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Tesi di V. Dada - Traduzione audiovisiva e cambiamenti traduttivi in Gran Torino

Date post: 25-May-2015
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Traduzione audiovisiva e cambiamenti traduttivi in Gran Torino VALENTINA DADA Scuole Civiche di Milano Fondazione di partecipazione Dipartimento Lingue Scuola Superiore per Mediatori Linguistici via Alex Visconti, 18 20151 MILANO Relatore: Professor Andrew TANZI Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica Dicembre 2009
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Page 1: Tesi di V. Dada - Traduzione audiovisiva e cambiamenti traduttivi in Gran Torino

Traduzione audiovisiva e cambiamenti traduttivi in

Gran Torino

VALENTINA DADA

Scuole Civiche di Milano

Fondazione di partecipazione

Dipartimento Lingue

Scuola Superiore per Mediatori Linguistici

via Alex Visconti, 18 20151 MILANO

Relatore: Professor Andrew TANZI

Diploma in Scienze della Mediazione Linguistica

Dicembre 2009

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© Clint Eastwood, Gran Torino, Warner Bros, Burbank, 2008

© Valentina Dada per l’edizione italiana 2009

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Abstract in italiano

Gran Torino, diretto e interpretato da Clint Eastwood, esce nelle sale cinematografiche statunitensi nel dicembre 2008, in Italia il 13 marzo 2009. In questa tesi vengono messe a confronto la versione originale e quella doppiata in italiano, in un’analisi comparata finalizzata a individuare la strategia traduttiva in termini di accettabilità e adeguatezza. Viene operata una critica della traduzione mirata, che prende in esame in particolare le storpiature dei nomi, gli epiteti razzisti e le battute politically incorrect ricorrenti nel film. Da questa analisi si evince che la strategia traduttiva è stata prevalentemente target-oriented, vincolata sia dalla dominante della scorrevolezza e immediata fruizione del film sia da tutti quei fattori che entrano in gioco quando si ha a che fare con un testo multimediale, come l’intonazione, la lunghezza delle parole, la prosodia e il sincrono labiale. Oltre a ciò emerge anche una tendenza a edulcorare certe espressioni scatologiche, cosa che va a contraddire talvolta l’idioletto di alcuni personaggi, provocando così un appiattimento linguistico.

English Abstract

Directed by and starring Clint Eastwood, Gran Torino was released on screens in America in December 2008 and in Italy on 13th March 2009. In this thesis, the original version has been compared with the Italian dubbed one in a comparative analysis aimed at finding out the translation strategy in terms of acceptability and adequacy. A targeted translation-oriented analysis has been carried out, with a focus on the distorted names, racist insults and politically incorrect expressions occurring in the movie. The results of this analysis show that the translation strategy has been mainly target-oriented, influenced by both the dominant of the movie’s fluency and its direct understanding and all those factors which are involved in a multi-media product, such as intonation, word length, prosody and lip synch. Moreover, a tendency to soften some scatological expressions has been noticed: this sometimes contradicts the idiolect of certain characters, leading to linguistic flattening.

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Zusammenfassung Gran Torino – ein Film von und mit Clint Eastwood – erschien in den amerikanischen Kinosälen im Dezember 2008, in Italien hingegen am 13. März 2009. In dieser Diplomarbeit wurde das Original mit der italienischen Synchronisation durch eine Komparativanalyse verglichen, die darauf abzielt, eine geeignete Übersetzungsstrategie hinsichtlich der Akzeptabilität und Angemessenheit des Filmtextes zu finden. Im Mittelpunkt dieser Übersetzungskritik stehen v.a. die im Film häufig vorkommenden Entstellungen der Namen, rassistischen Schimpfnamen und die politisch inkorrekten Bemerkungen. Daraus ergibt sich, dass die Übersetzungsstrategie vor allem benutzerorientiert und an zwei Faktoren gebunden war: sowohl an das Hauptziel der sprachlichen Flüssigkeit und des unmittelbaren Verständnisses des Films als auch an alle mit einem multimedialen Text verflochtenen Aspekte, wie z.B. Intonation, Länge der Worte, Prosodie und Lippensynchronität. Darüber hinaus wurde auch eine Tendenz zur Abschwächung mancher skatologischen Ausdrücke bemerkt: Dies widerspricht manchmal dem Idiolekt einiger Figuren und verursacht eine linguistische Abflachung.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Indice

Introduzione ...................................................................................................................... 7 

Capitolo I ........................................................................................................................... 9 

1.1 Biografia e opere principali .................................................................................. 9 

1.2 Un mondo perfetto ............................................................................................... 14 

1.3 Mystic River .......................................................................................................... 15 

1.4 Million Dollar Baby ............................................................................................ 16 

1.5 Gran Torino .......................................................................................................... 17 

1.5.1 Trama ............................................................................................................. 17 

1.5.2 Informazioni generali ................................................................................... 18 

1.5.3 I personaggi principali ................................................................................. 21 

1.5.4 Ricezione critica ........................................................................................... 24 

Capitolo II ....................................................................................................................... 28 

2.1 Cenni di teoria della traduzione applicata al doppiaggio ................................ 28 

2.2 Analisi narratologica del film ............................................................................. 34 

2.2.1 Il punto di vista ............................................................................................. 34 

2.2.2 La dimensione temporale ............................................................................ 34 

2.2.3 La dimensione spaziale ................................................................................ 35 

2.2.4 Livello sintattico e linguistico..................................................................... 36 

2.2.5 Livello semantico ......................................................................................... 37 

2.2.6 Spettatore modello e spettatore empirico .................................................. 38 

2.2.7 Dominanti e sottodominanti ........................................................................ 39 

Capitolo III ...................................................................................................................... 40 

3.1 Il metodo d’analisi ............................................................................................... 40 

3.2 Thao e gli sfottò dei latino-americani ............................................................... 41 

3.3 Walt, Martin e l’arte del “parlare tra uomini” .................................................. 44 

3.4 Walt e Thao a tu per tu ........................................................................................ 48 

3.5 Come diventare uomo: Walt e Martin docent .................................................. 53 

3.6 Il testamento ......................................................................................................... 56 

Conclusioni ..................................................................................................................... 60 

Bibliografia ..................................................................................................................... 63

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Introduzione 

Quando ci si addentra nei meandri della traduzione e dell’interpretazione,

specialmente nel primo caso, si tende a sviluppare una forma mentis diversa da

quella di chi non è a contatto tutti i giorni con le lingue straniere. In particolare, si

viene colpiti da una sorta di “deformazione professionale” – sebbene ci si trovi

ancora nella fase dell’apprendimento e non si eserciti la benché minima

professione – tale per cui, di fronte a un testo di qualsivoglia genere che è stato o

sarà oggetto di traduzione, viene da domandarsi come fosse l’originale in lingua o

in che modo verrà tradotto nella nostra lingua madre. Situazioni di questo genere

possono verificarsi in qualsiasi circostanza: leggendo un libro, ascoltando lo

slogan o il jingle di una pubblicità, sfogliando il menù di un ristorante, guardando

un film.

È quanto accaduto con Gran Torino. Galeotta fu la traduzione di una recensione

del film stesso che mi è stata sottoposta a lezione proprio dal mio relatore. Dopo

aver visto il film – per altro di grande qualità e spessore – mossa da questa

curiosità irrefrenabile di conoscere l’originale e come fossero state rese alcune

battute, è nata l’idea di fare di Gran Torino e dei cambiamenti traduttivi applicati

alla versione doppiata in italiano l’oggetto della mia tesi di laurea.

Sulla base degli strumenti di teoria della traduzione che ho imparato a

padroneggiare nel corso del triennio, ho vestito i panni del critico (dilettante) della

traduzione, fornendo un’analisi comparata della versione originale e italiana del

film, incentrandomi in modo particolare su alcune scene e cercando di

individuarne la strategia traduttiva soprattutto in termini di accettabilità e

adeguatezza.

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Le conclusioni a cui sono giunta hanno avallato l’ipotesi mossa in partenza, non

appena ho visto il film in italiano: il pubblico italiano ha recepito il film, ora

sorridendo e divertendosi, ora commovendosi; non tutto quello che lo spettatore

anglofono ha capito poteva essere colto da quello italiano con una traduzione

meramente letterale. Ciò deve aver spinto presumibilmente gli adattatori-

dialoghisti a una traduzione filmica orientata verso il punto di vista dello

spettatore. E ciò che è emerso dal confronto delle due versioni ha confermato la

mia tesi con esempi concreti.

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1.1 Biografia e opere principali

Clinton Eastwood, Jr., nasce il 30 maggio 1930 a San Francisco, nel pieno

della Grande Depressione. Per diversi anni suo padre, Clinton Sr., ex contabile,

scarrozza la famiglia in giro per la California a bordo di una roulotte, alla ricerca

di un lavoro. Clint viene spesso lasciato dalla nonna, a Oakland, dove finiranno

per trasferirsi anche i genitori: il padre trova impiego in una stazione di

rifornimento, la madre è segretaria. Clint gioca a basket e si interessa di musica.

Nel 1948, subito dopo il diploma alla Oakland Technical High School, va

nell’Oregon a fare il taglialegna; svolge anche altre professioni, come quella di

guardiano notturno, bagnino e impiegato amministrativo. Arruolato ai tempi della

guerra di Corea, non va al fronte, ma fa l’istruttore di nuoto a Fort Ord, sulla costa

californiana. Qui conosce una troupe della Universal e l’aspirante attore David

Janssen, che lo incoraggiano a entrare nel mondo del cinema. Nel 1953 si

trasferisce a Los Angeles per frequentare un corso di amministrazione aziendale e

tentare la fortuna a Hollywood. Si sposa con una studentessa di Berkeley, Maggie

Johnson, da cui avrà due figli, Kyle e Alison. Dopo un provino alla Universal, gli

viene offerto un contratto per settantacinque dollari a settimana per dieci mesi:

comincia così a lavorare in alcuni film di serie B, come Revenge of the Creature

(La vendetta del mostro, 1954) e Tarantula (Tarantola, 1955). Il successo arriva

con la serie televisiva prodotta dalla CBS, Rawhide, in cui Clint veste i panni di

un giovane cowboy. Il telefilm esordisce il 9 gennaio 1959: la serie proseguirà per

sette anni e mezzo, per un totale di 217 episodi. Nella metà degli anni Sessanta ha

inizio il sodalizio con il regista Sergio Leone, maestro del cinema western

italiano. L’incontro con Leone e la creazione dello spaghetti western sono

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destinati a lasciare un segno non solo nella storia del cinema, ma anche nella

carriera e nella vita di Eastwood. Per un pugno di dollari (1964), Per qualche

dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) gli consentono di

diventare una star internazionale e una vera e propria icona: sguardo di ghiaccio,

sopracciglio aggrottato e un pungo di parole biascicate, barba incolta, faccia

bruciata dal sole e poncho (la leggenda vuole: mai lavato nell’arco dei tre film!).

Con i soldi incassati con la trilogia del dollaro, Clint fonda nel 1967 la sua

compagnia di produzione: la Malpaso Company (il nome è preso da quello di un

torrente che attraversa un terreno di sua proprietà a Carmel e in spagnolo significa

«passo falso»), che partorirà successi, capolavori, ma anche fiaschi commerciali.

Il primo film che (co)produce e interpreta, per Malpaso, è un western tradizionale,

Hang ‘Em High (Impiccalo più in alto, 1968). Sempre nel 1968, l’attore inizia un

altro sodalizio artistico che dà un’ulteriore svolta alla sua carriera e al suo stile,

ovvero una collaborazione con il regista americano Don Siegel, che non solo

consacra definitivamente Eastwood come star negli Usa, ma dà una matrice di

stile e mestiere anche alla sua futura carriera registica. Il primo film che i due

girano insieme è il western urbano è Coogan’s Bluff (L’uomo con la cravatta di

cuoio, 1968), al quale seguono la commedia western Two Mules for Sister Sara

(Gli avvoltoi hanno fame, 1970), The Beguiled (La notte brava del soldato

Jonathan, 1971), Dirty Harry (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, 1971) e,

infine, Escape from Alcatraz (Fuga da Alcatraz, 1979), vero e proprio classico del

cinema carcerario. Negli anni Settanta inizia a lavorare anche dietro la macchina

da presa, scelta che gli varrà la vera consacrazione nell’olimpo del cinema. La sua

prima regia risale al 1971, con il thriller Play Misty for Me (Brivido nella notte),

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in cui, tra l’altro, regala un memorabile cameo all’amico-mentore Don Siegel (è il

barman). Oltre all’esordio in regia, tra il ’68 e il ’71 Eastwood interpreta ben otto

film, tra cui due film bellici Where Eagles Dare (Dove osano le aquile, 1969) e

Kelly’s Heroes (I guerrieri, 1970). Durante gli anni ’70 continua a interpretare

film western, film d’azione e polizieschi. I primi due western che segue da regista

sono High Plains Drifter (Lo straniero senza nome, 1973) e The Outlaw Josey

Wales (Il texano dagli occhi di ghiaccio, 1976). Un western che gli fa guadagnare

quattro Oscar come miglior regia e film, migliore attore non protagonista e

montaggio e con cui Clint celebra la morte del mito del West è Unforgiven (Gli

spietati, 1992), capolavoro crepuscolare che dedica a Sergio Leone e Don Siegel,

in cui recitano Gene Hackman e Morgan Freeman. Si tratta, fino a oggi,

dell’ultimo western tout court di Eastwood, anche se nel 2000 realizza Space

Cowboys, una vera e propria miscela di generi, che va dalla fantascienza alla

commedia, includendo, ovviamente, anche l’amato western (sostituisce i cavalli

con uno Shuttle della Nasa e la vera frontiera è la Luna). Space Cowboys, tra

l’altro, è il primo film di Eastwood a fare largo uso di effetti speciali, insieme a

Firefox (Firefox – Volpe di fuoco, 1982). Quanto ai film d’azione e ai polizieschi,

nel 1974 Eastwood recita in Thunderbolt and Lightfoot (Una calibro 20 per lo

specialista) e interpreta quattro sequel di Dirty Harry, vestendo i panni del

poliziotto cult Harry Callaghan (nella versione originale si chiama Callahan), noto

al pubblico italiano come “Harry la Carogna”, sempre pronto a sparare con la sua

44 Magnum: Magnum Force (Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan, 1973),

The Enforcer (Cielo di piombo, ispettore Callaghan, 1976), Sudden Impact

(Coraggio…fatti ammazzare, 1983 – unico film della serie di cui Eastwood firma

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anche la regia) e The Dead Pool (Scommessa con la morte, 1988). Nel 1978

Eastwood balza sui giornali scandalistici: dopo venticinque anni di matrimonio, si

separa definitivamente da Maggie Johnson con un divorzio da venticinque milioni

di dollari. La sua vita sentimentale sarà molto movimentata: si legherà a diverse

donne, da cui avrà anche dei figli. Nel 1996 si sposa con la conduttrice televisiva

Dina Ruiz, da cui ha avuto l’ultima figlia, la settima.

Negli anni ’80 si dedica anche alla carriera politica, divenendo sindaco di Carmel,

in California. Gira ancora dei polizieschi, come City Heat (Per piacere…non

salvarmi più la vita, 1984) e Pink Cadillac (1989) e un film di guerra, Heartbreak

Ridge (Gunny, 1986), che racconta l’intervento di 5.000 marines nell’isola di

Grenada nell’83, intervento sul quale Reagan impose il silenzio dei media. Il

progetto più ambizioso di questi anni è Bird (1988), un film sulla vita di Charlie

«Bird» Parker, il sassofonista che rinnovò il jazz all’inizio degli anni Quaranta.

Gli anni Novanta sono per Eastwood il decennio dei premi e dei riconoscimenti

ufficiali, decennio in cui incassa un successo dopo l’altro: nel 1990 ha l’occasione

di girare il suo primo film sul cinema, White Hunter, Black Heart (Cacciatore

bianco, cuore nero), una biografia romanzata della vita del regista, attore e

sceneggiatore statunitense John Huston, a cui rende omaggio. Nel 1993 dirige un

magnifico Kevin Costner in A Perfect World (Un mondo perfetto), struggente

storia di un uomo che, dopo essere evaso e aver rapito un bambino, si lancia in

una fuga tanto frenetica quanto vana. Con questo film Clint Eastwood si erge

come uno dei registi più sensibili ed etici nel panorama americano. Egli amplia il

suo repertorio con un film d’amore, The Bridges of Madison County (I ponti di

Madison County, 1995) e film thriller, come Absolute Power (Potere assoluto,

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1997) e True Crime (Fino a prova contraria, 1999). Insieme a Gli Spietati e Un

mondo perfetto, Mystic River (2003) e Million Dollar Baby (2004) sono l’asso di

cuori del poker di capolavori di Eastwood. Il nuovo millennio segna il trionfo di

questo grande cineasta, approdato a una maturità artistica tale da giustificare

appieno il suo status di icona di Hollywood. Nel 2000 gli viene conferito il Leone

d’Oro alla Carriera al Festival di Venezia. Mystic River gli farà piovere una

valanga di nomination Oscar e una serie di premi internazionali sulla testa, ma è

con Million Dollar Baby che ottiene ben quattro statuette agli Oscar 2005 per

miglior film, migliore regia, migliore attrice protagonista a Hilary Swank e

miglior attore non protagonista a Morgan Freeman. Il film si aggiudica anche due

Golden Globe per la migliore regia e sempre per la migliore attrice protagonista.

Tra il 2006 e il 2007 dirige due film bellici, Flags of Our Fathers e Letters from

Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima): entrambi ambientati durante la seconda guerra

mondiale, si tratta di due film complementari che raccontano i fatti inerenti alla

battaglia di Iwo Jima visti rispettivamente dal punto americano e giapponese;

questi due film rappresentano un omaggio che Eastwood ha voluto dedicare ai

caduti di entrambi gli schieramenti. Nel 2008 esce nelle sale cinematografiche

un’altra pellicola diretta e prodotta da Eastwood, Changeling, film drammatico,

interpretato da Angelina Jolie, che narra la storia vera di un terribile caso di

rapimento avvenuto nel 1928. Il film ha ricevuto la nomination per la Palma

d’Oro al Festival del Film di Cannes del 2008 e ha vinto uno Special Award dopo

essere stato proiettato in prima a tale Festival. Il 2008 è anche l’anno di Gran

Torino (che sarà oggetto di analisi nelle prossime pagine). Nel febbraio 2010

uscirà Invictus, diretto e prodotto da Eastwood, dramma storico sul Sudafrica

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post-apartheid, che sarà interpretato da Matt Demon e Morgan Freeman nel ruolo

di Nelson Mandela. Con i suoi ultimi film, Clint Eastwood dimostra di essere uno

dei cineasti americani più originali e soprattutto disposti a raccontare le ambiguità,

le contraddizioni e i peccati orribili della società americana.

1.2 Un mondo perfetto

Film drammatico e poliziesco del 1993, diretto e interpretato da Eastwood,

che nel ruolo di un Texas Ranger anticonformista dà la caccia a Kevin Costner, un

delinquente incallito con una serie di precedenti penali.

Texas, 1963: Butch Haynes (K. Costner) evade dalla prigione dove sta scontando

quarant’anni per rapina a mano armata e inizia una lunga, impossibile fuga verso

l’Alaska con un bambino preso in ostaggio, Phillip. Il ranger Red Garnett (C.

Eastwood) è incaricato della sua cattura, affiancato da una giovane criminologa: è

un uomo alquanto scorbutico, combattuto tra la necessità della legge e la

consapevolezza che la giustizia, spesso, non riesce a essere davvero “giusta”. Si

tratta di un film d’inseguimento in cui i meccanismi dell’azione violenta lasciano

il posto alla tenerezza. Il paradosso della storia che viene raccontata nel film sta

nel mondo fantastico che Butch crea intorno al piccolo ostaggio: intelligente e

affettuoso, egli inventa per il bambino un ambiente in cui i sogni diventano realtà

e la realizzazione dei desideri infantili sembra a portata di mano. Il film

rappresenta una sconsolata analisi morale della società USA e tratta grandi temi

come la giustizia, la libertà, il passaggio all’età adulta, il pentimento e non da

ultimo il tema della paternità svincolato dai legami di sangue.

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1.3 Mystic River

Il film esce nelle sale nel 2003, tratto dall’omonimo romanzo di Dennis

Lehane (in Italia è uscito però con il titolo La morte non dimentica). Con il suo

stile asciutto e diretto e un approccio onesto e realistico, Eastwood racconta le

storie intrecciate di tre uomini, Jimmy, Dave e Sean, i tragici eventi che hanno

segnato la loro infanzia e inciso profondamente sul loro futuro e le scelte

irrevocabili che sono costretti a compiere. Da ragazzino, Dave viene rapito da

pedofili, che lo tengono chiuso in uno scantinato e abusano di lui: riesce a fuggire

dopo quattro giorni, ma niente sarà più come prima. Vent’anni dopo, sempre nello

stesso quartiere di Boston, le vite di Dave, ora ex giocatore di baseball fallito,

Jimmy, ex mafiosetto locale e Sean, poliziotto, si intrecciano di nuovo a causa

dell’assassinio di Katie, la figlia diciannovenne di Jimmy. Il caso viene assegnato

a Sean, in corsa contro il tempo, perché Jimmy è ossessionato dal desiderio di

vendetta. Collegato al crimine per una serie di coincidenze, Dave è costretto a

confrontarsi con i demoni del passato, che minacciano il suo matrimonio e

qualsiasi speranza di avere un futuro. Una storia inquietante di amicizia, rapporti

famigliari e innocenza perduta troppo presto. Un film in cui Eastwood riesce a

raccontare in maniera esemplare una storia complessa di infanzia negata,

circoscritta in una periferia dell’America che, di solito, non ci è dato vedere nel

cinema.

Il film si conclude con la celebrazione di una parata, il Columbus Day. Questa

scelta non è casuale, Eastwood la usa come metafora dell’America

contemporanea: si festeggia anche dimenticando, o nascondendo, il sangue fresco

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e i crimini peggiori. La società è vista come gioco delle parti, come un carro in

maschera.

1.4 Million Dollar Baby

Come già menzionato, questo film del 2004 rappresenta un successo

formidabile per Eastwood regista e attore: recita nel ruolo di Frankie Dunn,

anziano manager di pugilato, uomo senza illusioni, ma privo di rancori. In seguito

alla dolorosa rottura con sua figlia, ha sempre evitato di affezionarsi troppo a

qualcuno; l’unico amico che ha è Scrap (interpretato da Morgan Freeman), un ex-

pugile che manda avanti la palestra e che riesce a vedere oltre quella “scorza

ruvida” di Frankie. Un giorno entra in modo prorompente nella vita di Frankie una

giovane trentenne, Maggie, che vuole diventare campionessa di pugilato ad ogni

costo. La sua energia vitale riesce a contagiare il riluttante Frankie che, pur senza

ammetterlo, vede in lei la figlia che non vede ormai da anni. Inizia così il loro

sodalizio, che comprende la totale dedizione della donna per quell’uomo che

sembra essere l’ultimo legame tra lei e il resto dell’umanità. Anche Scrap si

unisce al progetto di trasformare la ragazza in un pugile di qualità. Eastwood parla

di sentimenti, di coraggio e di paura con un pudore, una grazie e quella pacatezza

che è di fatto uno stile consolidato. Ai temi dell’amore paterno e della paternità

simbolica si aggiunge quello più inquietante che riguarda l’eutanasia e che

Eastwood affronta con consapevole fermezza. L’ortodossia della religione viene

sfidata senza arroganza, mostrando quanto siano differenti in ogni essere umano i

temi della vita e le scelte che da essa derivano. Un film sulla crudeltà

dell’esistenza, sulla generosità e sull’amore ritrovato.

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1.5 Gran Torino

Segue, in questa sezione, un’analisi approfondita del film oggetto di questa tesi.

1.5.1 Trama

Eastwood interpreta il ruolo di Walt Kowalski, un vecchio americano di

origini polacche, reduce dalla Guerra di Corea di carattere burberi e spavaldo, che

si trova a fare i conti con un mondo in continuo mutamento, costretto dai suoi

vicini di casa che sono emigranti a confrontarsi con i suoi pregiudizi in lui ben

radicati. Meccanico in pensione, Walt Kowalski riempie le sue giornate facendo

dei piccoli lavori di riparazione nelle case, bevendo birra e recandosi una volta al

mese dal barbiere. Nonostante l’ultimo desiderio espresso dalla moglie, ormai

deceduta, fosse che il marito si confessasse, per Walt – che tiene il suo fucile M-1

sempre pronto e carico – non c’è nulla da confessare. E non c’è nessuno di cui si

fidi abbastanza per confessarsi, ad eccezione del suo cane Daisy.

Le persone che un tempo erano i suoi vicini di casa sono ormai quasi tutte morte

oppure si sono trasferite altrove e sono state sostituite da immigrati provenienti

dal sudest asiatico, che lui disprezza. È pieno di risentimento per quasi tutto

quello che vede intorno a sé: le grondaie spioventi, i prati incolti e pieni di

vegetazione, le facce di stranieri che lo circondano, le bande di adolescenti

Hmong, latinoamericani e afro-americani che pensano che tutto il quartiere sia

loro, il modo in cui i suoi figli siano diventati perfetti estranei… . Walt aspetta

solo che il resto della sua vita passi. Fino alla notte in cui qualcuno cerca di

rubargli la sua Gran Torino del ’72. Ancora splendente e scintillante come il

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primo giorno, la Gran Torino mette a rischio la vita del suo vicino di casa

adolescente, il timido Thao, quando la banda di teppisti Hmong costringe il

ragazzo a cercare di rubare la macchina. Ma Walt si trova in mezzo tra il furto e la

banda, diventando suo malgrado l’eroe del quartiere, soprattutto per la madre di

Thao e per sua sorella più grande, Sue, che insistono affinché Thao si metta a

lavorare per Walt per fare ammenda del tentativo di furto. Nonostante all’inizio

Walt non voglia avere nulla a che fare con queste persone, alla fine cede e fa

lavorare il ragazzo insieme a lui nel quartiere, dando il via ad un’amicizia

improbabile che cambierà le loro vite. Walt può insegnare tante cose al giovane

Thao: come si parla tra uomini, come si ripara una staccionata e come si lavora

con un paio di tronchesi e un rotolo di nastro adesivo (ma mai e poi mai gli

insegnerà a sparare).

Avvicinandosi sempre più a questa famiglia Hmong, Walt scoprirà che il

“diverso” non è così disprezzabile e troverà molte più cose in comune con queste

persone che con la sua stessa famiglia. Alla fine, sarà proprio Walt a liberare Thao

dal circolo vizioso della violenza metropolitana e della vendetta, andando

disarmato a farsi uccidere dai giovani teppisti Hmong perché i testimoni riescano

a incastrarli e s’interrompa così la spirale del sangue.

1.5.2 Informazioni generali

Gran Torino esce nelle sale cinematografiche statunitensi nel dicembre

2008, in Italia tre mesi più tardi, il 13 marzo. Si tratta di un film che va dritto

all’essenza emotiva e morale del cinema con una totale economia di mezzi

espressivi: un vecchio, grintoso e ringhioso, disamorato di quasi tutti gli esseri che

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lo circondano (tranne la vecchia cagna Daisy). Un ragazzo cinese e sua sorella,

che tentano faticosamente di integrarsi nella vita americana. Due case vicine,

quasi identiche, con il prato e il patio antistante, dove siedono e si guardano in

cagnesco e s’insultano da lontano il protagonista e una vecchia cinese. Due

interni, una chiesa, un giovane prete che non si arrende davanti ai peccatori

recalcitranti, ma che cede all’istinto davanti alle ingiustizie. Una bellissima auto

d’epoca, la Ford Gran Torino del 1972, lustrata e ferma nel garage, e le auto

straniere che scorazzano per le strade. Alcune figure di contorno, poche.

Pochissimi ed essenziali i movimenti di macchina. Asciutti e quotidiani i dialoghi,

laconiche le battute. I personaggi cambiano, crescono, maturano. Gran Torino è

un’amara vicenda di progressiva presa di coscienza che l’abbattimento delle

barriere è possibile, soprattutto come arricchimento affettivo di una vita giunta al

termine (quella di Walt Kowalski). Dopo A Perfect World, Mystic River e Million

Dollar Baby, dopo aver sviscerato gli aspetti più oscuri e le conseguenze più

drammatiche del sistema sociale e ideale americano, la violenza individuale e

collettiva, la corruzione del potere e le discriminazioni di classe, genere e razza,

Eastwood ci offre con Gran Torino non un film sulla nostalgia di qualcosa di

inevitabilmente perduto, ma un film sull’oggi, sul futuro, sulla possibilità di

cambiamento. Senza dimenticare l’affascinante riflessione sull’enigma della

paternità che si cela dietro questa pellicola: i legami di sangue non significano

necessariamente affetto, rispetto, amicizia. Anzi, Eastwood mostra come la

relazione di paternità non sia limitabile al legame di sangue, ma sia sempre atto di

responsabilità, scelta e testimonianza.

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20

 

Un film, questo, che prende le sembianze di un vero e proprio romanzo di

formazione, in due sensi: non “cresce” solo il ragazzino, ma anche l’uomo al

tramonto della vita. Kowalski consegna a Thao le chiavi per il mondo degli adulti,

impara che si possono avere molte più cose in comune con i “musi gialli” che con

i propri figli.

Eastwood si è sempre occupato delle questioni complesse della razza, della

religione e del pregiudizio, e lo ha sempre fatto in modo onesto, che a volte

poteva sembrare politicamente scorretto ma che è sempre stato molto genuino.

Oltre a ciò, Gran Torino è il primo film importante che descrive personaggi della

comunità degli Hmong, una tribù etnica di diciotto clan sparpagliati tra le colline

del Laos, Vietnam, Tailandia e altre parti dell’Asia, che hanno avuto un passaggio

difficile verso gli Stati Uniti a seguito del loro coinvolgimento nella Guerra del

Vietnam (dopo la fine della Guerra sono stati portati in America come rifugiati

per aver aiutato gli americani durante il conflitto). Per le riprese Eastwood ha

voluto descrivere gli Hmong nel modo più autentico possibile, scegliendo

esclusivamente attori Hmong per quei ruoli nel film, anche se non erano attori

professionisti. Per trarre ispirazione per il design della casa di Thao e Sue, lo

scenografo ha osservato numerose fotografie e varie abitazioni Hmong;

analogamente, anche la costumista ha cercato di garantire l’autenticità di costumi

Hmong con un intenso lavoro di ricerca. L’attrice che interpreta Sue ha portato sul

set il suo costume reale fatto a mano.

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1.5.3 Personaggi principali

Walt Kowalski (Clint Eastwood) è un personaggio al principio quasi

ridicolo, isolato dalla famiglia, con pochi amici, che passa il tempo su una veranda

con una bandiera americana sullo sfondo a bere birre in compagnia della sua

golden retriever Daisy. Lancia insulti razzisti con la normalità con cui altre

persone pronunciano parole e verbi, ma man mano che stabilisce dei tenui rapporti

umani con le persone Hmong che si sono trasferite nel suo quartiere, gli strati di

ostilità sembrano scomparire. La storia inizia dopo la morte di sua moglie,

Dorothy, nel momento in cui l’uomo ha raggiunto il capitolo finale di una vita che

in molti modi è stata scandita dalle esperienze terribili in Corea e dai

cinquant’anni trascorsi allo stabilimento locale della Ford. La guerra però è finita

da tempo, la fabbrica è stata chiusa, sua moglie è morta e i figli, ormai cresciuti,

rispetto ai quali si sente un completo estraneo, non hanno mai tempo da

dedicargli. Uno dei pochi piaceri nella vita di Walt è quello di lucidare la sua Ford

Gran Torino del 1972, su cui lui stesso ha montato il blocco dello sterzo quando

lavorava allo Ford: essa rappresenta il suo orgoglio e la sua gioia, è il suo

purosangue. È emblema di tutta una serie di valori nazionali quanto personali, di

una vita passata nella consapevolezza di partecipare, con il semplice e preciso

lavoro manuale, alla costruzione di uno dei miti del proprio Paese. Servita,

riverita, amata, lucidata, lubrificata, ma tenuta sempre in garage, è il tesoro

segreto sopravvissuto a un tempo in cui le cose erano fatte bene. Anche se

inizialmente non vuole avere nulla a che fare con i vicini Hmong, Walt si accorge

a poco a poco di avere molte più cose in comune con loro di quante ne abbia con i

suoi figli viziati e fannulloni. E così inizia a vedere in Thao qualcosa che vale di

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più del suo disprezzo, si libera dei pregiudizi che abitavano in lui all’inizio del

film e si trasforma in un padre (putativo) affettuosamente severo. Walt è alla

ricerca di qualcosa. Sa sicuramente di essere giunto all’ultimo capitolo della sua

vita ed è alla ricerca di qualcuno, o qualcosa, che dia un senso a tutto e che calibri

il valore della sua vita.

Thao Vang Lor (Bee Vang) è il vicino di casa di Walt, sedicenne, altrettanto

isolato come Walt. Vive con la madre, la nonna e una sorella più grande, Sue. È

l’unico maschio della famiglia e non ha alcun punto di riferimento maschile cui

rifarsi. È goffo e insicuro in quanto è circondato da tutte quelle donne, che sono

dominanti nella famiglia. È alla ricerca di un modello di riferimento, che trova in

Walt. Thao è un ragazzo timido, non va a scuola ma non ha un lavoro; viene

costretto ad entrare a far parte di una banda di teppisti Hmong, guidata da un

adolescente di nome Smokie e dal cugino di Thao, conosciuto con il nome di

Spider. Ma il fastidio di Thao (e anche della sorella Sue) verso le tradizionali

immagini maschili (e femminili) della loro cultura d’origine è tangibile, così come

è evidente il rifiuto dei modelli consueti di adattamento, all’insegna

dell’opportunismo femminile e della violenza maschile. Grazie a Walt, alla fine

Thao viene liberato dai fardelli del sangue e può andarsene con l’eredità di Walt:

la scintillante Gran Torino, Daisy e la vita di un americano libero.

Sue Lor (Ahney Her) è la sorella maggiore di Thao, la prima a “conquistare”

Walt e a farsi breccia nella sua facciata spinosa e permalosa. È molto più

americanizzata del resto della famiglia, è quella che si muove con più

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consapevolezza tra le due culture, perché «le ragazze si adattano meglio». Sue è

un personaggio molto coraggioso; è sempre gentile con Walt, anche se lui la

prende in giro con soprannomi dispregiativi, ma alla fine è l’unica che riesce a

stabilire un contatto tra Walt e Thao. Sue vuole che suo fratello diventi amico di

Walt perché se questo non accade e il ragazzo entra nella banda, si rovinerà la

vita. Lei capisce che Walt può diventare come un padre per lui e se Thao ascolterà

i consigli di Walt, probabilmente potrà vivere una vita migliore e potrà crescere

meglio.

Padre Janovich (Christopher Carley) è il sacerdote che incontriamo all’inizio del

film mentre celebra il funerale della moglie di Walt e che insiste nel cercare di far

avverare l’ultimo desiderio della donna, quello di far confessare Walt. Padre

Janovich rappresenta una figura di autorità puramente astratta, da simbolo vuoto:

dovrebbe essere una guida, ma rimane al livello di quello che ha imparato sui

manuali in seminario. Walt lo considera un «ventisettenne vergine appena uscito

dal seminario» e il rapporto che si instaura tra i due è a senso unico: Walt gli fa

capire senza mezzi termini che il modo solito di trattare con le persone con lui non

funzionerà; è prevenuto nei suoi confronti, principalmente perché sembra un

ragazzino e per Walt non può capire, nemmeno lontanamente, quello che ha

vissuto in prima persona (paradossalmente, Walt scopre di condividere molto di

più con lo sciamano Hmong che gli rivela le verità nascoste con cui lui ha

convissuto per tutti questi anni). La figura di padre Janovich è il rovescio delle

gang Hmong: figure maschili, emblema della violenza. Eastwood gioca qui con

la luce e il buio: la tranquillità anemica della legge disincarnata di padre Janovich,

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così come l’anaffettività dei figli sono sempre illuminati a giorno, mentre il reale

della violenza comparirà in poche scene notturne: Thao che tenta di rubare la Gran

Torino; Walt che scaccia la gang dal prato di casa; fino allo stupro di Sue e

l’epilogo finale.

Martin (John Carroll Lynch) è il barbiere di Walt, di origini italiane. È l’unica

figura che si potrebbe definire suo amico, con cui scambia di buon cuore epiteti

razziali e che aiuta Walt ad allenare Thao nell’arte di “diventare uomo”. Si tratta

di un personaggio minore, così come quello di Mitch Kowalski (Brian Haley),

uno dei due figli di Walt. Eastwood riserva giusto un paio di scene per descrivere

il rapporto complesso che vi è tra i due: Mitch è l’opposto di suo padre. Walt è

stato operaio e ha lavorato sodo; suo figlio è una persona superficiale, che cerca di

spedire il padre in una pensione. Walt non riesce a parlare con suo figlio e Mitch

non riesce ad aprirsi un varco con suo padre.

1.5.4 Ricezione critica

Di seguito sono riportati alcuni esempi di ricezione critica italiana e internazionale

del film.

«[…] Clint volto di pietra ci spiega una cosa bella e semplice: che

l’accettazione della società multirazziale non è frutto di ideologie, ma di una

faticosa pratica quotidiana». (Il Corriere della Sera)

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«Ma il film, duro e forte, è un canto amaro sul dolore di vivere e di morire».

(Corriere della Sera Magazine)

«Gran Torino è una storia umanissima di amicizia commovente e pudicissima

nella sua emozionalità. […] È il grande capolavoro morale e cinematografico di

Clint Eastwood. Un film struggente e necessario». (www.comingsoon.it)

«Gran Torino, riflessione sui pregiudizi e la redenzione, sulla religione e le

minoranze etniche, è raccontato con una classicità perfetta, con una calma e una

libertà inaudite e con l’autoironia e autoderisione con cui Eastwood si prende in

giro per divertirci, fa il vecchio cane ringhioso, fa il misantropo intollerante, fa il

poliziotto armato». (La Stampa)

«[…] a portrait of disintegrating family values and the urgent need for cultural

flexibility; […] an impressive blueprint of basic values that most of our society

and by extension cinema, have forfeited». (www.timesofindia.indiatimes.com)

«Gran Torino is about two things, I believe. It’s about the belated flowering of a

man’s better nature. And it’s about Americans of different races growing more

open to one another in the new century». (www.rogerebert.suntimes.com)

La critica, italiana e non, parla a una sola voce in merito a questo film,

tessendone le lodi sia per il tipo di cinema che Eastwood offre e per la grande

maestria con cui interpreta il suo personaggio, sia per i temi che affronta e il modo

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in cui riesce a dare uno spaccato di difficile e possibile integrazione in

un’America sempre più multietnica. La grandezza del cinema di Eastwood risiede

proprio nella sua semplicità e immediatezza, nella sua capacità di sentire e di far

sentire quello che più è umano. In Eastwood non c’è piagnisteo - c’è la

constatazione malinconica che il mondo è così. La sua regia è asciutta, pulita e

lineare: l’urgenza comunicativa sfocia in schematismo, il suo è un modo diretto di

“fare film” senza fronzoli.

Il personaggio di Walt Kowalski non è stato scritto pensando a un attore specifico,

ma gli addetti ai lavori riescono difficilmente a immaginare qualcun altro, al di

fuori di Clint Eastwood, che potesse interpretare questo ruolo: sguardi al vetriolo

e battute ciniche quanto divertenti, una maschera di pietra antica e un eloquio di

carta vetrata ai limiti dell’auto caricatura. Un’abilità, questa, più che ammirevole

agli occhi di recensori e critici. Per non parlare della destrezza con cui Eastwood è

riuscito a trasmettere elementi di morale, tradizione e giustizia all’interno di una

storia complessa, socialmente contemporanea, profondamente umana, carica di

stimoli visivi, emotivi e di riflessione. Temi sociali (razzismo, integrazione) e

umani (la famiglia, il rapporto padre-figlio), dilemmi morali (la vendetta) ed

etico-religiosi (colpa, peccato, sacrificio e redenzione), riflessione amara e

disillusa sulla vecchiaia, la malattia e la morte: il tutto condensato in una pellicola

di centosedici minuti.

La critica, tuttavia, non promuove Gran Torino a tutti gli effetti, per due motivi:

prima di tutto per le scene di estrema violenza e il linguaggio molto colorito,

scurrile, infarcito di vituperi e insulti razzisti (negli Usa il film rientra nella

categoria R-Restricted, cioè per chi ha meno di diciassette anni è obbligatoria la

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presenza di un genitore o di un adulto); in secondo luogo, per il modo in cui il

film dipinge la condizione in cui versano gli Hmong, poco fedele alla realtà, che

invece sembra essere molto più complessa e difficile. Molti critici sostengono che

il problema di integrazione degli Hmong non possa essere risolto in stile

hollywoodiano con un uomo bianco con una pistola, anche se si tratta di Clint

Eastwood (e fanno indirettamente appello all’amministrazione Obama perché si

adoperi in questo senso).

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2.1 Cenni di teoria della traduzione applicata al doppiaggio

Nelle pagine che seguono propongo un’analisi comparata tra la versione

originale di Gran Torino in inglese (prototesto) e quella doppiata in italiano

(metatesto) al fine di ricostruirne la strategia traduttiva. In altre parole, vedendo

per la prima volta il film in italiano, ho cercato di rispondere a queste domande:

com’era l’originale? Come sarà stato detto in inglese?

Questo lavoro di analisi, tuttavia, non prende in considerazione il film per intero

bensì è frutto di una cernita ben definita, incentrata sugli appellativi razzisti, le

storpiature dei nomi, i nomignoli dispregiativi e le battute politically incorrect

pronunciate prevalentemente dal protagonista, Walt Kowalski, interpretato da

Clint Eastwood, ma che ritroviamo anche nelle battute di altri personaggi.

Ciò che ho cercato di mettere a punto è una (modesta) critica della traduzione

sulla base di una ricostruzione abduttiva, nonché retroduzione: un percorso a

ritroso, dunque, con cui, attraverso continue congetture, ho provato a individuare

la strategia traduttiva che, dal prototesto, ha dato come risultato il metatesto,

ovvero la versione italiana del film. Senza dimenticare che, nel caso specifico, non

siamo di fronte a una mera traduzione testuale interlinguistica (sebbene io abbia

lavorato con i copioni nelle due lingue alla mano), bensì a una traduzione

multimediale/audiovisiva. É doveroso ricordare che, in questo caso, la strategia

traduttiva è stata vincolata da una serie di componenti che vanno oltre i valori

semantici e pragmatici delle battute, come l’intonazione, la lunghezza delle

parole, la prosodia e il sincronismo labiale: vincoli, questi, posti proprio dalla

natura multimediale dell’oggetto della trasposizione.

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Ad ogni modo, si tratta di una critica della traduzione in cui il raffronto non

avviene soltanto tra metatesto e cultura ricevente bensì tenendo conto

dell’originale: diversamente, la critica risulterebbe unidimensionale, poiché il

punto di vista sarebbe sbilanciato a favore di uno dei due poli della coppia

traduttiva.

Tra le diverse congetture che hanno scandito il mio lavoro di analisi ho provato a

inferire se nella strategia traduttiva abbia prevalso una traduzione culturale o

linguistica (Delabastita): nel primo caso, verrebbe perseguita una strategia di

«analogia culturale», ovvero di un enunciato del prototesto si cercherebbe un

enunciato che, nella cultura ricevente, abbia un significato culturale analogo: nel

codice culturale ricevente è un’approssimazione ottimale del valore relazionale

dell’enunciato originale all’interno del codice culturale del prototesto (Delabastita

1993: 17 in Osimo 2004: 45). Nel secondo caso, la strategia perseguita sarebbe

quella dell’«omologia culturale», che lascia al lettore il compito di colmare la

distanza culturale tra sé e il testo. La conseguenza di questa strategia traduttiva è

di inserire nel metatesto esotismi, non vissuti come tali dal lettore del prototesto

contemporaneo all’autore, e di lasciare che il lettore entri a contatto con una

cultura diversa dalla propria. A questo concetto si lega inevitabilmente quello di

accettabilità/adeguatezza (Toury). Può essere il lettore ad avvicinarsi al prototesto

come a un elemento della cultura altrui e a sobbarcarsi la fatica di tale

avvicinamento, apprendendo, nel processo, nuovi elementi di cultura altra, oppure

può avvenire l’esatto contrario: è il prototesto a essere avvicinato al lettore,

trasformando gli elementi di cultura altra che contiene e traducendoli in cultura

propria (del lettore). Una traduzione è detta «adeguata» quando prevede che il

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prototesto sia conservato come espressione di una cultura diversa: il traduttore

conserva il più possibile le caratteristiche di “cultura altra” del prototesto,

costringendo il lettore a uno sforzo per recepire il testo come altro; la lettura

risulta quindi più impegnativa ma arricchisce di più il fruitore. Il concetto di

«adeguatezza» è visto pertanto in funzione del prototesto, mentre quando un testo

è «accettabile», il punto di vista è quello del lettore del metatesto. Nella

traduzione accettabile, infatti, il metatesto conserva pochissime caratteristiche del

prototesto: avviene un processo di addomesticamento culturale con cui il

traduttore avvicina il prototesto alla metacultura. Ne risulta una lettura del

metatesto più facile, ma che arricchisce di meno: il lettore si trova di fronte a un

testo “comodo” (scorrevole), ma privo di stimolo per la reciproca fecondazione tra

culture. Nel caso specifico di Gran Torino, alla luce di queste nozioni ho cercato

di comprendere se abbia prevalso un processo traduttivo target-oriented (orientato

al pubblico d’arrivo) o source-oriented (orientato al testo di partenza): nel primo

caso viene perseguita una strategia che privilegia scorrevolezza, accettabilità e

adattamento alle norme della cultura d’arrivo, anche se a scapito della “fedeltà” al

testo di partenza. In questo caso il traduttore si rende “invisibile”, mettendo in atto

un processo di “addomesticamento” (domestication) del testo, che viene

completamente adattato alle convenzioni della cultura d’arrivo perdendo così la

sua forza innovativa. Una strategia source-oriented implica invece una scelta di

“straniamento” (foreignization) del testo tradotto, che mantiene le caratteristiche

della cultura originaria e così arricchisce la cultura d’arrivo, in quanto portatore di

innovazioni stilistiche e deviazioni dalla norma creative e originali.

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La strategia traduttiva sarà stata vincolata, con tutta probabilità, anche da altri

fattori, quali lettore modello e dominante: per lettore modello si intende il

prototipo di lettore, o lettore immaginario, cui la strategia narrativa si rivolge; esso

può coincidere più o meno con il cosiddetto lettore empirico, cioè il lettore che

effettivamente legge il testo (bisogna tuttavia ricordare che, nel caso specifico, il

concetto di «lettore modello» deve essere inserito in un’ottica multimediale, in

quanto il testo è dato da un film, quindi si parlerà di spettatore modello e

spettatore empirico).

Quanto invece alla dominante, essa non è altro che la componente intorno a cui si

focalizza il testo, l’elemento del prototesto considerato fondamentale per una

determinata traduzione. In realtà all’interno della maggior parte dei testi si

possono trovare varie dominanti, che possono essere collocate in ordine

gerarchico a seconda della loro importanza strutturale: una dominante e varie

sottodominanti.

Il film è un sistema semiotico complesso, costituito da un codice visivo,

uno sonoro e uno verbale: l’elemento verbale è quindi un elemento strutturale e la

sua comprensione è essenziale alla comunicazione. Ma la comunicazione non si

esaurisce con la comprensione dei singoli fonemi. Proprio perché il linguaggio

filmico è un linguaggio complesso, in cui il significato nasce dall’unione della

parola con il gesto, e ogni parola assume significato dal contesto generale e dal

corpus culturale espresso dall’intero film, a dover essere ogni volta ricostruita non

è tanto la comprensibilità del testo, quanto il rapporto dialettico tra parole e

immagini. Il linguaggio cinematografico si basa quindi sull’interrelazione fra

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diversi codici: intervenire, come si fa con il doppiaggio, su una delle componenti

di questo prodotto multimediale complesso innesca una catena di “effetti

collaterali” di cui si deve tener conto. Il doppiaggio implica una “traduzione

totale”, in quanto deve affrontare non solo i valori semantici e pragmatici delle

battute, ma anche quelli fonologici. Il doppiaggio è un processo che si articola in

numerose fasi, intorno a cui ruotano diverse figure professionali, prima fra tutte

quella dell’adattatore-dialoghista: è l’autore che traspone, elabora nella lingua

d’arrivo e adatta anche in sincronismo visivo, ritmico e labiale i dialoghi. Il

dialoghista deve tener conto della lunghezza della battuta, dell’espressione

dell’attore sullo schermo, dei movimenti di tutto il suo corpo: delle labbra, prima

di tutto, ma non solo di quelle. Il problema del cosiddetto “sincrono” (in gergo

tecnico “sinc”) si compone di quattro fattori che vanno rispettati, in funzione

dell’inquadratura e della presenza in campo dell’attore: il sincrono labiale, il

sincrono gestuale, il sincrono lineare e il sincrono ritmico.

Per sincrono labiale si intende il rispetto dei movimenti delle labbra determinati

dalla pronuncia delle parole originali; si deve quindi porre un’attenzione

particolare alle parole che contengono consonanti che provocano la totale chiusura

delle labbra (b,m,p), a quelle che provocano una semichiusura (f,v), a tutte quelle

che non provocano la chiusura delle labbra, alle vocali che provocano in apertura

o chiusura o all’interno della frase un’apertura della bocca (a,e,i) o un

arrotondamento delle labbra (o,u), a tutte quelle parole che contengono

un’accentatura particolare che costringe le labbra a un’apertura repentina.

Per sincrono gestuale si intende il rispetto dei movimenti del corpo, in funzione

dei quali decidere cosa far dire all’attore. Ogni espressione genera dei movimenti

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– delle mani, della testa, degli occhi – e costringe a una determinata costruzione

della frase per far coincidere questi movimenti, immutabili, col nuovo testo.

Il sincrono lineare è il rispetto della lunghezza, della durata della frase originale,

dal primo all’ultimo movimento delle labbra dell’autore.

Il sincrono ritmico, o isocronico, è il più importante, l’unico che va rispettato

anche quando l’attore si trova fuori campo. È il cosiddetto ritmo interno della

frase, composto da più elementi: la struttura morfosintattica della lingua originale,

la velocità di recitazione, il timbro impresso alla frase dell’attore, che è

condizionato dalla situazione e dal luogo dove si svolge la scena, il senso.

Tutta la ricerca del dialoghista deve quindi convergere sulla parola, sulla frase che

verosimilmente “stia” nel movimento dell’attore, in particolare delle sue labbra.

Sarà necessario, quindi, aggiungere e sottrarre, facendo attenzione a recuperare

altrove quello che si è costretti a sacrificare da una parte, tenendo sempre presente

che l’equilibrio generale deve alla fine essere rispettato.

Nel doppiaggio, l’adattamento dei dialoghi è tuttavia solo la prima fase

dell’attività coordinata di più professionisti che porterà al risultato finale (oltre

all’adattatore operano anche il direttore di doppiaggio, l’assistente al doppiaggio,

gli attori doppiatori, il fonico di sala, il sincronizzatore e il fonico di missaggio).

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2.2 Analisi narratologica del film

2.2.1 Il punto di vista

Il film viene raccontato in buona parte dal punto di vista del protagonista,

Walt Kowalski, e questo lo si comprende facilmente dalla presenza massiccia di

riprese soggettive, che consentono allo spettatore di calarsi nei panni di un

personaggio e di vedere le cose con i suoi occhi. È come se anche gli spettatori

prendessero parte alla metamorfosi che il protagonista vive nel corso della storia,

passando da un iniziale isolamento nella sua dimensione atemporale, collerica e

illusoria, a una graduale e arrendevole apertura verso l’altro e alla disponibilità al

contatto. È con questo tipo di inquadratura che lo spettatore percepisce

l’insofferenza che abita in Walt, che non fa esclusivo riferimento alle differenze

culturali, ma riguarda tutto un sistema di valori diventato, nella sua ottica,

irrimediabilmente corrotto e volgare (pensiamo, ad esempio, alla soggettiva

sull’ombelico di fuori mostrato dalla nipote in chiesa). Nel corso del film la

resistenza esercitata da Kowalski si fa sempre più blanda e anche le soggettive

riflettono la sua “conversione”: è come se si fosse creato un cerchio, dapprima

invalicabile, che va aprendosi man mano fino a spezzarsi definitivamente. Sul

finale, nelle poche scene che intercorrono tra la morte del protagonista e i titoli di

coda, il punto di vista è neutrale e le inquadrature sempre più spesso oggettive.

2.2.2 La dimensione temporale

Per quel che concerne la successione degli eventi, essi sono strutturati in

una concatenazione temporale semplice e lineare. La cronologia interna non è

segnalata in termini assoluti ben precisi, bensì in termini più relativi: sappiamo

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soltanto che la storia è ambientata nella Detroit del ventunesimo secolo, ma non

conosciamo con esattezza le coordinate temporali entro cui si inserisce la vicenda.

Il film presenta una ciclicità piuttosto evidente tra l’altro, in quanto si apre con la

celebrazione di un funerale, quello della moglie di Walt, e si chiude esattamente

nella stessa maniera, con il funerale di Walt: è all’interno di questi due estremi

temporali che si innesta la storia e assistiamo all’evoluzione del rapporto del

protagonista con Thao e la sua famiglia e anche con padre Janovich (il punto di

svolta del loro rapporto si ha con la battuta mi chiami Walt pronunciata dal

protagonista, che sino ad allora pretendeva di essere chiamato Mister Kowalski).

Ci sono alcuni momenti in cui la tensione sale vertiginosamente, momenti in cui,

vedendo Walt imbracciare il fucile, si pensa al peggio. La scena di suspense più

forte è legata all’epilogo finale: lo spettatore è portato a pensare che Walt voglia

vendicare lo stupro di Sue, uccidendo i colpevoli. Ma la pistola, in realtà, resterà

solamente nella sua astrazione simbolica: il colpo di pistola Walt può solo

mimarlo.

2.2.3 La dimensione spaziale

Come già affermato, il film è ambientato a Detroit, nel Michigan. La

dimensione spaziale risulta essere molto sobria, essenziale: due case, una chiesa e

un negozio di barbiere situati in diversi quartieri di Detroit. Il quartiere in cui abita

Walt è all’insegna dell’abbandono e del degrado; solo la sua abitazione spicca tra

le altre, dando l’impressione di essere stata curata per anni; il prato è sempre ben

tagliato, non c’è una cosa fuori posto: questo mette ancora più in evidenza il

distacco di Walt da ciò che lo circonda. È come se la sua proprietà rappresentasse

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un mondo a sé stante. Oltre a ciò, la scelta di Detroit come location del film non è

di certo casuale: per un uomo che ha lavorato cinquant’anni alla Ford non poteva

esserci ambientazione migliore e più adeguata della capitale dell’automobile

americana; è evidente il collegamento tra la città e l’emblema di questo film, la

Gran Torino: Detroit è gemellata con Torino, città considerata dagli americani la

“Detroit d’Italia” e il modello Gran Torino della Ford era stato un omaggio al

capoluogo piemontese.

2.2.4 Livello sintattico e linguistico

Lo stile semplice e asciutto che contraddistingue il cinema di Eastwood si

riflette senza ombra di dubbio anche nel livello sintattico degli scambi dialogici.

Frasi brevi e concise, battute laconiche ma dense di significato. Anche quando

queste si fanno più lunghe, non sono mai particolarmente complesse. In linea di

massima i periodi sono prevalentemente paratattici, proprio perché la lingua

parlata, di per sé, evita tendenzialmente di ricorrere a costrutti ipotattici: se così

fosse, lo scambio verbale risulterebbe alquanto artificioso e per niente naturale.

Del resto, è proprio la natura intrinseca della lingua parlata a richiedere l’uso di

una sintassi diversa: parlando, infatti, c’è una scarsa pianificazione di quanto si

dice, cosa che non accade invece nella lingua scritta. Inoltre, il livello sintattico

delle battute, così come quello linguistico, è inevitabilmente vincolato anche dalla

natura dei personaggi stessi, dal loro socioletto e idioletto. Per socioletto s’intende

il modo di parlare tipico di un determinato strato sociale: è il caso delle gang

Hmong, del gruppo di ragazzi latino-americani e di neri che troviamo in alcune

scene del film. Sono immigrati, di bassa estrazione sociale, con uno scarso livello

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di istruzione: il modo in cui parlano è elementare e molto volgare, usano un

linguaggio gergale dal registro decisamente basso, ricco di genericismi,

imprecazioni scatologiche ed espressioni pornolaliche. Quanto all’idioletto, esso

indica le peculiarità stilistiche ed espressive di un parlante: l’esempio più calzante

è proprio quello di Walt. Il modo in cui si esprime è il suo biglietto da visita e, in

quanto tale, non può subire delle modifiche arbitrarie in sede di doppiaggio. In

generale, il registro si mantiene su un livello basso per quasi tutto il film,

caratterizzato prevalentemente da colloquialismi e disfemismi. In un contesto,

però, dove tutti i personaggi parlano in modo sfrontato e senza troppe remore,

emerge la figura più contenuta e discreta di padre Janovich: anche se le sue parole

non vogliono essere auliche, è netto il divario linguistico tra questo personaggio,

che è istruito ed è stato in seminario e i gruppi di immigrati di cui si è parlato in

precedenza.

Da ultimo, troviamo non pochi segnali discorsivi nel corso di tutto il film, che

sono, per l’appunto, tipici dell’oralità, per non parlare della gestualità, altrettanto

importante.

2.2.5 Livello semantico

A parer mio, riecheggiano nel film due campi semantici principali: l’uno

legato alla sfera religiosa, l’altro alle popolazioni asiatiche e ai loro tratti

distintivi.

Il campo semantico relativo alla sfera religiosa lo si riconosce negli scambi

verbali che avvengono tra Walt e padre Janovich: più di una volta si parla di vita e

di morte, salvezza e confessione, colpe e peccati, e vengono spesso usate delle

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espressioni, più o meno felici, che rimandano alle Sacre Scritture e alla religione

come flock, sheep, spoken your piece oltre al fatto che molte imprecazioni sono

religiose, come Jesus, Jesus Christ, Christ all Friday, Lord Jesus e for Christ’s

sake.

Il secondo campo semantico è forse quello più evidente, relativo alle peculiarità,

fisiche e non, delle popolazioni orientali: il colore della pelle, i tratti somatici, il

riso (pensiamo ai diversi epiteti gook, zipper head, egg roll, zip, slope ecc.).

2.2.6 Spettatore modello e spettatore empirico

Lo spettatore modello può essere dato da tutti coloro che sono appassionati

di questo genere di pellicole, o sono fan del cinema di Eastwood, o semplicemente

vanno al cinema per evasione e divertimento; si è pensato sicuramente a uno

spettatore medio, di età adulta, che non necessariamente deve avere delle

conoscenze pregresse sui temi che contraddistinguono il film, come ad esempio la

condizione del popolo Hmong. Bisogna pur sempre ricordare che le parole qui

sono accompagnate dalle immagini, che contribuiscono in modo non indifferente

alla comprensione e alla fruizione del film. Quanto allo spettatore empirico, posso

ipotizzare che questo abbia coinciso in buona parte con lo spettatore modello.

Forse, in realtà, il film è stato visto anche da una fascia di pubblico cui non era

direttamente rivolto per via del linguaggio altamente volgare e delle scene di

violenza, come giovanissimi e adolescenti (mi sentirei, tuttavia, di escludere i

bambini). Mentre negli Usa i ragazzi al di sotto dei diciassette anni dovevano

essere accompagnati da un genitore o da un adulto, in Italia il film non ha subìto

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39

 

alcun tipo di censura: probabilmente ciò giustifica la scelta di edulcorare certe

espressioni.

2.2.7 Dominanti e sottodominanti

Per quanto concerne la dominante, prevale a mio avviso una funzione

estetica, che si traduce in scorrevolezza del film e “leggibilità”, trasferita

ovviamente in un contesto multimediale: in altre parole, lo spettatore deve potersi

“godere” il film senza intralci di comprensione. Del resto il cliente-spettatore si

ritrova con un metatesto di cui non conosce il prototesto, perciò non può e non sa

giudicare se si tratti di un prodotto più o meno buono. Il giudizio del pubblico si

basa quindi sulla qualità del film (immagini, audio, ecc.) e sulla scorrevolezza del

film stesso: di norma il lettore modello non sempre è disposto a cooperare con

l’autore e a sobbarcarsi la fatica di “digerire” elementi culturospecifici e colmare

la distanza culturale tra sé e il testo. A maggior ragione non lo è nemmeno lo

spettatore modello, che desidera soltanto staccare la spina per un paio d’ore e

godersi un buon film.

È probabile che la strategia traduttiva sia stata vincolata anche da una

sottodominante, che si ricollega alla questione della censura, accennata nel

paragrafo precedente. Anzitutto, senza alcun tipo di divieto nelle sale italiane il

film poteva essere visto praticamente da chiunque, indipendentemente dalla fascia

d’età. In secondo luogo, non dimentichiamo che la nostra cultura è, in un certo

senso, permeata dal “tabù della parolaccia” e ciò spinge a un atteggiamento di

mitigazione della scurrilità, anche se in un contesto di finzione, come quello

cinematografico.

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40

 

3.1 Il metodo d’analisi

Per l’analisi comparativa tra la versione originale di Gran Torino e quella

doppiata in italiano, che verrà proposta nelle seguenti pagine, si è fatto ricorso a

un preciso modello di analisi, ovvero il modello top-down. Si tratta di un modello

dall’alto verso il basso, che parte dall’analisi traduttologica del testo specifico e,

individuate le caratteristiche salienti degli elementi in senso sistemico, controlla le

alterazioni della poetica del testo introdotte dai cambiamenti traduttivi; tutto ciò in

funzione di una dominante specifica e di eventuali sottodominanti.

Questo modello si contrappone al modello bottom-up, che procede invece dal

basso verso l’alto, nel senso che non è prevista un’analisi preventiva della poetica

globale del testo da cui si ricavino le categorie da sottoporre ad analisi

comparativa.

Il modello top-down analizza i dettagli solo dopo averne individuato l’importanza

sistemica: le categorie di cambiamento, infatti, non sono assolute ed esportabili

come avviene per il modello bottom-up, bensì specifiche, relative al contesto

culturologico del testo in questione e derivanti direttamente dalla sua analisi

traduttologica. Questo perché i singoli testi, per quanto possano avere alcune

caratteristiche in comune con altri testi, devono parte della loro individualità a

caratteristiche idiomorfe ad hoc non standardizzabili a priori; quando si usa un

formato prestabilito per l’analisi del testo (come avverrebbe con il modello

bottom-up), queste caratteristiche si perdono (Gerzymisch-Arbogast 2001: 237 in

Osimo 2004: 91).

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3.2 Thao e gli sfottò dei Latino-Americani [0.13.22 – 0.13.40] LATINO 1: Yo... Hey! Is you… is you a boy or is you a girl, man? I can’t tell! LATINO 2: Hey, chiquito, hey, if you was in the bin I could fuck you in the ass and you’d be my bitch. LATINO 1: What are you reading, gook, Jackass and The Rice Stalk? Yeah, that’s right, keep walking... keep walking! LATINO 2: Hey, look at me when I’m talking to you, ho!

LATINO 1: Ehi, oh, cosa sei? Cosa sei, un maschietto o una femminuccia? Non si capisce… LATINO 2: Ehi, culo giallo, se eri nella mia cella ti rompevo il culo, diventavi la mia puttana. LATINO 1: Ehi, che stai leggendo, Pollifrocino o Giallaneve? LATINO 2: Ehi finocchietto giallo, guardami quando ti parlo.

 

Thao cammina per strada mentre legge. Si trova sul marciapiede quando si

avvicina a lui un gruppo di ragazzi latino-americani in macchina che lo

infastidiscono e aggrediscono verbalmente. Egli cerca di affrettare il passo ma

loro gli stanno alle costole. Resta tutto il tempo con gli occhi fissi sul libro,

continua a camminare e sogghigna: il suo è un atteggiamento tipico della cultura

Hmong, non indica una mancanza di rispetto, bensì rappresenta il loro modo di

esprimere imbarazzo e insicurezza.

Commento

L’elemento più interessante da prendere in esame in questo scambio di

battute è dato da Pollifrocino e Giallaneve: si tratta di un’evidente storpiatura in

senso dispregiativo di Pollicino e Biancaneve, che a loro volta altro non sono che

un rimando intertestuale a due fiabe, per altro ben conosciute in Italia. Per

rimando intertestuale s’intende la presenza nel testo in questione di una citazione

di un altro testo. Il rimando è esplicito, ciò significa che lo spettatore coglie

immediatamente il riferimento alle due fiabe, nonostante la storpiatura dei nomi.

Siamo di fronte però a un esempio di implicito culturale: in altre parole, il

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riferimento alle due fiabe è considerato implicito nella cultura italiana, viene cioè

dato per scontato. Osservando il prototesto in inglese, ci accorgiamo che avviene

esattamente lo stesso meccanismo, sia di storpiatura del nome sia di rimando

intertestuale. Jackass and The Rice Stalk è una versione deformata della fiaba

inglese Jack and The Beanstalk. Si tratta di un rimando intertestuale esplicito per

il pubblico anglofono e al tempo stesso di un implicito culturale, in quanto è

scontato che lo spettatore anglofono intuirà l’allusione alla fiaba, ma uno

spettatore straniero che vede il film in lingua originale non è detto che lo farà:

anzi, con tutta probabilità, non coglierebbe il rimando. Dato che ciò che è

implicito e scontato per lo spettatore anglofono non lo è per quello italiano, si è

preferita una traduzione target-oriented, accettabile, optando così per un analogo

culturale. In realtà, esisterebbe una traduzione italiana per Jack and The

Beanstalk, ovvero Jack e il fagiolo magico: l’adattatore-dialoghista avrebbe

potuto storpiare quella e restare così fedele alla versione originale. Tuttavia, non

avrebbe ottenuto lo stesso effetto umoristico che la versione originale ha avuto sul

pubblico anglofono, in quanto poco conosciuta dagli italiani. Si è preferito quindi

cercare delle fiabe ben radicate nella cultura d’arrivo, onde evitare di

“disorientare” lo spettatore.

È interessante osservare il modo in cui avviene tale storpiatura e come è stata resa

in italiano. Jack and The Beanstalk viene trasformato in Jackass and The Rice

Stalk, dove jackass sta per ignorante e stupido mentre rice (che sostituisce bean,

fagiolo) allude chiaramente a uno dei luoghi comuni più diffusi contro le

popolazioni asiatiche, in particolare i cinesi, secondo il quale i cinesi si nutrono

solo ed esclusivamente di riso (da notare che questa parola viene messa in bocca a

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uno dei latino-americani, che potrebbe essere tra l’altro un messicano – e anche

per i messicani non mancano i luoghi comuni legati all’abitudine di mangiare

molti fagioli. Potrebbe essere una mera casualità, ma alla fine del film il

protagonista parlerà dei messicani definendoli beaners, alla lettera mangiafagioli).

Ecco invece come avviene la “trasformazione” in italiano: Pollicino e Biancaneve

diventano Pollifrocino e Giallaneve, dove nel primo caso l’offesa nei confronti di

Thao riguarda il fatto che venga considerato una femminuccia, mentre nel

secondo l’insulto è più razzista, legato al colore della pelle. Bisogna sottolineare

che nella versione italiana anche i turpiloqui ruotano intorno a questi due motivi:

sentiamo dire infatti culo giallo e finocchietto giallo. Nella versione originale non

è così: in inglese troviamo gook, che letteralmente significa muso giallo e ho, che

significa puttana. All’inizio uno dei ragazzi latino-americani dice chiquito, cosa

che ci fa capire ulteriormente la loro provenienza e che parlano spagnolo; questa

parola non viene resa in italiano, ma la perdita viene in un certo qual modo

compensata altrove: ad esempio, gook viene reso con culo giallo, il cui grado di

volgarità è decisamente superiore a muso giallo.

Infine, è interessante osservare anche l’uso, o per meglio dire, il non-uso del

congiuntivo in questa scena: visti e considerati i personaggi che prendono parte a

questo scambio dialogico, la loro provenienza e la loro estrazione sociale, nonché

grado di istruzione (che possiamo facilmente intuire), sarebbe impensabile e

incoerente con la natura stessa dei personaggi e con il loro socioletto immaginare

la frase se eri nella mia cella ti rompevo il culo, diventavi la mia puttana con una

consecutio temporum impeccabile.

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3.3 Walt, Martin e l’arte del “parlare tra uomini” [0.30.58 – 0.31.37] BARBER: There, you finally look like a human being again. You shouldn’t wait so long between haircuts, you cheap son of a bitch. WALT: I’m surprised you’re still around. I was always hoping you’d die off and get somebody here who knew what the hell are they doing, instead you just keep hanging around like the doo-wop dago you are. BARBER: That’ll be ten bucks, Walt. WALT: Ten bucks? Jesus Christ, Martin, are you half-Jew or something? You keep raising the price all the time BARBER: It’s been ten bucks for the last five years you hard-nosed Pollack son of a bitch. WALT: Well, keep the change. BARBER: See you in three weeks, prick. WALT: Not if I see you first, dipshit.

BARBIERE: Ecco qua, sembri di nuovo un essere umano adesso, ma perché fai passare tanto tempo fra un taglio e l’altro, taccagno figlio di puttana. WALT: Mi meraviglio che tu abbia ancora la licenza. Io spero sempre che tu crepi e che finalmente qui prendano qualcuno che sa fare il suo mestiere..e invece ci sei sempre tu, con la grazia di quell’impastapizze che sei.. BARBIERE: Fa dieci verdoni Walt. WALT: Dieci verdoni? Cristo santo, Martin, non sarai mica diventato ebreo? Ogni volta il prezzo è più alto. BARBIERE: É dieci verdoni da cinque anni, brutto testone d’un polacco figlio di puttana. WALT: Il resto mancia ragazzo. BARBIERE: Ci vediamo tra venti giorni scimunito! WALT: Sempre che tu c’arrivi, sacco di merda!

Questa è la scena che introduce per la prima volta il personaggio di Martin,

il barbiere da cui Walt si reca di tanto in tanto e con cui scherza scambiandosi

battute piuttosto pesanti. È il loro modo di parlare da uomini: dietro i loro scambi

verbali non si cela un sentimento di razzismo e intolleranza, bensì puro umorismo,

schietto e pungente.

Commento

Nella scena presa in esame, è doveroso spendere qualche parola in merito

al modo in cui vengono gestiti i turpiloqui di cui questo scambio dialogico

abbonda. Ciò mi permette, inoltre, di formulare una riflessione più generale sulle

espressioni volgari che ricorrono frequentemente nel film. Prendiamo come primo

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esempio son of a bitch, che nel caso specifico, sentiamo pronunciare per ben due

volte da Martin e che viene giustamente reso in italiano con figlio di puttana. Un

ipotetico tentativo di “smussare” questa parolaccia sarebbe stato insensato e

discordante con l’idioletto di Martin. Tuttavia, se in questo caso la strategia

traduttiva tiene fede alle peculiarità dell’idioletto di un personaggio, senza quindi

contaminarlo con elementi che non sono propri di quell’idioletto, in altre scene

del film avviene l’esatto contrario. L’esempio più lampante è dato da una scena in

cui son of a bitch viene pronunciato da Walt. Sue e sua mamma vogliono che

Thao lavori per Walt per fare ammenda del tentativo di furto della Gran Torino.

Walt, reticente in un primo momento, le accontenta accettando la richiesta, ma

non si aspetta che Thao si presenterà a lavorare per lui. Si sbaglia, e quando lo

vede arrivare, esclama stupito son of a bitch!, che in italiano viene completamente

appiattito con un misero cavolo. Cavolo non rientra per niente nelle corde di Walt;

il suo idioletto abbonda di espressioni scurrili, ma ciò non è sforzato, bensì

connaturato alla sua persona: è misantropo, intollerante, ringhia in continuazione e

usa le parolacce come fossero suoi intercalari, perché questo risulta essere il modo

a lui più congeniale per esprimersi.

Analogamente avviene anche per l’espressione what the hell, molto ricorrente

negli scambi dialogici. La strategia traduttiva scelta per questa espressione

idiomatica non è stata omogenea: talvolta viene omessa del tutto – come nella

scena proposta – altre volte è resa con che cosa, che cavolo o che diavolo. La

traduzione che si avvicina maggiormente all’originale è che diavolo, anche se in

realtà what the hell corrisponderebbe al nostro che cacchio. Tutti gli altri

traducenti sono evidenti riduzioni espressive, del tutto ingiustificate, così come le

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omissioni: ciò non ha ripercussioni particolari sulla ricezione del testo

multimediale, anche se inevitabilmente qualcosa va perduto.

Al di là di questa lunga dissertazione, la scena oggetto di questa analisi offre altri

due elementi di particolare interesse: doo-wop dago, reso con il neologismo

impastapizze e prick, tradotto con il colloquialismo regionale, tipico dell’Italia

meridionale, scimunito. In entrambi i casi è stata scelta una strategia traduttiva

target-oriented. Il barbiere Martin è di origini italiane: nella versione originale,

egli parla un perfetto americano senza accenti particolari che lascino intendere la

sua provenienza. Nella versione italiana, Martin viene doppiato con un accento

meridionale, probabilmente per alludere al fatto che si tratta di un figlio di italiani

del sud che in passato sono emigrati in America in cerca di fortuna. L’intento di

Walt è quello di prendere di mira le origini di Martin e lo fa usando la parola

offensiva dago: nella nostra lingua non esiste una parola che sia semanticamente

equivalente. Per mantenere comunque la presa in giro, cercando di “salvare il

salvabile” e non perdere del tutto il senso della battuta, è probabile che i

dialoghisti abbiamo scelto il traducente impastapizze sulla base degli stereotipi

tipici sugli italiani. Domandiamo a uno straniero cosa associa alla parola Italia e la

risposta sarà quasi sempre: pasta, pizza e mafia. Ora, la scelta del traducente è

stata senz’altro vincolata anche dal personaggio stesso cui la parola faceva

riferimento: Martin è un barbiere e, nel suo lavoro, usa prevalentemente le mani.

Era necessaria, quindi, una parola ironica che facesse intendere le sue origini e

che, al tempo stesso, si addicesse alla sua professione: da qui, il neologismo

impastapizze (con pasta o mafia sarebbe stato più difficile trovare una soluzione).

Con l’aggiunta di doo-wop, Walt è come se rincarasse la dose. Doo-wop si

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riferisce a chi canticchia ripetendo dei suoni melodici senza pronunciare le parole

esatte del testo musicale, dando l’idea dell’improvvisazione, di chi canta

emettendo suoni e parole senza senso. In questo caso è probabile che Walt abbia

scelto questa parola per infierire nello scambio reciproco di insulti, lasciando

intendere che Martin parla a vanvera e che dalla sua bocca escono solo

sciocchezze. Oltre a ciò, troviamo un simpatico gioco di parole insito in doo-wop:

wop infatti è un’altra parola che in americano indica in senso spregiativo una

persona di origini italiane. Infine, è interessante osservare il modo in cui prick è

stato reso in italiano. Prick è una parola volgare; le accezioni date dai dizionari di

inglese suggeriscono traducenti quali cazzo, cazzone, coglione, minchione. Nel

caso specifico, prick è stato reso con scimunito, che ha una componente di

volgarità decisamente inferiore rispetto all’originale in inglese; quindi, ancora una

volta, assistiamo a un caso di undertranslation. Tuttavia, bisogna riconoscere che

dietro questa scelta traduttiva vi è un tentativo di coerenza linguistica con il

personaggio di Martin: essendo stato doppiato con un accento palesemente

meridionale, i dialoghisti hanno probabilmente voluto mettergli in bocca

un’espressione dialettale tipica di quella zona.

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3.4 Walt e Thao a tu per tu [0.52.18 – 0.53.50] WALT: Relax, zipper head, I’m not gonna shoot you. I’d look down too, if I was you. You know, I knew you were a dipshit the first time I ever saw you, but then I wouldn’t have thought you’re even worse with women than you are at stealing cars, Toad. THAO: It’s Thao. WALT: What? THAO: It’s not Toad, it’s Thao. My name is Thao. WALT: Yeah, well you’re blowing over that girl it was there. Not that I give two shits about a Toad like you. THAO: You don’t know what you’re talking about. WALT: You’re wrong, egg roll. I know exactly what I’m talking about. I may not be the most pleasant person to be around, but I got the best woman who was ever on this planet to marry me. I worked at it, but it was the best thing that ever happened to me, hands it down. But you? You know it, you let Click Clack and Ding Dong and Charlie Chan just walk out with Miss what’s-her-face. She likes you, you know, but I don’t know why. THAO: Who? WALT: Yum Yum, you know, that girl in the purple sweater, she has been looking at you all day, stupid. THAO: You mean Iowa? WALT: Yeah, Yum Yum, yeah, nice girl, nice girl, very charming girl, I talked to her. Yeah. But you? You let her just walk right out with the Three Stooges. And you know why? ‘Cause you’re a big fat pussy! Well, I gotta go. Good day, puss-cake.

WALT: Rilassati muso giallo, non ti voglio sparare. Anch’io guarderei per terra se fossi in te. Ho capito che eri imbranato la prima volta che t’ho visto, ma non credevo che fossi più imbranato con le donne che come ladro di macchine, Tardo. THAO: Thao WALT: Che cosa? THAO: Non è Tardo, è Thao, il mio nome è Thao. WALT: Si, però ti fai scappare ragazze come quella… oh, non che me ne freghi un cazzo di un tardo come te. THAO: Lei non sa di cosa parla. WALT: Ti sbagli riso lesso, io so benissimo di che cosa sto parlando. Magari non sarò il più simpatico del mondo, ma ho convinto la donna più in gamba del pianeta a sposarmi; c’ho lavorato, ma è stata la cosa più bella che ho conquistato. Ma tu invece, tu lasci che Click Clack, Ding Dong e Charlie Chan si portino via Miss Faccia d’Angelo… tu a lei piaci, sai, anche se non so perché. THAO: Chi? WALT: Iam-Iam, sai, no, la ragazza con la maglia viola, non ha fatto altro che guardare te, stupidone… THAO: Vuole dire Iowa? WALT: Si, Iam-Iam, si… carina, carina… molto graziosa, io c’ho parlato… si, ma, tu te la sei fatta portar via sotto il naso dai tre porcellini e sai perché? Perché sei un povero rammollito… beh, io devo andare… ti saluto, panna smontata.

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Walt viene invitato da Sue a casa sua, dove la sua famiglia, insieme ad altri

Hmong, sta facendo un barbecue. Inizia così ad avvicinarsi alla loro cultura,

assaggiando le loro pietanze, facendo la conoscenza dello stregone della famiglia

e giungendo alla conclusione di avere più cose in comune con loro che con i suoi

figli. Durante questa festa Walt conosce anche Iowa, che nutre una simpatia per

Thao (simpatia per altro ricambiata) e incontra Thao, con cui avviene lo scambio

dialogico.

Commento Questa scena offre innumerevoli spunti di riflessione, di vario genere. A

partire dalla battuta iniziale, è interessante osservare la strategia traduttiva che è

stata applicata ai nomignoli dispregiativi, come zipperhead. In altri scambi

dialogici, sentiamo Walt pronunciare anche zip o slopes. In tutti e tre i casi, si

tratta di appellativi razzisti appartenenti allo slang americano e offensivi nei

confronti di chi ha origini orientali, in particolare vietnamite. Nella lingua

d’arrivo, tuttavia, mancano parole equivalenti che bersaglino in senso

dispregiativo la provenienza asiatica di una persona (pensiamo che,

specularmente, avviene anche per l’epiteto terrone, con cui gli italiani del nord

offendono i connazionali del sud: si tratta di un elemento culturospecifico, che

non ha equivalenti in inglese). Cercando quindi di mantenere intatta la

componente ingiuriosa e spregiativa di zipperhead, zip e slopes, i dialoghisti

hanno giocato sugli stereotipi tipicamente asiatici usati più comunemente dagli

italiani: il colore giallo della pelle e il riso. Da qui, ecco una serie di epiteti e

neologismi che sentiamo ripetutamente nel corso del film: muso giallo,

mangiariso, coniglio giallo. Un caso a parte è quello di egg roll, che nella

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versione doppiata in italiano è tradotto con riso lesso: la strategia traduttiva che vi

è alla base è analoga a quella illustrata poc’anzi; vi è però una differenza

semantica considerevole tra zipperhead e egg roll: nel primo caso, come già

ampiamente detto, l’appellativo stesso prende di mira le origini orientali di un

persona; nel secondo, invece, troviamo una parola che rientra comunemente nel

lessico culinario asiatico e che viene usata in questo contesto come “pars pro toto”

in senso dispregiativo (questo meccanismo è lo stesso di quando gli italiani, ad

esempio, parlano dei tedeschi chiamandoli Kartoffeln). Egg roll è difatti un piatto

tipico della cucina asiatica, per altro molto diffusa e radicata in America, come

ulteriore testimonianza del melting pot americano. Diversamente avviene in Italia,

dove c’è una scarsa conoscenza della cultura culinaria asiatica, che non va oltre il

pollo al limone, riso alla cantonese e involtini primavera. Forse proprio per questa

ragione si è preferito rinunciare alla scelta di un piatto tipico orientale, giocando

ancora una volta su un elemento che rimanda immediatamente, almeno nella

nostra cultura, alle popolazioni asiatiche, ovvero il riso, senza però esulare dal

contesto culinario: da qui, riso lesso che, a mio avviso, resta comunque una

traduzione target-oriented (da notare che un’eventuale traduzione con involtino

primavera sarebbe stata sarcastica tanto quanto riso lesso, ma avrebbe perso la

componente spregiativa che è piuttosto radicata in egg roll: per associazione di

idee involtino primavera ha una valenza decisamente più positiva, tendente al

melenso, che si addice ad esempio a una coppia di innamorati – visto e

considerato che è contenuta anche la parola primavera, ovvero la stagione degli

innamorati). In questa scena, inoltre, viene mantenuto il contesto culinario anche

alla fine: nell’ultima battuta, infatti, sentiamo Walt pronunciare puss-cake, in

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italiano panna smontata. Puss-cake è un neologismo che Walt usa per indicare il

fatto che Thao sia debole, rammollito. In questo caso trovo che sia stato reso in

modo efficace nella cultura d’arrivo, senza che ci fosse un residuo comunicativo.

Si potevano proporre altre eventuali soluzioni, giocando con altre parole quali

pappa molle, budino o gelatina, ma panna smontata ha centrato in pieno

l’obbiettivo primario, ovvero quello di far divertire lo spettatore.

La scena presa in esame rappresenta l’ennesima riprova del fatto che, in tutto il

film, molte espressioni scurrili sono state sfumate, se non del tutto omesse in

alcune circostanze. In questo caso abbiamo l’esempio di dipshit (che vorrebbe dire

stronzo, testa di cazzo), reso con imbranato, appellativo familiare lungi

dall’essere volgare. Ancora una volta ci si allontana dall’idioletto del protagonista

con effetti di appiattimento linguistico e una coloritura espressiva ridotta al

minimo.

Veniamo ora a Toad e Tardo. In questo caso è evidente che la scelta traduttiva sia

stata fortemente vincolata dal nome Thao. In questo caso non mi sento di

distinguere tra traduzione source-oriented o target-oriented: la dominante qui è

un’altra. Alla base vi è il fatto che Walt, proprio per il disprezzo e la poca

considerazione che nutre inizialmente nei confronti di Thao, non è capace di

pronunciare correttamente il suo nome, o forse lo fa di proposito. Egli riproduce

semplicemente dei suoni, poco felici, che si avvicinano al nome Thao: in inglese

sentiamo quindi Toad, che letteralmente significa rospo, e in italiano Tardo. Si

comprende facilmente che in questo caso era necessario lavorare di fantasia,

anche a scapito della fedeltà letterale al testo di partenza.

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In questa scena, inoltre, sono inseriti anche dei rimandi intertestuali, che meritano

di essere presi in considerazione. Iniziamo da Click Clack, Ding Dong and

Charlie Chan, che in italiano restano invariati. Walt sta facendo riferimento a tre

ragazzi asiatici di cui non conosce i nomi: li inventa schernendo il modo di parlare

degli orientali, molto lontano da quello degli occidentali e difficile da riprodurre.

Tuttavia, se Click Clack e Ding Dong sono dei suoni senza senso inventati per

imitare le lingue asiatiche, dietro Charlie Chan si cela un rimando intertestuale,

molto difficile da saper cogliere: Charlie Chan è il protagonista di una serie di

romanzi dello scrittore Earl Derr Biggers che veste i panni di un investigatore di

origine cinese e che è stato anche interpretato al cinema in ben quarantasette

lungometraggi. Ovviamente lo spettatore italiano, con tutta probabilità, non saprà

cogliere il rimando: in questo caso, posso ipotizzare che i dialoghisti abbiano

voluto privilegiare la dominante della comicità e mantenere il gioco dei suoni

pronunciati a caso che “fanno il verso” alle lingue orientali. Sarebbe stato difficile

rendere il rimando intertestuale con un analogo culturale, senza considerare che

ciò avrebbe interrotto la catena dei suoni. La scelta quindi di lasciare questa

stringa invariata è stata in funzione della scorrevolezza del film stesso.

Il secondo esempio di rimando intertestuale è quello dei three Stooges, reso in

italiano con un analogo culturale ben noto, ovvero i tre porcellini. The three

Stooges erano un trio comico esibitosi in farse e parodie tra il 1930 e il 1970,

molto conosciuto in America, quindi presumibilmente ben presente nella

“memoria televisiva” di Walt. In Italia erano conosciuti come I tre marmittoni, cui

per altro si ispirò anche una serie di cartoni animati. Tuttavia, nella nostra cultura

questo trio oggi non richiama nulla nella nostra mente (ci ricordiamo ad esempio

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molto più facilmente dei famosi Stanlio e Ollio). Per questo motivo, si è preferita

una traduzione che fosse target-oriented, fornendo un analogo culturale che desse

l’idea di un trio divertente, che nel momento in cui veniva pronunciato facesse

sorridere lo spettatore.

3.5 Come diventare uomo: Walt e Martin docent [1.13.20 – 1.13.52] BARBER: Perfect, a Pollack and a chink. WALT: How are you doing, Martin, you crazy Italian prick? BARBER: Walt, you cheap bastard, I should have known you’d come in, I was having such a pleasant day. WALT: What did you do? You cue some poor blind guy out of his money, gave him the wrong change? BARBER: Who’s the Nip? WALT: Oh, he’s the pussy kid from next door and I’m just trying to man him up a little bit. You see kid? Now that’s how guys talk to one another. THAO: They do? BARBER: What, you got shit in your ears?

BARBIERE: Ah perfetto, un polacco e un cinesino. WALT: Come stai Martin, stronzo d’un italiano pazzo? BARBIERE: Brutto vecchio bastardo, ma che sei venuto a fare, stavo passando una bella giornata! WALT: Come mai, hai fregato qualche povero fesso di cliente dandogli il resto sbagliato? BARBIERE: Chi è sto mongolo? WALT: Lui è una femminuccia mio vicino di casa, sto cercando di farlo diventare un po’ più uomo. Vedi ragazzo, è così che parlano gli uomini tra di loro. THAO: Assi? BARBIERE: Che hai riso nelle orecchie?

A questo punto del film Walt comincia a mostrare il suo affetto paterno nei

confronti di Thao e lo guida nel suo percorso di “formazione”: gli trova un lavoro,

gli procura degli attrezzi di cui ha bisogno e cerca di renderlo un po’ più uomo.

Walt lo accompagna da Martin, il barbiere, per fargli vedere come parlano gli

uomini tra di loro.

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Commento

Questa scena offre diversi aspetti da prendere in esame, a cominciare dalla

prima battuta: confrontando prototesto e metatesto ci accorgiamo della riduzione

espressiva che è stata applicata al testo d’arrivo. Pollack e chink sono entrambi

due appellativi razzisti, la cui componente ingiuriosa, tuttavia, va quasi

completamente perduta nei traducenti polacco e cinesino. Solo la parola cinese

viene rinforzata dal diminutivo per rendere il senso dispregiativo, ma il residuo

comunicativo permane.

Analogamente avviene anche per Nip e il suo traducente mongolo. A questo punto

sono d’obbligo due osservazioni: anzitutto nel metatesto è stata mantenuta la

stessa coerenza linguistica presente nel testo di partenza in relazione a chink e

Nip. Quando il barbiere si rivolge a Thao, entrambe le volte lo fa – non a caso –

identificando il ragazzo con una razza che non è la sua, chiamandolo prima cinese

e poi giapponese. Questo elemento viene mantenuto nel metatesto, anche se Nip

viene reso con mongolo: nella nostra cultura, però, questa parola viene usata

maggiormente come sinonimo volgare di deficiente, idiota e non come

espressione offensiva che prende di mira la provenienza geografica, come per Nip

e Pollack. In questo caso, mongolo rimanda ai tratti somatici del viso del ragazzo

con il taglio obliquo degli occhi, tipico dei popoli orientali.

In secondo luogo, questi esempi permettono di capire quanto sia specificante la

cultura e la lingua americana in questo determinato ambito: la lingua italiana non

dispone di così tante espressioni offensive nei confronti delle diverse popolazioni

orientali. Ciò si spiega col fatto che l’America è stata storicamente legata ai paesi

asiatici (si pensi all’attacco contro il Giappone durante la seconda Guerra

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Mondiale, alla guerra in Vietnam e alla guerra in Corea) e questo ha influito anche

sulla lingua stessa, che si è evoluta in funzione delle vicissitudini storiche

americane.

Infine, la traduzione dell’ultima battuta è un esempio emblematico di

undertranslation, dove shit in your ears è stato reso con riso nelle orecchie. La

scelta di mitigare la parola shit con riso è certamente inopportuna, proprio alla

luce dello scambio verbale che è appena avvenuto tra Walt e Martin: trenta

secondi in cui i due personaggi si punzecchiano a vicenda senza peli sulla lingua,

rivolgendosi insulti gratuiti di ogni genere. Stanno mostrando a Thao come si

parla “tra uomini”: riso nelle orecchie non è nello stile di Martin, se consideriamo

che lo scambio dialogico prosegue poi per diversi secondi, in cui lo sentiamo

pronunciare porca troia, ho appena fatto riparare i freni e quei figli di puttana mi

hanno strizzato di brutto, mi hanno veramente inculato. L’edulcorazione di shit

risulta dunque fuori luogo e incoerente, sebbene la scelta di riso non sia del tutto

priva di fondamento, bensì in linea con il luogo comune contro gli asiatici che

ricorre in tutto il film. Con una differenza, però, tra la versione originale e quella

doppiata: riso e altri neologismi che contengono questa parola vengono usati nel

metatesto anche là dove nel prototesto compare un turpiloquio o un’espressione

più colorita. Ne risulta un appiattimento linguistico non indifferente: se

nell’originale troviamo ad esempio rice bag e shit in your ears (e si presuppone

che la scelta linguistica dello scenografo sia consapevole), perché nella versione

doppiata troviamo rispettivamente borsa del riso e riso nelle orecchie?

Proseguendo con il confronto tra testo di partenza e testo d’arrivo si nota che

questo non è l’unico caso di undertranslation, come già accennato nel commento

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del secondo episodio. Get the shit out of your mouth diventa un comune e

colloquiale Sputa il rospo. Bullshit! This is a bar, you have a drink: in questo caso

bullshit viene omesso del tutto nella versione italiana dove si sente semplicemente

questo è un bar, ordini roba da uomo. E ancora: in uno scambio dialogico tra

Walt e Thao, quest’ultimo lo sollecita a smettere di fumare dopo che l’ha visto

sputare sangue. Walt replica dicendo so is joining a gang, you dipshit, che nella

versione doppiata diventa si…anche far parte di una gang fa male, dove you

dipshit è andato completamente perduto. Ora, a livello di fruizione del film, questi

casi di omissione e riduzione espressiva non hanno un peso rilevante. Si tratta,

tuttavia, di una strategia traduttiva che va a sacrificare parte dell’idioletto del

protagonista, che, nel caso specifico, è colui che pronuncia le battute proposte

nelle righe soprastanti.

3.6 Il testamento [1.50.30 – 1.50.50] LAWYER: And I’d like to leave my 1972 Gran Torino to… my friend Thao Vang Lor, on the condition that you don’t chop top the roof like one of those beaners, don’t paint any idiotic flames on it like some white-trash hillbilly and don’t put a big gay spoiler on the rear-end like you see on all the other zipper heads’ cars. It just looks like hell. If you can refrain from doing any of that, it’s yours.

NOTAIO: … e vorrei lasciare la mia auto del ’72 Gran Torino a… alla persona che più la merita, Thao Vang Lor, a condizione che tu non scoperchi il tetto come uno stronzo messicano, che non ci dipingi quelle ridicole fiamme come un qualsiasi coatto bianco e che non ci metti sul retro uno di quegli spoiler da checca che si vedono su tutte le macchine degli altri musi gialli, fa veramente schifo. Se riesci a non fare tutte queste cose, è tua.

Questa è la penultima scena del film. Walt è morto, i suoi figli con le

rispettive famiglie assistono alla lettura del testamento da parte del notaio. C’è

anche Thao, malgrado non sia ben accetto. Dalle espressioni dei volti di Mitch e

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Steve, i figli di Walt, si percepisce immediatamente il loro malcontento perché il

padre non ha lasciato loro nulla in eredità, volutamente. Manca l’ultimo punto del

lascito, le speranze non sono ancora del tutto perdute: esso riguarda la Gran

Torino di Walt che, come scopriamo, viene lasciata a Thao, con grande delusione

della nipote Ashley, che sperava di riceverla.

Commento

Questa scena è ricca di spunti interessanti, che non sono solo inerenti alla

traduzione del prototesto in metatesto, ma che offrono anche una conferma

ulteriore in merito al fatto che la traduzione multimediale non può e non deve

essere considerata meramente come traduzione interlinguistica, in quanto

fortemente vincolata da una serie di codici non verbali di cui si è già parlato nel

capitolo precedente. Prendiamo come esempio la parola friend, che in questo caso

viene tradotta con persona che più la merita: sorge spontaneo domandarsi cosa

abbia impedito all’adattatore-dialoghista di tradurre questa parola tanto facile con

amico. La risposta è data dalle immagini: mentre il notaio legge il testamento,

l’inquadratura è fissa sulla nipote di Walt, Ashley, speranzosa di poter ereditare la

Gran Torino. Quando il notaio legge la parola friend fa una pausa prima di

proseguire e la macchina da presa è sempre sulla nipote, che pensa di essere

proprio quel “friend”. Potrebbe sembrare una banalità, ma questa parola in inglese

è neutra: traducendola in italiano, sarebbe stato necessario declinare la parola

amico al maschile, in quanto riferita a Thao. Così facendo, tuttavia, sarebbe

andata perduta tutta la suspense di questo momento e, leggendo amico,

l’espressione speranzosa della nipote sarebbe risultata incoerente. Per questa

ragione è stato necessario individuare un’altra parola che fosse neutra e che al

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contempo avesse la stessa valenza semantica di amico: da qui deriva

presumibilmente la scelta di persona che più la merita.

Da notare anche i traducenti proposti per beaners e white-trash hillbilly, che

rappresentano due esempi efficaci rispettivamente di compensazione e residuo

comunicativo. Beaners è un epiteto razzista che in americano allude

esplicitamente ai messicani, prendendo di mira la loro abitudine di mangiare molti

fagioli. Nella nostra cultura, nonché cultura d’arrivo, non esiste un epiteto razzista

equivalente riferito ai messicani. Letteralmente vorrebbe dire mangiafagioli, ma

difficilmente lo spettatore italiano collegherebbe questo traducente ai messicani.

Per questo è stato necessario far capire che si stesse parlando di messicani, ma al

tempo stesso non poteva andare assolutamente perduto l’elemento denigratorio: la

soluzione che è stata proposta è stronzo messicano, dove stronzo compensa la

componente ingiuriosa racchiusa in beaner, che non si poteva rendere in italiano.

Si tratta di un evidente caso di compensazione, meccanismo piuttosto frequente

nel doppiaggio. Traducendo solo con messicani ci saremmo trovati di fronte a un

grave caso di omissione nonché incoerenza nel linguaggio proprio del

protagonista, autore del testamento. Ci si potrebbe domandare, inoltre, il motivo

per cui in americano esista un insulto razzista nei confronti dei messicani e in

italiano no: si tratta di un fattore culturospecifico. I rapporti non sempre felici tra

Messico e Stati Uniti e il problema dell’immigrazione messicana hanno avuto

ripercussioni inevitabilmente anche sulla cultura americana, che ha sviluppato in

determinate frange un’intolleranza verso gli abitanti del paese limitrofo –

un’intolleranza riflessa anche nella lingua, che ha sviluppato un “vocabolario”

proprio di questa situazione. Ciò non è avvenuto in Italia, limitatamente alla

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questione messicana, ma il fenomeno linguistico si verifica ugualmente, legato

però ad altre vicissitudini e altre nazionalità.

Quanto a white-trash hillbilly, esso viene reso con coatto bianco. White-trash

hillbilly fa parte dello slang americano, è un insulto razzista rivolto a bianchi

poveri, di bassissima estrazione sociale, che vivono prevalentemente a sud degli

Stati Uniti. Questo implicito culturale è del tutto assente in coatto bianco: ci

troviamo di fronte a un esempio di residuo comunicativo. C’è un elemento del

prototesto che non arriva a destinazione nel metatesto e nella cultura d’arrivo: in

altre parole, con il traducente coatto bianco lo spettatore italiano capisce che si

tratta di un uomo bianco, di estrazione povera e sottoproletaria, ma nulla lascia

intendere il riferimento geografico. Questa perdita non viene compensata e rimane

tale, senza andare però a precludere la comprensione della battuta.

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Conclusioni

Dopo una breve presentazione del regista e uno studio analitico di Gran

Torino, seguiti da alcuni cenni della teoria della traduzione applicata al

doppiaggio, ho dedicato alcune pagine all’analisi narratologica del film oggetto di

questa tesi, al fine di sviscerarne gli aspetti contenutistici e stilistici e individuare

spettatore modello ed empirico oltre alle dominanti e sottodominanti: un

passaggio, questo, d’obbligo per poter formulare una critica della traduzione e

individuare la strategia traduttiva alla base della trasposizione dal prototesto al

metatesto. Successivamente ho fornito una serie di esempi concreti, trascrivendo

alcune scene per mettere in evidenza le scelte traduttive più interessanti e

individuare le soluzioni orientate ora all’accettabilità, ora all’adeguatezza.

Fermo restando che la mia analisi è stata particolarmente mirata, incentrata sugli

epiteti razzisti, i disfemismi, le storpiature dei nomi et similia, e dunque, per

ragioni pratiche, non ha preso in considerazione il film per intero, posso

concludere che complessivamente è stata perseguita una strategia traduttiva

target-oriented, quindi accettabile. Si tratta quindi di una strategia che ha

privilegiato il punto di vista dello spettatore italiano, al fine di garantire e non

intaccare la scorrevolezza e la fruizione del film. I rimandi intertestuali e gli

impliciti culturali che ho individuato sono stati tutti soggetti a un processo di

addomesticamento. Gli adattatori-dialoghisti, inoltre, hanno ripetutamente

edulcorato certe espressione scurrili ed epiteti volgari, una mossa, questa, talvolta

dettata dai vincoli di sincrono labiale. Ritengo, inoltre, che proprio per la natura

multimediale del testo preso in esame, il residuo comunicativo venga in buona

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parte compensato dalle immagini, che costituiscono uno strumento importante per

la fruizione del film.

Alla luce del fatto che la maggior parte dei cambiamenti traduttivi sono stati

“accettabili”, intendo ora riportare qui di seguito in modo schematico tali

cambiamenti suddivisi per tipi:

Versione originale Versione doppiata

Edulcorazione o appiattimento dei turpiloqui

- ho

- prick

- what the hell

- son of a bitch

- dipshit

- puss-cake

- Pollack

- Chink

- shit in your ears

- get the shit out of your mouth

- finocchietto giallo

- scimunito

- che cosa/che diavolo/che cavolo

- cavolo

- imbranato

- panna smontata

- polacco

- cinesino

- riso nelle orecchie

- sputa il rospo

Rimandi intertestuali/impliciti culturali

- Jackass and the Rice Stalk - doo-wop dago

- Click Clack and Ding Dong and Charlie Chan

- The Three Stooges

- beaners

- white-trash hillbilly

- Pollifrocino e Giallaneve - impastapizze

- Click Clack and Ding Dong and Charlie Chan

- I tre porcellini

- stronzo messicano

- coatto bianco

Espressioni di rimando razziale

- gook

- zipper head/zip/slope

- culo giallo

- muso giallo/mangiariso

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- egg roll

- Pollack

- Chink

- Nip

- white-trash hillbilly

- riso lesso

- polacco

- cinesino

- mongolo

- coatto bianco

Omissioni - chiquito

- what the hell

- bullshit

- you dipshit

Storpiatura dei nomi - Toad - Tardo

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Bibliografia

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Riferimenti bibliografici

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www.imdb.com

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