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[TITOLO DEL DOCUMENTO] IL MEDIOEVO E LA SUA LUCE · 2019. 7. 8. · [TITOLO DEL DOCUMENTO] Dossier,...

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[TITOLO DEL DOCUMENTO] Dossier, Il medioevo e la sua luce, allegato al numero di «Unico», a. s. 2018 - 2019 Pagina 1 IL MEDIOEVO E LA SUA LUCE DOSSIER DI APPROFONDIMENTO a cura della classe 3ALSA e della prof.ssa M. G. Fantoli, per la grafica ed editing prof.ssa F. Gallizioli. a.s. 2018-2019
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IL MEDIOEVO E LA SUA LUCE DOSSIER DI APPROFONDIMENTO

a cura della classe 3ALSA e della prof.ssa M. G. Fantoli,

per la grafica ed editing prof.ssa F. Gallizioli.

a.s. 2018-2019

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Introduzione

In contrapposizione alle radicate concezioni negative relative

all’epoca compresa tra il 476 e il 1453, il Medioevo rappresentò una

rinascita culturale, tecnologica, artistica, ma soprattutto letteraria,

in particolare dopo l’anno Mille. Si può dunque parlare di una

graduale costruzione dell’Europa che fornirà ad essa una sola e

nuova identità.

Il concetto di “Europa” intesa come entità geopolitica dotata di una

sua specifica identità culturale nasce e si sviluppa nel corso del

Medioevo a partire da vari fattori, tra cui l’integrazione tra romani e

barbari dovuta all’abbattimento definitivo dei limes dell’impero. Tale

identità è costituita dalla fede che non era vissuta come un fatto

privato, oppure legato a determinate ricorrenze, ma era parte

integrante della società, del costume, della quotidianità. Le paure

legate a guerre, carestie ed epidemie e quindi la precarietà della

vita rendevano l'uomo medievale ancora più legato alla fede. Il

sentimento più autentico della fede popolare si esprimeva nella

penitenza, nella condivisione, nella affermazione della Resurrezione

di Cristo, nella vita eterna e nella costruzione di cattedrali e chiese

come espressione di fede. La vita è dunque vissuta in questa

dimensione di contatto continuo con il divino e permeata dal

rapporto con Cristo per cui ogni singolo istante è rapporto con il

Mistero divenuto presenza concreta nella concretezza della Chiesa.

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Il Medioevo e la sua luce: le Lingue nazionali

«Le genti del bel paese là dove ’l sì suona»

(Dante)

Nel senso moderno del termine le nazioni non esistevano prima

delle rivoluzioni di fine '700, che hanno affermato il principio della

sovranità popolare. La nazione è stata intesa come una comunità

ampia, unita da un legame che non è né l'assoggettamento a uno

stesso monarca, né l'appartenenza a una religione o a uno stesso

status sociale. La nazione non procede dal principe, è indipendente

dalle alterne vicende della storia dinastica o militare.

Per passare dall'Europa dei principi all'Europa delle nazioni, è stato

necessario convincere popolazioni disparate che, nonostante le

evidenti differenze, avevano in comune un'identità, che costituiva il

fondamento di un interesse collettivo.

Tutti i Paesi europei hanno lavorato alla costruzione di specifiche

identità nazionali che, benché tutte peculiari, si presentano simili

nella loro diversità. Tale laborioso processo ha avuto inizio proprio

nei cosiddetti ‘secoli bui’ del medioevo quando le popolazioni

germaniche si sono scontrate prima e poi incontrate con le

popolazioni romane e – grazie alla mediazione del Cristianesimo –

hanno costituito il nerbo di una nuova civiltà, la cui base linguistica

era il Latino.

L'unità del latino medievale rispecchiava, infatti, un'unità storico-

civile che comprendeva gran parte dell'Europa ed aveva un suo

proprio nome: Romània. Con questo nome s'indicavano i paesi latini

raggruppati sotto il segno di Roma ed essi se ne facevano un vanto

in antitesi con la barbarie dei non latini. Questa funzione polemica

rimase costante nel "romanice loqui" contrapposto al "barbarice

loqui". Non si può praticamente parlare di una transformazione, ma

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piuttosto di molteplici impercettibili e successive trasformazioni che

noi possiamo cogliere solo in parte nei documenti e che, sommate

insieme, distinguono dalla latina quella che noi chiamiamo "lingua

italiana". Tale idioma si costituisce a partire da differenti contributi.

L’influsso maggiore proviene - come è ovvio – dalle trasformazioni

del Latino che tuttavia non è l’unico sostrato linguistico, sebbene

sia quello predominante.

Esempi di parole di origine diversa dal Latino (cfr. Migliorini, Baldelli, Breve storia della lingua

italiana, Sansoni, Milano 1994.

Voci germaniche

tardo impero

Voci gotiche Voci longobarde Voci franche Voci bizantine

Vanga Guardia Spalto Bosco Androne

Tasso Schiatta Stamberga Foresta Molo

Arpa Bega Palco Gonfalone Falò

Stalla

(con minor

certezza)

Stia Scaffale Schiera Paragone

Smarrire Fiasco

Guancia,

schiena, nocca,

ecc.

Guardare Smeriglio

Grinta Spaccare,

strofinare, ecc. Feudo. Barone. Anguria, indivia.

All’apice del Medioevo si deve a Dante un apporto straordinario

nella formazione della lingua italiana. Si può dire che egli inventi la

lingua italiana non solo per l’incredibile numero di termini, ma per

la flessibilità che essa assume nel parlare di tutta la vita. Il nostro

sistema linguistico si perfezionerà con Petrarca e Boccaccio, ma

ormai le fondamenta erano state poste.

In resto della storia linguistica italiana non potrà prescindere dal

Medioevo, non potrà prescindere da Dante.

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Il Medioevo e la sua luce: la conservazione dei classici e la

valorizzazione del lavoro.

«Era necessario che l'eroico diventasse

quotidiano e che il quotidiano diventasse eroico»

(Giovanni Paolo II)

Nella Costruzione della Res publica christiana un ruolo determinate

fu quello dei monaci, evangelizzatori e costruttori di civiltà. I

monasteri erano crocevia di fede e di cultura , ma anche luoghi di

scambio di tecniche e abilità artigiane. Se ne parla in questo

capitolo dedicato alle lingue e alle letterature romanze poiché essi

costituirono la trama unitaria di un arazzo le cui figure particolari

avranno senso solo se inserite nello sfondo.

La maggior parte delle persone pensa che il maggior contributo

dato dai benedettini alla civiltà occidentale sia l'attività di studio e

culturale in senso lato. In verità, i benedettini coltivarono in modo

notevole un altro aspetto della civiltà occidentale, ossia ciò che

potremmo definire "le arti pratiche". Nella vita monastica svolse un

ruolo importante il lavoro manuale, «dobbiamo ai monaci la

ricostruzione agraria di gran parte dell'Europa», sostiene uno

studioso. «Ovunque andassero i benedettini trasformarono terra

desolata in terra coltivata. Intraprendevano la coltivazione del

bestiame e della terra, prosciugavano paludi e abbattevano foreste.

Furono i benedettini a trasformare la Germania in una terra

fruttifera». I monaci furono anche importanti inventori e

sperimentatori. Grazie alla grande rete di comunicazione esistente

tra i vari monasteri, la competenza tecnologica poté diffondersi

rapidamente. I cistercensi furono noti anche per la loro abilità

metallurgica. Furono i principali produttori di ferro della regione

della Champagne. I monaci furono «gli esperti e non pagati

consiglieri tecnici del terzo mondo del loro tempo, vale a dire

l'Europa dopo l'invasione dei barbari. In effetti, che fosse la

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macinatura del sale, del piombo, del ferro, dell'allume o del gesso,

o la metallurgia, l'escavazione del marmo, il tener bottega di

coltellinaio o una fabbrica di vetro, o il forgiare piastre di metallo,

non vi era alcuna attività in cui i monaci non dessero prova di

creatività e di uno spirito di ricerca fecondo. I benedettini sapevano

incanalare il proprio lavoro verso la perfezione e ciò si verificò

anche nella parola scritta.

Nell'antichità la scrittura dei testi era affidata esclusivamente a

schiavi literati, a servizio di privati o del pubblico, riuniti in officine,

addestrati fin dall'infanzia al lavoro calligrafico e stimati anche

notevolmente, a seconda del loro talento e della loro cultura. La

condizione servile dei copisti cessò del tutto solo col diffondersi del

cristianesimo; con le invasioni barbariche questa professione finì

per essere coltivata quasi solo nei monasteri: infatti essa finì col

costituire la principale attività dei monaci di molti ordini religiosi. Lo

studio della calligrafia, che comprendeva la scrittura e la miniatura,

era prescritto dalle regole monastiche, a partire da quella

benedettina. Quest'attività, attestata in Italia fino dal sec. V, e dal

VI nell'Irlanda e nella Scozia, donde si diffuse nel continente,

ricevette nuovo impulso dalla rinascenza carolingia, quando Alcuino

organizzò per conto di Carlo Magno laboratori di copie e scuole di

calligrafia che divennero centri di diffusione della cultura; qui

talvolta era perfino fissato il quantitativo annuale di volumi che

ciascun allievo doveva produrre: famoso fra tutti il monastero di

San Martino di Tours. I nomi, che talvolta i copisti apponevano alle

opere da loro trascritte, ci rivelano che anche persone di elevata

condizione non disdegnavano questo modesto lavoro. Anche gli

ordini femminili si dedicarono fruttuosamente alla trascrizione dei

testi fino dai primi tempi del Medioevo. Il locale destinato nei

conventi agli amanuensi era detto scriptorium ed era attiguo alla

biblioteca, o nella biblioteca stessa: vi era prescritto il silenzio, e

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non vi potevano entrare se non i superiori, il bibliotecario, e i copisti

in determinate ore del giorno. Questi sedevano su sgabelli situati

dinanzi a tavole apposite e copiavano ciascuno un manoscritto

diverso o le singole parti di un'opera, o scrivevano insieme sotto

dettatura dell'armarius o bibliotecario. I monaci si trovavano spesso

a lavorare nel freddo più inclemente. Su un codice monastico sono

annotate queste parole: «Colui che non sa scrivere immagina che

ciò non sia una fatica, ma sebbene soltanto tre dita tengano la

penna, è il corpo intero a stancarsi».

Col sec. XIII accanto alle scuole monastiche si sviluppa l'industria

degli scrittori di mestiere, chierici o laici, riuniti talvolta in

corporazioni che gareggiano in attività coi monaci, i quali, in quel

secolo e nel successivo, si dedicarono soprattutto alla trascrizione di

opere teologiche e scolastiche per ritornare poi, nel Rinascimento, a

copiare anche le opere letterarie. Di scrittori salariati si servirono

allora anche i monasteri con sempre maggiore frequenza: in Italia

del resto essi erano sempre esistiti accanto alle scuole, alle

università, agli studi dei notari, che scrivevano gli atti e i diplomi e

talvolta anche libri. I salari dei copisti erano computati a linee, a

fogli o a quaderni, e per i libri miniati anche a lettere.

Nella seconda metà del sec. XV, per la gara nata fra principi italiani

nel far esemplari codici di lusso, gli amanuensi furono anche celebri

calligrafi: vi sono infatti un numero infinito di classici ordinati dalle

corti di Ferrara, Napoli, Firenze, Milano e Urbino, trascritti con la

massima perfezione ed eleganza. Alcuni di essi furono veramente

famosi e i loro nomi ci sono noti: a Napoli si distinsero

principalmente Joan Marco Cinico, Ippolito Lunense e Giovan

Rinaldo Mennio; a Firenze Antonio Sinibaldi, insuperabile nell'arte

sua, celebre collaboratore di Vespasiano da Bisticci, che nella sua

bottega procurava codici alle corti d'Italia. Ma ormai siamo oltre il

Medioevo e tuttavia la cura con cui si pubblicheranno i testi, prima

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e dopo l’invenzione della stampa, è derivata dalla pazienza degli

amanuensi e dalla loro arte di ‘alluminar’ le pagine dei libri –

secondo la formula di Dante nel canto XI del Purgatorio, v. 81 – .

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Il Medioevo e la sua luce: le narrazioni epiche

«Il conte Orlando giace sottesso un pino e verso Spagna egli ha rivolto il viso: di molte

cose a ricordar gli prese, di tante terre ch’egli, il baron, conquise, di dolce Francia e

della sua famiglia, di Carlo Magno, suo sir, che lo nutrì; (…)».

(La chanson de Roland)

Ai testi dell’antichità classica, copiati e miniati dagli amanuensi, si

aggiunsero, dopo il Mille, racconti di recente ‘invenzione’, ma

ancorati a riferimenti storici, prima tramandati oralmente e poi

trascritti nei nuovi idiomi romanzi o in una delle lingue neo-nate dal

ceppo germanico o scandinavo o slavo. Le lingue e le letterature

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che si sviluppano nel cuore del Medioevo sono favorite da fattori

storici di un certo rilievo.

Nell’VIII e IX secolo, la lingua principalmente parlata in Europa

occidentale era il latino. Nell’813 avvenne una svolta incredibile. In

quell’anno si tenne il Concilio di Tours, voluto da Carlo Magno,

grazie al quale nacquero le lingue romanze (termine derivante da

romana lingua, ovvero lingua derivata dal latino). Questo concilio

stabilì che, durante le celebrazioni religiose, la liturgia rimaneva in

latino, ma l’omelia doveva essere predicata in volgare. Da questo

momento sempre più persone imparavano nuove lingue a sfavore

del latino.

Pochi decenni dopo, nell’ 842, venne scritto il primo documento

ufficiale in lingua romanza. Si tratta del famoso Giuramento di

Strasburgo, un giuramento di fedeltà tra Carlo il Calvo e Ludovico il

Germanico, che venne letto dai due fratelli davanti ai rispettivi

eserciti sia in lingua romanza (volgare francese), sia in lingua

teudisca (volgare tedesco).

Esaminando la storia della lingua francese, un altro fatto storico

successivo, ma fondamentale, avvenne probabilmente durante la

crociata contro gli albigesi. In quel periodo, dal punto di vista

linguistico, la Francia era divisa in due aree linguistiche: il nord

parlava la lingua d’oil e il sud la lingua d’oc. Durante questa

crociata la lingua del nord prevalse su quella del sud. Gli albigesi,

chiamati anche catari, erano considerati degli eretici da eliminare e

la loro eresia si sviluppò soprattutto in Occitania, una regione del

sud della Francia. Papa Innocenzo III radunò dunque un esercito

proveniente dall’Ile-de-France, una regione settentrionale, per

marciare contro la Linguadoca, il cui nome sta ad indicare che in

quella regione meridionale la lingua parlata era quella d’oc.

L’esercito crociato raggiunse la regione interessata e, dopo una

serie di battaglie svolte tra il 1209 e il 1211, gli eretici vennero

massacrati. Il nord prevalse sul sud e di conseguenza la lingua d’oil

prevalse su quella d’oc. Infatti il francese moderno è nato

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dall’evoluzione della lingua d’oil, mentre la lingua d’oc è diventata

un dialetto di minore importanza parlato in poche regioni.

La nascita della lingua nazionale inglese è dovuta a un insieme di

influenze di vari popoli che hanno varcato i confini britannici

durante la storia. I primi furono i Celti (700 a.C. – 55 a.C.), poi

vennero i Romani che portarono il latino (55 a.C. – 409 d.C.), gli

Anglo Sassoni (la parola Angle-land si trasformò in England, cioè

Inghilterra), I Vichinghi e infine i Normanni. Un altro importante

fatto da ricordare è la battaglia di Hastings. Essa ebbe luogo il 14

ottobre 1066 a circa 13 km da Hastings, tra le truppe di Aroldo II,

re degli Anglosassoni, e Guglielmo il Conquistatore, duca di

Normandia. Il vincitore fu Guglielmo e i Normanni conquistarono

l’Inghilterra. Questa sconfitta fu fondamentale per la lingua inglese,

che venne fortemente influenzata dalle forme linguistiche francesi

utilizzate dai Normanni. Un’influenza ancora oggi presente in alcune

parole inglesi.

In Spagna invece lo sviluppo linguistico è principalmente legato alla

Reconquista. Con questa impresa gli stati iberici cristiani ebbero

l’obiettivo di liberare la penisola dal dominio arabo. I regni che

presero parte alla battaglia furono i piccoli stati del nord della

penisola Iberica: I Regni di Castiglia, di Lèon, di Navarra, di

Aragona e la contea di Barcellona. Tra il 1085 e il 1212 ci furono

una serie di battaglie che portarono alla vittoria degli stati cristiani.

A trarre più vantaggio dalla Reconquista fu il Regno di Castiglia, che

fu protagonista di una grande espansione, mentre gli altri stati

rimasero di dimensioni medio-piccole. Per questo motivo oggi il

castigliano è la lingua principale in Spagna, mentre ad esempio il

basco (derivante dal Regno di Navarra) e il Catalano (derivante dal

Regno di Aragona) rimangono dialetti minori.

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In Spagna

Per quanto riguarda l’epica spagnola, il personaggio principale è

sicuramente il Cid Campeador.

La storia del Cid Campeador, cantata dai poemi epici, benché non

abbia sempre basi rigorosamente storiche, narra le vicende epiche

di Rodrigo Díaz, grande condottiero alle prese con i turbolenti

potentati della Spagna del XII secolo.

Poche figure sono state oggetto di controversia come il Cid

Campeador, eroe della Reconquista spagnola nel Medioevo. Citato

da poche fonti storiche, reso leggendario dal Cantar de mio Cid,

celebre poema del 1140 circa che ne esaltava il coraggio sullo

sfondo della turbolenta penisola iberica divisa tra potentati islamici

e principi cristiani in cerca di potere e di gloria, di Rodrigo Díaz si è

messo in dubbio la stessa esistenza.

Oltre a raccontare vicende probabilmente inventate, il poema

rappresenta l’ideale di nazione unificata. Difatti al centro del Cantar

de mio Cid si trova la Reconquista, la leggendaria impresa che ha

portato alla creazione di uno stato unico spagnolo.

Nell’area tedesca

Il canto dei Nibelunghi è un poema epico germanico, ispirato a

poemi precedenti andati perduti, composto da un autore austriaco a

noi sconosciuto (o da più autori) in anni medievali difficili da

precisare, ma che di solito si collocano intorno al 1190-1204.

L’opera ci è giunta, anonima, in tre diverse redazioni, che sono

state scritte in tedesco medio alto, vale a dire nella lingua parlata

nella Germaina meridionale dall' XI al XV secolo. In questo grande

poema epico confluiscono vicende e personaggi provenienti da

epoche e Paesi diversi, da tradizioni differenti anche molto antiche,

che il poeta o i poeti creatori del canto hanno raccolto, fuso e

rielaborato. Perciò vi si trovano personaggi storici come il re

Gundhari, come Attila, re degli unni vissuto nel V secolo, o

Teodorico re degli Ostrogoti.

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Il canto dei Nibelunghi appare dunque come l'insieme di materiali

epici molto differenti, visto che contiene elementi mitologici ( i

nani, i Nibelunghi, le magie e gli incantesimi) assieme a personaggi

reali di epoche molto antiche e sanguinarie, che vivono accanto a

cavalieri raffinati e dame eleganti di secoli più recenti. Il poema

assume la forma di un grande racconto di guerre tra popoli e di

duelli tra cavalieri, ma insieme a questa componente c'è in esso

una sorta di amore tra Sigfrido e l'incantevole principessa Crimilde.

Il titolo prende il nome dai Nibelunghi, che sono nella mitologia

Germanica creature demoniache, proprietarie di un grande e

misterioso tesoro di cui riesce ad impadronirsi nel corso delle

vicende l'eroe Sigfrido, re del Nederland ( che è l'odierna Olanda);

quando Sigfrido riesce a diventare anche re dei Burgundi, una

popolazione germanica dell' alto Medioevo, i nomi dei due popoli

cominciano a identificarsi, per cui i Burgundi diventa nel corso del

lungo poema una cosa sola con gli antichi Nibelunghi.

In Inghilterra

Between the 5th and 6th centuries Jutes, Angle and Saxon settled

to Britain. Their society was founded on loyalty to the family, or to

the clan, and the centre of communal life was the hall, where

people gathered.

While the Romans had introduced Christianity to Britain, the Anglo-

Saxon partly reintroduced the Paganism so Pope Gregory I sent a

monk, Augustine, to bring Christianity back to Britain.

As a consequence of Christianisation, the monasteries became

important cultural centers especially the one in Lindisfarne founded

in 635, where the monks produced illuminated gospels, which are

now on display at the British Library in London.

In 685 a new monastery was founded on the River Tyne at Jarrow

where the scholar Venerable Bede wrote The Ecclesiastical History

of English People, which was completed in 731. Bede used the word

“Angle-land” for the first time and applied some chronology to the

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birth of the country. That’s why he’s regarded as “The father of

English history”.

The battle of Hastings brought a deep political, social and cultural

transformation: many Anglo-Saxon nobleman died in battle, were

exiled or dispossessed of their lands. Two groups of Englishman

remained: the townspeople and the churchmen of lower levels.

The feudal system was established: the new French barons

obtained their lands by becoming king’s tenants and they paid their

rent in military services. They built castles to demonstrate and keep

their power. The barons were allowed to sub-let their land to lesser

tenants called knights in return for their services. The military

services given by the barons and knights, and the agricultural labor

given by the peasants, guaranteed security and food, and so peace

and prosperity.

William the Conqueror claimed to be the lord of the land and his

central authority became stronger. That power was demonstrated

by the Domesday Book (1086), a record of survey which gave to

the king detailed information about the land he possessed; it was

also used for collecting the geld, or property tax. The English called

the book Domesday because they felt it was like having their souls

weighed up on Judgment day. The book listed the different types of

land and their use, the number of productive people and their

status and animals. It showed England as a rich and developed

agricultural country.

The Normans replaced English with French as the language of

government and elite. Latin remained in legal, administrative,

ecclesiastical and intellectual contexts, while English survived in

everyday speech.

In Francia

Sugli ideali della cavalleria si basano i racconti dell’epica carolingia

meglio noti con il termine collettivo di ciclo carolingio a indicare le

cosiddette chansons de geste. Si tratta di narrazioni in versi

decasillabi, dapprima tramandati oralmente e poi, a partire dall’XI

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secolo, consegnati alla scrittura in una serie di redazioni per lo più

anonime. Il racconto più famoso è la Chanson de Roland, paladino

di Carlo Magno, valoroso guerriero che, vittima del tranello ordito

dal perfido traditore Gano di Maganza, difende eroicamente la dolce

Francia e la fede cristiana dall’assalto dei Mori e per questi alti ideali

sacrifica la vita. La sua morte è paragonabile a quella di un martire

e come tale è celebrata nella chanson de geste.

Dal punto di vista stilistico l’opera porta evidenti i segni della sua

origine orale: in primo luogo la divisione in lasse cioè strofe di versi

decasillabi con assonanze che ne rendono facile la memorizzazione;

inoltre la frequenza di formule fisse che connotano i personaggi

principali e li rendono riconoscibili pur nel variare delle situazioni;

infine i numerosi appelli al pubblico per richiederne l’attenzione o le

invocazioni alla Vergine e ai santi affinché ispirino il narratore.

E, infatti, il pubblico a cui si rivolgono le chanson de geste è il più

vario ed eterogeneo, non necessariamente quello delle corti. Sono

quasi sempre i giullari, veri professionisti dello spettacolo, a

raccontare le storie del ciclo carolingio. Verso la fine dell’XI secolo,

come si è detto, tali storie sono scritte. Per esempio della Chanson

de Roland si conoscono diverse redazioni, la più antica risale forse

al 1075 e porta alla conclusione il nome di Turoldo come autore.

Quello delle chanson de geste è un ideale guerriero, fondato sui

valori militari e cavallereschi, che subisce una evoluzione nella

direzione di una maggiore raffinatezza ed eleganza. In altri termini,

durante il XII secolo ai valori cavallereschi si aggiungono quelli

cortesi di gentilezza e nobiltà d’animo, sviluppatisi nelle corti del

sud della Francia, ed espressi dalla poesia dei trovatori.

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Il Medioevo e la sua luce: società e corporazioni ovvero della

sussidiarietà orizzontale

«Il cantastorie ha cominciato a raccontare.

Il tessitore ha cominciato a ricamare.

Porta la calce, porta i mattoni il muratore.

Cammina l'uomo, quando sa bene dove andare».

(Claudio Chieffo, cantautore)

La visione moderna del medioevo trasmette l’idea di una società

basata su rapporti feudali tra signori e vassalli, con una struttura di

tipo piramidale. Questo è parzialmente vero per quanto riguarda

l’alto medioevo; infatti pur essendo caratterizzata da tale

organizzazione la società era dotata di un certo dinamismo tra le

tre classi (oratores, bellatores e laboratores). Come ha bene messo

in luce la studiosa Régine Pernoud, la chiave necessaria per

l’interpretazione esaustiva di questo insieme di rapporti è il

concetto di famiglia, che sta alla base di tale dinamismo. La

mesnie è l’insieme delle persone che gravitano attorno alla figura

del signore feudale, quindi non solo coloro che hanno un vincolo di

sangue con lui, ma tutte le figure di mestiere che lavorano nel

feudo, dai servi ai maniscalchi, a eventuali religiosi, la cui abbazia o

pieve sono all’interno dei confini del territorio. Pertanto in tale

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insieme familiare le distinzioni sono molto labili ed è sempre

possibile cambiarle. In sostanza, dire famiglia – mesnie – significa

dire relazioni personali fondate su rapporti di fiducia e di fedeltà

reciproca fra le parti. Anche lo stesso diritto consuetudinario del

Medioevo ha al centro l’interesse e la tutela della famiglia che ha la

priorità su qualunque altro ragionamento o valore.

Su un tale tipo di patto che vincola due parti sarebbe fondata in

nuce la stessa idea parlamentare, non a caso il parlamento inglese

è appunto frutto di un accordo che lega entrambe le parti in causa:

il re Giovanni Senza Terra, da un lato, e i baroni, dall’altro.

Sempre Régine Pernoud ha evidenziato che la suddivisione di cui

sopra non solo non è rigida come si pensa – applicando una

categoria che semmai sarà valida per l’ancien régime – ma implica

che a ogni status sono legati non solo dei doveri, ma altresì dei

privilegi che appunto sono caratteristici delle singole situazioni. Ad

esempio, lo stesso servo della gleba ha il ‘privilegio’ di non perder

mai il suo lavoro quando invece il feudatario può benissimo

ritrovarsi senza nulla dall’oggi al domani. Quindi la categoria più

corretta per leggere tale società non è quella di povertà vs

ricchezza o di nobili vs servi, ma quella di privilegiati e non

privilegiati.

Anche la monarchia – lo Stato - , è da intendere come storia e

insieme di mesnie, infatti essa è nella maggior parte dei casi

governata da una dinastia di tipo familiare.

Rispetto a questo modello, pur continuando ad essere valida la

centralità della famiglia e delle sue relazioni interne, anzi proprio

come espansione di essa, nel basso medioevo emerge l’ideale di

fraternitas, che sta alla base della formazione di tutte le

corporazioni e associazioni i cui membri sono legati da un rapporto

di tipo fraterno. Quindi non si tratta solo più del rapporto padre,

madre e figli, ma del rapporto tra fratelli.

Lo scopo di questa parte del presente saggio è dunque focalizzare

l’attenzione sulle principali organizzazioni nate nel basso medioevo

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e frutto della mentalità di condivisione e di fraternità, ovvero

università, ordini mendicanti e ospedali. Considerata l’importanza di

questo tipo di appartenenza che investe ogni aspetto della vita, si

può sostenere che il Medioevo ci ha lasciato il primo modello di

sussidiarietà orizzontale o – per dirla

in termini contemporanei – di welfare

society.

È la società articolata in una serie di

corpi intermedi a esprimere lo Stato e

non viceversa; è la società a

organizzarsi e a rispondere ai bisogni

e alle necessità dei suoi membri alla

quale lo Stato fornisce i mezzi

(economici e organizzativi) per la

realizzazione della progettualità dal

Basso. Si pensi che lo stesso Comune

italiano nasce proprio da un atto

solidaristico, la coniuratio, che dà vita

a una associazione di privati, uniti dal desiderio di rispondere ai loro

interessi.

Quindi nello stesso periodo storico che vede la nascita di

organizzazioni di persone legate da un sentimento di fraternità, in

ogni ambito della vita sociale e politica, nel territorio della res

pubblica christiana, in particolar modo nel centro e nord Europa,

nascono quasi contemporaneamente dappertutto associazioni con lo

scopo di prestare insegnamento a coloro che ne accettano la

partecipazione, che col tempo presero il nome di università.

Essa è uno dei lasciti più significativi che il Medioevo ci ha lasciato.

Essa è fondata su associazioni di studenti e professori, definiti

“magister”. L’attività fondamentale all’interno delle università

medievali è la discussione e il dibattito che costituiscono il cuore

delle cosiddette “questiones”. La questio medievale presentava un

argomento, per lo più derivato da questioni etiche e filosofiche,

assegnato dal magister.

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Gli allievi tramite il metodo del “sic et non” appoggiavano una o

l’altra opinione rispetto alla questio data, sostenendola con

argomentazioni e opinioni di vario genere ricavate da diverse fonti.

Alla fine del dibattito il magister formulava la risposta corretta,

motivandola, a sua volta, con argomentazioni provenienti dalla

propria enorme conoscenza. Quindi l’università non era solo un

luogo di studio ma anche un luogo d’incontro e di scambio tra

differenti idee, opinioni e culture che hanno portato allo sviluppo e

innovazione nelle concezioni e ideali del tempo.

Il percorso di studi era diviso in quattro facoltà: arti, diritto,

teologia e medicina. Le arti si basavano principalmente sullo studio

del latino e delle arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica)

che erano propedeutiche per le altre e fornivano la preparazione di

base. Gli studi duravano parecchi anni e terminavano con l’alloro

poetico. Ad esempio, Petrarca diede moltissima importanza

all’alloro poetico della poesia divenendo insieme a Dante e

Boccaccio una delle tre corone della letteratura italiana.

Ma l’università era soprattutto un’associazione e quindi vi era un

forte aiuto tra gli universitari, chiamati chierici, e il magister che

assicurava loro la difesa e li rappresentava di fronte alle autorità.

Proprio con la nascita delle università per la prima volta l’istruzione

e la cultura divennero laiche e non più legate alla sfera

ecclesiastica, sebbene chi vi insegnava fosse molto spesso un

religioso o avesse quantomeno gli ordini minori. Precedentemente

la cultura veniva insegnata e appresa nei monasteri e nelle scuole

episcopali mentre ora si ha una prima distinzione, anche se non

completa, tra istruzione e Chiesa.

Sorsero moltissime università in tutta Europa. In Italia ve ne erano

alcune di riferimento per tutte le altre come ad esempio quella di

Bologna, punto di riferimento per il diritto. Essa nacque nel 1088, la

più antica, per iniziativa degli studenti di diritto, cui nel 1158

l’imperatore Federico Barbarossa concesse immunità e privilegi.

A Bologna studiarono i più illustri letterati: Dante

Alighieri e Francesco Petrarca, ma anche Guido Guinizzelli,

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Cino da Pistoia, Cecco d’Ascoli, Salimbene da Parma. Altre

importanti università furono la Scuola di medicina di

Salerno (già attiva alla metà dell’XI secolo). Nel 1222 fu la volta

Padova, nel 1224 di Napoli, nel 1290 di Macerata, nel 1303

di Roma, nel 1308 di Perugia, nel 1343 di Pisa e a seguire di

tante altre città medie e grandi. In Europa furono fondate altre

grandi università come quella di Parigi e di Oxford in Inghilterra.

La più antica università inglese è quella di Oxford, nella quale gli

studi iniziarono persino senza alcun titolo di Universitas nel 1096.

Sin dai primi anni di esistenza di queste associazioni, esse – e in

particolare Oxford – erano un centro di vita politica e religiosa per

chiunque vi partecipasse. Solo nei secoli successivi è stata

caratterizzata da una grande crescita favorita sia dai servizi che

essa forniva che dai tributi ottenuti da sovrani come Edoardo III nel

1355.

Questo sviluppo è iniziato in particolar modo attorno al 1167,

quando Enrico II proibì agli studenti inglesi di frequentare

l'università di Parigi, decreto seguito da uno scontro tra studenti e

popolo nel XIII secolo, che ha dato origine alle cosiddette sale di

residenza o Hall of residence, una forma medioevale dei college

moderni.

Controllati dai Masters, prestavano una residenza e beni agli

studenti per favorire il proseguimento del percorso di studi. Tra i

più antichi ricordiamo Balliol e Merton, nati rispettivamente nel

1249 e 1264, periodo nel quale Papa Innocenzo IV conferì ad

Oxford il titolo di università (1254).

A differenza delle altre università che si formavano in quel periodo,

solamente ad Oxford erano istituite due facoltà di diritto: Civile e

canonico. Mentre un'altra caratteristica che la distingueva era in

particolare la facoltà di teologia.

Durante il corso degli anni Oxford non rimase l'unica università

inglese, bensì fu seguita nello stesso periodo da quella di

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Cambridge (1231) e successivamente nel XV secolo dall'università

di Glasgow (1451) e di Aberdeen (1495) in Scozia.

Tornando al cuore del Medioevo, non si può parlare di maestri e di

grandi dottori senza citarne uno dei più famosi e colti, Abelardo.

Nacque nel 1079 in un villaggio della Bretagna. Era figlio di un

feudatario locale, provvisto di notevole cultura. Abelardo rinunciò

alla carriera militare e ad ogni eredità per dedicarsi agli studi

letterari. A vent’anni giunse a Parigi e frequentò la scuola del

maggiore rappresentante dei realisti, dove si oppose al maestro in

quell’aspra dialettica che fu il problema degli universali.

In questa lotta vinse Abelardo, che divenne magister. Le sue lezioni

di logica e teologia vennero seguite da grandi schiere di discepoli

che accorrevano da tutta Europa. Nel suo insegnamento aveva una

posizione centrale la logica che acuiva nell’individuo il gusto verso

un’indagine più spregiudicata. Egli sottopose ad analisi dialettica i

Testi Sacri: ne risultò il trattato De Unitate et Trinitate Dei. Questo

scritto fu sottoposto a varie accuse di non ortodossia, tanto che egli

fu costretto a bruciarlo pubblicamente. Amareggiato, si ritirò

nell’eremo di Quincey, dove lo raggiunsero i vecchi scolari, così

Abelardo riprese ad insegnare e a scrivere. Nel 1142, stanco e

malato, morì.

La storia di Abelardo ed Eloisa

Viveva a quei tempi a Parigi una bella fanciulla di nome Eloisa, nipote di Fulberto, canonico che aveva cercato di far istruire nelle discipline letterarie la nipote. Così

ella era divenuta una ragazza istruita tanto da suscitare l’interesse di Abelardo. Per arrivare a lei Abelardo avvicinò Fulberto tramite amici comuni e, una volta che

fu ospitato nella casa di Fulberto, divenne maestro di Eloisa. Iniziarono così le lezioni, ma i due, Abelardo ed Eloisa, con il pretesto dello studio e approfittando

della solitudine, iniziarono una relazione d’amore. Tale relazione però portò Abelardo ad allontanarsi dalla sua Università e le sue lezioni divennero sciatte e prive di entusiasmo. I suoi scolari si accorsero del cambiamento di Abelardo

perché la cosa, in effetti, era tanto evidente che non poteva passare inosservata per alcuno, eccetto che per lo zio della fanciulla. Eloisa rimase incinta, fu rapita e

portata in Bretagna, dove nacque il figlio Astrolabio. Al suo rientro a Parigi, Abelardo la sposò in segreto e la fece vivere nascosta in un monastero. Fulberto si vendicò facendolo evirare. Abelardo convinse Eloisa a prendere il velo ed egli

stesso si fece monaco. Questa separazione corporea comunque non fece altro che accrescere ancora di più il loro amore. Si scambiarono lettere appassionate, come

dimostra anche il seguente estratto dall’epistolario. Eloisa scrive ad Abelardo “Dio sa bene che in te non ho mai cercato altro che te solo; ho desiderato

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esclusivamente te e non le tue sostanze. Non miravo al matrimonio né alla ricchezza; tu sai bene che sempre ho cercato di soddisfare non i miei piaceri ma unicamente i tuoi. E se il nome di moglie appare più sacro e più valido, per me è

sempre stato più dolce quello di amica o, se non ti scandalizzi, di concubina e amante perché, quanto più mi fossi umiliata dinanzi a te, tanto più ti sarei stata

gradita e avrei meno offuscato lo splendore della tua trionfante personalità.” Eloisa morì nel 1164 e fu sepolta accanto ad Abelardo.

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Il Medioevo e la sua luce: gli ordini mendicanti

La provedenza (…) due principi ordinò in suo favore, che quinci e quindi le fosser per guida.

(Dante, Paradiso)

Nell’insieme delle corporazioni medievali rientra anche un tipo

particolare di organizzazione religiosa che è quella degli ordini

mendicanti il cui luogo di abitazione è il convento. Mentre i monaci

scelsero luoghi solitari e lontano dalla gente, i conventi sorsero nel

cuore delle città, a condividere in tutto le difficoltà degli uomini di

quei tempi.

In questi ordini è quanto mai evidente il legame di fraternitas che

accomuna tutte le corporazioni medievali, tanto che i monaci si

considerano fratelli fra di loro oltre che di tutto il resto della

cristianità. Il modello del convento medievale è del tutto in

continuità con quello del monastero precedentemente ideato da

Benedetto da Norcia. Esso doveva essere infatti economicamente

autosufficiente e per essere tale si serviva dell’autoproduzione per il

sostentamento di chi vi abitava; quindi erano i monaci a dedicarsi

all’agricoltura, all’allevamento e alla lavorazione delle materie

prime.

Probabilmente proprio questa autosufficienza ha permesso ai

conventi di rimanere, anche durante gli anni più bui di guerre e

carestie, dei punti di riferimento per contadini e pellegrini che

sapevano di potervi trovare ospitalità.

Per questo i conventi divennero anche dei centri importanti per

quanto riguarda la cultura medievale e per la diffusione di quella

classica antica, infatti il mantenimento di una condizione economica

favorevole ha fatto sì che i monaci potessero dedicarsi a quella che

è stata la loro opera più importante ovvero la copiatura e la

conservazione degli scritti classici e antichi riuscendo a far arrivare

fino a noi i più importanti fra di essi.

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Inoltre, non è da sottovalutare il ruolo che gli ordini mendicanti

hanno avuto nella formazione degli ospedali e nello sviluppo delle

università, che sono le altre corporazioni di cui tratta questa

sezione.

Tutti gli ospedali erano, infatti, gestiti prima dai monaci e poi dai

frati che avendo il servizio e l’umiltà come ideali da seguire erano

fra i pochi che si “degnassero” di prendersi cura dei malati.

Nelle università il contributo degli ordini mendicanti e dei religiosi in

senso lato fu di primaria importanza poiché all’interno di esse era

presente la figura del chierico ovvero dello studioso che prendeva

gli ordini minori per poter condurre indisturbato le sue ricerche

senza curarsi di svolgere un’ulteriore attività per trarne

sostentamento. Spesso questi chierici erano vaganti cioè si

spostavano di città in città studiando o insegnando nelle università.

Essi potevano anche fare parte degli ordini mendicanti, ad esempio

i domenicani erano dediti allo studio e alla preservazione della

cultura.

Un esempio di grande studioso medievale domenicano fu Tommaso

d’Aquino; ciò dimostra che pur essendo la cultura più autonoma da

tematiche religiose, gli ordini mendicanti in questione – e non solo

quelli – continuavano a rivestire un ruolo di protagonisti nello

sviluppo del sapere.

Proprio il già citato Tommaso d’Aquino fu uno dei maggiori

esponenti della Scolastica ovvero della principale corrente filosofica

cristiana medievale. La Scolastica si basa principalmente

sull’aristotelismo e le sue dimostrazioni derivano dalla dialettica

aristotelica. Infatti, quando si definisce la scolastica come filosofia

cristiana non significa che essa basi i propri principi su dogmi

incontestabili, infatti i filosofi di questa corrente ricavano le loro

conclusioni da ragionamenti in tutto e per tutto razionali,

semplicemente esse riguardano temi tipici della religione cristiana

infatti molti dei filosofi scolastici erano ecclesiastici.

Il nome Scolastica fu dato a questa filosofia dopo il medioevo dagli

umanisti che la consideravano troppo dipendente dalla teologia. Il

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nome deriva dal termine scholasticus che indicava i maestri delle

discipline superiori insegnate nelle università.

Un altro grande filosofo su cui si basa la scolastica è Agostino

D’Ippona molto caro allo stesso Tommaso. La teologia scolastica

può esser definita nel modo migliore con le parole di Anselmo:

Fides quaerens intellectum. È suo compito comprendere con l’aiuto

della ragione le verità rivelate, chiarirle e difenderle contro

obiezioni, raccogliere infine le singole verità e ricavare da esse

tramite il pensiero deduttivo nuove verità.

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Il Medioevo e la sua luce: gli ospedali

Noi diamo i farmaci

Dio la salute.

Con il termine ospedale nel

Medioevo si indica un luogo

destinato a offrire ospitalità a

chi ne avesse bisogno.

L'ospedale, perciò, non è

inteso come luogo di cura

degli ammalati come per noi

oggi. Solo nel Quattrocento

vengono fondati ospedali che,

come il Sant'Anna a Ferrara

(1440) e il San Matteo a

Pavia (1449), diventano

luoghi di cura per i malati,

cioè ospedali nel senso che

noi diamo oggi alla parola.

La funzione principale di un

ospedale nel Medioevo è quella di accogliere i pellegrini, in

particolare quelli che non sono in grado di pagarsi un letto in una

locanda. Per questo motivo, spesso gli ospedali si trovano lungo le

strade che portano, da tutta Europa, verso le grandi mete di

pellegrinaggio. Sorgono ospedali nelle città, ma anche fuori dalle

mura, per permettere ai pellegrini di trovare rifugio anche in caso

arrivino a tarda sera, quando le porte della città sono ormai chiuse.

Gli ospedali sono istituzioni religiose, spesso appartengono ad un

monastero o a una parrocchia e vivono di redditi prodotti da lasciti

di cittadini e di elemosine. Non sono in grado di offrire molto:

generalmente un letto o, più spesso, un pagliericcio in uno stanzone

comune. Quando non sono adiacenti ad un monastero o ad una

chiesa, hanno una cappella. Di solito non è prevista l'offerta di cibo

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ai pellegrini, mentre per i poveri e gli infermi ogni ospedale si

comporta secondo le proprie possibilità.

In un documento del 16 gennaio 1346, relativo all'Ospedale della

Misericordia in Ivrea, si legge: "si dà a ciascun infermo da mangiare

secondo le possibilità della casa e, quando ciò non è possibile, si

preparano loro dei buoni letti… ai poveri non si dà il vitto tutti i

giorni, perché, quando possono camminare, vanno a chiedere

l'elemosina e alla sera tornano ai loro letti". Inoltre, per quanto

riguarda gli infermi, si legge: "quando è necessario, si manda a

chiamare il medico per curarli". Questa frase precisa che anche

l'ospedale per gli infermi non è, come intendiamo noi, un luogo di

cura, ma soltanto un luogo di assistenza e il medico viene chiamato

solo in caso di bisogno.

Un po' diversa era la sorte degli ammalati ricoverati negli ospedali

dei monasteri e delle abbazie, perché qui vi erano monaci esperti

nella raccolta e coltivazione di erbe medicinali e nella preparazione

di medicine.

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Il Medioevo e la sua luce: le cattedrali

Il Medioevo è l’unica epoca di ‘sottosviluppo’ che ci ha lasciato le cattedrali.

(Régine Pernoud)

Fra le testimonianze architettoniche che meglio simboleggiano il

Medioevo – e che senz’altro sono più visibili e sotto gli occhi di tutti

– si annoverano le cattedrali. Queste opere rappresentano il luogo

ideale di incontro e fusione delle arti maggiori quali l’architettura, la

scultura e la pittura, ma anche delle arti minori, quali, per esempio,

la lavorazione del vetro. Da questa prima considerazione possiamo

intuire il carattere sintetico della cattedrale, sia romanica che

gotica, che può essere considerata una “summa” nella quale ogni

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dettaglio richiama il tutto e il tutto richiama il dettaglio. In sostanza

essa sintetizza in modo mirabile la concezione della vita e dell’uomo

che hanno gli uomini del Medioevo e quindi ogni particolare ha a

che fare con il Significato della realtà cioè Dio.

Ciò avviene attraverso un complesso linguaggio di simboli che

facevano parte della cultura medievale ma che sono ormai estranei

alla nostra. Citando lo storico Le Goff, si può dire che «ogni oggetto

materiale era considerato come la figurazione di qualcosa che gli

corrispondeva su un piano più elevato e che dichiarava così il suo

simbolo». Il simbolismo medievale si basava sulla profonda

convinzione che il Signore abbia «disposto ogni cosa con misura,

calcolo e peso», come si legge nel libro della Sapienza. Prosegue

poi Le Goff dicendo che la natura era la principale fonte di simboli:

pietre, fiori e animali rappresentavano le virtù e le caratteristiche

dell’uomo. Si riteneva che le pietre gialle o verdi guarissero le

malattie del fegato e quelle rosse le emorragie. La mela

rappresentava il male. La Vergine era simboleggiata sia dalla rosa

bianca, che indicava la verginità, ma anche dalla rosa rossa, che

indicava la sua carità. Il mondo animale rappresentava l’universo

del male, ad esempio il caprone simboleggiava la lussuria mentre il

leone era ambiguo poiché poteva rappresentare sia la forza e la

purezza che la violenza e l’ipocrisia. Il simbolismo medievale si

ritrova anche nell’architettura delle cattedrali, la cui pianta può

essere, ad esempio, rotonda e simboleggiare i quattro punti

cardinali e quindi l’universo.

Il simbolismo principale è tuttavia quello dei numeri che servivano a

dare un senso di proporzione e armonia. Il numero sette e i suo

multipli sono un segno di pienezza e perfezione ed, infatti,

rappresentano i giorni della creazione e le sette chiese

dell’Apocalisse. Il tre simboleggiava la Trinità cristiana. Il quattro

rievocava i punti cardinali ed era generalmente intrecciato con il

numero dieci, infatti il quaranta rappresenta il numero dei giorni

della tentazione di Gesù. Era molto importante anche il numero

dodici, ottenuto dal prodotto fra il quattro e il tre. Il sei, invece, era

il numero imperfetto per eccellenza e, se ripetuto tre volte, era il

numero di Satana. Anche le parole venivano lette e interpretate in

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base alla corrispondenza fra le lettere e i numeri, secondo un

metodo detto gematria.

Allo stesso modo anche le cattedrali medievali erano costruite

basandosi su simbolismi che rispecchiavano la concezione religiosa

e antropologica del tempo. I due stili principali erano il Gotico e il

Romanico. Non si può pensare che il passaggio da uno stile all’altro

sia stato netto ma non si può neanche negare l’esistenza di un

cambiamento evidente fra i due.

Il Romanico si diffuse nell’ XI e XII secolo. Era uno stile chiaro e

razionale e le costruzioni erano tozze e robuste per dare il senso

della massa e del volume. L’unica fonte di luce presente proveniva

dal rosone frontale che era sempre progettato in modo da

illuminare l’altare. Altri elementi caratteristici di questo stile erano

le volte a botte e le navate, scandite da colonne e pilastri

cruciformi. Tutti gli elementi erano disposti in modo da

accompagnare lo sguardo del fedele verso l’abside, dove era situato

l’altare.

Il Gotico invece rappresentava il tentativo dell’uomo di toccare il

cielo per congiungersi a Dio. Fu un fenomeno di portata europea

che interessò tutti i settori della produzione artistica, in particolare

le arti minori, e si diffuse intorno alla metà del XII secolo. Con il

Gotico scomparve il senso di massa e volume del Romanico per

dare spazio a grandi vetrate che permettevano alla luce di inondare

la cattedrale.

Il Romanico si diffuse in secoli caratterizzati da epidemie, carestie e

invasioni e quindi sottolineava come la sofferenza nella vita terrena

fosse resa significativa dalla Salvezza operata da Cristo e

meritevole della vita eterna, che era la vera aspirazione dell’uomo.

Il Gotico invece si sviluppò dopo la crisi, in un periodo in cui il

benessere era più diffuso e si iniziò ad avere una maggiore fiducia

nelle capacità dell’uomo. La riflessione artistica sui temi della morte

e di Dio, tipica del Romanico, fu rimpiazzata da una nuova

riflessione sull’uomo e sulla natura e da una rivalutazione del

rapporto fra uomo e Dio. L’uomo è quasi nulla, ma in lui Dio stesso

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ha posto la ragione come capacità di avvicinarsi alle cose altissime

ragionando per analogia. Dunque si stava diffondendo un comune

sentire per cui l’uomo era più presente nella sua vita e nel suo

tempo e provava orgoglio per le sue creazioni e per la sua capacità

di saper modellare lo spazio. In questo contesto le cattedrali si

ergevano come inni all’intelligenza umana. Una funzione del Gotico

era quella di riportare l'uomo a guardare verso l’alto quando le

sofferenze rischiavano di distrarlo.

La luce divenne allora un elemento caratteristico dell’architettura

perché era una metafora per indicare Dio come somma verità. Essa

rappresentava anche la positività in contrasto con il buio che

evocava la negatività. Questi simbolismi erano semplici e

rappresentavano un punto di incontro tra la cultura popolare e gli

studi dei teologi. Assunsero un altro significato anche l’oro e le

pietre preziose che riflettevano la luce intensificandola; per questo

divennero più importanti le arti minori che si occupavano della

lavorazione di materiali pregiati. La luce era ritenuta superiore a

tutti gli altri elementi naturali perché era la meno materiale ed era

considerata principio e ordine di tutto, proseguendo una tradizione

filosofica di cui facevano parte Platone, Dionigi l’Aeropagita e

Agostino.

L’architettura gotica si spingeva verso la luce dell’universo e la luce

assumeva un significato ben preciso. Questo significato è spiegato

nei primi sette paragrafi dell’opera Riconduzione delle arti alla

teologia di San Bonaventura, scritta intorno al 1255 e al 1257. In

questo opuscolo le conoscenze umane sono presentate come vere e

proprie “luci” che derivano da Dio, la fonte di luce principale. Le luci

principali sono quattro: l’arte meccanica, la conoscenza sensibile, la

conoscenza filosofica e la Sacra Scrittura. La luce dell’arte

meccanica è definita “esterna” perché illumina le forme prodotte

dall’uomo che sono esterne all’uomo stesso e sono state prodotte

per supplire ai suoi limiti. Questa luce è a sua volta divisa in altre

sette luci, in base alle sette arti meccaniche descritte da Ugo di San

Vittore nel Didascalicon. La luce della conoscenza sensibile è detta

inferiore perché ci permette di conoscere la natura con l’aiuto della

luce corporea, divisa in cinque parti corrispondenti ai cinque sensi.

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La luce della conoscenza filosofica è chiamata luce interiore perché

si serve dei principi delle scienze e della verità naturale insiti

nell’uomo per natura per ricercare le cause interiori e nascoste.

Questa luce si divide a sua volta in tre parti (razionale, naturale,

morale) che corrispondono alle tre verità (dei discorsi, delle cose e

dei comportamenti). La filosofia del discorso si divide in

grammatica, logica e retorica. La prima serve ad esprimere, la

seconda ad insegnare, la terza a muovere gli animi. La filosofia

naturale, invece, si divide in fisica, matematica e metafisica. La

fisica studia la formazione delle cose e le loro deformazioni, la

matematica si basa sull’astrazione a partire dall’osservazione e la

metafisica studia la conoscenza di tutti gli enti formatisi da Dio che

è il loro principio primo, il loro modello e il loro fine. L’ultima luce è

la luce della Sacra Scrittura, che è definita superiore perché ci viene

rivelata da Dio e conduce alla conoscenza delle verità che

oltrepassano la ragione. Questa luce è divisibile in altre quattro luci

in relazione ai sensi in base ai quali si può interpretare la Sacra

Scrittura (letterale, allegorico, morale e anagogico). Le quattro luci

avranno una fine perché “ogni scienza sarà distrutta” [1 Cor 13, 8].

Come tutte le luci hanno origine da una sola luce, così tutte le

conoscenze sono ordinate alla conoscenza della Sacra Scrittura e in

essa sono contenute, in essa trovano il loro compimento e

mediante essa si ordinano all’eterna illuminazione, cioè Dio.

Lo stesso Ugo di San Vittore nella sua opera De tribus diebus

sostiene che le creature rimandano al Creatore mediante la loro

bellezza che si può osservare nella posizione, nel movimento,

nell’aspetto e nella qualità e che in essi si cela la luce della sapienza

divina. La posizione si può osservare per quanto riguarda la

composizione e l’ordine e si può ammirare la proporzione e

l’armonia del creato nel quale anche gli opposti, come il fuoco e

l’acqua, coesistono; infatti, tutte le singole cose create difendono

con grande sforzo la propria natura e il proprio essere, e nello

stesso tempo tutte le cose non possono assolutamente essere

disgiunte dalla concorde associazione che le unisce.

Il Gotico rappresentava, in alternativa al Romanico, il desiderio di

‘liberarsi’ del mondo materiale per entrare in un mondo puramente

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spirituale illuminato dalla luce che, penetrando dalle enormi

vetrate, si tingeva di mille colori.

Per erigere edifici sempre più maestosi e smisuratamente alti fu

necessario rivoluzionare anche le tecniche di costruzione e di

scarico dei pesi: il Romanico si basava sull’equilibrio statico delle

cattedrali, mentre il Gotico si basava su un complesso sistema di

spinte e quindi sull’equilibrio dinamico.

Gli elementi caratteristici principali del Gotico erano l’arco a sesto

acuto, l’arco rampante, la volta a ogiva e la volta a crociera

costolonata. Quest'ultima rappresentava il modulo in base al quale

veniva edificata la cattedrale secondo un insieme di regole di

proporzione: la disposizione della Chiesa rappresentava la forma del

corpo di Cristo in croce, in particolare il luogo dove si trova l’altare

ne ricorda la testa e le navate il resto del corpo. L’utilizzo del

modulo nelle varie forme dell’arte medievale è molto significativo

della concezione dell’uomo del tempo: egli infatti voleva ritrovare la

perfezione e la geometria del mondo ultraterreno nel mondo

terreno.

Anche in letteratura si trovano esempi illustri di tale tecnica: la

Divina Commedia è composta sul modulo base della terzina. La

fede nell’ordine universale, che si sovrappone alla molteplicità del

reale, si riflette nella struttura geometrica dell’espressione artistica

e architettonica del tempo.

L’arco a sesto acuto produceva una spinta orizzontale minore

rispetto a quella prodotta dall’arco a tutto sesto usato

precedentemente; l’arco rampante e i contrafforti servivano a

diminuire il peso sostenuto dalle pareti, che potevano essere

traforate da grandi vetrate, e a verticalizzare le spinte provenienti

dal soffitto.

Anche gli elementi strutturali erano simboli ben chiari ai fedeli: le

vetrate esprimevano l’ospitalità e la misericordia. Esse erano una

delle caratteristiche peculiari del Gotico ed avevano il grande pregio

di filtrare la luce, dando a essa però effetti diversi a seconda della

stagione e della giornata. Con il tempo le vetrate si ampliarono

sempre di più e assunsero il ruolo di separare il mondo sacro da

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quello profano; nel Romanico invece tale compito spettava alle

pareti.

La tecnica della lavorazione del vetro era molto raffinata, ma

ancora più sofisticate erano le abilità che servivano a colorare il

vetro. A volte le gradazioni erano ottenute attraverso la

sovrapposizione di più lastre di colore e spessore diversi per

ottenere un effetto simile alle pietre preziose. Le vetrate erano

spesso decorate con scene sacre, probabilmente basate su dei

modelli comuni come suggerisce il fatto che sono state trovate

raffigurazioni simili in chiese molto distanti fra loro. Potevano

esserci anche più di trenta episodi nella stessa vetrata, che

dovevano essere letti secondo un ordine preciso ma che poteva

variare da una all’altra. Oltre alle raffigurazioni di personaggi sacri,

erano presenti anche immagini di categorie professionali e dei

committenti come i re, i principi e i vescovi. Nel XIII secolo si

moltiplicò anche la rappresentazione di artigiani e commercianti,

segno dell’importanza economica che questi ceti avevano acquisito.

Le immagini sulle vetrate illuminate dalla luce divennero il simbolo

della parola divina e portarono i fedeli a porsi delle domande.

L’educazione dei fedeli non era la loro unica funzione; esse

potevano servire a celebrare i committenti o personaggi importanti

come re o papi o, ancora, a guidare i pellegrini verso le reliquie o

per il clero.

Altri simboli erano le quattro mura laterali che rappresentavano le

quattro virtù della religione, ovvero giustizia, forza, prudenza e

temperanza. Anche le pietre, che erano congiunte insieme per

formare le mura, rappresentavano i fedeli che costituivano la

comunità. Tutta la comunità contribuiva, infatti, alla costruzione

dell'edificio sia dal punto di vista della manodopera che dal punto di

vista economico. Per esempio, nel caso del cantiere del Duomo di

Milano, la maggior parte dei fondi provenivano dalle donazioni dei

cittadini e non dalla nobile famiglia dei Visconti, che aveva

commissionato l'opera. Il cantiere del Duomo di Milano era

considerato dai cittadini un'opera comune ed ognuno si sentiva in

dovere, spinto da un senso di gratitudine, di dare un contributo a

seconda delle proprie capacità. Questa concezione nasce da un

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ideale che dà senso alla vita comune ma che valorizza il singolo

senza sminuire la personalità di ognuno: chi contribuiva alla

costruzione del Duomo lo faceva perché, edificando il Duomo,

edificava anche se stesso.

A quel tempo era inconcepibile una vita senza rapporto tra opere e

luoghi che rispecchiasse quell’ideale sentito e vissuto come origine

e scopo di ogni relazione, gesto e sacrificio. Anche in questo caso

possiamo notare la presenza di simbolismi: i 52 piloni, che

accompagnano il cammino dall'entrata dell'edificio a croce latina

(con 5 navate sino all’abside poligonale, preceduto da un transetto

a tre navate), rappresentano le settimane dell’anno e questo

numero suggerisce che tutto il tempo è una strada verso l’eterno.

Le tre grandi vetrate absidali, inoltre, sono decorate con storie

dell’Apocalisse e dell'Antico e del Nuovo Testamento perché Cristo

dà senso al tempo, e scandisce lo scorrere del passato, del presente

e del futuro.

Un altro esempio significativo per capire come la comunità si

sentisse partecipe nella realizzazione della cattedrale è il seguente

aneddoto.

Durante il Medioevo, un pellegrino aveva fatto voto di raggiungere un lontano santuario,

come si usava a quei tempi. Dopo alcuni giorni di cammino, si trovò a passare per una

stradina che si inerpicava per il fianco desolato di una collina brulla e bruciata dal sole. Sul

sentiero spalancavano la bocca grigia tante cave di pietra. Qua e là gli uomini, seduti per

terra, scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare degli squadrati blocchi di pietra

da costruzione. Il pellegrino si avvicinò al primo degli uomini. Lo guardò con compassione.

Polvere e sudore lo rendevano irriconoscibile, negli occhi feriti dalla polvere di pietra si

leggeva una fatica terribile. Il suo braccio sembrava una cosa unica con il pesante martello

che continuava a sollevare ed abbattere ritmicamente. “Che cosa fai?”, chiese il pellegrino.

“Non lo vedi?” rispose l’uomo, sgarbato, senza neanche sollevare il capo. “Mi sto

ammazzando di fatica”. S’imbattè presto in un secondo spaccapietre. Era altrettanto

stanco, ferito, impolverato. “Che cosa fai?”, chiese anche a lui, il pellegrino. “Non lo vedi?

Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini”, rispose l’uomo. In

silenzio, il pellegrino riprese a camminare. Giunse quasi in cima alla collina. Là c’era un

terzo spaccapietre. Era mortalmente affaticato, come gli altri. Aveva anche lui una crosta

di polvere e sudore sul volto, ma gli occhi feriti dalle schegge di pietra avevano una strana

serenità. “Che cosa fai?”, chiese il pellegrino. “Non lo vedi?”, rispose l’uomo, sorridendo

con fierezza. “Sto costruendo una cattedrale”. E con il braccio indicò la valle dove si stava

innalzando una grande costruzione, ricca di colonne, di archi e di ardite guglie di pietra

grigia, puntate verso il cielo.” Possiamo notare come il primo spaccapietre che vede nel

suo lavoro solo la fatica e niente altro è descritto come “irriconoscibile” ed è sgarbato.

Questo perché egli non ha un ideale più alto e non vede la bellezza della sua opera ma solo

la fatica che gli provoca e per questo ha perso i tratti umani ed è, perciò, irriconoscibile. Il

secondo spaccapietre non è descritto negativamente come il primo ma neanche

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positivamente perché vede il suo lavoro come un modo per mantenere la sua famiglia e

quindi vede solo il fine più immediato delle sue azioni. Il terzo spaccapietre, invece, riesce

a sorridere nonostante sia stanco come gli altri perché ha la visione della sua opera, cioè

vede il suo fine ultimo e la sua realizzazione, e crede in essa.

Il parallelismo fra le tecniche costruttive adottate e le nuove

concezioni teologiche e filosofiche che si stavano diffondendo

potrebbe essere spiegato dal fatto che architetti e filosofi si

formavano nelle stesse scuole e condividevano una cultura comune.

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Medioevo e la sua luce: il cantiere delle cattedrali

«Non alla pietra tocca fissare il suo posto, ma al Maestro dell’Opera che

l’ha scelta»

(Paul Claudel, L’annuncio a Maria)

«La pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta pietra angolare»

(Vangelo secondo Matteo, 21, 42).

La costruzione delle cattedrali portò alla

formazione di figure professionali

specializzate ed evolute tecniche murarie

che vengono scambiate fra i costruttori e anche sperimentate nei

cantieri.

La bellezza e il fascino che le

cattedrali esercitano anche oggi su di

noi è dovuto anche all’armonia tra le

stesse e la loro funzione. L’artista

medioevale si preoccupava,

soprattutto, dello scopo e dell’utilità

della sua creazione che, in questo

caso, serviva da luogo di culto e,

quindi, si legava ai bisogni locali.

Questo non solo per la struttura

dell’edificio ma anche per le sue

decorazioni, infatti ogni dettaglio

ornamentale era subordinato e in

armonia con un dettaglio architettonico;

gli ornamenti raffiguravano sia elementi naturali, sia soggetti della

tradizione sacra, sia motivi geometrici, proprio a testimonianza del

ruolo della cattedrale come “summa” nella quale veniva racchiuso

tutto il mondo dell’uomo medievale.

L’opera doveva rispettare rigidi canoni e prescrizioni di ordine

esteriore e tecnico e esigenze dovute alla tradizione. Nonostante

questo, gli artisti hanno saputo evitare di cadere nel luogo comune,

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infatti, non ci sono due statue uguali fra di loro. L’artista compiva

una grande ricerca sui materiali da usare, che potevano essere

innumerevoli, e anche sull’ubicazione dell’opera. Ogni artista

lavorava un materiale diverso e lo faceva attraverso tecniche

studiate appositamente per esaltarlo al meglio. L’orafo non imitava

lo smaltista che, a sua volta, non imitava il miniaturista. Uno degli

aspetti più importanti dell’arte medievale è la cura dedicata alla

composizione dell’opera. Per quanto riguarda la costruzione delle

cattedrali la pietra e il marmo furono i protagonisti e rimpiazzarono

il legno, che continuò ad essere usato per le impalcature o per

elementi come le travi e le capriate. Il marmo veniva prelevato

spesso dalle rovine di Roma, per ricercare una continuità storica

con l’antichità romana. Inoltre, dal XI secolo si iniziarono a produrre

tegole e mattoni di dimensioni diverse da quelli romani in fornaci

all’interno dei cantieri.

Nella scultura l’essere era sorpreso nei suoi atteggiamenti più

umani e naturali e attraverso il movimento gli veniva infusa la

parvenza di un’anima. L’artista medievale era un’artista completo:

l’architetto lavorava nel cantiere come un capomastro, il pittore e il

maestro vetraio sapevano tutto del dosaggio dei colori che spesso

preparavano loro stessi. Nonostante il loro grande genio artistico, la

maggior parte delle opere sono anonime e noi non possiamo dare

un’identità al loro creatore. Questo perché nel Medioevo si riteneva

che l’artista fosse un artifex, cioè un artigiano, il quale viveva in

una comunità e le cui opere servivano al bene della comunità ed

erano create per la comunità e con essa per la glorificazione di Dio.

L’autocoscienza dell’artista si svilupperà successivamente,

soprattutto con la diffusione dell’Umanesimo che esalta la dignità

dell’uomo e del suo genio creativo. Nel caso delle cattedrali l’artifex

era l’architetto, indicato anche come magister, aedificator o

fabricator, il cui compito era più simile a quella dell’odierno

capomastro. Questa figura professionale acquisterà la

consapevolezza della propria importanza con la nascita dei Comuni.

Già in epoche precedenti erano presenti testimonianze dell’identità

degli artisti. Nell’Altomedioevo si trattava principalmente di firme,

come quella di Paganus nel “tempietto longobardo” di Cividale o

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quella di Vuolvinio, l’autore dell’altare della basilica di

Sant’Ambrogio a Milano.

(foto)

Si possono trovare anche raffigurazioni di architetti con squadra e

compasso che si differenziano dai muratori nei bassorilievi. Nel

Duecento essi verranno ricordati attraverso lapidi tombali come

quella di Hugues Libergier, in cui è rappresentato con in mano il

modello della chiesa che aveva progettato e la verga. Con il tempo

la figura dell’architetto si trasformò diventando assimilabile a quella

di un “magister operis” e il suo compito fu sempre più limitato alla

progettazione dell’edificio.

Un’altra figura molto importante era quella del committente, che

spesso era preminente rispetto a quella dell’architetto, infatti, erano

i committenti ad essere raffigurati con il modello della chiesa o

davanti all’edificio in costruzione. Questo perché la costruzione di

un edificio ha sempre avuto un significato anche politico oltre che

artistico, perché gli edifici sono dei segni che rimangono nel tempo

e si riteneva anche che partecipare alla costruzione di un edificio

religioso garantisse un posto in Paradiso.

Oltre all’architetto e al committente, c’erano molti altri lavoratori

organizzati secondo una rigida gerarchia e divisi in tre grandi

categorie: maestri, garzoni, manovali; i quali rischiavano spesso la

propria vita a causa dei frequenti incidenti nel cantiere.

Una delle tante figure professionali era quella del tagliapietre, che si

occupava di sgrossare la pietra, affiancato dal carpentiere che

lavorava il legno e costruiva i modelli per l’architetto. I manovali

svolgevano molti incarichi diversi a seconda delle disposizioni degli

operai specializzati. Tagliapietre e carpentieri avevano una paga più

alta di quella dei manovali e potevano aspirare a diventare

imprenditori o architetti. I muratori si occupavano della

preparazione della calce e del gesso e saldavano le pietre grazie a

un alto livello di conoscenze e abilità pratiche. Il ruolo dello scultore

crebbe e non fu più subordinato alla struttura architettonica.

La cattedrale non fu l’unico edificio a presentare le caratteristiche

tipiche del Gotico; anche i monasteri dei frati cistercensi adottarono

spesso le innovazioni di questo nuovo stile architettonico a

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testimoniare come il Gotico corrispondesse a una rivoluzione anche

del pensiero comune, infatti sia le chiese che i conventi, pur avendo

funzioni diverse, furono influenzati da esso. Nonostante l’austerità e

la semplicità, i monasteri cistercensi mantengono le proporzioni

tipiche del Gotico come il rapporto agostiniano 1:2.

La cattedrale si inseriva in un tessuto urbano più ampio in cui gli

uomini vivevano i vari momenti della loro esistenza quotidiana.

Nelle città medievali vi erano quindi altri edifici e luoghi pubblici che

si affiancavano per dimensioni imponenti e per importanza alle

cattedrali. Questi erano le sedi delle istituzioni comunali nascenti e

la piazza del mercato. Proprio la diffusione delle libertà comunali

fece in modo che l’attività di edilizia pubblica si aggiungesse a

quella religiosa e che le città si trasformassero in veri e propri

cantieri a cielo aperto. I riferimenti ideologici, politico e morale,

della città medievale diventarono il centro fisico della città attorno

al quale si organizzavano gli spazi della vita cittadina. Per l’uomo

medievale una città non poteva essere considerata tale se non era

la sede di un vescovo ed era differenziata dalla campagna

circostante dalla cinta muraria esterna. Le mura non erano viste

solo come elemento di difesa con le loro alte torri ma anche come

simbolo di appartenenza alla comunità civica, simbolo della

fermezza della fede, della concordia civica e del buon governo.

Anche la difesa della fede era considerata fondamentale e quindi

sulle mura spesso sono rappresentati i santi e la Vergine.

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Il Medioevo e la sua luce: le piazze medioevali

Piazza dei Miracoli,

un miracolo di piazza.

La società urbana accoglieva nobili, mercanti, professionisti,

artigiani, salariati e disoccupati. Dal punto di vista economico la

città era la sede di attività mercantili e manifatturiere e si poneva al

centro di relazioni politiche e economiche di un territorio più ampio.

La città veniva inoltre percepita dai suoi abitanti come civitas, cioè

come l’insieme di cittadini di una stessa località soggetti agli stessi

diritti e doveri.

La dinamicità economica e politica delle città rese necessaria

l’istituzione di una piazza pubblica che accogliesse le assemblee

generali e le manifestazioni del popolo ma anche il mercato, le

cerimonie rituali e i tornei. Essa era il fulcro economico, politico e

sociale della città e vi veniva anche amministrata la giustizia

cittadina.

In questo contesto prosperoso e vivace si sviluppò il teatro

medievale. Il primo luogo in cui nacque furono le chiese in cui si

iniziarono a rappresentare i passi del Vangelo per spiegarli meglio e

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alimentare il fervore della fede; in seguito però assunse una sua

autonomia uscendo dal contesto degli edifici religiosi. Spesso

l’altare simboleggiava il Paradiso e l’ingresso l’Inferno. Le cerimonie

liturgiche presentavano aspetti tipici della drammatizzazione

teatrale fra cui il dialogo, la musica, l’uso di elementi scenografici e

per questo si può parlare di “drammi liturgici”. I soggetti più

frequenti erano la Passione di Cristo e la sofferenza delle Vergine e

dei santi. Il teatro medievale che ne derivò fu caratterizzato dalla

drammatizzazione, dai motivi teatrali religiosi, dall’uso del volgare e

da una componente liturgica e didattica. Poiché la chiesa era spesso

troppo stretta per permettere le rappresentazioni sacre si iniziarono

a costruire dei palcoscenici nei sagrati delle chiese. Da ciò poi

nacque la rappresentazione teatrale profana.

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Il Medioevo e la sua luce: il valore della donna

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disianza vuol volar sanz’ali.

(Dante, Paradiso)

Nel Medioevo, almeno in

linea di principio e come

affermazione della dottrina

cristiana, la donna ha la

stessa dignità dell’uomo

pur avendo ruoli differenti.

Alla radice di questo

principio c’è appunto l’idea

di considerare ogni uomo

figlio di Dio e salvato dalla

Croce e Risurrezione di

Cristo. Non dimentichiamo

inoltre che la Vergine Maria

è il modello di ogni donna.

In tal senso, i primi esempi

di libera determinazione

delle donne si possono vedere nella decisione di tante martiri

cristiane che hanno rifiutato il matrimonio imposto contro la loro

volontà per rimanere fedeli alla loro scelta di castità nel dedicarsi

totalmente a Cristo.

Si vedano a tal proposito le storie di Caterina d’Alessandria, di

Agnese e di numerose altre. Si assiste dunque a una valorizzazione

della donna pur essendo presenti, anche nel Millennio cristiano

correnti misogine che non le riconoscono tale ruolo.

Per venire all’epoca feudale troviamo dunque figure di donne

indipendenti e libere di decidere: sono le signore dei feudi che

governano i loro territori quando il marito o il padre non è presente.

Citiamo a mo’ di esempio Dhuoda che, mentre il marito è assente

per le sue campagne militari, amministra il feudo in vece sua.

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Inoltre sempre Dhuoda è un esempio di come le donne fossero

anche colte infatti ella scrisse un trattato sull’educazione per suo

figlio che era stato fatto prigioniero durante i conflitti fra feudatari.

Le donne avevano ruoli importanti anche nell’ambito della chiesa: le

mater monasterii (le badesse) esercitavano difatti la massima

autorità all’interno dei conventi; mater richiama inoltre la struttura

familiare, uno dei fondamenti del medioevo. A noi, la novità della

condizione femminile medievale può sembrare di scarsa rilevanza

perché siamo abituati a dare per scontato ciò che non lo era per

nulla.

Non si deve dimenticare infatti che il mondo antico ha consegnato

all’età successiva categorie morali e filosofiche molto distanti da

quelle del Cristianesimo. La donna prima del Medioevo era vista

sotto una luce totalmente diversa, era come un oggetto a

disposizione del pater familias o del marito. Questa condizione

cambiò e migliorò grazie all’azione delle prime martiri che lottarono

per le libertà e la possibilità di rifiutare il matrimonio.

La Chiesa, dalle sue origini in poi, ha sempre affermato, almeno sul

piano ideale, il criterio delle libertà di scelta nella vocazione

religiosa o sponsale. Quindi si afferma una concezione ‘divina’ del

matrimonio pur continuando a permanere l’idea ‘statale’ antica del

matrimonio come contratto e come decisione della famiglia degli

sposi. Tale ideale del matrimonio nel suo significato positivo è

affermato chiaramente in due romanzi di Chretien de Troyes ovvero

Erec ed Enide e Cligès.

Chrétien de Troyes è, come si sa, autore medioevale capace di

valorizzare l’ideale cortese e la centralità della donna nella

letteratura provenzale. Ella assume un valore superiore rispetto al

cavaliere che la serve incondizionatamente. Nella corte feudale, lei

è la dama attorno a cui ruota la vita cortese, appunto. A tal

proposito, gli studiosi del periodo feudale hanno recentemente

sottolineato il valore delle cosiddette ‘corti d’amore’ che

considerano la dama come assoluta protagonista.

Quasi certamente si tratta di giochi di immaginazione, passatempo

preferito di una società letteraria, volti all’analisi dell’amore in tutte

le sue sfaccettature. Quindi anche questo è un altro esempio di

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come la donna fosse al centro del contesto medioevale. Si possono

citare come esempi Ermengarda di Narbona e Isabella di Fiandra.

Come si è detto nella letteratura la donna è la figura più

importante; tale affermazione può essere giustificata analizzando

varie correnti come quelle dei trovatori, della scuola siciliana e

come l’opera di Dante.

In senso generale si può sostenere che il Medioevo sia un'epoca in

cui tutti i rapporti si rifanno al modello familiare, come per esempio

il legame tra feudatario e il suo vassallo o il legame tra l’artigiano e

il suo apprendista.

La famiglia e i gruppi sociali sono un punto di riferimento all’interno

della società tanto che una persona è sempre anche i legami che la

costituiscono.

L'importanza di un paese si valutava dal numero dei "focolari" e

non dal numero della popolazione.

Nelle leggi e nei costumi, ogni disposizione era rivolta al bene della

famiglia o all'interesse della casata oppure, ampliando tale concetto

di famiglia, ad una cerchia più vasta, all'interesse del gruppo o della

corporazione, la quale non era che una famiglia più grande. I grandi

baroni erano, anzitutto, dei padri di famiglia, che raccoglievano

intorno a sé tutti coloro che, per nascita, facevano parte del

patrimonio feudale.

Si può dire quindi che la famiglia, durante il Medioevo, è la cellula

fondamentale della società, un complesso di persone su cui la

moglie deve vegliare ordinandone i ritmi e le attività.

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Il Medioevo e la sua luce: la fede che permea la vita e si fa

cultura

«Deus satis»

«Egli è qui.

È qui come il primo giorno.

È qui tra di noi come il giorno della sua morte.

In eterno è qui tra di noi proprio come il primo giorno.

In eterno tutti i giorni».

(C. Peguy, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco).

Il Medioevo è l’epoca di molti secoli in cui l’uomo cerca di vivere in

maniera costante ed armoniosa il suo rapporto con Dio, rivelato in

Cristo e vivo nella sua Chiesa. Le verità fondamentali nel

Cristianesimo sono infatti l’Incarnazione, cioè il fatto che Dio ha

preso su di sé totalmente la natura umana per portarla al suo

compimento, e la Passione, Morte e Resurrezione di Cristo che vive

nel tempo e nella storia.

Il legame fra il Creatore e la creatura, che è connaturato alla

persona umana, costituisce il fondamento della libertà e della

dignità umane. Queste ultime vengono esaltate dalla legge morale

cristiana, che tuttavia deve essere scelta e voluta spontaneamente

e non per costrizione. Da queste fondamentali certezze, contenute

nel credo, deriva anche una precisa antropologia, cioè una

concezione dell’uomo che è definito proprio dal suo legame con Dio.

Tale modello antropologico si fonda – come già detto – sulla

prospettiva religiosa che riconosce in Dio e in Cristo, Suo figlio, il

Significato di tutto e che vive la fede come fattore decisivo della

vita.

«Che cosa vuol dire che il Medioevo è un’epoca religiosa? non

significa che tutti gli uomini siano buoni, pii, onesti. Anche durante

questi secoli sono deboli, come tutti, e peccano, come tutti: si

fermano a desiderare le cose della terra e molti rubano e

ammazzano per averle. Hanno chiara, però, un’idea che la loro vita

ha un destino eterno. Che cioè quel che fanno resta scritto per

sempre, che ogni loro azione è compiuta sotto lo sguardo di Dio.

(…) Gli uomini del Medioevo hanno chiaro che Dio è tutto, e perciò

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che la santità è vocazione di tutti, anche del più incallito dei

peccatori»1

La concezione antropologica che viene fatta emergere da Dante

nella Divina Commedia consiste in una visione dinamica dell'essere

umano, che trova la sua forma ideale nella poetica del viaggio. La

vita umana appare all’interno dei versi danteschi in tensione

continua verso la salvezza eterna a partire dal desiderio di Dio. Da

questo istinto, che implica libertà interiore e si alimenta di

speranza, nasce l'agire che comporta il divenire, secondo forme

molteplici, di cui la più rappresentativa è l'amore. L'immaginazione

e la poesia concorrono a mostrarne la direzione e la fattibilità.

Alcune recenti interpretazioni della poesia di Dante mostrano

l'incidenza di questo dinamismo nel pensiero contemporaneo.

La visione medievale è in generale sorretta da un'incrollabile fede

nel possesso della verità attraverso rigorosi schemi concettuali.

Dante infatti ritiene che nella conoscenza risieda la perfezione della

natura umana; ma la conoscenza non è avventura di ricerca

personale o esplorazione dell'ignoto bensì adeguazione ad un

patrimonio di verità già definitivamente creato. Grazie a questa

certezza del possesso della verità, l'universo a Dante appare retto

da un ordine mirabile, regolato perfettamente dalla volontà divina,

in cui ogni elemento, dal più basso al più sublime, trova una

giustificazione e un fine.

Nel Medioevo il lavoro rappresentava, come nella cultura biblica, la

condanna di Dio per la disobbedienza di Adamo nel Paradiso

terrestre. In seguito al peccato commesso, il destino dell’uomo

diventò la fatica, rappresentativa del lavoro. Quest’ultimo era quindi

considerato come un’attività forzata che deteriorava l’uomo, ma allo

stesso tempo assumeva anche un carattere di inevitabilità: è una

fatica necessaria strettamente in relazione con la condizione umana

e può diventare strumento di penitenza e mezzo di salvezza.

Questa duplice visione del lavoro è ben espressa dal monaco dedito

al lavoro e alla vita contemplativa. Durante l’Alto Medioevo, il

lavoro coincise prevalentemente con l’attività rurale. Le condizioni

1 F. Nembrini, Dante, Una vita di amore e d’avventura, Piccola Casa editrice, San Giuliano Milanese, 2015.

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di vita dei contadini erano particolarmente dure e questi

occupavano gran parte della popolazione. Abbandonando il mondo

rurale e avvicinandosi a quello cittadino, che iniziò a fiorire nel XIII

secolo, è possibile riscontrare una rapida trasformazione della

concezione di lavoro. In questa prospettiva, il lavoro artigianale

acquistò una particolare importanza.

Per sintetizzare e per esemplificare si può dire che il periodo

medievale è caratterizzato dalla presenza di alcune tipologie di

persone che si differenziano tra di loro per le loro attività, ma

hanno in comune il fatto che la fede è vissuta integralmente. Tra

queste ricordiamo il martire, il pellegrino ed il monaco. Il termine

“martire” deriva dalla parola “martys” che significa “testimone” ed

indica “colui che è morto tra i supplizi”. I martiri di cui parla Régine

Pernoud all’interno della sua opera sono principalmente donne. Si

tratta delle donne che morivano nell’anfiteatro dopo essere state

costrette a rappresentare per il diletto della folla romana il ruolo

delle Danaidi o di quei personaggi mitologici che erano straziati da

animali feroci; esse subivano realmente questa morte. In senso lato

però ‘martire’, indica coloro che hanno sacrificato la vita per

testimoniare la religione cristiana e quindi se la sono visti togliere

solamente per aver tentato di difendere ciò in cui credevano.

Il termine “pellegrino” deriva invece dal latino peregrinus, ossia

colui che è estraneo al luogo in cui si trova. Il termine

successivamente comprese tutti coloro che si spostavano per

raggiungere luoghi sacri. Nel Medioevo il pellegrino divenne una

figura importante e i numerosi pellegrinaggi vanno interpretati

come un’esigenza dello spirito di avvicinarsi a Dio. Può sembrare

una pratica ingenua disposta a credere all'autenticità di reliquie

false, ma non è così; l'uomo medievale, infatti, vive all'ombra di Dio

ed è immerso in una dimensione soprannaturale, dove l’esigenza di

rapporto con il Sacro diventa fondamentale. I pellegrini erano e

sono il modo attraverso il quale l'uomo si relaziona con Dio. Tramite

il pellegrinaggio si compiono due viaggi: uno fisico e uno spirituale,

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che hanno come scopo rispettivamente il raggiungimento della

meta e il rafforzamento della fede.

Infine abbiamo il monaco. Tale figura dominò l'intera Europa

occidentale e non si trattò solamente della costruzione di grandi

abbazie o monasteri, ma anche di una nutrita quantità di

insediamenti religiosi riservati alle donne. In Occidente le

caratteristiche assunte dal monachesimo furono diverse da quelle

orientali e più adatte allo spirito pratico delle popolazioni romane.

La regola dettata da San Benedetto all'ordine monastico

prescriveva, infatti, oltre alle tradizionali pratiche religiose, lo

svolgimento di lavori manuali. Il riassunto della regola benedettina

è riportato nel motto dell’ordine stesso: Ora et labora, prega e

lavora.

Il monastero veniva eretto in un luogo solitario, attorniato da terre

dalle quali i monaci traevano il proprio sostentamento e da una

cerchia di mura. In poco tempo quest’ordine ebbe una larga

diffusione: i papi si servirono dei benedettini per inviarli come

missionari tra i popoli barbari, mentre i regnanti affidarono loro il

compito di istruire ed educare i propri sudditi. Il monachesimo, per

la grande influenza che ebbe in tutti i settori della vita delle

popolazioni occidentali, rappresentò uno dei fattori di maggior

importanza della civiltà medievale.

Come accennato in precedenza, il monaco rientra, come anche il

pellegrino ed il martire, nell’archetipo del santo cristiano. Il santo

cristiano è l'uomo che vive di fede, ma non viene presentato come

un individuo puro in modo astratto e quasi irreale. I santi cristiani

sono spesso uomini comuni, i quali vivono la religione come amore

per sé stessi, per Dio, per tutto quanto conta nella vita e per il

proprio prossimo. Per diventare santo un cristiano non deve

osservare pratiche particolari, infatti osservando le vite dei santi

cristiani non se ne trova una uguale ad un’altra. Ogni santo lo è

divenuto in modo diverso, quindi nel medioevo non esiste un

modello per la santità in quanto essa nasce dall'amore tra ogni

persona e Dio e dalla vocazione particolare che ciascuno riconosce e

attua nella sua vita.


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