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Laterza Edizioni della Libreria TALENTI PER L’IMPRESA Cinque imprese, cinque autori, cinque racconti del talento
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LaterzaEdizioni della Libreria

TALENTI PER L’IMPRESA

Cinque imprese, cinque autori,

cinque racconti del talento

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Proprietà letteraria riservataGius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel febbraio 2010Ragusa Grafica Moderna - Bari

per conto della Gius. Laterza & Figli SpaISBN 978-88-420-9298-8

© 2010, Gius. Laterza & Figli – Edizioni della Libreria

Prima edizione 2010

www.librerialaterza.it

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzoeffettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o di-dattico.Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso persona-le purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia cheeviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravviven-za di un modo di trasmettere la conoscenza.Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fo-tocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette unfurto e opera ai danni della cultura.

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Prefazione

Cos’è il talento?1

Quando con i soci del Club delle imprese per la cultura di Confindustria Bari e Bar-letta-Andria-Trani, abbiamo pensato a questo progetto, probabilmente ciascuno dinoi è andato con la mente alla propria impresa alla ricerca di quel particolare mo-mento aziendale o di un gesto particolarmente talentuoso da parte di un collaborato-re. Le ipotesi utili a fornire qualche risposta si saranno forse susseguite nel tentativodi trovare un’unica e improbabile soluzione. A domande si susseguono domandequando si parla di creatività e di talento.

Ci siamo poi chiesti come il talento nascesse nelle imprese indipendentemente dal-le peculiarità dell’attività aziendale.

Da queste riflessioni e da molte altre sul senso della creatività per e nell’impresa ènato Talenti per l’impresa, poiché siamo fortemente convinti che esso risieda nella sto-ria personale di chi guida l’organizzazione o di chi fattivamente vi collabora.

Ora che mi accingo a scrivere questa breve presentazione e dopo aver visto le mi-se en espace organizzate dal Teatro Kismet Opera di Bari sui racconti delle imprese, masoprattutto dopo aver incontrato i leader che guidano le organizzazioni oggetto deiracconti, mi convinco che il talento è una qualità personale, non collettiva, fondatasulla capacità di osare, essere coraggiosi, avere una forte visione utopica ma al con-tempo possedere capacità e caparbietà nel realizzarla.

1 Talento: sm – 1. Unità di misura di peso greca, di valore variabile secondo i luoghi e i tempi // Anticamoneta in circolazione in Grecia e Palestina ai tempi di Gesù. 2. Capacità intellettuale non comune, associa-ta a genialità o estro vivace: avere del t., un giovane di t.; estens., di persona: è un vero t. // lett. Inclinazione o di-sposizione d’animo (G. Devoto - G.C. Oli, Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier).

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2 Cfr. S. Davis-D. McIntosh, L’arte del business. Fate del vostro lavoro un’opera d’arte, Franco Angeli.

Prefazione VI

Mi ritrovo molto, nel fornire un’ulteriore chiave interpretativa del concetto di ta-lento nell’impresa, nelle parole citate da Stan Davis e David McIntosh:

Quando vi sarete abituati ad assimilare il vostro lavoro a un’opera d’arte e i vostri clienti a unpubblico, gestirete la vostra azienda in modo più profittevole. E quando vi sarete abituati adassimilare il lavoro a un’opera d’arte e voi stessi a degli artisti, troverete più soddisfazione inciò che fate.

[...]Tutti noi, dirigenti d’azienda e artisti, pubblici e consumatori, traiamo notevoli benefici dal

fatto di vedere il mondo sia con una sensibilità estetica, sia con un orientamento strategico.Integrare l’arte e il business, mettendo assieme la nostra estetica individuale e il lavoro chefacciamo, gestendo flussi economici e artistici dell’attività di impresa: ecco cosa intendiamoper arte del business2.

Si tratta appunto di una maestria difficile anche da decodificare e che non segueun percorso di costruzione precostituito o lineare, poiché a quella maestria l’uomo ar-riva per esperienza e con un continuo travaso e scambio tra l’aspetto personale e quel-lo professionale. Ecco che nel semplice racconto di storie personali e aziendali emer-ge una raffigurazione in cui chiunque legga si riconosce e quindi riconoscerà, attra-verso il talento descritto, anche il proprio talento, la propria caparbietà, come invitoa perseverare nell’inseguire i propri sogni.

Dai quattro racconti e dalle illustrazioni commissionate ai diversi autori, emergonochiaramente storie di persone e di organizzazioni che fanno i conti con il loro mondo.

Si tratta di un esperimento di storytelling, ossia quella disciplina che consente diraccontare i talenti d’impresa in quanto componenti della identità dell’azienda, comeelemento fondante della relazione tra organizzazione e i suoi pubblici interni (soci,azionisti, management) ed esterni (fornitori, clienti).

Come raccontare questa identità se non attraverso una forma letteraria che di persé offre l’enorme opportunità al lettore di comprendere la complessità di un’azienda?

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VII Prefazione

Non c’è brochure aziendale, anche la più bella per la grafica e la più accattivanteper i contenuti, capace di trasferire storie di uomini e organizzazioni in modo tantoefficace e appassionante quanto un’opera letteraria.

Talenti per l’impresa ci insegna che l’impresa è cultura, come conoscenza, come rac-conto della capacità di coniugare utopia e saper fare.

I testi di D’Amicis, Donpasta, Lagioia e Marocco, e la graphic novel di Carofigliosono ispirati a cinque imprese che i soci del Club Cultura di Confindustria Bari e Bathanno selezionato sulla base della conoscenza diretta, sono il frutto di ripetuti incon-tri tra i talenti esterni (gli autori) e gli imprenditori/manager d’impresa, ma sono an-che una libera interpretazione delle storie di persone e di aziende.

Questi brevi racconti hanno visto la loro prima rappresentazione sul palco del Tea-tro Kismet attraverso una interpretazione breve quanto intensa come solo la magiadel teatro sa fare. Di questo sono particolarmente grato ad Augusto Masiello del Tea-tro Kismet Opera che ha avuto la cura di selezionare attori e compagnie e di condurliverso un lavoro teatrale semplice quanto poetico. Sono grato inoltre a tutti gli inter-preti che li hanno messi in scena, cogliendo l’essenza del racconto ma soprattutto lequalità dei talenti delle imprese.

Rivolgo un particolare ringraziamento ad Ines Pierucci, che con chi scrive ha con-diviso ogni fase del progetto e senza il cui contributo non avremmo potuto incontra-re gli autori che si sono messi in gioco raccontando queste brevi quanto emozionan-ti storie di uomini e di imprese.

Ettore ChiurazziCoordinatore

Club delle imprese per la culturadi Confindustria Bari e Barletta-Andria-Trani

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CLUB DELLE IMPRESE PER LA CULTURA – CONFINDUSTRIA BARI E BARLETTA-ANDRIA-TRANI

Amgas Spa – Distribuzione e vendita gas metanoCaruccieChiurazzi Snc – Impresa di comunicazioneF. Divella Spa – Produzione di pasta di semola di grano duroGius. Laterza & Figli Spa – EditoriGraphiservice Srl – Servizi editorialiIntrapresa Group Srl – Scuola di managementLombardi Ecologia Srl – Servizi per l’ambienteNatuzzi Spa – Industria di divani in pelle e arredamentoPubbliangie Group Srl – Allestimenti fieristici, mostre e congressiSvimservice Spa Gruppo Exprivia – Servizi avanzati di informatica sanitaria e per gli Enti

localiTecnoacciai Srl – Acciai speciali e inossidabiliTersan Puglia Spa – Produzione di fertilizzanti organici-biologiciVilla Romanazzi Carducci Spa – Hotel, congressi e ricevimenti

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TALENTI PER L’IMPRESA

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Francesco Carofiglio

Tink & Tank

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Le illustrazioni sono liberamente ispirate alla storia di Planetek Italia. I dialoghi e le situazio-ni riportate nelle tavole sono frutto dell’invenzione dell’autore.

Planetek Italia, nata nel ’94, è uno dei principali operatori nazionali nel settoredell’informatica applicata alla gestione territoriale, attiva nello sviluppo di soluzioniinformatiche per l’archiviazione, elaborazione e distribuzione di banche dati carto-grafiche e immagini telerilevate da satellite. Planetek opera nella ricerca e sviluppodi nuove applicazioni per le tecniche di integrazione di immagini telerilevate e GIS,in collaborazione con l’Unione europea, le Università, le Agenzie spaziali e i Centridi ricerca.

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5 F. Carofiglio. Tink & Tank

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Talenti per l’impresa 6

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7 F. Carofiglio. Tink & Tank

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Talenti per l’impresa 8

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9 F. Carofiglio. Tink & Tank

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Carlo D’Amicis

Tutta l’acqua che c’è

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Questo racconto è liberamente ispirato alle vicende della Fluidotecnica Sanseverino.

Specializzata nel settore della filtrazione e separazione dei fluidi, la FluidotecnicaSanseverino ha brevettato l’innovativo macchinario Oilsep Cc Ecology: la sua parti-colarità consiste nel fatto che riesce a compiere una separazione netta tra l’acqua etutti i fluidi inquinanti che galleggiano, recuperando l’acqua. Questo consenteall’industria un notevole risparmio nel processo di produzione per cui ha trovato im-mediato riscontro in Oman, nel settore delle industrie petrolifere e sono in corso con-tatti anche con la Nigeria. Tale brevetto offre inoltre grandi potenzialità di applica-zione nell’ambito delle bonifiche ambientali.

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Piove a dirotto sulla strada che congiunge la tangenziale di Bari a Viale Maestri delLavoro. Ma è tutta l’acqua di questa storia a venire dal cielo: perché ogni goccia chela compone è sudore (pesante, materiale, terreno) ma è anche un dono soprannatu-rale, un’opportunità, un segno del destino.

Perfino il cane Rex, sul piazzale della fabbrica, accoglie la pioggia battente comeun evento, se non lieto, almeno familiare, e nemmeno ci pensa a mettersi al riparo.

Acqua. Acqua. Acqua. Se un corpo umano ne contiene più del 50%, quanta acquascorre nelle vene di Sanseverino Michele fu Ciccillo, nato dal mare e al mare ritor-nato? Abbastanza da annegarci dentro. Ma il protagonista di questa storia non an-nega, perché ha un segreto semplice semplice per rimanere a galla: camminare sem-pre a testa alta.

Sì, avete capito bene: camminare. E come fa Sanseverino Michele fu Ciccillo a cam-minare in mezzo a tutta quest’acqua? Si capisce: la separa, come faceva Mosè dentroal Mar Rosso. Solo che, siccome oggi i mari sono assai più inquinati di tremila annifa, Sanseverino Michele fu Ciccillo non si limita a fendere le acque, ma le divide pu-re dai veleni che vi galleggiano dentro.

In poche parole: da una parte l’acqua, dall’altra l’olio. Di qua il pulito, di là lo spor-co.

E se pure, tra questi capannoni alla periferia di Bari, ferro e cemento non sem-brano lasciare troppo spazio a divagazioni filosofiche, possiamo dirlo e lo diremo:quando la macchina Oilsep Cc Ecology entra in funzione, il sorriso mite e sapientedel suo inventore dà l’impressione che egli non sia riuscito soltanto a separare acquae olio, ma anche, nella sua vita, il bene dal male.

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Chissà se Michele Sanseverino ha mai pensato al suo esperimento in questi ter-mini: la vasca dove sciabordano, apparentemente indissolubili, fluidi inquinanti e ac-qua cristallina, è il disordine del creato. Il cilindro dove le componenti si ridistribui-scono è la nostra coscienza. I serbatoi a cui affluiscono i liquidi, ormai ripartiti (l’unotrasparente, l’altro vischioso e nero) sono le nostre opzioni, le possibilità che abbia-mo di riversarci nel mondo.

Troppo poetico? Troppo simbolico? Forse. Ma l’immagine da cui nasce questa sto-ria non è quanto di più lirico e allegorico si possa concepire? Un uomo che pesca, dasolo, in mezzo al mare.

Quest’uomo è Sanseverino Francesco detto Ciccillo l’avvocato. Potenza delle pa-role: tra noi e lui c’è oltre mezzo secolo, ma basta che suo figlio, nell’oscurità di que-sto capannone, ne evochi il nome di battaglia, perché Ciccillo appaia ai nostri occhiin tutto il fulgore della sua abilità oratoria.

Bari, primo dopoguerra: Ciccillo parla, arringa, difende le sue cause. E nel molodi Levante, ancora ferito dall’attacco aereo della Luftwaffe, gli altri pescatori lo ri-battezzano Ciccillo l’avvocato.

«Però, scusami, mio padre non era soltanto un pescatore!», interviene Michelecorreggendo dolcemente sua moglie Carmela (la donna a cui «deve tutto»).

«Lui aveva il banco del pesce al mercato. Era un commerciante». Con tutto il rispetto per la categoria, per la precisazione di Michele Sanseverino,

c’è poco di commerciale nel comportamento tenuto da suo padre sul finire della guer-ra: corrono gli americani, corrono i tedeschi, corrono (anche se non sanno dove) pu-re gli italiani. E qualcuno, chissà come, chissà perché, dimentica su un muro tre sac-chetti di polvere bianca. Lo smercio di cocaina era un affare anche nell’Italia degli an-ni Quaranta, ma il commerciante Sanseverino Francesco quella roba non la vende. Nonla tocca nemmeno.

«Facciamo così», gli dicono i poliziotti, «tu ne prendi un sacchetto, e noi gli altridue». Ma all’improvviso Ciccillo l’avvocato non ha voglia di arringare. Diventa si-lenzioso. Scuote la testa.

«Con quella polvere la gente si rovina. Muore. E io non voglio avere sulla co-scienza la morte di nessuno».

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Non è tipo da dare la morte, Ciccillo Sanseverino, anche le spigole, i cefali, le ora-te che vende sul suo banco preferisce che la gente li compri ancora vivi.

«Pesce fresco, signori! Guizza ancora!»Non è tipo da dare la morte, Ciccillo Sanseverino, ma la vita sì, ché in meno di

vent’anni l’ha data a otto figli, quattro maschi e quattro femmine. Forse, senza averletto Hemingway, già immaginava che i pescatori diventano vecchi soltanto nei rac-conti. Che il mare è tutta acqua, eppure asciuga. Ti spegne. Ti consuma.

Quando Ciccillo l’avvocato perde la sua ultima causa, Michele non ha più di die-ci anni: pochi per rimanere solo. Allora, guardando in su, a Vito, a Cosimo, a Pinuc-cio, alle quattro sorelle, il più piccolo dei Sanseverino capisce che i fratelli sono undono, l’eredità più grande che un padre possa lasciare ai propri figli.

«Ho fatto sette prove per poter mettere al mondo te», gli dice il padre prima di an-darsene. Una responsabilità non solo per Michele, ma anche per gli altri. Perché ades-so, il fratellino piccolo, è un po’ come se fosse diventato figlio loro.

Dunque, Michele deve crescere. Deve studiare. Quattro anni all’Istituto TecnicoMarconi: dal banco del pesce a un banco di scuola. È l’ultimo dei Sanseverino, maanche il primo (e l’unico) ad arrivare alle soglie del diploma. Mentre i suoi coetaneisognano di andare a Woodstock a sentire Jimi Hendrix, lui si spinge fino a Varese, epoi in Germania, per sentire la musica che fa un cilindro pneumatico idraulico.

E tuttavia: sarà pure una frase fatta, ma la scuola più dura, quella che conta vera-mente, è la scuola della vita. A questa scuola Michele si iscrive a diciott’anni: titolaredi cattedra, maestro indiscusso (e, come vedremo, anche indiscutibile), il primogeni-to Sanseverino Vito. Quasi vent’anni tra i due fratelli: abbastanza perché l’eredità pa-terna non sia soltanto una suggestione.

Anche quello del titolare di cattedra non è esattamente un paradosso. Perché Vi-to, che con un socio ha appena fondato la Sanseverino & Ameruoso, con la motori-stica industriale e i compressori ci sa talmente fare da trasformare in pochi anni unmodesto sodalizio in una Srl con 40 dipendenti. Se ne accorgono anche all’Universitàdi Bari, dove gli studi meccanici hanno forza e tradizione, al punto che il primogeni-to di Ciccillo l’avvocato (titolo di studio: non pervenuto) all’inizio degli anni Settan-

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ta lo si poteva incontrare alla facoltà di Ingegneria, dove le sue consulenze erano te-nute in conto come quelle di un accademico.

E Michele? Ormai ha venticinque anni, si è sposato, sta per diventare padre. Ep-pure Vito finge quasi di non rendersene conto. Non che lo tratti male. Anzi, lo trattasempre come un figlio. Come un figlio che però non può permettersi di diventare unuomo.

All’inizio degli anni Ottanta, sulle scrivanie della Sanseverino & Ameruoso giun-ge la richiesta di un progetto: la Fiat-Allis, società nata dall’assorbimento nel gruppotorinese dell’azienda americana Allis-Chalmers, mira a creare un nuovo macchinariocapace di velocizzare il sistema di filtrazione degli oli, incrementando le classi di pu-lizia. Michele ci pensa: perché no? Si può fare.

Nella ditta di compressori del fratello si sente sempre più compresso. Capisce cheil suo impiego sta diventando troppo simile al campo di produzione dell’azienda: mec-canico.

Forse giochi di parole un po’ forzati. Ma a Sanseverino Michele fu Ciccillo met-tersi in gioco piace. Gli piacciono le sfide, soprattutto quelle con se stesso: così simette a progettare un sistema oleodinamico in grado di filtrare le particelle solide daifluidi.

Certo, ci vorrebbe la consulenza di un ufficio ingegneristico. Ma in aziendal’ufficio ingegneristico è lui. Ci vorrebbe l’appoggio di un ufficio progettuale. Ma inazienda l’ufficio progettuale è ancora lui. Ci vorrebbe il sostegno di un ufficio tecni-co. Ma in azienda l’ufficio tecnico è sempre lui.

Quando il giovane Sanseverino si presenta alla Fiat-Allis, sul tavolo degli esami-natori, in concorrenza al suo, ci sono altri diciotto progetti. «Mi sentivo piccolo pic-colo, là dentro», ricorda oggi Michele, ed è inevitabile accostare la sua sagoma noncerto imponente ai giganteschi cingolati, alle ruspe poderose o alle potenti scavatriciche la fabbrica Movimento Terra produceva.

Eppure c’è più forza nell’animo umano che in un braccio idraulico. E la sua for-mula è talento + coraggio + utopia. Il risultato finale è che il progetto di Michele San-severino one man band sbaraglia tutte le altre orchestre di cervelli: è la sua, decidono

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alla Fiat-Allis, l’idea destinata a diventare un prototipo sperimentale nella sede di Be-lo Horizonte.

Dal Brasile al capannone della Sanseverino & Ameruoso, nella periferia indu-striale di Bari, sono quasi diecimila chilometri. Nella sua immaginazione Michele lipercorre in un lampo, ma quando entra in direzione, il tuono con cui l’accoglie suofratello è il primo, cupo annuncio del temporale che seguirà: «Ma cosa ti sei messo intesta?», gli dice, «Noi non siamo costruttori. Tu non sei un costruttore».

Per Michele (ancora acqua!) è una doccia gelata. «Ma…Vito…», balbetta indi-cando l’officina, «neanche questo eravamo. Che cosa…».

Non riesce a chiudere la frase. Lui, che poche ore prima aveva trovato l’ardire dipresentarsi con i suoi disegni davanti ai tecnici di una multinazionale, adesso non rie-sce a trovare il coraggio di domandare a suo fratello che cosa eravamo.

«Stai tranquillo, Michele. Che vai cercando? Gli affari vanno bene. Hai un ottimostipendio. Devi essere contento di quello che hai».

Lui gli faceva domande con il verbo essere. L’altro gli rispondeva con il verbo ave-re. Per due mesi, a ondate, arrivarono telefonate da Belo Horizonte. Vito era un ar-gine, una diga contro la quale si infrangevano i sogni di Michele.

Alla fine: «Basta. Chiuso. Rinunciamo». Sulla carta geografica appesa nel labora-torio della Fluidotecnica Sanseverino, il Brasile non c’è. O, se c’è, lo sguardo ci pas-sa sopra distrattamente, come allora lo sguardo del fratello passava senza curarsenesopra il suo talento. Più che alle doti di Michele, Vito vuole pensare alla dote delle so-relle, quando vanno in sposa: sì, la famiglia può crescere, ma a condizione che resti-no tutti (fratelli, nipoti, cognati) sotto la sua tutela.

A trent’anni Sanseverino Michele fu Ciccillo scopre che il bene può fare male. Puòinaridire. Può soffocare. Per prendere aria ogni giorno si spinge fino al mare, e guar-dando l’orizzonte cerca di capire.

«Eccola qua», sorride l’imprenditore ripensando all’operaio che era allora, «la miaossessione, la mia pecca caratteriale: cercare sempre di capire. Di trasformare le cose.Di farle evolvere. Se mi capita un bicchiere tondo tra le mani, la prima cosa che pen-so è: se lo facessi quadro?...».

Per tutta la seconda metà degli anni Ottanta, alla Sanseverino & Ameruoso, è co-

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me se ci fossero due Michele: il dipendente scrupoloso, ma sempre più frustrato, e ilcreativo che dentro la sua testa non smette di cercare, di immaginare bicchieri qua-drati. Soltanto il primo, ovviamente, si nota. Ma è soprattutto il secondo che Vito tie-ne d’occhio, osserva, controlla. E, quando se ne presenta l’occasione, umilia.

«Vi rendo noto», annuncia alla presenza anche di Cosimo e Pinuccio, «che inten-do assegnare parte delle quote sociali ai miei figli. Sono laureati, adesso, e il loro fu-turo consisterà nel dirigere questa azienda».

Anche Michele ha due bambine: Stefania e Sabrina. Come potrà spiegare che suopadre lavora alle dipendenze dei loro cugini? Ragazzi che ha visto nascere, e che po-trebbero essere suoi figli? Potrebbero, sì: in questa storia immersa nell’acqua, anchei rapporti familiari sono liquidi, e tutti, più che figli, sono come figli.

Anche quelli di Vito, in fondo, sono amati dal padre più per quello che dovrebbe-ro fare che non per quello che vorrebbero essere: uno studia storia medioevale, l’altrosi diploma ragioniere. Ma il loro destino lo decide sempre e comunque il capofami-glia: guideranno l’impresa. Controvoglia, magari, ma la guideranno, perché non solole colpe, ma anche i meriti, dai padri ricadono sempre sulle spalle dei figli.

Anni Novanta. Sanseverino Michele è sull’orlo di una crisi. Ma a caderci dentro,prima di lui, è tutto il settore motoristico italiano. Scendono i fatturati. Crollano lecommissioni. Inventarsi i bicchieri quadrati, ora, non è più un capriccio, maun’esigenza. Eppure Vito non molla: «Sei un operaio. Fai l’operaio, e non t’immi -schiare».

Torna a guardare le onde, l’operaio Michele, e in quello specchio d’acqua, tra SanNicola e il faro di San Cataldo, proprio come in uno specchio tutto si rovescia: vor-rebbe chiedere aiuto al padre, ma è il padre, rivivendo nei marinai che si affannanodavanti ai suoi occhi, a chiedere aiuto a lui.

Lo vedi, Michele, quanta fatica a tirare su le reti a mano? Le senti, le imprecazio-ni, quando s’incastrano le cinghie? Non potendo fare niente per se stesso, Micheledecide di fare qualcosa per gli altri. Per i pescatori, dice lui. Ma in realtà lo sa beneche, se trascorre le serate a immaginare un nuovo sistema di salpare le reti, lo fa so-prattutto per ritrovarsi di nuovo, trent’anni dopo, accanto a suo padre.

Non è un ingegnere, Sanseverino Michele fu Ciccillo, ma è certamente un inge-

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gnoso: da solo concepisce un verricello idraulico che trasforma da un braccio di fer-ro a una carezza il recupero dei divergenti, delle sferzine e delle reti.

Prova a fare una carezza anche lui: «Domani vado al molo a collaudare. Vieni an-che tu, Vito? Se il verricello funziona possiamo farlo entrare in produzione. Tirarcifuori dalla crisi».

Inutile dire che il verricello funzionò. E ancora più inutile cercare, nella fotogra-fia che ritrae Michele in mezzo ai pescatori increduli ed euforici, il sorriso del fratel-lo accanto al suo.

In amore, quando si dice per la prima volta «ti lascio, me ne vado», non è mai unadichiarazione d’intenti, ma un grido disperato, una richiesta d’aiuto. Se lui lo ama co-me un figlio, Michele ama Vito come un padre, e nel momento in cui si presenta nelsuo ufficio per dirgli: «Voglio andarmene», tutto quello che spera è che suo fratello lovada ad abbracciare.

«Vuoi andartene? Quella è la porta», gli risponde invece l’altro a muso duro. Tutto è duro, in quei mesi. Anche se non esiste ancora la parola mobbing, Michele

ne conosce già il significato. Il significato della parola libertà, invece, glielo ricordacontinuamente sua moglie Carmela, che in quei giorni di tempesta tiene dritta la rot-ta della barca dei Sanseverino.

«Non sei lo schiavo di nessuno, Michele. E puoi guardare tutti a testa alta».È con gli occhi bassi, invece, che Vito sigla, dopo altri sei mesi, la lettera di licen-

ziamento del fratello. La sua firma sembra un rigo nero con cui lo cancella dalla pro-pria vita.

A 46 anni Sanseverino Michele fu Ciccillo è come se fosse anche fu Vito. Rico-mincia da capo. Da solo. Da niente. Vorrebbe seguirlo un operaio della ditta, ma Mi-chele ci tiene a mostrare che da quel pezzo di storia non si porta via niente: forse sol-tanto una scatola di ricordi, ma anche quella da aprire a suo tempo.

Nel suo studio (per modo di dire: lo studio adesso è una stanza della casa) Michelelubrifica il progetto dei suoi verricelli idraulici fino a farli scorrere più veloci e ineso-rabili del tempo. Bisogna fare in fretta: non c’è più uno stipendio. Al suo posto,l’orgoglio con cui rifiuta l’offerta di Vito di tornare a collaborare con la vecchia azien-da di famiglia a percentuale.

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È sicuro al cento per cento di riuscire? Di farcela da solo? Forse no, ma come alsolito Michele Sanseverino punta tutto sulla vecchia formula: talento + coraggio +utopia: una piccola officina a Triggiano, tre operai, e tutti i fine settimana a collauda-re la sua invenzione in giro per l’Italia. Che poi dire Italia non è esatto, è troppo op-pure troppo poco, perché il mare è sempre lo stesso mondo (un mondo a parte), e ipescatori hanno dappertutto lo stesso modo (un modo a parte).

Sui loro pescherecci Michele passa giorni lunghi e notti corte, un po’ perché lavita in mare inizia all’alba e un po’ perché l’emozione non lo lascia dormire: i pesca-tori benedicono i suoi verricelli più di quanto benedicano l’immaginetta della Vergi-ne incastonata nel pozzetto, e ogni volta che qualcuno gli sorride lui ritrova il sorri-so di suo padre. Il mare è una cornice dorata intorno alla foto che li ritrae di nuovoinsieme.

Ce l’ha fatta di nuovo, Michele Sanseverino? Sì, ma questa è una storia d’acqua,e l’acqua arrugginisce anche i chiodi con cui si cerca di fermare il tempo. Appena gliaffari cominciano a marciare, un’altra marcia (marcia di guerra) irrompe cupa e sini-stra nella vita di Michele: il conflitto del Kosovo blocca le attività di pesca in Adria-tico, dove si concentravano le migliori opzioni di mercato per Sanseverino. I suoi ver-ricelli sono costretti a fermarsi. Anche se poi, quando riprenderanno a girare, non sifermeranno più: «Li abbiamo fatti troppo bene! Ancora adesso, dopo più di dieci an-ni, chiamiamo per la manutenzione e ci rispondono: non ce n’è bisogno! Vanno allaperfezione!».

Cos’è la soddisfazione, per Michele Sanseverino? Un capitale da investire. Se ilmercato della pesca si ferma, lui deve per forza ripartire, trovare un nuovo problemada risolvere. Nel mondo della meccanica industriale, d’altra parte, i problemi nonmancano. Quello della Bosch di Bari (lo stabilimento che in pochi anni ha raggiuntodue opposti primati: essersi inventato la tecnologia common-rail e aver mandato in cas-sa integrazione oltre il 70% dei suoi operai) consiste soprattutto nel pulire gli impiantidai residui oleosi: una questione di funzionalità, di salvaguardia ambientale, ma an-che economica, dal momento che filtrare le scorie costringe a un continuo ricambioidrico, con pesanti ricadute sul processo produttivo.

Bosch è un gigante e si rivolge a un altro gigante, una multinazionale americana

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leader mondiale nella fornitura di prodotti e sistemi per la filtrazione, separazione epurificazione di soluzioni. Ma c’è soluzione e soluzione: quella degli americani nonvale granché, e proprio non vuole saperne di funzionare.

Per Sanseverino, chiamato dai tecnici dell’azienda tedesca a visionare la macchi-na approntata da quella americana, non è una sorpresa: se quell’ammasso di plasticae metallo avesse un odore, si potrebbe dire, già annusandolo, che Michele sente puz-za di bruciato. Non dice niente, ma dentro di sé sa benissimo che l’ingranaggios’intaserà al primo filtro. E l’ingranaggio, puntualmente, s’intasa.

Eccolo qua, il talento: c’è chi lo manifesta componendo sinfonie sublimi, o dipin-gendo squarci visionari, e chi lo esprime intuendo al primo colpo – senza una formu-la, uno schema, una teoria – che un processo oleodinamico è destinato a incepparsi.Mica è solo musica, pittura, poesia, il talento: nel caso di Sanseverino Michele fu Cic-cillo è una naturalezza della meccanica che parla, che comunica, e che lui, distintamen-te, sente.

Per fortuna, Michele sente anche sua moglie quando gli dice di studiare, di cer-carla lui, la soluzione. Ché se anche i libri di fisica sembrano non consentirla, lui lapuò trovare. Lei lo sa che lui la può trovare: Michele sente e vede la naturalezza del-la meccanica.

Per vederla meglio costruisce un prototipo dal cilindro in plexiglass, dietro al qua-le analizza a vista i flussi d’acqua e olio. Anche i tecnici della Bosch, quando Sanse-verino si presenta a Modugno per il test, assistono di persona alle alchimie inventateda Michele: per degli uomini di logica come loro si può anche non credere in Dio, madubitare dei propri occhi è un evento soprannaturale, un vero e proprio miracolo.

Il miracolo realizzato da Michele Sanseverino consentirà di raddoppiare la pro-duzione e di migliorare con un rapporto di uno a venti i processi di manutenzione:con il nuovo macchinario, l’acqua che normalmente veniva cambiata ogni tre gior-ni potrà essere mantenuta per due mesi: «se non è un miracolo questo!», dicono allaBosch.

Il nome di Michele, del resto, è il nome di un santo. E se in Germania avessero sa-puto che, prima di essere venerato tra Foggia e Frattamaggiore, nel V secolo san Se-verino fondò monasteri in Baviera, forse non avrebbero considerato così straniero il

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suo cognome. Come se nascere al Sud non fosse di per sé uno scotto, c’è invece dapagare un’altra tassa al meridionalismo: la Bosch acquisisce il brevetto, ma il futurodi Michele non sarà nella compagnia tedesca.

Il nostro ingegnoso resta in Puglia. Ma anche da fermo, ogni volta, riparte. Nonsi lamenta di niente, eccetto della denominazione aziendale: «Fluidotecnica Sanseve-rino è troppo lungo! Ci si sbaglia a scrivere l’indirizzo nelle mail!».

Sarà per un errore di battitura che quando Michele chiede sovvenzioni alle ban-che o finanziamenti alla ricerca non ottiene risposta? No: è che questo mondo è fat-to di computer senza tastiere. Gli tocca convincere anche l’ingegnere Laforgia, oggirettore all’Università di Lecce. Ma quando lo studioso analizza i parametri della na-scente Oilsep Cc Ecology, non può che rendersi conto che «il praticone», come Mi-chele si autodefinisce bonariamente, è un genio: tra i due nasce la stima e la collabo-razione.

Nel piccolo laboratorio della Fluidotecnica, dividendosi tra il microscopio e gli as-semblaggi, Sanseverino appronta varianti al suo modello di separazione, fino a ren-dersi conto delle possibilità enormi della macchina. La Oilsep Cc Ecology, nata dalprototipo studiato per la Bosch, può davvero rivoluzionare i processi oleodinamici:non solo migliora gli standard produttivi, ma elimina l’inquinamento delle industrie,delle piattaforme petrolifere, delle navi cisterna, e fa fronte alle sempre più frequen-ti offese all’ambiente marino.

Come se alludesse a un dialogo ininterrotto con suo padre, Michele dice che il suodiscorso lo riconduce sempre al mare. Dopo tre ore di conversazione, la parola che haripetuto più frequentemente non è flussaggio, filtro o serbatoio, ma ancestrale.

Lui stesso ne rimane stupito: in piedi davanti al capannone, riparandosi dalla piog-gia solo con un leggero cappuccio, quest’uomo in procinto di partire ogni settimanaper la Nigeria, per l’Oman, per gli angoli del mondo sempre più interessati alle suescoperte, accoglie il suo successo con naturalezza, come se non lo riconoscesse. Maquando guarda in faccia il suo passato, la sua storia, la sua memoria resta per qual-che attimo interdetto.

«Non ho molto da raccontare», aveva premesso. Ora lui stesso sembra sorpreso diquante cose ha detto. Ma soprattutto di quante cose ha fatto. È solo un momento,

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però: più che a quello che ha fatto, Michele Sanseverino preferisce sempre guardarea quello che farà.

«Lo vede?», dice indicando un campione di liquido torbido, come se fosse acquabenedetta. «È acqua di vegetazione. Ora voglio provare a separare anche questa, alavorare per lo sviluppo agricolo della mia regione. Della mia terra».

Forse sta per pronunciare ancora la parola ancestrale. D’altra parte, lasciandoci al-le spalle la Fluidotecnica Sanseverino, sospinti dall’abbaiare di un cane, in questoorizzonte di cielo e cemento, niente più di questo antico arnese chiamato uomo – conil suo ingegno, la sua memoria, la sua poesia – ci appare l’unica macchina capace difar funzionare il nostro futuro.

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Daniele De Michele alias Donpasta

SafeWheat

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Questa storia è liberamente ispirata alle vicende del gruppo di ricerca spin-off SafeWheat.

Spin-off del Cnr, SafeWheat ha recentemente vinto il primo premio della Start CupPuglia 2008, iniziativa promossa dalla Regione Puglia, con l’obiettivo di valorizzarela ricerca prodotta negli atenei e nei centri di ricerca pugliesi. SafeWheat è l’idea diimpresa nata dalla collaborazione tra l’Istituto di Scienze delle produzioni alimenta-ri (Ispa) del Cnr di Bari e la Barilla, che intende garantire una maggiore sicurezzanella filiera cerealicola attraverso due metodologie innovative, e le relative strumen-tazioni analitiche, per la determinazione di una microtossina – il deossinivalenolo – edi un fumigante – la fosfina – presenti in cereali e prodotti derivati. Le metodologieche SafeWheat propone, costituiscono una valida alternativa ai metodi comunemen-te utilizzati per la valutazione della contaminazione da queste sostanze, al fine di ri-spettare i limiti fissati dalla legislazione vigente e garantire la salute del consumatore.

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PERSONAGGI

Un grande pastificio deve risolvere un problema di sicurezza alimentare. Si guardaintorno. Il miglior luogo a livello europeo cui rivolgersi è un centro di ricerca pub-blico, l’Ispa di Bari, struttura interna al Cnr. Una società privata, grande, capisce chesolo nella ricerca, e solo in quella pubblica ci sono le condizioni... per cercare solu-zioni nuove. Perché appunto si ricerca.

Un dirigente arguto, oltre che ricercatore affermato, ha lungimiranza sufficienteper costruire un polo di ricerca che fa innovazione. Si pone due questioni. Come farreggere alla ricerca pubblica l’urto delle precarietà che torturano le generazioni nuo-ve e di un sistema di fondi sempre più complicato e avaro? Risposta: costruire parte-nariati con grandi imprese e permettere di far crescere al proprio interno progetti eco-nomici basati sulle potenzialità enormi della ricerca pubblica. Uno spin-off del Cnr.Una piccola società di ricercatori del Cnr, pagati dal Cnr, che fanno ricerche nel Cnr,mamma che protegge e che insegna a spiccare il volo.

Un manipolo di ricercatori o guerrieri della contemporaneità che dir si voglia. Stu-diosi testardi che capiscono che la ricerca pubblica fatta bene, permette di inventare,inventare anche una soluzione economica, una prospettiva nella valle di lacrime del-la ricerca, del lavoro che non è mai certo, dei contratti che sono a scadenza, come loyogurt, e che rischiano di inacidire chi c’è dentro. Loro hanno inventato, brevettatoe fatto impresa. I risultati ci sono e sono importanti. Il partenariato dà origine a unainvenzione. Un brevetto che può far nascere un progetto economico.

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IL CONCETTO DI INNOVAZIONE E L’INVENZIONE DELLA PARMIGIANA DI MELANZANE

SafeWheat è la storia di una impresa compiuta da quattro giovani che sintetizzain sé la complessità della società attuale. Le sue incoerenze e difficoltà. La fantasia nelvenirne a capo. Li ho conosciuti. Uno ad uno. Compongono un puzzle alla base diuna esperienza importante: inventare qualcosa. Sono cocciuti, coraggiosi, pieni dienergie. Inventano soluzioni. Hanno trovato qualcuno che li aiuta a fare le scelte giu-ste per portare avanti il loro progetto. Parlando con loro capisco perché c’è una pa-rola per descrivere un progetto economico e al contempo una opera ardita e difficileda realizzare. La parola in questione è: impresa. Perché è una difficile impresa far na-scere e vivere un’impresa.

Servono idee nuove per far venir fuori qualcosa che prima non c’era. Risponderea una necessità che è nell’aria. Poi c’è il cacciatore di farfalle che fiuta il vento e conil retino le acchiappa nell’aria. Solo lui le può vedere. Forse perché ha occhiali scuriquel giorno. Forse perché ha fatto una bella passeggiata con la donna che ama e sisente ispirato. Magari è un fervente lavoratore e cerca, cerca, gira attorno, gira at-torno. Poi... acchiappa. E fa nascere una idea. E ad un tratto la gente si accorge cheforse era ciò che in un certo senso era effettivamente sulla punta della lingua, era ildesiderio che girava nei pensieri ma che non aveva un nome. E il cacciatore di far-falle nell’aria, ha fiutato il vento, che portava i desideri e inventato la pozione magi-ca. Quella che serviva a tanti. Forse tutti.

Basta pensare a cosa è ora il mondo con internet. O cosa ha significato l’invenzionedella parmigiana di melanzane. Eppure le melanzane si mangiavano anche prima.Una volta la posta impiegava magari mesi, anni, per recapitare un messaggio d’amoretanto atteso. Lasciamo perdere che nel frattempo quel messaggio d’amore non loaspettavi più. Ma, infine, arrivava. Con l’avvento di internet, a meno di malfunzio-namenti della rete, il messaggio d’amore arriva con un click, semplice, veloce. D’untratto ci domandiamo allora che funzione svolgesse il piccione viaggiatore. Ma sino apoco prima era l’unico modo per fare arrivare il messaggio. Almeno se il piccione co-nosceva il destinatario. Più complicato era con un foglio in una bottiglia lanciata in

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mezzo al mare. In tal caso il destinatario si chiamava, appunto, Destino e non era co-sì certo che arrivasse puntuale all’appuntamento.

Insomma, prima si viveva tranquillamente con melanzane semplicemente arrosti-te. Poi una bella contadina, svegliata dopo un buon sonno in un giorno di domenica,per offrire un sorriso al marito marinaio, tornato dal mare, ha pensato che uno stra-to di melanzane intervallato da sugo, mozzarella e parmigiano, avrebbe reso com-plesso e più gustoso un piatto semplice. Da quel giorno il mondo non è più stato lostesso. Quattro elementi separati − ingredienti che da sé valgono un pasto incante-vole − si fondono dando vita a qualcosa di cui non si può più fare a meno. Vale perinternet come per la parmigiana.

Ecco perché parlare di SafeWheat è interessante. Perché da elementi semplici na-sce una risposta complessa che prima non esisteva. Perché cambiando le dosi, un dol-ce può essere molto buono o assolutamente indigesto. Questo, tenderei a pensare, èil concetto di innovazione.

Schumpeter, forse il più importante elaboratore del concetto economico di innova-zione, mangiando la parmigiana è arrivato alla conclusione che: «Ogni produzione con-siste nel combinare materiali e forze che si trovano alla nostra portata. Produrre altrecose o le stesse cose in maniera differente, significa combinare queste cose e queste for-ze in maniera diversa». E, sempre a proposito della parmigiana, che: «l’innovazione èquella distruzione creativa che rompe un equilibrio, costruisce selezioni».

Da allora una semplice melanzana arrostita è vista come una volontà nichilista divoler a tutti i costi restare leggeri. Perché non friggere, magari passando con uova efarina la melanzana? Non per altro, ma cuochi e scienziati concordano perché dietrouna ricetta o una invenzione c’è un sostrato di conoscenza, una tecnica acquisita e unelemento geniale. Quello che fa dire alla nonna che, friggendo con uova e farina, l’oliodella frittura non viene poi rilasciato in cottura nel forno, e la parmigiana appariràdunque più... leggera.

D’altro canto andate a chiedere ad Einstein se stesse semplicemente combinandoelementi conosciuti o piuttosto scompigliandoli. Distruggere per creare.

In economia un altro geniaccio, Keynes, definiva animal spirit quel fiuto tutto uma-no che faceva vedere all’uomo vero dell’economia i soldi lì dove ancora non c’erano.

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Non perché gli animali avessero più senso degli affari dell’uomo. Benché anche suquesto si può dibattere perché l’uomo, al contrario degli animali, può morire di fame.

Keynes pensava con questa definizione a quella qualità assolutamente irraziona-le, quella fiducia cieca nell’intuito. Solo l’uomo è capace di trasformare l’intuito in in-novazione. Un esempio sintomatico dei mutamenti del tessuto economico attraversole innovazioni possiamo vederlo nella Silicon Valley in California. In quel luogo so-no nati i più grandi progetti informatici che hanno cambiato la qualità della vita del-la gente e fatto diventare ricco chi quella innovazione l’ha fiutata nell’aria, come Ap-ple, Google, etc.

Da trent’anni a questa parte, nella nuova economia americana, quella della SiliconValley, l’innovazione crea nuove ricchezze e spazza le vecchie. Le nuove sono fruttodi una invenzione di qualche giovane, spesso un nerd, un occhialuto e un po’ sfigatochiuso in una stanzetta a fare programmi, calcoli, mangiando pessime pizze. Ma in-venta qualcosa perché la nuova economia che verrà fuori ha urgenza di innovazioniche superino ciò che è stato. Che velocizzino la comunicazione. Nella nuova econo-mia la televisione, ad esempio, non esiste. L’informazione è condivisa, non imposta daun magnate che decide arbitrariamente il concetto di informazione.

Sempre per Schumpeter, l’imprenditore è l’innovatore, quello che introduce nuo-vi prodotti, sfrutta le innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le moda-lità organizzative della produzione.

Per farlo non ci vorrebbero «ostacoli stupidi». Si ha a che fare invece con ostaco-li stupidi frutto di pratiche vecchie, di uomini invecchiati e che fanno invecchiarespesso le generazioni nuove, ingrigite dalle angosce del non avere nulla, dal non ri-cevere risposte al proprio curriculum vitae risultato di tante dure esperienze, maturatetalvolta in giro per il mondo. Un italiano all’estero è apprezzato ovunque. Un italia-no in una società estera è svelto, mette il buonumore, è preparato ed elastico. Non habisogno di bassezze e furbizie. Nessuno fa furbizie e bassezze, o pochi.

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L’INCONTRO CON I DUE SCIENZIATI. ANTONIO E GIUSEPPE

Loro sono il motore della società. Uno lavora principalmente in laboratorio. L’altro,il presidente, è dietro la scrivania. Il terzo lo incontrerò separatamente: ormai entra-to nel mondo certo dell’Università ha dovuto ridurre la sua partecipazione al proget-to che aveva fortemente contribuito a creare.

Chiedo ad Antonio di raccontarmi un po’ la storia di SafeWheat

Siamo tre ricercatori chimici che lavorano al Cnr, in un istituto di sicurezza alimen-tare abbastanza importante nel panorama scientifico. Qualche anno fa abbiamo par-tecipato, come unità coordinatrice, ad un progetto di ricerca sul grano duro. È natal’idea comune di brevettare alcuni di questi risultati, tra cui due prototipi. Nel 2001-2002, un grande pastificio ci chiese di sviluppare dei metodi rapidi di intercettazionedelle microtossine. Loro agirono di anticipo, perché erano consapevoli che a livellocomunitario sarebbe emersa una regolamentazione in proposito. Cosa che poi è av-venuta nel 2006. Il progetto è durato tre anni e mezzo. Le sinergie sono cresciute, siè creata una coesione che fa sì che la collaborazione continui tutt’oggi. Noi siamo lo-ro consulenti sia come Ispa, sia come SafeWheat.

Quando è nata esattamente la società?

SafeWheat è nata nel novembre 2008. Abbiamo vinto il concorso dell’Assessorato al-lo Sviluppo economico della Regione Puglia che finanziava cinquanta idee di impre-sa. Ci siamo costituiti come impresa un po’ di fretta, perché soltanto così ci finanzia-vano. Abbiamo dovuto velocizzare i tempi, ma l’idea è che i partenariati con le gran-di imprese del settore agroalimentare crescano il più possibile.

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Sembra sempre più evidente che la nuova economia passi spesso attraverso innovazioni che ten-dono a modificare profondamente il concetto di impresa. Questi esperimenti di ricerca pubblica cheentra nel privato sembrano una strada interessante. Quale è il rapporto tra SafeWheat e Cnr?

In generale sono tantissimi gli spin-off nati in seno al Cnr. Ne abbiamo avuto la ri-prova al Premio nazionale dell’innovazione, dove molte realtà venivano proprio dalCnr. Da un punto di vista contrattuale, al momento il Cnr ci ha concesso per questaimpresa rispettivamente due mesi e tre mesi l’anno per farla nascere. L’idea che ab-biamo è di cercare di arrivare ad un certo fatturato e di assumere qualche giovane vo-lenteroso pronto a lavorare in un campo che richiede competenze molto complesse.Per ora abbiamo assunto con un contratto di collaborazione una ragazza esperta dibiotecnologia. Il nostro progetto è che l’azienda dovrà camminare da sola con le per-sone che formeremo. Le figure che entreranno dovranno avere competenze diverse.

Come vanno le cose? Avete resistito alla crisi?

Ora siamo in una situazione di stand by. C’è un problema sui brevetti. Una societàamericana rivendica la paternità dell’idea, anche se non hanno un prodotto. Stiamofirmando un agreement per poter commerciare il nostro strumento con la rappresen-tante italiana di questa ditta americana. Il nostro committente sarà il nostro primocliente, avendo già riservato un tot di macchine. Inoltre è possibile che suggerisca atutto il suo indotto (mulini, fornitori, etc.) di controllare il proprio grano in questa ma-niera. Questo perché attraverso il nostro strumento hanno una risposta in dieci mi-nuti, a basso costo, facendo tale operazione al proprio interno, senza la necessità didover far fare le analisi fuori, con evidenti problemi di tempi e di logistica. In terminidi costi rende facile la cosa un po’ a tutti. Le aziende si stanno muovendo, anche per-ché sono costrette a darsi da fare per rispettare i criteri di regolamentazione, il che èun vantaggio per noi. Devono essere certe che le procedure che adottano siano affi-dabili. Inoltre, grazie alle nostre competenze nel settore delle microtossine, possiamosvolgere molte attività per le aziende agroalimentari. Le assistiamo nella presentazio-

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ne di progetti, per la partecipazione a progetti pubblici, abbiamo con loro dei contrattidi consulenza per i quali facciamo ricerca. Ma è indubbio che per ora sopravviviamoperché siamo impiegati dal Cnr... e perché... rubiamo un po’ del tempo a noi stessi.

Come si è costruita l’équipe di SafeWheat? Come vi organizzate il lavoro?

ANTONIO: Come già detto, Metal lavora ora all’Università e ha dovuto ridurre il suoimpegno, per cui siamo io e Giuseppe gli attori principali. La dottoressa Ville è lau-reata in Economia e commercio e si occupa della parte commerciale. Abbiamo diecianni di differenza. Giuseppe, nove anni fa veniva in Istituto a vendere prodotti. Mipiacque e poi io non sopporto che un laureato in Chimica non possa fare ricerca e siaobbligato a fare il venditore. A lui piaceva il mondo della ricerca e io gli proposi divenire qui.

GIUSEPPE: Ora mi sento nel luogo giusto per fare le cose che mi piacciono. Ma nonrinnego il periodo in cui lavoravo nel settore della vendita. Permette di vedere da unpunto differente il nostro settore e di avere un minimo di competenze diverse.All’Università conoscevo poco il mondo esterno. Mi sono trovato bene. Sono ancoraqua, paradossalmente con meno soldi rispetto a quelli che avevo prima. Peraltro, for-malmente non sono un ricercatore. Nella pratica, faccio quello che dovrebbe fare unricercatore. Sono nella famosa procedura di stabilizzazione dei ricercatori, con lapaura che si blocchi. Con Metal invece c’è un rapporto storico che ci lega da venti an-ni. Abbiamo fatto il Liceo e l’Università insieme, ci siamo laureati lo stesso giorno.Poi siamo andati a lavorare in posti diversi e ora ci ritroviamo nella stessa azienda.Guarda tu il caso.

La partenza di Metal, i problemi di stabilizzazione della posizione di Giuseppe mostrano quantisiano gli ostacoli che incontrano le nuove generazioni, anche di fronte ad un progetto che è verosi-milmente un progetto ambizioso. Come vi organizzate?

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ANTONIO: Purtroppo si deve tenere conto che non si può seguire un percorso logico.Il fatto che Metal sia partito ha complicato le cose. Metal si è occupato di tutte le car-te. La società l’ha creata lui e lui è stato presidente per qualche mese. Ci vuole moltabuona volontà e tanta capacità di improvvisazione di fronte alle varie problematicheche emergono in un progetto nascente. Sicuramente il nodo su cui basare il lavoro èla coordinazione tra noi. Bisogna agire sempre contemporaneamente.

MADAME VILLE. RESPONSABILE DELL’AREA COMMERCIALE DI SAFEWHEAT. MADRE DI DUE BAMBINI. FREE LANCE

La contatto per telefono. La figlia sta male e non può partecipare alla riunione connoi. Ecco un altro esempio di cui tenere conto. Le donne e mamme al lavoro. Nientefacilita la loro vita e quelle dei piccoli.

Come sei entrata in SafeWheat?

Io sono entrata dall’inizio della elaborazione della idea. Non sono un tecnico. Tra levarie attività che svolgo, collaboro con il Cnr. Generalmente quello che faccio èl’implementazione di progetti con le imprese. Stavo seguendo un progetto di trasfe-rimento tecnologico PMI. Il direttore dell’Ispa conosceva le mie competenze e michiese di far parte dell’iniziativa. D’altro canto sono il tipo di persona che si lancia inprogetti come questi. Mi piace provare. Era interessante e complessa la dinamica, ilbrevetto, lo spin-off. Era una sfida assai stimolante. Quando mi è stato proposto dientrare nella società, allora non mi sono tirata indietro. Peraltro, l’equilibrio tra noisi fece senza grandi problemi. È più facile entrare in sintonia con gente che conoscipoco. Ci siamo trovati bene da subito. C’è molto coinvolgimento e una comunicazio-ne circolare. Ci diciamo sempre tutto, c’è trasparenza nei rapporti.

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Quale è il tuo ruolo nella società?

Essendo tutti ricercatori, avevano bisogno di qualcuno che potesse capirel’aziendalese, capire alcune dinamiche al di là dell’aspetto amministrativo. Io ho avu-to diverse esperienze nella gestione aziendale e nei rapporti di consulenza. Ho un ap-proccio quasi manageriale. Nella fase di start up presso Tecnopolis ho contribuito al-la redazione del business plan. Ho curato insieme agli altri la presentazione del pro-getto al Festival dell’Innovazione. Sono pronta a curare la fase di marketing. In que-sto momento siamo fermi per questo problema legato al brevetto. Strategicamente iotenderei a muovermi subito. Andrei rapidamente a risolvere la questione brevettua-le, chiaramente nei limiti del possibile. Se si sblocca dobbiamo essere pronti e fare unaccordo con l’agente internazionale in modo tale che anche noi iniziamo nel nostroambito attraverso una serie di servizi, legandoci con il nostro grande committente. Sipossono sviluppare altri progetti, diventando consulenti. In genere mi occupo di pro-getti finanziati, quindi saprei come muovermi per cercare progetti per SafeWheat.

Cosa ti piace di più di questa esperienza?

Loro hanno una formazione molto diversa dalla mia. Per me è molto stimolante. De-vo trovare una sorta di dialettica. Nel mondo dell’impresa è chiaro che io avrei ten-denza a velocizzare tutto, loro hanno i tempi tecnici e scientifici.

Che ne pensi dei progetti di spin-off del Cnr? Sono un modello economico interessante?

Il rapporto con Barilla non ci sarebbe stato se non ci fosse stata una struttura capa-ce di fare quel tipo di ricerche. Con la «mamma Ispa» e il suo direttore che ci ha tra-ghettati, è effettivamente una sfida ma anche una opportunità a sperimentare altreforme nuove di impresa. Queste nuove creature della ricerca non possono nascere in

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altri ambienti, sia per le tecnologie che sono a disposizione sia per le competenze. Ingenerale è fondamentale vivere in contesti fertili di idee.

Come vedi questo momento storico per le nuove generazioni?

Penso che i processi di riforma siano importanti, ma il problema è che in generale nonvedo segnali di serietà. Sono un po’ sfiduciata. Non vedo ricambio generazionale. Iocredo che bisogna rimboccarsi le maniche.

Come vivi la realtà di mamma e libera professionista?

Negli ultimi due anni mi sono calmata molto, con due bambini, anche se ho conti-nuato lo stesso a lavorare. Chiaramente è una fase un po’ limitante. Se ti organizzi egestisci il tempo bene non ti senti ostacolata. Devi pensare ad essere molto concretae si acuisce la necessità di lavorare in ambienti stimolanti. Ad ogni modo, per me, illavoro deve rappresentare una evoluzione, non una garanzia, e questo lo fai anche sehai dei figli. I bambini crescono lo stesso.

METAL

Metal è il creatore del progetto. Paradossalmente le condizioni di precarietà contrat-tuali in Cnr lo hanno obbligato a cercare sicurezza altrove. Ora è ancora associato alprogetto ma non è più presidente.

Come hai contribuito alla nascita di SafeWheat?

Dal progetto con il grande pastificio vennero fuori una serie di risultati che furonosubito registrati, essendo noi consapevoli delle loro potenzialità commerciali. L’idea

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era che si potesse sfruttare il brevetto stesso. Una delle due invenzioni era stata mes-sa a punto da me, l’altra da Giuseppe. Chi si è più occupato della costruzione del pro-getto sono stato io. Soprattutto della stesura di un business plan, con la proiezione di5 anni. Avendo vinto lo Start Up, siamo stati spinti a creare la società. Io ho rivesti-to la carica di presidente. Solo che poi sono stato assunto come ricercatore e non po-tevo avere cariche sociali all’interno della società. A me è un po’ dispiaciuto, maall’epoca ero quello che viveva la situazione di maggior precariato. Ho avuto perquattro anni l’assegno di ricerca al Cnr. Vedevo in questo progetto qualcosa che po-teva permettermi di andare avanti. È bello che gli altri soci ci stiano riuscendo. Quan-do posso ci vado anche io. Ma per me attualmente è difficile dare di più. Quest’annoviene fatto il bilancio e sicuramente saremo in attivo. Abbiamo potuto pagare una per-sona che lavora con noi. È fonte di orgoglio.

Come vedi gli spin-off nella ricerca pubblica? Sono una via di uscita dalle difficoltà per chi ci la-vora o un elemento di rischio per la ricerca?

Diventa difficile trarre profitti da enti pubblici di ricerca. Lo spin-off è uno strumen-to più snello e permette di muoversi in modo più autonomo. Il Cnr aiuta, e permettedi mantenere una società con costi irrisori. È un bene che ci siano i fondi regionali. Èpiù facile che la società possa crescere. SafeWheat risponde ad una domanda del mer-cato. Effettivamente i soldi per la ricerca di base non esistono più. È impossibile pen-sare di fare ricerca di base. Per fortuna la ricerca applicata trova sbocchi.

Sei un po’ la vittima di questa storia. Ma anche l’équipe e il progetto pare abbiano risentito del-la tua partenza. Come far fronte alle difficoltà?

Attualmente la situazione nel mondo del lavoro complica le cose. È come nella miaband musicale di cui sono batterista. Abbiamo cambiato un sacco di volte la forma-zione. Le persone erano costrette ad andare via per cercare lavoro. Il fatto che si ven-

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gono a creare situazioni come queste non rende facile andare avanti. Devi trovarefondi e strategia, e non sono neanche sicuri.

CAVALIERE SOLITARIO

Si continua con i paradossi. Abbiamo bisogno di giovani che facciano innovazione.Ma servono gli ambienti giusti per farla. Serve un visionario. Un lungimirante. Unoche sappia vedere come dirigere la nave verso la scoperta dei tesori. E che lo facciaper il bene di chi ne profitterà dopo di lui. Questo «uno» in questa storia è il diretto-re dell’Istituto di Scienze delle produzioni alimentari (Ispa) di Bari e presidentedell’Area della Ricerca del Cnr di Bari.

Cosa l’ha spinta a orientare il centro di ricerca verso il partenariato con il settore privato?

La prima necessità è stata proprio non disperdere le forze di questi giovani che si so-no formati dentro. La priorità era trovar loro un futuro possibile. Assumerli, se fossestato possibile. Altrimenti metterli nelle condizioni di far crescere un progetto che di-ventasse poi autonomo. Far diventare il Cnr un incubatore. Dargli le chiavi, in fon-do. Non che ci volessimo liberare di loro. È così difficile riuscire a garantire un futu-ro certo. Hanno figli. Hanno ormai superato da un pezzo i trent’anni e ancora pochecertezze. Uno di loro è stato assunto all’Università, per fortuna. È quasi un terno allotto.

Quale è stato il contesto che ha permesso la nascita di un progetto del genere?

Nel caso specifico è stato il rapporto stretto tra noi e la grande impresa. Il rapportoperaltro ancora continua. In quel contesto i ragazzi hanno imparato a lavorare a brac-

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cetto con l’impresa. C’è stata una condivisione delle attività reciproche. I nostri ra-gazzi hanno lavorato con loro.

Orientando la ricerca in direzione della «domanda» che viene dal mercato, non si rischia di per-dere di vista il senso ultimo della scienza che è il cercare?

Non dimenticando che dalla ricerca di base vengono grandi risultati a lungo termine,da tempo la politica del nostro istituto è quella di orientarci molto sulla ricerca pri-vata e applicata. Abbiamo quasi la tendenza a seguire la domanda. La questione del-la legislazione era imminente. Lo facciamo come ricerca pubblica, sapendo che faràanche il bene del settore privato. E così il ricercatore entra nel mondo del mercato.Per ora loro restano comunque ricercatori Cnr. L’innovazione nasce qui dentro. Lo-ro però possono muoversi sempre più facilmente con altre imprese per fare innova-zione nel settore specifico. Il settore privato non è la strada unica ma resta una stra-da da non tenere chiusa.

Quale è stato il processo di costruzione del progetto SafeWheat?

SafeWheat è un ibrido. Un esperimento tra due mondi che spesso sono diffidentil’uno dell’altro. Il ricercatore inventa e pubblica, cioè condivide. L’impresa inventa evende. Il ricercatore pubblica per far avanzare la conoscenza. I suoi tempi sono quel-li lunghi di un sapere diffuso. I tempi del privato sono brevissimi. Inventi e arrivi pri-ma degli altri. L’idea è di far prendere piede a questo progetto. Farlo diventare pro-getto di impresa. Generare un figlio che sappia poi camminare da solo nel mondo pri-vato. C’è stata una scoperta interessante qui dentro. Questa scoperta poteva esseresfruttata all’interno della struttura, ma anche all’esterno, sfruttandone le sue poten-zialità. I nostri ricercatori, Metal, Antonio e Giuseppe sono il ponte tra il pubblico,noi e l’impresa, come servizio e come vendita, come anche tra il pubblico el’agricoltore. Non è mai facile la strada. I problemi non mancano, ma credo che riu-

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sciranno ad andare avanti, perché l’interesse del privato c’è. Le energie ci sono. So-no tutti molto dinamici. Alcuni di loro, come Giuseppe e Madame Ville avevano giàlavorato nel privato. Noi crediamo che se SafeWheat dovesse prendere il volo, sa-rebbe una grande opportunità per i nuovi ricercatori, che conservano certamente unlegame con noi del Cnr, ma avrebbero la possibilità di lavorare in SafeWheat. La -vorare per elaborare nuove tecnologie, usando questo brevetto o sviluppando altrimetodi.

CONCLUSIONE

Insomma. In Italia emerge che sono tempi grami e mancano spesso le condizioni percombinare le cose diversamente, come direbbe Schumpeter. Mi si potrà dire: ma chebisogno c’è di combinare diversamente? Una innovazione nel mercato crea un valo-re di mercato. Una innovazione di un pensiero fa progredire il pensiero collettivo. Cisono periodi in cui tutto gira velocemente e le innovazioni cambiano radicalmente lasocietà. Si creano innovazioni che spazzano ciò che c’era prima, tanto più se quel pri-ma è stagnante, annichilente.

Esiste un mondo come lo si è vissuto nel dopoguerra. Quello non esiste quasi più.E allora è un tira e molla. Una volontà generalizzata di conservare ciò che c’era. Im-magini un po’ stinte di foto di famiglia. E poi c’è questa marea di generazioni nuoveun po’ confuse. Spesso confuse dai comportamenti dei più grandi. Che sembrano ainostri occhi dei bambini che non lasciano il giocattolo. Che non lo vogliono lasciaree sbattono, sbraitano, te lo sfilano di mano. E la generazione nuova non ha la libertàdi giocare con il giocattolo delle innovazioni perché lo spazio è preso dai grandi bam-bini con il loro cubo di Rubik.

Quindi, le innovazioni in Italia non ci sono. Non c’è ricambio. I ragazzi partonocarichi di saperi ma con scarso curriculum. Sono accerchiati. Il mondo del lavoro hasmesso di cercare la qualità della risorsa umana. A/soggetto. Assoggettato dalla poli-tica non si accorge della bellezza dei suoi figli e spegne la luce alla innovazione.

Per innovare, ci devono essere le condizioni. La mente libera, sgombra dalle pau-

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re di futuri grami. L’otium romano prevede che il miglior momento per avere idee èquando si pratica l’ozio. Ma non è tempo. Bisogna costruire innovazioni in uno sta-gno, dove la massima energia si spreca a remare con pesanti fardelli e non a guarda-re il cielo, le stelle.

In Italia no. Perché le elasticità non possono esistere. È un rimboccarsi le maniche. SafeWheat lavora nei mulini contro i mulini a vento dell’economia malata italiana. Giocando con uno scioglilingua, SafeWheat è uno di quei progetti che esplora il

mondo dell’innovazione portata avanti da precari della ricerca pubblica che per cer-care di uscire dall’impasse di scelte politiche che annullano la ricerca pubblica in-ventano spazi di mercato privato facendo forza sulle conoscenze possibili solo graziealla ricerca pubblica.

I vari personaggi che compongono questa impresa hanno una storia personale checondiziona la storia di SafeWheat. È un momento particolare in cui il privato, la pro-pria vita, entra in ballo nel mercato del lavoro. Le difficoltà dell’economia mondialecondizionano le scelte di vita. Rappresentano con le loro vite le tante vite delle nuo-ve generazioni. Il risultato è un progetto innovativo, difficile e creativo. Una vera im-presa.

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Nicola Lagioia

La Puglia imPasta

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Questo racconto è liberamente ispirato alla storia del Pastificio Benegiano.

Fondato nel 1870, il Pastificio Benegiano ha saputo coniugare una lunga tradizioneartigianale con gli orientamenti di consumo salutistici attraverso la produzione di pa-ste di farina di farro o canapa. Con le sue basse quantità prodotte e metodi di produ-zione artigianali riesce ad offrire una varietà di pasta ad essiccazione naturale checonserva al meglio le qualità organolettiche del prodotto.

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Soltanto adesso, davanti al microfono dell’intervistatore, dopo più di sessant’anni in-teramente dedicati a ciò che era stata la sua ossessione e il suo lavoro, si ricordò – ni-tidamente – del giorno in cui suo nonno lo aveva portato a conoscere il grano.

Il piccolo pastificio di Santeramo in Colle, a 490 metri sul livello del mare, era or-mai diventato un luogo di pellegrinaggio. Ci arrivavano ogni settimana giornalisti eprofessori universitari e presidenti di associazioni alimentari e addirittura portabor-se di noti uomini politici: chi per premiare l’eccellenza italiana, chi per tirarlo dentrol’ennesima crociata contro le catene di fast food, chi per convincerlo a ripercorrere letappe di ciò che gli altri definivano sin troppo banalmente «il suo successo» e lui chia-mava invece, senza mai scomporsi, non si capiva se con modestia o sufficienza:«l’obbligo della regola d’arte». Così Giuseppe abbassava lo sguardo, chiudeva la co-pertina dell’agenda che aveva consultato fino all’arrivo dell’ospite, rialzava gli occhiverso l’interlocutore e raccontava per l’ennesima volta tutta la storia dell’azienda.

In centocinquant’anni, il suo quartier generale si era spostato solo una volta, lun-go un breve percorso di poche centinaia di metri: dal laboratorio sotto il palazzo mar-chesale affacciato sulla piazza del paese fino al grande appartamento in corso Italiadove lui si trovava adesso, seduto sulla poltrona col poggiatesta regolabile, mentre ilgiornalista domandava: «allora, ci può dire in che consiste il suo segreto?», e l’uomoche molti consideravano il miglior pastaio di tutta la penisola veniva folgorato da unascena di sessant’anni prima: un giorno di sole del ’46, lui all’età di cinque anni in com-pagnia di suo nonno dentro un mare di grano. Il nonno allenta la presa, sfila la manodalla sua, svanisce nel nulla, e lui si trova tutto solo, sovrastato da migliaia di steli cheondeggiano al vento. Per i marinai era l’Orsa maggiore e la Stella polare. Nel suo ca-

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so si trattò quel giorno di una bussola diversa: orientarsi con le spighe. Il cuore delbambino iniziò a battere veloce...

Milioni di battiti più tardi, nei primi mesi del 2009, si trattava invece di fronteg-giare soltanto questo giovane cronista con il registratore acceso e la penna che viag-giava rapidamente da sinistra verso destra sul bloc notes. Così si limitò a risponderequello che già era scritto sulla brochure pubblicitaria della ditta: «La tradizione. Lanostra azienda esiste quasi da un secolo e mezzo. Ecco il segreto».

Ma quella spiegazione non gli sembrava sufficiente. Aggrottò le sopracciglia bian-che. Represse tra le labbra il principio di un sorriso e si lanciò nell’improvvisazione:«guardi…», disse fissando il giornalista, «la tradizione è simile a uno scrigno chiuso»,prese un respiro, «ma è uno scrigno senza chiave e senza serratura. Non è qualcosache si possa aprire. Non è nemmeno qualcosa che si possa scassinare. E anche a scas-sinarlo, mio caro, lei non ci troverebbe proprio niente. È uno scrigno senza tesoro. Semi permette, direi che addirittura è uno scrigno senza scrigno. Non puoi vederlo, nonpuoi tenerlo in mano, non esiste un manuale di istruzioni. Ma puoi sperare – con tem-po e sacrificio e dedizione – di imitare e assomigliare e poi infine diventare quello stessoscrigno. Il segreto, sempre che di segreto vogliamo parlare, sei insomma tu. Ha capi-to cosa sto cercando di dire?»

Il giornalista fece sì col capo, ma i suoi occhi tradivano apprensione e spiazza-mento. Giuseppe sospirò. Si accarezzò una guancia con la mano sinistra. Staccò letempie ingrigite dal poggiatesta e mosse rapidamente le pupille da un lato all’altro.Intorno a loro c’erano fermacarte e agende e bolle d’accompagnamento e libri conta-bili e calendari appesi al muro. E un computer acceso sul sito della ditta. E poi, die-tro la scrivania gemella, un ragioniere di mezza età che non aveva smesso un soloistante di fare conti su conti senza badare a loro due. Fuori dall’ufficio si apriva uncorridoio lungo e fresco e avvolto in una semioscurità che ricordava quella delle chie-se. Al termine del corridoio c’era la stanza per gli imballaggi, dove un giovane impie-gato pesava e incellofanava la pasta servendosi di un macchinario il cui volume nonsuperava quello di un armadio. Subito dopo si apriva il magazzino, ed era lì – siste-mato in buste piuttosto eleganti da 500 grammi, o in grossi cartoni da 12 chili – chec’era il prodotto finito. C’erano i pennoni e i paccheri e gli spaghetti e le linguine e i

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cannerozzi di grano duro e le trofie di semola integrale, tutti passati fieramente per learmi delle trafile in bronzo, ed essiccati con lentezza e con pazienza per ore e ore sot-to la calda estate artificiale dei quarantacinque gradi all’ombra. Così ecco la sua arte,il suo patrimonio, la sua vera eredità. Nel giro di poche settimane sarebbero arrivatii camion, e avrebbero caricato come al solito nel loro ventre i pacchi e i cartoni di pa-sta e poi sarebbero partiti verso nord. Avrebbero superato la Campania e il Lazio. Al-cuni si sarebbero fermati in Toscana. Altri sarebbero andati a rifornire i migliori ri-storanti del Piemonte e della Lombardia. Altri ancora avrebbero superato le Alpi perdisperdersi poi verso la Svizzera, la Francia, le elegantissime boutique alimentari acinque stelle per nuovi ricchi nel cuore della Mosca postsovietica.

Li vendeva perfino a Dubai, quei cavatelli e quegli spaghetti da medaglia d’oro.Le ordinazioni erano buone. Era vitale che non fossero scarse, ma era importante chenon ne arrivassero nemmeno troppe tutte insieme: «produciamo in due anni quelloche un pastificio industriale fa in un giorno», amava ripetere, e lo fece anche adesso,davanti al giovane cronista, il quale allungò soddisfatto gli angoli della bocca perchégli sembrava uno slogan efficace per l’articolo che avrebbe scritto – mentre per lui,per il vecchio Giuseppe che rimaneva fermo e ricomposto dietro la scrivania, non erauno slogan e nemmeno un grido di battaglia. Era un’ovvietà: solo viaggiando su cer-ti ritmi si poteva mantenere uno standard ottimale. Cos’altro c’era da spiegare? Eraper quello, in fondo, che alla Milano World Food Exhibition erano letteralmente im-pazziti per la sua pasta e l’avevano premiato. Era il motivo per cui quel pastificio cheaveva visto la prima e la seconda guerra mondiale e la nascita della prima e poi dellaseconda repubblica, era finito di recente sull’edizione americana del «Gambero Ros-so» e sulle guide del Touring Club. Agli esperti del settore – i recensori con la puzzasotto al naso e i plurilaureati in Scienze alimentari – bastava scolare poche centinaiadi grammi delle sue penne rigate per sentire, nel vapore denso che si avvolgeva su sestesso, un profumo la cui ricchezza non avevano provato prima, e quindi, nel mo-mento in cui portavano la pasta sotto i denti, lo spettro emotivo del palato si carica-va di sfumature che fino a quel momento erano restate nella loro bocca solo a livellopotenziale. Allora, questi esperti tutti d’un pezzo perdevano la loro prudenza e la lo-ro severità d’ufficio, le menti si rilassavano insieme alle pupille gustative, i titoli di stu-

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dio vacillavano dentro le teche e loro si arrischiavano a pensare: «forse è vero… for-se si tratta del miglior produttore di pasta di tutta Italia!» Il che poteva addirittura si-gnificare che era il migliore del mondo.

Ma a lui non importava di essere il migliore del mondo. È vero, sui colleghi avevadelle idee molto precise, e – anche se non lo avrebbe confessato al giornalista – riser-vava ai marchi che riempivano gli scaffali dei centri commerciali lo stesso biasimo concui un cultore della bistecca fiorentina potrebbe guardare la polpetta semicarboniz-zata di un Big Mac. Lui era Bernini e loro erano i barbari della contemporaneità. Isuoi veri concorrenti erano semmai gli altri pastai artigianali, e su virtù e difetti del-la loro arte avrebbe potuto speculare per ore. Ma la sua lotta non era con gli uomini.Alla stregua del grande giocatore di biliardo, la cui sfida non viene mossa agli avver-sari in carne e ossa ma all’energia cinetica in persona, all’astratta geometria del tavo-lo verde, il vero cruccio di Giuseppe era legato al concetto di perfezione – la perfe-zione in sé, la perfezione applicata all’arte della pasta. Il che portava le sue soddisfa-zioni, certo, ma delle medagliette che gli venivano cucite addosso non sapeva cosa far-sene.

«Per esempio, quei professori del De Bellis…», disse al giornalista. «Quali pro-fessori del De Bellis?», chiese il ragazzo dopo avere controllato che il registratorecontinuasse a fare normalmente il suo lavoro. «Adesso la chiamano nutraceutica…»,ribatté il vecchio pastaio con un ambiguo sorriso leonardesco, da cui non si capiva seper quella parola nuova di zecca (nutraceutica: ovvero curarsi attraverso l’ali -mentazione) provasse rispetto o timore o al contrario la soppesasse tra le dentali conun pizzico di scetticismo e di ironia. Fatto sta che qualche anno prima erano arrivatiquesti medici dell’ospedale di Castellana Grotte, e gli avevano chiesto di poter speri-mentare la sua pasta integrale con i pazienti affetti da forme lievi di diabete. Lui ave-va accettato e la cosa strabiliante era che, dopo un anno di trattamento, i malati ave-vano ridotto o cessato definitivamente l’assunzione di farmaci. Non appena erano sta-ti pubblicati i risultati dello studio, lui era stato letteralmente massacrato di pacchesulle spalle e strette di mano e complimenti e telefonate e lettere di congratulazioni, e(come al solito) da richieste di interviste per riviste mediche e quotidiani locali, nel

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corso delle quali si sarebbe riproposta – immancabilmente – sempre la stessa do-manda: «qual è il segreto della sua pasta?»

Ma il primo a essere stupito di tutto quello stupore era proprio lui. Che il compi-to della pasta integrale prodotta a regola d’arte non fosse solo quello di riempire lostomaco lo sapeva senza il bisogno di aspettare i risultati di uno studio medico, per-ché prima di lui lo aveva saputo suo padre, e suo nonno, e il nonno di suo nonno. Edera quindi capace anche di irritarsi quando gli domandavano: «che tipo di ricerche hadovuto fare ultimamente per portare i suoi prodotti verso questo risultato?» Il veroproblema, secondo lui, era semmai al contrario: che tipo di regresso ha subito negli ul-timi decenni la nostra cultura alimentare, considerando ciò che mangia ogni giornol’italiano medio? Era il mondo a essersi mosso un po’ all’indietro man mano che si an-dava avanti, non lui, e non il pastificio di Santeramo in Colle, i cui prodotti facevanoda un secolo e mezzo ciò di cui la scienza si accorgeva solo adesso.

Questo del «secolo e mezzo» era un altro tormentone. E infatti il giornalista chie-se puntualmente: «la sua azienda è stata fondata nel 1870, una manciata di anni do-po l’Unità d’Italia. Possiamo dire che il suo pastificio e il nostro Belpaese sono coe-tanei?»

Era una domanda che poteva fare il suo piccolo scalpore tra le pagine di un quo-tidiano. Ma era una domanda oziosa, e in fin dei conti inutile, perché non solo Giu-seppe, ma chiunque facesse un mestiere in cui creatività e tradizione e radicamentosi fondevano tra loro sotto queste latitudini sapeva che esisteva uno specifico italianoche precedeva di anni e di decenni e addirittura di secoli l’Unità d’Italia. Lo sapeva-no per esempio gli scrittori, che all’alba del XXI secolo lavoravano con la lingua cheera stata portata alla luce da Dante e da Francesco d’Assisi. Lo sapevano i produtto-ri di borse e di pellame, e i disegnatori di gioielli, che oggi erano gli ambasciatori delmade in Italy nel mondo ma la cui arte comunicava carsicamente con quella degli ar-tigiani fiorentini del Rinascimento. Lo sapevano i movimenti di camera di registi co-me Fellini e Pasolini e Bertolucci, nei cui sguardi brillava il riflesso involontario diRaffaello e di Tiziano e delle pale d’altare istoriate da qualche anonimo del Quattro-cento. E ovviamente lo sapevano i pastai come Giuseppe, la cui arte era sopravvissu-

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ta a guerre e carestie e rivoluzioni e crisi di governo, e adesso viveva sprofondata neisuoi sensi, sulle sue mani, in ogni fibra del suo corpo.

Così la scena di sessant’anni prima si affacciò ancora alla memoria, e il giornalistatornò a ripetere: «il segreto del suo successo…», e gli occhi di Giuseppe si inumidi-rono, sentì le guance rilasciarsi lungo la faccia, pensò che non aveva più senso resta-re sulla difensiva, si rilassò ancora di più, rifletté sul fatto che parlare della sua artenon ne comprometteva in alcun modo l’inviolabilità – un tesoro senza tesoro, dentrouno scrigno senza scrigno –, sorrise al giornalista e disse: «lo sa perché quando ave-vo cinque anni mio nonno iniziò a portarmi nei campi di grano?», e il giornalista fe-ce «no» con gli occhi, e Giuseppe concluse: «per farmi smarrire, per abbandonarmi.E, quindi, per cominciare ad insegnarmi tutto».

Tossì. Strinse i braccioli della poltrona. Riprese a parlare: «mi portava in questooceano di frumento e poi si allontanava. La sensazione della sua mano che si staccadalla mia, lui che scompare… è un ricordo che ancora adesso mi mette i brividi, losento qui…», unì tra loro i polpastrelli delle mani. Si interruppe. Poi continuò: «Ioall’inizio ero terrorizzato», disse, «mi ritrovavo completamente solo tra le spighe gi-gantesche, con il vento che creava queste ondate di giallo accecante sotto la volta ce-leste, un movimento che mi scaraventava il cuore in gola, perché sembrava di essereal centro della più grande vastità che si potesse concepire, come se quel campo di gra-no fosse all’improvviso tutta la provincia di Bari, e la provincia di Bari l’Italia, e l’Italiail mondo intero. Mi facevo coraggio, mi sforzavo di non piangere e cercavo di capirequale fosse la via del ritorno. La prima volta impiegai due ore per venirne fuori, perritrovare il nonno che mi aspettava sorridendo a pochi metri dal calesse. La secondavolta ci misi la metà del tempo, e poi via via sempre di meno – però, in questo modo,avendo solo le spighe come punto di riferimento, imparai per forza di cose a ricono-scere le diverse varietà di grano, e capii perché a distanza di poche centinaia di metrisi potessero alternare steli gialli e steli verdi, e quale fosse la consistenza di un chic-co prima ancora di toccarlo, tutte cose che se mi fossi limitato a leggere un manualedi Scienze agrarie non avrei potuto padroneggiare così bene, avrei afferrato altri con-cetti, concetti ugualmente importanti ma non quelli, per quelli c’era bisogno del ter-rore e del piacere del gioco, era una lezione che apprendevi man mano che riuscivi a

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orientarti in quel labirinto vegetale. Dunque, ha capito cosa cercava di fare mio non-no? Oggi la chiamano formazione lavoro…»

Il giornalista rise. Giuseppe ormai andava a briglia sciolta: «dopo la prova del cam-po di grano ci fu quella del singolo chicco. Nel giro di un anno e mezzo avevo impa-rato a riconoscere la qualità della materia prima semplicemente mettendo un chiccosotto i denti. Il chicco di vera qualità, rompendosi tra i molari, deve fare un rumorepreciso. Anzi, è un doppio rumore, un cric-pausa-crac dal quale è possibile capire se daquel grano c’è la speranza di ricavare della pasta che sfiori l’eccellenza. Ancora oggi,quando incontro i fornitori, non mi basta consultare i cataloghi. C’è questa prova, chedevono costantemente superare…» Il giornalista lo interruppe sorridendo: «quindi,come dire… lo strumento di misurazione per il test di qualità è la sua stessa personafisica. Ne deduco che l’unico sistema per carpire i suoi segreti sarebbe una bella clo-nazione…»

Il vecchio pastaio si innervosì per qualche istante. Questa faccenda della clona-zione ultimamente veniva tirata in ballo un po’ troppo spesso per i suoi gusti. Unaballa come un’altra, dal momento che sì, magari si poteva clonare un singolo indivi-duo, ma era impossibile farlo con ventimila chilometri quadrati, per non parlare deimiliardi di metricubi che separavano la terra dal cielo. In definitiva: la Puglia, non eratecnicamente riproducibile.

Si rivolse infatti al giornalista con tono leggermente provocatorio: «scusi, secondolei è un caso se il mio bisnonno ha deciso di impiantare il pastificio proprio qui, a San-teramo, e se mio nonno e mio padre e io stesso abbiamo deciso di rimanerci?» Il gior-nalista rispose che lui non poteva certamente saperlo, e Giuseppe disse che poco me-no di cinquecento metri sul livello del mare era un’altitudine perfetta per essiccare lasua pasta, come ideali erano la composizione dell’acqua e il clima della zona, la vam-pa estiva e la tenera fiamma della primavera e l’aggressività dell’inverno e il dolce lan-guore autunnale, e dunque tutto il suo lavoro (il miracolo di quella pasta che avevastupito mezzo mondo) poteva accadere lì e soltanto lì, non era esportabile, non eraclonabile, a meno che il Padre eterno in persona non avesse deciso di strappare il tac-co d’Italia con le sue mani gigantesche per inchiodarlo a un altro angolo del globo.

«E a proposito di essiccare…», continuò Giuseppe. Disse che per imparare le re-

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gole dell’essiccazione ci aveva messo tutta l’adolescenza e buona parte della giovi-nezza, e poi sghignazzando ricordò di quando, soltanto pochi anni prima, nel 1999,l’addetto alla produzione di un grande pastificio industriale era venuto a visitare ilsuo stabilimento – un giovane dall’aria vagamente supponente, disse, uno di questiragazzotti in giacca e cravatta che si illudono di conoscere ogni segreto del lavoro chehanno appena cominciato a fare solo perché sono freschi di un master in Business Ad-ministration. Così – continuò a raccontare –, al momento di fare capolino nelle celled’essiccazione del pastificio artigianale, l’addetto alla produzione del pastificio indu-striale sgranò gli occhi, e cominciò a guardarsi intorno, e a osservare le ventole cheroteavano dietro le loro gabbie, e più osservava più si vedeva che non riusciva a ve-nire a capo di qualcosa, e aggrottava nervosamente le sopracciglia, e reprimeva astento lo stupore. «C’era un aspetto fondamentale, che non riusciva a comprenderenel nostro metodo d’essiccazione…», disse Giuseppe al giornalista, «e io sapevo mol-to bene cos’era a stupirlo, ma avevo deciso di non dirglielo finché lui non avesse avu-to l’umiltà di chiedermelo. Ma siccome non accadde, presumo che ancora oggiquell’addetto alla produzione, messo a capo di un’impresa poco meno grande dellaFiat, di tanto in tanto continui a domandarsi dove fossero nascosti, nel mio stabili-mento, gli aspiratori d’aria».

Il giornalista prese coraggio e disse: «d’accordo, allora glielo domando io: dove so-no gli aspiratori?»

«Non esistono... Semplicemente, non ci sono...», disse il vecchio pastaio al colmodella soddisfazione, «e il motivo è questo qua: noi essicchiamo la pasta utilizzando ilricambio naturale dell’aria, modificando costantemente l’inclinazione alle porte dellecelle e alle finestre dello stabilimento a seconda del clima, della temperatura, dell’u -midità dell’aria...» Poi disse che a lui, una volta entrato in una cella d’essiccazione, ba-stava darsi un piccolo schiaffetto sulla guancia per capire, a seconda della rapiditàcon cui la pelle riassorbiva il colpo, quale fosse la precisa situazione della pasta in quelmomento. Disse che gli bastava prestare orecchio alla musica dei macchinari per co-gliere il problema di una singola nota stonata, e che l’occhio era talmente allenato cheun singolo sguardo all’impasto produceva nella sua testa precise informazioni sullagiusta proporzione d’acqua da aggiungere o sottrarre. Imitare, assomigliare e poi in-

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fine diventare quello scrigno meraviglioso... pensò il giornalista. Ma il pastaio conti-nuava a parlare, e questa volta tirò fuori l’argomento dei suoi nipoti, a cui stava cer-cando di trasmettere tutte le sue conoscenze («ci vogliono almeno dieci anni di ga-vetta per cominciare a capirci qualcosa», disse), e che tra qualche anno avrebbero ri-levato l’attività incidendo sul pastificio la tacca della quinta generazione, e che pro-babilmente avrebbero potenziato la comunicazione via internet, e sarebbero forse riu-sciti a far sì che i loro prodotti varcassero le frontiere di paesi in cui non erano maistati prima, e continuava a parlare e a parlare e a parlare, mentre dall’inizio del col-loquio erano passate almeno quattro ore, e le ombre della sera iniziavano ad allun-garsi sul paese, e sulla terra di Bari, e su tutta la regione, e si alzava un vento frescosugli ulivi e sui vitigni e sui brutti infissi in anticorodal dei palazzi circostanti, ed ognicosa molto presto sarebbe sprofondata nell’oscurità, e il giornalista proprio in quelmomento pensò che oceano d’acqua e di carta e di grano non faceva in fondo alcunadifferenza, e se era vero che un’intera regione non poteva essere tecnicamente ripro-dotta, non si poteva clonare nemmeno l’ossessione di un singolo uomo. Ad ogni Achabla propria Moby Dick. Ecco, cosa inseguiva quel pastaio. Ed ecco forse la sintesi per-fetta della sua arte, il segreto del suo segreto in una sera pugliese di fine estate:l’ossessione come forma d’amore, la perfezione come preghiera, il lavoro come sfidaquotidiana verso il terribile, magnifico enigma del destino personale.

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Francesco Marocco

Il colloquio

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Questa storia è liberamente ispirata alle vicende della Matrix Electronic Manufacturing Servi-ces di Conversano e dell’ingegner Sacchetti. I dialoghi e le situazioni riportate sono fruttodell’invenzione dell’Autore. Eventuali inesattezze sulle date e su alcune specifiche tecniche sonofunzionali allo sviluppo narrativo.

La Matrix Electronic Manufacturing Services è un’azienda fondata nel 1993 da ungruppo di giovani imprenditori con una consolidata esperienza nel settoredell’elettronica e una profonda conoscenza delle problematiche ad essa connesse. Sipropone come partner per il montaggio di componenti elettronici a tecnologia super-ficiale e tradizionale, collaudi ICT (con macchine di test a sonde mobili e a lettod’aghi) e funzionali, ispezione x-ray di schede con componenti BGA, microBGA eFlip-Chip, burn-in su componenti e apparati. I clienti Matrix operano in settori ap-plicativi dell’elettronica, quali le telecomunicazioni, l’automobilistico, le apparec-chiature domestiche e l’informatica.

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L’ingegner Sacchetti deve fare in fretta, se vuol chiudere il brevetto prima di sera. Sigratta la fronte con un dito. Toglie gli occhiali per lucidarli contro la camicia turche-se. Esamina le lenti in controluce, poi alita sui cristalli. Scrivere in «brevettese» gli favenire sempre un po’ di mal di testa, ma gli tocca anche quello.

Bussano alla porta, dopo due secondi l’uscio si schiude, preceduto da una voce chechiede permesso.

Ancora senza occhiali, l’ingegner Sacchetti solleva lo sguardo miope dal compu-ter. La traccia appena sfocata di una testa sconosciuta ondeggia sullo stipite.

«Sono Giacomo Di Turi, il borsista della Regione, sono qui per il colloquio!» diceil ragazzo sulla porta.

L’ingegnere corruga la fronte: il colloquio! Se n’era scordato: ormai le sue man-sioni di responsabile della progettazione, capo del personale, direttore commerciale,scrittore di brevetti, vanno sempre più frequentemente in corto circuito.

«Si accomodi, prego!», dice tendendogli la mano e indicando la sedia dall’altro la-to della scrivania, «Un attimo e sono da lei».

L’ingegner Sacchetti ritorna a guardare il cursore che lampeggia sul suo schermo,la frase rimasta a metà. Batte rapidamente sui tasti fino a mettere il punto. Salva, chiu-de, rimette gli occhiali e finalmente i lineamenti della testa di Giacomo Di Turi si ri-compongono in una bella immagine a fuoco.

Alle cinque di mattina, in fila per prendere i posti di una lezione del primo annoche inizierà solo tre ore e mezza dopo, Tonio pensa all’espressione «diritto allo stu-dio» come a dei segni vuoti di senso, una parola sfocata. Per difendersi dal freddo,

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tiene le mani in tasca e stringe il collo nelle spalle. Delle dodici persone che contaavanti a sé, ben quattro presentano i sintomi di una più o meno avanzata, ma co-munque inesorabile, forma di calvizie. Gli anni Ottanta sono appena finiti e nessunoha ancora mai riconosciuto alla calvizie neanche un pizzico di glamour: i legami tral’innalzamento della secrezione di ferormoni che rendono un uomo irresistibile e lacaduta del capello sono ancora fantascienza, e insomma, per uno studente di Inge-gneria, l’idea di perdere i capelli è solo l’evidenza della vecchiaia che lo ha sorpresoancora sui banchi. Tonio si passa una mano sul ciuffo e prega di poter ripetere il ge-sto almeno fino alla laurea, quando sarà.

Alle sette, la fila di studenti pronti a scattare verso i banchi è un serpente scom-posto e furente. Finalmente, qualcuno apre la porta dall’interno. Gli studenti pren-dono possesso dell’aula come di una frontiera vergine. I neon rifulgono, le lavagneappena pulite brillano di un alone ancora bagnato. Gli animi più puri, prima che ilpuzzo di ascelle si diffonda per l’aula, riescono persino a sentire un fresco odore dibosco.

La percentuale di studenti di sesso maschile sfiora il 100% e non è una bella cosa,perché trecento maschi in un’aula senza nessuna donna davanti a cui dimostrare unpo’ di pudore, raggiungono livelli di belluinità imbarazzanti. Con una buona dose diinterpretazione personale, tuttavia, qualche esemplare femminile tra le matricole diIngegneria elettronica è pure possibile trovarlo. Nel corso di Tonio, l’unica ragazzasi chiama Betty ed è sensuale quanto una parentesi quadra. Non conviene sedersi af-fianco a lei, perché Betty è quella che si dice una donna giunonica, e straripa sempreun po’ sui posti attigui. Prender posto vicino a lei vuol dire stare stretti, ed esserepronti a trattenere il respiro quando Betty inizia a parlare e un pessimo odore di stan-za chiusa e calzini si irradia tutto attorno.

Tonio non si perde d’animo, prova a offrirle una gomma da masticare, e accettacon sportività che Betty declini l’invito, perché le gomme, dice, fanno venire le carie.

«Vuole?» chiede l’ingegner Sacchetti al giovane Giacomo Di Turi, tendendogli ilpacco di gomme, dopo essersene cacciata una in bocca.

Di Turi appare imbarazzato, conteso tra la difficoltà di sostenere un colloquio con

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una gomma in bocca, e l’eventualità di rifiutare quella che a tutti gli effetti è la primaproposta del suo potenziale futuro capo. Nella testa il corollario del perfetto candi-dato: «Ricordati che non avrai mai una seconda occasione per lasciare una buona pri-ma impressione!»

Alla fine gli sembra una buona via di mezzo, quella di prendere la gomma e te-nersela in mano.

L’ingegner Sacchetti rovista nella casella di posta, alla ricerca del curriculum di DiTuri. Lo apre e lo scorre rapidamente, annuendo con il capo.

«Le dico subito. Ho letto il suo curriculum. Mi sembra ben costruito, ma ho ideache lei non sappia far nulla!» dice sorridendo. Di Turi irrigidisce il collo istintiva-mente, ritraendo la testa in un sorriso imbalsamato.

«Le spiego. All’Università è un fatto. Al lavoro è un altro fatto!», dice Sacchetti si-stemando con le mani sui lati opposti del tavolo due pesi immaginari che restituisca-no la dicotomia tra mondo accademico e realtà professionale. Di Turi non è sicuro diaver capito e per non tradire l’emozione non gli rimane che afferrarsi alla Vigorsolverde con entrambe le mani.

«Voglio dire che quando uno finisce di studiare e inizia a lavorare non sa fare nul-la. Allora, per noi che dobbiamo selezionare i neolaureati, la differenza non la fa unbuon curriculum, la tesi, lo stage, il workshop, la pubblicazione. La differenza la fan-no le motivazioni!»

Di Turi ascolta attentamente. Il dubbio che prima o poi debba provare a dire qual-cosa lo accompagna, ma per il momento si limita ad aspettare, sperando che il titola-re non si accorga della tensione che lui scarica sulla gomma da masticare. Gomma cheinesorabilmente inizia a stingere di verde la punta dei polpastrelli del giovane Di Tu-ri. L’ingegner Sacchetti intanto va avanti. Si alza dalla sedia, prende da un cartoneuna scheda elettronica e la lancia al giovane candidato:

«Poi a progettare si impara. Prendi una scheda, la smonti e provi a rimontarla.Scommettiamo che pur avendone visti a migliaia sui libri, tu, un condensatore di-screto non sapresti neanche riconoscerlo, qui dentro?»

Di Turi afferra al volo la scheda e la guarda con attenzione scientifica. Balbettaqualcosa in cerca di una risposta. Sacchetti lo ferma.

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«Non devi rispondere. È una domanda retorica. So già che non ci riusciresti». L’ingegnere ancora in piedi si dirige verso la porta, si ferma sull’uscio e fa uno stra-

no cenno con la testa, come se colpisse un oggetto per aria. Di Turi non capisce e guar-da con fare ancora più circospetto. L’ingegner Sacchetti cambia espressione:

«Di Turi, metti in bocca quella dannata gomma e seguimi! Che la giornata è qua-si finita, ma le cose da fare no!»

A fine giornata le lavagne hanno perso il verde lucente del mattino, e sono rico-perte da una polvere di gesso che i cassini hanno distribuito sull’ardesia.

Dalle ultime file, voci baritonali reclamano cinque minuti di pausa. Zerloni, pro-fessore di Fondamenti di informatica, non sembra disposto a trattare e dice che tireràdritto fino alla fine dell’orario. Appena volta le spalle alla classe, l’attacco incrociatodi una squadriglia di aerei di carta si abbatte su di lui. Quasi tutti i voli si perdonofuori bersaglio, tranne un caccia appuntito che traccia un cerchio della morte primadi schiantarsi sulla collottola del professore. Traiettoria copernicana ineccepibile. Mi-ca roba da tutti: bisogna andare fuori corso di almeno un paio d’anni per un lanciodel genere. Sogghigni di approvazione si ingrossano tra i banchi scendendo dalle ul-time file.

Il professore si volta nuovamente, raccoglie la carlinga ammaccata del bombar-diere che lo ha attaccato, lo accartoccia, si prende tra le dita la cravatta, la solleva co-me volesse indicare una macchia sulla seta: «Ridete in faccia a questa!» dice, poi sigira e ricomincia a scrivere. Quando finisce il rigo, pigia il bottone rosso e la lavagnaprende a salire. Sulla nebbia bianca delle cancellature, i segni che ha appena traccia-to si vedono appena, come una soluzione che non tutti possono acciuffare.

Il giorno dell’esame, il professor Zerloni legge ad alta voce l’elenco dei nomi diquanti si sono prenotati per la prova. Inserire nomi falsi nella lista degli esaminandipare sia il gesto a più alto contenuto umoristico di cui un ingegnere è capace.Nell’elenco ci sono Kent Clark, Baudo Pippo, Paolino Paperino, Bano Al. Per nullaturbato, il professore li chiama tutti, e cancella Cabrini Antonio dalla lista, solo dopoaver atteso un secondo, nel caso Cabrini sia davvero nei paraggi e abbia intenzionedi sostenere l’esame di Fondamenti di informatica. A un tratto, il professore diventa

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ancora più serio: «Questo qui so già che è uno scherzo, ma per legge sono obbligatoa chiamarlo comunque». Dalle ultime file parte già il boato di risate. «Zerloni Ba-stardo!» dice il professore. A quel punto, persino Tonio che non si sarebbe mai per-messo, scoppia a ridere. Zerloni afferra al solito la sua cravatta e la espone al pubbli-co ludibrio: «Ridete in faccia a questa!»

L’ingegner Sacchetti si aggiusta la cravatta, tira su i pantaloni, e indica a Di Turiuna delle poltrone della sala riunioni. Di Turi sistema il sedere sull’ampia seduta cer-cando la giusta distanza tra il fondo della poltrona e il bordo davanti, il baricentro trauna postura rilassata e un’espressione di ascolto attento. «Ma non troppo», risuonanella sua mente, come un generico segnale d’allarme. Un lato della sala riunioni è oc-cupato dalla ricostruzione in cartongesso di un ambiente domestico, con luci, finestre,tapparelle, persino un cancelletto d’accesso.

L’ingegner Sacchetti si raschia la gola e inizia a parlare con una voce insospetta-bilmente squillante.

«Sì-gnora Maria!» Di Turi si volta istintivamente verso la porta, ma nella stanza, a parte loro, non c’è

nessun altro, tantomeno una presunta Signora Maria. «L’attesa perpetua della domotica è finalmente terminata! Mai più casa fredda al

ritorno dal lavoro! Niente più bollette alle stelle per le luci lasciate accese!» Sacchet-ti gira intorno al tavolo. Di Turi lo segue con lo sguardo. «Chiudere le tapparelle e la-sciare aperte le finestre, prima di andare in vacanza, è un’operazione che le porta viamezz’ora e rischia di farle perdere l’aereo? Da oggi le basta sfiorare un tasto e potràcorrere all’aeroporto! Vuole accendere il forno mentre è in coda al semaforo, in mo-do da arrivare a casa, e infornare la spigola senza neanche togliersi il cappotto? Lebasta un sms! Stufa di avere diecimila telecomandi in giro per casa?» L’ingegner Sac-chetti afferra un oggetto nero sul tavolo, e lo mostra a Di Turi. Si tratta di una pic-cola consolle.

«Sì-gnora Maria» squilla di nuovo la voce dell’ingegnere, «Da oggi, tutta la sua ca-sa la controlla da qui! Wireless, touch screen, a colori!» scandisce piano Sacchetti,allungando il comando al giovane Di Turi.

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Il ragazzo prende la consolle e la guarda con riverenza. «Prego, prego! Smanetti pure!»Di Turi allunga timidamente l’indice destro sullo schermo tattile e dietro di lui, nel

palchetto domestico, si accendono dei faretti. A un altro comando, il cancelletto sban-diera avanti e dietro. Di Turi prende rapidamente il controllo della casa della Signo-ra Maria.

«Lo so cosa sta pensando, Signora Maria!»Giacomo Di Turi sta pensando in realtà a quando arriverà la domanda su dove si

immagina tra dieci anni, un grande classico dei colloqui di lavoro:«Lei sta pensando che, ok le comodità, ok un solo telecomando, ok la spigola e la

tapparella, ma lei per fare spazio alla domotica, non ha intenzione di forare i muri dicasa sua. Impianti, cavi e cavetti: lei non vuole riempire di polvere tutta la sua colle-zione di libri gialli!»

Di Turi trova conveniente annuire.«Questa la vera rivoluzione della nostra domotica» dice l’ingegnere, battendo una

mano sul tavolo e sporgendosi verso il giovane Di Turi.«Protocollo ZigBee» scandisce piano. «Tu lo sai cosa vuol dire questo, Di Turi?»

chiede l’ingegner Sacchetti, diventando improvvisamente serio. Di Turi capisce su-bito che questa non è una domanda retorica. Adesso gli tocca rispondere. Ci pensa iltempo di un respiro e poi inizia a parlare:

«ZigBee, volo d’ape, insieme di protocolli di comunicazione ad alto livello, che uti-lizzano piccole antenne digitali a bassa potenza. Sistema più efficace del Wi-Fi e delBluetooth per la trasmissione di una quantità di dati maggiore, a fronte di un consu-mo minore. Nel caso concreto, suppongo voglia dire che andiamo direttamente sulleprese, agiamo sulle placche esistenti, che non foriamo neanche un solo mattone. Nes-sun infilaggio di cavi, basta un cacciavite, lo può fare un qualsiasi elettricista e, in ul-timo, la collezione dei libri gialli della Signora Maria è al sicuro!»

L’ingegner Sacchetti annuisce, girando il capo di traverso in segno di approvazio-ne. Giacomo Di Turi sente che, poco più in basso, il suo sedere ha trovato finalmen-te la distanza giusta tra lo schienale e il bordo anteriore della poltrona. Ora può guar-dare dritto negli occhi l’ingegner Sacchetti.

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Nel gruppo di quattro ragazzotti che si allontana dal Campus, facilmente identifi-cabili come studenti di Ingegneria per l’aspetto poco atletico e il look che ha un po’perduto il passo nella rincorsa dell’ultima moda, Tonio è a sua volta immediatamen-te riconoscibile: è l’unico che, quando cammina, non tiene lo sguardo fisso a terra. To-nio guarda avanti, e ancora più in là. Il suo sguardo sembra sempre andare oltre ilpunto che sta fissando. Come se riuscisse a guardarci dietro, alle cose. Come se die-tro una cosa, lui ne riuscisse a vedere una seconda, invisibile agli altri. Il futuro nonè una luce lontana verso cui gravitare, ma una sequenza di cose che si sviluppano li-nearmente, un pensiero sempre presente, da costruire passo dopo passo.

È con quello sguardo dritto che Tonio scivola veloce fino alla laurea. Finita la proclamazione, mentre i suoi colleghi si godono il taglio del traguardo con

la preoccupazione più grande di organizzare una degna festa di laurea, Tonio è nelbagno del Campus. Si guarda allo specchio, si tocca il ciuffo e dopo aver finalmentedichiarato ai suoi capelli che, se vogliono, adesso sono liberi di cadere, sa già qualesarà la sua prossima mossa.

Quando, due mesi dopo, Tonio viene assunto come progettista presso la MatrixElectronic Manufacturing Services di Conversano, la Matrix compie appena i requi-siti minimi dell’architettura, un tetto e un recinto.

A esser tecnicamente pertinenti, più che all’unica impresa pugliese che progetta erealizza componenti elettronici, la Matrix assomiglia a un garage. La metafora dellarimessa, tuttavia, affascina il pur nascosto lato romantico degli ingegneri, sempre at-tenti a ricordare come persino l’avventura della HP nella Silicon Valley sia iniziata inun capannone. Per quello che ha in mente Tonio, del resto, un tetto e un recinto so-no più che sufficienti.

In soli dodici mesi, Tonio impara a progettare, riesce finalmente a dare tridimen-sionalità agli oggetti che ha sempre e solo visto sui libri. Dopo i primi disastrosi ten-tativi, impara perfino a controllare i suoi movimenti al microscopio. Non ultimo, por-ta a casa quattordici mensilità e un premio di produzione.

Eppure c’è qualcosa che non lo convince: forse è il disagio di stare sempre con ilcapo chino sul pezzo che ha tra le mani, a lui che non è abituato ad abbassare lo sguar-do; forse è l’accorgersi che a fare il segmento della filiera, a meno che non ci stai in

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testa, perdi di vista la direzione del vettore. Fatto sta che a un certo punto Tonio guar-da la scheda che ha davanti a sé, e si rende conto che non riesce più a vedere cosa c’èdopo.

Il giorno delle dimissioni, ai dirigenti della Matrix schierati attorno al tavolo che,mettendo sul piatto un rialzo dell’offerta economica, gli chiedono perché voglia an-darsene in un’altra azienda, Tonio spiega che non lo fa per i soldi. È una questione disguardo. È che lui proprio non ce la fa ad accontentarsi di guardare un oggetto sem-pre dallo stesso punto di vista.

Il dottor Incandenza, a cui spetta l’ultima parola e la facoltà di sciogliere una riu-nione, in quanto direttore amministrativo e azionista di maggioranza, fissa la propo-sta di contratto che hanno preparato per Tonio al centro del tavolo. Riflette sulle pa-role del giovane ingegnere. Si alza e gira attorno alla scrivania fino a essere dal latodi Tonio. Visto da lì, non c’è dubbio, il contratto sembra diverso. L’uomo mette unamano sulla spalla di Tonio, come fa qualcuno che vuol dirti che il tuo momento arri-verà. E così sia, dice soltanto.

«Amen» pensa Di Turi, alla fine di un segno della croce immaginario, con cui dàper sepolte le sue speranze d’assunzione. Ha capito bene la domanda del suo poten-ziale futuro capo?

«Ti piace il tonno?» ripete l’ingegner Sacchetti. Sì, ha capito bene. Questa è di nuo-vo una domanda retorica? O forse no? Nel dubbio, Di Turi ritiene valga la pena ac-cennare una risposta affermativa:

«Con gli spaghetti, sì!»«Pinna gialla, quindi!» dice l’ingegnere rovistando in un cartone. «I tonni pinna

gialla che inscatolano le aziende italiane provengono tutti dalla Malaysia. Sai quantoli paghiamo al kilo? Di’ una cifra!»

Di Turi ondeggia dubbioso, borbotta monosillabi fino a che Sacchetti non indicail numero esatto con le dita della mano destra.

«Tre euro?»L’ingegnere annuisce. «E il sushi? Ti piace il sushi?»

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Di Turi non è uno che va molto dietro alle mode. Se nella categoria del sushi rien-trano le cozze e il polpo crudo, lui, come gli altri trecentomila baresi, al sushi non di-ce di no.

«Eh, sì, col limone, però!»«E il tonno rosso? Buono, eh? I giapponesi» dice Sacchetti indicando con il polli-

ce dietro la sua spalla destra, come se il Giappone fosse inequivocabilmente in quel-la direzione «per fare il loro sushi, il tonno rosso lo comprano da noi! Il 90% dei ton-ni pescati nel Mediterraneo finisce sulle loro tavole. Hai capito, i giapponesi? E saiquanto ce lo pagano al kilo?» fa Sacchetti sollevando due sole dita.

«Due euro?» ripete Di Turi.«Venti! Quando non quaranta, o cento!» dice Sacchetti alzando la voce, mentre

dal cartone tira fuori uno strano cilindretto metallico. «Salvare i tonni! Ecco perchéun Centro di Ricerca ci ha chiesto questo!» aggiunge sventolando l’oggetto lucente.Poi prende un bel respiro e accelera:

«Il Thunnus thynnus, volgarmente noto come Tonno rosso, è anello fondamenta-le della catena alimentare ittica. Si ciba di crostacei e sardine. A sua volta è preda diMarlin e pescecani. Attualmente, nel Mar Mediterraneo, è a rischio di estinzione. Ca-pace di nuotare fino a 115 km/h, raggiunge la sua maturità sessuale solo tra i 5 e gli8 anni di vita. Questo vuol dire che se lo catturi prima, il tonno non si è riprodotto.In cattività, l’unico obiettivo degli allevatori è di fare ingrassare i tonni rossi affinchéraggiungano un robusto livello di grassi, adeguato a compensare nella bocca dei giap-ponesi il sapore scialbo di un cucchiaio di riso bianco. Lo stress della cattura bloccala fase riproduttiva delle femmine e quindi, attualmente, i tonni non si riproduconoin cattività. Del resto chi mai penserebbe a trombare, avendo il sospetto che qualcu-no ti stia facendo schiattare a badilate di gamberetti? L’unica possibilità di salvezzadallo sterminio giapponese, perché un giorno i tonni rossi possano riprodursi in cat-tività, è studiarne i comportamenti in libertà, dato l’alto attuale livello di imprevedi-bilità delle mosse di un tonno rosso, animale per così dire erratico».

Sacchetti tende il cilindretto a Di Turi. «Sensore tri-parametrico, applicabile su un esemplare adulto. Nel corso dell’in -

tervento il tonno viene bendato e irrorato con una pompa. Per il tonno non arriva a

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essere neanche un brutto quarto d’ora, visto che la durata dell’intervento è di soli set-te minuti. Il sensore è attualmente in grado di monitorare temperatura, accelerazio-ne e numero di volte in cui il tonno apre le branchie. Praticamente tutto. Se il tonnoscoreggiasse noi verremmo a saperlo».

«I risultati?» domanda Di Turi, badando al sodo.«Il Centro di Ricerca universitario che ci ha commissionato il sensore ha ottenuto

quest’anno la nascita dei primi trenta tonni in cattività. Non dovessero sopravvivereall’inverno, ho ottenuto la promessa che me ne mandino almeno uno a filetti».

Di Turi si lascia scappare un sorriso. «Vedi, Di Turi, bisogna sempre guardare oltre! A volte ci sta che le cose vadano

male. Ma la ricerca non andrebbe avanti, se non contemplasse il fallimento. Sotto unacattedrale che sta in piedi, spesso ce ne sono dieci che sono crollate. Vieni, che nonabbiamo finito!»

Tonio accosta la sua auto sotto la P del parcheggio destinato agli ospiti. Scendedalla vettura e guarda l’edificio davanti a sé. Dell’antico garage è rimasto il volume,che adesso si è articolato come un’idea che col tempo guadagni complessità, o comeda un bozzo di pietra prende forma una scultura.

A quattro anni dal giorno in cui se n’è andato, oggi torna alla Matrix da cliente:Tonio porta un prototipo di scheda che ha realizzato nella sua nuova azienda. Matrix,unica impresa del Sud Italia che realizza componenti elettronici, si occuperà dellaproduzione.

Il dottor Incandenza aspetta Tonio nella stanza delle riunioni. Basta un’occhiata reciproca per capire che le cose stanno andando bene per en-

trambi. Una seconda occhiata per intendersi che potrebbero perfino andar meglio.Definiti rapidamente i dettagli della transazione tra la Matrix e l’azienda di Tonio, ildottor Incandenza solleva una tazzina immaginaria portandosela alla bocca con ariainterrogativa. Tonio annuisce e un minuto dopo i due sono in piedi davanti a una mac-chinetta del caffè in corridoio.

«Per me, ristretto» dice Tonio al dito interrogante di Incandenza.

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Infilata la chiavetta di plastica nella macchinetta, Incandenza prende a parlare deicinesi.

Più che una popolazione, nel mondo delle imprese, i cinesi sono un concetto. Il concetto che, senza badare a quanto tu sia piccolo o grande, devi fare il meglio

che puoi, altrimenti ci sarà sempre qualcuno che ti fotte. I cinesi, appunto. I cinesiproducono di più e a minor costo, ecco perché tutte le aziende portano i loro proget-ti in produzione in Cina. I cinesi mica spengono il cervello quando maneggiano i no-stri prototipi. Se li guardano da ogni angolazione, ne studiano la progettualità, e or-mai stanno imparando a farseli da loro. Quando Incandenza aggiunge che «quelli lìsono tanti e incazzati» è evidente che i cinesi sono per lui semplicemente la metaforadella paura di non farcela.

Tonio sta osservando il suo caffè, girando il bastoncino di plastica attento a nonfar tracimare il liquido oltre il bordo e domandandosi come possa essere talmente ina-deguata l’interpretazione del concetto di «ristretto» che fa una macchinetta automa-tica.

Incandenza sta parlando della Resistenza. Del vecchio gruppo di soci è rimastosolo lui. Ma lui non ha intenzione di mollare, ci crede ancora. Matrix non rinuncia al-la sua sfida. Ricercare, progettare, produrre: tutto fatto qui, nel Sud Italia. Quandopronuncia «Sud Italia» il suo tono di voce è quello di chi dice una parola difficile dacredere.

«Bisogna andare avanti, dottore, non guardarsi indietro!» dice Tonio sorseggian-do il caffè.

Incandenza gli batte una mano sulla spalla: «È quello a cui sto pensando! Rilan-ciare, intercettare nuovi mercati, ampliare campi di esperienza, accrescere il portfo-lio clienti, montare un reparto intero di progettazione!», la mano che stringe sullaspalla sembra riprendere i fili di una continuità interrotta. Incandenza guarda drittonegli occhi Tonio: «Che ne pensi di tornare a lavorare qui?»

Tonio sorride lusingato, ma, storce il capo, un altro sorso di caffè, no, ora che è re-sponsabile di un laboratorio di dieci persone lui non ci torna a fare il progettista.Avanti, non indietro.

«Dottore, veramente»

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«Togli dottore» lo interrompe Incandenza, adesso la presa sulla spalla ha l’intensitàdi un pizzico: «Vuoi diventare socio?»

Tonio fa un movimento brusco con il bastoncino nel bicchiere e uno schizzo dicaffè vola sul pavimento, distendendosi in forma amebica. Tonio si china ad asciuga-re con un fazzoletto.

«Non devi preoccuparti del capitale. Tu prendi delle quote e le paghi con una par-te dello stipendio, nel tempo».

Tonio si rimette dritto, ed è di nuovo occhi negli occhi con Incandenza. I due uo-mini stanno zitti per qualche secondo. Assieme al ronzio della macchinetta, l’unicorumore apprezzabile è la quasi perfetta sincronia dei loro respiri lievemente accele-rati. Poi Tonio parla:

«Perché?»«Perché cosa?»«Perché vuole me. Cosa le offro io?»Incandenza toglie la mano dalla spalla di Tonio, sgrana gli occhi e gli parla a po-

chi centimetri dalla faccia. Tutto avviene molto lentamente:«Idee, Tonio, idee. Trovami delle idee e sei dentro!»

«Questo è il laboratorio delle idee» dice l’ingegner Sacchetti introducendo Di Tu-ri nella stanza. I quattro giovani ingegneri impegnati sui loro computer sollevano losguardo dagli schermi. «E questo invece è Giacomo Di Turi! Borsista della Regione,vorrebbe svolgere qui il suo progetto di investigazione», aggiunge Sacchetti, termi-nando le presentazioni.

«Ormai il nostro è un laboratorio di ricerca accreditato!» dice Sacchetti orgoglio-so. «Qualche anno fa eravamo in quattro, adesso, contando tutti gli spin-off, siamo innovanta!»

Se uno prova a immaginarsi un laboratorio delle idee, probabilmente si prefigurauno spazio vuoto, metafisico, dove gli unici oggetti di arredo sono appunto le idee. E,in effetti, nel laboratorio dove ha appena messo piede, Di Turi passa in rassegna lepareti e non si meraviglia di non trovarci neanche un quadro, un poster, una foto. Èsull’ultima parete a cui volge lo sguardo che però vede un’immagine insolita: tre cd,

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appesi al muro con un chiodo e del nylon. Tre cd non serigrafati, anonimi, come quel-li che a volte si utilizzano sui balconi per tenere lontani i piccioni, con il riflesso del-la luce solare. Di Turi ha un brivido. La scena che immagina è quella di tante giova-ni menti, talmente immerse nella trascendenza delle idee da non avere nessun biso-gno fisico contingente, da non accorgersi di nulla intorno a sé, al punto che per tene-re lontano lo zampettare citrullo dei colombi dalle loro persone è necessario appen-dere dei cd che facciano riflesso alle pareti.

«Leggi, leggi pure!» lo invita ad avvicinarsi l’ingegner Sacchetti. Di Turi prova un’immediata sensazione di sollievo. I cd sono solo il supporto su

cui stanno scritte delle citazioni: «Bisogna sempre ricominciare da dove non ci sonocertezze, Pasolini. La storia non è irreversibile, Dalai Lama. Dobbiamo diventare ilcambiamento che vogliamo vedere, Gandhi».

Di Turi sorride. Il dito di Sacchetti che si agita lo invita a guardare più a sinistra.«Non i cd. Il display! Leggi pure!»A mezzo metro dai cd, Di Turi osserva un oggetto simile a una caldaia, fissato al

muro. Sul display riconosce la rappresentazione di un impianto fotovoltaico. «Conosci il mismatch?»Di Turi storce un po’ il muso.«Vediamo, dovrebbe essere il fenomeno di non perfetto accoppiamento tra i mo-

duli fotovoltaici. Nei moduli in serie, la corrente è limitata dal modulo che eroga lacorrente più bassa. È come le vecchie lampadine delle luminarie di Natale, se ne bru-ciava una e mandava all’aria l’intero albero! Nel caso concreto, un impianto fotovol-taico si attesta sempre sul rendimento del più basso tra i suoi pannelli, no?, con per-dite di potenza complessive che raggiungono anche il 10%. Se per un guasto elettro-nico, per la nuvola di Fantozzi che si accanisce proprio su un modulo fotovoltaico,per il motivo che sia, se uno solo dei pannelli perde efficienza, compromette le pre-stazioni dell’intero impianto».

I ragazzi nel laboratorio annuiscono complici. «Una bella fregatura!» aggiunge l’ingegner Sacchetti. «Soprattutto se consideria-

mo che i primi impianti fotovoltaici non segnalavano quale fosse il pannello tradito-

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re! Ed è un po’ difficile trovare una mela marcia in un campo di mele di migliaia dimetri quadri».

«Il vostro converter!» dice Di Turi, e tutti nella stanza sorridono come se lui aves-se detto una parola magica. «Il dispositivo che permette di individuare il pannello cheperde efficienza, e soprattutto che permette di ottenere il massimo da ogni modulo,senza che l’impianto si attesti sul livello più basso!»

L’espressione orgogliosa dell’ingegner Sacchetti è condivisa dal gongolare di tuttii ragazzi del laboratorio.

«Una bella cosa, no? Il pannello deve solo pensare a prendere il sole. Al resto, pen-siamo noi!» dice Sacchetti.

Tonio siede sulla sdraio sotto l’ombrellone. Porta un cappellino da marinaio di te-la color corda e dei boxer fioriti più grandi del suo cavallo, sulle cosce tiene apertauna rivista di ingegneria.

«Uè, bellezza al bagno, ma almeno una partita te la fai?»Tonio solleva lo sguardo dal foglio. Controsole, tre amici e un mazzo di carte na-

poletane. «Tressettino?» Tonio scrolla la testa con vigore. «Allora è grave!» chiosa uno dei tre. Un altro gli si avvicina, mette una mano sul fascicolo cercando di leggerne il tito-

lo: «Rapporto della Commissione europea sulle Energie Rinnovabili», poi tira fuorila solita vecchia storia: «Ah, ma non è Pinocchio! Ma allora siamo a sei!»

Già, perché gira questa voce che Tonio in vita sua abbia letto soltanto cinque libri,contando quelli letti a scuola. Tonio sorride acidamente senza mollare la presa sulladispensa:

«Non è un libro, è una rivista. Quindi, se ti fa stare meglio, sono sempre cinque!»«Vabbè, dai, facciamo un tressette con il morto, che è lo stesso!» dicono i ragazzi

allontanandosi. Quando finalmente rimane solo, Tonio si guarda intorno. Accortosi che nessuno

bada a lui, chiude il fascicolo e lo sistema di taglio contro l’orizzonte del mare. Prova

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a concentrarsi. Il suo cervello riesce a spegnere uno a uno tutti i rumori della spiag-gia. Niente più schiamazzi, urla di bambini, palle che rimbalzano, nessuna radio chetrasmetta tormentoni estivi. Tiene accese solo le onde, e il suo respiro. Guarda la ri-vista.

Lì, in quello spessore sottile, Tonio sa che c’è nascosta un’idea. Per arrivarci per primi non c’è bisogno di essere dei visionari, occorre solo legge-

re le cose fino in fondo, non accontentarsi di guardarle da un solo punto di vista. Die-tro una cosa, ce n’è sempre un’altra. Il futuro è solo una sequenza di eventi che si svi-luppa linearmente.

Tonio si riempie i polmoni di iodio, riapre la dispensa e va avanti con la lettura. È già settembre, quando una macchina entra a gran velocità nel parcheggio della

Matrix. Si ferma sotto la P dei posti riservati. La sequenza di rumori incalzanti, rom-bo del motore, fischio delle ruote, termina con il suono strozzato del freno a mano in-nestato. Guardando il pallore dell’uomo che scende dall’auto e che stringe al petto ungran numero di cartellette, non si direbbe mai che quell’uomo abbia passato al marel’estate intera. Di bagni ne ha fatti pochi, di partite a tressette nessuna, ma ha lettopraticamente ogni rivista di elettronica esistente sul mercato, tutti i rapporti dei prin-cipali centri di ricerca e della Commissione europea.

Richiamato dai rumori, il dottor Incandenza si affaccia sul parcheggio dalla fine-stra della sua stanza.

Davanti alla macchina, Tonio si sbraccia verso di lui. «Ce le ho, ce le ho, ce le ho! Le idee, ce le ho!» urla, dirigendosi in fretta verso le

scale. Mentre cammina, Tonio solleva per aria una mano, con tre dita tese.

«Domotica, Reti di Sensori, Fotovoltaico!» ricapitola l’ingegner Sacchetti, con-tando le eccellenze della Matrix sulla punta delle dita, «tutto interamente pensato,studiato, realizzato qui!»

Di Turi ascolta, annuendo un numero di volte che gli sembra adeguato, ottenen-do un effetto quasi solenne.

«Ne abbiamo avuti altri, di borsisti della Regione. Vengono qui, fanno un periodo

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di stage, e poi» Sacchetti si interrompe, tira su con il naso, «quasi sempre, ce li siamotenuti!»

Si alza dalla sedia, si dirige alla finestra e continua a parlare, rivolto di spalle a DiTuri.

«E sai in base a cosa li abbiamo scelti? Sai cosa ci ha portato ognuno di loro peressere assunto?»

Sacchetti si volta. Ora è lui che annuisce, perché sa che Di Turi non sbaglierà ri-sposta:

«Un’idea!» dice piano Di Turi. «Un’idea!» ripete Sacchetti, ritornando a sedere. Di nuovo alla scrivania, si toglie

gli occhiali e si avvicina allo schermo dove riprende a scorrere il curriculum di Gia -como Di Turi. Su alcuni dati sembra concentrarsi più a lungo di quanto abbia fattoprima.

Chiude il file, mette le lenti di traverso tra sé e l’interlocutore. Apre la bocca e sele caccia dentro una alla volta. Poi strofina il cristallo con la camicia. Infine, si rimet-te gli occhiali. Incrocia le mani davanti a sé e guarda il giovane. Lentamente, prendea muovere il capo, cercando di infilare il più possibile il labbro superiore dietro quel-lo inferiore. Se uno guardasse quel volto per la prima volta non potrebbe non sorri-dere. Di Turi, però, restituisce a Sacchetti un’espressione serissima.

«Perché sei tornato?» domanda. «In che senso?» chiede Di Turi. «Dalla Germania, ho visto che hai fatto l’Erasmus, la tesi e lo stage. Perché uno

che costruisce una dimensione internazionale della sua formazione, poi torna indie-tro? La mamma? La fidanzata? Non è per le mozzarelle, vero?»

Di Turi scuote la testa, la fronte d’improvviso attraversata da una ruga triste.«Le mozzarelle arrivano fresche ogni giorno anche in Germania! Puntuali. Come

tutto, del resto» dice. Prende tempo, il suo torace si tende come un arco sul punto discoccare un colpo. «Non ha un nome. Non è la fidanzata o la mamma. È la mia ter-ra. L’idea di avere un debito con lei. E la possibilità di saldarlo. Ho cercatoun’occasione per tornare in Puglia, senza che questo volesse dire svendersi. Ho cer-

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cato qualcuno che mi desse un’occasione per riportare qui le cose, anche poche, cheho imparato fuori. È quello che ho visto nella vostra azienda. Una mano tesa».

Sacchetti ascolta con interesse. Nella ruga triste che attraversa il volto giovane diDi Turi, si può leggere il nome di tutte le cose a cui ha rinunciato per tornare nellasua terra.

«E poi, se mi consente, ingegnere, non è esatto».Sacchetti scuote la testa, interrogativo: «Che cosa?»«Quello che ha detto, poco fa» dice Di Turi indicando con l’intera mano il suo in-

terlocutore, «io non sono tornato indietro. Io sto andando avanti!»Silenzio.Sacchetti batte il pugno sulla scrivania con un colpo sommesso. «Lunedì, alle otto e mezza. Qui si sa quando si inizia, ma non quando si finisce».La ruga di Giacomo Di Turi svanisce all’istante. «Grazie, ingegnere!» fa il giovane tendendosi in avanti. Sacchetti lo interrompe, indicandogli l’uscita: «E adesso fuori che devo finire un

brevetto!» Di Turi raccoglie in fretta le sue cose ed è già sulla porta quando l’ingegner Sac-

chetti gli intima di fermarsi:«Di Turi, lei mi ricorda una persona. Lo sa?»Di Turi sorride. «Uno che ha messo piede qui dentro una decina d’anni fa!»A Di Turi non pare vera l’occasione: eccola lì la domanda tormentone di ogni col-

loquio. «E dov’è adesso, dieci anni dopo?»Sacchetti sta per rispondere, ma Di Turi lo interrompe e mentre chiude la porta,

gli dice: «Domanda retorica. Non c’è bisogno che mi risponda!»Rimasto solo, Tonio Sacchetti sorride, mette in bocca un’altra gomma, riapre il fi-

le del brevetto che aveva chiuso poco prima, si toglie gli occhiali e ricomincia a lavo-rare.

73 F. Marocco. Il colloquio

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Gli autori

Francesco Carofiglio è nato a Bari. Architetto, regista, scrittore e illustratore, ha la-vorato per molti anni come attore e autore teatrale. Scrive soggetti e sceneggiatureper il cinema e la televisione. Ha pubblicato per Bur nel 2005 il romanzo With orwithout you, per Rizzoli nel 2007 il graphic novel Cacciatori nelle tenebre insieme a suofratello Gianrico, per Marsilio nel 2008 il romanzo L’estate del cane nero, giunto allaquinta edizione e, sempre per Marsilio, nel 2009 il romanzo Ritorno nella valle degli an-geli. Nel 2010 andrà in scena Il Maestro, testo teatrale scritto e diretto dallo stesso Ca-rofiglio, che verrà pubblicato entro l’anno per i tipi di Marsilio. In programma inol-tre, dai suoi libri, una serie televisiva e un film per il cinema.

Carlo D’Amicis nato a Taranto, vive a Roma dove collabora ai programmi di RadioRai. Dal 1999 è redattore e conduttore della trasmissione Fahrenheit su RadioTre.Ha pubblicato i romanzi Piccolo Venerdì (Transeuropa, 1996), Il ferroviere e il golden gol(Transeuropa, 1998, selezione Premio Strega), Ho visto un re (Limina, 1999, PremioConi per la letteratura sportiva), Amor Tavor (PeQuod, 2003), Escluso il cane (mini-mum fax, 2006, Premio Kriterion e Premio Magna Capitana), La guerra dei cafo-ni (minimum fax, 2008, selezione Premio Strega), e il racconto lungo Maledetto nei se-coli dei secoli l’amore (Manni, 2008).

Daniele De Michele alias Donpasta Daniele De Michele è uno scrittore, di forma-zione economista, appassionato di vino e cucina. Già autore di Food sound system(Kowalski, 2006) ha ideato l’omonimo spettacolo multimediale, in tournée in Italia,

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Francia e Spagna. Vive tra Roma e Toulouse dove ogni anno organizza «Soul Food»,incontro su cibo, arte e sostenibilità ambientale. In the food for love, spettacolo di cuci-na e circo contemporaneo è il progetto a cui sta lavorando. Wine sound system (Kowal-ski, 2009) è il suo ultimo lavoro.

Nicola Lagioia è nato a Bari nel 1973. Ha pubblicato Tre sistemi per sbarazzarsi di Tol-stoj (senza risparmiare se stessi) (minimum fax, 2001) e Occidente per principianti (Einau-di, 2004). Ha curato, con Christian Raimo, l’antologia di racconti La qualità dell’aria(minimum fax, 2004). È uno dei quattro scrittori della Babette Factory, autori di 2005dopo Cristo (Einaudi, 2005). Sempre nel 2005 ha pubblicato per Fazi il saggio BabboNatale. Collabora con diverse riviste e giornali. Il suo ultimo lavoro, Riportando tutto acasa, è appena uscito per Einaudi. Dirige «nichel», la collana di letteratura italiana diminimum fax.

Francesco Marocco Architetto barese, vive e lavora tra Bari e Valencia. Nell’ottobre2006 esordisce pubblicando con La meridiana il libro di racconti L’estate in cui il Baricomprò Joao Paulo, sei storie disincantate che corrono sul filo di un’adolescenza tardi-va, ambientate sullo sfondo delle periferie baresi. Dal gennaio al luglio 2008 ha scrit-to ogni domenica per il «Corriere del Mezzogiorno» le avventure di Primperan, il tren-taneo, trentenne precario ed estraneo al mondo che lo circonda. Scrive sul bloghttp://primperan.wordpress.com e ha appena pubblicato, fedele ai tipi della Meridia-na, In tumulto. Nei moti dell’adolescenza, esito di una collaborazione con il Teatro Kismetdi Bari.

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Indice

Prefazione Cos’è il talento? di Ettore Chiurazzi V

Tink & Tank di Francesco Carofiglio 3

Tutta l’acqua che c’è di Carlo D’Amicis 11

SafeWheat di Daniele De Michele alias Donpasta 25

La Puglia imPasta di Nicola Lagioia 43

Il colloquio di Francesco Marocco 55

Gli autori 75

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