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DOMENICA 26 FEBBRAIO 2012 ANNO II, NO° 8 SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» di GRAZIELLA PULCE ●●●I cassetti degli scrittori di genio dovrebbero essere sempre capienti e profondi, con doppio fondo che dissi- muli la ricchezza contenuta, capaci di tenere in gestazione quanto più materiale possibile e partorirlo con re- golarità nel tempo, anche dopo la morte dell’autore perché il lettore or- fano possa almeno per qualche tem- po trovare consolazione dalla pubbli- cazione degli scritti inediti, sparsi o introvabili, sepolti vivi nelle bibliote- che o nelle emeroteche e bisognosi di quel soffio vitale che solo la lettura è in grado di infondere nelle fibre altri- menti morte della carta. Con Carte inaspettate (a cura di A. Bernárdez e C. Álvarez Garriga, trad. di J. Riera Rehren, pref. di A. Tabuc- chi, Einaudi, pp. 318, 20,00) i devoti italiani di Julio Cortázar ricevono pa- ne per i loro denti, anche se, rispetto all’originale, Papeles inesperados, del 2009, l’indice del volume è stato ridot- to per tutte le edizioni non in lingua spagnola secondo la volontà della cu- ratrice. Vi si trovano testi inediti o usciti in giornali e riviste e mai pubbli- cati in volume. Oltre a racconti, poe- sie, interviste, interventi teorici, si possono leggere tre storie di crono- pios e famas, alcuni episodi di Un tal Lucas e anche la prefazione inedita a un volume di racconti. I pezzi, orga- nizzati secondo un criterio tematico, sono ripartiti in Storie, Momenti, Cir- costanze, Degli amici, Altri territori, In fondo al cassetto, Interviste allo specchio, Poesie. Il testo dunque si presenta ovvia- mente frammentario, una frammen- tarietà che però non risulta accidenta- le ma spiccatamente ontologica. Per Cortázar, giudiziosamente illogico e centrifugo per natura, cedere all’im- pulso di uscire di traiettoria è tut- t’uno rispetto alla sua vocazione di narratore. Il fantastico in lui non è un dono ricevuto, una modalità astrattamente letteraria di rappresen- tare la realtà, quanto la risposta stili- stica alle incongruenze del suo esiste- re. Scrivere significa innanzitutto co- gliere l’intrinseco fascino di una sto- ria, farla risuonare all’interno della propria cultura, del proprio linguag- gio, della costellazione mitologica che intesse i sogni di una nazione, per poi potenziarla con il rigore este- nuante dell’impegno letterario, farle assumere la forma precisa che di quella materia porti in salvo l’irripeti- bile fosforescenza e ne liberi appieno la tensione creativa sotterranea. Quel- lo che è uno dei più straordinari nar- ratori del fantastico e del possibile è stato infatti anche un attentissimo, al- gido teorico e codificatore della pro- sa. L’autore di personaggi dalle mal- certe identità, abitatori di mondi pa- ralleli e discontinui, refrattari a qualsi- asi ipotesi di logica razionalizzante ha fatto base in un luogo così ben de- terminato e nitidamente connotato in senso politico e civile, come testi- monia anche l’intervista a «Life» (1969), qui raccolta. Anche la sua er- ranza geografica si rivela tutta inscrit- ta nei termini di una strenua fedeltà ai valori umani e civili, calpestati in Argentina come a Cuba, terra cui ha continuato a guardare come a una pa- tria psichica. Carte inaspettate è pertanto in gra- do di presentare, come spesso acca- de quando si tratta di libri postumi, un quadro ragionato della parabola dello scrittore, in grado di restituire al lettore la topografia dei due versanti: quello operativo e quello programma- tico. Ciò che rende particolarmente interessante il risultato è l’esplicitazio- ne del dialogo continuo intrattenuto dal narratore con la propria vocazio- ne letteraria soprattutto in termini di etica dello stile. Cortázar non fa nulla per rendere più facile l’accesso al mondo che propone: il rivoluziona- rio Cortázar sa che la letteratura per essere veramente popolare non può trattare il lettore come un bambino da portare per mano. Per fare buona letteratura il narratore deve lavorare sulla propria scrittura e fare in modo che essa si carichi come una dinamo e sia quindi possibile al lettore parte- cipare a quella energia senza che se ne perda nulla. Se sia buona o cattiva letteratura sarà infatti solo il lettore a deciderlo. Questa la democraticissi- ma legge che sovrintende al lavoro dello scrittore, un lavoro che ha a che fare con il numinoso, un numinoso che non sta in un altrove lontano, ma risiede precisamente nel qui e ora in cui abitano i mortali. Ma la presenza del numinoso può essere percepita solo se lo scrittore trova un punto ec- centrico (rispetto al tempo o allo spa- zio), un punto che è intervallo di di- scontinuità che si rivela per epifanie, intercapedine tra universi paralleli. O, come scrive in Manoscritto trovato accanto a una mano: «in una di quel- le assurde distrazioni che ci capitano quando siamo molto concentrati». Precisamente per questa ragione Cor- tázar sostiene che non esiste altra let- teratura realistica se non quella fanta- stica, quella che si insinua nelle pie- ghe e nei recessi del reale linguistica- mente codificato e decifra i segni in base a un cifrario che ne rende di fat- to il significato alternativo rispetto al- la pratica comune. La scrittura di Cortázar è primaria- mente un’esperienza nel backstage della mente, uno spazio simile a quel- lo in cui precipita l’Alice carrolliana: dove niente è come dovrebbe essere, ma come potrebbe essere se solo la mente abbandonasse i meccanismi che le consentono una lettura auto- matica ed economica dei fenomeni. Cortázar è quel demiurgo creatore che è perché getta un fascio di luce che rivela al lettore un universo vi- vente di vita propria e completamen- te sottratto al controllo dell’autorità razionale, un mondo nel quale l’acca- dere dei fenomeni si capovolge, la conseguenza si estroflette in causa e l’ordine si rivela un accidente mo- mentaneo del disordine. Una volta che la scrittura sia riuscita a rendere tangibile e visitabile l’altra parte del- lo specchio nell’autore come nel let- tore, le cose non possono essere più come prima: il guanto è stato rove- sciato e il dentro impensabile e oscu- ro calpesta la terra alla luce del sole nella sua non più negabile esistenza. Per entrare in questa altra dimensio- ne si possono seguire vari ‘conigli’ nelle profondità scavate secondo tra- iettorie invisibili da fuori. Uno di que- sti è il refuso tipografico, su cui argo- menta con nitido capriccio in Lucas, suoi refusi, l’errore rapido come un ratto, l’errore-cavallo-di-Troia che si introduce in territorio nemico e ne disarticola le difese. Un altro è la resa attiva allo straniamento e per questo si legga il fulminante Peripezie del- l’acqua, uno dei pezzi più stupefa- centi nel quale l’inclinazione al mi- stero si intreccia a un umorismo irre- sistibile, dove si dimostra come una mente implacabilmente palindroma possa ottenere risultati strabilianti a partire da ingredienti semplicissimi. Già dall’incipit («Basta conoscerla ab- bastanza per capire che l’acqua è stanca di essere un liquido») abbia- mo l’immagine di un universo noto reso definitivamente irriconoscibile dalla potenza di un linguaggio che permette una silenziosa ma definiti- va irruzione dell’altro nel nostro mondo stanco di essere insensata- mente e tetramente reale. La linea è quella gloriosa e antica che passa, a dir poco, per Cervantes, Poe, Kafka, Lautréamont, Borges, fino ad arriva- re almeno a Calvino e Manganelli. Di Cortázar il consanguineo e pro- ximus Tabucchi addita due elementi chiave: da un lato l’amore per i gio- chi combinatori e dunque le infinite possibilità della matematica come pure del linguaggio, dall’altro «la mi- steriosa algebra della Cabala», delle innumerabili variabili che governa- no tanto un colpo di dadi quanto le umane vicende. Ossimoro solo appa- rente poiché entrambi sono governa- ti da qualcosa che li trascende, quel nonnulla che come il bambino di cui parla Eraclito tiene in mano e deter- mina con felice irresponsabilità il cor- so dei mondi. DELLA MENTE NEL BA CK STA G E GLENN GOULD ON TELE VISION. DIE CIDVD CON IL PIANISTA CANADESE, TRA BEETHOVEN E BACH, MENUHIN E S CHÖNBERG «CARTE INASPETTATE» DI JULIO CORTÁZAR: UNA FANTASTICA CENTRIFUGA DI POESIE, RACCONTI E INTERVISTE CI PRECIPITA «OLTRE LO SPECCHIO» A PAGINA 5
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DOMENICA

26 FEBBRAIO 2012ANNO II, NO° 8

SUPPLEMENTO SETTIMANALEDE «IL MANIFESTO»

di GRAZIELLA PULCE

●●●I cassetti degli scrittori di geniodovrebbero essere sempre capienti eprofondi, con doppio fondo che dissi-muli la ricchezza contenuta, capacidi tenere in gestazione quanto piùmateriale possibile e partorirlo con re-golarità nel tempo, anche dopo lamorte dell’autore perché il lettore or-fano possa almeno per qualche tem-po trovare consolazione dalla pubbli-cazione degli scritti inediti, sparsi ointrovabili, sepolti vivi nelle bibliote-che o nelle emeroteche e bisognosi diquel soffio vitale che solo la lettura èin grado di infondere nelle fibre altri-menti morte della carta.

Con Carte inaspettate (a cura di A.Bernárdez e C. Álvarez Garriga, trad.di J. Riera Rehren, pref. di A. Tabuc-chi, Einaudi, pp. 318, € 20,00) i devotiitaliani di Julio Cortázar ricevono pa-ne per i loro denti, anche se, rispettoall’originale, Papeles inesperados, del2009, l’indice del volume è stato ridot-to per tutte le edizioni non in linguaspagnola secondo la volontà della cu-ratrice. Vi si trovano testi inediti ousciti in giornali e riviste e mai pubbli-cati in volume. Oltre a racconti, poe-sie, interviste, interventi teorici, sipossono leggere tre storie di crono-pios e famas, alcuni episodi di Un talLucas e anche la prefazione inedita aun volume di racconti. I pezzi, orga-nizzati secondo un criterio tematico,sono ripartiti in Storie, Momenti, Cir-costanze, Degli amici, Altri territori,In fondo al cassetto, Interviste allospecchio, Poesie.

Il testo dunque si presenta ovvia-mente frammentario, una frammen-tarietà che però non risulta accidenta-le ma spiccatamente ontologica. PerCortázar, giudiziosamente illogico ecentrifugo per natura, cedere all’im-pulso di uscire di traiettoria è tut-t’uno rispetto alla sua vocazione dinarratore. Il fantastico in lui non è undono ricevuto, né una modalitàastrattamente letteraria di rappresen-tare la realtà, quanto la risposta stili-stica alle incongruenze del suo esiste-re. Scrivere significa innanzitutto co-gliere l’intrinseco fascino di una sto-ria, farla risuonare all’interno dellapropria cultura, del proprio linguag-gio, della costellazione mitologicache intesse i sogni di una nazione,per poi potenziarla con il rigore este-nuante dell’impegno letterario, farleassumere la forma precisa che diquella materia porti in salvo l’irripeti-bile fosforescenza e ne liberi appienola tensione creativa sotterranea. Quel-lo che è uno dei più straordinari nar-ratori del fantastico e del possibile èstato infatti anche un attentissimo, al-gido teorico e codificatore della pro-sa. L’autore di personaggi dalle mal-certe identità, abitatori di mondi pa-ralleli e discontinui, refrattari a qualsi-asi ipotesi di logica razionalizzanteha fatto base in un luogo così ben de-terminato e nitidamente connotatoin senso politico e civile, come testi-monia anche l’intervista a «Life»(1969), qui raccolta. Anche la sua er-ranza geografica si rivela tutta inscrit-ta nei termini di una strenua fedeltàai valori umani e civili, calpestati inArgentina come a Cuba, terra cui hacontinuato a guardare come a una pa-tria psichica.

Carte inaspettate è pertanto in gra-do di presentare, come spesso acca-de quando si tratta di libri postumi,un quadro ragionato della paraboladello scrittore, in grado di restituire allettore la topografia dei due versanti:quello operativo e quello programma-tico. Ciò che rende particolarmenteinteressante il risultato è l’esplicitazio-ne del dialogo continuo intrattenutodal narratore con la propria vocazio-ne letteraria soprattutto in termini dietica dello stile. Cortázar non fa nulla

per rendere più facile l’accesso almondo che propone: il rivoluziona-rio Cortázar sa che la letteratura peressere veramente popolare non puòtrattare il lettore come un bambinoda portare per mano. Per fare buonaletteratura il narratore deve lavoraresulla propria scrittura e fare in modoche essa si carichi come una dinamoe sia quindi possibile al lettore parte-cipare a quella energia senza che sene perda nulla. Se sia buona o cattivaletteratura sarà infatti solo il lettore adeciderlo. Questa la democraticissi-ma legge che sovrintende al lavorodello scrittore, un lavoro che ha a chefare con il numinoso, un numinosoche non sta in un altrove lontano, marisiede precisamente nel qui e ora incui abitano i mortali. Ma la presenzadel numinoso può essere percepitasolo se lo scrittore trova un punto ec-centrico (rispetto al tempo o allo spa-

zio), un punto che è intervallo di di-scontinuità che si rivela per epifanie,intercapedine tra universi paralleli.O, come scrive in Manoscritto trovatoaccanto a una mano: «in una di quel-le assurde distrazioni che ci capitanoquando siamo molto concentrati».Precisamente per questa ragione Cor-tázar sostiene che non esiste altra let-teratura realistica se non quella fanta-stica, quella che si insinua nelle pie-ghe e nei recessi del reale linguistica-mente codificato e decifra i segni inbase a un cifrario che ne rende di fat-to il significato alternativo rispetto al-la pratica comune.

La scrittura di Cortázar è primaria-mente un’esperienza nel backstagedella mente, uno spazio simile a quel-lo in cui precipita l’Alice carrolliana:dove niente è come dovrebbe essere,ma come potrebbe essere se solo lamente abbandonasse i meccanismi

che le consentono una lettura auto-matica ed economica dei fenomeni.Cortázar è quel demiurgo creatoreche è perché getta un fascio di luceche rivela al lettore un universo vi-vente di vita propria e completamen-te sottratto al controllo dell’autoritàrazionale, un mondo nel quale l’acca-dere dei fenomeni si capovolge, laconseguenza si estroflette in causa el’ordine si rivela un accidente mo-mentaneo del disordine. Una voltache la scrittura sia riuscita a renderetangibile e visitabile l’altra parte del-lo specchio nell’autore come nel let-tore, le cose non possono essere piùcome prima: il guanto è stato rove-sciato e il dentro impensabile e oscu-ro calpesta la terra alla luce del solenella sua non più negabile esistenza.Per entrare in questa altra dimensio-ne si possono seguire vari ‘conigli’nelle profondità scavate secondo tra-

iettorie invisibili da fuori. Uno di que-sti è il refuso tipografico, su cui argo-menta con nitido capriccio in Lucas,suoi refusi, l’errore rapido come unratto, l’errore-cavallo-di-Troia che siintroduce in territorio nemico e nedisarticola le difese. Un altro è la resaattiva allo straniamento e per questosi legga il fulminante Peripezie del-l’acqua, uno dei pezzi più stupefa-centi nel quale l’inclinazione al mi-stero si intreccia a un umorismo irre-sistibile, dove si dimostra come unamente implacabilmente palindromapossa ottenere risultati strabilianti apartire da ingredienti semplicissimi.Già dall’incipit («Basta conoscerla ab-bastanza per capire che l’acqua èstanca di essere un liquido») abbia-mo l’immagine di un universo notoreso definitivamente irriconoscibiledalla potenza di un linguaggio chepermette una silenziosa ma definiti-

va irruzione dell’altro nel nostromondo stanco di essere insensata-mente e tetramente reale. La linea èquella gloriosa e antica che passa, adir poco, per Cervantes, Poe, Kafka,Lautréamont, Borges, fino ad arriva-re almeno a Calvino e Manganelli.

Di Cortázar il consanguineo e pro-ximus Tabucchi addita due elementichiave: da un lato l’amore per i gio-chi combinatori e dunque le infinitepossibilità della matematica comepure del linguaggio, dall’altro «la mi-steriosa algebra della Cabala», delleinnumerabili variabili che governa-no tanto un colpo di dadi quanto leumane vicende. Ossimoro solo appa-rente poiché entrambi sono governa-ti da qualcosa che li trascende, quelnonnulla che come il bambino di cuiparla Eraclito tiene in mano e deter-mina con felice irresponsabilità il cor-so dei mondi.

DELLA MENTENEL BACKSTAGE

GLENN GOULD ON TELEVISION.DIECI DVD CON IL PIANISTA

CANADESE, TRA BEETHOVEN E BACH,MENUHIN E SCHÖNBERG

«CARTE INASPETTATE»DI JULIO CORTÁZAR:UNA FANTASTICACENTRIFUGA DI POESIE,RACCONTI E INTERVISTECI PRECIPITA«OLTRE LO SPECCHIO»

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(2) ALIAS DOMENICA26 FEBBRAIO 2012

UN’ANTOLOGIA MILITANTE, DA ULRIKE DRAESNER (N. 1962) AD ANN COTTEN (N. 1982)

di DAVIDE RACCABERLINO

●●●Dopo la Tate Modern di Londra,la mostra Panorama di GerhardRichter si sposta, fino al 13 maggio, aBerlino, e si confronta con la NeueNationalgalerie, la struttura modularein vetro e metallo di Mies van derRohe.

Fuoriuscito dall’Accademia diDresda, dai suoi dogmi di realismosocialista, e rientrato in quella diDüsseldorf agli inizi degli annisessanta, Richter è mosso da un’idea«libera» di arte. Ed è forse per questoche, nel corso dei cinquant’anni diproduzione successiva, la sua opera sitroverà a proprio agio in collettivepop-art come in contesti diastrattismo, minimalismo econcettualismo. L’impostazionecronologica della retrospettivaaccentua l’indifferenza del pittoretedesco agli stili, e, mostrando la

contestuale, sinottica produzione difigurazione e astrazione, induce acredere che non di una personale sitratti, bensì di una collettiva.

All’inizio degli anni sessanta, igiovani Richter, Polke, Lueg e Kuttnerconiarono, per il loro comune filoneperformativo, il titolo «KapitalistischerRealismus». L’ironia di allora, giocatasu effetti blow-up ed estraniamentidall’ industria culturale di massa,mostrava in controluce un«panorama» senza ironia: il dominioassoluto dell’immagine massmediale.È dalla diffusione del dagherrotipo,nella seconda metà dell’Ottocento,che i pittori hanno cominciato autilizzare lo strumento fotografico,allora non ancora pensabile comelinguaggio autonomo. Delacroix,Courbet, Manet, Ingres, tra gli altri,trovavano nella fotografia unostrumento formidabile di stimolo edeconomicità dell’elaborazionepittorica. L’uso della photopeinture,

che con diapositiva e proiettorefacilitava il trasferimento di immaginisu tela, agevolò in seguito non poco laproduzione seriale dei ritratti di unpittore come Franz von Lenbach. Lafotografia è venuta acquistando unpeso sempre maggiore e diffuso.Divenuto fatto artistico indiscussodella contemporaneità, è con lapop-art che persino l’immagine darotocalco viene iconizzata. Ed èproprio da questo filone che la pitturadi Richter prende le mosse per laproduzione degli anni sessanta.

La figuratività in bianco-nero,sfocata, di quegli anni, che nasce dallariproduzione fotografica di ritratti difamiglia, di pubblicità, di ritagli digiornali con cronaca politica, nera escandalistica, col tempo lascia spazioa pitture cromatiche, limpide efotogeniche di paesaggi e ritratti. E sel’arte, tutta, è un’astrazione, laproduzione astratto-espressionisticadi Richter, che si muove a partire

dalla fine degli anni settanta, non è incontraddizione con una scelta diriproduzione mediale. Le spatolate dicolore e le sovrapposizionicromatiche appaiono come fermo-immagini di velocizzazioni esvisamenti spettroscopici, comedisturbi catodici, oppure come leintermittenze di un computer in savescreen. Così, le opere minimali diquadratini dipinti a lacca, checorrono lungo tutto il perimetrodell’aula espositiva, e che sicondensano nell’opera 4096 Farbendel 1974, lasciano pensare alla copiadi una quadricromia.

Tutto quello che passa davanti agliocchi qui sembra la riproduzionepittorica di una riproduzionemediale. E vale la pena soffermarsisul ritratto Betty, del 1988: è pittura ofotografia? Domanda, questa, che neinduce un’altra: è la patinafotografica l’aureola contemporaneadella pittura?

di DOMENICO PINTO

●●●«Non sapersi orientare in unacittà non vuol dir molto. Ma smarrirsiin essa come ci si smarrisce in una fo-resta, è una cosa tutta da imparare».Cominciava così il quadernino di ta-bleaux che Benjamin mise insiemenell’Infanzia berlinese, il cuore segre-to e favoloso della propria immagineda fanciullo.

Il Tiergarten, la Colonna della Vitto-ria, il mercato di Piazza Magdeburgo,per un uomo cui le strade di questacittà erano «familiari come i nomi del-la Genesi», appaiono ancora oggi nel-l’indistruttibile luce del sogno, irradia-no fino a noi gli inizi del Novecento.

Com’è mutata Berlino, ora che daquei ricordi ci separa la distanza diun secolo, le guerre mondiali, i totali-tarismi di carica contraria, adessoche la sua mente ha ripreso a comuni-care fra i due emisferi? È noto che lacittà vive da tempo una stagione d’eu-foria, con una capillare circolazionedi idee in ogni àmbito; si fondano tea-tri, animano riviste, e non è per av-ventura che Suhrkamp – l’editore dimaggior tradizione – l’abbia sceltaper trasferirvi la storica sede di Fran-coforte. Conosciamo le sue cupolestrallate, la Museumsinsel, le sue uni-versità, gli artisti, le sue mostre. Macome ci si smarrisce, veramente, inquesta foresta? L’occasione è presta-ta dall’antologia a cura di TheresiaPrammer Ricostruzioni Nuovi poeti diBerlino (Scheiwiller, pp. 656, € 29,00),che per i tramiti della poesia disegnauna minitussima mappa del pensie-ro e del milieu berlinesi.

Nella metropoli del dopomuro af-fluisce una copiosa generazione dipoeti nati negli anni sessanta e settan-ta: iperdotti, intransigenti, pronti ariattivare criticamente il passato lette-rario quanto a farsene beffe, soggioga-ti da una musa filosofica e melanconi-ca, questi stilisti iracondi e loici scava-no camminamenti in tutte le direzio-ni. Sovente sono anche critici, editorio traduttori, si servono del prosceniocittadino per mettere in forma le pro-prie letture nei Café e nelle officine,conquistano i fogli letterari e i puntinodali della Rete (occorre qui ricor-dare almeno lyrikline.org, progettoimponente della Literaturwerkstatt,il forum-der-13.de e il sito lyrikkritik.de, tenuto da uno dei poeti presentinel volume, Hendrik Jackson). La ter-za via aperta dalla «prima generazio-ne senza parole d’ordine» – secondo

un giudizio di Falkner – compie unaparabola che scavalca le impietritecontrapposizioni tra la sperimenta-zione linguistica (si legga avanguar-dia) e il rappel à l’ordre – verso il qua-le corre a perdifiato, con effetti lata-mente museali, anche un poeta co-me Grünbein, sebbene sia il medesi-mo autore di una splendida, e rinne-gata, opera prima come Grauzonemorgens (1988).

Questa antologia militante conta iritratti di dodici poeti, legati a Berlinoper una sorta di forza magnetica o, di-rebbe Robert Walser, «attratti in quel-la città da una forma di nostalgia», icui estremi sono rappresentati daUlrike Draesner (1962) – unica adaver già una traduzione italiana per isuoi versi, con il volume viaggio obli-quo, a cura di C. Miglio e T. Prammer– e Ann Cotten, nata nel 1982. Gli al-tri, dopo il già ricordato Jackson, so-no Ulf Stolterfoht, Lutz Seiler, Johan-nes Jansen, Marion Poschmann, Mo-nika Rinck, Sabine Scho, Jan Wagner,Daniel Falb e Steffen Popp.

Si tolga per un momento dal nove-ro Draesner, che per una certa assolu-tezza tragica raggiunge, forse, gli esitifra tutti più maturi, dove l’âventiuredella forma comincia nella fratturatra carne e parola, nel corpo – e chie-dersi se le sue siano ‘belle’ poesie sa-rebbe «voler valutare la purezza dellavoce, la nitidezza della nota emessada un uomo sotto tortura», stando aun pensiero di Cusatelli su Fritz Zorn.Paiono dunque disponibili due opzio-ni: quella gnoseologica e quella me-moriale e lirica. Va da sé che si trattadi sacche amplissime, e che i transitidall’uno all’altro polo, le fluttuazioni,le particolari declinazioni, turbanol’immagine di questi poeti come uneffetto moiré.

Da un lato l’esempio più vistoso eradicale è quello di Stolterfoht, chenel saggio Ancora una volta ritornasulla poesia «sperimentante», termi-ne da lui preferito a ‘sperimentale’.Ancor prima dell’ascolto, tenace eproblematizzato, verso le promessedi libertà immanenti nell’avanguar-dia – che si lasciano riassumere conun famoso verso di Heiner Müller: «ilBello è la possibile fine degli orrori» –,preme sottolineare che per Stolter-foht la poesia è un dispositivo che ser-ve a comprendere, se non la realtà, al-lora gli atti della conoscenza: «Le poe-sie non si leggono per capirle, ma percapire un po’ meglio il capire. Questo[…]farebbe sì che tutte le poesie, spe-rimentali e non, avrebbero lo stessosenso, cioè quello di farci vedere chia-ramente le possibilità e impossibilitàdella nostra conoscenza». Pertantoquesti poeti somiglieranno molto dapresso a una schiera di critici del lin-guaggio, a una scuola filosofica in gi-ro per il peripato dell’avanguardia,ora sotto ora fuori dalle sue colonne.È un ampliamento della parola poeti-

ca vòlto a catturare la complessità delmondo contemporaneo, in un cam-po perennemente solcato da allego-rie saggistiche, pittoriche ed episte-mologiche, il cui programma è attua-to senza celare nessuna delle stigma-te formali del Novecento: sovversio-ne dei codici e dei registri, insertiespressivisti, citazionismo, travesti-menti, arte combinatoria, reviviscen-za dialettica della tradizione – daBenn a Huchel – culminante per alcu-ni nella rilettura di un grande scom-parso, Thomas Kling (1957-2005); eancora antisoggettivismo, pastiche econcettismo ironico («"io sono unapoesia" – sicuramente una / delle fra-si più intricate della poesia tedesca»,sempre Stolterfoht). È su tale la lineache da lontano gli tende il braccio lapiù giovane nella foto di gruppo, AnnCotten, con le corone di sonetti ana-grammatici, o attraverso la sua «so-cio-zoologia» un autore come Falb(«questi disegni infantili sono così /sinceri. il sole in alto a destra, esatto,/ un radiatore nero. / ci amiamo. ab-biamo opinioni liberali»).

All’altro capo della corda si situa-no, invece, poeti d’intonazione più li-rica e meditativa – pur nelle invarian-ti stilistiche che si sono dette – qualiSeiler, dove la «trama interna» dellapoesia è «il sistema nervoso del ricor-do» («[…] a pian / terreno si offrono /betulle, faggi. saluto / qualcosa chemanca. tutto il tempo / di dio, questovoleva seneca. io volevo / una fisar-monica e un cane, vedevo / cose, cheprecipitavano / dal tavolo, nelle quali/ ero contenuto io.»); anche se il tim-bro che risuona più a lungo, dopotanto vertiginosa riflessione sul pen-siero e la poesia, agendo da viatico al-l’antologia, è quello del «classicistaclandestino» Steffen Popp: «Il miocuore è pieno di sangue. / E tutti i luo-ghi mai raggiunti / sono in me, unospiraglio / di finestre aperte.»

Una nota cursoria, da ultimo, sulledifficoltà della ‘trascrizione’ in italia-no di questa stagione poetica. Il lavo-ro si è avvalso di un pool di traduttorisensibili, fra cui Miglio e Baldacci –mi perdoni chi non viene nominato–; ma la curatrice dell’antologia, chefirma molte delle versioni confluitenel libro, offre un misterioso e inquie-tante caso di traduzione verso una lin-gua che non sia quella materna (conpunte di virtuosismo, come negliesemplari dalle Radikalübersetzun-gen: Prammer che vince la scommes-sa formale di tradurre Draesner, chea sua volta opera un rifacimento daShakespeare). Si ricorda, fra le pochis-sime «chiavi a stella» nel campo italo-tedesco, Helena Janeczek e la sua in-terpretazione del Tubutsch, capolavo-ro espressionista di Ehrenstein. Esem-pi rarissimi, per i quali il sospiro di Ar-no Schmidt non apparirà mai abba-stanza struggente: «Ah! Potessi averemille lingue!»

MOSTRE/BERLINO

Gerhard Richtere la patinafotografica,aureolacontemporaneadella pittura

Cinque giovani tedeschinelle «fototessere»di Thomas Ruff

Attratta dalla capitale tedesca quasi per forzamagnetica, la prima generazione di poeti«senza parole d’ordine» scava camminamentidappertutto: stili, e luoghi dalla rete ai Café

Le ricostruzionidei giovani poeti

BERLINESI

Gerhard Richter, «Betty», 1988

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(3)ALIAS DOMENICA26 FEBBRAIO 2012

GERENZA

di STEFANO GALLERANI

●●●È del 1956, l’anno dellarivoluzione anti-sovietica, un raccontobreve di Tibor Déry intitolato «Amore»(da noi è stato tradotto sette anni dopoda Feltrinelli, nell’esaustiva raccolta Ilgigante): poco più di dieci paginedescrivono la scarcerazione di unprigioniero politico, il suo impaccio, lasperanza e il timido ricongiungersi conla moglie che l’ha fedelmente aspettatocrescendo un figlio che lui non ènemmeno in grado di riconoscere.Quindici anni dopo, Péter Nádas (classe’42), ungherese come Déry, intitolaproprio Szerelem – ossia Amore(traduzione di Andrea Rényi, Zandonai,pp. 113, € 13,00) – un romanzocompresso e claustrofobico che ha imodi della pantomima verbale e l’aspracoerenza della narrativa sperimentale. Ameno di non voler forzare daticontingenti ed estranei ai testi, però,oltre alla coincidenza del titolo non si

darebbe altro legame tra il racconto diDéry e il libretto di Nádas.Ciononostante, è difficile trascurarecome, in prospettiva, entrambi abbianoa che fare – per ricorrere a unadicotomia richiamata anche da Rényinella nota che chiude il volume – con laparziale divaricazione tra temps e durée;e mentre nel racconto l’effetto dispaesamento che consegue alla noncoincidenza tra tempo trascorso edesperienza vissuta dal protagonista, B.,è riassunto nella condizione del reclusoche torna alla vita libera, nel romanzodi Nádas l’azione straniante si dà tuttain presa diretta. Calato da subito in unadimensione convenzionale e costipata(quella della camera da letto dove duegiovani, di notte, s’abbandonano l’unotra le braccia dell’altra e assumonodroghe), il lettore assiste con gli occhidell’amante agli spasmi d’unacoscienza che non è più in grado didiscernere ciò che sta realmenteaccadendo da quanto è solo

immaginato. Scandito in quattrocapitoli corrispondenti ad altrettantitentativi del protagonista di scuotersidallo stato di prostrazione indotto dagli

stupefacenti, Amore innesca un serratotour de force in cui una trama invisibile,cioè una relazione, viene compresaattraverso frammenti di discorso liberocolti nel loro farsi; ricorrendo a unasintassi arrischiata e autoproduttiva,l’autore di Fine di un romanzo familiaresi cimenta così nella dimostrazione dicome tutto ciò che normalmente sitiene nella singola individualità di unapersona non sia, veramente, che unavvicendarsi continuo e tumultuoso dicambiamenti; un seguito aperto eindefinitamente prolungato dievocazioni e suggestioni che Nádas (dicui è attesa, per quest’anno, la versioneitaliana del Libro di memorie) lasciacorrere sul filo di una scrittura mobileche da proiezione soggettiva qual èdiventa la lingua specifica di un testovertiginoso e astratto, a testimoniare inche modo, là dove scompaiono leimmagini, non rimanga se non la«retroguardia del pensiero come unicospazio dell’esistenza».

«TRATTATO POETICO», 1956 ■ ENDECASILLABI CON COMMENTO AUTORIALE

Varsavia brucia:parabola e martiriodella poesia polacca

Poesia dopo Auschwitz, avanguardieletterarie in Polonia... Questo poemettodidascalico, per la prima volta in italiano,«mette i piedi nel piatto» del Novecento

di VALENTINA PARISI

●●●Già nel 1953 – dalla prospetti-va rovesciata del suo esilio australein Argentina – Witold Gombrowiczmetteva in guardia Czeslaw Miloszdai pericoli insiti in un orientamen-to esclusivo sull’attualità o, meglio,in una autoimposta «specializzazio-ne» sui temi della Polonia e del co-munismo. Questa almeno era l’im-pressione che gli aveva lasciato lalettura della Mente prigioniera, divo-rata quasi per intero nelle sedici oredi un viaggio in corriera da BuenosAires, funestato dalla pioggia torren-ziale e dai tanghi trasmessi no stopalla radio. A suo avviso, infatti, Milo-sz stava soffocando la sua vena poe-tica, vittima di malintesi scrupolinei confronti di una «polonità» vis-suta sia come provenienza che co-me destino, dimentico di quell’im-pregiudicata libertà creativa a suotempo incarnata da visionari astori-ci quali Verlaine o Rabelais. «Il can-to del futuro – scriveva Gom-browicz nel suo Diario – non nasce-rà mai da una penna troppo legataal presente».

Quanto divergente fosse la stradaprescelta – a torto o a ragione – daMilosz lo dimostrerà da lì a breve ilTrattato poetico, pubblicato sulla ri-vista parigina dell’emigrazione po-lacca «Kultura» nel 1956 e poi in vo-lume l’anno successivo, e ora propo-sto per la prima volta in Italia daAdelphi nella traduzione di ValeriaRossella («Biblioteca», pp. 115, €

16,00). Se la Mente prigioniera, sem-pre a detta di Gombrowicz, aveva ri-costruito «con scioltezza la banca-rotta letteraria polacca» avvenutanel primo decennio postbellico,Trattato poetico riprende invece l’in-terrogativo adorniano circa la possi-bilità per la poesia stessa di conti-nuare a esistere dopo Auschwitz, ri-leggendolo alla luce delle esperien-ze versificatorie elaborate in Polo-nia prima e durante la guerra. Scan-dito in quattro canti esattamente co-me l’Ars poetique di Nicolas Boileau,il poemetto didascalico in endecasil-labi di Milosz rivela tutto il coinvolgi-mento esistenziale del suo autore inquella prospettiva collettiva squisita-mente nazionale che, al contrario,sarà elusa e contestata con pervica-cia da Gombrowicz. Di più: a tratti ri-vendica addirittura la partecipazio-ne diretta del poeta al dibattito filo-sofico-politico come unica possibili-tà per riscattare la propria arte dallasua intrinseca immoralità.

Milosz prende infatti le mosse dauna posizione di dubbio metodiconei confronti della poesia, accusatanell’introduzione al Trattato di rivol-gersi alla pura dimensione emotivadell’individuo, di «rimuovere il pen-siero e ingannarlo». Un sospettoche tornerà anche in seguito, ogniqual volta il poeta polacco proverà atracciare gli evanescenti ma rassicu-ranti contorni di una precettistica.Come in Ars poetica?, datata Berke-ley 1968, dove Milosz, ignorandoquasi provocatoriamente gli avveni-menti allora in corso in quel cam-pus del «libero» Occidente, ribadiràil proprio diritto a riannodare i fili diuna riflessione interrotta: «Nell’es-senza stessa della poesia c’è qualco-sa di indecente: / sorge da noi qual-cosa che non sapevamo ci fosse, /sbattiamo quindi gli occhi come sefosse balzata fuori una tigre, / fermanella luce, sferzando la coda sui fian-chi». D’altro canto, ammansire la ti-gre poetica e, nel contempo, concet-tualizzare la propria appartenenza aquella generazione che la storia ave-va reso «schiava», «non persone matracce di persone, sigilli / con l’im-pronta dello stile del tempo», rien-trava tra i suoi progetti già all’epocadel Trattato, opera quanto mai pococrociana (come osserva la Rossellanella sua nota del traduttore), impe-gnata a tratteggiare non «una poesianuova, ma una nuova pronuncia».

Da quest’esigenza di tenere a ba-da il daimon in agguato nel verso na-sce il lungo commento autorialeche Milosz postpone al poema – in-gombrante livello metatestuale, d’al-

tronde più che indispensabile perrendere intelligibile quella ridda diriferimenti endoletterari di cui l’au-tore dissemina la sua personale resadei conti con le correnti d’anteguer-ra. Da una parte il gruppo di Ska-mander, macchiatosi del «peccatodell’armonia» (cosicché la loro voce«non rassomigliava / al coro disordi-nato delle cose comuni»), dall’altral’avanguardia cracoviana, colpevoledi ascrivere «al linguaggio un’impor-

tanza maggiore / di quella che,senz’essere ridicolo, può reggere» –Milosz non esita a puntare il ditocontro l’autoreferenzialità dei suoicolleghi e la loro inanità di fronte aipresagi della catastrofe bellica. D’al-tronde, già nel 1945 a Cracovia ave-va definito «lettura da signorinette»quella poesia «che non salva / i po-poli, né le persone». Ma la parabolaautodistruttiva della poesia polacca,inetta a salvare perfino se stessa,

aveva raggiunto il culmine nei mesidell’insurrezione di Varsavia, con iventenni raccolti intorno alla rivistaclandestina di destra «Sztuka i na-rod», il cui nazionalismo esasperatorappresentava agli occhi di Miloszné più né meno che il contraltaredell’ideologia professata dagli occu-panti nazisti. Incapaci di compren-dere che «la lotta / che ha per postala vita si combatte in prosa», aggrap-pati a una disperata riattualizzazio-

ne del messianesimo romantico po-lacco, questi giovani sono per Milo-sz la dimostrazione di come la poe-sia accolta e praticata senza l’eserci-zio del sospetto porti nel miglioredei casi al martirio individuale. Al-trettanto fallimentare (nonché mo-ralmente inaccettabile) apparirebbeuna ripresa delle ricerche stilisticheche avevano contraddistinto l’iniziodel secolo. Un periodo – quello del-la cosiddetta Belle époque – che il po-eta rievoca con assai scarsa indul-genza nel canto iniziale Bei tempi.«Il titolo è ironico», si affretta a pun-tualizzare nel commento, preoccu-pato che il lettore possa scorgervi in-genuamente una benché minimatraccia di nostalgia. Nessuno, leg-gendo queste strofe sottomesse aun ritmo da organetto stonato, affol-late di riferimenti sarcastici o grevi(il «baffo impomatato» e il «tintin-nio delle catene in similoro» del bor-ghese o la prostituta «grassa, fulva,in pantofole piumate»), si sarebbeazzardato a credere il contrario.

Che fare, dunque, di fronte a unasimile tabula rasa? La via di una liri-ca concepita come immemore con-templazione di una natura idillicaviene prospettata da Milosz per es-sere poi immediatamente scartata.In una simile ottica si prestava a es-sere riletta la stessa parabola esi-stenziale del poeta polacco che, do-po una parentesi a Washington co-me attaché culturale dell’ambascia-ta, era rientrato per breve tempo inpatria nel 1949, per poi approdaresempre in qualità di diplomatico aParigi, dove chiederà asilo politiconel 1951. Nel Trattato un simile iti-nerario viene trasfigurato nei termi-ni premeditati di una poetica, ossiapresentato come rifiuto volontariodella «vita tranquilla in una fattoriadell’America» e adesione – non pri-va di un certo esibito eroismo – alla«polvere dei nomi e degli eventi», os-sia a quella dimensione storica cheavrebbe inevitabilmente compro-messo ciò che l’autore chiama «lapurezza dello stile».

Lasciando ai biografi di Milosz ilcompito di accertare quanto di in-venzione mitopoietica vi sia in unasimile ricostruzione dei fatti, restada segnalare il tentativo – assai mo-dernista, in fondo – di edificare unapoetica ancor prima che sulla «ricer-ca di una forma asciutta e perbene»sull’exemplum della propria figura.E di dichiarare irrimediabilmentetramontati i tempi in cui il poeta po-teva «indurre al sonno l’oceano,chiudere / la clessidra ed ascoltarecome gli orologi / smettono di se-gnare il tempo».

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Alias Domenicaa cura diFederico De MelisRoberto Andreotti

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In copertina di «Alias-D»Julio Cortázar fotografatoa Parigi nel 1966da Gisèle Freund.In piccolo Glenn Gould

CZESLAW MILOSZ TRA INTERROGATIVO ADORNIANO E AUTOBIOGRAFIA

UNGHERIA

Tour de forceverbalecon stupefacentiUn romanzoclaustrofobicodi Péter Nádas

MILOSZUna xilografia del drammaturgo, poetae pittore di CracoviaStanislaw Wyspianski (1869-1907)

Lo scrittore ungherese Péter Nádas,classe 1942

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(4) ALIAS DOMENICA26 FEBBRAIO 2012

Ci sono tre Berlusconi. C’è la persona di Silvio, ilpersonaggio amato dai sostenitori e la sineddochediabolica alla quale si rimanda quando si evoca tuttociò che di epocalmente negativo c’è in politica. Forseproprio questo terzo «tipo» è il più efficace costruttoredel mito Berlusconi. E non è ridondante sottolineareche l’anti-berlusconismo mitopoietico serve a coprirespesso la mancanza di iniziativa politica e culturale disegno opposto, con la scusa appunto che contro unmito, quale sarebbe Berlusconi, si è fondamentalmenteimpotenti. Intanto si rimane ad aspettare che il«fenomeno» cada definitivamente da sé, ma prima checiò avvenga gli si continuano ad attribuire magiciprodigi facendone, come si è detto, sineddochenegativa del tutto. Ultimo in ordine di tempo in questoesercizio di palingenesi mitica (ma anche di lottaintestina a sinistra) e non privo di provocazioni consostanza di analisi è il libretto di Mario Perniola,Berlusconi o il ’68 realizzato (Mimesis, pp. 59, € 3,90)nel quale si scambia l’eterogenesi dei fini di alcuniaspetti della postmodernità, di cui l’emblemasarebbero le correnti anarchiche del ’68, con lasostanza politica che il carisma di Berlusconi, magodella comunicazione, avrebbe portato a realtà. (ma. pa.)

Può dipendere tutto dal fatto che venga prima ilnome o l’aggettivo. Se un’espressione o un’immagineo le due combinate insieme riescono a mantenereambigue e aperte entrambe le sequenze, allora puòvoler dire che la rappresentazione ha in qualchemodo toccato l’irrappresentabile. Oppure, ma è quasilo stesso, che ha squarciato il velo dell’ovvio e ci hafatto cogliere «l’oscenità del reale». Proprio percontinuare a giocare il gioco serio del caleidoscopiodelle ambiguità è essenziale una teoria psicoanaliticae ancora di più un cinema che, come quello di DavidLynch, sappia evocare tale teoria secondo SlavojZizek in Lynch: il ridicolo sublime (Mimesis, pp. 48, €3,90). Qui l’interpretazione lacaniana del film Stradeperdute è per Zizek occasione non soltanto perriaffermare la forza conoscitiva disvelante dei film diLynch, ma anche per reagire alla tendenzaanti-teorica della critica cinematografica di unRichard Maltby e con questa a quella generalesemplificazione o visione manichea della politica edella società che non riesce a vedere che spesso nelnegativo o semplicemente nello stereotipo o nel«ridicolo» c’è fantasmaticamente anche ciò che salva.(marco pacioni)

di STEFANO JOSSA

●●●The medium is the message, lafrase di Marshall McLuhan che rivo-luzionò la teoria della comunicazio-ne (per quanto spesso sbandieratacome slogan anziché veramente di-scussa e capita), fa di nuovo accende-re le lampadine. Lampadine che crea-no atmosfera, come quella cuiMcLuhan affidava il compito diesemplificare l’iperrealtà: priva dicontenuto specifico, la lampadinacrea un ambiente grazie alla sua solapresenza. La notte diventa giorno,senza bisogno di alcun processomentale o speculazione filosofica.Generazioni di fan, spesso terrorizza-ti da Hegel e pronti a usare il giocodelle contrapposizioni frontali per af-fiancarsi all’avversario anziché com-batterlo, hanno esaltato in McLuhanl’inventore della Galassia Gutenberg,che consentiva di superare le ideecon la tecnica, liquidando in un solocolpo, con l’immediatezza del trion-fo delle tecnologie, tutta la tradizioneplatonico-cristiano-hegeliana del-l’Occidente (dimenticando fra l’altroil personale e intimo cattolicesimodello stesso McLuhan). Peccato, per-ché ridotto a icona o santinoMcLuhan è diventato per molti acca-demici lo scopritore dell’ovvio, cioèdi una presenza e diffusione delle tec-nologie nella modernità che non in-taccava assolutamente il primato del-la mente e dei concetti. Proprio l’ov-vio, invece, era il bersaglio polemicodi Marshall: guidati da una secolarepreferenza per il contenuto, che cifornisce le informazioni e i valori, cidimentichiamo spesso dei mezzi chedi quel contenuto sono veicoli, modi-ficandolo e manipolandolo. La no-stra mente funziona come il cane daguardia che il ladro distrae con unabella bistecca.

Ritornare a McLuhan, per sondar-ne il pensiero, verificarne l’attualità,sperimentarne le potenzialità, inter-rogarlo e praticarlo, è l’obiettivo delneonato International Journal ofMcLuhan Studies, pubblicato dal Di-gital Culture Research Program pres-so la Universidad Oberta de Catalun-ya: il primo numero, datato novem-ber 2011, s’intitola UnderstandingMedia, today / McLuhan in the Era ofConvergence Culture e consta di 184pagine. La rivista va recensita perchéè di per sé un paradosso, visto che ciricorda che ‘se il mezzo è il messag-gio, l’utente è il contenuto’: citazionedavvero spiazzante, perché mette illettore di fronte alla responsabilità dichiedersi fino a che punto una rivistaassolutamente istituzionale comequesta lo stia ingannando e manipo-lando, ovvero sfidando e svegliando.Se di operazione accademica si trat-ta, infatti, come la maggior parte deisaggi sembra confermare, il primoproblema si pone di fronte alla fraseche gli editors, Emanuela Patti e Mat-teo Ciastellardi, italiani, assegnisti ri-spettivamente a Londra e a Barcello-na, hanno posto in esergo al primonumero: ‘la risposta più bella è sem-pre quella che pone una domandaancora più bella’. Nessuna risposta sidovrà cercare allora in queste pagi-ne, ma solo domande, che nasconodalle domande poste dai vari contri-buti saggistici, coerentemente conl’altro monito che chiude il volume:‘tomorrow is our permanent ad-

dress’. Tra questi due poli, operativipiuttosto che assertivi, si dischiudo-no le questioni relative alla possibili-tà di leggere Platone più come poetache come filosofo o alle mutazionidel sistema universitario dovute allafine delle grandi mediazioni istituzio-nali: le certezze del sapere codificatonon vengono abbattute, secondo ilclassico, e inutile, meccanismo avan-guardistico della lotta al nemico dicui si vuole prendere il posto, ma pre-sentate come problemi, guardandoal presente attraverso lo specchietto

retrovisore, in modo da andare amarcia indietro verso il futuro, secon-do un movimento à rebours che fasentire le sgommate anziché pattina-re sul ghiaccio. Come rendere conto,allo stesso tempo, delle alghe di su-perficie e dei coralli sul fondo senzail mare? E come tenere insieme i cen-to metri e la maratona se non ricor-rendo alle Olimpiadi? Strutture anzi-ché concetti, da indagatare attraver-so l’osservazione e l’esperienza.

Grande costruttore di metafore,quasi sempre prese dalla vita quoti-diana, McLuhan metteva a contatto isaperi e gli oggetti in una rete di ri-mandi e rinvii che puntava sulle con-nessioni anziché sulle sistematizza-zioni; nemico della teoria, è stato pre-so e iconizzato come teorico. La ferti-lità della contraddizione, contraddi-zione persino del suo destino, gli sta-va a cuore, perché la contraddizioneè sempre una sfida all’intelligenza,che costringe a classificare e gerar-chizzare per capire perché classifica-zioni e gerarchie non funzionano:quando veniva accusato di essere afavore del presente solo perché neparlava, McLuhan rispondeva chenon era vero, era contrario a ciò dicui parlava, ma l’unico modo di op-porsi, secondo lui, era capirlo, parlar-ne per capirlo, perché solo così sipuò stabilire quando staccare la spi-na. Assurdo, dunque, considerarloun apologeta della rivoluzione tecno-logica, anche se alcune similitudinilasciano sconcertati per la loro bana-lità: ‘attualmente il cinema è ancoranella fase manoscritta, per così dire;presto si troverà, sotto la pressionedella televisione, nella sua fase del li-bro a stampa, di facile fruizione e ac-cesso’. Salvo scoprire che questo pa-ragone fa il paio con quello tra la tec-nologia e l’evoluzionismo, rivelandol’interesse di chi parla per le poten-zialità anziché per le descrizioni. Néapologetico né apocalittico, né tecno-filo né luddista, McLuhan può anco-ra sembrare un constatatore dell’ov-vio ovvero un rivoluzionario radica-le; ma proprio qui risiede la necessi-tà di studiarlo: perché le sue riflessio-ni ci aiutino a pensare l’alternativaanziché ritenere che ci sia una solasoluzione possibile, spacciando perbiologiche le leggi della tecnica o del-l’economia.

Se il medium è il messaggio, sia-

mo obbligati a cambiare il punto divista, spostando lo sguardo dal conte-nuto al contenitore, fino a dovercichiedere dove siamo noi: message èinfatti anche mass age, mess age, emassage, età delle masse, età dellaconfusione o lavaggio dei cervelli,con un gioco di parole che McLuhanspesso riproponeva, fino a intitolareThe Medium is the Massage uno deisuoi libri più famosi, fingendo un‘typo’, un errore di stampa. Il sottoti-tolo An Inventory of the Effects, un in-ventario degli effetti, denuncia la ri-duzione a cliché della sua citazionepiù famosa, giocando sul fatto che ilmessaggio è in fondo un massaggio,cioè una percezione prima sensoria-le che intellettiva, come avviene infat-ti nelle strategie pubblicitarie: mas-saggiare i sensi prima che colpire lamente (a meno che la mente nonfunzioni appunto come i sensi, permassaggi piuttosto che per idee).

A questo libro dedicano ora unastraordinaria esplorazione a tutto

campo Jeffrey Schnapp e Adam Mi-chaels con il loro The Electric Informa-tion Age Book: McLuhan/Agel/Fioreand the Experimental (introduzionedi Steven Heller, postfazione di An-drew Blauvelt, Princeton Architectu-ral Press, pp. 216, 50 illustrazioni a co-lori, $ 19.95), che ha per oggetto l’ec-cezionale produzione di libri strava-ganti da parte di attori, designers, gra-fici e pubblicitari tra gli anni sessantae settanta. Il libro creato daMcLuhan insieme al grafico QuentinFiore e coordinato da Jerome Agelpresentava un collage di testo e im-magini, con pagine stampate alla ro-vescia o allo specchio, altre bianche,altre piene di composizioni fotografi-che, caratteri a colori, in rilievo o infont e corpo diversi. Seguiti da R.Buckminster Fuller, Herman Kahn, eCarl Sagan, promossero l’idea che i li-bri composti come se fossero perbambini costituissero il modo miglio-re per veicolare il pensiero filosoficocontemporaneo. Tanti avanguardi-

sti, da William Blake a William Mor-ris, da Kurt Schwitters a D.A. Levy,dal giornale The East Village Other al-la fanzine Touch & Go, avevano giàsperimentato questa forma-libro,ma la novità dell’esperimento diMcLuhan & C., a giudizio di Sch-napp, italianista a Harvard, e Micha-els, editore della collana «InventoryBooks», sta nella capacità di rivendi-care il fatto che ‘chiunque distinguatra educazione e intrattenimentonon sa nulla né dell’una né dell’al-tro’. Il libro, qualsiasi libro, diventa al-lora, a dispetto delle tante litanie sul-la sua morte, un’occasione di sintesie sorpresa, di materializzazione del-l’immateriale e di distribuzione delleidee al di là delle restrizioni operatedalla digitalizzazione: grazie ai nuovistrumenti, anzi, il lavoro metodico,manuale, dell’antico scriba potrà tor-nare di moda sulle pagine di libri chenon sono solo da leggere, ma ancheda scarabocchiare, stropicciare, op-pure semplicemente guardare.

MARIO PERNIOLA

Il presuntoSessantottodi Berlusconi:un eserciziodi palingenesimitica

SLAVOJ ZIZEK

Sublimazionedel ridicoloe salvezzasocialecon il cinemadi David Lynch

EDITORIA IN INGLESE ■ DUE INIZIATIVE SUL TEORICO DEL «MEDIUM»

Staccare la spinaal presente,ma prima conoscerlo

MCLUHAN

«Journalof McLuhanStudies» n. 1;e un esperimentodi editoria«sensoriale»per veicolareil pensierocontemporaneo

Achille Castiglioni, lampada da tavolo«Lampadina», Flos, 1972. In piccoloMarshall McLuhan (1911-1980)

CONSTATATORE DELL’OVVIO O RIVOLUZIONARIO RADICALE?

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(5)ALIAS DOMENICA26 FEBBRAIO 2012

I VIAGGIATORIDI UDINE

di DANIELE MASTRANGELO

●●●Quale scrittore avrebbe reso almeglio la parabola di un talento preco-ce, di un beniamino della natura ancorprima che della fortuna, il quale cercae ottiene il successo, ma non per viver-ne l’effimero splendore, piuttosto perabbracciare la sua naturale contropar-tita: la solitudine? Si poteva infatti conpiù egocentrico ardore di quanto nemostrò Glenn Gould, scegliere fra i suo-ni che annunciavano il personale suc-cesso, quelli più grigi e marziali dellaconseguente prigionia? E quando que-sta prigione divenne il luogo da cui tan-ti avrebbero voluto sottrarlo pensandoimpossibile che proprio lì andasse adannidarsi la felicità mentre Gould con-tinuamente protestava le proprie ragio-ni, allora non si dovrebbe concludereche il suo destino era già stato scrittodalla penna di Stendhal?

Questi e altri pensieri si possonosvolgere oggi che l’enorme industriacommerciale sorta intorno a questomusicista, forse giunta al termine delsuo giro, è finalmente arrivata a diffon-dere la gran parte delle sue trasmissio-ni televisive (dopo quelle radiofonicheincluse in The Radio Artist, Cbc Recor-ds): Glenn Gould on Television The Com-plete CBC Broadcasts 1954-1977 (10dvd). Nel 1968, quattro anni dopo ilsuo ritiro dalle scene, Gould considera-va la radio il mezzo migliore attraversoil quale esprimersi, per il peso che riac-quistava la parola parlata, perché lamusica poteva essere scelta dall’ascol-tatore e arrivare senza il primato dellavisione spettacolare che affligge il mon-do dei concerti pubblici e soprattuttoper la sua capacità di mettere in contat-to le solitudini. A queste ragioni obietti-ve è fondamentale affiancare un pro-cesso di assestamento della stessaidentità di Gould come musicista. Egliinfatti sin dall’inizio della sua carrieraaveva stimato di essere qualcosa di piùdi un ‘esecutore’, del custode di unatradizione ridotta a cliché e per questoinfinitamente ripetibile. Aveva comin-ciato con l’idolatrare Arthur Schnabele la sua capacità di ‘leggere’ la musicaa partire da un’idea, proseguito conl’amore per l’analisi della partitura tra-smessogli dal suo insegnante AlbertoGuerrero e alla fine del suo apprendi-stato poteva coltivare il sogno di realiz-zarsi come compositore. Ancora neglianni sessanta, dopo la sua prima e uni-ca opera, il Quartetto op. 1, aveva accu-mulato centinaia di pagine di musica,abbozzi di opere spesso legate a un te-sto letterario, tutte rimaste senza unesito compiuto e tutte riconducibili al‘suo’ pensiero dominante: la solitudi-ne intesa nella sua fenomenologia enelle sue possibilità paradossali di cor-relarsi al mondo. Questo tema dunquetrasmigrò dalle composizioni ai docu-mentari radiofonici: sulla superficiel’argomento era dato dal nord del Ca-nada (vedi anche The Idea of North nel-la versione televisiva), dalla vita sull’iso-la di Terranova o dalla comunità ana-battista dei Mennoniti; al fondo inveceera sempre il problema dell’isolamen-to inteso insieme come forza disgre-gante e come potenza produttiva.

Nell’uso del mezzo radiofonicoGould si rivelò innovativo nella stessa

organizzazione del materiale documen-tario fino all’utopia dell’identità di con-tenuto (le molteplici solitudini) e forma(il contrappunto di voci parlanti), se-condo un percorso di riscoperta dellepotenzialità musicali della parola chenon rimanda solo a esperienze coevecome quelle di Berio e Ligeti, ma risaleindietro almeno a Schönberg. I lavori te-levisivi risentono invece maggiormentedei vincoli imposti dalla produzione,del carattere ancora giovane del mezzoe dell’idea di ricreare in qualche modouna dimensione concertistica, eppurenonostante ciò sono da considerare do-cumenti storici decisivi per comprende-re le ragioni che guidarono Gould nellacostituzione del suo repertorio, come adire che si tratta dei caratteri specificiche assunse il suo amore per la musica.

Diversi documenti si distinguonoper importanza e rarità, a cominciaredalla prima testimonianza filmata diGould: nel 1954, ventiduenne, interpre-ta con l’orchestra della CBC il primomovimento del Concerto per pianofor-

te in do maggiore di Beethoven e cosìpossiamo ascoltare una delle due ca-denze che egli stesso compose. Accan-to alla chiarezza del fraseggio, comparegià l’ossessione contrappuntistica chefa pensare piuttosto a un Beethoven ri-visto da un adepto fanatico di Max Re-ger. Seguendo il filone beethoveniano,altre interpretazioni nella raccolta si se-gnalano come particolarmente ispirateed è significativo che la gran parte di es-se siano riconducibili alla forma musi-cale del tema con variazioni: se l’op.109 è la più nota e anche la più amatatra le sonate, non sono trascurabili leletture dell’op. 35 ‘Eroica Variazioni’, ele rare 32 Variazioni su un tema origina-le WoO 80 in do minore. Ma il puntopiù alto di equilibrio e forza interpreta-tiva è raggiunto con il terzo tempo del-l’op. 110 dove Gould riesce a rendere ilsenso di organicità fra due mondi appa-rentemente lontani come quello intri-so di cantabilità del recitativo strumen-tale e quello geometrico della fuga.

Negli anni a ridosso della rinuncia al

concertismo e nei successivi, le tra-smissioni ci raccontano di un musici-sta che tenta di ripensare il modo stes-so di comunicare la musica: Gould in-fatti progetta soprattutto programmitematici con un criterio di selezionedel repertorio che abbracci più epochestoriche o musicisti, inoltre cura con at-tenzione le introduzioni e mette in sce-na un dialogo fra diverse prospettive egusti come nel bellissimo documentodel suo incontro con il violinista Yehu-di Menuhin. Queste trasmissioni tema-tiche hanno per argomento lo svilup-po di due forme musicali: il tema convariazioni e la fuga oppure cercano dicomporre una ideale storia della musi-ca del Novecento (Music in Our Time,in quattro parti, ciascuna dedicata aun decennio e purtroppo interrottasinegli anni quaranta).

Attraversando questo materiale cheoccupa lo spazio di una giornata inte-ra, si può ricondurre tutto il repertoriodi Gould a un archetipo e a un rimos-so. Il primo è rappresentato dalla figu-

ra di Johann Sebastian Bach comel’ideale del musicista che si pone fuoridalle correnti fondamentali del pro-prio tempo e che congeda una tradizio-ne nell’atto di riassumerla. Il rimossoinvece è il grande repertorio romanti-co, quello su cui il concertismo moder-no nel diciannovesimo secolo è sorto esu cui si mantiene tutt’oggi (non c’ètraccia in questi video della musica diLiszt, Chopin, Schumann, Schubert,Weber). Alla funzione-Bach, possiamoricondurre quello che è stato forse ilpiù grande merito di Gould come mu-sicista, ovvero l’aver indicato attraver-so interpretazioni appassionate la pos-sibilità di amare insieme la musica diSchönberg e quella di Richard Straussin netta opposizione ai profeti di unosviluppo musicale teleologicamenteorientato e unicamente dominato dal-la tecnica compositiva (come volevaad esempio Boulez). Come apparechiaro in queste testimonianze televisi-ve (in particolare nelle monografie de-dicate ai due compositori), Gould nonrifiutava l’accusa di conservatorismoloro rivolta: il Weltschmerz – come dice-va in un tedesco impacciato – o il ro-mantico distruggersi di una compren-sione unitaria della realtà che con di-versa intensità e modo i due musicistisentivano e in reazione al quale costru-irono le loro opere musicali, era per luiun conservatorismo cambiato di se-gno: la testimonianza di una intrinse-ca moralità della loro musica. Infine,attraverso il rigore costruttivo di Schönberg e il distacco dissimulato e nostal-gico di Strauss, Gould poteva scorgerecome protetto in una roccaforte, le pro-prie romantiche rimozioni.

Come si può definire un musicistache non volendo essere ‘soltanto’ unpianista, aspirava con esito fallimenta-re a essere compositore, che cercò diessere un saggista ma fu continuamen-te accondiscendente verso il propriogusto personale, un solitario che vole-va comunicare al mondo attraverso ilmassimo dispiego della tecnologia?

Glenn Gould è stato forse un mirabi-le fallimento, ma un fallimento che noidovremmo ripensare a fondo.

All’inizio del Novecento, quando ilContinente Nero veniva giàsaccheggiato ma rimaneva avvolto inuna nebulosa densa di spaventevoliluoghi comuni, l’esploratore GiovanniBattista Licata sfuggiva alle suggestionidel «cuore di tenebre» e ammoniva:«Dico che l’Africa è deplorevolmentemistificata ad usum vulgi e la colpa è deiviaggiatori non educati al rigoredell’osservazione scientifica,avventurieri a caccia di impressioni, iquali mancano affatto della misura delracconto, ed anche specialmente forsedei nostri maestri di geografia, i qualinello strazio della scienza cheinsegnano – le eccezioni sono poche –fanno dell’Africa un quadro terribile ditinte e raccapricciante di ignoranza».Nella stessa epoca, lo studiosoGiovanni Battista De Gasperipercorreva la Patagonia fino alla Terradel Fuoco, riempiva il notes di appuntinaturalistici, rendeva visita ai nativi edenunciava: «La persecuzione direttada parte dei bianchi è ancora la formadi distruzione che più muove adisdegno, perché non ha scusanti,specie essendo esercitata da uominiche si dicono civili verso genti noncattive».

Queste e tante altre storie(d’Americhe, d’Asia e d’Africa) nellaricca mostra (e relativo catalogo) HicSunt Leones in scena a Udine (nell’exChiesa di San Francesco) fino al 15aprile. Sottotitolo: «Esploratori,geografi e viaggiatori tra Ottocento eNovecento. Dal Friuli alla conoscenzadei Paesi extraeuropei». Saranno cosegià sentite, magari, per dirla conGuccini, ma un ripasso è sempre utile.Certo poco o per nulla sentiti sono quii nomi dei protagonisti delle spedizioniscientifiche (etnografiche,naturalistiche, intensificatesi con lanascita delle Società geografiche) inaltri mondi non per conquistarli ma perconoscerli e divulgarne le prerogative,in un’epoca in cui il viaggio (a piedi, acavallo o per nave) era fatica eprogressiva immersione fisica ementale che abituava al cambiamento,e che Ryszard Kapuscinski, in un passodi Ebano che introduce al viaggio nellamostra, sintonizzando sulla suafrequenza il visitatore, sintetizzava così:«I panorami scorrevano con lentezza,la scena del mondo si spostava di pocoalla volta. Un viaggio durava settimane,mesi. L’uomo si adattava per gradi alnuovo ambiente, al nuovo paesaggio.Anche il clima mutava gradualmente,un po’ per volta. Spostandosi dallagelida Europa al torrido Equatore ilviaggiatore passava per il grado ditepore di Las Palmas, per la calura diEl-Mahara e per la fornace di CapoVerde. Oggi di questa gradualità nonresta più niente. L’aereo ci strappabruscamente alla neve e al gelo e ilgiorno stesso ci scaraventa nell’abissoardente dei Tropici».

Grande la quantità dei materialiraccolti e organizzati in un percorso(foto, stampe, filmati, postazionimultimediali) che va dalla preparazioneal viaggio con gli strumenti necessariallo svelamento dell’ignoto, all’incontrocon «l’altro», lungo strade parallele aquelle di avventurieri e conquistadores,in cui l’arricchimento consiste nellaconoscenza e nelle proficuecontaminazioni culturali, dallaletteratura all’arte alla cucina.

AUTOBIOGRAFIE

Charlie Chaplindall’infanziadickensianaalle stelle(con parentesipersecutoria)

di LUCA SCARLINI

●●●Charles Chaplin ha attraversatoil Novecento definendosi come iconadel secolo breve, incarnata neidisastrosi meccanismi di Tempimoderni e nell’invocazione alla pacede Il grande dittatore. Mattioli 1885rimanda in libreria, opportunamente,dopo molti anni, la Autobiografiadell’attore-regista, uscitaoriginariamente nel 1964 (traduzionedi Vincenzo Mantovani, pp. 513, €21,90) e presentata a suo tempo daMondadori. L’opera ha valore ditestimonianza: colpiscono in speciedue momenti. Il primo concernel’infanzia, povera, dickensiana,stracciata a Londra e il mondo,magico e scalcinato, del music-hall, incui il nostro fa i primi passi. Un‘destino per la scena’, segnato dallasua prima infanzia, che è ereditatodalla madre, già starlette del

vaudeville, poi votata a un destinoamaro accanto a un marito violento.A questa parte, specialmente, siispirava il ‘biopic’ Charlot di RichardAttenborough del 1992, dove ainterpretare il vagabondo più famosodello schermo era un giovane RobertDowney Jr. Il successo mondiale, lafama stellare sono poi il destino diquella fisionomia che raggiunge ipubblici più diversi e suscita icommenti più disparati. Altrettantorilievo, in una chiave quasi da goticopolitico, ha la parte dedicata alracconto della caccia alle streghe, dicui Chaplin fu vittima nelle indaginidi Edgar Hoover (riportato allamemoria dal film di Clint Eastwood).Nel momento in cui l’attore si trovavaa mal partito con la sua UnitedArtists, per una serie di investimentiche non avevano sortito l’esitosperato, scattò un vero e propriolinciaggio nei confronti di Monsieur

Verdoux. Un’opera che venne definitanichilista o comunista, a secondadella visione dei numerosi aggressori.Le accuse di sostegno al mondosovietico furono però le più gettonate,insieme a una serie di attacchi legatialla sua vita privata. Il tour di Lucidella ribalta stabilì che per sempre lasua dimora sarebbe stata l’Europa (ein specie la Svizzera), dove si conclusela sua esistenza nel 1977. Dieci annidopo il suo ultimo, discusso, esitocinematografico, La contessa di HongKong, realizzato nel 1967. Acclamato,celebrato, inseguito come maestro delcinema, non volle tornare negli USAdove aveva vissuto tanti trionfi. Sulsuo ultimo tempo di esistenza, in cuiera di fatto il patriarca di una vastafamiglia, resta anche il curioso librodel figlio Michael, presentato in Italianegli anni sessanta da Garzanti con iltitolo: Non potevo fumare l’erba sulprato di mio padre.

GOULDUN’OCCASIONE PER RIPENSARE IL «FALLIMENTARE» PIANISTA CANADESE

La strategiadei concerti tv

Un archetipo: Bach; un rimosso: i romantici...I dvd con le apparizioni 1954-’77 alla CBC ci fannocomprendere i criteri coi quali Glenn Gould(che prediligeva la radio) costruì il suo repertorio

Un’immagine «Life» di Glenn Gould(Toronto, 1932-1982).In basso, Charlie Chaplin

DI ROBERTO DUIZ

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(6) ALIAS DOMENICA26 FEBBRAIO 2012

TRE LEZIONI SU IMMAGINARIO, SIMBOLICO, REALENé l’iniziazione al verbo del «maestro», né l’adozione del suo orizzonte di riferimento, né la praticapsicanalitica informano il piccolo libro di Emiliano Bazzanella, che dunque si avvia a confrontarsi con ifondamenti del pensiero lacaniano dotato dei migliori presupposti per metterci nelle condizioni di afferrarnequalcosa. L’adozione di un punto di vista esterno alla prospettiva che si vuole descrivere è infattiparticolarmente benvenuto di fronte all’esoterismo annunciato dai tre luoghi fondativi del pensierolacaniano, «Immaginario, Simbolico, Reale», cui sono appunto dedicate altrettante lezioni (edite da Asterios,pp. 110, €15). Si parte dunque dalla prima tappa teorica, sviluppata a partire dal ’36, per addentrarsi via vianella struttura essenzialmente linguistica del desiderio, caratterizzata da uno slittamento del significante e daldifferimento continuo, se è vero che dopo avere desiderato una cosa se ne desidera un’altra, e così via.

PSICOANALISI ■ «RITRATTI DEL DESIDERIO» EDITO DA CORTINA

Quella parola chiaveche Recalcati eleggea ideale della civiltà

LACAN /1

J. Alain Miller,il curatoredei «Seminari»,recuperatranches de viedel maestro

LACAN/ 2

Serate, colloqui,immersioninei luoghidi un pensierodifficilmentesondabile

LACANIANIUn saggiodi resistenza etica,che indicanella creativitàdel desideriol’antidotoalla distruttivitàautoreferenzialedel godimento

di NICOLE MARTINA

●●●Posto che isolare una qualun-que frase di uno qualunque degli epi-goni di Lacan e farci su quattro risa-te è tanto facile da risultare franca-mente disonesto, resistere tuttavia al-la tentazione di infilzare una dellenumerose locuzioni sapienziali ero-gate dai suoi adepti è impresa chesfiora l’eroismo. Com’è noto, il mae-stro intendeva parlare tra le righe abeneficio dei soli deputati a intender-lo, primo tra tutti colui che avrebbeeletto a stabilirne il dettato, Jacques-Alain Miller, al quale dobbiamo infat-ti il testo dei Seminari, e ora ancheuna Vita di Lacan Scritta a beneficiodell’opinione publica illuminata(Quodlibet, pp. 61, € 7,00).

Abbandoni ogni speranza chi, ol-tre a non risultare iscritto nei ranghidei suddetti illuminati, coltivi l’inge-nuità di ricavare da questa breve te-stimonanza una parabola biograficacapace di colmare con qualche infor-mazione sui trascorsi di Lacan, o sul-la sua formazione, o sulla sua quoti-dianità, i collassi interpretativi indot-ti dalla sue lezione. I pochi dettagli ri-guardanti la vita dello psicanalistafrancese non fanno che esemplifica-re in forma aneddotica i tratti carat-teriali che già gli conoscevamo: «sec’era una cosa per lui‘assolutamente intollerabile’ era didoversi fermare ai semafori rossi»;detto altrimenti, non sopportava al-cun ostacolo. «Sapeva molto benecome comportarsi male»: detto altri-menti, andava fiero della sua traco-tanza, ritenendola l’ovvio correlatodell’uomo di genio. Sembra che pri-ma di sprofondare nel coma avessedetto di sé: «Sono ostinato», attribu-to che, in effetti, lo descrive al me-glio, perché Lacan non era – a dettadello stesso Miller – un «temerario»,era invece un uomo che misurava lasua audacia e si teneva alla larga dal-le cause perse. Forse fu anche perciòche, contrariamente a quanto vor-rebbero i suoi adulatori postumi,non si iscrisse nelle fila della rivolu-zione, perché anzi non nascondevaa nessuno il fatto di non considerarsiaffatto un progressista.

Non si capisce se per rendergli me-rito, Miller dice che al tempo in cuilo conobbe, nel 1964, Lacan mano-vrava «come un capo», e definisce sestesso «il diretto testimone, e ancheuno degli strumenti, della sua brillan-te contro-offensiva», ovvero la rispo-sta alla «scomunica» che aveva estro-messo Lacan dall’InternationalPsychoanalytical Association l’annoprecedente, a coronamento di unadecennale tensione.

Da leggere con le mani giunte, piùo meno come tutti i testi che si riferi-scono al maestro, questa Vita si con-clude del resto con una immagineche Miller rievoca a mo’ di similitudi-ne, e che non difetta certo di elo-quenza: «Lacan nelle vesti di Arpo-crate, nudo come Eros, l’indice posa-to sulle labbra, mi guarda. Obbedi-sco al Dio, e taccio.» Figurarsi noi.

di N. M.

●●●Ideale per immergersi nelle at-mosfere dell’esoterismo lacaniano e ri-tornarne a galla con qualche smaglia-tura aperta nella nebbia del suo detta-to, il volume Le mie sere con Lacan(pp. 395, € 22,00) inaugura la collanadi psicanalisi degli Editori Internazio-nali Riuniti, e si presenta come il frut-to di una serie di incontri, dai qualiemergono le voci di psicanalisti diret-tamente formati da Lacan e quelle dialtri appartenenti alla seconda genera-zione, con in appendice un utile glos-sario e la breve testimianza di Jacqueli-ne Risset, che ricorda una mattina del1975 passata con Lacan a Roma.

Posto che non mancano pagine ilcui contenuto semantico sembra la re-gistrazione stenografica di un delirio,altre se ne trovano dalle quali è possi-bile fissarsi nella mente alcuni caposal-di del pensiero lacaniano, la ripetizio-ne dei quali non può che giovare allaloro metabolizzazione. Dalla corri-spondenza con Claude Landman, peresempio, si può ricavare una sintesi diciò che Lacan intendeva rivendicandoil suo «ritorno a Freud».

Il testo da cui parte lo psicanalistafrancese è quello fondamentale del1920, Al di là del principio di piacere,la rivisitazione del quale avrebbe per-messo a Lacan di mettere a punto unanozione imprescindibile del propriopensiero, l’«autonomia dell’ordinesimbolico» – ovvero il luogo dell’altro,del linguaggio, di tutti i significanti –che si distingue dalle due categoriedel «Reale» e dell’«Immaginario», an-dando a comporre la triade fondativadella psicanalisi lacaniana.

Molto interessante, perché informa-ta da una intenzione prevalentementestoricizzante, è la conversazione conMuriel Drazien, che ripercorre le tap-pe del suo incontro con la psicanalisi,e gli incontri con alcuni di coloro chesarebbero poi approdati alla celebrità,da Didier Anzieu, con il quale sosten-ne l’esame di psicologia generale aStrasburgo a Michael Balint; finchél’approdo all’accettazione dell’ospeda-le Saint-Anne non mise l’allora giova-ne Muriel Drazien in contatto con imolti luminari della psichiatria che viprestavano servizio, tra i quali lo stes-so Lacan.

Erano tempi di rivalità elettriche: laSpp, associazione madre dei freudia-ni, interdiceva ai giovani analizzandila frequentazione del Seminario di La-can, sebbene alcuni dei suoi didattinon rinunciassero a figurarvi in primafila, André Green e Conrad Stein fra glialtri. La consacrazione di Muriel Dra-zien avvenne tramite una proceduraperfettamente sintonica con le strate-gie comunicative di Lacan, che la in-cluse implicitamente nella «Letteraagli Italiani», un testo finalizzato a sta-bilire quali dovessere essere le lineeguida dell’Associazione italiana e a for-mare i suoi analisti.

La «lettera» pervenne, nell’apriledel 1974, allo studio di Giacomo Con-tri, traduttore degli Scritti di Lacan:non era firmata, non aveva un titolochiarificatore, non faceva menzionedei destinatari, ed era prevista per da-re avvio a una inedita avventura, la co-stituizione di una nuova comunità psi-canalitica alla quale si accedeva trami-te la passe, una complicata procedurache avrebbe dovuto costutirne, da allo-ra, la chiave di ingresso.

di FRANCO LOLLI

●●●«Se esistesse una parola fonda-mentale capace di racchiudere per in-tero l’esperienza della psicoanalisi,questa parola sarebbe: "desiderio"».Desiderio è e resta la parola chiave, laparola elettiva, della psicoanalisi. Ècosì che si apre l’ultimo libro di Massi-mo Recalcati, Ritratti del desiderio(Raffaello Cortina, pp. 190 € 14,00);un’apertura che esplicita in manierainequivocabile il punto di vista del-l’autore e che costituisce una sorta diprecipitato di quel percorso di ricer-ca che egli ha compiuto negli ultimianni. La dimensione del desideriofonda l’esperienza dell’analisi: in que-sta sua convinzione Massimo Recal-cati si dimostra, una volta di più, unteorico fedele all’insegnamento diJacques Lacan, colui che, in effetti, haintrodotto nel dibattito psicoanaliti-co un concetto che, prima del suomagistero, era confinato nell’ambitoletterario e poetico. La lezione che,negli anni ’60 del secolo scorso, lo psi-canalista parigino ha ricavato dallostudio di Hegel (letto, come ci ricordaRecalcati, attraverso la lente di ingran-dimento della speculazione diKojève) verte esattamente sulla cen-tralità del ruolo del desiderio nell’esi-stenza dell’essere umano.

Patologie della dismisuraIl desiderio – che è sempre desideriodell’altro e che in questo libro vienedeclinato nelle sue differenti versio-ni, con grande raffinatezza, rappre-senta, infatti, il fulcro intorno al qualeil soggetto struttura la propria vita; alpunto tale che, si potrebbe arrivaread affermare, la vita si «umanizza»proprio in sua funzione. Il desiderio èalla base del patto sociale, del legametra gli uomini, della possibilità stessadella relazione; è sulle sue fondamen-ta che si edifica l’idea di comunità.Questa facoltà del desiderio di «pro-muovere» la socialità e di assicurareal percorso evolutivo dell’essere uma-no un orientamento deciso è il ver-sante del desiderio che Recalcati haindagato a fondo nei suoi due ultimilibri, L’uomo senza inconscio, prima,e l’anno scorso Cosa resta del padre?(entrambi editi da Cortina). Analiz-zando la società postmoderna, Massi-mo Recalcati ha, in effetti, individua-to nel progressivo indebolimento delsimbolico – che Lyotard riassunse nel-la nota formula «crisi delle grandi nar-razioni» – il fattore decisivo per lacomprensione della contemporanei-tà, di cui ha studiato in particolar mo-do il tramonto dell’Edipo.

La tesi di Recalcati è nota: l’affer-mazione del capitalismo e la sua radi-calizzazione nella versione liberistaha comportato e comporta un’inarre-stabile spinta, individualistica e cini-ca, al godimento e la simultanea atte-nuazione della dimensione delloscambio, del legame e del debito. Lacomponente pulsionale che il model-lo consumistico alimenta, proclaman-do il pieno diritto del cittadino all’ap-pagamento immediato e assoluto diogni suo bisogno, ha sempre più resoanacronistiche quelle forme del vive-re che vengono moderate dalla neces-sità di tener conto dell’altro. I datiprovenienti dalla clinica confermanoin maniera inequivocabile queste os-servazioni: le patologie della contem-poraneità investono infatti i consu-

mi, sono patologie legate alla dismisu-ra, all’eccesso, al troppo, all’angoscia;e implicano isolamento, disconnes-sione dall’altro.

Di fronte a questa deriva compulsi-va e mortifera dell’attualità sociale,uno psicoanalista non può non pren-dere posizione. Riaffermare, come faRecalcati, il valore conciliante del de-siderio, la sua funzione stabilizzantee di orientamento, nonché la sua as-soluta centralità nel processo della cu-ra, significa opporre una resistenza diordine etico al processo di frantuma-zione simbolica che caratterizza la so-cietà contemporanea: la creatività ela generatività del desiderio vengono,in questo modo, logicamente con-trapposte alla distruttività e all’autore-ferenzialità del godimento. Operazio-ne tanto necessaria (per la sua finali-tà anticonformista di critica del nuo-vo ‘programma della Civiltà) quantorischiosa (per il pericolo che corre di

tradursi in un manicheismo che por-rebbe tutto il bene sul lato del deside-rio e tutto il male sul lato del godi-mento). Ebbene, il pregio dell’ultimolibro di Massimo Recalcati, a mio av-viso, sta proprio nel far sì che tale con-trapposizione non scivoli in una di-stinzione di natura morale, distinzio-ne che disconoscerebbe l’esistenza diquei territori di confine nei quali ciòche è bene sfuma nel suo contrario.

Dal godimento all’odioRecalcati, infatti, nell’invitare il letto-re a visitare quella che lui stesso defi-nisce la galleria in cui sono esposti ivari ritratti del desiderio, avverte del-le sue ambivalenze, mette in guardiarispetto alle zone d’ombra nelle qua-li, per utilizzare una sua espressionedi particolare efficacia, le acque deldesiderio si mescolano a quelle delgodimento.

Tornando su temi già in parte af-

frontati in quello che va consideratouno dei suoi più importanti contribu-ti alla teoria psicoanalitica, il saggioSull’odio uscito da Bruno Mondadori(2004), Massimo Recalcati evidenziale contraddizioni e le ambiguità di unconcetto che egli ha avuto il merito diriportare al centro del dibattito cultu-rale. E se, come sappiamo, la biogra-fia di un autore non può non incideresulla sua opera, il fatto che lo psicoa-nalista milanese abbia concentrato lapropria attenzione di studioso sulladimensione del desiderio appare tut-t’altro che stupefacente: perché chiha avuto la fortuna di lavorarci insie-me, ma anche chi, semplicemente,ha avuto occasione di ascoltarlo du-rante le sue conferenze, ha imparatoquanto Recalcati sappia praticare nel-la propria vita professionale la dimen-sione del desiderio e trasmetterla aglialtri in maniera straordinariamentecontagiosa.

Yves Klein, una performance(«Rêve de Feu»), 1961

LE FRONTIERE DEL DESIDERIO ABBANDONATE DAL CONSUMISMO CONTEMPORANEO

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(7)ALIAS DOMENICA26 FEBBRAIO 2012

Tra i banchidi Storia,scoppiettando

di MASSIMO BACIGALUPOGENOVA

●●●Da oltre un anno il Teatro del-l’Elfo propone sulle scene italiane TheHistory Boys, la fortunata commediadi Alan Bennett su un gruppo di licea-li inglesi che verso il 1985 preparanogli esami di storia per l’ammissione al-le ambite Oxford e Cambridge. La tra-duzione è di Salvatore Cabras e Mag-gie Rose, la regia è di Ferdinando Bru-ni e Elio De Capitani, che brilla nellaparte di Hector, l’insegnante anzianoe un po’ matto ma pieno di verve eamatissimo dai ragazzi nonostante ipalpeggiamenti rituali cui li sottopo-ne (del resto Hector ha anche un’«in-verosimile moglie»). Il testo è un tourde force di tre ore scoppiettanti in cuisi confrontano modelli di apprendi-mento e c’è molta letteratura, addirit-tura una explication de texte in scenafra Hector e il timido ragazzo ebreoPosner, riguardante una poesia diguerra di Thomas Hardy. Le citazioniabbondano, per esempio i ragazzi fan-no un gioco con Hector imitando sce-ne di film famosi (si fa per dire) comeBreve incontro, che lui deve riconosce-re. E il pubblico è chiamato a un gio-co analogo per quanto riguarda le cita-zioni nascoste. Per mettere gli spetta-tori sulla pista giusta l’Elfo fornisce unprogramma di sala che elenca poeti,scrittori, filosofi, attori, film, musiche(soprattutto l’infallibile Bewitchedbothered and bewildered ma ancheBye Bye Blackibrd). Lo spettacolo co-munque funziona benissimo, citazio-ni o no. È un poco ipertrofico con lesue tre ore e tutto il materiale che scio-rina e il suo finale enfatico: Hectormuore in un incidente quando tuttosembrava mettersi per il meglio...Una scappatoia un po’ facile che Ben-nett si è concesso e che permette di fi-nire alla grande sulla scena.

Un anno dopo la prima milanese diThe History Boys (dicembre 2010) il te-sto di Bennett esce nella «Piccola Bi-blioteca» Adelphi, col titolo Gli studen-ti di storia, e una non meno efficacetraduzione di Mariagrazia Gini (pp.178, € 12,00). La cosa strana è che,con la consueta reticenza adelphiana,il testo è offerto nudo e crudo, senzaalcuna indicazione sui prestiti checontiene. Non so chi riconoscerà le ci-tazioni entrate in proverbio di Milton,Housman e altri, gettate lì come arci-note, come se in un lavoro italiano unpersonaggio dicesse «ciò che non sia-mo ciò che non vogliamo». Ma forse illettore di Gli studenti di storia avràqualche difficoltà con l’altrettanto no-to (in Inghilterra) «Sono un uomo vec-chio in un’arida stagione» (frase nonvirgolettata nel testo, come invece loè un altro magniloquente prestito elio-tiano, «Dopo una tale conoscenzaquale perdono?»). Frasi sempre pro-nunciate da Hector, e il gioco sta nelfatto che queste dichiarazione dispe-rate sono intonate comicamente. Ov-viamente nell’edizione inglese del te-sto Bennett non ha messo in nota lefonti, ma chissà in italiano potrebbeessere stato utile. Va aggiunto peròche il testo stampato si presenta dav-vero come un do-it-yourself. Nell’am-pia e ricca introduzione che è uno dei

regali di questo volumetto Bennettscrive di aver lesinato le indicazioni discena per lasciar maggiore libertà airegisti. Questo però si traduce in uncopione di non facile decifrazione, sucui il lettore è chiamato a fare un lavo-ro di ambientazione e attualizzazio-ne. Forse la cosa migliore sarebbe chevedesse la produzione dell’Elfo e poi

leggesse il testo, anche per confronta-re le traduzioni (per esempio «testa dicazzo», rivolto dall’unica donna in sce-na, l’insegnante di storia, al presideopportunista, è «troia» sul palcosceni-co). L’edizione a stampa si presentacosì come un esperimento, un cano-vaccio con la sua lunga premessa au-tobiografica. Una copia precisa del-

l’edizione inglese.Bennett racconta nella premessa

che la vicenda di Gli studenti di storiaè un poco la sua, che da una scuola se-condaria non prestigiosa di Sheffield(Bennett proviene da una famiglia pic-colo borghese) ha tentato con succes-so l’arrembaggio a Oxford, e che perriuscirvi si è provvisto di una culturaepidermica e di un metodo: sorpren-dere i commissari con risposte brillan-ti e paradossali. «Pensate agli esami-natori che devono leggere centinaiadi temi. Se dici che Stalin era tuttosommato un buon uomo o Hitler unpolitico come un altro hai maggioripossibilità di essere preso in conside-razione». Da qui il conflitto alla basedi Gli studenti di storia. Insoddisfattodell’approccio viscerale del vecchioHector, che prepara alla vita ma nonagli esami, il preside che ambisce apiazzare i suoi diplomati a Oxbridgeassume un giovane rampante che in-segna a rispondere alle domande e so-stiene che la storia non è verità maperformance e che per rispondere bi-sogna innanzitutto capovolgere la do-manda. Irwin, così si chiama, a pocoa poco col suo arrivismo ruba spazioa Hector nell’orario e nel cuore deglistudenti, anche in quello del bello del-la classe, Deakin, che capisce prestoche i due avversari hanno almeno incomune l’inclinazione omosessuale,

anche se entrambi in diverso modo re-pressi. A un certo punto il preside,avendo scoperto le goffe molestie pra-ticate da Hector, decide che i due fa-ranno lezione insieme. E qui si inseri-sce il pezzo forte della lezione sull’Olo-causto. Hector dubita addirittura chequesto si possa insegnare, in quantopensa al dolore indicibile. Irwin ovvia-mente è di altro parere: è un argomen-to storico come un altro, «come la sop-pressione dei monasteri»... Il presidericeve una lettera furiosa dai genitoriebrei di Posner, e questa volta strigliaIrwin chiedendo prudentemente:«Non avrà mica detto che non è avve-nuto?». Posner, comunque, gli rivelaIrwin, può permettersi maggiori liber-tà nel trattare l’Olocausto dei suoicompagni. Comunque la strategiafunziona, i candidati sono tutti am-messi, e Bennett sa mescolare benissi-mo ironia, riflessione e commozione.

La poesia contro il calcolo, la cultu-ra contro l’opportunismo, l’affettocontro il cinismo, il passato contro ilpresente, Churchill contro Blair. Eccoil conflitto fra Hector e Irwin. Nellamessa in scena dell’Elfo, De Capitaniè grandioso come Hector, ma la regiaha tentato di problematizzare Irwin(Marco Cacciola) certo per evitare diridurlo a macchietta efficientista. Cac-ciola è adatto a presentare un perso-naggio a più dimensioni, però c’è il ri-schio che si confonda quello che sem-bra il disegno drammaturgico di fon-do. È vero che Irwin è tutto apparen-za (millanta fra l’altro un’inesistentelaurea oxfordiana) ma immagino chedebba presentare al mondo una fac-cia sicura di sé fino al momento in cuiviene smascherato. Invece l’Irwin diCacciola è fin dall’inizio problemati-co, mentre dovrebbe essere uno checancella e ignora i suoi problemi.

Da parte sua tuttavia Bennett chia-risce che il conflitto da lui presentatonon prevede una soluzione univoca.Se i genitori dovessero scegliere per ifigli una scuola per la vita o una scuo-la che gli assicura una carriera, qualevorrebbero? Gli esami bisogna pas-sarli, poi c’è il resto della vita per leg-gere tutti i classici che si vuole. Maprobabilmente non lo si farà. «Alcunihanno puntato sul loro sapere; / al-tre persone sull’essere sincere. / Perte, come per loro, questo può forsevalere». Ecco una citazione (da Ro-bert Frost, «Provide, Provide») chenon è fra quelle di Larkin, Auden ecompagni con cui Hector e Bennettci dilettano. Di solito un esaminatorecapisce se quello che legge viene dal-la convinzione o dal bignami, magariaggiornato. Bennett è uno scrittoreserio e spiritoso con cui vale la penadi passare le tre ore che ci voglionoper leggere Gli studenti di storia o ve-dere The History Boys.

BRYANT LOGAN,HUMUS E COMPOST

GIALLO INGLESE

L’ispettoreMorsee il collegecorrotto:Colin Dextera Oxford

BENNETT

di VIOLA PAPETTI

●●●«Dunque? Lei cosa ne pensa?» è la domanda con cui inizia questo giallo classicodi Colin Dexter Il mondo silenzioso di Nicholas Quinn (Sellerio, trad. di Luisa Nera,pp. 340, € 14,00), la stessa che il lettore vorrebbe rivolgere al famoso detectiveMorse, protagonista di ben tredici romanzi del più esperto giallista inglese, edella serie TV Inspector Morse. Ma in questo caso Morse morde il freno, procedegoffamente nelle indagini. Non capisce né l’ambiente del crimine, la Oxford dioggi tanto dissimile da quella del grande Benjamin Jowett, né i supposticriminali, gli accademici in jeans che passano da un pub all’altro sempre conun drink in mano, si acquattano in cinema a luci rosse, però rigidamenteanaffettivi. Lui è un bell’uomo di mezza età, scapolo, che da studente portavacravatta, giacca e sciarpa, un enigma quotidiano esasperante per il suoassistente Lewis, e un’impossibile preda sessuale per la bella professoressa, checon facilità entra e esce da svelti incontri al buio. Dati i tempi, il prestigiosocollege ha dovuto abbandonare Cicerone e Crisostomo e inserire nei curriculagli studi post-coloniali: la storia del colonialismo, le culture tradizionali, losviluppo delle risorse ecc.; la crisi della sterlina l’ha costretto a vendersi l’animaper un bel mucchio di petrodollari arabi. A scoprire la corruzione del ComitatoEsami Esteri che vende titoli accademici a università straniere è l’innocentevittima, Nicholas Quinn. (In Italia un simile inciucio susciterebbe solo un’alzatadi spalle). Quinn, sordo totale, è la vendetta dello stesso Dexter, sordo anche lui,costretto a lasciare l’insegnamento e reinventarsi amministrativo di un college aOxford. L’Oxford di oggi, odiata da Quinn-Morse-Dexter.

Se già nel cielo esistono paesaggi, nelsenso che ce li lascia prefigurare ilpulviscolo di sementi colà incorporatenel vento e nelle nuvole, esistonopaesaggi in nuce anche nei suoli a essisottesi. Sarà mica un caso se vengonodefiniti orizzonti quegli strati sempre piùdensi del terriccio che raccorda lasuperficie della terra alla rocciaparlandoci delle ragioni della vitasviluppatasi in uno specifico habitat fino adefinirne – nella somma dei suoi orizzontisotterranei – il tratto caratteristico, ilprofilo (altro termine tecnico). È agli esitidi questi invisibili paesaggi palinsesto delprocedere per ere del tempo sul pianeta,al reticolo di interrelazioni che litramano, a questa matrice, incubatore divita sulla terra emersa, che WilliamBryant Logan dedica la sua Storia dellaterra che calpestiamo. Intendendo quellaPelle del pianeta (Bollati Boringhieri,pp. 191, € 16,50) evocata nel titolo ainseguire la prismatica polimorficità di unsoggetto che continuamente siriconfigura: volta a volta terriccio, humus,fango, argilla, compost, limo,metonimicamente, terra, ma nella suaparte fertile, dirt (dall’originale del titoloinglese, con l’accezione di sporco checomprende). Ben «Oltre i giardini»,dunque (come s’intesta la fin quiintrigante collana di Bollati Boringhieriche con questo anomalo titolo riapparedopo un lungo silenzio), si spinge questavolta Logan, pure autore di una bellastoria sociale della quercia, procedendoqui per accumulo di prospezioniscientifiche e aneddoti, evocazioni eassonanze, riferimenti e citazioni, talvoltafuori contesto, esternazioni di unautoironico (?) animismo e più efficaciparentesi di felice divulgazioneall’anglosassone. Tra divagazioni sull’Artedi scavare, note su acque sotterranee,pozzi e rabdomanti, appunti su Teoria epratica del letame, su buche, tombe, cave,fondamenta di cattedrali, sulle più varieforme di vita sotterranea, come puresulle proprietà terapeutiche della terra ole valenze simboliche dell’universoctonio, nel volume si racconta, risalendoarchi temporali profondi, come dopo ilraffreddamento del pianeta e laformazione dei primi mari, il processo ditrasformazione della lava impieghi almenomille anni perché questa si traduca in uncentimetro di terra fertile. Mentrel’erosione e poi il susseguirsi delleglaciazioni macinano i minerali generandoi terricci più recenti; assieme agli effettidegli agenti atmosferici, uragani, venti,maree…, ma anche come esito di unprocesso che reintegra, con lamediazione di umidità e calore, la mortee digestione di alberi, foglie, animali…Organismo dinamico, insieme direlazioni, il terriccio, l’humus è essostesso a sua volta origine di vita. Eppure,le terre invecchiano e muoiono.Dimenticando ogni presunzione diautoriequilibrio conservativo, occorrepresidiare il processo di ricostituzione diquella condizione effimera che è lafertilità e restituire alla terra quanto leviene sottratto, ripristinando erigenerando. E se, certo, per proteggerela fragilità del suolo, «restituire i nostricorpi alla terra non è sufficiente»,possono tornare utili talune praticheconsapevoli di smaltimento e riciclo, adesempio nel compost, e, prima ancora,uno sguardo diverso sul pianeta, perché,tutto sottratto, «i rifiuti non esistonofinché non siamo noi a rifiutarli».

LA VERVE «DIALETTICA» DEL DRAMMATURGO INGLESE IN UNA PIÈCE DI SUCCESSO

«Gli studenti di storia» di Alan Bennett:confrontiamo la messinscena genovesedel Teatro dell’Elfo con la traduzione uscitadi fresco da Adelphi, quasi un canovaccio

«The History Boys» di Alan Bennettnella messinscena del Teatro dell’Elfo,regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani(quest’ultimo, al centro, nella parte di Hector)

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(8) ALIAS DOMENICA26 FEBBRAIO 2012

UNA MOSTRA A FORLÌ, SAN DOMENICO

L’improbabile applicazione di Warburgal cimiteriale Adolfo WildtPresentato come una specie di vate dellascultura italiana fra tardo romanticismo eliberty, il milanese Adolfo Wildt(1868-1931) è protagonista fino al 17giugno, a Forlì, Musei di san Domenico, diuna mostra monografica (catalogo SilvanaEditoriale), arricchita da opere ‘di confronto’scelte fra gli antichi maestri da lui prediletti.Predilezioni assai variegate, da Fidia aBambaia, da Bramante a Klimt, indicative diun gusto eclettico, che resta eclettico anchedopo averlo concettualizzato, come fa PaolaMola (curatrice insieme a FernandoMazzocca), attraverso una grigliawarburghiana, la quale replica finanche, apartire da materiali wildtiani, lo schema dellecelebri tavole dell’atlante Mnemosyne. Mauna critica della cultura non può esimersi dalmettere in guardia sul rischio di fugheesoteriche e persino della pagliacciata spiritualistica se si applica Warburgh a un’esperienzadel genere, peraltro ‘insidiata’ ideologicamente, dal fascismo a Franco Maria Ricci: e non sitratta di essere politicamente corretti... Sarebbe stato più interessante vagliare i vettori dimodernità dello scultore secessionista levigato allo spasimo, maestro non a caso di Fontana edi Melotti, piuttosto che fissare il suo disagiato anacronismo cimiteriale (non impediente allarealizzazione di una fosca icona del Duce) e i suoi cascami di costume tra Tamara deLempicka ed Emanuele Castelbarco sul cielo stellato delle corrispondenze atemporali, conperfino il richiamo, nel titolo, al giovane Lukács de L’anima e le forme. (f.d.m.)

di DANIELA LANCIONINAPOLI

●●●Struggente la mostra di FaustoMelotti al Museo Madre di Napoli (fi-no al 9 aprile, catalogo Electa). Curatada Germano Celant in collaborazionecon Marta Melotti e l’Archivio FaustoMelotti, raccoglie circa duecento scul-ture e offre una selezione generosa eappagante dell’opera dell’artista, disse-minata in un percorso cronologico in-calzante e pieno di sorprese.

Quella di Melotti, nato nel 1901 a Ro-vereto e diplomatosi in ingegneria elet-tronica al Politecnico di Milano nel1924, è stata una vicenda artistica affat-to lineare, per anni oscurata da un al-lontanamento, solo parzialmente vo-lontario, dalla scena dell’arte. All’indo-mani della seconda guerra mondiale,infatti, si mise a fare ceramiche e que-sto, come in molte interviste ha umil-mente raccontato, gli servì a sfamarela sua famiglia. Celant, che è autore delcatalogo generale delle opere, ne rialli-nea il percorso creativo ponendo sullostesso piano ogni diverso aspetto dellasua attività. Dalla scultura astratta de-gli anni trenta, ai lavori realizzati per ladecorazione di ambienti nel dopoguer-ra, sino alle opere più recenti che furo-no oggetto di quella che può dirsi la ri-scoperta di Melotti, dovuta a un drap-pello sparso di giovani critici – tra i pri-mi Enrico Crispolti, Paolo Fossati eMaurizio Fagiolo dell’Arco –, all’edito-re Vanni Scheiwiller e a Italo Calvino.In mostra, alle prime ceramiche del1930 nate dall’incontro con Gio Ponti,seguono i gessi del 1930-’33: Bambinache ascolta una conchiglia, Dafne, figu-re frammentarie con corpi filiformi,quasi smaterializzati. Fulgidi giunseropoi gli anni «dello stato d’animo angeli-co, geometrico». Gli anni milanesi del-la collaborazione con gli architetti ra-zionalisti, dell’adesione ad Abstrac-tion-Création, delle mostre nella Galle-ria Il Milione a fianco di Licini, di Ata-nasio Soldati, di Mauro Reggiani, di Ve-ronesi e dell’amico di sempre Fonta-na. Mentre il cugino Carlo Belli dava al-le stampe Kn giudicato da Kandinskij ilvangelo dell’arte astratta, nello studiodi Melotti nascevano sculture d’accia-io e di gesso di un astrattismo contrap-puntistico, come lo definì lo stesso au-tore, derivato dalle leggi dell’armoniae del contrappunto. La musica ebbegrande importanza nella sua formazio-ne e da essa, inizialmente, il giovane ar-tista che amava Bach e Brahms, derivòsoprattutto il modus operandi della va-riazione. Nei suoi rilievi (Scultura n.23, Scultura n. 16), illuminati dal can-dore del gesso ma anche dalla luceolimpica della classicità, solide figuregeometriche sono ripetute in positivo,in negativo o cesellate sul piano. Inquestolasciò un’importante ereditàper il tramite, probabilmente, del galle-rista Luciano Pistoi, ad alcuni artistipiù giovani, come Paolini o Fabro, aiquali la variante permise di accedere al-l’universale o alla categoria, solo appa-rentemente opposta, del relativo.

Le opere astratte di Melotti, esposteal Milione nel 1935 nella sua prima mo-stra personale, ricevettero la dura criti-ca di Carlo Carrà: «È intelligente, manon è scultura». Dopo di allora l’artistasembrò rinunciare al sogno di un’arteastratta, classica e universale, a favoredi una figurazione che coincise, talvol-ta, con i temi cari alla propaganda di re-gime. In mostra, a testimonianza dellecommittenze pubbliche ricevute du-rante il fascismo, sono esposti i bozzet-ti di tre allegorie, La Pittura, La Decora-zione, L’Architettura, realizzati nel1940 per la VII Triennale di Milano, neiquali domina il principio della sintesi(nella strada indicata da Arturo Marti-ni), un modellato nervoso e qualcheinaspettata presenza (l’affiorare nellaveste della Pittura, ad esempio, di albe-ri ad alto fusto e di trabeazioni architet-toniche, forse omaggio a de Chirico).

Finita la guerra, Melotti lavorò quasiesclusivamente con la ceramica inten-sificando la produzione di oggetti (mol-ti artisti in quegli anni difficili si dedica-rono alla produzione di oggetti, manessuno come Melotti presentò il pro-prio lavoro esclusivamente in relazio-ne alle manifestazioni dedicate allaproduzione artigianale). Contempora-

neamente realizzò, ma non espose,piccole sculture, e i primi teatrini in ter-racotta o in ceramica smaltata, nei qua-li l’esito frammentario e filiforme degliinizî tornò al servizio di un intrecciomai narrativo, sempre fantastico, nelquale non temette di assumere la cre-pa, il taglio, l’incidente di cottura (maè questa inaffidabilità della ceramicache Melotti a più riprese dichiarò dinon amare). Al suo credo positivista sisostituì la malinconia per l’armoniaperduta. Cosa era accaduto allo sculto-re che confidava nell’ordine e nellachiarezza? «A me , lo confesso, la guer-ra ha lasciato un grosso travaglio den-tro». Per Melotti non si può fare l’arteastratta avendo nell’anima le figuredella disperazione, che a lui non piace-vano e che non si sentiva neancheadatto a illustrare. Le cause del suo for-zato silenzio di scultore sono forse mol-teplici e su di esse la bella mostra napo-letana spinge a interrogarsi.

L’afasia di Melotti negli anni del do-poguerra potrebbe essere la dimostra-zione della tesi di Adorno sulla soprag-giunta impossibilità dell’arte a rappre-sentare la storia (non può esistere undramma adeguato al fascismo). La suavicenda trova riscontro anche nell’ana-tema lanciato da Arturo Martini nel1947, La scultura lingua morta, rivoltoa un’arte (la statuaria) che era mirabil-mente servita a celebrare culti e memo-rie e a fabbricare idoli e che ora non sipoteva trasformare in lingua quotidia-na, nella parola spontanea tra gli uomi-ni. Letale, forse, fu per Melotti l’adesio-ne alla logica monumentale, ma anchela stroncatura di Carrà.

Però, durante gli anni che l’artistastesso definì della «congiura del silen-zio», lontano dalle dispute d’attualità edai linguaggi internazionali (dalla con-trapposizione tra astrattisti e figurativie poi dall’informale), Melotti maturòuna scultura sorprendente, isolata epi-fania nel panorama del secondo Nove-cento. Una scultura che è astratta e fi-gurativa insieme e che assorbe i modidella pittura e del disegno in nome diuna originalissima unità. Opere in filod’ottone, costruite con l’ausilio di altri

materiali: pezzi di stoffa dipinti, retimetalliche, catenelle, campanelline,spaghi, spaghi colorati, pezzetti di la-na, bottoni, frammenti di plastica o divetro colorati (del tutto estranee alla lo-gica del New Dada anche per un loroostinato, a volte misterioso racconto).Si proiettano tutte verso l’alto e sonorarefatte. Spesso il titolo aiuta a deci-frarne l’immagine: La rivoluzione deipoveri con il vessillo rosso, la Deposizio-ne che ci permette di accostare le figu-re disegnate con il filo di ottone a quel-le della tradizione iconografica cristia-na con un sudario che si tinge progres-sivamente del colore del sangue e diquello delle tenebre, L’uscita delle val-chirie, Le torri della città invisibile, Lapioggia, Il pescatore e le sue esche. Mol-te delle sculture di questo periodo so-no presenti in mostra, comprese quel-le dove più evidente è l’antico amoreper la geometria, raccolte in un bell’al-lestimento che lascia aria. Sono operenate dall’accostamento di elementi di-versi e l’aria che le attraversa ne è unacomponente fondamentale: anima pic-coli pesi o drappi con la forza di gravi-tà, permette alle campanelline, even-tualmente, di essere suonate, a qual-che esile elemento di stagliarsi solita-rio nel vuoto e incantare.

Come giunse a questo stato di gra-zie? Forse combattendo contro il dram-ma della Storia con l’arma lieve del di-segno. Melotti fu anche poeta, «enor-mi affreschi e non li guardi», scrisse,«un foglio bianco con una sola linea ene resti incantato», e in una raccolta diversi intitolata Linee: «nel bel disegnola linea, come un’anima, palpita d’in-decisioni, di certezze, di voluti ingan-ni». È stato un prolifico disegnatore(tra l’82 e l’83 Giuseppe Appella dedicòai suoi disegni un intero anno di mo-stre) e le sue sculture somigliano a dise-gni, per l’immediatezza dell’esecuzio-ne, per gli elementi filiformi simili a untratto di matita e per la presenza del co-lore. Forse, nel foglio bianco, umile emaneggevole, Melotti, disilluso dalclassico ordine mediterraneo, ha potu-to sperimentare l’incertezza e tentarel’azzardo di una nuova felicità.

Il filiformecontro la Storia

Fausto Melotti, «Orfeo dimentico», 1975,collezione privata. In alto a destra, l’artistanel suo studio a Milano negli anni settanta,

foto Ugo Mulas. Sotto, Adolfo Wildt,«Santa Lucia», 1926-’27

UNA MOSTRA STRUGGENTE AL MADRE DI NAPOLI

MELOTTI

«A me la guerra ha lasciato un grosso travagliodentro»... Ed ecco allora lo stato di graziadei teatrini e delle opere in filo d’ottone, un addiodel Novecento alla Monumentalità e all’Astrazione