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TESI FINALE

Date post: 20-Feb-2017
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INDICE Introduzione p.1 Cap. I La risorsa petrolio 1.1 I riferimenti storici ed economici p.3 1.2 Produzione e consumo di petrolio p.5 1.3 Il petrolio italiano p.8 Cap. II Il sistema economico della Regione Basilicata 2.1 Uno sguardo d’insieme p.11 2.2 Demografia, lavoro e infrastrutture p.12 2.3 I tre settori nell’economia regionale p.16 Cap. III Lincontro tra globale e locale: il petrolio in Basilicata 3.1 La storia del petrolio lucano p.19 3.2 Il prezzo del petrolio e le royalties p.22 3.3 Cosa è successo, tra dati e modello SAM p.25 Conclusioni p.31 Fonti Bibliografiche p.33 Sitografia p.35
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Page 1: TESI FINALE

INDICE

Introduzione p.1

Cap. I La risorsa petrolio

1.1 I riferimenti storici ed economici p.3

1.2 Produzione e consumo di petrolio p.5

1.3 Il petrolio italiano p.8

Cap. II Il sistema economico della Regione Basilicata

2.1 Uno sguardo d’insieme p.11

2.2 Demografia, lavoro e infrastrutture p.12

2.3 I tre settori nell’economia regionale p.16

Cap. III L’incontro tra globale e locale: il petrolio in Basilicata

3.1 La storia del petrolio lucano p.19

3.2 Il prezzo del petrolio e le royalties p.22

3.3 Cosa è successo, tra dati e modello SAM p.25

Conclusioni p.31

Fonti Bibliografiche p.33

Sitografia p.35

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Introduzione

La tesi verte su un argomento diventato assolutamente attuale negli ultimi

tempi, quando in Basilicata si sono moltiplicate le manifestazioni riguardo

le estrazioni petrolifere, soprattutto in seguito al Decreto “Sblocca Italia”.

Lo scopo del lavoro è quello di analizzare dettagliatamente gli effetti

economici che un mercato globale come quello energetico può avere su un

territorio circoscritto, attraverso l’incrocio dei dati derivanti da studi e

rapporti. Più precisamente, andremo ad analizzare gli effetti del mercato

petrolifero sulla Regione Basilicata, interessata dal complesso di attività

estrattive di diverse multinazionali, tra le quali Eni, Shell e, a brevissimo,

Total. Il lavoro è suddiviso in tre macroaree: le prime due analizzano in

maniera distinta i due punti centrali della riflessione, ovvero il petrolio e il

tessuto economico lucano, mentre la terza riguarda l’incrocio delle due

macroaree precedentemente discusse. L’analisi del primo capitolo parte da

una panoramica storica sul petrolio, dal sorpasso sulle fonti energetiche

“antiche”, ovvero il legno prima e il carbone poi, fino al primo cartello

petrolifero, quello delle “Sette Sorelle”, che è stato l’oligopolio per

eccellenza del mercato energetico fino alla formazione del nuovo cartello,

quello dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries). Si

giunge, poi, allo studio di produzione e consumi e delle differenti aree di

impiego del petrolio, dalla produzione di energia elettrica ai trasporti,

passando per gli usi termici. Saranno presentate le due diverse teorie,

ovvero quelle degli abbondantisti e dei catastrofisti, oltre che le differenti

situazioni dei paesi produttori e di quelli consumatori (tra i quali l’Italia).

Nell’ultimo paragrafo, invece, sarà presentata la storia del petrolio italiano,

partendo dalle grandi intuizioni del cavalier Scotti, che costituì la Società

Petrolifera Italiana e di Enrico Mattei, che nel 1953 fondò l’Eni, per

arrivare alla situazione attuale: 400 giacimenti di olio e gas, 2.500 pozzi

esplorativi, oltre 3.000 pozzi produttivi e diverse compagnie impegnate in

attività estrattive nella nostra penisola.

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Nella prima parte del secondo capitolo sarà presentato il contesto

economico e sociale della Basilicata, tra le regioni più povere d’Italia, con

un PIL procapite pari a 17.006 euro, seguita solo da Puglia, Campania,

Sicilia e Calabria (SVIMEZ, 2014). Come vedremo nel secondo paragrafo,

però, è sotto il profilo dell’occupazione che i dati manifestano una

drammaticità ancora maggiore, con un calo degli occupati “giovani” (fasce

d’età 15-44). Emerge poi un’altra criticità, ovvero l’invecchiamento della

popolazione di oltre 6 anni nell’ultimo ventennio. Nell’ultimo paragrafo del

secondo capitolo, sarà presentata la situazione riferita ai tre settori, che

riporterà l’evoluzione negativa del settore agroalimentare, oltre che alcuni

dati relativi al settore industriale, “nato” in Basilicata nel periodo che seguì

al terremoto del 1980. E’ così, infatti, che si insediarono in Regione, tra gli

altri, i centri produttivi della Val d’Agri, di Viggiano e la FIAT Sata di

Melfi, ai quali oggi è dovuto il 75% dell’export lucano. Ma importante è

anche l’apporto dei servizi, che sono arrivati a contribuire per il 70% al

totale del PIL regionale. Il terzo capitolo, invece, prevede un incrocio delle

due macroaree precedentemente disquisite, partendo da un’analisi storica

riguardante il petrolio lucano, con particolare cenno al decisivo cambio di

passo del 1939, quando l’Agip iniziò le attività in Val d’Agri. Nel secondo

paragrafo sarà presentato un grafico nel quale vengono incrociati i dati

relativi all’evoluzione del prezzo del petrolio con la quantità di barili

estratti in Basilicata e le royalties versate dalle compagnie petrolifere alla

Regione. Infine, vedremo quali sono stati gli effetti delle attività estrattive

sulle principali variabili macroeconomiche regionali, sia grazie a dati

empirici, sia attraverso un particolare modello a matrice.

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Capitolo I La risorsa petrolio

1.1 I riferimenti storici ed economici

Il 1962 è l’anno che ha segnato l’ascesa del petrolio quale fonte energetica

più utilizzata, quando superò appunto il carbone che, a sua volta, aveva

sorpassato il legno, fonte energetica dominante dall’inizio della civiltà

umana. Cinquant’anni dopo, nel 2012, il petrolio è diventata la fonte da cui

deriva un terzo del consumo energetico mondiale, con 12,38 miliardi di

tonnellate utilizzate (Varvelli e Varvelli, 2015). Tuttavia, la storia del

petrolio ha radici profonde, che vanno ben più lontano rispetto a quel

1962: il termine nafta compare addirittura nella Bibbia, mentre fu

Zarathustra a far diventare il petrolio della Persia oggetto di adorazione (in

seguito alle manifestazioni incendiarie dovute al petrolio). E’ Diodoro

Siculo a testimoniare in “Bibliotheca historica” l’esistenza di pozzi di

petrolio. Ovviamente, il petrolio e gli idrocarburi in generale hanno trovato

facile diffusione in epoca antica a causa dei molteplici utilizzi ai quali essi

erano sottoposti: dall’illuminazione agli usi terapeutici, nelle prime

costruzioni e persino per fini bellici, quando le frecce degli arcieri

venivano cosparse di una miscela comprendente, tra le altre cose, il

petrolio, per poi essere scoccate verso le navi nemiche. Il XIX secolo fu

l’epoca della svolta, quando la pubblica illuminazione iniziò ad essere

alimentata dal petrolio, che venne poi commercializzato a Vienna sotto

forma di cherosene. Proprio nel XIX Secolo, vicino a Baku (Azerbaigian)

e in Polonia furono perforate decine di pozzi. Appare, quindi, poco più che

una storia romanzata quella del “colonnello” Drake, un ex-macchinista che

secondo alcune fonti “scoprì” il petrolio nel 1859 in Pennsylvania. Un

episodio comunque degno di menzione, dato che da esso scaturì la “febbre

dell’oro nero”, che portò una elevata quantità di avventurieri ad avviare

perforazioni

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e ricerche. Proprio l’eccesso di quantità di petrolio estratta causò, in pochi

anni, un crollo del prezzo della materia stessa, che passò da circa 20 dollari

dell’epoca a 10 centesimi al barile. La storia più prettamente economica

del petrolio è una storia di cartelli e rivalità: il primo cartello storicamente

delineatosi fu quello delle “Sette Sorelle”, ovvero la Sonj (Standard Oil of

New Jersey, poi divenuta Exxon), la Socony (Standard Oil Company of

New York, poi Mobil), Socal (Standard Oil of California, poi Chevron),

tutte e tre nate sotto un trust di Rockefeller, più Gulf, Texaco (entrambe

americane), Dutch-Shell e British-Petroleum (entrambe europee), che nel

1970, tutte insieme, possedevano una quota di mercato pari al 57% del

petrolio totale prodotto nel mondo, mentre oggi esse detengono “soltanto”

il 15%. Ovviamente, anche i profitti delle Sette Sorelle sono andati

progressivamente riducendosi, come è accaduto nel 2014 a causa dello

“shale oil”, ovvero un tipo di petrolio non convenzionale, per il quale cioè

occorrono metodi di estrazione più complessi, che ha condotto ad un calo

del prezzo della benzina negli USA a una cifra al di sotto degli 80

centesimi di euro al litro. Al di là di quanto viene spesso detto, le Sette

Sorelle hanno cercato di mantenere basso il prezzo del petrolio fino a

quando è stato loro possibile, anche grazie a una ripartizione certosina

delle quote di mercato, stabilita all’interno del documento “As-Is” nel

quale erano anche riportati i criteri di determinazione del prezzo del

petrolio. Il trattato fu rivisto due volte, nel 1930 e nel 1944, ma il sogno di

mantenere l’egemonia nel mercato petrolifero svanì qualche anno dopo,

quando i paesi arabi iniziarono a non dare più in concessione il loro

petrolio: di lì a poco sarebbe nata l’Opec. Nel 1901, tre quarti di territorio

persiano furono dati in concessione dallo scià Muzzafar al-Din ad un

affarista londinese, per una somma iniziale pari all’incirca a 20.000

sterline, alla quale però sarebbero state aggiunte royalties per una

percentuale pari al 16% dell’utile netto che sarebbe derivato dalla

commercializzazione dell’oro nero. E’ proprio da questo episodio che

nascono le royalties, l’aliquota che le società concessionarie di giacimenti

minerari versano, ad esempio, allo Stato o agli enti locali, di cui parleremo

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più avanti. Nel 1904, comunque, il petrolio sgorgò per la prima volta in

Persia e da lì in poi ebbe inizio una grande attività estrattiva, inizialmente

sotto il controllo egemonico delle Sette Sorelle. Tuttavia, in pochi anni, i

soggetti che concedevano porzioni di territorio alle compagnie petrolifere

ebbero modo di accorgersi della enorme differenza di utile derivante dallo

sfruttamento diretto delle risorse operato dalle stesse compagnie, che non

era minimamente paragonabile ai profitti derivanti dalle royalties. Fu

proprio la decisione delle Sette Sorelle di ridurre l’ammontare di royalties

ad innescare la creazione della Organization of the Petroleum Exporting

Countries (OPEC), istituita ufficialmente nel 1960 a Baghdad da Arabia

Saudita, Iraq, Iran, Kuwait e Venezuela. Nel corso degli anni, altri Stati si

sono aggiunti al cartello, che oggi è il più potente a livello mondiale,

avendo la capacità di determinare il prezzo del petrolio attraverso l’offerta

dello stesso. L’Opec, le cui entrate sono più che decuplicate nel corso degli

anni, dagli 88 miliardi di dollari del 1988 ai 996 del 2008, attestatesi poi

intorno ai 700-800 miliardi, esporta ben tre quarti del petrolio che produce,

ha una quota petrolifera pari al 43%, e possiede riserve per il 73% del

totale, come riportano i dati del 2012 (Varvelli e Varvelli, 2015). Una

grossa quota appartiene all’Arabia Saudita, che esporta petrolio per il 90%

del totale delle esportazioni, produce il 30% del totale Opec (13%

mondiale) ed è appunto il maggior detentore di riserve all’interno del

cartello.

1.2 Produzione e consumo di petrolio

La domanda energetica mondiale deriva da tre differenti settori: energia

elettrica (30,1%), trasporti (34,7%) ed energia impiegata per usi termici

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(residenziale, terziario e industria, 35,2%). Non bisogna quindi

confondere la domanda energetica mondiale con la sola domanda di

energia elettrica, come spesso avviene. Per quanto riguarda le fonti

specifiche, il petrolio rappresenta quella più largamente utilizzata,

rappresentando il 34% del totale, seguito dal 26% del gas naturale, dal

21% del carbone e poi rinnovabili, nucleare e legno, tutte ampiamente al

di sotto del 20% (Lattarulo, 2013). Andando più nello specifico, la

produzione di energia elettrica deriva per il 6% dal petrolio (essa deriva in

larga parte dal carbone, utilizzato per il 39% del totale delle fonti) mentre

è nel settore dei trasporti che il petrolio è la fonte più largamente

utilizzata, dato che contribuisce per il 96% del totale. L’energia prodotta

per usi termici, invece, deriva innanzitutto dal gas naturale, ma anche in

questo settore è importante il contributo del petrolio, che si attesta al 27%

del totale (Lattarulo, 2013). Il petrolio (che è una miscela di diversi

idrocarburi), è dunque una risorsa molto importante, tanto che l’attenzione

degli studiosi ha persino prodotto due differenti teorie in materia, quella

dei catastrofisti e quella degli abbondantisti: per i primi, il picco di

produzione determinerà il passaggio ad un paradigma energetico

differente, mentre per i secondi l’esauribilità del greggio non sarebbe una

questione fondata. Dei catastrofisti fanno parte Hubbert, Laherrere e

Campbell, i quali individuano ciascuno un determinato periodo nel quale

si verificherà il collasso della produzione petrolifera mondiale, che porterà

all’aumento del costo del petrolio e ad un periodo di instabilità politica.

Tra gli abbondantisti, invece, Maugieri sostiene che la capacità di

produzione petrolifera aumenterà, soprattutto grazie alle nuove tecniche di

estrazione. Inoltre, Riccardo Varvelli, docente di Sistemi Energetici presso

il Politecnico di Torino, così commenta le previsioni non corrette riportate

nel rapporto Waes (Workshop on Alternative Energy Strategies) del 1975:

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Nel periodo 1985-1995, malgrado il prezzo del petrolio sia fortemente

aumentato rispetto al dato di partenza del 1972 a oltre il 50% indicato

dal Waes, la domanda non ha superato mai l’offerta; anzi l’offerta è stata

per anni abbondantemente superiore alla domanda;

l’Arabia Saudita nel periodo 1972-1985 (tranne il triennio 1979-1981)

non ha superato i 9 milioni di barili/giorno e, malgrado ciò, la carenza di

offerta prevista non si è verificata, meno che mai nel 1981; anzi, dopo

quella data, per un eccesso di offerta, l’Arabia Saudita ha ridotto

fortemente la sua produzione; (Varvelli e Varvelli, 2015, pp. 25-26)

Sempre Varvelli, poi, ricorda l’errore di previsione del 1910 ad opera del

Servizio geologico degli Stati Uniti, che annunciava la fine del petrolio

entro 20 anni, o quella del Dipartimento degli Interni USA, che nel 1939

stabilì che il petrolio sarebbe durato al massimo per 13 anni a partire da

quella data, per poi rivedere la data, portandola al 1964 (sbagliando

nuovamente). Ma previsioni errate furono anche quelle riguardanti il “picco

del petrolio” previsto da alcuni, in quanto la produzione mondiale è andata

costantemente aumentando, partendo dai 63 milioni di barili al giorno nel

1990 per arrivare agli oltre 86 milioni di barili al giorno nel 2012, senza

appunto accennare cali dopo aver raggiunto un valore di produzione da

poter definire, appunto, “picco”. Attualmente, è possibile suddividere tra

paesi produttori (tra i quali, come già detto, l’Arabia Saudita) e i paesi

consumatori di petrolio: tra questi ultimi, i dieci paesi più industrializzati

rappresentano il 45,8% del consumo mondiale, seppure in contrazione

rispetto al decennio precedente. E’ da rilevare, però, che le economie

mature comprese nel gruppo dei dieci consumatori stanno puntando su altre

fonti energetiche, come il gas o le rinnovabili. I paesi in via di sviluppo,

invece, costituiscono il 25,8% del consumo mondiale di petrolio, in

aumento rispetto al decennio precedente. La conclusione è che, mentre i

paesi industrializzati potranno progressivamente diminuire il loro consumo

di petrolio, rimpiazzandolo parzialmente con lo sfruttamento di energie

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rinnovabili (si pensi alle strategie di Europa2020 e al grande impegno degli

Stati sul cambiamento climatico, oltre che sulle politiche ambientali in

generale), i paesi in via di sviluppo utilizzano il petrolio quale “propulsore”

per una crescita economica costante. A tal proposito, è interessante

osservare il dato sul consumo pro capite, che nel 2012 è stato di 4,7 barili di

petrolio in un anno, molto prossimo al valore verificato 10 anni prima: ne

deriva che il singolo abitante non ha consumato più petrolio rispetto a

quanto ne consumava nel 2012, quindi l’aumento del consumo totale deriva

dalla crescita della popolazione mondiale e non da un “peggioramento”

delle nostre abitudini (Varvelli e Varvelli, 2015). Nel prossimo futuro,

comunque, sarà da tenere sotto controllo il consumo di paesi come la Cina,

che possiede due tra le più grandi aziende mondiali operanti in campo

petrolifero, ovvero Sinopec e Petrochina (con una produzione totale, in due,

di oltre 4 milioni di barili al giorno e più di 1 milione di dipendenti),

entrambe statali, come le russe Lukoil, Rosneft e Gazprom.

1.3 Il petrolio italiano

Come abbiamo detto, ci sono paesi che producono petrolio e lo esportano

quasi totalmente (Arabia Saudita), paesi che rispecchiano una condizione di

sostanziale pareggio tra produzione e consumo di petrolio, come ad

esempio, tra i paesi industrializzati e maturi, Canada e Gran Bretagna, e

paesi come l’Italia che risultano consumatori di petrolio. Il nostro paese,

infatti, nel 2012 ha consumato 1,3 milioni di barili/giorno e ne ha prodotti

soltanto 0,11 milioni (Varvelli e Varvelli, 2015).

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Ne risulta una situazione di quasi totale dipendenza, dato che il petrolio

estratto in Italia soddisfa meno del 10% del fabbisogno nazionale. L’import

di petrolio, che si attesta quindi intorno al 90% circa, è ovviamente una voce

importante nella bilancia dei pagamenti italiana, ed è destinata a rimanere

tale anche quando la produzione petrolifera nazionale raggiungerà livelli di

poco inferiori al 15% del fabbisogno (con il raddoppio delle estrazioni in

Basilicata). Si può dire che l’Italia continuerà a dipendere da altri paesi per

quanto riguarda il petrolio, ed è dunque solo grazie all’abbassamento del

prezzo del greggio (che pure c’è stato negli ultimi mesi del 2014, quando si

è arrivati ad un costo pari a 62,34 dollari al barile, contro i 108,12 dollari al

barile del Gennaio dello stesso anno) che la bilancia commerciale potrà

migliorare, e con un prezzo della benzina costantemente più basso

potrebbero esserci segni positivi sul Pil. Tuttavia, un prezzo del petrolio in

caduta spinge la deflazione, mentre una situazione di inflazione pari al 2%

(come da obiettivo UE), potrebbe significare una riduzione del valore reale

del debito pubblico italiano. La storia “antica” del petrolio italiano si può

datare intorno al XVI Secolo, quando la città di Sassuolo – “Sax oleum” –

guadagna il suo nome per la presenza di petrolio, mentre più tardi fu il

Ducato di Modena a diventare produttore di greggio. Nei pressi di Parma,

intorno al 1859 erano attivi due pozzi di petrolio, e ne furono attivati altri

nel corso degli anni presso Salsomaggiore e nella provincia di Pescara. E’

però grazie al cavalier Luigi Scotti, che costituì la Società Petrolifera

Italiana e mise in produzione una ventina di pozzi petroliferi in Emilia, che

l’Italia entrò di diritto tra i paesi produttori di petrolio. Qualche anno più

tardi, nel 1926, fu fondata l’Azienda Generale Italiana Petroli, meglio

conosciuta come Agip, che ottenne un anno dopo alcune concessioni in

Romania: era l’affermazione della ricerca italiana di petrolio all’estero, già a

buon punto in Albania, dove venivano estratte 200.000 tonnellate di

petrolio/anno. Nel 1953, invece, Enrico Mattei fondò l’ENI, per garantire al

Paese una impresa energetica nazionale, che cioè fosse indipendente dagli

oligopoli internazionali e potesse garantire energia a buon prezzo alle

famiglie e alle imprese italiane. Allo stato attuale, in Italia ci sono oltre 400

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giacimenti di olio e gas, sono stati scavati oltre 2.500 pozzi esplorativi (di

cui oltre 600 in mare) e sono stati realizzati più di 3.000 pozzi produttivi

(774 in mare) (Varvelli e Varvelli, 2015). Come abbiamo già detto, l’Italia è

un paese consumatore di petrolio, ed in questo senso sono interessanti i dati

del 2012: l’importazione di petrolio è stata di 1,2 milioni di barili/giorno,

corrispondente ad oltre il 92% del petrolio consumato (Varvelli e Varvelli,

2015). Tuttavia, ben presto il primato del petrolio come fonte energetica più

utilizzata lascerà il passo al gas naturale, il cui utilizzo è in forte crescita.

Per quanto riguarda le aziende petrolifere, operano in Italia Edison SPA, la

società europea (francese) più antica nel settore energetico, la Enel

Longanesi Developments, che è l’estensione operativa di Enel, ENI,

multinazionale italiana quotata in borsa e controllata in parte da soggetti

pubblici quali il Ministero dell’Economia e la Cassa depositi e prestiti spa,

la Northern Petroleum Limited, operante soprattutto in joint-venture, Shell

Italia spa e Total, titolare di 6 permessi di ricerca sul territorio nazionale

(Dommarco,2012).

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Capitolo II Il sistema economico della Regione Basilicata

2.1 Uno sguardo d’insieme

La Basilicata è la terra al centro di quel Sud che ha subito un crollo di PIL

nel biennio di recessione 2008-2009 maggiore rispetto a quello riportato nel

centro-nord, seguito da una ripresa debole nel biennio 2010-2011. Qualora

il processo di ripresa dovesse essere troppo lento, l’aggiustamento

strutturale potrebbe diventare troppo pesante, con perdite di tessuto

produttivo che renderebbero ancora più complicata la ripresa stessa. Tra

2007 e 2011, il PIL reale del mezzogiorno è sceso del 6,1%, cioè del 2% in

più rispetto alla riduzione del dato relativo al centro-nord (SVIMEZ, 2013).

Una delle ragioni è sicuramente la domanda interna, che risulta debole sia

dal punto di vista delle imprese, sia da quello delle famiglie, mentre le

esportazioni hanno tenuto un andamento piuttosto positivo, aumentando del

10,3% nel 2011 (dato riferito al mezzogiorno). In questa prospettiva, è

interessante analizzare i dati relativi alla singola Basilicata, che nel 2011 è

stata la regione più dinamica del paese, con una variazione del Pil del 2%.

Tuttavia, la Basilicata veniva da un biennio, quello 2009-2010, in cui la crisi

aveva avuto effetti più devastanti rispetto al resto del paese. Un Pil

regionale che quindi sembra essere fortemente collegato al ciclo economico

internazionale, con ampie perdite durante la recessione e, a seguire, una

timida ripresa, derivante da un incremento dell’attività produttiva in tutti i

settori, fuorché in quello delle costruzioni e, in particolare, un +2%

registrato in agricoltura, che aveva visto una crescita del 4,7% nel 2010,

dopo un -7,7% registrato nel 2009. Saldo positivo anche per quanto riguarda

l’industria in senso stretto (+5,3%) e servizi (+2,6%), nonostante la

valutazione complessiva del triennio 2008-2011 riporti un calo in tutti i

settori (SVIMEZ, 2013).

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Per quanto riguarda il mercato del lavoro lucano, nel 2011 si è registrata

una crescita dell’1,3%, superiore al +0,2% del dato meridionale e del

+0,4% di quello nazionale, derivante da una crescita degli occupati nel

settore industriale (+1,9%) e in quello del commercio (+1,1%), che però

non sono bastati per ristabilire l’occupazione ai livelli pre crisi. Come

abbiamo già osservato, la crescita regionale è dovuta in particolare

all’export: l’incidenza della Basilicata sul totale delle esportazioni

complessive meridionali è infatti del 3,2%, un dato interessante se si

considera che la popolazione lucana pesa sul totale meridionale per un

valore inferiore al 3%. Inoltre, il rapporto export/PIL in Basilicata è

maggiore che nel resto del mezzogiorno: 12,8% contro l’11,6% di media al

sud, che denota una buona capacità per la regione di vendere nei mercati

esteri (SVIMEZ, 2013). Nel 2011, l’export lucano ha visto una

contrazione, come era già successo nel 2010. Va notato, comunque, che un

impatto determinante deriva dalle esportazioni di autoveicoli prodotte

nello stabilimento di Melfi, che incidono per il 68,7% sul totale delle

esportazioni regionali, mentre un ruolo comunque rilevante è attribuito ai

prodotti estrattivi, che contribuiscono invece per il 4,8% (SVIMEZ, 2013).

Per inquadrare meglio la situazione, si pensi che nel 2012 l’export

regionale ha registrato una riduzione pari al 24,5%, dovuta alla flessione

della vendita di automobili (-37,3%) e di prodotti petroliferi (-20%).

Pertanto, la perdita di ¼ del valore dell’export regionale è dovuta a queste

due industrie, ovvero quella automobilistica e quella estrattiva, che dunque

hanno una importanza fondamentale sull’economia locale.

2. 2 Demografia, lavoro e infrastrutture

In Basilicata risiede circa l’1% della popolazione italiana (586.313 abitanti)

e nel periodo 2010-2011 c’è stato un calo dei residenti pari al 2 per mille,

Page 14: TESI FINALE

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che rispecchia esattamente il dato verificato su base ventennale (1991-2011)

che parla di una perdita, su base regionale, di 24 mila unità, dovuta sia a una

dinamica naturale (sproporzione tra tasso di mortalità e tasso di natalità a

tutto vantaggio del primo), sia alla dinamica migratoria, quest’ultima

accentuata rispetto al dato meridionale. I dati, infatti, riportano un tasso

migratorio regionale pari al -2,7 per mille, con una perdita di 1.600 residenti

(trasferiti in altra regione italiana), mentre la dinamica migratoria con

l’estero è risultata positiva (+2,2 per mille). Dal 1991 ad oggi, comunque, la

struttura demografica lucana ha conosciuto un forte invecchiamento,

passando da una media di 36,6 anni a una pari a 43 anni, con una riduzione

di under 15 dal 19,7% al 13,4%. E’ solo grazie all’arrivo di stranieri,

dunque, che l’impatto negativo delle dinamiche migratorie non è stato

devastante, dato che la popolazione italiana residente in regione è diminuita

di 27 mila unità e nello stesso periodo il numero di cittadini stranieri è

cresciuto di 9 mila unità (SVIMEZ, 2013). Interessanti sono i dati relativi al

numero di occupati, che sono passati da uno stock di 197,06 mila del 2000,

valore più alto registrato negli ultimi 20 anni, a uno stock di 178,62 mila nel

2013, valore più basso registrato negli ultimi 20 anni (ISTAT, 2015).

Ovviamente, però, deve essere considerato il calo della popolazione

residente nella regione. L’analisi di occupati per età riporta un calo nella

fascia 15-24 anni di oltre 5 punti percentuali nel decennio 2004-2014, come

anche nella fascia 25-34 (oltre 15 punti percentuali) e in quella 35-44 (calo

di quasi 10 punti percentuali). Cresce, invece, nello stesso decennio, il

numero di occupati nelle fasce d’età 45-54 (+5%) e 55-64 (+14%)

(SVIMEZ,2013). Il quadro che ne deriva è abbastanza chiaro, con un

mercato del lavoro poco accessibile per i giovani, che segue

l’invecchiamento demografico, dato che le ultime due fasce d’età, ovvero

quelle più “anziane” riportano una crescita del valore percentuale, mentre le

tre più “giovani” conoscono nello stesso periodo una flessione drammatica.

Page 15: TESI FINALE

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Indice, per altro, di una occupazione “pubblica” che è garanzia, dato che i

posti che tengono e addirittura, in alcuni casi, aumentano, sono ascrivibili

alla pubblica amministrazione. Per quanto riguarda il tasso di

disoccupazione, invece, una panoramica che va dal 1993 al 2014 offre

alcuni spunti interessanti: Dal 12,9% di disoccupati del 1993, appunto, si è

passati al 14,73 del 2014, in calo rispetto al 2013 (ISTAT, 2015). Tuttavia,

c’è da considerare che il tasso di disoccupazione “corretta”, che comprende

cioè anche coloro che non hanno effettuato alcuna ricerca di lavoro, è di 10

punti percentuali superiore al dato riferito alla disoccupazione ufficiale, pari

cioè al 25,2% nel 2013 (SVIMEZ, 2014).

I valori relativi al tasso di disoccupazione, comunque, risultavano

complessivamente in calo fino al periodo pre crisi, quando poi hanno

iniziato a salire, fino ad arrivare al valore attuale: l’unica eccezione è il

2011, che ha visto un calo temporaneo dopo 4 anni di continua crescita, per

poi conoscere una risalita. Nonostante ciò, però, la Basilicata ha tenuto dal

2000 al 2013 un tasso di disoccupazione inferiore alla media del

Mezzogiorno, come si può vedere dalla Fig. 1 (ISTAT, 2015).

Page 16: TESI FINALE

15

Anche in Basilicata, come in tutto il Mezzogiorno, molto forte è la

cosiddetta “questione giovanile”, che vede indebolito quel legame tra

capitale umano e scolarizzazione e capitale umano e mondo del lavoro.

Come dicevamo in precedenza, proprio la struttura del mercato del lavoro

italiano ha peggiorato, nel corso degli anni, la situazione dei giovani, che si

trovano molto spesso in condizioni di disoccupazione, inattività o, quando

abbiano un lavoro, con differenziali salariali importanti. Nessun titolo di

laurea sembra preservare, in questo senso, i giovani lucani, dato che il tasso

di disoccupazione dei laureati tra i 25 e i 34 anni si attesta al 20,8% in

Basilicata, mentre è all’8,1% per quanto riguarda il Centro-Nord. Questa

debolezza del mercato del lavoro, quindi, peggiora sotto molteplici aspetti la

condizione dei giovani, che vivono più a lungo con i genitori, si sposano più

tardi, fanno meno figli e non accumulano contributi per la loro pensione.

Preoccupante è anche la situazione dei Neet (Not in Education,

Employment, or Training) dato che il fenomeno si attesta in Basilicata al

29,9%, ma quanto fa specie è il dato relativo ai diplomati e laureati che non

sono occupati, non cercano una occupazione e non sono in periodi di

formazione: in Basilicata, infatti, la percentuale di questo fenomeno si

attesta al 63% del totale Neet, contro il 50,9% della media del Mezzogiorno

(SVIMEZ, 2013). Un fenomeno che non alimenta il brain drain (la fuga dei

cervelli) e neanche la brain circulation (la circolazione dei cervelli) bensì un

fenomeno ben più grave dal punto di vista socioeconomico: il brain waste,

lo spreco di cervelli.

Page 17: TESI FINALE

16

Ma l’economia della Basilicata è fortemente condizionata anche

dall’assenza di una rete infrastrutturale consolidata, come dimostra la totale

assenza di aeroporti e di reti di trasporto intermodale, mentre modesta è la

dotazione di porti. Carente appare anche la dotazione di infrastrutture

ferroviarie, considerata anche la totale assenza delle Ferrovie dello Stato da

Matera, Capoluogo di Provincia. Anche la rete stradale risulta meno

sviluppata rispetto alla media del sud e i tratti autostradali sono

trascurabili. Tutto ciò, ovviamente, unito ad un importante sofferenza nel

digital divide, rende poco accessibile la regione, con evidenti ripercussioni

sul tessuto economico e sociale (Unioncamere, 2012).

2.3 I tre settori nell’economia regionale

I dati relativi al settore agroalimentare riportano, per il periodo tra 2000 e

2011, una situazione negativa: infatti, in Basilicata il numero di aziende

agricole si è ridotto di circa un terzo e la superficie agricola utilizzata è

diminuita del 4,7%, mentre l’allevamento si è ridotto del 71,5% in 10 anni

(SVIMEZ, 2013). Ad ogni modo, tenendo presente tutto il sistema

economico-sociale regionale, il settore primario sembra aver

complessivamente tenuto. Alcuni caratteri da non sottovalutare, però,

emergono da un’analisi più approfondita: l’elevato indebitamento delle

imprese di media e grande dimensione che hanno usufruito di interventi

creditizi nazionali e regionali per sostenere il settore colpito da calamità

naturale. Inoltre, va considerato che l’indebolimento dell’agroalimentare ha

portato alla chiusura di stabilimenti importanti come Barilla, Parmalat e

Conservificio Gaudiano.

Page 18: TESI FINALE

17

Il periodo di crisi ha colpito anche il comparto industriale lucano, che ne è

risultato progressivamente indebolito. Gran parte del tessuto industriale

regionale è nato con la legge n. 219/1981, strumento con cui lo Stato

incentivava la ricostruzione post-terremoto e avviava l’industrializzazione

delle stesse aree. E’ così che nascono gli insediamenti della Val d’Agri, di

Baragiano, Tito, ai quali si aggiungono Sata Melfi e il Centro Oli di

Viggiano. E’ quindi in seguito al terremoto del 1980 che ha inizio la storia

industriale lucana, che verrà poi influenzata dall’arrivo di ENI, la quale

favorirà l’insediamento di una rete d’imprese in Val Basento e in Val

d’Agri. Tuttavia, tale strumento legislativo non ha favorito la creazione di

un vero e proprio tessuto industriale, quanto più quella di un complesso

sfilacciato di poli industriali, talvolta completamente avulsi dalle economie

di specializzazione regionale. Come abbiamo già detto, deve essere

considerata la centralità, in questo settore, di Fiat-SATA, nel cui indotto

lavorano circa 9 mila addetti (5% degli occupati totali), che prevede un

piano d’investimenti che certamente potenzierà proprio lo stabilimento

FIAT. Per quanto riguarda i servizi, invece, le unità coinvolte in tale settore

sono andate via via aumentando, con un +86 mila addetti tra 1951 e 2011, di

cui +66 mila unità nel periodo 1971-2001, con un PIL derivato che è

cresciuto fino a rappresentare il 70% del totale regionale (SVIMEZ, 2013).

Tuttavia, circa metà dell’intera occupazione è assorbita dall’attività di

servizi della Pubblica Amministrazione, in special modo per quanto

concerne istruzione e sanità. Importante è invece il dato relativo al turismo,

anche in relazione a quello che è il patrimonio culturale e ambientale lucano,

con i Parchi Nazionali del Pollino e dell’Appennino Lucano, i Parchi

Regionali della Murgia Materana e di Gallipoli Cognato, le Oasi di Lago

Pantano di Pignola e Bosco Pantano di Policoro e Matera, Capitale Europea

della Cultura del 2019 con i suoi Sassi, Patrimonio UNESCO dal 1993, oltre

che una fascia costiera di circa 60km.

Page 19: TESI FINALE

18

Ad ogni modo, come si evince dalla Fig. 3, il totale di imprese attive in

Basilicata è in costante calo dal 2001: proprio in quell’anno si è

registrato il valore più alto degli ultimi 20 anni, pari a 56.540 imprese

operanti in regione, ma la riduzione è stata costante, con un’unica

eccezione nel 2008. Si è giunti così al valore del 2014, anno in cui le

imprese lucane attive sono state 52.418 (Infocamere, 2015).

Trattandosi di uno stock, tuttavia, c’è da considerare anche il calo

verificatosi nello stock di popolazione residente, che sicuramente

influenza il dato relativo al numero di imprese attive.

Page 20: TESI FINALE

19

Capitolo III L’incontro tra globale e locale: il petrolio in Basilicata

3.1 La storia del petrolio lucano

Il petrolio in Basilicata ha una storia risalente al 1902, quando nella Regione

si verificano le prime fuoriuscite di greggio. Tuttavia, la data che segna il

vero e proprio inizio della storia petrolifera lucana è il 1939, quando l’Agip

iniziò le prime pratiche estrattive in Val d’Agri. Tra il ’60 e gli ’80, a

seguito degli shock petroliferi, gli Stati ripresero le ricerche nei territori

nazionali, ma fu negli anni ’80 che venne segnato un grande cambio di

passo, grazie alle ricerche della Petrex e alla concessione “Costa Molina”,

mentre nel 1984 venne concesso il permesso di ricerca e coltivazione

“Monte Alpi”, seguito dal ritrovamento, quattro anni più tardi, del pozzo

“Monte Alpi 1”, seguito da quello di Tempa Rossa e poi ancora da Cerro

Falcone. Nel corso degli anni, le stime sulle riserve petrolifere lucane sono

andate via via riportando dati crescenti, tanto da far diventare la Basilicata il

più grande giacimento petrolifero in terraferma. Oggi le aree di produzione

petrolifera sono due: la Val d’Agri e la Camastra Alto-Sauro. Il programma

di ricerca e sfruttamento denominato “Trend 1” è riferito alla Val d’Agri e

si estende per 61.515 ettari, ed i barili qui estratti vengono lavorati nel

Centro Oli di Viggiano. “Trend 2”, invece, si riferisce alla seconda area

sopracitata ed interessa una superficie di 29.059 ettari. Per adesso, il valore

stimato delle riserve certe di petrolio lucano è attestato sui 60 miliardi di

euro (SVIMEZ, 2013). I permessi di ricerca accordati sono 11, pari al

10,38% del totale dei permessi concessi a livello nazionale. Le concessioni

di coltivazione, invece, sono venti ed interessano un territorio di oltre 8.600

Kmq, ma quella più importante si trova in Val d’Agri (di Eni per il 61% e di

Shell per il restante 39%), con oltre 660 Kmq interessati e 25 pozzi in

produzione.

Page 21: TESI FINALE

20

In tutto, i pozzi perforati sono 471 ma quelli di estrazione attivi sono 106, di

cui 39 in produzione, 57 non eroganti, 4 utilizzati per “altro scopo” e 6

utilizzabili (Corte dei Conti, 2014). E’ proprio in Basilicata che si estrae

l’80% del petrolio estratto sulla terraferma italiana (Bolognetti, 2013), ma

con l’entrata a regime del giacimento di Tempa Rossa tale percentuale è

destinata a salire, dato che si estrarranno oltre 150 mila barili di petrolio al

giorno (Legambiente, 2013). Riguardo la Val d’Agri, ci sono tre accordi

importanti firmati dalla Regione Basilicata. Il primo è il Protocollo d’Intesa

Stato-Regione del 1998, che prevedeva che il 30% delle royalties,

inizialmente destinato allo Stato e poi corrisposto alle regioni del

mezzogiorno a decorrere dal 1 Gennaio 1999, fosse utilizzato per interventi

infrastrutturali. Più precisamente, si prevedeva la realizzazione di un “tronco

funzionale”, il Fondo Valle Sauro, per il quale sono stati impegnati 181

milioni di euro, che però non sono ancora stati utilizzati. Il secondo è il

Protocollo d’Intenti Regione-Eni, sempre del 1998, che prevedeva, tra le

altre cose, contributi di compensazione ambientale, azioni per lo sviluppo

sostenibile, un sistema di monitoraggio ambientale, l’istituzione di un

osservatorio ambientale, l’istituzione di borse di studio, la costituzione di

una Società Energetica Regionale e la partecipazione di Eni ad una Società

Regionale di Sviluppo. Molte somme, in questo caso, risultano impegnate

con rateizzazioni, ma quelle sino ad ora impegnate risultano essere state

completamente spese per gli interventi previsti (metanizzazione,

compensazione ambientale, monitoraggio ambientale, sviluppo sostenibile),

tranne quelle relative all’osservatorio ambientale (Corte dei Conti, 2014). Il

terzo accordo, invece, è il Memorandum d’Intesa Stato-Regione del 2011,

che ha la propria ragion d’essere nella non attuazione o nella attuazione

lenta e/o parziale dei piani, poiché le royalties venivano utilizzate quasi

completamente per spese correnti e non invece per creare sviluppo e

occupazione. Nel Memorandum, comunque, veniva ribadita l’importanza

strategica del territorio lucano, per il quale erano nuovamente individuati

piani di tutela e ripristino ambientale e piani di mobilità, accessibilità e

occupazione, da finanziare anche grazie al 30% di IRES (l’imposta sul

Page 22: TESI FINALE

21

reddito delle società) destinato allo Stato, che riguardava sia i proventi

derivanti dall’aumento dei barili estratti da Eni, sia quelli derivanti

dall’inizio delle estrazioni presso Tempa Rossa. Nel 2012, poi, è stato

siglato il Contratto di sito, che ha come obiettivo quello di salvaguardare

l’occupazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese. Attualmente c’è

un forte dibattito sul Decreto “Sblocca Italia”, che anche la Regione

Basilicata ha deciso di impugnare davanti al TAR, per la poca chiarezza

dello stesso riguardo il ruolo effettivo della Regione in materia energetica,

che è appunto materia concorrente tra Stato e Regione e riguardo la

concessione unica: una concessione di ricerca che potrebbe bastare per

estrarre idrocarburi, mentre oggi sono previste concessioni differenti (i cui

canoni di pagamento risalgono al 1997 risultano espressi ancora in lire). Tra

l’altro, la concessione potrebbe essere autorizzata esclusivamente dal

Ministero, ed è dunque per questo che il timore delle regioni è quello di

essere totalmente esautorate delle proprie competenze in materia di

estrazioni. E’ chiaro che in una regione con un territorio sensibile dal punto

di vista turistico, agricolo e idrico qual è quello lucano e con aspetti

occupazionali, demografici e infrastrutturali critici, le estrazioni petrolifere

creino dibattiti importanti. La non attuazione o l’attuazione parziale di

accordi che prevedono “vantaggi” in questi termini per la regione sono

ovviamente un indice di valutazione importante, come anche lo è la

questione relativa alle competenze concorrenti in materia energetica delle

regioni.

E’ su tutti questi aspetti che il dibattito pubblico relativo al petrolio si

infiamma continuamente, in particolar modo nelle regioni direttamente

interessate dalle attività estrattiva come la Basilicata. Essendo poi la

Basilicata un territorio in cui è importante la filiera dell’agroalimentare, è

chiaro che le preoccupazioni dei cittadini vengano legittimate, soprattutto

quando manca la certezza che la Regione si impegni a far rispettare gli

accordi siglati con le compagnie.

Page 23: TESI FINALE

22

3. 2 Il prezzo del petrolio e le royalties

Il prezzo del petrolio è una variabile determinante ai fini di un’analisi

macroeconomica come quella del presente lavoro. Esso è fortemente

volatile, tanto che nel 1998 il prezzo di un barile era pari a 7,5 dollari

mentre nell’estate 2008 superò i 128 dollari, profilando il terzo shock

petrolifero (Blanchard, Amighini, Giavazzi, 2011). I primi due si sono

verificati, invece, tra 1973 e 1975 e tra 1979 e 1981, in seguito alla

creazione dell’Opec e a situazioni di instabilità politica in Medio Oriente

dalle quali derivarono guerre e rivoluzioni. In entrambe le occasioni,

l’effetto sorpresa aveva causato una sorta di immobilità delle Banche

Centrali, andando a corroborare una situazione di stagflazione derivante da

una persistente recessione (stagnazione) e una elevata inflazione.

Nella Fig. 4 è riportato in rosso l’ammontare delle royalties versate alla

Regione Basilicata a partire dal 2007, mentre la linea blu rappresenta

l’andamento del prezzo del petrolio.

Page 24: TESI FINALE

23

Questi due valori appaiono strettamente correlati anche con il numero di

barili estratti (riferito alla produzione lorda) ed a tal proposito appare

interessante quanto si è verificato nel 2008, in occasione del terzo shock

petrolifero. Il prezzo del petrolio era aumentato in maniera spropositata e,

nonostante il calo del numero di barili estratti, in tale occasione si è

verificato comunque un consistente aumento della quantità di royalties

versate dalle compagnie alla Regione Basilicata. Per capire meglio la

situazione, osserviamo i dati: il numero di barili estratti è sceso nel 2008 del

10,9% rispetto al 2007 (-3 milioni, arrivando a 28,9 milioni), mentre il

prezzo del petrolio è aumentato nello stesso intervallo di tempo del 33,8%

(+24,5 dollari/barile, arrivando ad un prezzo pari a 96,94 dollari/barile). Ne

è derivato un aumento delle royalties versate pari all’11% (+12 milioni di

euro). Potrebbe essere interessante bilanciare i dati con il valore del tasso di

cambio euro/dollaro degli stessi anni: la variazione di prezzo ne risulterebbe

ancora maggiore, pari cioè al 48,47% e maggiore sarebbe anche

l’ammontare in dollari di royalties versate nel 2008 rispetto al 2007 (+19%).

Infatti, il tasso di cambio euro/dollaro è stato pari a 1,37 nel 2007 e a 1,47

nel 2008, con una variazione pari al 7,3% (Banca d’Italia, 2015). Un altro

esempio interessante può essere dato dal raffronto tra 2011 e 2012. Proprio

nel 2012, infatti, è stato versato alla Regione Basilicata un ammontare di

royalties pari a 168,874 milioni di euro (la somma più consistente fino ad

adesso), con un aumento del 20,32% rispetto all’anno precedente. Nello

stesso intervallo di tempo, il prezzo del petrolio era stato quasi stabile, con

un aumento dello 0,33% rispetto al 2011 (+0,37 dollari/barile), mentre il

numero di barili estratti era aumentato dell’8,34% (+2,3 milioni) (Ministero

dello Sviluppo Economico, 2015). Anche in questo caso, può essere

interessante confrontare l’ammontare di royalties versate nei due anni con il

tasso di cambio corrispondente a ciascuno di essi.

Page 25: TESI FINALE

24

Deve essere considerato che rispetto alla situazione precedentemente

analizzata, quando cioè c’era stato un deprezzamento dell’euro nei

confronti del dollaro, tra 2011 e 2012 si è verificato un apprezzamento

dell’euro nei confronti del dollaro (da un tasso di cambio pari a 1,39 si è

passati a un tasso di cambio pari 1,28 euro/dollaro). Ne risulta che il valore

in dollari delle royalties versate nel 2012 è aumentato del 10,8% rispetto al

valore del 2011, di molto inferiore al +19% riscontrato tra 2007 e 2008. In

tutto ciò, comunque, deve essere considerato lo sfasamento temporale che

intercorre tra il versamento delle royalties alla Regione, che avviene

nell’anno successivo a quello della produzione di petrolio e la

determinazione del prezzo del petrolio sul mercato globale. I due valori,

quindi, non si riferiscono esattamente allo stesso periodo di tempo (come

invece si intuisce dal grafico) ed è per questo che il calcolo delle royalties

avviene in controvalore, calcolato sui prezzi medi del mercato del petrolio.

Deve essere considerato, poi, che il dato relativo al numero di barili estratti

è riferito alla produzione lorda, mentre le royalties sono riferite alla

produzione netta. Inoltre, dal 2011 al 2013 sono state versate alla Regione

Basilicata parte delle royalties riferite ad anni di produzione precedenti.

Nel 2011, infatti, sono stati versati 235 mila euro per la produzione del

2009 (mentre la restante aliquota è ovviamente riferita alla produzione del

2010), nel 2012 sono stati versati 942 mila euro per la produzione del 2010

e nel 2013 sono stati versati 101 mila euro per la produzione relativa al

2011 (Ministero dello Sviluppo Economico). Ciò a causa di alcuni

cambiamenti nella legislazione in materia. Si stima, comunque, che per

l’importazione di petrolio vengono trasferite all’estero risorse finanziarie

che sarebbero potute essere investite in Italia, e tali investimenti sono

stimati in circa 5 miliardi di euro e 34 mila addetti potenzialmente

impiegati. Per quanto riguarda i prossimi 10 anni, si stimano mancate

entrate a livello nazionale pari a 11 miliardi di euro (Corte dei Conti,

2014). Ad ogni modo, proprio grazie a questi dati è possibile riflettere su

quelli che sono stati gli effetti macroeconomici delle estrazioni petrolifere

ed in particolare delle royalties a cui la Regione Basilicata ha potuto

Page 26: TESI FINALE

25

attingere nel corso degli anni. Lo faremo, nel prossimo paragrafo,

analizzando le serie storiche riferite ad alcuni dati degli ultimi anni

(occupazione, disoccupazione, numero di imprese attive) e attraverso un

modello a matrice.

3.3 Cosa è successo, tra dati e modello SAM

Deve essere considerato che anche in funzione delle attività estrattive (oltre

che per gli effetti sull’economia locale dello stabilimento FIAT e dei salotti,

questi ultimi poi crollati in seguito alla crisi), la Regione Basilicata è

fuoriuscita dalle aree considerate depresse dall’Unione Europea (obiettivo

1), ritornandovi poi nuovamente (obiettivo convergenza). Partendo da

questo presupposto, analizziamo gli effetti delle royalties sull’economia

regionale. Per quanto riguarda il valore dell’aliquota riconosciuta dalle

compagnie petrolifere ai territori interessati dalle loro attività, essa

corrisponde al 7%, corrisposto per il 55% alla Regione, per il 15% ai

Comuni interessati e per il 30% allo Stato, anche se alle regioni del

Mezzogiorno, come appunto la Basilicata, resta anche la quota destinata allo

Stato. La Regione Basilicata, dunque, riceve l’85% dell’ammontare delle

royalties, mentre il restante 15% viene destinato ai Comuni interessati dalle

attività estrattive. Ad ogni modo, il totale delle royalties accreditate alla sola

Regione Basilicata nel periodo 2008-2014 è pari a 788 milioni di euro,

mentre complessivamente, in 14 anni, la Basilicata ha ricevuto royalties per

oltre 1 miliardo di euro (Ministero dello Sviluppo Economico, 2015). Più di

recente, oltre alla tradizionale quota proveniente dalle royalties, ai cittadini

lucani in possesso di patente di guida che ne abbiano fatto richiesta è stato

accreditato il cosiddetto “Bonus Idrocarburi”, una carta prepagata sulla

quale viene di volta in volta versata una somma in base al reddito

individuale, destinata alla diminuzione del prezzo alla pompa dei carburanti.

Page 27: TESI FINALE

26

Il bonus è finanziato dalle compagnie petrolifere con un’aliquota extra

sul prodotto pari al 3% (da aggiungere al 7% versato in termini di

royalties). Un dibattito acceso si è sviluppato anche dopo la

concessione di questo particolare contributo, in quanto si ritiene che lo

stesso finanzi comunque le multinazionali del petrolio e che, inoltre, il

bonus non sia coerente con gli obiettivi di equità sociale. Esso può

interessare, infatti, famiglie all’interno delle quali ci siano più

patentati, mentre non tiene conto delle famiglie nelle quali vi sono

meno patentati, ma che magari sono più povere (dato che ci si basa sul

reddito individuale) ed ancor peggio non può essere utilizzato in alcun

modo dagli indigenti che non posseggono automobile. E’ per questo

motivo che la Regione Basilicata si è impegnata, di concerto col

Governo, per trasformare il suddetto bonus in una social card con la

quale si possano effettuare acquisti in beni e servizi. Tuttavia, l’attuale

Consiglio Regionale si sta impegnando per utilizzare parte dei fondi

che erano destinati al finanziamento della card idrocarburi per il

sostegno ai Comuni lucani in difficoltà. Tornando alle ricadute delle

royalties sull’economia lucana secondo gli interventi programmati,

esse si verificheranno (e si sarebbero già dovute verificare) nel

miglioramento del tessuto produttivo lucano, nella formazione

professionale, in incentivi al mercato del lavoro, nelle infrastrutture e

nei servizi in materia ambientale e turistica. Va comunque

riconosciuto l’effetto positivo che tali finanziamenti hanno avuto sugli

operatori del settore agroalimentare, che hanno avuto facilitazioni

negli iter di riconoscimento di marchi europei per molteplici prodotti.

Se si esaminano però i capitoli di spesa relativi alle royalties, si nota

che esse hanno finanziato prevalentemente le spese correnti della

regione, piuttosto che i progetti di sviluppo programmati.

Page 28: TESI FINALE

27

Come si vede dalla Fig. 5, infatti, al 2012 risultano impegnati 764, 3 milioni

di euro di cui 6,6 milioni per servizi generali dell’amministrazione, mentre

quasi 40 milioni sono stati utilizzati per “disavanzi sanità”. Ma anche i

capitoli di spesa congruenti con quanto programmato e previsto dagli

accordi comprendono al loro interno voci relative a spese correnti di settore,

come nel caso dei trasporti e di istruzione e formazione.

Page 29: TESI FINALE

28

Solo 1,4 milioni di euro su 56,4 milioni, ad esempio, sono stati impegnati

per progetti legati all’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili e

alla incentivazione dello sviluppo di attività imprenditoriali nel campo del

riciclo di materiali recuperati dai rifiuti, mentre circa 34 milioni sono stati

impegnati per la riduzione del costo dell’energia e la riduzione delle

emissioni clima alteranti. Solo 202 mila euro, poi, sono stati impegnati per

il miglioramento della qualità del lavoro, mentre lo 0,1% delle risorse

totali è stato impegnato per l’occupabilità, lo 0,3% per l’inclusione sociale,

lo 0,4 % per il capitale umano, lo 0,4% per l’accessibilità, il 4,8% per i

trasporti, lo 0,8% per la “società della conoscenza”, che prevede interventi

relativi alla diffusione della banda larga e l’incremento delle tecnologie per

la ricerca, oltre che investimenti nell’ICT per la pubblica amministrazione,

il 2,6% per il sostegno alle PMI, il 5,9% per istruzione e formazione

professionale. Lo 0,5% è stato impegnato per interventi per il

miglioramento della competitività produttiva, lo 0,3% per la valorizzazione

dei beni culturali, lo 0,3% ai sistemi urbani, lo 0,8% alla viabilità, mentre 7

milioni di euro (lo 0,9%) sono stati impegnati per il sostegno all’Università

di Basilicata e al sistema regionale di ricerca scientifica. Invece, l’8,7%

(oltre 67 milioni di euro) è stato impegnato per il piano di forestazione.

Insomma, per quanto riguarda gli impegni relativi a questioni sociali

rilevanti per il singolo cittadino (PMI, occupabilità, inclusione sociale,

trasporti e capitale umano), vi è stata impegnata una cifra che ammonta a

circa il 10% del totale (Corte dei Conti, 2014). Interessante, però, è anche

l’analisi relativa all’impatto socioeconomico del petrolio attraverso SAM

(social accounting matrix), una matrice in grado di considerare gli effetti

diretti, indiretti e indotti di un determinato “intervento economico”. Da

essa è emersa la fondamentale importanza dei servizi, che rappresentano

oltre il 50% dell’intera produzione regionale (70% del PIL), mentre

industria e costruzioni seguono con il 45% della produzione (26% del

PIL). L’agricoltura, invece, contribuisce per un 3% in termini di

produzione e PIL.

Page 30: TESI FINALE

29

L’analisi relativa alle royalties, che si rifà agli incassi complessivi del

periodo 2007-2010, pari a 636 milioni di euro e al Programma Operativo

Val d’Agri (POV), avente un budget di 349 milioni di euro, testimonia come

il settore delle costruzioni sia stato quello più incentivato da tali sussidi, con

stanziamenti pari a 75 milioni di euro. Invece, nel caso della erogazione a

sostegno di investimenti produttivi, il maggior beneficiario è stato il settore

agricolo, con il 47,4% (Landi, Rocchi, Stefani, 2012). Secondo il Modello

SAM, grazie a POV e royalties ha avuto luogo un incremento della

produzione di circa mezzo miliardo di euro, con un’occupazione generata

parti a 5.300 unità di lavoro annuale a tempo pieno (circa il 2,9% del totale

degli occupati lucani). Il dato, che di certo non rispecchia le aspettative di

sviluppo inizialmente derivanti dalle attività estrattive, riporta chiaramente

alcuni punti cardine delle stesse attività, che cioè sono capital intensive e

coinvolgono personale altamente specializzato. Ad ogni modo, come

riportato nelle conclusioni dello studio: “Pur trattandosi di valori rilevanti

in senso assoluto, soprattutto in tempi di crisi economica, si tratta tuttavia

di risultati deludenti e sicuramente inferiori alle potenzialità, anche

considerando che si tratta solo di effetti di breve periodo”, e quindi, sempre

stando a quanto riportato “[…] si può ragionevolmente ipotizzare che

l’utilizzazione delle royalty sia servita solo a limitare i potenziali effetti

negativi del rallentamento che l’economia italiana ha mostrato nell’ultimo

decennio” e “In assenza di una significativa crescita della domanda

proveniente dall’esterno del sistema economico regionale, la semplice

utilizzazione delle royalty per qualsiasi programma di interventi possa

essere predisposto, non solo produrrebbe un effetto non duraturo nel tempo,

ma non sarebbe nemmeno in grado di portare ad una crescita significativa

nel breve periodo” (Landi, Rocchi, Stefani, 2012). E’ proprio una logica di

finanziamento slegata da un’idea di sviluppo duraturo e coerente che si

vuole evitare attraverso il POV, che ha come obiettivo il potenziamento

Page 31: TESI FINALE

30

delle infrastrutture del comprensorio, il miglioramento della vivibilità e della

qualità ambientale e un’inclusione lavorativa coerente con l’avvio del parco

Nazionale della Val d’Agri.

Page 32: TESI FINALE

31

Conclusioni

La prima considerazione da fare al termine della tesi riguarda la

salvaguardia ambientale, lo sviluppo e la coesione territoriale delle località

interessate dalle attività estrattive, come appunto la Basilicata, regione

fortemente votata all’agricoltura, all’allevamento e al turismo, tutte attività

che potrebbero essere negativamente influenzate dalle estrazioni. Inoltre,

non va trascurata la dimensione economica. Infatti, il prezzo del petrolio sta

conoscendo nel 2015 un drastico calo e va valutato, quindi, cosa potrebbe

accadere se esso continuasse a scendere o se si stabilizzasse su livelli di

prezzo ritenuti bassi. Le politiche governative, a quel punto, potrebbero

risultare anacronistiche e non ottimali, in quanto se il prezzo del petrolio

continuasse a ridursi, la bilancia commerciale conoscerebbe una riduzione

della voce di spesa relativa alle importazioni. A quel punto, però, i territori

interessati dalle attività estrattive potrebbero risultare gravemente

compromessi, mentre la loro funzionalità verrebbe meno. Se il prezzo del

petrolio riprendesse a salire, invece, nonostante l’aumento delle estrazioni

sul territorio nazionale, rimarrebbe una dipendenza dalle importazioni pari

all’80-90%, che continuerebbe a significare un consistente capitolo di spesa

relativo alle importazioni. Comunque, dalla tesi è emerso che in Basilicata si

estrae la quasi totalità del petrolio estratto sulla terraferma italiana, da cui la

Regione ha ottenuto oltre 1 miliardo di euro negli ultimi 15 anni. Tuttavia, lo

sviluppo ha stentato a decollare, come dimostra il 15% di disoccupazione

totale, il crollo del numero di imprese, la pessima dotazione di infrastrutture

materiali e immateriali (al di sotto persino della media del Mezzogiorno), il

calo demografico degli ultimi anni, oltre che l’invecchiamento della

popolazione, entrambi indici delle continue migrazioni dei giovani lucani.

Questo perché le royalties sono state utilizzate soprattutto per finanziare

spese correnti, mentre probabilmente sarebbe stato più opportuno dedicare

maggiori risorse alle spese in conto capitale.

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Inoltre, viva e importante risulta la questione ambientale, dato che in

Basilicata ci sono 890 siti inquinati, come stabilito nel 2000 dalla

Commissione Bicamerale sul ciclo dei rifiuti. L’osservatorio ambientale,

invece, sembra essere diventato operativo solo adesso e il monitoraggio

ambientale è stato spesso debole o carente. Infine, è emerso come la questione

giovanile e femminile sia fortemente attuale, mentre gli indicatori economici

riportano una certa conformità (negativa) alla media del Mezzogiorno.

Probabilmente, le royalties hanno attenuato in parte gli effetti negativi della

crisi economica, ma non hanno prodotto quanto ci si aspettava. E’ evidente,

dunque, che solo una gestione più accurata delle risorse impegnate dalle

compagnie, una reale attuazione dei piani, dei patti e dei progetti condivisi

con un dibattito ampio, trasparente ed aperto potrebbero garantire delle reali

ricadute sull’economia locale. A tal proposito è necessario ricordare il ruolo

fondamentale che hanno sia la politica che le compagnie petrolifere. La

prima, infatti, deve essere in grado di pianificare ed elaborare insieme a

cittadini, esperti e associazioni, le politiche di sviluppo più confacenti alle

vocazioni territoriali, senza dimenticarsi della impellenti questioni ambientali,

sociali ed economiche. Le compagnie, invece, devono garantire il loro

apporto in termini di investimenti e, inoltre, assolvere i loro doveri di rispetto

dei vincoli economici ed ambientali. Più trasparenza, da questo punto di vista,

significherebbe un importante passo verso le esigenze di tutti i cittadini

lucani. I cittadini, infine, avranno l’arduo compito di controllare

l’applicazione dei patti e degli accordi, stando bene attenti alle voci di spesa

in cui le royalties vengono impiegate di anno in anno, in modo tale che esse

vadano davvero ad influenzare la spesa per investimenti, piuttosto che, come

avvenuto sino ad ora, a colmare lacune e mancanze relative alle spese

correnti.

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FONTI BIBLIOGRAFICHE

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2014, Deliberazione n. 71/2014/PRS, Potenza.

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http://www.istat.it/it/basilicata;

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