sia ai personaggi sia all’assunto stesso che Barucci si era proposto. I personaggi — Vanoni in prima linea, Saraceno buon secondo — non sono certo ombre nell’Italia degli anni cinquanta. Eppure il rapporto tra i gruppi degli studiosi che elaborano l’analisi della politica economica e i politici che operano le scelte — Barucci sottolinea invero la carenza delle fonti memorialistiche: ma quanto possono essere considerate decisive? — resta ancora da determinare. Per quanto insomma l’opera offra una massa non indifferente di notizie e di informazioni, e una bibliografia se non esaustiva certo fra le più complete ed aggiornate, molti dei problemi e degli interrogativi che essa avanza non sembrano avere ancora trovato una risposta del tutto convincente.
Luigi Ganapini
Libri ricevuti
GIORGIO amendola, Storia del Partito comunista italiano. 1921-1943, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 647, lire 7.500.CARLO boffito, Corso elementare di economia politica, Torino, Einaudi, 1978, pp. 376, lire 4.500.
landò bortolotti, Storia della politica edilizia in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 314, lire 5.500.Delinea la politica del territorio e le direttrici dell’urbanistica in epoca fascista, in
rapporto sia ai lavori pubblici sia all’edilizia privata. Il saggio indica anche una continuità fra le direttrici della politica urbanistica dell’epoca fascista e quella seguita negli anni della ricostruzione.asa briggs, L ’Inghilterra vittoriana. I personaggi e le città, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 702, lire 12.000.Traduzione italiana di due noti saggi, pubblicati rispettivamente nel 1954 e nel 1963, in cui l’autore, noto per i suoi studi sulla storia del movimento operaio inglese, presenta le tappe più significative delle realizzazioni dell’età vittoriana e alcune biografie dei suoi protagonisti.F. BULGARELLA, S. CHIERICI, R. FONTAINE, M. GUIDETTI, G. PENCO, P. P. POGGIO, M. ROU- che, L'Europa barba e feudale, Milano, Jaca Book, 1978, pp. 426, lire 13.000. Primo volume di una Storia d’Italia e d’Europa.
sabino cassese, Burocrazia ed economia pubblica. Cronache degli anni 70, Bologna, Il mulino, 1978, pp. 275, lire 3.800. Esamina i problemi della pubblica amministrazione in Italia in relazione alle strutture, al personale, all’organizzazione delle partecipazioni statali e degli enti locali.
franco catalano, Da Yalta alla grande crisi. Storia d’Europa dal 1929 al 1945, Roma, Nuove edizioni operaie, 1978, pp. 353, lire 7.000.Ristampa del volume già pubblicato nelle edizioni Sapere nel 1975.
Cattolici e fascisti in Umbria (1922-1945), a cura di Alberto Monticone, Bologna, Il mulino, 1978, pp. 483, lire 10.000. Antologia sul movimento cattolico in Umbria dagli anni venti alla resistenza. L’introduzione è di Pietro Scoppola, i singoli saggi interessano i rapporti fra laicato e movimento cattolico; clero e vita religiosa; realtà locale e organizzazione del consenso al regime, dall’opposizione alla Resistenza. Seguono interventi metodologici e testimonianze.
Innocenzo cervelli, Gioacchino Volpe, Napoli Guida, 1978, pp. 616, lire 11.000.
franco chiarenza, Il cavallo morente. Tren- t’anni di Radiotelevisione italiana, Milano, Bompiani, 1978, pp. 284, lire 5.000.Storia delle strutture amministrative e istituzionali e della politica culturale della Rai dal 1943 alla riforma del 1975.
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ZEFFIRO CIUFFOLETTI, MAURIZIO DEGLI INNOCENTI, L ’emigrazione nella storia d’Italia. 1868-1975, 2 voli., Firenze, Vallecchi, 1978, pp. IX-992, lire 35.000.Antologia di documenti politici ed economici tratti da atti ufficiali, dalla pubblicistica e dall’analisi politica sull’emigrazione in Italia, integrati da tavole e dati statistici.Costituente e lotta politica. La stampa e le scelte costituzionali, a cura di Roberto Ruf- filli, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 308, lire 14.000.L’opera a cui hanno collaborato specialisti di diversa formazione quali P. Pombeni, Maria Serena Piretti, Daniela Pastechi No- relli, Anna Sgarabelli, Claudio Bruno e Marzio Bonomo esamina la funzione della stampa nel periodo della Costituente. Sono trattati in particolare i periodici democristiani, socialisti, comunisti, laici e, tra i quotidiani indipendenti, «Il messaggero».
pierò della seta, Le campagne d’Italia. Cento anni di saccheggio del territorio, Bari, De Donato, 1978, pp. 230, lire 4.500. Ricostruisce il processo di degradazione delle campagne, e di riflesso delle città, dall’unificazione ad oggi, indicando nella politica territoriale dei governi e nella rendita fondiaria le cause principali del dissesto.
santi fedele, Fronte popolare. La sinistra e le elezioni del 18 aprile, Milano, Bompiani, 1978, pp. 268, lire 5.000.Il volume contiene anche una ampia appendice documentaria (pp. 159-262).
fondazione Giovanni agnelli. Prosegue la pubblicazione degli studi di economia e sociologia a cura della Fondazione Agnelli di Torino. Segnaliamo le ricerche uscite nel 1977. peter lange, Studies on Italy. 1943- 1975. Select Dibliography of American and British Studies in Politicai Science, Economics, Sociology and Anthropology, pp. 183; R. de battistini, e . guglielmino, Passato e futuro dei bilanci pubblici in Italia, pp. 131; aa.vv. , Le regioni tra Costituzione e realtà politica, pp. 227; t . cozzi, g. la malfa, g. mazzocchi, m . rey, e. tarantelli, g. zan- dano, Consenso e sviluppo; dibattito sul pensiero e sulle politiche keynesiane, pp. 150; paolo ammassari, Classi e ceti nella società italiana. Studi e ricerche, pp. 70; w. wesolowski, k. slomczynski, Analisi della struttura di classe e della stratificazione sociale in Polonia. Studi e ricerche (1945-1975), pp. 113; w. müller, k . u .
mayer, La stratificazione sociale nella Repubblica federale tedesca. Studi e ricerche (1945-1975), pp. 147; Joseph lopreato, m . n. rutkevich, r. andorka, s . ferde, g. m elis , Studi sulle classi e la stratificazione sociale nell’Unione Sovietica, Ungheria e Repubblica popolare cinese, pp. 141; d. bertaux, r. girod, k. svalastoga, Gli studi sulla stratificazione sociale in Francia, Svizzera, Paesi scandinavi, pp. 267; j . h . gold- thorpe, ph . bevan, Lo studio della stratificazione sociale in Gran Bretagna (1946- 1976); l . broom, f . lancaster jones, Au- stralia ineguaglianza senza classi, pp. 217.PIERRE GEORGE, Le migrazioni internazionali, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 236, lire 3.000.L’opera analizza i problemi dell’emigrazione nel mondo nei suoi riflessi economici e sociali.Claudio giovannini, La DC dalla fondazione al centro-sinistra, Firenze, La Nuova Italia, 1978, pp. 187, lire 3.000.Il volume fa parte della collana « Strumenti », destinata ad un uso prevalentemente didattico, e presenta una antologia di documenti, preceduta da una introduzione che delinea la storia della DC dal fascismo agli anni sessanta.Il gulag socialdemocratico. Note sulla repressione in Germania, a cura di Angela Assante e Paolo Pozzi, Milano, Moizzi, 1978, pp. 139, lire 3.500.Raccoglie documenti sulla repressione nella Repubblica federale tedesca negli ultimi anni, con particolare interesse alla situazione carceraria, alla morte di Ulrike Mein- hof e ai prigionieri della Raf.beth irvin lew is, George Grosz. Arte e politica nella Repubblica di Weimar, Milano, Edizioni di Comunità, 1977, pp. 365, lire 9.000.Analizza l’opera di George Grosz e la sua concezione del rapporto arte/politica nella prospettiva storica della Germania del primo dopoguerra. Il saggio in cui sono riprodotti ottanta disegni, è arricchito da una bibliografìa degli scritti di Grosz.anna kuliscioff, Immagini scritti testimonianze, a cura di Franco Damiani e Fabio Rodriguez, prefazione di Franca Pieroni Bortolotti, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 197, lire 3.000.Il libro raccoglie documenti e fotografìe presentati alla mostra organizzata a Milano nel 1976 contemporaneamente al convegno
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su Anna Kuliscioff. Di particolare interesse il testo del discorso: Il monopolio dell’uomo (pp. 157-195).
Giovanni lazzari, L’enciclopedia Treccani. Intellettuali e potere durante il fascismo, Napoli, Liguori, pp. 117, lire 2.500.Storia dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana dai progetti di F. Martini alla realizzazione in epoca fascista. Sono delineate le strutture organizzative e redazionali e le caratteristiche ideologiche prevalenti fra i col- laboratori in rapporto anche alla politica culturale del regime sotto la direzione di Gentile.
PIERRE legendre, Stato e società in Francia. Dallo stato paterno allo stato-provvidenza: storia dell’amministrazione dal 1750 ai nostri giorni, Milano, Edizioni di Comunità, 1978, pp. 495, lire 12.000.Traduzione del volume uscito in Francia dieci anni fa. L’autore esamina la storia amministrativa francese in rapporto alle vicende politiche secondo un metodo che tiene presenti gli strumenti offerti dalla scienza giuridica, dall’economia, dall’etno- storia.
alexander j . le grand, Bottai e la cultura fascista, Bari, Laterza, 1978, pp. VII-302, lire 8.000.Ricostruisce le caratteristiche della politica culturale del fascismo attraverso la biografia di Bottai che ne fu il più tenace sostenitore, e che permise con periodici come « Primato » e « Critica fascista » la formazione di una generazione di intellettuali e di artisti critici verso lo stesso regime ed aperti alle esperienze della cultura moderna.
Libertà e giustizia, a cura di Marcello Ralli, Salerno, Laveglia, 1967, pp. LXXII-385, lire 7.500.Edizione integrale del primo periodico socialista italiano, uscito a Napoli nel 1867.
MARIO G. losano, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Torino, Einaudi, 1978, pp. 361, lire 7.000.11 volume è diviso in due parti, nella prima vengono esposti i concetti e le nozioni preliminari del diritto; nella seconda vengono delineate le caratteristiche del diritto in Europa e nei paesi extraeuropei.
italo mancini, Con quale cristianesimo, Roma, Coines, 1978, pp. 237, lire 4.000.
golo MANN, Storia della Germania moderna.
1789-1958, Milano, Garzanti, 1978, pp. 653, lire 16.500.Ristampa dell’opera già pubblicata da Sansoni nel 1963.
Giovanni mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia in Italia, Urbino, Argalia, 1978, pp. 314, lire 3.700.
alan s. milward, L’economia di guerra della Germania. La prima analisi dell’economia nazista, Milano, Angeli, 1978, pp. 228, lire 3.800.Traduzione italiana dell’opera pubblicata in Inghilterra nel 1965. Analizza la strategia economica nazista e il tipo di produzione bellica finalizzata alla realizzazione della « guerra-lampo » soprattutto ad opera di Todt e Speer.
franco monteleone, La radio nel periodo fascista, Venezia, Marsilio, 1978, pp. 394, lire 6.500.Il volume è arricchito da una appendice documentaria.
Umberto morelli, 1 consiglio di gestione, Torino, Fondazione Agnelli, 1978, pp. 176, lire 3.000.Ricostruisce la storia del movimento consiliare dalle origini al 1949. Nella sua opera l’autore ha delineato l’ideologia dei Consigli, servendosi di documenti istituzionali, della pubblicistica e della produzione storiografica. In appendice è pubblicato il Disegno di legge Morandi sui Consigli ed una esauriente bibliografia.
Ferdinando ormea, Le origini dello stalinismo nel PCI. Storia della « svolta » comunista degli anni trenta, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 342, L. 8.000.Esamina il dibattito interno del PCI dalla fondazione nel 1921 fino agli anni Trenta in relazione sia ai rapporti con l’Internazionale comunista sia a quelli dell’azione politica nell’Italia fascista.
Marcelle padovani, La lunga marcia del PCI, Milano, Mursia, 1978, pp. 241, lire 4.500. : {s ;Traduzione di un volume uscito in Francia nel 1976 che riassume le vicende del PCI nel secondo dopoguerra, con particolare interesse per il tema del compromesso storico.
Giancarlo pajetta, La lunga marcia dell’internazionalismo, intervista di Ottavio Cecchi, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 184, lire 2.200.Il volume fa parte della collana « Inter
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venti » e presenta il carattere dell’interna- zionalismo nelle sue componenti proletarie e in quelle intellettuali dell’Ottocento ad oggi.sara prati, Giorgio rinaldi, « Quando eravamo ribelli... » (La valle del Panaro nella Resistenza), Modena, ANPI, 1978, pp. 373, lire 3.500.Storia dell’antifascismo e della Resistenza in una zona del modenese integrata da testimonianze.Quaderni di rassegna sindacale. Notiziario della CGIL. 1947-1955, a. XVI, n. 70, gennaio-febbraio 1978, pp. 264, lire 2.000. Antologia della rivista sindacale. Raccoglie articoli sulla ricostruzione economica, la ristrutturazione capitalistica e le lotte sindacali.Ettore rotelli, L ’alternativa delle autonomie. Istituzioni locali e tendenze politiche dell’Italia moderna, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 344, lire 8.000.L’autore propone una storia degli ordinamenti locali, a partire dai casi significativi della Lombardia e dell’Emilia-Romagna prima dell’unificazione. Esamina poi la genesi dell’ordinamento unitario realizzato dopo l’unità, e infine le caratteristiche dei regionalismo e dell’autonomismo nel secondo dopoguerra con particolare attenzione al problema valdostano.pierò sanna, Storia del PCI in Sardegna. Dal 25 luglio alla Costituente. Le lotte politiche e sociali, il dibattito sull’autonomia e la battaglia per la terra. 1943-1946, Cagliari, La Torre, 1978, pp. 222, lire 4.500. L’autore che ha già analizzato in studi precedenti la pubblicistica sarda negli anni della seconda guerra mondiale, ricostruisce le vicende interne del PCI in rapporto alla situazione sociale e politica dell’isola. Il volume è integrato da una appendice di dati statistici relativi all’economia sarda.ALFRED SCHMIDT, GIAN ENRICO RUSCONI, La scuola di Francoforte. Origini e significato attuale, Bari, De Donato, 1978, pp. 239, lire 4.000.Riedizione di saggi sulla « Rivista di ricerca sociale » e sulla scuoia di Francoforte, già pubblicati in Italia nel 1972 e nel 1974.Alfred sohn-rethel, Economia e struttura
di classe del fascismo tedesco, prefazione di Giacomo Marramao, Bari, De Donato, 1978, pp. 273, lire 4.200.Scritti negli anni trenta, i saggi raccolti illustrano la struttura particolare del capitalismo tedesco, nel periodo della repubblica di Weimar e della grande crisi del 1929, e il modo in cui tale struttura permise l’affermarsi del nazismo.Storia della Campania, a cura di Francesco Barbagallo, 2 voli., Napoli, Guida, 1978, pp. 640, lire 6.000.L’opera, che è stata realizzata con la collaborazione di vari specialisti, fra cui Guido d’Agostino, Biagio De Giovanni, Percy Alluni, Giuseppe Galasso e Pasquale Villani, ricostruisce la storia della Campania dalle origini all’età contemporanea. Il secondo volume è dedicato prevalentemente alla evoluzione politica economica e sociale della regione nel nostro secolo.guido verucci, Il movimento cattolico italiano. Dalla Restaurazione al primo dopoguerra, Messina-Firenze, D’Anna, 1978, pp. 328, lire 2.500.Fa parte della collana di testi « Secondo millennio », destinati alla scuola secondaria superiore. Un profilo generale precede la scelta antologica di documenti e storiografia, che investono prevalentemente il rapporto fra il movimento cattolico e la situazione politico sociale del paese.gunter wallraff, Il grande bugiardo. Come la stampa manipola l’informazione. Un caso esemplare, prefazione di Enzo Collotti, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 210, lire 3.500. Gunther Wallraff, giornalista democratico tedesco, noto per i suoi servizi di coraggiosa denuncia, ricostruisce la politica dell’informazione del gruppo tedesco Springer.stuart woolf, L’epoca della reazione: fascismo 'e nazismo, Firenze, Le Monnier, 1978, pp. 125, lire 2.200.L’antologia fa parte della collana « Storia parallela », destinata alle scuole. I documenti, preceduti da un inquadramento generale del problema, trattano dell’ascesa del fascismo e del nazismo, dell’ideologia e della struttura politica ed economica dei regimi totalitari e della storiografia ed è integrato da un quadro cronologico e da una bibliografia.
STORIA URBANAA n n o I I - N u m e r o 6 - S e t te m b r e /d ic e m b r e 1978
Ricerchedario costanzia, Popolazione, attività edilizia e mercato immobiliare a Torino fra il 1850 ed il 1880; adele te ti, La città di Catanzaro dal 1860 al 1920: evoluzione urbanistica e condizioni di vita della popolazione; lu isa finocchi, Edilizia scolastica a Milano dal 1860 al 1885; paolo cevini, Edilizia popolare a Genova nell’Ottocento; Carlo cresti, Gabriella orefice, Caratteri sociali, situazione ambientale e piani di risanamento del quartiere d’Oltrarno a Firenze (1865-1940); m ichele sernini, Le circoscrizioni amministrative nella politica di controllo degli insediamenti in Italia dal 1925 ad oggi; laura g u id i, Napoli fra le due guerre: politica fascista nel settore delle trasformazioni edilizie e territoriali; Giancarlo bettuzzi, franco tassinari, Spopolamento e movimento demografico naturale nell’Appennino tosco-emiliano fra le due guerre; roberta Martinelli, Lucia n u t i, Città nuove fasciste in Sardegna.
Rassegna di studigaetano LA pira , Industrializzazione e crescita urbana nella Russia pre-rivoluzionaria: un primo bilancio degli studi; bruno bianco, Anna frisa , Torino fra le due guerre: una mostra dedicata alla città.
Il mondo popolare in Lombardia, ieri ed oggi, in una mostra fotografica e sonora; Lucio gambi, Mostre emiliane di materiali per la storia urbana; ercole sori, Il « blocco edilizio »: sviluppo e crisi dal fascismo al trentennio democristiano.
R e d a z io n e : V ia G . C o m p a g n o li 4 3 , 20129 M ila n o , te i . (0 2 ) 7 1 .9 3 .7 3 A m m in is t r a z io n e : V .le M o n z a 106, 20127 M ila n o , te i . (02 ) 2 8 .27 .651 -2 -3 -4 -5 F r a n c o A n g e li E d i to r e
SOCIETÀ’ E STORIAN . 2 /1 9 7 8
Sommariopaolo malanima, Firenze tra '500 e ’700: l’andamento dell’industria cittadina nel lungo periodo; claudia petraccone, Mobilità sociale e coscienza di classe: il caso di Napoli a metà ottocento; Roberto maiocchi, Scienza, industria e fascismo (1923-1939).
Orientamenti e dibattitifranco angiolini, Le basi economiche del potere aristocratico nell’Italia centro-settentrionale tra XVI e XVIII secolo; Aurelio macchioro, N. Bobbio e il momento etico-civile attuale.
Beni culturali e organizzazione della ricercaFonti a stampa relative alla storia della sanità in Lombardia: 1816-1859, a c u r a d i F r a n c o D e lla P e ru ta .Schede, a c u ra d i: D u c c io B a ie s tr a c c i , M ic h e le B a t t in i , M a r ia L u is a B e t r i , F r a n c e s c o B o- g lia r i . M a r in a B o n a c c in i , P ie t r o C a la s c ib e t ta , C a r lo C a p r a , M a r ia C a ra z z i , C la u d io D o n a t i , L u ig i D o n v ito , A n n a D u s o , P a o lo F a b b r i , G io v a n n i F e d e r ic o , C a r lo F u m ia n , G a e ta n o G re c o , M ic h e le L u z z a t i , P a o lo M a la n im a , F r a n c o M a r c o a ld i , A n d r e a M e n z io n e , M a r ie l la N e j r o t t i , D a n ie la P e s c ia t in i , C la u d io P o g lia n o , A n g e la n to n io S p a g n o le t t i , C a lo g e ro V a le n t i , S ilv io Z o t ta .
C o m ita to d i d ire z io n e : F r a n c o B o n e lli , C a r lo C a p r a , G io v a n n i C h e r u b in i , G io rg io C h it to - l .n i , A lb e r to D e B e r n a r d i , F r a n c o D e lla P e r u t a , L u is a D o d i , L u ig i F a c c in i , T e r e s a I s e n b u rf ì , A u re l io M a c c h io ro , P a o lo M a c ry , M a r io M ir r i , M a r io R o s a , A n d r e a S c h ia ff in o , F r a n c e s c o S iru g o . R e d a z io n e e A m m in is tr a z io n e : M O I Z Z I E d i to r e , V ia F io r i C h ia r i 12, M ila n o , te i . 8 63235 . P u b b lic a z io n e q u a d r im e s t r a le : A b b o n a m e n to a n n u o I ta l ia L . 12 .000 - E s te ro L . 15 .000 d a v e rs a r s i su l c / c n . 4 4 6 4 2 0 6 in te s ta to a G H IS O N I lib r i S .p .A . , V ia T r a i a n o 3 8 /A , M ila n o .
Spoglio dei periodici stranieri 1977*
I - Metodologia e organizzazione della ricerca
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