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Tesina di maturità 2013 - mfocaccio.files.wordpress.com · Scegliete la buona salute il...

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Tesina di maturità 2013
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Tesina di maturità2013

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La bellezza di un viaggio non consiste nel giungere alla meta; è il tragitto lungo il quale cammini, mentre lo immagini.

Mario Focaccio

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Scegliete la vita Scegliete un lavoro Scegliete una carriera Scegliete la famiglia Scegliete un maxy televisore del cazzo Scegliete lavatrice macchine lettore cd e apriscatole elettriciScegliete la buona salute il colesterolo basso e la polizza vita Scegliete un mutuo a interessi fissiScegliete una prima casa Scegliete gli amici Scegliete una moda casual e le valigie in tintaScegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con la stoffa del cazzoScegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina Scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare alla fine Scegliete di marcire di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi Scegliete un futuro Scegliete la vita.

Ma perché dovrei fare una cosa così.Io ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos’altro.Le ragioni?Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'immaginazione.

(Discorso introduttivo tratto dal film Trainspotting - Irvine Welsh).

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Quante volte ho sentito queste parole. Non riesco neanche a ricordarle tutte. Eppure la mia quotidianità era contornata da simili parole, oltre che dal tedio, dalla pigrizia e dalla rasse-gnazione per la vita. Tutti dicevano che se avessi continuato a rifugiarmi nella mia immaginazione non sarei riuscito a vincere contro di essa. Eppure eccomi qua, ancora vivo, a riempire di parole questi fogli bianchi. Nella mia vita, seppur breve, ho visto centinaia di fogli. Mai uno che avesse attirato la mia attenzione: neanche una singola parola. Ecco da dove nasce la mia ispirazio-ne di scrittura: voglio cambiare. Non voglio cambiare il mondo, voglio umilmente cercare di capire quali siano le problematiche legate al Paese chiuso e tradizionalista che mi ha cresciuto e da cui, non mi pento di essermi distaccato, almeno ideologicamen-te. Prima di capire se la relazione lecito=buono e illecito=catti-vo è applicabile ai giorni nostri e all'umanità in genere, vorrei descrivere, attraverso una lente meramente soggettiva, come la società (odierna e non) sia imprescindibilmente legata allo sto-ricismo. Per fare ciò ho richiesto aiuto al filosofo politico Karl Popper e alla sua ideologia democratica-liberale. Nel corso della sua formazione, infatti, egli assume ad obiettivo polemico lo sto-ricismo. Secondo "l'autore della Logica della scoperta scientifica" (25 Giugno 2003 - Corriere della Sera, Vecchi Gian Guido) lo storicismo non è altro che la secolarizzazione di una supersti-zione religiosa, secondo cui tutto quel che accade è risultato dei propositi di determinati individui o gruppi. La credenza che la storia sia una totalità retta da leggi necessarie (Popper infatti af-fianca lo storicismo ad una forma di olismo, non esprimibile cioè mediante le sue parti) è tipica dello storicismo. Fra storicismo, essenzialismo e totalitarismo Karl Popper trova un tratto comu-ne. Ritenendo, come fa l’essenzialismo, che la verità possa essere integralmente posseduta, allora la conseguenza imprescindibile è l’autoritarismo, la cui forma degenerativa è il fanatismo, fon-dato sulla convinzione che solo chi è malvagio rifiuta di ricono-scere la verità e di sottomettersi ad essa. A conclusioni analoghe perviene il pessimismo epistemologico (branca della filosofia identificata con la filosofia delle scienze): la sfiducia dell’uomo

FILOSO

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porta all’esigenza di stabilire un’autorità ed una tradizione che lo salvino dalla sua follia e dalla sua malvagità. A queste imposta-zioni corrispondono, secondo il filosofo, i tipi di società “chiuse”. Esse sono caratterizzate dal predominio della totalità del corpo sociale sugli individui e da un insieme compatto di credenze in-discutibili, fondate su autorità altrettanto indiscutibili. Ad esse Popper contrappone un’utopica società aperta. In essa spadro-neggia l’atteggiamento razionale della libera discussione criti-ca. Presupposto di essa è il riconoscimento che dovremo vivere per sempre in una società imperfetta e che nessuna società può esistere senza una crisi di valori. Lo Stato appare quindi come un male necessario, in cui non è possibile porsi la domanda chi deve comandare; bensì come sia possibile riorganizzare gli orga-ni politico - legislativi - giudiziari - economici. Per rispondere a tal quesito dobbiamo porci come obbiettivo quello di limitare e prevedere i danni che potrebbero causare governanti cattivi o incompetenti. Il potere deve essere controllato. Nell’ottica Pop-periana quindi la democrazia liberale risulta la forma migliore, non perché la maggioranza abbia sempre ragione, ma perché sembrerebbe il male minore. In questa società-tipo l’agire politi-co si configura come una tecnologia politica che ha il compito di correggere passo-dopo-passo gli errori commessi. Il loro meto-do deve consistere nell’analisi situazionale la quale comprende e spiega le azioni umane particolari come soluzioni relative a spe-cifiche situazioni problematiche, sulla base di determinate scelte di valore. Parlando di Karl Popper ed illustrando quale sia la sua concezio-ne di storicismo, vorrei citare il passo di un articolo di giornale tratto dall’Archivio storico del corriere.it scritto da Gian Vecchio Guidi:

«E adesso parliamo di Popper», esordisce l’ insegnante di filosofia, la classe sghignazza e lui si chiede cosa diavolo ci sia di comico nell’ autore della Logica della scoperta scientifica. È successo di recente in un liceo e in fondo non c’ è nulla di strano: nel supermercato della droga di Milano, dove il 57 per cento dei ragazzi ha provato

FILOSO

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almeno una volta uno stupefacente e una buona metà lo ha fatto di nuovo, è chiaro che «popper» evochi più che altro uno dei tanti modi per sballare, con buona pace di sir Karl Popper, il filosofo. Il popper è un vasodilatatore che usavano i malati di angina, e come la cocaina, le anfetamine o l’ ecstasy, mescolati a cocktail e superal-colici vari, serve a «tirarsi su», a eccitarsi, un bel viaggetto che può cominciare con l’ happy hour, a scuola, in discoteca, in ufficio, in-somma dappertutto e a disposizione di chiunque. Una pillola, una fiala, una bella bevuta e via, si aumentano le «performance» e ci si beve pure il cervello. Perché è questa la novità, «non c’ è più il luogo dove si spaccia, non esistono categorie particolari di disagiati». Lo spacciatore e il tossico che si ritrovano nella piazzetta fanno tanto anni Settanta, «ora ci sono l’ ipermercato e i suoi “consumatori”», spiega Riccardo Gatti, responsabile del servizio tossicodipendenze dell’ Asl di Milano. «È simile al passaggio dal commerciante alla grande distribuzione, il mercato è cambiato, la droga viene propo-sta come un prodotto qualsiasi, è la tecnica del marketing. Anche i ritmi psichedelici di certi spot strizzano l’ occhio allo “sballo leci-

to”». Sono messi male, i «consumatori».

Presupposto quindi che l’Istituzione Scolastica Italiana dovreb-be rientrare nel prototipo di società aperta, vorrei procedere ad analizzare il fenomeno ormai noto della droga senza suscitare scalpore nei lettori.Ma non sarà la canonica discussione trita e ritrita che ascoltiamo quotidianamente. Sarà un viaggio attraverso un’esperienza di-retta, che riporterò in prima persona, confidando che essa sarà, come lo è stata per me, utile ed istruttiva. Scriverò con questa speranza, e sarà questa la mia scusa se verrò a mancare a quella dignitosa e delicata vergogna che ci trattiene dall’esporre pubbli-camente gli errori e le debolezze umane.

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Ricordate quel che dissi all’inizio? Tutti volevano qualcosa, ognu-no mi proponeva una strada da seguire, secondo lui la miglio-re, lasciando che fossero loro a decidere per me e il mio futuro. Nessuno però mi aveva mai mostrato i lati negativi dei loro pro-getti. Decisi di mandare tutto a quel paese: non ce la facevo ad ascoltare centinaia di voci, decisi di ascoltarne solo una, la mia. Ma non era proprio la mia voce: aveva lo stesso timbro, la stessa sensualità, la stessa insicurezza ma a parlare non era un uomo ra-zionale, riflessivo o produttivo. Era un continuo flusso di parole spontanee e sincere, buttate a caso qui e là, spesso senza un nesso logico. Eppure faceva paura alle persone quella spontaneità che solo un bambino sa avere, avevano paura della verità. Per evitarla allora mi discriminavano, un po’ come si è discriminata tutta la droga in generale. Cosa si pensava di me? Un rifiuto da scartare e mettere in quarantena.

Tutti abbiamo udito la donnetta che dice: “oh, è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga è una cosa tremenda.” poi tu la guardi, la donna che parla in questo modo: è senza occhi, senza denti, senza cervello, senz’anima, senza culo, né bocca, né calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avran fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini

e la chiesa. (Charles Bukowski)

A pensarci bene io non mi sono mai considerato un rifiuto. Ho sempre preferito identificarmi con l’immagine di un pescatore solitario e speranzoso, che trova nella pesca e nella sottile arte dell’attesa una via di fuga dalla realtà circostante. Grazie alle sue doti di abile pescatore, egli infatti riesce a proiettare la sua mente in un mondo immaginario, nel quale si rifugia e vive. La pesca è infatti per un pescatore l’unica fonte di guadagno, che gli permet-ta di vivere, pur essendo essa stessa affidata al caso. Il bello della vita è proprio l’incertezza, il filo del rasoio, la sottile linea separa-trice di vita e morte. Eppure c’è chi tenta di trovare una soluzione all’incertezza, trasformando quel tranquillo pescatore in un

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marinaio, affidandogli mille strumenti che gli facilitino il lavoro, che gli assicurino un lavoro, una stabile condizione economico e abolendo quelle intense emozioni messe in moto magari dalla pesca di una piccola sogliola. Perché accontentarsi di una sogliola quando puoi avere un pesce spada? Saranno certamente molte le bocche che potrai sfamare con un pesce spada, con il tuo nuovo lavoro; ma, vi siete mai chiesti cosa rimpiazzerà la sensazione di serenità che vi trasmet-teva quella passione? Cosa sostituirà mai l’orgoglio di aver pescato una piccola soglio-la? In cosa ci rifugeremo quando avremo bisogno di parlare con noi stessi? Dove?Lo scoglio da cui stavamo pescando è stato abbattuto, come fosse un’opera pubblica piuttosto che il frutto della Natura, e non cre-do che una nave affollata di anime in pena, come la nostra, sia il luogo adatto. È necessario quindi creare luoghi appositi, dove le persone siano libere di entrare ma non di osservare, specialmen-te se da tale osservazione se ne deduce un cattivo giudizio.Allora la chiameremo Chiesa, o religione. Siamo quindi tutti uguali, con gli stessi diritti: se ci viene fatto un torto dobbiamo esser pronti a porgere l’altra guancia, sperando che anche questa non venga colpita, in attesa del giorno in cui vivremo beati fra gli angeli e i santi. Sembra già di vederli im-mersi in questa gigantesca coltre di fumo che si sta innalzando: gli angeli.Anch’essi sono composti da questa sostanza grigiastra, li vedo, ne posso avvertire perfino l’odore. È buonissimo! A sentirne il pro-fumo mi vien voglia di tuffarmi fra di loro cosicché anch’io pos-sa ridere delle disgrazie umane. Un respiro a pieni polmoni: mi immergo. Non riesco a stare molto senza respirare. Aver aspira-to tutta quella roba mi ha improvvisamente appesantito, sembra di tenere un macigno fra i polmoni. Non riesco a trattenermi, è troppo aspro questo maledetto sapore. Inizio a tossire e continuo a farlo, sento gli occhi appesantirsi, quasi come se le palpebre venissero abbassate con un telecomando mentre il volume della

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musica si alza. Maledizione! Non ho neanche la forza di parlare, vorrei tanto un sorso d’acqua. Chi ha bisogno dell’acqua ora, pre-ferisco addormentarmi! Voglio fuggire, voglio che questo divano sparisca, che sparisca anche questa misera televisione e questa fottuta scrivania. Siamo io, la mia mente ed il mio corpo. Non parliamo noi, non ne abbiamo bisogno. Eppure questo maledetto oppio mi obbliga a vagare e a restare immobile, quasi come se fossi di pietra, insensibile alle emozioni ed i sentimenti. Come un abile burattinaio dona forma ai miei pensieri, lasciando che essi fluiscano attraverso questa penna. Ricordo una frase che un giorno disse la prof. di filosofia durante una spiegazione: la religione è l’oppio dei popoli. Aveva proprio ragione. A pensarci bene la religione è per molti aspetti simile all’oppio. Essa offusca e confonde la mente degli uomini impedendo loro di agire secondo razionalità e portandoli a compiere azioni ed affermazioni inconsulte. Essa, come il singhiozzo che mi è stato causato dalla mia dose, opprime l’uso della parola e mi fa sentire quasi come se fossi un uomo senza cuore. Ma è la religione ad esser senza cuore: ad essa si affidano uomini che scelgono di non seguire più le proprie idee, bensì vivono in funzione di leggi ed obblighi morali già previsti e stabiliti. Perché mai dovrei seguire anche io queste leggi? Non sono stato io ad inventare l’oppio, è stato l’uomo a crearlo. Esso infondo non è altro che la fusione tra elementi naturali e lo spirito di ricerca dell’uomo. Stesso discorso vale per la religione: è l’uomo che fa la religione, e non è la religione che fa l’uomo. Essa non è altro che la realizzazione fantastica dell’essenza uma-na, il desiderio inconscio di ogni uomo, l’immortalità. La reli-gione è il sospiro della creatura oppressa, è l’anima di un mon-do senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito. Perché mai io, uomo fatto di materia, che provo sentimenti sì forti da causarmi dei malesseri, dovrei obbedire a leggi create dall’uomo? Perché dovrei divinizzare un’illusione che non appartenga al frutto della mia mente perversa? È l’uomo ad esser Supremo, non la mia idea, non quella che creo, ma io che la

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o ho il potere di fare tutto: si chiama immaginazione. Feuerbach sottolineava il carattere pericolosamente conservato-re della religione; in essa, l’uomo tende a diventare schiavo, a sentirsi dipendente da un’ente superiore, e uno schiavo incatena-to nel mondo delle idee diventa inevitabilmente anche schiavo nella realtà materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio diventasse anche schiavo di un padrone materiale. Secondo Marx, l’uomo ricorre alla religione perché materialmente insod-disfatto e trova in essa, quasi come in una droga (oppio), una condizione artificiale per poter sopportare meglio la situazione materiale in cui vive. Mi chiedo allora quale sia la colpa attribuita ad un povero uomo che invece di beneficiare dei frutti prodotti dalla religione, pre-ferisce immergere i suoi pensieri nelle sì dette droghe, il frutto della Natura.

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“La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente”Fernando Pessoa - Il poeta è un fingitore.

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Riflettendo sulla frase del Pessoa, nella mia mente iniziano ad affiorare le immagini di Dante, del suo mirabolante viaggio ul-traterreno, del suo cammino verso la salvezza, la luce divina.Dal punto di vista religioso, infatti, la vita terrena non è altro che un viaggio. Esso può essere considerato di salvezza o dannazione in relazione al rispetto delle leggi divine avuto nello stesso. Ri-spettare le leggi, o comandamenti, significa infatti assicurarsi un posto in prima fila verso la salvezza, la redenzione, la vita eterna.Fatti tuoi invece se i cosiddetti comandamenti non vengono ri-spettati: in prospettiva futura sarai condannato, secondo la gra-vità dei tuoi peccati, a vivere per sempre fra le fiamme e l’oscurità che caratterizzano appunto quel posto. Si è dato così un nome ai luoghi dove le nostre anime, un giorno, saranno collocate: il primo è Paradiso, il secondo è Inferno. Il viaggio dell’aldilà rappresenta così il desiderio dell’uomo di conoscere il proprio futuro e il proprio ruolo nel mondo e nella società e, insieme, di vedere quale vita ci attende post-mortem. Per Dante Alighieri il mondo fa parte dell’oltretomba, perciò lo scopo della vita dell’uomo è la possibilità di raggiungere Dio dopo la morte. Il pellegrino medievale, Dante, compie il viaggio dell’aldilà per conquistare la salvezza e conoscere la propria mis-sione: essere la guida di un rinnovamento spirituale che possa portare a rifondare la cristianità. Ce ne parla nella sua più im-portante opera scritta intorno al 1304: la Comedìa, conosciuta anche come Commedia o Divina Commedia. Scritta in terzine incatenate di versi endecasillabi, il poema è diviso in tre parti o cantiche, ognuna delle quali è composta da 33 canti. Si divide quindi, in ordine, in: Inferno, Purgatorio e Paradiso.Fin dalla sua prima pubblicazione l’opera riscuote un considere-vole successo, contribuendo in maniera significativa e definitiva al processo di consolidamento del dialetto toscano come lingua italiana. L’opera, pur essendo di tratti fortemente medioevali (ba-sti pensare all’ispirazione religiosa, al fine morale, al linguaggio e allo stile basati sulla percezione visibile e immediata delle cose) è profondamente innovativa grazie alla sua forte tendenza di de-scrivere drammaticalmente la realtà.

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l titolo originario era probabilmente Comedìa; solo in seguito verrà attribuito all’opera l’aggettivo Divina con Giovanni Boc-caccio. Per spiegare il titolo conferito all’opera, Dante Alighieri, nell’epistola indirizzata a Cangrande della Scala ribadisce:

Incipit Comedia Dantis Alagherii, Florentini natione, non mori-bus.

Risultano quindi due i motivi addotti per spiegare il titolo dell’o-pera: il primo è di carattere letterario, secondo cui col nome di commedia era usanza definire un genere letterario che, da un inizio difficoltoso per il protagonista, si conclude con un lieto fine. Il secondo è di carattere stilistico, infatti nonostante l’opera sia impregnata di toni sublimi, essa non è scritta in latino bensì in volgare fiorentino, rifiutando i canoni medievali secondo cui la lingua latina era la fertile madre della cultura. Il racconto dell’Inferno, la prima delle tre cantiche, si apre con un proemio introduttivo in cui Dante Alighieri narra in prima persona del suo smarrimento spirituale. In forma allegorica lo smarrimento spirituale del pellegrino è descritto dalla selva oscura (allegoria del peccato) nella quale era giunto dopo aver smarrito la retta via del cammino. Alcuni studiosi ritengono che Dante si senta colpevole, più degli altri, del peccato di lussuria, che infatti nell’Inferno e nel Purgatorio è posto sempre come il meno grave fra i peccati puniti. Dalla collina di Gerusalemme su cui si trova la selva, Virgilio condurrà Dante attraverso l’inferno ed il Purgatorio perché attraverso questo viaggio la sua anima possa risollevarsi dal male in cui era caduta. Poi Beatrice pren-derà il posto di Virgilio, sarà lei la guida di Dante nel Paradiso. Virgilio, nel racconto allegorico, rappresenta la ragione, ma la ragione non basta per giungere fino a Dio; è necessaria la fede, e Beatrice rappresenta tale virtù. Virgilio inoltre, non ha cono-sciuto Cristo, non è battezzato e perciò non gli è consentito di avvicinarsi al seggio dell’Onnipotente.Il Paradiso è l’ultima delle tre cantiche della Commedia. La sua struttura è costruita intorno al sistema geocentrico di Tolomeo;

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mentre Inferno e Purgatorio trovano collocazione sulla super-ficie della Terra, il Paradiso è un mondo a sé, immateriale ed etereo. Esso, riprendendo il sistema tolemaico, è diviso in nove cieli; i primi sette prendono il nome dal sistema solare: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno gli ultimi due in-vece sono costituiti dalle stelle fisse e dal primo mobile. Vorrei concentrare l’attenzione di voi lettori su un canto del Pa-radiso, confidando ch’esso sia, come lo è stato per me, uno spun-to di riflessione circa le diverse inclinazioni di ognuno. Per far ciò vorrei iniziare partendo da una terzina che mi ha col-pito particolarmente:

Sempre natura, se fortuna trovaDiscorde a sé, com’ogne altra semente

Fuor di sua region, fa mala

Una delle anime si fa più vicina al poeta, affermando di esser pronta, come gli altri beati, a presentarsi e soddisfare ogni sua richiesta. Il beato dichiara inoltre di aver vissuto troppo poco tempo sulla Terra e perciò ora vi sono così tanti mali. Uno di questi è sicuramente quello su cui riflette Dante:

Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,Poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso

Com’esser può, di dolce seme, amaro.

Carlo Martello risponde dicendosi pronto ad illuminare Dante con la verità e spiega che Dio, che fa ruotare i cieli del Paradiso, fa che la sua Provvidenza diventi virtù operante negli astri. Dio quindi determina non solo le nature umane per la loro essenza, ma anche per il loro fine nel mondo, per cui ogni cosa stabilita dalla Provvidenza si avvera in base ad un determinato scopo. Carlo spiega a Dante che l’uomo sulla Terra dev’essere prima di tutto cittadino, e ciò richiede che gli stessi uomini ricoprano di-verse funzioni e mestieri.

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Dunque è inevitabile che l’indole degli uomini sia di volta in volta diversa, per cui uno nasce re (Serse) e qualche altro nasce legislatore (Solone). La virtù dei Cieli opera queste distinzioni, ma non distingue tra le varie casate: perciò Esaù risulta total-mente diverso rispetto al fratello Giacobbe. Se la Provvidenza divina non operasse in tal modo, i figli seguirebbero le orme dei padri e ciò non sarebbe utile alla società. Se gli uomini, aggiunge Carlo, badassero di più alle inclinazioni naturali di ciascuno, si avrebbero persone più rette ed adatte alla loro fun-zione. Invece il mondo, aggiunge, forza a diventare monaco chi sarebbe nato per diventare guerriero, e costringe a diventare re chi sarebbe tendente verso la vita religiosa, per cui il cammino degli uomini è fuori dal percorso tracciato da Dio.

All’interno della società moderna però, l’uomo che tenta di se-guire le naturali tendenze o inclinazioni, è costretto ad un esilio spontaneo. Esso può esser causato, ad esempio, dalla perversa ed intensa ricerca di profondi valori spirituali e/o morali, che evidentemente non sono facilmente individuabili all’interno della società. Essa, protettrice di valori come l’utile, l’interessan-te e del senso pratico, appiattisce tutti gli uomini, rendendoli tutti uguali e annichilendo le particolari inclinazioni di ciascu-no.

Chi, nel corso della sua dissestata vita, rifiuta i canoni, le leggi, gli usi ed i costumi imposti dalla società, è per natura un ma-ledetto se non un criminale. Egli viola le condizioni, i valori, le evidenze normalmente diffuse dalla società e consapevolmente (o sadicamente) ne ricerca la scomunica.

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Accade talvolta che la personalità scompaia e che l’oggettività si sviluppi in voi in modo così anormale, che la contemplazione degli oggetti esteriori vi faccia dimenticare la vostra stessa esistenza, e che vi confondiate presto con loro. Il vostro occhio si fissa su un albero armonioso piegato dal vento, in po-chi secondi quella che nel cervello di un poeta sarebbe solo una similitudine nel vostro cervello diventerà realtà. Prima prestate all’albero le passioni, il desiderio o la malinconia che provate; i suoi gemiti, il suo ondeggiare diven-

gono i vostri, ed ecco che voi siete l’albero....

Vi immaginiamo seduti a fumare. La vostra attenzione indugerà un po’ troppo sulle nuvole bluastre che esalano dalla vostra pipa. L’idea di una eva-porazione lenta, successiva, eterna s’impadronirà del vostro spirito, e presto l’applicherete ai vostri pensieri, alla vostra materia pensante. In virtù di un equivoco singolare, una sorta di trasposizione o di qui pro quo intellettuale, vi sentirete evaporare e attribuirete alla vostra pipa (nella quale vi sentite

accucciato e pigiato come il tabacco) la strana facoltà di fumarvi.

Sono queste le parole che Charles Baudelaire scrisse nella suo saggio Paradisi Artificiali del 1860. Il soggetto diventa quindi l’oggetto che si sta guardando. Risulta così stravolta proprio la facoltà del soggetto di stabilire sempre una distanza di sicurezza dagli oggetti, di distinguerli con logica analitica ed inqua-drarli.Questa effetto della droga dovrebbe apparire congeniale a chi come Baudelaire ha rivoluzionato la lirica proprio con la scelta di una poesia oggettiva, in cui l’io si manifesta, identificandosi di volta in volta con vari emblemi: dall’ “Albatros” al “Gabbiano Jonathan Livingston”.

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Il piccolo e anticonformista Gabbiano Jonathan riesce ad intravedere una nuova via da poter seguire, una via che allontana dalla banalità e dal vuoto del suo precedente stile di vita, e comprende che oltre che del cibo un gabbia-no vive “ della luce e del calore del sole, vive del soffio del vento, delle onde

spumeggianti del mare e della freschezza dell’aria.”- Richard Bach.

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Ancora una volta la droga conferma la sua natura benevola, si colloca sul versante positivo dell’attività umana, in opposizione alle energie negative del lavoro e dell’utile. Tuttavia secondo questo punto di vista, la droga non è solo fonte di alie-nazione, ma diviene uno strumento attraverso il quale, l’essenza umana può concentrarsi meglio, analizzando più non solo la superficialità del mondo circostante, bensì le dona forma, sentimenti e passioni. È così che vengono ad incontrarsi la predicazione della Chiesa e del Van-gelo, e la realtà moderna. Per vivere è necessario amare il prossimo, trovare del buono in ogni cosa, nonostante questa cosa (che in questo contesto assume il significato di società di massa) abbia ferito i tuoi sentimenti, la tua persona, e abbia cercato di plasmarti secondo sua volontà.

“Ma dì un po’, come fai ad amare una tale marmaglia di uccelli che ha ten-tato addirittura d’ammazzarti?”

“Oh, Fletch, non è mica per questo che li ami! È chiaro che non ami la catti-veria e l’odio, questo no. Ma bisogna esercitarsi a discernere il vero gabbia-no, a vedere la bontà che c’è in ognuno, e aiutarli a scoprirla da se stessi, in se stessi. È questo che intendo io per amore. E ci provi anche gusto, una volta

afferrato lo spirito del gioco.”- Richard Bach.

Dobbiamo amare quindi tutto ciò che la natura ci offre, tutto ciò che Dio ha creato.

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Ma non sarà Bach il primo a dircelo.Già in passato, circa nel 1798, ne parlò Samuel Taylor Coleridge nel suo poemetto intitolato “The Rime of the ancient Mariner”.

In ambito musicale, gli Iron Maiden nel 1984, pubblicarono una canzone dal titolo omonimo. Riporto di seguito il testo della canzone; a mio parere è un’ottima visione interpretativa dell’opera integrale di Coleridge.

ING

LESE

Hear the rime of the ancient mariner See his eye as he stops one of three Mesmerises one of the wedding guests Stay here and listen to the night-mares of the sea.

And the music plays on, as the bride passes by Caught by his spell and the ma-riner tells his tale.

Driven south to the land of the snow and ice To a place where nobody’s been Through the snow fog flies on the albatross Hailed in god’s name, hoping good luck it brings.

Ascolta la ballata del vecchio marinaio

Guarda il suo occhio ne ferma uno su tre

Mesmerizza uno degli invitati al matrimonio

Fermati e ascolta l’incuboDel mare

E la musica continua mentre la

sposa arrivaAffascinati dal suo racconto

E il Mar?naio racconta la sua storia

Spinto a sud verso la terra di

ghiaccio e neveUn posto inesplorato

Attraverso la tempesta di neve vola l’albatro

Benvenuto nel nome di Dio

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And the ship sails on, back to the north Through the fog and ice and the albatross follows on.

The mariner kills the bird of good omen His shipmates cry against what he’s done But when the fog clears, they justify him And make themselves a part of the crime.

Sailing on and on and north across the sea Sailing on and on and north ‘til all is calm.

The albatross begins with it’s vengeance A terrible curse a thirst has begun His shipmates blame bad luck on the mariner About his neck, the dead bird is hung.

And the curse goes on and on at sea And the curse goes on and on for them and me.

‘Day after day, day after day, we stuck nor breath nor motion

ING

LESE

Sperando che sia di buon auspi-cio

E la nave riparte verso il nord

Attraverso la nebbia e il ghiac-cio

E l’albatro li segue

Il Marinaio uccide l’uccello di buon auspicio

I suoi compagni urlano che cosa hai fatto

Ma quando la nebbia svaniscce lo giustificano

E si accollano l’onta del peccato

Navigando su su verso il nord attraverso il mare

Navigando su su verso il nord poi arriva la calma

L’albatro con sè porta una ven-

dettaUna maledizione una terribile

sete li colpisceI suoi compagni lo incolpano

per la sfortuna eGli appendono al collo l’uccello

morto

E la maledizione continua sul mare

E la maledizione continua per loro e per me

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As idle as a painted ship upon a painted ocean Water, water everywhere and all the boards did shrink Water, water everywhere nor any drop to drink.’

There calls the mariner There comes a ship over the line But how can she sail with no wind in her sails and no tide.

See... onward she comes Onward she nears out of the sun See, she has no crew She has no life, wait but here’s two.

Death and she life in death, They throw their dice for the crew She wins the mariner and he belongs to her now. Then... crew one by one They drop down dead, two hundred men She... she, life in death. She lets him live, her chosen one.

‘One after one by the star dog-ged moon, Too quick for groan or sigh Each turned his facce with a

ING

LESE“Giorno dopo giorno, giorno

dopo giorno.Immobili senza un soffio di

vento o un movimentoImmobili come una nave dipin-

ta su un oceano dipintoAcqua acqua ovunque e tutte

Le assi si ritiraronoAcqua a perdita d’occhio ma

non una goccia da bere”S.T. Coleridge (1798-1834)

Laggiù, urla il Marinaio

Laggiù una nave all’orizzonteMa come può muoversi senza

che il ventoLe riempa vele e senza la marea

Guarda... viene verso di noiSi avvicina come se uscisse dal

soleGuarda... non c’è equipaggio

Non c’è vita a bordo ma, aspetta ci sono due

La Morte e la Morte in VitaSi giocano la ciurma a dadi

Lei vince e il Marinaio ora le appartiene

Poi... uno a uno i marinaiCadono morti 200 uomini

Lei.. Lei la Morte in VitaLo lascia vivere lui il prescelto

“Uno per uno alla luce della luna,

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ghastly pang And cursed me with his eye Four times fifty living men (And I heard nor sigh nor groan) With heavy thump, a lifeless lump, They dropped down one by one.’

The curse it lives on in their eyes The mariner wished he’d die Along with the sea creatures But they lived on, so did he.

And by the light of the moon He prays for their beauty not doom With heart he blesses them God’s creatures all of them too.

Then the spell starts to break The albatross falls from his neck Sinks down like lead into the sea Then down in falls comes the rain.

Hear the groans of the long dead seamen See them stir and they start to rise Bodies lifted by good spirits None of them speak and they’re

ING

LESE

Troppo veloci per un sospiro o un gemito

Uno a uno si voltarono con un dolore insopportabile

E con gli occhi maledironoQuattro volte cinquanta uomini

(e non li sentii nè sospirare nè gemere)

Con un tonfo sordo, informi, senza vita

Caddero, uno a uno”S.T. Coldrige (1798-1834)

La maledizione dei loro occhi

continuaIl Marinaio avrebbe preferito

essere mortoAssieme ai serpenti marini

Ma è sopravvisuto come loro

E alla luce della luna pregaChe trovino bellezza non dan-

nazioneLi ha benedetti col cuore

Anche loro figli di Dio

Poi l’incantesimo inizia a sce-mare

L’albatro gli cade dal colloAffondo come piombo nel mare

Poi a turno cade la pioggia

Senti i gemiti dei marinai mortiGuarda si muovono e incomin-

ciano a risvegliarsi

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ifelesss in their eyes

And revenge is still sought, penance starts again Cast into a trance and the ni-ghtmare carries on.

Now the curse is finally lifted And the mariner sights his home Spirits go fromhe long dead bodies Form their own light and the mariner’s left alone.

And then a boat came sailing towards him It was a joy he could not believe The pilot’s boat, his son and the hermit, Penance of life will fall onto him.

And the ship sinks like lead into the sea And the hermit shrieves the mariner of his sins.

The mariner’s bound to tell of his story To tell this tale wherever he goes To teach god’s word by his own example That we must love all things that God made.

ING

LESECorpi sollevati da spiriti beni-

gniNessuno di loro parla

E hanno gli occhi spenti

Ma la vendetta non è finita la sofferenza ricomincia

Cade in una trance e l’incubo continua

Finalmente la maledizione cessa

E il Marinaio vede la sua terraLo spirito abbandona i corpi da

lungo mortiHanno una luce loro

E il Marinaio rimane solo

Poi una barca gli viene incontroUna gioia incontenibile

La barca del timoniere, suo figlio e l’eremita

La sofferenza dell’esistenza rica-drà su di lui

E la nave come piombo affonda

nel mareE l’eremita assolve il Marinaio

dai peccati

Il Marinaio è costretto a raccon-tare la sua storia

A raccontarla ovunque vadaPer diffondere con il suo esem-

pio la ParolaDobbiamo amare tutto ciò che

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And the wedding guest’s a sad and wiser man And the tale goes on and on and on.

ING

LESE

Dio ha creato

E l’ospite è triste ma più saggioE il racconto continua...

Come ci raccontano Harris e Steven Percy, l’opera originale di Samuel Taylor Coleridge inizia proprio con una sorta di intro-duzione, in cui un marinaio ferma a wedding guest (un invitato di nozze) e inizia a raccontargli his dreadful tale (il suo terribile racconto). Lui aveva ucciso un fantastico albatross che era comparso fra le nubi durante la sua navigazione. L’uccisione di un uccello può sembrare una roba di pochi istanti, ma Coleridge lo rende interessante per due motivi: Non spiega il motivo per il quale il marinaio è spinto a compiere tale azione, sottolineando così l’irrazionalità del crimine.Questa azione è contro natura e rompe un’importante legge di vita.

Coleridge non racconta la fine della storia, ma lascia intendere al lettore quale sarà il proseguimento: tutte le pene del Marinaio saranno alleviate solo con la morte.Il viaggio in nave, nell’opera di Coleridge, rappresenta la vita stes-sa e, l’uccisione dell’Albatross, the original sin (il peccato origi-nale). Il poemetto, letto in chiave allegorica, introduce i seguenti ele-menti simbolici:La nave: essa rappresenta l’anima degli uominiIl viaggio: il cammino, dal peccato originale alla redenzioneLa ciurma: il genere umanoIl sole: la benevolenza della naturaIl ghiaccio: la mancanza di solidarietà fra gli uomini

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ING

LESELa siccità: la punizioneL’Albatross: l’armonia esistente in natura

La storia è raccontata su due diversi livelli narrativi. Il primo è una sorta di cornice, in cui il poeta presenta la vicenda e descrive i personaggi. Il secondo è invece composto dal racconto del ma-rinaio e delle sue vicende in mare.L’opera, divisa in sette parti, rappresenta un nuovo passo, attra-verso la punizione, per giungere al pentimento.

Ma la letteratura moderna, proprio perché moderna, nasce orfa-na. E allora? Dopo la rivoluzione che svuota le abbazie e la scien-za che sgombra il cielo, a chi si appellerà il poeta? Potremmo dire: ‘Quando il cielo del trascendente si spopola, non soltanto di dei ma di tutta l’alterità, una sorta di retorica fatale supplisce a questa mancanza: e sarà la tossicomania e la droga. Non dunque la religione come oppio dei popoli, ma l’oppio come religione dei poeti atei!’ Coleridge, infatti, solo dopo una massiccia dose di oppio, riceve in dono l’ispirazione che lo porterà a scrivere The Rime of the ancient Mariner.

“Un sonno profondo, almeno dei sensi esterni, ha preso l’autore, tempo in cui almeno duecento o trecento versi avrebbe potuto comporre; se poi si può chiamare composizione questo processo in cui le immagini gli si paravano di fronte come cose, senza alcuna coscienza o sforzo. Svegliandosi gli sembrava di aver un distinto ricordo del tutto e afferrata la penna, l’inchiostro e la carta istanta-

neamente ha trascritto queste poche righe, preservandole”.

Coleridge, poeta dell’oppio, apre una strada e trova subito adep-ti. Pochi anni dopo sarà De Quincey a lanciarsi sulle tracce del papavero, rifuggendo “l’eterna fretta” dell’età industriale in cui i sogni ormai erano “troppo corti e disturbati dall’agitazione” per produrre ispirazione. La droga, musa della letteratura moderna, ormai aveva trovato i suoi scrivani.

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ING

LESE

De Quincey è uno dei promotori di quello sguardo romanti-co che poi tanto influenzò qualsiasi tipo di arte successivo. Il suo linguaggio non è affatto leggero, ma affascina proprio per quell’abbondanza ridondante di descrizioni interiori, di divaga-zioni, di capricci e di atmosfere melodrammatiche che poco alla volta avvolgono il lettore e lo sollevano dal prolisso procedere della storia.

Nelle Confessioni di un Oppiomane è racchiuso tutto il roman-ticismo fino a proporne quasi un manifesto: la fuga da casa, i viaggi attraverso una natura impervia, la costante inquietudine sentimentale, la precaria posizione sociale, gli studi dei classi-ci greci e latini, il rapporto controverso con la grande città fino all’utopica liberazione attraverso l’oppio. Ed è proprio su questi temi, sull’altalena tra improvvise intuizioni e inevitabili decaden-ze, che autori come Baudelaire, Shelley, Byron e altri hanno co-struito la loro opera.

Da vero romantico, il De Quincey affronta ogni argomento fino all’esaurimento, sia esso una descrizione degli effetti dell’oppio o un paesaggio del Galles o le tiranniche imposizioni di un tutor.

Le pagine più illuminate sono quelle dedicate all’estasi dell’oppio in cui si percepisce il sollievo dell’autore e lo scorrere spontaneo delle sue emozioni sulla carta, inebriate dalla scoperta rivoluzio-naria:

“ecco il segreto della felicità, intorno al quale i filosofi avevano di-sputato per tanti secoli! Eccolo scoperto d’un tratto: la gioia si può comperare con due soldi, si può tenere nel taschino del panciotto: estasi portatile che si può imbottigliare a litri, pace dell’anima che

si può spedire per posta”.

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ING

LESEÈ proprio in queste pagine che il linguaggio stesso si libera, che la scrittura diventa

“un pensare ad alta voce, un seguire il mio umore, senza quasi darmi pensiero di chi ascolta”

e si fa chiaro che

“l’essenza di tutto il libro, lo scopo finale del racconto, sono i sogni”.

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STORIA

Senza un tale anelito di libertà a far fluire la penna, saremmo arrivati, per esempio, alla scrittura disinibita della Beat Genera-tion?Ne parlò per la prima volta Jack Kerouac, e subito il termine Beat Generation caratterizzò quel movimento giovanile che nel 1948 stava facendosi largo nei sobborghi newyorchesi.Beat è la salvezza ascetica ed estatica dello spiritualismo Zen, ma anche il misticismo indotto dalle droghe più svariate, dall’alcol, dall’incontro carnale e frenetico, dal parlare incessantemente, sviscerando tutto ciò che la mente racchiude. Beat può anche essere tradotto con l’accezione di battuto o sconfitto: denota la sconfitta inevitabile proveniente dalla società, dalle sue costrizio-ni, dagli schemi imposti ed inattaccabili; il beat è il richiamo alla vita libera e alla consapevolezza dell’istante. I focosi Beat emergenti, dediti all’alcol e alla marijuana, sono po-eti e romanzieri, che vorrebbero condividere con l’umanità il loro amore per il tutto e, invece, si sentono incompresi. Il movimento è sostanzialmente frutto di un’utopia che nasce all’interno di un gruppo di amici, amanti della letteratura e com-pletamente saturi della società che vivono, delle regole e dei tabù. I Beat vogliono scappare, viaggiare, fare l’autostop fin dove pos-sono arrivare, ma non per un senso di fuga dalle responsabilità, bensì per trovarsi da soli nuove regole e stili di vita. Da qui vie-ne anche l’abuso di sostanze stupefacenti, di alcol per trovare un nuovo sistema di regole, per sedare la sofferenza e per riunire l’io ed il tutto.

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È stato un fuorilegge il padre della nostra patria? Si.È stato un fuorilegge Galileo per aver detto che il mondo è rotondo?

Io dico che il mondo è rotondo! Non squared.

Jack Kerouac - The origins of Beat Generation.

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STORIA

È proprio in questi anni che molti giovani non condividevano i valori dominanti nell’Italia del miracolo economico: l’individua-lismo, l’esaltazione della famiglia, la corsa ai consumi. Nel 1967 don Lorenzo Milani, un prete cattolico del dissenso, pubblicò un libro intitolato lettera ad una professoressa, in cui gli studenti di una scuola Fiorentina, documentavano i pregiudi-zi di classe del sistema educativo e il trionfo dell’individualismo nella nuova Italia. Si andava a diffondere quindi tra i giovani, un comune retroterra ideologico, in cui i valori di solidarietà, azione collettiva, lotta all’ingiustizia sociale si contrapponevano all’indi-vidualismo ed al consumismo del capitalismo maturo.Le ideologie rivoluzionarie ed anticonformiste prendevano il so-pravvento fra i giovani italiani e fanno scoppiare una rivoluzione, aggiungendo le cause materiali, come le disfunzioni scolastiche, sopratutto delle università, inadeguate ormai a sostenere la sco-larizzazione di massa.La prima università ad essere occupata nell’autunno del 1967 fu quella di Trento, in seguito Milano e Torino e poi via via in tutto il territorio italiano.Il movimento, uscito fuori dalle università, si sposta nelle piaz-ze dove avranno luoghi scontri con la polizia e diverse forme di ribellione. Sotto accusa fu in prima istanza l’autoritarismo, con la richiesta di nuovi metodi didattici e di un diverso rapporto con i docenti; ma presto il rifiuto dell’autoritarismo fu esteso alla famiglia, della quale fu messo in evidenza il carattere oppressivo e alienante, e più in generale a tutte le gerarchie di potere a cui veniva contrapposta la democrazia diretta.Nonostante fosse l’azione, più del pensiero, ad attirare i giova-ni, molte furono le copie vendute degli scritti marxisti in quegli anni. Tanto più che ora cominciava a diffondersi anche in Italia l’esigenza di adeguare al nuovo spirito libertario anche i propri comportamenti privati, specialmente per quel che riguarda la sfera dei rapporti affettivi e sentimentali.

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STORIA

Il 1968 fu dunque molto più di una protesta contro la disfun-zione di scuola e università; fu un tentativo di rovesciare i valori dominanti del tempo.Le droghe: tutte uguali per i giornali, la radio, la televisione, la gente dell’establishment. Al contrario, per la Beat Generation e ancor più per il successivo underground, la netta distinzione tra droghe dure, hard, e leggere, soft, è sempre stata chiarissi-ma; le prime, gli oppiacei dell’Ottocento, danno assuefazione e creano dipendenza, mentre le seconde, di cui bisogna chiarire le origini culturali, alterano lo stato “normale” della mente indu-cendo vari tipi di “allucinazioni”. La definizione di tale linea di demarcazione non si è basata soltanto su questioni mediche, ma soprattutto su motivazioni sociali; mentre le hard drugs allonta-nano l’individuo dalla realtà, chiudendolo nel proprio io, le soft drugs, come marijuana e hashish avvicinano le persone, elimi-nando le inibizioni e migliorando i rapporti tra i sessi e non solo. E così già Blake diceva:

“Se le porte della percezione fossero sgombrate ogni cosa apparireb-be com’è: infinita”;

Walter Benjamin d’accordo scriveva:

“Sono convinto che certe forze dell’ebbrezza possano sostenere pro-fondamente la ragione e la sua lotta per la libertà”;

per ultimo, Aldous Huxley affermava:

“Nessuna concezione dell’Universo nella sua totalità può essere de-finita senza prendere in considerazione queste forme di coscienza”

riferendosi appunto a tali stati della mente. Infatti le droghe spe-rimentate nel secondo dopoguerra furono quelle che aiutavano a liberare la mente dalle “tenebre”: mescalina, funghi sacri, acido lisergico (LSD), hashish e marijuana.

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STORIA

In molte tribù indiane la mescalina è diventata un culto religioso e il peyote, da cui questa viene estratta, è stato usato dagli stre-goni per millenni a scopo divinatorio, curativo e telepatico nel corso dei tentativi di comunicazione con le forze soprannaturali o per approfondire la comunicazione nel gruppo o per migliora-re la solidità sociale. I funghi sacri invece erano già utilizzati da-gli Aztechi per avere visioni e allucinazioni o come sacramento in cerimonie religiose. LSD, considerato molto più potente della mescalina, provoca intense esperienze religiose e allucinazioni di carattere soprannaturale. La marijuana, una pianta psicotossica, fu largamente usata per aumentare la concentrazione nei mo-menti di contemplazione. Gli anni Venti segnarono una straordi-naria diffusione di questa droga tra i musicisti neri di musica jazz e tra gli scrittori sperimentatori come Hermann Hesse, William Burroughs o Aldous Huxley. Lo hashish, che in arabo significa “erba sacra”, fu usato per scopi medici contro l’asma, il delirium tremens, l’isterismo e la rabbia. Il primo tentativo di reprimere l’uso di sostanze derivate dalla Cannabis risale già all’epoca di Napoleone per poi giungere al 1937, anno in cui un ex-proibizio-nista cominciò la repressione.Con questi discorsi mistico-religiosi la droga comunemente in-tesa ha ben poco a che fare. Come nel primo dopoguerra molti “scimmiottatori” si misero a bere solo per rischio, vanto o moda, gli imitatori degli anni Cinquanta fumarono marijuana solo per il gusto di trasgredire una proibizione. La direzione costante fin dall’inizio era l’attacco al modo di vivere e pensare dei borghesi, il mondo square, con la loro manipolazione compiaciuta e assur-da dei mass media e del sistema e con tutte le inibizioni sessuali e non solo dell’individuo, ormai ridotto a una macchina un po’ vecchia e non più competitiva. Criticano il mondo americano di Eisenhower col suo falso moralismo puritano e le illusioni anco-ra positivistiche. Ma non si limitano alla pura e semplice critica, i Beats propongono e non risparmiano nulla nel nome di una forma possibile di salvezza: il Buddismo Zen.

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“Nel Buddismo non c’è posto per gli sforzi. Basta essere normale e niente di speciale. Mangia il tuo cibo, svuotati le budella, libera la vescica, e quando

sei stanco vatti a stendere. L’ignorante riderà di me, ma il saggio capirà”

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STORIA

DELL’A

RTE

Anche attraverso espressioni artistiche e letterarie, l’uso di allu-cinogeni si associava, spesso, alla ricerca di esperienze di sé e di rapporti interpersonali più consapevoli e autentici. Ne è una prova l’optical art, nota anche come Op art. È un movimento di arte astratta nato intorno agli anni sessanta e sviluppatosi poi negli anni settanta del Novecento. In essa si vo-gliono provocare principalmente le illusioni ottiche, tipicamente di movimento, attraverso l’accostamento opportuno di particola-ri soggetti astratti o sfruttando il colore. Si tratta di una corren-te artistica che viene spesso inclusa nel più grande movimento dell’arte cinetica, della quale approfondisce l’esame dell’illusione bidimensionale. È un’arte essenzialmente grafica, basata su una rigorosa definizione del metodo operativo. Gli artisti vogliono ottenere, attraverso linee collocate in griglie modulari e struttu-rali diverse, effetti che inducono uno stato di instabilità percetti-va. In tal modo, essi stimolano il coinvolgimento dell’osservatore. La Op Art dona risalto quindi ai puri valori visivi. Grande esponente della corrente artistica della Optical Art è Vi-ctor Vasarely.Nato a Pécs il 9 aprile 1906 è stato il fondatore del movimento artistico della Op Art. Diplomatosi nel 1925, incitato dal padre, studia all’università prima medicina, poi lettere. Nel 1927 com-pie il passo definitivo iscrivendosi all’Accademia Artistica privata Podolini-Wolkmann. Lui aveva già un’ottima predisposizione al disegno, e la formazione artistica tradizionale perfezionò la sua abilità. Nel 1929 Vasarely si trasferisce al Mühely, fondata nel 1927 da Sándor Bortnyik. Qui al pittore viene descritta l’arte senza bisogno di forma, sen-za bisogno di qualche aggancio con la realtà, ma che si propone di figurare ciò che non può essere rappresentato normalmente. In questo periodo riconosciamo un cambiamento nell’arte di Vasarely: fa molta più attenzione alla composizione geometri-ca dell’opera. Nel 1939 si trasferisce a Parigi. Intanto continua a studiare, sperimentando gli effetti ottici nella grafica, creando singolari rappresentazioni di zebre ed altri animali con contrasti tra il bianco ed il nero.

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STORIA

DELL’A

RTEl 1947 fu un anno molto particolare per l’artista: cambiò infatti stile di pittura, iniziando con l’analisi degli astrattismi geometri-ci: sassi, cerchi, quadrati.Dal 1950 si sviluppa così l’optical art, e Vasarely si dichiara ap-partenente a questo movimento, avendo praticato altri studi sulla cinetica del bianco e del nero.I quadri e le opere di questo periodo artistico di Vasarely sono classificate sotto il periodo Gordes - Cristal, caratterizzato da for-me semplificate e pochi colori, sopratutto giallo, verde e nero. Il quadro Pamir rende bene questa idea: il quadrato nero in primo piano e gli angoli esposti alle curve del soggetto centrale danno l’effetto che ci siano più piani spaziali sovrapposti in movimento. Il periodo si conclude con il ciclo di opere Hommage à Malevic, che appaiono come quadrati, rettangoli e rombi che ruotano su degli assi e sono simmetrici. Quest’opera ebbe due ruoli fonda-mentali: fu la rappresentazione del linguaggio figurativo svinco-lato dalla realtà naturale, e divenne un punto di riferimento per gli artisti che partivano dall’osservazione naturale per giungere all’astrazione. Il primo accenno alla Op-Art prese il nome di Mouvement.Alcuni critici dell’epoca han-no definito il Mouvement una contrapposizione alla Pop Art di Andy Warhol. Infatti l’Opti-cal Art è una concezione figu-rativa che affonda le radici in una tradizione di almeno mez-zo secolo il cui tratto peculiare è la sempre maggiore aggres-sività nei confronti dell’occhio dell’osservatore. Seurat e De-launay ispirarono Vasarely su questa teoria, sopratutto grazie agli studi chimici del Pointilli-sme.

Pamir, 1950.

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Da questo ha origine la Op Art vera e propria, la cui nascita è stata anche favorita dall’appoggio del critico d’arte Max Imdahl, che la definiva così:

Le radici storiche dell’odierna Optical Art affondano, oltre che nello Stijl o nel Bauhaus, nel fatto fattuale, cioè della descrizione di una

avanguardia senza esserlo.

Vasarely, padre ispirato dalla neonata Op Art, rifletté per più di 5 anni sul come unire al meglio l’opera e colui che la guarda. Al fine coniò la seguente frase, che rappresentava la sua idea di Op Art:

La posta in gioco non è più il cuore, ma la retina, e l’anima bella ormai è divenuta un oggetto di studio della psicologia sperimenta-le. I bruschi contrasti in bianco e nero, l’insostenibile vibrazione dei colori complementari, il baluginante intreccio di linee e le strutture permutate [...] sono tutti elementi della mia opera il cui compito non è più quello di immergere l’osservatore [...] in una dolce melan-

conia, ma di stimolarlo, e il suo occhio con lui.

Vasarely, per la mostra del 1955, scrisse il Manifesto Giallo, nel quale espone le sue idee riguardanti l’invenzione di un linguaggio cinetico figurativo, basato sulla disposizione e la riproduzione in serie di figure geometriche con colori completamente diversi. Nel suo Manifesto Giallo, Vasarely espresse anche l’ idea centrale della sua arte: l’ unità plastica.

Due forme-colori formano l’unità plastica, vale a dire l’unità di quella creazione artistica: e la persistente, onnipresente dualità

viene finalmente riconosciuta inscindibile.

Semplificando, il principio di unità plastica è l’inserimento di forme una dentro l’altra con colori e sfumature diverse, come per dare un senso di movimento unilaterale alla figura. Nel 1959 ebbe quindi origine il tanto agognato alfabeto plastico, presenta-to ufficialmente nel 1963, con la serie Folklore Planetario.

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RTE

La bellezza pura ed universale è raggiungibile solo con l’armonia delle forme e dei colori elementari.

“Folklore planetaire” 1985 ca.collage su cartoncino

cm. 49,5x49,5

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DELL’A

RTE

Addirittura si giunse a sostenere che i quadri di Vasarely, costru-iti secondo le leggi dell’alfabeto classico, potessero essere una ve-rosimile rappresentazione dello spazio, cosa che alcuni nomi fu-turistici dei quadri stessi e determinate situazioni dell’epoca non hanno fatto altro che ingrossare. Fin dal principio Vasarely aveva sempre cercato di creare una forma d’arte adattabile alla vita urbana e alle trasformazioni del-la società, indagando con le forme geometriche sull’impressione che il colore ha sulla retina e sui cosiddetti shock visivi, creati da un caleidoscopio di colori che sbalordiscono perfino il nostro cervello.

Con il termine “controcultura” di solito si usa riferirsi ai movi-menti di contestazione giovanile scatenatisi in Nord America e in Europa negli anni ‘60 e anni ‘70. In un senso più generale, le controculture possono essere viste come l’espressione culturale di alcune componenti minoritarie della società che esprimono un rifiuto più o meno radicale alla visione del mondo e allo stile di vita comunemente condiviso.La controcultura hippie/psichedelica ha trovato terreno fertile un po’ in tutti i continente. Ogni paese libero ha virtualmente assaporato il proprio periodo “psichedelico”, in tutto il pianeta persone unite dal sentimento di amore e sana passione per il flu-ire della vita hanno sentito le stesse vibrazioni, e hanno cercato di condividerle con chi incontravano sul loro cammino. Molti dei tipici modi di espressione delle controculture al giorno d’oggi sono di fatto stati assorbiti dalla società e entrati nel costume po-polare. Spesso questo ha voluto significare non una reale accetta-zione delle filosofie e degli stili di vita “underground”, bensì una loro “normalizzazione”; pensieri e stili potenzialmente “perico-losi” per la contraddittoria società dell’uomo moderno vengono così privati della eventuale carica eversiva, svuotati di significato e riproposti con etichette varie: da tematiche potenzialmente ri-voluzionarie si è così passati a strumenti di controllo sociale e mentale. Basti pensare al timore che incuteva un tempo il concet-to di “Grande Fratello” (nel senso Orwelliano del termine) e su

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e su come oggi viene considerato assolutamente naturale vivere in una società fondata sul controllo di gran parte delle nostre vite.La filosofia psichedelica non fa certo eccezione: anch’essa ha su-bito gli effetti devastanti della corsa alla “omologazione” della società occidentale. La controcultura psichedelica è invece ele-vazione spirituale, apertura della mente e rinascita di una nuova consapevolezza. Le sue tematiche sono necessarie oggi così come lo erano negli anni Sessanta. Si badi, controcultura non intesa come “cultura contro” qualcosa, bensì come cultura “alternativa” (cioè sostitutiva) agli obsoleti schemi mentali esistenti. Una spin-ta gioiosa e creativa che possa bilanciare il peso della progressiva desertificazione delle nostre vite (e dei nostri cuori).L’arte psichedelica ha come scopo principale quello di procura-re o descrivere una meravigliosa esperienza estatica e spirituale; ha delle particolari caratteristiche che colpiscono subito al primo approcci innanzitutto la vitalità, la ricchezza di energia oppure il suo vivace ed incessante flusso di esperienza. E’ senza dubbio un’arte dionisiaca, colma di una straripante energia; è un’arte reli-giosa, mistica, in cui Dio si manifesta nel Tutto, ma specialmente nell’energia primordiale che fa procedere il mondo, che governa e dirige il flusso esistenziale.La portata dell’arte psichedelica fu veramente sconcertante so-prattutto nella seconda parte degli anni ‘60: le sale da ballo inizia-rono ad evolversi, cercando di modificare le condizioni sensoriali dei clienti, con luci colorate fluttuanti e sfreccianti su un turbi-nio di pulsazioni: si sentono suoni ammalianti, e la mente viene inondata da sensazioni che possono essere percepite sotto forma di vibrazioni su tutto il corpo. La musica cercava di diventare una nuova scienza sacra, cercando nuove risposte ai bisogni spirituali dell’uomo moderno. Il vero viaggio psichedelico (vale a dire il viaggio interiore) dà vita ad una arte religiosa che erompe nell’e-stasi, rivelando la ricca multimedialità propria della coscien-za mistica, che si manifesta nel comporsi di tutti i fenomeni in una frenetica danza cosmica, una danza che celebra la profonda unione con le energie primordiali. Distorce e modifica le nostre

STORIA

DELL’A

RTE

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STORIA

DELL’A

RTE

percezioni, mentre i nostri sensi vengono inondati e la nostra spiritualità viene elevata. Propongo di seguito alcuni esempi di opere underground:

Family Dog (1966)

Lo stile da cui trassero maggiormente ispirazione gli artisti psi-chedelici fu l’Art Nouveau, un movimento artistico che fiorì in Europa tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e l’inizio della pri-ma guerra mondiale. Lo stile era caratterizzato da disegni asim-metrici e linee fluenti che si sviluppano in curve sinuose. Gli hippies, con i loro capelli disordinati ed i loro vestiti antiquati, sentivano una grande affinità verso le forme curvilinee dell’art nouveau e le figure femminili con lunghe e fluenti chiome. Chet Helms descrive l’atmosfera culturale del periodo come “non mol-to diversa da quella che si respirava nella Francia del

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diciannovesimo secolo, ai tempi di Toulouse-Lautrec: anche al-lora i posters erano nati come pubblicità per eventi o prodotti, e solo in seguito sono diventati una forma d’arte”. Le influenze era-no così evidenti che il primo stile psichedelico venne ribattezzato “Nouveau Frisco” o “Neo Art Nouveau”. Ad esempio questo po-ster della Family Dog, conosciuto come “La ragazza con i capelli verdi”, richiama chiaramente l’opera svolta dal leggendario artista francese Alphonse Mucha (1860-1939) per le cartine Job. Solo la scelta di colori psichedelici sembra distinguere la sua originale opera del 1896 dalla rielaborazione che ne fecero successivamen-te Stanley Mouse (1940-) e Alton Kelley. La figura di Mucha sta fumando, atto che le conferisce un’espressione sognante ed uno sguardo assente. La rielaborazione del 1966 a taluni può suggeri-re gli effetti della cannabis.

STORIA

DELL’A

RTE

Un altro stile che ha in-fluenzato molti posters psichedelici fu la optical art, detta OP art, una for-ma di arte molto popolare in America verso la metà degli anni ’60. L’”arte ot-tica” era una forma d’arte astratta e geometrica, ca-ratterizzata dalla sua abili-tà nello stimolare la retina dello spettatore. Le opere più classiche sono com-poste da una serie di linee assemblate in modo da si-mulare il movimento. In altri casi vengono simulati altri effetti come il pulsare o il tremolio.

Victor Moscoso (1967)

In particolare verso la metà degli anni ’60 si scoprì che certe com-binazioni cromatiche avevano il potere di produrre l’illusione del movimento (vibrazioni, illusioni prospettiche ed altri effetti).

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STORIA

DELL’A

RTE

I poster della San Francisco psichedelica contenevano i colori più sgargianti che l’uomo potesse immaginare. Questo fattore diven-ne ben presto caratteristica della cultura hippie, soprattutto in contrasto con l’assenza di colori nei vestiti della classe media (le cosiddette “square people”, o “persone inquadrate”). L’artista che più di tutti esplorò l’effetto dell’interazione dei colori fu Victor Moscoso (1936-): l’influenza delle strutture e delle combinazio-ni di colori della optical art sono evidenti soprattutto in questo poster del 1967 prodotto per l’Avalon Ballroom, nel quale una spirale era sovrapposta alla figura di una donna danzante, produ-cendo una sensazione di movimento e vibrazione ottica. Questi effetti vengono decisamente aumentati dalla scelta di Moscoso di mettere in contrasto fra loro i colori con tonalità rosso e blu-ver-di, che sembrano vibrare nel ritmo avvolgente della spirale.

Verso la metà degli anni Ses-santa, l’area intorno a San Francisco contava già di-versi giornali underground, la presenza di personalità influenti (Ken Kesey, Alan Watts e Bill Graham), alme-no cinque campus univer-sitari e l’incredibile ondata rivoluzionaria dell’Acid Rock (Grateful Dead e Jefferson Airplane su tutti), passata alla storia come “San Fran-cisco Sound”. Il poster era il medium perfetto per fare circolare le informazioni e la filosofia del periodo, e le menti più creative della zona non si lasciarono sfuggire l’occasione di lasciare il pro-prio segno nell’immaginario

Joe McHugh (1967)

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STORIA

DELL’A

RTEcollettivo di una intera generazione. Un piccolo gruppo di ispi-rati graphic designers della Bay Area di San Francisco diede vita ad un breve sodalizio hippy conosciuto come “East Totem West” (1967-1968) che contribuì ad elevare il concetto di poster (fino ad allora utilizzato soprattutto per fini pubblicitari) a vera e propria forma artistica. Il design di questo poster del 1967 è del fondatore dell’East Totem West, Joe McHugh, ed è parte di un gruppo di opere che l’artista dedicò al libro di Lewis Carrol “Alice nel paese delle Meraviglie. Contrariamente a quanto si può pensare, questo poster non è stato influenzato dalla celeberrima “White Rabbit” dei Jefferson Airplane, e solo un incredibile caso del destino fece coincidere l’uscita del disco e la creazione del poster.

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Una pillola ti rende più largoUn’altra pillola ti rende più stretto

E un’altra che ti da tua madreNon fa niente di niente

Vai e chiedi ad AliceDi quando si sente alta dieci piedi

E se vai a rincorrere conigliE sai che stai per perdere

Raccontagli del camion di pipe ad acquaChe ti ha chiamato

Chiedi ad AliceDi quando era solo piccola

Quando l’uomo sulla scacchieraSi alza e ti dice dove devi andare

E hai appena mangiato alcune specie di funghiE la tua mente lavora piano

Vai e chiedi ad AlicePenso che lei lo sappia

Quando logica ed equilibrioSono cadute in una morte leggera

Il guerriero bianco parla al contrarioE la regina rossa é uscita di testa

Ricorda quello che ha detto il topolino:nutri la tua mentenutri la tua mente!

Jefferson AirPlane - White Rabbit

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ITALIA

NO

La scapigliatura è un movimento letterario della seconda metà dell’800, che ebbe i suoi centri a Milano e Torino. Il termine, che deriva dal titolo del romanzo di Carlo Righetti, con lo pseudoni-mo di Cletto Arrighi, “La scapigliatura e il 6 Febbraio” (1862). I suoi rappresentanti, oltre Arrighi, furono Praga, Tarchetti, Pisani, Dossi, Camillo e Arrigo Boito, Camerana e il pittore Cremona.L’ambiente sociale in cui si colloca è quello della nascente so-cietà industriale, della frenetica vita cittadina, in cui è presente la contrapposizione tra una borghesia avida di denaro e potere e la nascente classe operaia. In tale contesto l’intellettuale avverte la necessità di allargare il raggio delle sue esperienze ed è altrettan-to consapevole d’avere perso il suo tipico ruolo di guida o d’inter-prete del movimento sociale, che gli appare sempre meno razio-nale e omogeneo e sempre più complicato e caotico. I suoi temi e gli atteggiamenti di contestazione tradiscono il disagio di un ceto intellettuale che non si riconosce più nei valori della cultura po-sitivista, fiduciosa nelle conquiste della scienza e del progresso. La società moderna, industriale e di massa, appare in tutto il suo carattere alienante, vincolate alla legge del successo e del profitto, ridotta ad una vita d’abitudine conformistica e di ottusità.Per questo il movimento polemizza contro la classe politica, rite-nuta indegna moralmente per la corruzione ed infedele ai grandi valori di libertà e giustizia del Risorgimento, ma anche contro la letteratura e l’arte, considerate lontane dalla realtà della vita e bisognose di una totale rifondazione nei principi e nei metodi.Si preferirono le tematiche della vita bruciata dal vizio e del ri-fiuto della normalità borghese, rifugiandosi nei drammi quo-tidiani della esistenza emarginata dei barboni e degli artistoidi delle periferie delle nuove metropoli industriali. Non a caso gli atteggiamenti tipici furono l’antiaccademismo, la ribellione alle convenzioni borghesi, l’ostentato anticonformismo, il gusto della trasgressione e della provocazione. Questi atteggiamenti ribelli comunque influivano più sui comportamenti esistenziali e socia-li degli artisti che sulla portata innovativa delle loro opere, che finirono solo col tradurre in termini sentimentalistici e leziosi i temi del romanticismo francese, del quale vengono assorbiti gli

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ITALIA

NO

aspetti più superficiali.Gli scapigliati sono giovani ribelli e anticonformisti, che hanno come modello l’artista “bohèmien”, povero e ignoto, che vive alla giornata. La volontà di scandalizzare è all’origine dei loro atteg-giamenti sregolati (spesso sono drogati o alcoolizzati) condivisi con i francesi Baudelaire, Rimbaud e Verlaine. Quindi il gusto per la polemica non rimane confinato nella teoria dei libri, ma diventa vera e propria esperienza esistenziale, che ostenta atteggiamenti di provocazione e sregolatezza. Tra i bersa-gli della polemica degli scapigliati c’è il Romanticismo e soprat-tutto quella produzione modesta che il De Sanctis definisce “Ar-cadia romantica” e che è l’ultimo tentativo di riproporre i valori romantici declassandoli, stemperandoli; il sentimento dà luogo al sentimentalismo e a una letteratura patetica (Prati e Aleardi). La Scapigliatura è proprio la reazione all’Arcadia romantica e al romanticismo, e testimonia il disagio degli intellettuali di fronte alla delusione storica e di fronte al processo di industrializzazio-ne portatore solo di valori economici.Un altro degli obiettivi polemici è Manzoni che si trasforma in una sorta di simbolo di tutto ciò che gli scapigliati rifiutano (cfr. Praga, Preludio). Manzoni rappresenta anche il modello di “intellettuale organico”, che diede omogeneità e consapevolezza della propria funzione elaborando un proprio progetto culturale, aderendo alla realtà politica e sociale, coll’intento di trasformarla secondo gli ideali, liberali, di dignità e indipendenza nazionale, attraverso una militanza morale insieme meditativa e operativa. Tutto questo viene rifiutato dagli scapigliati che si sentono ina-deguati ad un ruolo di guida in un mondo che rifiutano e conte-stano. Da questo rifiuto generale per il loro contesto storico – so-ciale, deriva la necessità e il bisogno di apertura a nuovi temi fino ad allora inesistenti nella letteratura italiana, e da qui l’apertura alla produzione francese. Gli scapigliati intuiscono il valore del naturalismo francese e della sua descrizione oggettiva ed imper-sonale dei fenomeni individuali e collettivi; per lo stesso motivo riprendono quegli aspetti irrazionali, fantastici, macabri del Ro-manticismo europeo rimasti esclusi dalla tradizione italiana.

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ITALIA

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Hanno allargato il canone romantico del vero, rappresentando vicende comuni, non mediate dall’interpretazione dello scrittore (come accade in Manzoni), spesso passionali e torbide (cfr. Tar-chetti, Fosca, la storia di una donna brutta e malata che attrae irresistibilmente un giovane ufficiale), descritte con spietato rea-lismo, anche nello stile.In poesia riprendono i temi del francese Baudelaire, da cui deri-vano il modello esistenziale del poeta “maledetto” e il linguaggio simbolico e provocatorio; riprendono una concezione della po-esia fondata non sulla ragione, ma sull’intuizione dei misterio-si legami della realtà. Poesia, quindi, come attività creatrice che detesta le regole. Il linguaggio poetico perde la sua oggettività e razionalità, per diventare allusivo, evocativo di quel mondo enig-matico che suscita in ogni uomo un insieme indistinto di pensie-ri ed emozioni.Così collegandosi alla più avanzata cultura europea, introducono in Italia una letteratura non aulica, apertamente antiborghese, di un linguaggio vicinissimo al parlato popolare, di forme poetiche vicine a quelle del Simbolismo aprendo così la via sia al romanzo verista (Verga rimase per anni a Milano e scrisse romanzi di gu-sto scapigliato) sia alla cultura decadente.

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Il vino sa vestire d’un prodigioso lumela stamberga peggiore,

e fabbricare portici di fiaba con le spumedel suo rosso vapore;

come un occiduo sole che splenda fra le brume.

L’oppio all’illimitato più vasti spazi dà,nuovi confini adempie,

dilata il tempo e aguzza il piacere, di empiee nere voluttà

fino all’orlo, e più ancora, il cuore ci riempie.

Tutto questo non vale il tossico che versanole tue verdi pupille,

laghi ove rispecchia le tremule postillel’anima mia riversa,

gorghi amari ove a bere scendono i sogni a mille.

Tutto questo non vale il tremendo prodigiodell’acre tua saliva,

che, senza più rimorsi nè forze, alla deriva,su onde di vertigine,

immemore mi spinge alla funerea riva.

Charles Baudelaire(da “I fiori del male”, trad. G. Bufalino)

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Il romanticismo, come visione sconvolta, straziata e antitetica della vita, non ha avuto un poeta in Italia se non dopo il 1860, e in Arrigo Boito. [...] Di tanto in tanto, a quel tragico e mostruoso, alla morte e al male, al soccombere di ogni bene, egli si fa superiore col riso; non già col cinismo, che è aridità di cuore, ma con l’humour, con l’ironia di sé medesimo, che, nascendo da reazione d’intelletto perspicace, si colora di bizzarria. In quella

tragici- tà, egli scopre lo stravagante, il grottesco, il buffo.

Bianca Tamassia Mazzarotto, La poesia nei libretti del Boito, «Rivista d’Ita-lia», xxvii, vol. ii, pp. 66-82.

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ITALIA

NO

Son luce ed ombra; angelica

farfalla o verme immondo

sono un caduto cherubo

dannato a errar sul mondo,

o un demone che sale,

affaticando l’ale,

verso un lontano ciel.

Ecco perché nell’intime

cogitazioni io sento

la bestemmia dell’angelo

che irride al suo tormento,

o l’umile orazione

dell’esule dimone

che riede a Dio, fedel.

Ecco perché m’affascina

l’ebbrezza di due canti,

ecco perché mi lacera

l’angoscia di due pianti,

ecco perché il sorriso

che mi contorce il viso

o che m’allarga il cuor.

Ecco perché la torbida

ridda de’ miei pensieri,

or mansueti e rosei,

or violenti e neri;

ecco perché con tetro

tedio, avvincendo il metro

de’ carmi animator.

O creature fragili

dal genio onnipossente!

Forse noi siamo l’homunculus

d’ un chimico demente,

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ITALIA

NO

forse di fango e foco

per ozioso gioco

un buio Iddio ci fe’.

E ci scagliò sull’umida

gleba che c’incatena,

poi dal suo ciel guatandoci

rise alla pazza scena

e un dì a distrar la noia

della sua lunga gioia

ci schiaccerà col pie’.

E noi viviam, famelci

di fede o d’altri inganni,

rigirando il rosario

monotono degli anni,

dove ogni gemma brilla

di pianto, acerba stilla

fatta d’acerbo duol.

Talor, se sono il demone

redento che s’india,

sento dall’alma effondersi

una speranza pia

e sul mio buio viso

del gaio paradiso

mi fulgureggia il sol.

L’illusion-libellula

che bacia i fiorellini,

-l’illusion-scoiattolo

che danza in cima i pini,

-l’illusion-fanciulla

che trama e si trastulla

colle fibre del cor,

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ITALIA

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viene ancora a

sorridermi

nei dì più mesti e soli

e mi sospinge l’anima

ai canti, ai carmi, ai voli;

e a turbinar m’attira

nella profonda spira

dell’estro ideator.

E sogno un’Arte eterea

che forse in cielo ha norma,

franca dai rudi vincoli

del metro e della forma,

piena dell’Ideale

che mi fa batter l’ale

e che seguir non so.

Ma poi, se avvien che l’angelo

fiaccato si ridesti,

i santi sogni fuggono

impauriti e mesti;

allor, davanti al raggio

del mutato miraggio,

quasi rapito, sto:

e sogno allor la magica

Circe col suo corteo

d’alci e di pardi, attoniti

nel loro incanto reo.

E il cielo, altezza impervia,

derido e di protervia

mi pasco e di velen.

E sogno un’Arte reproba

che smaga il mio pensiero

dietro le basse immagini

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ITALIA

NO

d’un ver che mente al Vero

e in aspro carme immerso

sulle mie labbra il verso

bestemmiando vien.

Questa è la vita! L’ebete

vita che c’innamora,

lenta che pare un secolo,

breve che pare un’ora;

un agitarsi alterno

fra paradiso e inferno

che non s’accheta più!

Come istrion, su cupida

plebe di rischio ingorda,

fa pompa d’equilibrio

sovra una tesa corda,

tal è l’uman, librato

fra un sogno di peccato

e un sogno di virtù.

“Dualismo” - Arrigo Boito

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NO

Quello che avete appena letto, signori, non è un testo bizzarro, buffo o superficiale.S’intitola Dualismo, scritta dallo “scapigliato” Arrigo Boito nel 1863.Può essere considerata come una delle poesie “manifesto” del tempo, definendo così la condizione spirituale dell’avenguardia scapigliata. La lacerazione tra due opposti inconciliabili, la tendenza alla su-blimazione nell’ideale e la caduta nel vizio e nel male, sono i temi centrali della poesia.Ricorda molto similmente le tematiche Baudelairiane, quelle del-la droga, dell’estetismo sublimante. Il dualismo scapigliato, assume infatti un riflesso negativo, cau-sato certamente da una condizione di crisi interiore del poeta: la consapevolezza di vivere un’età che nega i valori ideali, dominata dal criterio della pura economicità, dalla cancellazione di ogni bellezza “pura” in favore delle grottesche fabbriche mangia-uo-mini. La vita moderna può essere sofferenza, bruttezza, turpitudine. Questo, nella visione di Boito, diventa un pessimismo metafisico: l’uomo è la creatura di un “buio” dio del male, che l’ha creata per compiacersi della sua sofferenza. Da questo rifuto della vita mo-derna nasce il rimpianto dell’ideale, che è una condizione ormai irraggiungibile di purezza morale e di bellezza estetica. Dalla definizione di una condizione spirituale si arriva ad una condizione artistico-poetica-sonora. Il poeta aspira a decantare una bellezza pura, semplice e assoluta. Purtroppo però nella realtà in cui è costretto a vivere tutto ciò non è possibile: inizia quindi una rassegnazione.Non resta altro da fare che descrivere quindi la realtà “così com’è”, decantando quindi il vero; il risultato non può essere altro che una poesia aspra, sgradevole, urtante.Boito è il cultore della forma perfetta: lo dimostra perfino nel suo linguaggio poetico. Si compiace di sviscerare con estrema minuzia analitica i temi, di ampliare retoricamente i concetti, moltiplicando i paragoni e le metafore, in una serie studiata di

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ITALIA

NO

parallelismi e antitesi. In Boito prevale quindi lo studio formalistico.La parola è ben lontana dal caricarsi di valori suggestivi ed evo-cativi, che agiscano ad un livello più profondo di quello della co-municazione razionale. Le immagini hanno ancora un impianto retorico, non rendono il senso di “mistiche” corrispondenze fra le cose. Anche i metri sono quelli fortemente ritmati della tradi-zione Romantica Italiana.

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E’ tempo che tu smetta di cercare fuori di te,tutto quello che a tuo avviso potrebbe renderti felice.

Guarda in te, torna a casa.-Osho

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LATINO

Chi crede che la letteratura antica sia noiosa, incomprensibile e superata, spesso per colpa di ricordi scolastici poco piacevoli, potrebbe restare stupito nello scoprire opere non solo piene di saggezza e di poesia, il più delle volte ancora ineguagliata, ma an-che dell’ironia più spietata e pungente. E’ il caso del Satyricon (o Satiricon), opera attribuita dagli studiosi a Tito Petronio Nigro e fatta quindi risalire al I secolo d.C., al tempo dell’imperatore Nerone, giunta a noi in maniera frammentaria e per molti versi ancora misteriosa.Si tratta di un raro esempio di romanzo antico, di argomento co-mico- satirico (le parti mancanti del testo potrebbero essere state espunte in altre epoche, proprio a causa del contenuto licenzioso, che comunque abbonda anche nella versione tramandata), in cui leggiamo dei vagabondaggi di un trio di giovani spiantati, Encol-pio, Ascilto e Gitone. Dediti alle imprese più stravaganti, bisticciando di continuo tra loro, i tre vivono una serie di avventure improbabili, incontrando molti strani personaggi, i quali a loro volta daranno vita alle più disparate digressioni, narrando storie parallele con protagonisti ancora più bizzarri. Trascinati dalle loro vicende, si allontanano e riuniscono più volte, in giro per le città della Campania, per poi finire a Crotone. In particolare Encolpio è stato oggetto del-la vendetta di un dio che lo ha reso impotente, e cerca in tutti i modi una soluzione ai suoi insuccessi erotici. Questo singolare caleidoscopio letterario ha ispirato, come è noto, anche Federico Fellini, già amante delle atmosfere surreali di luoghi terrestri e magici allo stesso tempo (come il circo, presente nel suo docu-mentario I clowns, dell’anno successivo), nel suo Fellini Satyri-con (1969). Personaggi turpi, visti come attraverso un distorto specchio acquatico – o alcolico –, creature grottesche , magiche, metamorfiche, di sesso incerto e incerta natura, popolano il pal-coscenico fantastico di questo racconto. E in mezzo ad essi, al centro di una tavolata folle, coperta di ogni lusso e di traboccanti vassoi da portata, siede come un sovrano Trimalcione. Questo personaggio, incommensurabilmente ricco e munifico, uso a of-frire cene luculliane senza badare a spese, è il protagonista

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LATINO

della Cena Trimalchionis, l’episodio più consistente e completo del romanzo giunto sino a noi.

Trimalcione (o Trimalchione) è un abbiente signore che, per puro amore di sfarzo e ostentazione, organizza banchetti all’in-segna della gola e dei piaceri, a vantaggio di una serie di perso-naggi equivoci di passaggio, tra cui si trovano per caso i nostri protagonisti.Egli infarcisce le sue feste con considerazioni filosofiche, spes-so a sproposito, sulla effimera natura della vita umana. Mentre tutti mangiano e bevono, tra le coreografie gastronomiche e le acrobazie della servitù, declama la bontà del suo vino, dichia-rando, magnanimo, di offrirlo ai presenti dopo averlo negato ad ospiti ben più importanti ricevuti la sera precedente. Un’effigie di Priapo, dio della fertilità, viene passata di mano in mano tra i commensali. Regali a volontà per tutti. Cene eleganti, insomma. Scenari che alle nostre orecchie di lettori del ventunesimo secolo suonano stranamente familiari, ma dev’essere senz’altro un caso!E mentre il mondo fuori langue nel suo squallore, l’isola felice di Trimalcione prospera irreale nello sperpero e nella cialtroneria, dimentica di tutto, al servizio della vanità del suo signore. E’ l’il-lusione di una notte, lo stordimento di un momento, il rapimento caotico dalle grinfie di una realtà ancora più instabile dove, intu-iamo già, anche i nostri protagonisti verranno gettati nuovamen-te, una volta che l’eccesso abbia soddisfatto loro per poco tempo, e l’ego del padrone per molto.

Non sappiamo se Trimalcione fosse la caricatura di un qualche personaggio dell’epoca imperiale dedito agli eccessi, o piuttosto di un’intera categoria. Se non magari dello stesso Nerone, all’e-poca padrone del mondo, ma drammaticamente privo tanto di coscienza quanto di buongusto, sbeffeggiato dalla vivace penna del nostro scrittore.

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LATINO

Se l’autore dell’ opera è effettivamente il Petronio arbiter elegan-tiae della corte neroniana, è bene ricordare che non si trattava certo di un fustigatore populista, di un rivoluzionario o di un amante della plebe. Come un altro grande autore, il Nobel Hen-ryk Sienkiewicz, ce lo ha descritto nel suo Quo Vadis? basandosi a sua volta sui resoconti di Tacito, egli era un nobile patrizio, in-tellettuale e distaccato nella sua colta raffinatezza. L’eccesso del-la dissoluta corte imperiale deve aver dato adito al suo sdegno, ispirandogli, piuttosto che una severa reprimenda, la caustica parodia.Nasce così questo viaggio labirintico, in cui le vie di una città si trasformano nella metafora dei tortuosi tormenti dell’animo umano. I grandi autori, d’altra parte, sono quelli che sanno rac-chiudere nelle loro opere lo spirito del loro tempo: e Satyricon, opera dalla struttura eccentrica e dall’ anima vagabonda, è un romanzo della crisi tra i meglio riusciti della storia.

E’ di questo che si tratta: del racconto di una crisi. Se infatti epo-che floride come l’età classica greca e romana, o il Rinascimento, sono state caratterizzate nell’arte dal trionfo della misura e della serenità, tempi controversi come il periodo ellenistico, l’età im-periale e il Seicento barocco – con l’invenzione del romanzo pi-caresco di cui il Satyricon sembra anticipare molti temi -, hanno dato vita ad opere in cui lo spaesamento, dovuto al decadimento della società, domina su tutto, risolvendosi nella ricerca spasmo-dica del nuovo, dell’esotico, del meraviglioso e del macabro, per colmare il senso di vuoto lasciato dal crollo di punti fermi e dalla paura per un domani incerto. Gli effetti collaterali di questo sentimento di incertezza narra-to dagli scrittori, rimangono più o meno gli stessi in ogni epoca segnata dalla crisi culturale, sociale, economica e morale. Il più evidente oggi è quella insana tendenza al voyeurismo con cui le masse guardano, non sdegnate, ma invidiose, o persino compia-centi e ammirate, alla condotta dei personaggi più influenti della vita pubblica, assieme alla loro corte di ipocriti, ballerine e buffo-ni, mentre tutto intorno imperversano miseria di averi e di

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spirito.

Dimenticando, questi ultimi, indifferenti e spesso sfacciati, il de-coro che si chiederebbe a coloro che tengono in mano le sorti di tutti. Specie in tempi difficili.Un fenomeno, questo, che ai giorni nostri, sembra addirittura cre-scere tra la cosiddetta “gente comune”- cioè noi tutti – in maniera direttamente proporzionale al disagio. Sia che i nostri onorevoli vengano pescati a gozzovigliare in cosiddette “cene eleganti”, de-stinate a terminare con accuse di concussione e di induzione alla prostituzione minorile, sia che organizzino feste in costume da maiale, suggellando lo sfacelo di una Regione in ginocchio. Ma ci sarà chi li ammirerà per la loro assenza di vergogna, desidererà di poterli emulare, e, magari, non gli farà mancare il proprio leale voto. Facendo quasi rimpiangere, rispetto ai suoi emuli moderni, una personalità come quella del buon Trimalcione petroniano: se non altro, almeno nella finzione letteraria, lui non è un politico.LATIN

O

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Bisogna essere sempre ubriachi.Tutto sta in questo: E’ l’unico problema.

Per non sentire l’orribile fardello del tempo.Del tempo che rompe le vostre spalle

e vi inclina verso la terra, bisogna che vi ubriacate senza tregua.Ma di che? di vino, di poesia o di virtù,

a piacer vostro. Ma ubriacatevi. E se qualche volta sui gradini di un palazzo,

sull’erba verde di un fossato, nella mesta solitudine della vostra camera,

vi risvegliate con l’ubriachezza già diminuita o scomparsa, domandate al vento, all’onda alla stella all’uccello all’orologio,

a tutto ciò che fugge a tutto ciò che geme a tutto ciò che ruota, a tutto ciò che canta

a tutto ciò che parla, domandate che ora E’; Ed il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno

“E’ l’ora di ubriacarsi !”Per non essere gli schiavi martirizzati del tempo, ubriacatevi;

Ubriacatevi senza smettere! Di vino di poesia o di virtù, a piacer vostro.

Bisogna essere sempre ubriachi - Charles Baudelaire

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Note pre-test universitario:

Numerose ricerche indicano che i derivati della cannabis alterano i proces-si percettivi, l’attenzione (14), la percezione della distanza e del tempo (15)(16), il coordinamento motorio(20), aumentando la probabilità d’incidenti stradali causati da soggetti consumatori (17)(18)(19).

14) Solowij, Michie, Fox (U New South Wales, National Drug & Alcohol Research Ctr, Sydney); Pharmacology, Biochemistry & Behavior, 1991 Nov vol. 40(3) 683-688.

15) Soueif; Annals of the New York Academy of Sciences, 1976, 282, 323-43.

16) Soueif; Bulletin on Narcotics, 1975 Oct-Dec vol. 27(4) 1-26.

17) Medical Journal of Australia, May 22 1976, 1, 771.

18) Aussedat; proceedings of the second international symposium, organi-zed by the National Academy of Medicine, April 8-9, 1992.

19) Soderstrom; proceedings of the second international symposium, organized by the National Academy of Medicine, April 8-9, 1992.

20) Milstein, MacCannell, Karr, Clark (INRS, Sante, Hopital St Jean-de-Dieu, Montreal); Journal of Nervous & Mental Disease, 1975 Jul vol. 161(1) 26-31.

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Tutto cambierà, io cambierò.Voglio mettere la testa a posto, vivere organizzato: un orario di lavoro, un orologio al polso, un calendario sul telefonino, una lista di promemoria. In televisione ho sempre visto farlo: vivere organizzato? Sembra facile. Ho sempre vissuto di attimi ed emozioni, sembrava di vivere in un mondo nuovo, quasi come se il tempo acquistasse una lun-ghezza variabile ed indipendente. Non mi rendevo conto dello scorrere del tempo, non mi accorgevo di ciò che stava cambiando intorno a me; ma non riesco ad ammetterne il contrario: la mia vita é la successione di un tic, seguito da un tac. Scientificamente, per essere precisi, il tempo è la dimensione en-tro la quale si concepisce e si misura il trascorrere degli eventi. La percezione di un intervallo di tempo generico, infatti, è la presa di coscienza del fatto che la realtà intorno a noi è muta-ta materialmente. Esempi immediati e pratici della correlazione esistente fra spazio e tempo sono quindi la rotazione della Terra intorno al proprio asse (causante l’alternanza fra il dì e la not-te) e la rotazione della Terra intorno al Sole su un’orbita ellittica (causante l’alternanza delle stagioni). La ritmicità dei movimenti apparenti del Sole scandisce la vita degli esseri umani che quindi non potranno più fare a meno di considerare il fluire del tempo come una sorta di progressione aritmetica. Oggi parliamo infatti di giorno solare e giorno sidereo. Per giorno sidereo si intende l’intervallo di tempo impiegato da un pianeta per compiere una rotazione completa intorno al proprio asse, prendendo come ri-ferimento le stelle. La durata di un giorno sidereo, sulla Terra, è di 23 ore 56 minuti e 04 secondi. Un giorno solare ha una durata differente: esso è più lungo del precedente e corrisponde a 24 ore. La differenza fra giorno sidereo e solare coincide con il sistema di riferimento. Per il giorno sidereo vengono presi in conside-razione corpi lontani, come le stelle; per il giorno solare, invece, il Sole. Affinché un punto generico sulla Terra possa vedere il Sole nella stessa posizione del giorno precedente, è necessario che la Terra, oltre a compiere una rotazione completa intorno al

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proprio asse, compia un’ulteriore arco di orbita ellittica. L’inter-vallo di tempo impiegato a compiere tale arco di orbita ha una durata di circa 236 secondi. Risulta così di 86400 secondi la du-rata totale di un giorno solare, ossia 24 ore. Per convenzione il giorno solare, la cui durata è di 24 ore, è detto anche giorno ci-vile. I momenti più significativi di tutto il giorno civile sono la mezzanotte,in cui avviene il passaggio da un giorno all’altro e il mezzogiorno: quando il Sole culmina sul meridiano del luogo in cui ci si trova. Ovunque andrò, qualsiasi sarà il luogo geografico in cui il mio cuore deciderà di stabilirsi, sono certo di incontrare persone con orologio al polso ed una ventiquattrore piena di carta straccia. Tralasciando però adesso la valigetta ed il suo contenuto, vorrei concentrarmi sull’orologio. Avete mai immaginato di compiere un viaggio senza un orologio o qualsiasi apparecchio che potes-se indicarvi l’ora? Bene, adesso che lo avete fatto, immaginate di chiedere che ora è ad un passante. Certamente vi risponderà in lingua diversa dalla vostra, e non solo! diverso sarà anche il co-siddetto fuso orario. Con questo termine generalmente si indi-cano le zone della Terra che hanno la stessa ora convenzionale. La mappa dei fusi orari è stata costruita sulla base di due consi-derazioni imprescindibili: la sfericità della Terra e il tempo im-piegato per ruotare intorno al proprio asse (24 ore). Dividendo infatti 360 (= gradi della rotazione) per 24 (= ore impiegate per compiere una rotazione completa), si ottiene la cosiddetta map-pa dei fusi orari. La divisione appena compiuta, infatti, ha diviso il nostro pianeta in 24 spicchi da 15 gradi ciascuno. Il passaggio da uno spicchio all’altro, quindi, potrà essere effettuato in un’ora. Questi spicchi hanno il nome di fuso orario e per convenzione si assume che in tutto il fuso sia “in atto” l’ora del meridiano centra-le ad esso. I fusi orari perciò sono basati sui meridiani con longi-tudine multipla di 15 gradi. Il punto di riferimento principale dei fusi orari è il meridiano fondamentale: passante per l’osservato-rio reale di Greenwich, a Londra, Inghilterra. Assunta l’ora del meridiano di Greenwich come riferimento uni-versale, si è chiamata ora universale o anche ora di Greenwich.

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Leggere la mappa delle time zone arrivati a questo punto non do-vrebbe più essere un problema: i fusi che si trovano ad est di Gre-enwich vengono numerati con numeri positivi (+1;+2;+3; ecc.), quelli che si trovano ad ovest invece sono numerati progressiva-mente secondo la scala dei numeri negativi (-1;-2;-3; ecc.). Come applicare tutti questi numeri alla realtà di tutti i giorni? Semplice! Basta spostare le lancette in avanti (se ci si sposta da Greenwich verso est) tante ore quanti sono i fusi “saltati”; viceversa, spostan-doci da Greenwich verso ovest, è necessario spostare le lancette indietro.Per la prima volta si sentì parlare dei cosiddetti fusi orari con Giuseppe Barilli, conosciuto anche con lo pseudonimo di Quiri-co Filopanti: fu un matematico, astronomo e politico italiano. La sua ipotesi circa i fusi orari, fu pubblicata per la prima volta nel 1858 con l’opera Miranda! Essa prevedeva (anche) la determi-nazione di un tempo universale che si sarebbe dovuto utilizzare come unico sistema di riferimento nell’astronomia e nelle comu-nicazioni telegrafiche. Il pendolo con le sue oscillazioni, l’orologio con le sue lancette e gli uomini con i loro calcoli ci ricordano sempre quanto tempo ci rimane da spendere e gestire. L’anno è l’unità fondamentale del calendario e allo stesso tempo della vita umana. Per ciò che riguarda l’astronomia, l’anno identifica il tempo impiegato dalla Terra per compiere una rivoluzione intorno al Sole. Dal momen-to che le variazioni delle stagioni regolano l’illuminazione e la quantità di calore ricevuto dalla Terra, è opportuno misurare il tempo prendendo come sistema di riferimento l’anno solare la cui durata è di 365d 5h 48min 46s. Purtroppo un anno solare non contiene un numero intero di giorni, per cui è meglio fare riferimento all’anno civile secondo il quale la Terra compie una rivoluzione intorno al Sole in 365 giorni esatti. L’anno civile è infatti il sistema di riferimento adoperato sin dal 1582, quando Papa Gregorio XII fece coincidere l’equinozio con il 21 di Marzo. Tuttavia la discrepanza creatasi entro l’anno civile e l’anno solare è stata risolta introducendo all’interno del calendario civile l’an-no bisestile.

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L’introduzione di questa nuova unità di misura risolse parzial-mente il problema della sincronia fra anno civile ed anno solare: essa consiste nell’aggiunta di un giorno al mese di Febbraio ogni 4 anni civili. Si ottiene così l’alternanza di tre anni civili ed uno bisestile e così via.Una storia molto arretrata quella del calendario: inventato dagli Ebrei, venne tramandato al mondo Occidentale dai monaci benedettini. La vita monastica era una macchina collettiva che aveva l’obbligo di funzionare perfettamente: l’agenda tascabile è infatti figlia della loro visione pratica della vita quotidiana. “Quasi tre secoli e mezzo per addomesticare il tempo che oggi appare frantumato in unità sempre più piccole” (Marco Belpoli-ti, LaStampa.it - 2008). Attraverso gli strumenti elettronici, calendari virtuali, cerchia-mo spasmodicamente di manipolare il tempo. Eppure è una partita persa la nostra: il calendario, che sia digitale, ripiegato nella tasca del nostro jeans o sulla nostra scrivania, implacabile ci domina e avanza nella sua cavalcata, sopraffacendo anime inermi di poveri uomini che da sempre si sono posti l’obiettivo di amministrare e dominare il tempo.

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L’essere umano è una parte di quel tutto che noi chiamia-mo “Universo”, una parte limitata nello spazio e nel tempo. L’uomo sperimenta sé stesso, i suoi pensieri e i suoi senti-menti scissi dal resto — una sorta di illusione ottica della propria coscienza. Lo sforzo per liberarsi di questa illusione è l’unico scopo di un’autentica religione. Non per alimentare l’illusione ma per cercare di superarla: questa è la strada per conseguire quella misura raggiungibile della pace della

mente.

Victor Vasarely - Berc.

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La teoria della Relatività Ristretta (o Relatività Speciale) fu inau-gurata da Einstein il 30 giugno 1905 sugli « Annalen der Physik » in una fondamentale memoria intitolata « Zur Elektrodynamik bewegter Körper » (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimen-to).  In quell’articolo egli scrisse: « ...Nessuna caratteristica dei fatti osservati corrisponde al con-cetto di un etere assoluto; [...] per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica, valgono anche le equivalenti equazioni dell’elettrodinamica e dell’ottica [...]. In quanto segue facciamo questa ipotesi e introduciamo l’ulterio-re postulato, un postulato a prima vista inconciliabile colle ipo-tesi precedenti, che la luce si propaga nello spazio vuoto con una velocità c che è indipendente dalla natura del moto del corpo che la emette. Queste due ipotesi sono del tutto sufficienti a darci una semplice e consistente  teoria dell’elettrodinamica dei corpi in movimento basata sulla teoria di Maxwell per i corpi in riposo » Tutta la teoria di Einstein è basata dunque su due postulati fon-damentali:      Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimen-to inerziali. Non esiste un sistema inerziale privilegiato (Princi-pio di relatività).          La velocità della luce nel vuoto ha lo stesso valore c in tut-ti i sistemi inerziali (Principio della costanza della velocità della luce).  Il primo di essi rappresenta un’estensione, a tutti gli eventi, del principio di relatività galileiana, che non risulta così annullato, bensì superato attraverso il secondo postulato, dal quale si posso-no  ricavare i fondamenti della Cinematica relativistica.

FISICA

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FISICA

Uno degli aspetti caratteristici della teoria della relatività speciale di Einstein è che la lunghezza di oggetti che si muovono a velo-cità relativistiche subisce una contrazione secondo la direzione del moto. Un osservatore in quiete ( rispetto all’oggetto in moto) osserverebbe l’oggetto in movimento divenire più corto in lun-ghezza. Supponiamo che la lunghezza di un oggetto, misurato quando è fermo sia di 20 metri; allora lo stesso oggetto quando si muove a velocità relativistiche rispetto all’osservatore/misurato-re, fornirebbe una lunghezza di misura inferiore a 20 m.Questo fenomeno non è dovuto ad errori di misura o ad osser-vazioni sbagliate; l’oggetto è realmente contratto in lunghezza , secondo il punto di vista del sistema di riferimento stazionario. L’ammontare della contrazione dell’oggetto dipende dalla sua ve-locità relativa all’osservatore.

Si noti che la contrazione della lunghezza è significativa solo quando l’oggetto si muove a velocità relativistiche - cioè, le velo-cità che sono una frazione significativa della velocità della luce. Tuttavia, si noti che la contrazione avviene solamente nella dire-zione del moto.In altri termini se l’oggetto si muove orizzontal-mente, allora è la dimensione orizzontale che è contratta; non c’è nessuna contrazione nell’altezza dell’oggetto.

La contrazione della lunghezza, ovvero della distanza spaziale fra due eventi nello spazio-tempo, è una diretta conseguenza della dilatazione relativistica del tempo.La relazione fra la lunghezza L di un regolo misurata da un osser-vatore rispetto a cui il regolo è in quiete e la lunghezza L’ rilevata da un’osservatore in moto rispetto ad esso con velocità v, è data da:

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FISICA

La relatività speciale predice che la contrazione possa essere fo-tografata o osservata mediante un conveniente esperimento e le espressioni “osservare” e “vedere” sembrano essere del tutto in-terscambiabili.

C’è tuttavia una chiara distinzione fra i due termini: l’osservazione della forma “propria” di un oggetto richiede misu-re simultanee della posizione di un certo numero di punti sull’og-getto.La visione dello stesso oggetto richiede invece una qualche inte-razione con l’evento , attraverso i quanti di luce emessi dalle varie parti dell’oggetto che, provenendo da posizioni diverse, raggiun-gono l’osservatore visivo in tempi sensibilmente diversi.

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Ci avete mai fatto caso che LSD e televisione a colori hanno fatto una comparsa simultanea nel mondo dei consumi? Due divisioni martellan-ti e colorate. E noi, cosa facciamo? Mettiamo l’una fuorilegge e incasi-niamo l’altra. La tv è una cosa inutile, così com’è oggi in mano a certa gente. Questo è poco ma sicuro. Ho letto sul giornale che durante una recente retata un poliziotto avrebbe ricevuto in pieno viso una bacinella di acido, scagliatali, si afferma, da un presunto fabbricante di allucinoge-ni. Anche questo è uno spreco. Vi son fondati motivi per mettere fuori legge LSD e affini (questi stupefacenti possono far uscire di senno) ma altrettanto dicasi del raccogliere barbabietole, dell’avvitare bulloni in una fabbrica d’auto, o lavar piatti o insegnare lettere all’università. Se met-tessimo fuorilegge tutto ciò che fa diventar matta la gente, l’intera strut-tura sociale crollerebbe: il matrimonio, la guerra, i trasporti pubblici, il mattatoio, l’apicoltura, la chirurgia, tutto quanto. Qualsiasi cosa può far diventare matta la gente poiché la società è fondata su basi false. Finché non avremo ribaltato tutto, i manicomi resteranno pieni e i recenti tagli ordinati dal nostro governatore al bilancio dei manicomi, in California, mi fanno capire che: la società non ritiene suo dovere curare quelli che la società stessa ha fatto impazzire, specie in periodi di strettezze, infla-zione e supertasse. Meglio usare quei soldi per costruire strade, o farne piovere qualche grullo, leggero leggero, sui negri, tanto per tenerli buo-ni, ché non diano fuoco alle nostre città. Io ho un’idea migliore: perché non ammazzarli i matti? Pensate, quanto denaro risparmiato. Perfino un pazzo mangia, e tocca dargli da dormire. Eppoi sono disgustosi: cacciano quegli urli bestiali, berciano di merda le pareti, e così sia. Basta istituire un tribunale medico, che prenda le decisioni del caso, e arruolare qual-che bella infermiera (femmine e maschi) per soddisfare i bisogni sessuali degli psichiatri-giudici.Ma torniamo più o meno all’ LSD. Com’è vero che chi non risica non ro-sica, è anche vero che più arrischi e più ottieni. Qualsiasi attività creativa complessa (dipingere, scrivere poesie, svaligiare banche, fare il dittatore e così via) ti conduce al punto in cui pericolo e miracolo sono come fratelli siamesi. Raramente arrivi al traguardo, ma durante il tragitto hai modo di trovare la vita interessante. E’ bello andare a letto con la moglie di un altro ma, lo sai, un giorno o l’altro sarai colto con le braghe calate. Ciò serve a rendere il fatto più piacevole. I nostri peccati vengono fabbricati in cielo

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per creare il nostro inferno, di cui evidentemente abbiamo bisogno. Di-venta bravo in qualsiasi campo, e ti crei subito dei nemici. I campioni vengono innalzati affinché la folla provi poi maggior gusto a vederli roto-lare, battuti, fra la merda, e gode a subissarli di fischi. Gli stolti perlopiù la fanno franca. Un vincitore può essere abbattuto da un fucile ordinato per posta (così dice la favola) oppure dal suo stesso fucile da caccia in una piccola città come Ketchum. O come Adolf e la sua puttana far harakiri all’ultima pagina della loro storia.l’LSD può farti a pezzi perché non è un’arena per leali impiegati delle po-ste, certo, l’acido cattivo al pari di una cattiva puttana può metterti fuori gioco. Anche il gin fatto in casa nella vasca da bagno ha avuto, durante il proibizionismo, i suoi bei dì. La legge crea la propria malattia in vele-nosi mercati neri. Ma, perlopiù, i brutti “viaggi” psichedelici sono dovuti al fatto che chi vi si imbarca era già avvelenato. Dalla stessa società. Se un uomo ha preoccupazioni, per l’affitto, la rata dell’auto, il cartellino da timbrare, mandar il figlio all’università, portar l’amante a cena in un lo-cale carissimo, l’opinione dei vicini di casa, il bene della patria, allora una compressa di LSD lo farà, probabilmente, impazzire perché, in certo sen-so, è già pazzo e tira avanti solo perché è trascinato dalla corrente, soste-nuto dalla routine, intontito da tutto il fracasso che lo esenta dal pensare con la propria testa. Per un trip ci vuole uno che non sia già stato messo in gabbia, che non sia stato già inculato dalla grande Paura che, in tal modo, spinge avanti l’intera società. Purtroppo, molti uomini sopravvalutano se stessi come liberi pensatori. Ed è un grosso sbaglio della generazione hippy, non fidarsi di nessuno oltre i 30 anni. Trent’anni non vuol dire un accidenti. Molte persone vengono catturate e addomesticate già all’età di sette-otto anni. Molti giovani SEMBRANO liberi ma si tratta solo di un fatto chimico e energetico che riguarda il corpo e non già di una realtà che riguarda lo spirito. Ho conosciuto uomini liberi nei posti più strani e a TUTTE le età (portieri, ladri d’auto, benzinai) e anche alcune donne libe-re (infermiere o cameriere perlopiù) e di QUALSIASI età. L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci: soprattutto perché provi un senso di benessere, quando gli sei vicino. Un viaggio psichedelico vi mostra cose non soggette ad alcuna norma. Vi mostrerà cose che non sono nei libri di testo e cose contro cui non potete sporgere querela, o reclamare in muni-cipio. L’erba rende semplicemente più sopportabile l’attuale società: l’LSD

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è invece una nuova società a sé stante. Se tu sei un inserito, puoi pure rubricare l’LSD come “droga allucinogena” e lavartene le mani. Ma quel che s’intende per “allucinazione” varia a seconda di dove ti trovi, ovvero del polo sul quale ti orienti. Qualsiasi cosa ti succede quando ti succede diviene realtà: sia un film, un sogno, un atto sessuale, ammazzare, venir ammazzato o mangiare una pizza. Solo le bugie vengono imposte dopo. Quel che succede, succede. Allucinazione è solo un vocabolo, e un piedi-stallo sociale. Quand’uno muore, per lui la faccenda è molto reale; per gli altri, solo una disgrazia o un ingombro da levar di torno. E per questo c’è il cimitero. Quando il mondo ammetterà che TUTTE le parti rientrano nel quadro d’insieme, si potrà cominciare a sperare. Qualsiasi cosa l’uomo vede è vera. Non è mica stata portata lì da una qualche forza estranea: era lì prima che lui nascesse. Non biasimatelo per il fatto che egli adesso la vede, e non date a lui la colpa se diventa matto solo perché maestri e sa-cerdoti non furono abbastanza saggi da insegnargli che l’esplorazione del-la realtà non ha mai termine, e che siamo degli stronzi a limitarci all’ab-biccì del mondo. Non è l’LSD la causa del brutto viaggio: ma tua madre, il governo, la ragazza di rimpetto, il gelataio dalle mani sudice, lo studio imposto controvoglia dell’algebra o dello spagnolo, la puzza di un cesso del 1926, un uomo dal naso troppo lungo quando a te hanno detto che i nasoni sono brutti; sono stati i lassativi, la causa, è stata la Brigata Abramo Lincoln, la pubblicità della margarina, la faccia di Roosvelt, sono state le caramelle al limone, è stato lavorare per 10 anni in una fabbrica e venirne licenziato perché sei arrivato in ritardo di 5 minuti, è stato per via di quel fregnone che t’insegnava la storia in quinta elementare, è stato per via del tuo cane investito da un’auto e nessuno che ti fa da testimone, è stato per via di tante cose la cui lista verrebbe lunga 5 chilometri.Un brutto viaggio? Tutto questo Paese, tutto il mondo sta compiendo un brutto viaggio, amico mio. Ma a te t’arrestano per aver ingoiato una com-pressa.Io vado ancora a birra perché, a 47 anni ho molti ganci conficcati nel cor-po. Sarei un bel cretino se pensassi di essere sfuggito a tutti i loro traboc-chetti e incastri. Credo che Jeffers l’abbia detta giusta, quando ha detto, più o meno, stai attento alle trappole, amico, ce n’è un sacco, e anche Dio c’è cascato in una trappola quando una volta scese su sta’ terra. Natural-mente, molti di noi dubitano che fosse davvero Dio. Ma, a quanto pare

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parlava troppo. Chiunque può parlare troppo. Anche Timothy Leary. Pure io.Oggi è sabato e fa freddo, il sole sta andando sotto. Cosa fate voialtri alla sera? Fossi Liza, mi pettinerei i capelli, ma però non sono Liza. Bene, ho qui un vecchio numero del National Geographic e le foto sulla carta patinata dan l’idea di qualcosa di vero, qualcosa che accade. Non è così, naturalmente. In questo caseggiato sono tutti ubriachi. Un alveare di per-sone sbronze in attesa della fine. Passano delle donne per la via, sotto la mia finestra. Io esalo, sibilo, una parola stanca e gentile come “merda,” poi strappo via sto’ foglio dal rullo della macchina da scrivere.

E ve lo regalo.

Tratto da Charles Bukowski, “Storie di ordinaria follia”.

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