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Tosi Consulting Group - Gli ebook di...creatività e innovazione sono al primo posto tra le qualità...

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Gli ebook di Promuovere l’innovazione a cura di Fabio Sgaragli
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Gli ebook di

Promuovere l’innovazione

a cura di Fabio Sgaragli

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Promuovere l’innovazione

© 2011. Ticonzero.info. Tutti i diritti riservati. 2

E-book prodotto da Ticonzero S.r.l. casa editrice © 2011 Tutti i diritti riservati. E’ permessa la riproduzione dei contenuti citando la fonte. Distribuito da Ticonzero.info testata giornalistica registrata al tribunale di Milano Registrazione N. 565 del 5 Ottobre 2003

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I�DICE

p. 4 - Introduzione: perché innovare? Fabio Sgaragli, Eugenio Tosi

p. 7 - Cosa è l’innovazione? Fabio Sgaragli, Eugenio Tosi

p.11 - Principi di semio-design. Forme dell’innovazione e teoria del progetto. Dario Mangano, Gianfranco Marrone

p. 29 - AAA creativi cercasi: un’applicazione del Modello delle 3T alla gestione aziendale delle risorse umane Alberto Maestri

p. 41 - L’Organizzazione che apprende – i modelli teorici e la “cassetta degli attrezzi” per l’innovazione Alessandro Paparelli

p. 58 – Bibliografia p. 61 - Autori

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Introduzione: perché innovare?

Fabio Sgaragli EDITOR - TICONZERO.INFO

Eugenio Tosi AMMINISTRATORE DELEGATO – TOSI CONSULTING GROUP S.R.L. Essendo la parola innovazione una delle più usate, soprattutto nella nostra recente storia, per determinare lo stato di salute del nostro sistema paese e della sua parte produttiva, abbiamo pensato fosse una buona idea cominciare col chiederci il perché è importante farlo.

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Adam Smith nel suo “La ricchezza delle nazioni”1 del 1776 individua nel lavoro, più che nelle risorse naturali, la vera fonte della ricchezza delle nazioni. Come scrive Smith "il lavoro è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita". Tuttavia, nota anche Smith, la quantità della produzione sarà il risultato "dell'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui [..] si esercita il lavoro", che sono le determinanti della capacità produttiva dello stesso. Oggi sappiamo che sono numerosi i fattori che determinano la capacità di crescita e la competitività internazionale di un dato sistema economico. Un elemento di primaria importanza è senza dubbio costituito dalla capacità di imprese e organismi di ricerca di generare, mediante nuova conoscenza scientifica, processi di innovazione che consentano incrementi di efficienza e produttività, favorendo in questo modo la crescita economica. La produttività del lavoro rimane uno dei perni della crescita di un sistema economico, ma non è più determinata soltanto dalla “destrezza o intelligenza” con cui si esercita il lavoro, ma anche delle condizioni tecniche e tecnologiche che ne favoriscano o meno l’esercizio. In effetti la cognizione che ci troviamo immersi in un mercato guidato dal progresso scientifico e tecnologico è ormai nota a tutti, le rivoluzioni industriale prima e digitale dopo hanno aumentato la capacità del mercato di espandersi, sebbene ancora non infinitamente, a velocità sempre maggiori. La capacità di ricerca e sviluppo diventano quindi un elemento chiave per competere nel mercato, l’innovazione la risultante del grado di successo con cui le attività ricerca e sviluppo sono condotte. Questo ovviamente vale sia a livello di sistema paese che di quello di singola impresa. Da questo punto di vista come è messa l’Italia? Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto il Rapporto Annuale sull’Innovazione della Fondazione COTEC2. Nel suo rapporto il COTEC afferma che “fino a qualche anno fa le indubbie performance del nostro sistema manifatturiero erano legate ad innovazioni incrementali difficilmente codificabili perché basate più sul know-how individuale dell’inventore che su procedure oggettive o conoscenze scientifiche”. In altre parole in Italia, visto che il tessuto economico è costituito per la stragrande maggioranza da micro e piccole imprese, l’innovazione è sempre stata dominio dell’ingegno del piccolo imprenditore piuttosto che il risultato di una sistematica ricerca da parte di un sistema costituito da imprese, Università, Centri di Ricerca e Pubbliche Amministrazioni. La situazione però sta cambiando. Negli ultimi anni, afferma sempre il rapporto, abbiamo assistito ad una inversione del trend con una bilancia tecnologica (import-export di tecnologie) finalmente in attivo, anche se di poco. L’impresa italiana ha quindi cominciato a rafforzare la sua propensione alla ricerca ed a sviluppare competenze tecnologiche codificabili ed esportabili: aumento tra il 2000 e il 2006 del 25% del numero di addetti alla R&S industriale ed aumento del contributo privato alla spesa in R&S pubblica, prevalentemente universitaria, che 1 “An Inquiry into the ature and Causes of the Wealth of ations”, pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam Smith. 2 “Rapporto Annuale sull’Innovazione 2009 – COTEC (Fondazione per l’innovazione tecnologica)” a cura di Francesco Crespi e Raimondo Iemma

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passa dall’1,2% del 2003 al 4,1% del 2006. Questo impegno privato si manifesta anche nel 67,3% di spin-off accademici che vengono finanziati di fronte a solo un terzo sostenuto da fondi pubblici ed un altro terzo da fondi universitari. Aumentano inoltre dal 2002 al 2007 del 69% i budget degli Uffici per il Trasferimento Tecnologico, quelli cioè preposti a valorizzare economicamente (e non solo) i risultati della ricerca universitaria attraverso spin-off sul mercato e accordi con il settore privato per vendita o il licensing di brevetti. Cresce il numero di brevetti (che passano da 177 a oltre 400 nel periodo considerato) e di contratti di licenza (il cui volume è triplicato); aumenta il numero di spin-off accademici, che passa da 225 nel 2005 a 364 nel 2007; aumenta sensibilmente la quota di finanziamento del VII Programma Quadro della Unione Europea, quello legato alla ricerca scientifica e tecnologica ed alla sua ricaduta sul mercato. Sono segnali incoraggianti, che vanno analizzati anche alla luce della recente crisi finanziaria e di sistema che ha rimesso in moto il processo di aggiustamento e trasformazione dei sistemi produttivi nella maggior parte dei paesi occidentali. Anche se ancora distanti dalle medie dei paesi migliori dell’area OCSE o dagli Stati Uniti, questi cambiamenti sono positivi perché manifestano una serie di scelte, a volte anche contrastate, che vanno nella giusta direzione. Mai quindi come oggi il tema dell’Innovazione è stato così importante per il nostro paese e per le nostre imprese. Per questo motivo, Ticonzero ha deciso di dedicare al tema due e-book, di cui questo rappresenta il secondo. Se nel primo “Team Innovativi”, il tema dell’innovazione è stato declinato attraverso le possibili attività da mettere in campo per aumentare il grado di innovazione di un gruppo di lavoro, in questo secondo e-book abbiamo scelto di parlare delle condizioni, di sistema e di impresa, che aumentano le probabilità di generare vera innovazione. Buona lettura!

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Cosa è l’innovazione?

Fabio Sgaragli EDITOR - TICONZERO.INFO

Eugenio Tosi AMMINISTRATORE DELEGATO – TOSI CONSULTING GROUP S.R.L. Cosa è veramente l’innovazione? Come facciamo a sapere che quella che abbiamo di fronte è innovazione? Esistono dei criteri per definirla?

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Innovazione, tutti ne parlano ma pochi la fanno davvero. Eppure, secondo una recente survey dell’IBM3, per il 60% dei 1.500 CEO intervistati in tutto il mondo creatività e innovazione sono al primo posto tra le qualità imprescindibili dei leader nei prossimi cinque anni. In questo articolo non interessa annoiare i lettori con le solite litanie sull’Italia, sciorinando dati e aneddoti sull’arretratezza e l’immobilismo che caratterizzano il paese in questo momento. Interessa invece parlare di innovazione come di una capacità che può essere acquisita e praticata dagli individui e dai gruppi. Al di là delle condizioni di sistema, che possono o meno favorirla e incentivarla, l’innovazione è per larga parte un prodotto dell’ingegno umano e della sua straordinaria capacità di immaginare il nuovo. Il resto è ricerca, processo, metodo, fatica e coraggio. Ma cosa è veramente l’innovazione? Come facciamo a sapere che quella che abbiamo di fronte è veramente innovazione? Esistono dei criteri per definirla? La parola “innovare” viene dal latino “innovàre”, composto della particella IN e NỎVARE, e significa letteralmente “far nuovo”. Almeno nel significato letterale del termine, quindi, innovazione significherebbe portare qualcosa di nuovo nel mondo. Attività, questa ultima, che a noi esseri umani riesce parecchio bene. Anzi, si potrebbe forse dire che è strettamente legata al nostro modo di essere. In effetti, le nostre civiltà sono in parte costruite su questo: sul progredire grazie all’entrata in scena di qualcosa di nuovo e, si spera, migliore di ciò che c’era prima. Anche oggi, soprattutto in occidente, dove tutto a volte sembra già essere stato inventato (e migliorato), i margini per aprire nuove frontiere sono ancora ampi. Al di là di esempi noti e abusati, in tutti i campi dell’agire umano (da quello artistico a quello tecnologico, passando per quelli sociale e culturale) assistiamo giornalmente all’emergere di cose nuove che a loro volta aprono la strada all’emergerne di altre. Da questo punto di vista, un primo criterio per identificare vera innovazione è il fatto che una idea sia stata realizzata in pratica ed abbia funzionato. Che poi abbia funzionato per il fine per il quale era stata originariamente pensata è (quasi) irrilevante. Si pensi al caso del Viagra, prodotto farmaceutico originariamente sviluppato per curare malattie cardiovascolari. Alcuni sostengono che la vera innovazione sia solo quella radicalmente nuova. In questo senso, il Jeans inventato da Levi Strauss nel lontano 1873 non sarebbe vera innovazione, in quanto i pantaloni, è accertato, esistevano anche prima. Anche qui sarebbe forse logico identificare come secondo criterio per definire vera innovazione quello secondo cui l’idea realizzata, al di la di essere radicalmente nuova o meno, abbia portato dei benefici positivi. Nel caso dei Jeans, il beneficio originario consisteva nel fornire ai minatori degli abiti da lavoro molto più resistenti di quelli che erano soliti portare, fatti di lana. Nel caso dei Jeans Diesel, ulteriore esempio di innovazione non radicalmente nuova, ma migliorativa, il fatto che uno possa indossare un capo di abbigliamento pratico ma allo stesso tempo di moda. E pagarlo, mi si consenta, di conseguenza. 3 IBM 2010 Global CEO Study, i risultati completi della ricerca possono essere consultati qui: http://www-935.ibm.com/services/us/ceo/ceostudy2010/

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Anche se spesso siamo naturalmente attratti dal grande e dal sorprendente, ci sarebbe da chiedersi se innovazione debba essere considerata solo quella che “cambia le regole del gioco”. Pensiamo alla ruota, alla scrittura, all’elettricità, al digitale o a internet. Mentre siamo certamente portati a considerare questi e altri possibili esempi analoghi come innovazione di frontiera, generatrice di cambiamenti paradigmatici, si potrebbe argomentare come allo stesso modo il chiodo, la colla, il cemento o la siringa abbiano tutta la dignità per prendere il posto tra le innovazioni che hanno cambiato le nostre vite. Altro criterio possibile per identificare vera innovazione, allora, potrebbe essere che al di là della sua dimensione, qualsiasi idea nuova che abbia una ricaduta significativa nel settore specifico di applicazione o, più in generale, nelle nostre vite, sia da considerarsi innovazione. Altra dimensione di questo discorso, spesso discussa, è quella della necessità di innovare per mantenere le nostre economie competitive, proteggere i profitti e aprire nuovi mercati. Se Pablo Picasso, Thomas Edison, Christiaan Barnard o Antoni Gaudi avessero ragionato in questo modo probabilmente oggi non potremmo godere delle loro innovazioni. Ulteriore criterio, quindi, ha a che fare con le motivazioni che possono far nascere l’innovazione. Non importa quale sia la motivazione, ma dietro la vera innovazione c’è lo spirito tipico degli esploratori: quello di volere scoprire cose nuove, siano esse frontiere o soluzioni. Questa lista di criteri identificativi dell’innovazione, lungi dall’essere esaustiva o definitiva, ha il proposito di cominciare a delimitare un perimetro intorno al concetto, come inizio di un percorso che offrirà ulteriori considerazioni intorno alle condizioni e ai modi attraverso i quali si può aumentare la probabilità di fare innovazione. Al di là del caso, dell’idea nata in maniera fortuita, sono disponibili oggi tecnologie di processo e metodologie che favoriscono la sistematica ricerca dell’innovazione e aumentano la probabilità di generare idee nuove e praticamente applicabili, in tutti i settori ed in qualsiasi gruppo od organizzazione di persone. Nel prossimo capitolo, analizzeremo attraverso la semiotica quali condizioni caratterizzano l’emergere dell’innovazione nel mercato e nelle organizzazioni.

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La Tosi Consulting Group ha creato la FormAcademy per erogare consulenza

e formazione a professionisti, privati, grandi aziende, piccole e medie imprese.

FormAcademy è la struttura formativa che organizza, progetta ed eroga

formazione (corsi, percorsi, master) per il gruppo Tosiconsulting Group.

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privati che hanno a cuore la propria crescita personale e professionale.

FormAcademy si avvale di uno staff di formatori di grande competenza ed

esperienza sia in Italia sia all’estero.

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Principi di semio-design. Forme dell’innovazione e teoria del progetto. Dario Mangano e Gianfranco Marrone UNIVERSITÀ DI PALERMO

Attraverso e grazie alla riflessione semiotica diventa possibile identificare e chiarire i processi attraverso i quali si arriva alle nuove forme di design e a creare un modello dei processi di innovazione che ne spieghi le differenze interne, ma anche e soprattutto le dinamiche trasformative.

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1. Trovate, pratiche, invenzioni4

Recentemente, in occasione della festa di San Valentino del 14 febbraio, Perugina ha proposto sul mercato i suoi celebri “baci” in un tubo serrato con catenaccio e chiavi al seguito; oppure i cioccolatini erano stipati dentro un contenitore plastico a forma di chiavistello. Ecco un’idea di marketing che fa capo a un progetto di design. Il quale a sua volta fa ovvio riferimento a un romanzo e al film relativo, ma anche alle tante pratiche giovanili che quei due testi scimmiottano, nonché alle innumerevoli discussioni giornalistiche, dentro e fuori il web, sugli usi e consumi negli amori adolescenziali. Idea nuova, progetto originale? Difficile esprimersi con certezza, se è vero che, da un lato, la creazione ex nihilo stenta ad affermarsi ormai anche fra i più ostinati seguaci di Ratzinger, e che, d’altro lato, ai lucchetti di Moccia non ci crede più nemmeno un dodicenne di provincia. Delle due nessuna: sappiamo bene che l’innovazione non è mai fine a se stessa ma va misurata sempre e comunque a partire da precisi contesti, da esplicite regole di pertinenza e da ben individuati obiettivi progettuali; ma al tempo stesso facciamo fatica a credere sino in fondo, come ciclicamente ci viene ripetuto, che tutto sia stato detto e già stato scritto, di modo che l’unica forma di originalità sta dalle parti della banalità mal celata. Vediamo perciò altri casi di innovazione progettuale, molto diversi fra loro, che prendono comunque spunto da pratiche d’uso ‘dal basso’, per reinventarle, codificarle, istituzionalizzarle. Nei Collegi studenteschi di Urbino progettati da Giancarlo De Carlo i percorsi sono infiniti, quasi labirintici: stanze, aule, mense, bar e sale comuni si possono raggiungere da più parti, salendo e scendendo le scale, attraversando ballatoi, percorrendo vialetti, transitando in corridoi d’ogni larghezza e lunghezza. Eppure, molti degli utilizzatori di quei luoghi hanno preferito calpestare le aiuole per trovare varchi alternativi, risparmiando qualche metro, rompendo schematismi di comportamento più o meno coscienti. Così, a poco a poco l’erba è andata via, e si sono formati alcuni sentieri in terra battuta che, per quanto talvolta scoscesi, hanno invitato ulteriori passanti a calpestarli. Finché qualcuno dell’amministrazione non ha deciso di ammattonarli, quei sentieri, rendendo più comodo il cammino ma indirettamente autorizzando il calpestio delle aiuole. Da qualche anno a questa parte le edicole dei giornali sono stipate sino all’inverosimile, e i quotidiani hanno finito per diventare più una silente giustificazione della loro esistenza che non un prodotto in vendita: libri, dischi, film, cd musicali, giocattoli e quant’altro era dapprima offerto come straordinario allegato a giornali e riviste è diventata da tempo merce a sé stante. Finché Mondadori non ha deciso di lanciare per franchising in tutto il territorio Edicolé, una catena di edicole/ librerie/discherie/giocattolerie etc. (manca ancora il nome comune che le designi) che ha trasformato uno stato di fatto in una situazione di diritto, con tanto di marchio registrato e filiera di punti vendita. E sembra che altri grossi distributori stiano tentando la medesima strada. Gli esempi, come sarà chiaro, potrebbero moltiplicarsi, allargando sempre di più l’orizzonte dello sguardo: si pensi ai centri commerciali, che da serie di negozi sono diventati punti di ritrovo; alla moda di strada ripresa dai grandi stilisti. Insomma, 4 Sono redatti da Mangano i paragrafi 2 e 3; da Marrone il paragrafo 1.

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viene da pensare che questo tipo di dell’invenzione, questa forma del progetto sia la norma piuttosto che l’eccezione. E in questo la linguistica e la semiotica possono venirci in aiuto. La semiotica? Ancora lei? Quella dei segni e dei codici, dei lessici e dei segnali? Non avevamo da tempo capito che i modelli linguistici e le metafore strutturali ingabbiano il dinamismo della cultura e delle società? Ma ovviamente non è di ciò che stiamo parlando, soprattutto quando proponiamo questa prospettiva di studio come riflessione pertinente per una teoria del progetto e dell’innovazione nel design. Un lungo giro di discorso sarà allora necessario per introdurne il senso e spiegarne l’efficacia.

2. Verso l’innovazione Il concetto di innovazione gode di un’indiscussa centralità nell’ambito del design. L’una e l’altro sembrano essere collegati in modo talmente stretto da finire talvolta per coincidere: c’è innovazione dove c’è design e viceversa. A fronte di una tale importanza, tuttavia, la riflessione che si è prodotta intorno a questo concetto, al di là di alcuni contributi specifici, è stata caratterizzata da una certa vaghezza. L’innovazione passa come un’ovvietà, come qualcosa che sappiamo riconoscere intuitivamente quando la vediamo e che dunque il progettista può perseguire facendo riferimento al buon senso accoppiato a una particolare sensibilità: scatola nera insondabile che riduce a poco o nulla le possibilità di pervenire a una formulazione teorica o a un metodo che consenta un approccio strutturato. O almeno, così è per quegli aspetti che hanno più a che fare con il prodotto, mentre più standardizzabile sembrerebbe essere tutto ciò che riguarda la produzione e la distribuzione, in cui l’efficienza può essere misurata in termini esatti. Ma perché innovare dovrebbe essere così importante? Tenendo da canto questioni filosofiche molto generali riguardanti il senso di nozioni come innovazione, invenzione, creatività, progresso, crescita, sviluppo, linearità e irreversibilità temporale, avanzamento e simili (sulle quali pure un giorno occorrerà soffermarsi con attenzione), i motivi che possiamo individuare sono tanti e a essi corrispondono altrettante peculiarità del processo di innovazione. Cambiano i modelli di vita e con essi ciò che percepiamo come necessario. Da quando si è abbandonato il cavallo per l’automobile e si sono costruite città sempre più grandi, quello che viene definito un bisogno generico di spostamento ha assunto di volta in volta forme diverse, concretizzandosi in bisogni derivati specifici: dall’automobile alla metropolitana, fino ad arrivare alla recente rivoluzione del telelavoro che ha messo in crisi l’intero sistema del terziario. Se da un lato l’innovazione di prodotto è legata a un modo specifico di intendere una certa attività, dall’altro essa ha direttamente a che fare con le caratteristiche dei mercati globalizzati, nei quali essa diventa un fattore chiave di competitività, un’arma per combattere la concorrenza e rimanere sul mercato. Oggi è infatti relativamente facile abbattere i costi delocalizzando la produzione e non ci sono modi efficaci per difendersi dall’imitazione dei propri prodotti, pertanto una delle principali vie per mantenere una quota di mercato costante è rinnovare continuamente la propria offerta mantenendo sempre attivo il processo di innovazione. Il designer, in quanto operatore di tale processo, assume una funzione strategica per l’impresa e non più occasionale, una trasformazione culturale profonda che fa

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parlare oggi di una “cultura del design”. Ma in cosa consiste l’innovazione e come la si può individuare e perseguire? In una cultura del design i suoi confini risultano molto più ampi che nel passato. Come spiegano Celaschi e Deserti (2007, p. 29), “se lo slogan del disegno industriale risiedeva nel rapporto tra forma e funzione, nel design contemporaneo si attesta intorno al rapporto tra consumatore e senso della merce”. Non si tratta dunque soltanto di inventare una sedia più comoda di un’altra, più resistente, più leggera, o anche più economica – ammesso che ci sia mai stato un tempo in cui l’innovazione si potesse misurare solo in questi termini – i confini si allargano molto e lo fanno nella direzione di un territorio infido (almeno all’apparenza) come quello del senso. Innovare significa cambiare il significato di un artefatto, quanto e come questo si possa tradurre in precise variazioni nella forma rimane tutto da capire. Se questo è il design e queste sono le coordinate che regolano i processi di innovazione, come gestirli concretamente? Come, per dirla in termini semplici ma efficaci, farsi venire delle idee che funzionino, in grado di fare presa sui mercati? Le metodologie tradizionali mostrano presto i loro limiti. È facile conoscere le cosiddette esigenze implicite ed esplicite dei consumatori, in quanto essi stessi ne sono consapevoli e possono dunque verbalizzarle, lo è meno avere informazioni su quelle cosiddette attraenti, che sono poi le più importanti per la soddisfazione del cliente ma che rimangono inconsce (Celaschi e Deserti 2007, p. 101). Non possono manifestarsi perché il bene o il servizio cui fanno riferimento non esiste e non può facilmente essere immaginato. Ciò che può fare da propulsore per un processo innovativo dunque è anche ciò che è più difficile da determinare. Come procedere allora? L’unico approccio possibile è quello qualitativo, che ricava nuove possibili vie di sviluppo a partire da un’analisi dell’esistente compiuta integrando gli strumenti del marketing con le variabili tipiche del design (materiali, forme tecnologie etc.). Un lavoro da bricoleur che consiste nel ricavare da ciò che possiamo vedere oggi intorno a noi ciò che sarà domani attraverso collegamenti più o meno arditi. Così, guardando ai tapis roulant si può pensare ad una piscina “monoposto” che funziona sullo stesso principio, facendo muovere l’acqua sotto al nuotatore; oppure dopo aver riflettuto sulle modalità di creazione dei contenuti presenti nel web, immaginarne strumenti software particolarmente intuitivi che consentano agli utenti di crearne e i contenuti diventando loro stessi gli autori di quanto leggeranno/ascolteranno/vedranno (il celebre web 2.0). Ora però, se siamo disposti ad ammettere che è il senso della merce a guidare il design e con esso, per discendenza diretta, il processo innovativo, allora una teoria della significazione può contribuire non solamente a chiarire lo statuto del sistema che ci circonda, ma anche consentirci di individuare nuove vie di sviluppo. Uno spunto importante diventa allora quello che forniva Maldonado già negli anni Settanta quando ne La speranza progettuale esprimeva un pensiero all’apparenza semplice ma carico di conseguenze: “l’innovazione è sempre contro qualcuno” (Maldonado 1970,p. 111). Detto in altri termini, la carica innovativa di un artefatto, il suo valore, viene percepito – e diviene dunque misurabile – in relazione a qualcosa che esisteva precedentemente e che con l’emergere del nuovo perde il suo status. Con questa semplice mossa, ovvero evidenziando la natura polemica del progresso, Maldonado, più o meno consapevole che ne fosse, ha gettato le basi per un approccio al problema dell’innovazione che oggi consideriamo di tipo narrativo. Come insegna la narratologia, infatti, la polemica è il fondamento di ogni storia, sia essa quella che vede protagonista un principe e un drago o quella di qualcuno che

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tenta di usare il suo nuovo telefonino. L’innovazione insomma, non può essere percepita come tale se non si manifesta insieme ad una forma di reazione. La formalizzazione teorica che cerchiamo, il tanto desiderato metodo che ci consenta di farci venire delle idee, si basa dunque su un doppio movimento: affinché si manifesti un’innovazione – si realizzi cioè un’ascendenza – qualcos’altro deve subire un destino opposto, quello cioè di decadenza. Situazioni del genere nella storia si sono ripetute di continuo: il motore a scoppio ha scalzato la trazione animale, il web 2.0 sta sostituendo il “vecchio” 1.0, il telefono mobile in pochi anni è riuscito realizzare un’inversione di ruoli con quello domestico e così via. Nasce così l’idea di una profondità enunciativa5 che si applica al sistema degli artefatti con i quali conviviamo e che ci circondano. Come nel giornalismo la notizia emerge quando si staglia su un opportuno sfondo costituito dalla normalità (che assume i suoi connotati proprio grazie a ciò che la trasgredisce), così l’innovazione si manifesta solo in relazione a qualcosa il cui statuto antiquato si pone come tale nel momento stesso in cui viene superato. Facciamo un esempio: quando è stato inventato il Compact Disk, il supporto musicale fino a quel momento più diffuso era il vinile e accanto a questo la cassetta magnetica. Quest’ultima, in particolare, non aveva mai avuto successo come veicolo per la distribuzione della musica, ma come supporto “secondario”, ovvero per incidervi brani che provenivano dai Long Playing. Con il prendere piede dei CD, il vinile ha cominciato a ridurre la sua presenza fino a scomparire del tutto, schiacciato, almeno apparentemente, dalla maggiore qualità sonora ottenibile attraverso il supporto ottico (con particolare riferimento al ben noto fruscio) e dalla sua superiore maneggevolezza (disco più piccolo, meno sensibile alla polvere e ai graffi etc.). Una ascendenza che si realizzava a spese di una decadenza le cui ragioni erano appunto la qualità e la praticità. L’audiocassetta rimase ancora un po’ di tempo in quanto consentiva di creare preziose compilation che tanta presa avevano su potenziali morose e morosi (Mangano, 2009), e comunque solo fino a quando i computer non furono in grado di gestire contenuti multimediali e di incidere nuovi CD assemblando pezzi provenienti da altri. A quel punto, e per un certo tempo, il CD è stato dominatore incontrastato del panorama musicale, l’unico supporto venduto nelle grandi catene musicali, almeno fino a quando non è avvenuta la rivoluzione legata all’Mp3, a Internet e ai lettori multimediali come l’iPod. Ma ancora una volta, la loro ascendenza non è potuta avvenire che insieme ad una discendenza. In questo caso le dimensioni coinvolte sono state quelle della qualità sonora (che con l’Mp3, si sa, non può mai essere superlativa) e ancora una volta la praticità, in quanto la memoria di questi lettori può ospitare migliaia di brani musicali. La particolarità di questa nuovo slancio innovativo sta nel fatto che per una sorta di effetto collaterale ha finito per far recuperare proprio il vecchio supporto in vinile e il giradischi, che infatti stanno tornando a farsi vedere sugli scaffali dei negozi. Giradischi, è bene dirlo, sui quali il design è intervenuto massicciamente rinnovandone le forme (Mangano 2009). Un fenomeno singolare che dimostra come l’innovazione possa prendere le forme di un ritorno al passato quando le condizioni del sistema socio-tecnico sono tali per cui viene ridefinito il sistema di valori nel quale un certo oggetto può esistere. Nel caso specifico, il giradischi torna di moda nel momento in cui la qualità di ascolto viene riconsiderata (e il fruscio diventa non solo tollerabile ma quasi gradito, anche in ragione del suono più “caldo” della sorgente analogica) e il bisogno di interazione 5 Con enunciazione si intende il passaggio da un insieme di virtualità (ad esempio la lingua nella sua interezza) a un oggetto concreto o enunciato (la frase singola così come viene pronunciata dal parlante) . L’enunciato è dunque il risultato di un’enunciazione che diventa uno strumento di mediazione tra un insieme di possibilità e la loro realizzazione [N.d.R.].

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fisica con il “supporto” – del tutto eliminata dall’informatica – recuperato. Per paradossale che possa sembrare, l’innovazione è oggi proprio il vecchio giradischi riveduto e corretto, secondo un modello di recupero che in campi come quello della moda che abbiamo avuto occasione di evocare, non desta alcuna meraviglia. Proprio come nella moda allora, più che parlare di ciò che è attuale, o, mutatis mutandis, innovativo e all’avanguardia, sembra opportuno guardare alle procedure che lo rendono tale. Per dirla con le parole del celebre linguista Roland Barthes, a ciò che rende la moda di moda e dunque a ciò che rende l’innovazione innovativa, trattandosi in entrambi i casi più di un effetto di senso che di una creazione dotata di un qualche tipo di valore assoluto (1967). Più che concentrarsi sul prodotto e su caratteristiche di innovatività presupposte intrinseche e immodificabili, risulta allora utile guardare alle modalità attraverso cui tali caratteri si producono. Ne deriva un approccio profondamente rivoluzionato ai sistemi di artefatti in cui il grado di “attualità” di qualcosa è frutto del modo in cui qualcos’altro lo rende pertinente. In altre parole, ciò che un approccio all’innovazione attento ai processi di costruzione di senso mette in discussione è l’esistenza stessa di ogni artefatto, che viene rivista nei termini di una esistenza semiotica legata al modo in cui ognuno viene reso pertinente all’interno di un più ampio sistema. O, per usare un linguaggio più tecnico, enunciato. Proviamo con un nuovo esempio a capire cosa intendiamo.

3. Il caso dei cellulari La pagina pubblicitaria con la quale è stato lanciato Aura (fig. 1) è uno di quegli esempi di comunicazione che per catturare l’attenzione del lettore crea un mistero. Lo spazio del foglio è ricoperto nella sua totalità da una immagine fotografica che mostra una grande forbice da sarto insieme ad una riga in metallo poggiata su un cartoncino compatto sul quale una matita ha tracciato alcune linee. Quasi all’angolo inferiore destro, in uno spazio lasciato libero dalle carte e significativamente illuminato da un raggio di luce, si trova il piccolo oggetto cromato che è chiaramente il prodotto pubblicizzato. Le sue forme sono quelle di un basso parallelepipedo i cui lati superiore e inferiore sono due perfetti semicerchi. In particolare, il lato superiore segue il profilo di un luccicante quadrante rotondo in vetro, simile a quello di un orologio da tasca, all’interno del quale sono ben leggibili i numeri che individuano le principali ore del giorno. Tutto ci farebbe pensare che si tratti proprio di una “cipolla”, se non fosse che il marchio che ritroviamo impresso sull’oggetto e ripetuto nella parte verbale dell’annuncio è quello di Motorola, il celebre produttore di telefoni cellulari. E infatti, dopo qualche ricerca sul sito internet, puntualmente indicato nella pagina e divenuto ormai sempre più spesso l’approdo al quale veniamo traghettati dalla pubblicità tradizionale, scopriamo trattarsi del primo cellulare-gioiello del famoso marchio.

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FIGURE 1 –Annuncio pubblicitario del Motorola Aura FIGURE 2– Annuncio pubblicitario del Tissot Touch Ma come siamo arrivati a questo ibrido? che cosa è diventato il telefono perché si producesse un’innovazione del genere? cosa ne è (e ne sarà) dei gioielli? E degli orologi? È evidente che il modello di Motorola è solo la punta di un iceberg di un processo di innovazione complesso che coinvolge numerosi artefatti ed è al centro di pratiche articolate. Le forme (semiotiche) dell’innovazione sarebbero dunque originate dal modo in cui diverse entità oggettuali contribuiscono a costruire tra loro – ricostruendolo poi continuamente – un insieme coerente di relazioni all’interno del quale è la stessa attività umana a prendere forma. Concentriamoci un attimo sui telefoni cellulari. Essi sono certamente una delle più importanti innovazioni degli ultimi due secoli: offrono la possibilità di parlare con chiunque nel globo ovunque ci si trovi, trasformando profondamente grandezze fondamentali come lo spazio o il tempo. Eppure sarebbe estremamente riduttivo considerare soltanto l’innovazione tecnico-funzionale come misura del reale cambiamento che hanno portato (Marrone 1999). Certo, ci sono voluti enormi progressi per rendere realizzabile un sistema di telefonia mobile come quello esistente, ma ciò che è più interessante per un designer è valutare le trasformazioni sistemiche cui tale innovazione ha dato la stura e che hanno riguardato un numero insospettabilmente ampio di artefatti. Mentre la tecnologia in evoluzione chiedeva forme che la ospitassero e interfacce che consentissero di utilizzarla, un’intera configurazione stava cambiando, facendo sparire certi oggetti e facendone ricomparire altri, aprendo possibilità evolutive, e “contagiando” settori merceologici molto diversi. Ebbene, fenomeni di diffusione dell’innovazione come quelli che si sono verificati nel caso della telefonia mobile possono risultare inspiegabili se considerati da un punto

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di vista unicamente tecnologico. L’evoluzione non ha nulla di lineare. Non soltanto compie ogni tanto dei salti, quelli che Kuhn (1962) chiama cambiamenti di paradigma, ma, come ha spiegato Darwin, non si muove neppure sempre nella stessa direzione: talvolta torna indietro, altre scarta in modo imprevedibile. Osservare questi cambiamenti attraverso la lente della semiotica, e dunque considerando l’esistenza stessa di un artefatto non in senso ontologico, fisico, ma come il prodotto della sua presenza presupposta all’interno di una struttura discorsiva popolata da altri artefatti, aiuta a riconsiderare i processi attraverso cui si perviene a nuove configurazioni socio-tecniche.

FIGURE 3 –Motorola Dynatac 8000 X (1983) FIGURE 4 –Motorola Startac (1996) FIGURE 5– Apple iPhone (2007) Vediamo più nel dettaglio come hanno funzionato storicamente le cose nel mondo dei telefonini. Le forme che per prime accolgono l’innovazione rimandano direttamente a ciò che era già noto: come le prime automobili facevano esplicito riferimento al landò, così i primi telefoni mobili non sono altro che una cornetta dal profilo tradizionale enormemente sviluppata in modo da contenere l’elettronica necessaria al suo funzionamento (fig. 3). Ingombranti e pesanti, questi telefoni erano utilizzati solo da coloro che avevano bisogno di una reperibilità continua, come medici, uomini d’affari, gente che aveva bisogno di comunicare decisioni o pareri in tempo reale e non poteva avvalersi del più leggero e pratico cercapersone che li avrebbe costretti a perder tempo cercando un telefono pubblico. Nasce il telefono cellulare dunque, e di colpo, almeno per coloro che potevano permetterselo – ma come sappiamo ben presto per tutti – il cercapersone non ha più ragione d’esistere, non ha più senso. Come smettono di averne anche i telefoni pubblici, le cabine sparse per la città che erano state a lungo un elemento costitutivo del paesaggio urbano (nel caso di Londra sono diventate addirittura un simbolo), ospitando insieme all’apparecchio telefonico ogni genere di spia, fidanzato e rapitore, oltre che, naturalmente, i vandali per i quali erano un formidabile oggetto d’attrazione. Qualcosa emerge e qualcos’altro sparisce: emerge il telefono mobile e il telefono fisso comincia a perder terreno, a declinare insieme alle sue emanazioni come la cabina e il cercapersone. Non scompare, almeno per il momento non lo ha fatto, ma cambia il suo ruolo, con l’inversione che conosciamo, per cui mentre oggi

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tutti possiedono un telefono mobile, solo pochi si concedono anche il “lusso” di un fisso. Il quale, peraltro, anche lui si trasforma fisicamente. Non soltanto è sempre wireless, ma per di più è dotato dell’ormai irrinunciabile display cui siamo stati abituati proprio dai telefoni cellulari. Basta guardare Aladino, il telefono “tradizionale” prodotto da Telecom Italia e fornito d’ufficio ai nuovi abbonati, in tutto simile a un cellulare, fin nelle molteplici melodie che possono essere utilizzate al posto del tradizionale squillo. Anche le suonerie, peraltro, sono frutto di un progetto e come tali sono soggette al meccanismo evolutivo che stiamo esaminando che prevede forme di recupero dal passato. Pensiamo al recente e diffuso fenomeno tecno-sociale del “ritorno al trillo” che ha portato migliaia di utenti a impostare come suoneria il sobrio trillo tradizionale al posto delle melodie in voga fino ad un passato recente: dalla babele delle musichette fai da te dritti nella notte in cui tutti i trilli sono uguali. Ma torniamo al cellulare. Sarebbe impossibile in questa sede fare una storia dell’evoluzione dei modelli a partire dal Dynatac (fig. 3), tuttavia non possiamo fare a meno di esplicitare alcuni passaggi. Progetti che hanno cambiato il modo di usare questi apparecchi e con esso non soltanto il suo ruolo, ma anche quello di numerosi altri oggetti. Lo Startac di Motorola (fig. 4), per esempio, a lungo primatista quanto a dimensioni e leggerezza, grazie alla possibilità di ripiegarsi (flip), è stato il primo telefono davvero tascabile. A quel tempo la scommessa tecnologica era la miniaturizzazzione, e si arrivò ben presto a vincerla, con modelli dalle dimensioni davvero ridottissime che il palmo di una mano conteneva comodamente. Tuttavia, come spesso accade, ciò che sembra un valore finale, una volta raggiunto perde significato. Così i produttori di telefoni (e gli utenti), una volta pervenuti a modelli da fare invidia ad un agente segreto, hanno cambiato la direzione di sviluppo spostando l’innovazione sulle funzionalità e ritornando letteralmente indietro sugli aspetti legati alla dimensione. Nel frattempo però si è innescato un altro meccanismo trasformativo, quello stesso che evocavamo all’inizio di questo paragrafo e che ha coinvolto, fra gli altri, l’orologio. Con il cellulare che ci segue ovunque (ormai indipendentemente dalle dimensioni) e che è perfettamente in grado di dirci che ore sono, diventa del tutto inutile portare qualcosa al polso. Se lo facciamo è solo perché gradiamo quel tipo di ornamento, perché ha per noi un significato altro rispetto a quello banalmente pratico. Forse anche perché il tempo che passa ha un altro sapore se viene scandito da due lancette che ruotano anziché da fredde cifre digitali. Fin qui niente di nuovo, alla Swatch c’erano arrivati da tempo al fatto che gli orologi sono qualcosa di più di uno strumento per misurare il tempo, quello che è meno evidente è l’altro passaggio che evocavamo, ovvero che a un certo momento i cellulari sarebbero diventati dei gioielli, proprio come l’Aura. Ma cosa comporta far diventare un cellulare un gioiello? Come si opera affinché un oggetto di natura funzionale diventi “prezioso”, cambiando così la sua valorizzazione in senso opposto a quello pratico? Il primo passo è ovviamente quello del materiale, e così l’involucro esterno, normalmente di plastica, viene qui realizzato in uno splendente metallo cromato. Il paradosso è che proprio mentre la gioielleria scopre i materiali poveri (tubi di gomma, guarnizioni, vetri colorati, stoffe, carta etc.) i “nuovi gioielli” vanno verso la tradizione, quella del metallo, del lucido contrapposto al sempre più diffuso opaco. Ma il lusso, si sa, spesso si manifesta come vero e proprio antifunzionalismo: si pensi a crinoline e paniers negli abiti femminili del Settecento e Ottocento che impedivano alle dame qualunque attività. In questo caso, l’antifunzionalismo si concretizza in un display di forma rotonda che mal si presta, in confronto al classico rettangolo, a rappresentare i

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lunghi elenchi della rubrica, così come le immagini fotografiche. Infine, anche se non per ultimo, il valore dell’oggetto viene costruito attraverso ciò che non si vede ma si può percepire attraverso altri sensi come il tatto. Il peso di una collana ha grande importanza nella costruzione del suo valore, anche se è chiaro che questa informazione riguarda chi la indossa più che chi la vede dall’esterno. È una forma di autocompiacimento derivante dalla sensazione propriocettiva del contatto con certe superfici, o dal sentire certi pesi su di noi. Nel caso del cellulare in esame, non soltanto abbiamo un peso leggermente più alto di molti suoi concorrenti (141 grammi contro una media di 100) e il metallo striato dell’involucro esterno che offre una sensazione tattile molto diversa da quella cui le plastiche ci hanno abituato, ma, più importante di tutto ciò, un singolare meccanismo di apertura che fa scivolare in un attimo una sull’altra le due metà di cui è composto l’apparecchio. Un insieme di ingranaggi, si badi, non una semplice molla, che, infatti, vengono esibiti nella parte posteriore dell’apparecchio attraverso un’apposita finestra circolare che mostra le ruote dentate, proprio come avviene in certi orologi (fig. 6). A completare il quadro, la copertura del display circolare in vetro zaffiro, perfettamente antigraffio come quello degli orologi più prestigiosi e una modalità di vendita esclusiva attraverso la quale si fa in modo che il cliente non possa rivendere a sua volta l’apparecchio a qualcun altro senza passare nuovamente attraverso Motorola.

FIGURE 6 – Motorola Aura, particolare della parte posteriore e vista del cellulare aperto Aura è senz’altro un progetto originale che istituisce al contempo un nuovo modo di considerare, e dunque di progettare, il telefono portatile, ma che è inevitabilmente il prodotto di un contesto socio tecnico mutato rispetto a quello riscontrabile solo pochi anni or sono, del quale fa parte, come abbiamo visto, anche la gioielleria. L’innovazione contenuta in questo progetto dunque va oltre i confini di una categoria merceologica, si fa discorso nel momento in cui investe altre tipologie di artefatti sollevando problemi e indirizzando verso soluzioni spesso ibride. Cosa ne sarà per esempio degli orologi dopo Aura? È evidente che dovranno cambiare per non scomparire. E se i cellulari spingono sul fronte dell’estetica essi non potranno che farlo su quello opposto, valorizzando la praticità, per esempio ereditando

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proprio dai cellulari certe funzionalità o anche delle modalità di interazione. Come quelle del Touch Expert di Tissot (fig. 2) nel quale anziché attivare le funzioni attraverso la pressione di uno o più pulsanti posti lateralmente come è stato a lungo uso, è possibile toccare il quadrante in corrispondenza di certe zone come si fa con i touch screen dei cellulari di ultima generazione. Veniamo a questo punto all’ultimo passaggio evolutivo nel mondo dei cellulari, quello che ha nell’iPhone di Apple il suo campione (fig. 5). A questo punto la dimensione non è più un problema, contano maggiormente le funzioni disponibili, tra le quali sono ormai immancabili l’agenda, l’ascolto di brani musicali, la ripresa e la visione di filmati e fotografie, la consultazione di pagine web e il navigatore satellitare. Ingombro e peso sarebbero insomma compensati dal fatto di avere tanti oggetti riuniti in un unico chassis, anche se, come sappiamo bene, questo difficilmente fa in modo che le nostre tasche siano vuote. Per quanto il cellulare riesca a produrre buone immagini, infatti, non offre la qualità di una macchina fotografica digitale, e anche il GPS non è paragonabile a quello dedicato. Non è un caso allora se il mercato delle borse e delle custodie non è stato mai così prospero: tra protezioni per gli apparecchi, zaini (sia nella versione monospalla che in quella classica), marsupi, borsette di ogni tipo da allacciare alla cintura etc. Un altro dei grandi ritorni, anzi, è proprio quello del borsello da uomo: messo da parte per lunghi anni, si ripresenta adesso in varie fogge e dimensioni. A sparire (almeno per il momento) sono state le agende elettroniche, fino a qualche tempo considerate favorite nella sfida con il cartaceo oggi non si vedono praticamente più mentre Moleskine e compagne sembrano godere di perfetta salute, progettate come sono per offrire possibilità pratiche e sensazioni difficili ottenere con un marchingegno elettronico. Un paradosso che non stupisce se consideriamo che nell’era della comunicazione virtuale e dell’accesso (e dei problemi energetici e di inquinamento), si prendono molti più aerei di quanto non si sia mai fatto in passato, cercando sempre la ricchezza dell’esperienza “faccia a faccia”. Lo stesso principio che ha decretato il successo dei post-it che non fanno che proiettare la nostra agenda sulle cose che abbiamo ogni giorno sott’occhio, dandoci la possibilità di accartocciare e buttare nel cestino un impegno alla volta. La contraddizione tra funzioni avanzatissime, dematerializzazione, miniaturizzazione, gestione automatizzata, e, dall’altro lato, contatto fisico, borse che si riempiono, accartocciamenti vari è solo apparente. L’innovazione sembra anzi nutrirsene, e questo perché l’esistenza di un artefatto più che a una sua presupposta funzione o alla sua presenza fisica, come dicevamo è legata al senso che esso assume.

4. Incursione teorica per il semio-design6

Entra qui finalmente in gioco la semiotica, che a partire dai casi proposti può proporre un nuovo modello dei processi di innovazione che ne spieghi non solo le differenze interne ma anche e soprattutto le dinamiche trasformative. Numerosi sono ormai gli studi che, superati i primi amori fra semiotica e design, e superati altresì i successivi reciproci disinteressi fra le due discipline, hanno messo a fuoco il modo e il motivo per cui esse hanno ragione di confrontarsi e rendersi vicendevolmente complementari (cfr. da ultimo Mangano 2008; Mangano e Mattozzi eds. 2009). Quel che emerge da queste ricognizioni, molto in sintesi, è il principio per cui, da un lato, la semiotica può fornire modelli per ricostruire le articolazioni di 6 Sono redatti da Mangano il paragrafo 3; da Marrone i paragrafi 1 e 2.

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senso inscritte nel progetto di design (di prodotto, di grafica e comunicazione, d’interfaccia o altro) e, dall’altro, essa può altresì provare a esplicitare il saper fare implicito del progettista, contribuendo già alle fasi di ideazione e di elaborazione tecnica. In cambio, il design permette allo studio della significazione di allargare ulteriormente il proprio campo d’azione, fornendo casi-studio pertinenti e problematiche ad hoc a partire da cui essa può definitivamente abbandonare ogni dipendenza linguistica, aprendosi alla dimensione delle tecnologie e dell’esperienza, dell’oggettualità e dei modelli abitativi. La nozione di testo che troppo spesso viene tuttora ancorata – in semiotica e non – alla dimensione letteraria riemerge così in tutta la sua operatività, quale modello forte di spiegazione della significazione umana e sociale, entro cui la teoria e la prassi del design trova, per così dire, naturale collocazione. Per quel che ci riguarda in questa sede, vorremmo provare, a partire dalla problematica sopra esposta della innovatività progettuale, ad allargare ulteriormente l’area di dialogo delle due discipline, prendendo in considerazione la dimensione della cultura e della storia che, per forza di cose, vengono tirate in gioco dalla nozione stessa di innovazione. Punto di partenza, manco a dirlo, è ancora una volta la celebre dicotomia saussuriana langue/parole o, meglio, il suo progressivo superamento. Secondo il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, ogni sistema di segni è, appunto, un sistema, un insieme strutturato di regole astratte e formali, collettivo e condiviso (langue), a partire da cui riesce possibile l’atto individuale di produzione di senso, sia esso linguistico o d’altra natura (parole). Tale sistema, però, non è previsto in anticipo da una qualche entità superiore o evento contrattuale, ma si costituisce a partire dalla serie infinita delle parlate individuali, è la risultante generale dei singoli atti di parole. La langue e la parole sono così in dialettica costante, uno dipendente dall’altro, in presupposizione reciproca. Io parlo a partire da una lingua. La lingua esiste perché io la parlo. Molti studiosi successivi hanno però ridimensionato questa dicotomia saussuriana, che lascia ben poco spazio di libertà – di innovazione, se si vuole – al singolo parlante, il quale in fondo sembra costretto a sottostare alla dimensione sovraindividuale del sistema collettivo di regole, pena l’incomunicabilità. Émile Benveniste, per esempio, ha progressivamente mostrato come a metà strada fra la langue e la parole si dia una terza dimensione: quella del discorso, del modo in cui, cioè, il parlante si appropria delle regole linguistiche producendo la comunicazione sociale vera e propria (o enunciazione); ma anche, e parallelamente, del modo in cui la lingua prevede al suo interno tali modi di appropriazione, di fatto grammaticalizzando – ossia prospettando in anticipo – l’immagine dei soggetti linguistici. I pronomi personali, i modi e i tempi verbali, gli avverbi di luogo, per esempio, sono regole grammaticali mediante cui si delinea la figura concreta di chi parla (e dice io, qui e ora) e di chi ascolta (a cui si dice tu, là e ora). Si riduce in tal modo la costrittività delle regole linguistiche, aumentando lo spazio d’azione dei soggetti linguistici, i quali si rivelano essere allo stesso tempo soggetti fatti di lingua, costruiti grazie e attraverso i processi di comunicazione e di significazione. Analogamente, Luis Hjelmslev ha fatto presente – dando voce empirica alle intuizioni del linguista Wittgenstein, e aprendo di fatto la strada alle ricerche della cosiddetta pragmatica linguistica – che fra langue e parole si pone tutta la dimensione dell’uso. Per questo autore infatti all’interno della nozione saussuriana di langue si ritrovano quanto meno tre fenomeni diversi: questioni di forma pura (o schema) che determinano le entità linguistiche secondo opposizioni date solo in

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negativo (un fonema si oppone a un altro, a prescindere dal modo in cui viene reso a livello sonoro, grafico, gestuale etc.); questioni di forma materiale (o norma) che determinano le entità linguistiche secondo opposizioni anche in parte sonore (un fonema si oppone a un altro per alcune sue specifiche proprietà); questioni di prassi abituale (o uso) che determinano le entità linguistiche secondo il modo in cui per lo più si manifestano sonoramente (un fonema si rende riconoscibile in quanto tale, e al tempo stesso diverso da altri). Altro aspetto è poi la pronuncia individuale di ciascuno, che fa propri gli usi sociali della lingua, rendendo questa volta identificabile il suo modo specifico di parlare. Si tratta insomma di quattro diversi livelli di percezione linguistica, di cui effettivamente soltanto due – lo schema formale e l’uso sociale – sono oggetto pertinente della linguistica. Su questa scia si sono posti recentemente Fontanille e Zilberberg (1998), che hanno chiaramente distinto fra fatti di lingua (generativi) e fatti di storia (genetici), proponendo un percorso che dai primitivi della virtualità linguistica (schema) passa alla loro predisposizione attualizzante (norma) per infine realizzarsi in una certa sostanza (parole), per tornare poi, sul versante storico, alle consuetudini socio-linguistiche, ad atti di parole ripetuti sempre nel medesimo modo, che potenzialmente potrebbero dar luogo a nuovi primitivi. Da cui lo schema della cosiddetta prassi enunciativa:

Ci sarebbe una specie di movimento circolare che parte (per convenzione) dal sistema virtuale, passa per l’attualizzazione e arriva alla realizzazione (ed è il movimento della significazione). Da qui ha inizio la storia, ossia il fatto che, grazie all’uso, dalla realizzazione si passa alla potenzializzazione, ossia alla costituzione di prassemi enunciativi, che possono contribuire al riaggiustamento del sistema grazie alla virtualizzazione. Si possono indicare in tal modo quattro ‘operazioni elementari’ della prassi enunciativa, due delle quali di carattere ascendente – l’emergenza (dalla virtualizzazione all’attualizzazione) e l’apparizione (dall’attualizzazione alla realizzazione) – e due di carattere discendente – il declino (dalla realizzazione alla potenzializzazione) e la scomparsa (dalla potenzializzazione alla virtualizzazione). Nel discorso concreto però, osservano Fontanille e Zilberberg (1998), non ha mai luogo una sola operazione ma come minimo due: un’operazione, per es., di emergenza di una data grandezza semiotica si accompagna al declino di un’altra che stava al suo posto, o viceversa. Da qui la formulazione di una combinatoria delle operazioni elementari, che rende conto della tensione tra due movimenti della prassi enunciativa:

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Quando un’apparizione si associa a una scomparsa si ha una rivoluzione, ossia la sostituzione di un elemento con un altro (per es., il cambio radicale di un logo o di un nome di marca); quando un’apparizione si associa a un declino c’è una fluttuazione, ossia la compresenza entro il medesimo discorso di un elemento tradizionale con uno del tutto nuovo (per es. l’estensione di una marca di moda a un ambito molto lontano come il cibo). Più delicate le altre due operazioni: quando un’emergenza si associa a un declino c’è una distorsione, dove la compresenza riguarda un elemento che sta per affermarsi e un altro che sta invece per scemare (per es. l’affermarsi di certe forti tendenze al cambiamento entro un panorama momentaneamente stabile della moda); quando un’emergenza si associa a una scomparsa c’è un rimaneggiamento, ossia l’affermarsi di una nuova tendenza che sta per prender piede di contro a un’altra che viene meno (per. es. il riposizionamento di una marca nel posto lasciato vuoto da un’altra). Così, la prassi enunciativa prevede che in un discorso ci siano quanto meno due grandezze: una di esse è realizzata, data, effettivamente percepibile; l’altra è percepibile invece solo in modo indiretto, secondario, come sullo sfondo: essa è quindi attuale (se si tratta di una possibilità in qualche modo prevedibile ma non ancora realmente presentatasi), oppure è potenziale (se si tratta di qualcosa che ha avuto suoi momenti di realizzazione, essendo stata per un certo periodo una soluzione adottata e riconosciuta, e adesso è come in stand-by, fra parentesi, ma pronta a tornare a galla). Insomma, approfondendo la metafora visiva, nel discorso c’è sempre un primo piano e uno sfondo che grazie alla prassi enunciativa possono scambiarsi i ruoli nel corso del tempo. In tal modo, i contenuti testuali non rispondono solo a relazioni sistematiche o logico-narrative, ma hanno anche un diverso grado di presenza nel discorso, sono più o meno ‘in servizio’, vi insistono in misura maggiore o minore. Grado di presenza che si costituisce in una tensione essenziale, e in una messa in prospettiva, degli elementi testuali dati: che divengono virtuali, potenziali, attuali o realizzati l’uno in relazione all’altro. Così, una marca può affermare i propri contenuti mettendoli in relazione più o meno palese con quelli di altri discorsi concomitanti, oppure può progettare una propria trasformazione interna giocando in modo calcolato fra emergenze discorsive e paralleli declini. Può produrre al proprio interno forme più o meno fittizie di enunciazione, a partire dalle quali prendere posizione e arricchirle, oppure può moltiplicare le voci e i contenuti sino a esplodere o a dissolversi. Trovano qui risistemazione teorica e metodologica pratiche come quella del cobranding, dove una marca si staglia in funzione di un’altra e viceversa, costituendo forme momentanee di alleanza discorsiva prima ancora che economica. Con questo modello possono altresì ricevere una nuova definizione abitudini come quelle della sponsorizzazione, dove il marchio si inserisce in eventi, circostanze e discorsi altri, articolandosi con essi in una qualche gerarchia. E si reintepretano in questo quadro tattiche di marca come la presa in carico di problematiche sociali o ambientali,

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circostanze belliche, disastri naturali, questioni etiche, ideologie politiche, religioni. Prendendo posizione rispetto a tutto ciò, il discorso di marca si risemantizza, acquista o perde senso a seconda del grado di presenza con il quale riesce a imporsi nelle sue prassi enunciative.

5. Gradualità e rivoluzione nell’innovazione Non sembri, questa lunga incursione nella linguistica, un’ennesima, implicita dichiarazione di sudditanza al modello verbale, una sorta di ulteriore logocentrismo insomma. Del resto, gli esempi che sopra abbiamo proposto, relativi all’universo del branding, lasciano già intendere le enormi possibilità di applicazione di questo modello semiotico. Difatti, si coglie meglio il senso, e tutta la importanza operativa, della nozione di prassi enunciativa proprio nel momento in cui la si adopera nel campo della comunicazione e della significazione sociali. Dire che esistono usi linguistici che stabilizzano lo schema formale in prassi abituali, di fatto rendendo funzionali certe regole e non funzionali certe altre, è in fondo una relativa ovvietà. Più interessante è invece constatare, come fanno Greimas e Fontanille (1991) studiando la dimensione passionale del senso, che le predisposizioni d’animo previste formalmente da una determinata cultura a livello virtuale non danno affatto luogo a configurazioni emotive realizzate storicamente: se per es. a livello logico-semantico avarizia e generosità si oppongono, nel Seicento e nel Settecento è solo la prima a essere considerata una passione socialmente rilevante, mentre la seconda è tutt’al più una blanda tendenza caratteriale. Analogamente, studiando un fenomeno molto diverso qual è quello della costruzione delle notizie nel discorso giornalistico, è emerso molto chiaramente come l’evento del giorno (la notizia, appunto, realizzata) cambi completamente di senso a seconda che si stagli sullo sfondo di alcuni contenuti informativi virtuali piuttosto che altri: una cosa è un suicidio di un certo personaggio politico per ragioni politiche, altra cosa il medesimo suicidio per ragioni sentimentali, o per ragioni giudiziarie. Così, sono le prassi giornalistiche concrete a dar senso alle regole virtuali dell’informazione, e non viceversa (Marrone 1998). In questo caso allora l’uso, per tornare alla terminologia hjelmsleviana, predomina sia sulla lingua come schema formale o norma materiale, sia sull’atto individuale di parole. A dirigerci, sarà pertanto il seguente quadrato semiotico, che – differenziandosi sia da quello presente in Greimas e Fontanille (1991) sia da quello già ripensato in Mangano (2009) – riassume quanto detto sinora, donandoci altresì la ricchezza della sua intrinseca operatività. I termini che esso articola, com’è noto, sono esiti delle relazioni di contrarietà, contraddizione e complementarità nonché delle operazioni di negazione e affermazione che lo dinamizzano.

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6. Un’applicazione pratica del modello Proviamo ora a tornare sui processi trasformativi che, come abbiamo visto nel paragrafo 3, a partire dall’invenzione del telefono cellulare hanno interessato il sistema socio-tecnico, per capire come un modello come quello appena proposto possa offrirci l’occasione di sistematizzarli, offrendoci al contempo nuove suggestioni. Ad un certo momento, il cellulare da astrazione (l’ideale telefono senza filo) quale era stato a lungo, e dunque da una forma di esistenza virtuale, fa la sua comparsa sul mercato. All’inizio è ancora un oggetto per pochi e tuttavia comincia già a destabilizzare alcuni equilibri. Fino a quel momento il problema delle chiamate urgenti era stato risolto con il cercapersone (solo marginalmente con le radio ricetrasmittenti su cui torneremo), una tecnologia che aveva però numerosi svantaggi, primo fra tutti quello di non risolvere il problema del filo fino in fondo: l’importante medico poteva essere rintracciato ovunque, e tuttavia per poter sentire quale fosse il problema e proporre una eventuale soluzione, doveva pur sempre trovare un apparecchio tradizionale. Con la comparsa del cellulare dunque, il sistema socio-tecnico comincia a muoversi. Attenzione però, sarebbe un errore credere che il rapporto sia di tipo uno a uno, o uno a due, ovvero tale per cui il cellulare ascende facendo la sua comparsa e il cercapersone o il telefono fisso discendono finendo per scomparire. Come abbiamo accennato, nel caso degli artefatti la tensione ha luogo fra molti elementi e dunque bisogna parlare di riconfigurazione di un sistema socio tecnico nel suo complesso. La nuova invenzione mette in difficoltà il vecchio cercapersone, negando la sua congiunzione con quel sistema cui fino a quel momento poteva dirsi congiunto e dunque realizzato per fargli assumere una più vaga posizione di oggetto attuale, ovvero qualcosa che è lì come una competenza inespressa, qualcosa che potrebbe funzionare ancora ma che nessuno più ha intenzione di utilizzare. Facciamo notare che la lessicalizzazione con cui si indica questo stato di esistenza semiotica non è del tutto felice: nel linguaggio comune infatti attuale rimanda ad un concetto di validità nel presente che nel nostro caso non si dà. D’altronde, il concetto hjelmsleviano di norma a cui lo abbiamo associato in questo nostro modello, suggerisce una certa idea di staticità e di inattualità che invece ben si adattano a quanto abbiamo visto. Tuttavia questa trasformazione non è che la punta di un iceberg, perché a partire da questa molte altre ne conseguono, dando vita ad un complesso processo di innovazione a cascata che interessa oggetti apparentemente eterogenei. Gli orologi tradizionali innanzitutto, che, ormai incorporati nei cellulari, non devono più essere macchine per scandire il tempo ma sempre più accessori da indossare. L’orologio passa così dallo stato di realizzato a quello di attuale. Diventa, è il caso di dirlo, la norma. Un tale spostamento, però, offre la possibilità di una nuova trasformazione che puntualmente si verifica: è quella che fa sì che i cellulari diventino gioielli come l’Aura, frutto di un movimento dal potenziale al realizzato. In questo caso, quello che era un uso accessorio, ovvero consentire di leggere l’ora, prende il sopravvento e nel farlo dirotta la pertinenza dell’oggetto nel suo complesso verso il gioiello: il quadrante diventa tondo, i materiali preziosi etc. Semioticamente diremo che un uso diffuso ha stimolato un processo creativo dando il via alla realizzazione di qualcosa di nuovo, un ibrido che prende il posto di ciò che esisteva prima. Un movimento che provoca una pronta risposta dei produttori di orologi che, capita l’invasione di campo, restituiscono pan per focaccia, mutuando la tecnologia touch screen proprio dalle interfacce dei cellulari e incorporandola in un orologio come il

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Tissot. Ma i confini del processo innovativo posso essere allargati ancora. Alle cabine telefoniche per esempio, che a buon diritto entrano nella partita. E tuttavia nel loro caso la sorte è stata meno benevola: dopo aver passato qualche anno nel limbo dell’attuale, ovvero di una esistenza inattiva, hanno finito col venire smontate divenendo veri e propri oggetti virtuali le cui uniche forme d’uso sono ormai quelle leggermente devianti di coloro che le inseriscono fra gli arredi di locali alla moda. Potremmo continuare a lungo individuando movimenti sul quadrato che rendono conto del modo in cui nuovi prodotti scaturiscano da realtà preesistenti e tuttavia quello che ci preme mostrare è la coerenza sistematica di tali trasformazioni. Prendiamo il borsello da uomo. In voga fino agli anni Settanta, dopo quel periodo è stato utilizzato solo da pochi nostalgici rimanendo a lungo chiuso in uno stato di esistenza virtuale. In seguito alla necessità di portarsi dietro tutta la tecnologia che ci accompagna quotidianamente però, dapprima si è cominciata a riprendere l’abitudine a portarlo con sé (potenziale), ed in seguito i produttori hanno preso a disegnare modelli per le “nuove” esigenze (realizzato). Se l’esempio del borsello dovesse sembrarci troppo ai margini dell’innovazione principale, ovvero quella del parlare senza alcun filo e ovunque, facciamo notare come da pochissimo tempo alcune aziende stiano cercando di rilanciare la tecnologia a radiofrequenza per le comunicazioni. Non sappiamo ancora se andrà a buon fine l’operazione, ma Brondi sta spingendo in questa direzione pubblicizzando ricetrasmittenti nei termini di una alternativa ai telefonini. Una campagna che fa leva non soltanto sul vantaggio tecnologico, che consiste nell’essere in condizione di trasmettere anche dove non c’è copertura della rete telefonica, o economico, visto il costo nullo della chiamata, ma anche sociale, in quanto con i walkie talkie si può parlare contemporaneamente a più di una persona. Poco utile nella vita quotidiana forse, ma molto nel contesto di una vacanza in barca a vela come quella rappresentata nell’immagine (fig. 7). Per non parlare del fascino tanto infantile quanto efficace di dover dire “passo” alla fine di ogni frase. Tutto questo per dire che l’innovazione si nutre di passato, riporta in vita, trasforma, difficilmente “crea” ex nihilo, e non per la ragione che comunemente si tende ad assumere, ovvero perché ciò che c’era prima era in qualche modo più razionale, più essenziale, e per questo in definitiva migliore di ciò che ci offre la contemporaneità, ma per un motivo di ordine ben diverso che ha a che vedere con il senso di quell’artefatto. Il giradischi torna di moda quando nasce l’iPod e la musica comincia a essere gestita completamente attraverso il computer (Mangano 2009). Ciò che avrebbe dovuto porre fine una volta e per tutte a un supporto imperfetto, troppo delicato, complesso da maneggiare e archiviare, e che, per di più, ci spinge ad un ascolto sequenziale dei brani che ci fa “perder tempo”, in realtà lo resuscita, e per delle ragioni che hanno a che vedere proprio con tali abissali differenze. A darcene prova è il declino, molto lento ancora ma perfettamente prevedibile, che sta subendo il Compact Disk, ovvero l’invenzione che, a suo tempo, aveva detronizzato l’LP. Il giradischi insomma torna pertinente nella veste rinnovata dei modelli contemporanei (il passaggio è virtuale>> potenziale>>realizzato), grazie al manifestarsi del suo nemico perfetto, proprio come aveva suggerito Maldonado.

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FIGURE 7 – Pubblicità a stampa delle ricetrasmittenti Brondi (2009). Lo sguardo semiotico ci obbliga allora a mutare l’approccio comunemente adottato in riferimento al fenomeno dell’innovazione. In primo luogo perché ci spinge a leggerlo sempre come un processo sistemico, in cui sono intere configurazioni a cambiare e non singoli oggetti; ma anche, e forse soprattutto, perché sposta la nostra attenzione sul fatto che la mutazione non scaturisce da un miglioramento valutabile nei termini di un mero calcolo ingegneristico, ma da qualcosa che ha a che vedere con una forma di efficacia che, con Levi-Strauss, diremmo simbolica. Da ciò l’importanza che i modelli che hanno consentito di descrivere e spiegare tali forme di azione possono avere su un’altra forma di azione come quella dell’inventare. Il prossimo telefonino? La casa del futuro? Per sapere come saranno fatti non ci resta che guardare ai sistemi di relazione nei quali stanno nascendo, osservando lo statuto di esistenza semiotica di ciò che ci è noto e ipotizzando le possibili trasformazioni. Le possibilità sono molte naturalmente, ma non infinite. Un livello profondo, tanto astratto quanto universale, è presente. Quanto al telefono bisognerà allora interrogarsi sul modo in cui si costruiscono le identità, su come comincia e finisce una storia d’amore, mentre per la casa, prima ancora di fare considerazioni sul bilanciamento energetico e sull’uso di materiali riciclabili, bisognerà interrogarsi sulla natura in quanto modello culturale.

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AAA creativi cercasi: un’applicazione del Modello delle 3T alla gestione aziendale delle risorse umane di Alberto Maestri REDAZIONE – TICONZERO.INFO Negli ultimi anni si sono registrati importanti cambiamenti nelle economie dei paesi occidentali. Fattori organizzativi di tipo hard come il lavoro fisico stanno perdendo di importanza in quanto leve per lo sviluppo e la competitività aziendale, mentre diventano fondamentali fattori più soft come la creatività in possesso dei lavoratori interni.

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1 – Introduzione. Creatività e innovazione come leve per

competere Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da importanti trasformazioni sotto il profilo socio-economico a livello mondiale (Florida 2002b, 2005b), a causa della transazione da un contesto industriale e fordista ad uno post-industriale. In particolare, gli studi degli analisti (es. Rullani 2004) rilevano come l’economia contemporanea stia passando sempre più dall'essere fondata su una dimensione materiale, stimolata da leve come la forza fisica, ad una astratta, nella quale contano maggiormente le capacità cognitive e intellettuali. Acquistano sempre più importanza la creatività e la capacità di generare idee da parte degli attori coinvolti nei processi economici (es. Coy 2000 e Rullani 2004), tanto che le stesse idee sono ritenute il nuovo asset fondamentale (Coy 2000). Questa tesi è stata ultimamente ripresa da Florida (2002b e 2005b) che ha sottolineato più volte come proprio la creatività sia il motore dell’economia, sostenuta dalla comunicazione e dall'informazione. Il pensiero conclusivo a cui portano le varie ricerche è che l’economia contemporanea si sta trasformando in economia creativa (Coy 2000 e Florida 2002a). Diventa allora necessario approfondire i temi della creatività e dell’innovazione, due fattori ritenuti legati da strette relazioni, declinandoli al contesto economico-organizzativo. 1.1 – L’importanza del fattore creativo Per definire il concetto di ‘creatività’ in ambito economico è utile riprendere e sintetizzare le definizioni date negli anni da Plsek (1997), Goldenberg e Mazursky (2002) secondo cui essa consiste nella capacità di combinare e adattare la conoscenza per generare nuove idee utili ai destinatari per i quali sono state concepite e ideate. La creatività è pertanto l'unione di pensieri che, incontrandosi ed unendosi in modi differenti, cambiano l’esistente o formano qualcosa di nuovo (Csikszentmihalyi 1996) che possiede un significato (Borgese 2000) non solo attraverso dinamiche libere e caotiche che portano all’eureka! finale, ma soprattutto attraverso processi sistematici che strutturano veri e propri piani creativi caratterizzati da differenti stadi (Wallas 1926): preparazione, incubazione, insight ed elaborazione/valutazione. Un elemento fondamentale per comprendere la nuova economia creativa e collegare il tema a quanto detto finora è rilevare i cambiamenti apportati dal fattore creativo a livello di singola impresa, principale agente economico. Declinata in ambito aziendale la creatività diventa organizational creativity ed è considerata da un lato un fattore trasversale, una meta-competenza posta in posizione preliminare rispetto alla produzione economica. Ma con essa si intende anche la creazione di un prodotto, servizio, idea, procedura o processo, nuovi e di valore aggiunto, da parte di soggetti che lavorano all’interno di un sistema sociale complesso (Woodman et al. 1993) come può essere quello aziendale.

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La prospettiva economico-organizzativa considera strategica la capacità delle aziende di essere creative soprattutto perché essa ha un ruolo funzionale per lo sviluppo dell’innovazione d’impresa (es. Klijn e Tomic 2010). 1.2 – L’innovazione d’impresa L’innovazione d’impresa viene definita come la concretizzazione di successo e l’attuazione di idee creative (es. Woodman et al. 1993, Klijn e Tomic 2010). la capacità di creare innovazione è ora diventato un fattore fondamentale per ogni organizzazione che voglia conseguire una vantaggio competitivo duraturo nei confronti dei competitor. E’ grazie all’innovazione che un’impresa riesce infatti a creare valore aggiunto rispetto a quanto è già esistente sul mercato, sia in una prospettiva intra-organizzativa che nell’ottica del cliente finale. A livello di singola impresa il dilemma non è più dunque se innovare, ma soprattutto come farlo in maniera efficace (Prajogo e Ahmed 2006). Troppo spesso infatti l’innovazione è attuata senza un pensiero ex-ante ma con il solo scopo di rispondere agli stimoli ed alle insidie che provengono dai concorrenti. In quanto risultato della creatività l’innovazione è un fenomeno complesso, analizzabile da prospettive differenti. La classificazione tradizionale (Perrini 2007) ordina l’innovazione per forma o per natura, con impatti differenti sullo sviluppo ed il cambiamento economico-organizzativo. A livello di forma è possibile distinguere tra:

• innovazione di prodotto: riguarda strumenti e conoscenze relativi a nuovi prodotti e servizi che permettono di apportare variazioni al portfolio d’impresa;

• innovazione di processo: riguarda “dispositivi, strumenti e conoscenze che mediano tra input e output ” organizzativi (ivi, p.257).

Un’azienda può introdurre nello stesso momento prodotti e processi innovativi. L’innovazione multipla così sviluppata (Baglieri e Lojacono 2009) è sicuramente più difendibile e strutturata di quella specifica di prodotto o di processo e rende il vantaggio competitivo maggiormente sostenibile. Questa innovazione prende anche il nome di innovazione tecnologica e comprende appunto “nuovi prodotti (beni e servizi) e processi implementati a livello tecnologico e miglioramenti significativi nei prodotti e nei processi” (OECD 2004, p.31). Recentemente la classificazione per forma dell’innovazione è stata arricchita grazie all’inserimento dell’innovazione organizzativa, consistente nella “creazione di nuove forme organizzative e/o pratiche manageriali” (De Leede e Looise 2005, p.109) per apportare modifiche sostanziali alla struttura di un’organizzazione. A livello di natura e trasversalmente alle tre tipologie appena elencate è possibile invece distinguere tra:

• innovazione radicale (o breakthrough): rappresenta un elemento di rottura, di discontinuità rispetto al passato; il connotato distintivo è l’originalità dell’output;

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• innovazione incrementale (o marginale): in questo secondo caso l’innovazione migliora semplicemente un qualcosa già esistente, senza che nulla di realmente nuovo sia inventato.

1.3 – Una nuova classe di lavoratori Analizzato il concetto di creatività, il processo creativo e il tema collegato dell’innovazione e riconosciuta la loro importanza per l’operatività economica e la competitività delle imprese, è possibile concludere sottolineando come le aziende, sempre più guidate dalla leva creativa, devono poter attingere da un mercato del lavoro composto da soggetti con caratteristiche ben diverse da quelle richieste ai lavoratori negli anni passati. In particolare, servono ora soggetti talentuosi in possesso anche di un elevato tasso di creatività e/o di un potenziale creativo da poter trasformare in innovazione. In seguito verrà approfondito il tema attraverso l’inquadramento di questi ‘nuovi’ lavoratori. Verranno in particolare analizzate le loro caratteristiche individuali ed i motivi che, secondo le ricerche, li rendono un cluster ben definito.

2 – I lavoratori creativi Come ampiamente sottolineato nel capitolo precedente, l’economia contemporanea sta facendo diventare di grande importanza per le imprese la creatività, elemento essenziale per produrre innovazione. Ma se sono questi i due fattori strategici più importanti, per le aziende diventano fondamentali le capacità cognitive dei propri lavoratori, in particolare quelle che permettono di generare nuove idee. Per realizzare l’impresa creativa devono essere presenti lavoratori creativi di talento che formulino continuamente nuove proposte, “cercando costantemente di trovare modi più veloci, economici o migliori di fare le cose” (Florida 2002b, p.132). E’ importante quindi definire e comprendere chi sono tali soggetti: a proposito si è pensato di analizzare i lavoratori creativi sia da una prospettiva individuale che di classe lavoratrice, due dimensioni fondamentali e strettamente collegate tra loro. Da una prospettiva individuale, una prima caratteristica dei lavoratori creativi è proprio la loro creatività. Non bisogna dare per scontato questo fattore: già da alcuni anni Florida (2002b e 2005b) sostiene come tutti gli individui siano potenzialmente creativi, in quanto dotati di specifiche abilità creative ereditate dal naturale progresso evolutivo. Queste possono essere contenute in una nuova tipologia di capitale economico, il capitale creativo, comprensivo dello stock di creatività posseduta dal singolo soggetto. Esso appare integrativo e complementare a quello umano, e la presenza in un lavoratore di entrambi i capitali descritti lo rende un talento creativo. Contemporaneamente a queste analisi, sempre Florida (2002b, 2005b) ha individuato altri tre tratti caratteristici e integrati tra loro che permettono di concretizzare il nuovo potenziale e di definire il talento creativo:

• individualismo: il lavoratore creativo ha una spiccata preferenza per la libertà di sperimentare nuove esperienze e di imparare attraverso queste;

• meritocrazia: i creativi vogliono meritare le loro ricompense e appaiono orientati al duro lavoro, alla sfida ed allo stimolo continuo;

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• diversità ed apertura: i lavoratori creativi prediligono ambienti vibranti e che favoriscono l’integrazione. Essi si caratterizzano anche per il loro lifestyle per nulla tradizionale né conformista (Rutten e Gelissen 2008) e per un’elevata mobilità lavorativa.

Volendo spostare l’attenzione da un livello micro e relativo al singolo individuo ad una prospettiva più estesa, Florida ed i suoi collaboratori (Florida 2002b, 2005a e 2005b) hanno cercato anche di mappare i lavoratori creativi individuando una classe creativa. Nella prima classificazione stilata, Florida (2002b) ha individuato e distinto due livelli interni alla nuova classe:

• Super Creative Core: i lavoratori impegnati in queste mansioni sono ritenuti i più creativi tra tutti in quanto producono nuove forme o design che sono subito trasferibili e utili in molti modi differenti e ad utenti eterogenei.

• Professioni Creative: a questo gruppo appartengono individui che lavorano per esempio in molte industrie knowledge-intensive operative nei settori high-tech, nei servizi finanziari, etc. Anche questi soggetti sono impegnati nel processo creativo, ma non sempre producono e gestiscono metodi e output che sono utili a diversi utenti.

Successivamente (Florida 2005a) l’elenco delle professioni creative è stato ampliato con l’introduzione di imprenditori, dirigenti pubblici e privati, professionisti, ricercatori, professioni pratiche di tipo tecnico/artistico altamente specializzate. La classe creativa comprende a livello globale circa un terzo dei lavoratori attivi in USA (Florida 2002b) e nei restanti paesi industrializzati (Florida 2005b). Essa è stata inoltre differenziata da altre tre classificazioni che coprono le professioni rimanenti e rappresentano la distinzione delle occupazioni a seconda dei settori (primario, secondario e terziario) in cui sono impiegate: agricoltura, working class e classe dei servizi. La classe creativa si affianca ad esse dando vita a processi di inter-scambio di lavoratori: l’arricchimento di un lavoro dal punto di vista dei contenuti conoscitivi, creativi e innovativi comporta infatti uno spostamento verticale (all’interno della gerarchia creativa) o trasversale (tra classi) del soggetto che lo svolge. 2.1 – Attrarre e trattenere una nuova classe di lavoratori Se i lavoratori creativi, in particolare quelli talentuosi, sono considerati di fondamentale importanza per la sopravvivenza e la competitività delle imprese, l’obiettivo di queste deve essere sempre più quello di attrarli e trattenerli (Gertler et al. 2002, Florida 2002b), cercando in generale di stimolare il talento presente in ognuno tramite strumenti e pratiche di arricchimento del proprio capitale creativo. Tale obiettivo è diventato strategico per le imprese di qualsiasi dimensione, nella volontà di vincere la competizione sul mercato del lavoro creativo. La realizzazione di questi interessi organizzativi è resa difficoltosa sia a causa della dimensione globale che la stessa competizione sta assumendo (Florida 2002b) sia perché, come già scritto in precedenza, gli individui creativi “tendono a identificarsi maggiormente nelle loro occupazioni e professioni piuttosto che in una compagnia” (ivi, p.114) preferendo carriere boundaryless.

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3 – Il Modello delle 3T per gestire i creativi nelle aree

geografiche Il Modello delle 3T è stato costituito da Florida insieme con alcuni collaboratori ed ha alla base due importanti constatazioni. In primis, la struttura geografica contemporanea mostra la progressiva dissolvenza degli stati come entità specifiche e importanti per lo sviluppo socio-economico mondiale. Il concetto di stato sovrano è infatti ormai obsoleto, colpito da un inesorabile processo di erosione (Scott 1998). La reale competizione economica avviene sempre più tra regioni (ivi) o addirittura tra città (es. Florida 2002b, 2005a e 2005b) che non competono “solamente nella stessa regione o nello stesso stato, ma a un livello globale (…)” (Murray 2001, p.82). Non è un caso se il tema della competitività territoriale sta diventando “di crescente rilevanza per le politiche di sviluppo regionale” (Camagni 2002, p.2395). Si assiste così ad un effetto paradossale (Scott 1998, Florida 2002b): si prospetta un mondo contratto, inter-connesso e di conseguenza si dà per certo l’imminente declino dell’importanza della geografia (es. O’Brien 1992, Kelly 1998). Parallelamente viene però riscoperta la sua strategicità per l’economia mondiale, in particolare delle aree urbane e regionali: l’economia tende sempre più ad “abitare uno spazio” (Florida 2005b, p.28), a localizzarsi in aree specifiche. A tale proposito Swyngedouw ed alcuni colleghi (1992) hanno coniato il termine ‘glocalizzazione’, risultante dell’interazione tra globale e locale. Inoltre, i lavoratori creativi descritti come i nuovi motori delle economie occidentali contemporanee “non smettono di essere creativi appena dopo aver lasciato l’ufficio” (Rutten e Gelissen 2008, p.987) ma ripropongono il loro ethos nel loro stile di vita abituale, mostrando come l’essenza creativa sia parte della propria identità (ivi). Per questo motivo le aree urbane e regionali devono possedere elementi caratterizzanti il contesto, o milieu, che incontrino le aspettative ed i bisogni degli stessi, trasformandosi in veri centri creativi (Florida 2002b). Il milieu è stato definito come una combinazione di infrastrutture hard e soft (Landry 2006): le prime comprendono strade, edifici ed altri oggetti fisici e rappresentano un fattore necessario ma non sufficiente. Le strutture soft sono intangibili, prodotte dall’interazione tra individui e dai sentimenti che si diffondono attraverso i luoghi. Essendo i creativi persone fortemente orientate alla socialità ed alla diversità, la dimensione soft è di fondamentale importanza. Riassumendo sono tre le dimensioni principali che definiscono la qualità di un luogo (Florida 2002b), intesa come l’insieme delle caratteristiche che lo rendono vivibile e gradevole (Yigitcanlar et al. 2007):

∗ what’s there: la combinazione e l’equilibrio tra il paesaggio costruito dall'uomo e quello naturale;

∗ who’s there: le tipologie di persone presenti nel luogo, che devono costituire la giusta atmosfera ed il giusto meltin’ pot socio-culturale;

∗ what’s going on: la ricchezza dell’offerta artistica, culturale, etc. proposta. Nello specifico, il Modello delle 3T costituito da quelle che Florida considera le tre leve dello sviluppo economico: talento, tecnologia e tolleranza. Ciascuna di queste leve è importante perché se presente è apprezzata dai creativi, i quali tenderanno a preferire le città o le regioni che la possiedono ancora prima di trovare un lavoro.

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Occorre pertanto presentare brevemente le tre dimensioni appena citate, sottolineando gli aspetti salienti che caratterizzano l’intero modello. 3.1 – Talento Per quanto riguarda il talento, occorre sottolineare come negli studi di Florida i termini ‘creativo’ e quello di ‘talento’ sono spesso associati, o comunque concepiti insieme. Per parlare di talento il ricercatore americano riprende e rielabora le ricerche sul capitale umano, collegandoli con il capitale creativo da lui individuato: il talento creativo è infatti un individuo che possiede livelli adeguati di entrambi. Il lavoratore creativo talentuoso è una ricchezza insostituibile per un’area geografica, e dalle ricerche del ricercatore si possono trarre due conclusioni tra loro sinergiche: • si crea una relazione positiva tra numero di abitanti e tasso di sviluppo: le aree

geografiche più densamente popolate sono molto più avvantaggiate dal punto di vista della produttività, potendo contare sull’energia multipla di diverse menti educate e creative (Lucas 1988, Florida 2002b);

• un’area geografica in cui abitano già persone creative e talentuose avrà anche più possibilità di attivare un circolo virtuoso attraendo nuovi talenti creativi.

3.2 – Tecnologia L’importanza della tecnologia e della scienza in generale per la creatività delle città e delle regioni è ormai un fatto riconosciuto (Landry 2006). Da tempo si sostiene che nessuna area può essere realmente competitiva in assenza di tecnologie aggiornate e di qualità. La tecnologia permette alle persone creative ed alle imprese in cui queste lavorano di avere i mezzi adatti con cui potersi esprimersi al meglio e di generare le idee adeguate a trasformarsi in innovazione. Nello specifico, nella nuova economia creativa diventano due le principali necessità tecnologiche delle aree geografiche: se da un lato occorre infatti prestare adeguata attenzione al contesto tecnologico cercando di costituire città e regioni tecnologicamente avanzate, dall’altro bisogna anche prestare attenzione alla percentuale di aziende operative nei settori high-tech in un territorio specifico. 3.3 – Tolleranza La tolleranza è il vero elemento di novità introdotto da Florida, in quanto poco considerato nelle altre ricerche in tema, e forse quello più importante poiché rende il modello sistemico e consistente (2002b, 2005b). Parlando di tolleranza, Florida riprende alcuni termini dal linguaggio economico-aziendale. Le società realmente fiorenti e competitive a livello mondiale devono sforzarsi di essere aperte e presentare basse barriere d’ingresso, dimostrando così un’accoglienza attiva (Florida 2005a) nei confronti di chiunque voglia viverci. In esse l’apertura alla diversità è totale, i nuovi arrivati sono accettati e accolti rapidamente e indipendentemente dal loro status economico e sociale. Non è un caso che, nell’accezione data dal ricercatore, la tolleranza è stata spesso utilizzata come sinonimo di diversità (Rutten e Gelissen 2008).

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In seguito ulteriori studi (Landry 2006) hanno dimostrato come la diversità culturale sia un importante elemento rafforzativo urbano e che da sempre le città più sviluppate sono state e sono ad oggi quelle capaci di assorbire le diversità dei cittadini, incorporandole nel proprio tessuto: basti pensare a Costantinopoli, Hangzhou e Firenze nei secoli passati (ivi) o a Londra e New York ora. Permettere lo sviluppo e l’aggregazione di idee e pensieri diventa sempre meno una questione di correttezza politica e sempre più una necessità concreta (Florida 2005a). 3.4 – Le relazioni tra le 3T del modello Florida ha infine posto l’accento sull’integrazione presente tra le tre dimensioni, sostenendo che i membri della classe creativa si insediano in posti che le posseggono tutte e tre adeguatamente (Florida 2005b). Queste, prese nella loro singolarità, rappresentano ciascuna una condizione necessaria ma non sufficiente per attrarre e trattenere i talenti creativi nelle aree geografiche (Florida 2002b). E’ questo il motivo per cui città americane come Baltimora, St. Louis e Pittsbourgh non riescono ad essere attrattive nonostante le grandi potenzialità tecnologiche in loro possesso e le università prestigiose che hanno sede in zona. Ma la necessaria integrazione tra le tre dimensioni permette anche di comprendere come mai città globali come Miami o New Orleans non riescano a diventare creative, nonostante siano riconosciute nel mondo per essere centri di tendenza e lifestyle (ivi). Per concludere, grazie alla stretta relazione tra talento, tecnologia e tolleranza si crea un circolo virtuoso: i talenti creativi sono attratti da posti tolleranti e aperti alla diversità, che offrono un’adeguata qualità della vita e sono stati scelti per questi motivi da altri talenti creativi. I posti più attrattivi generano un bacino di potenziali lavoratori di valore richiamando anche le imprese, le quali promuovono lo sviluppo tecnologico; questo crea un importante ciclo per l’evoluzione economica (Florida 2005b).

4 – Il Modello delle 3T applicato in azienda In questo paragrafo si sostiene come lo stesso modello possa offrire spunti importanti e adeguati anche se utilizzato all’interno delle imprese, ispirando le politiche di gestione delle risorse umane aziendali, in particolare quelle talentuose, per due ragioni principali e strettamente collegate tra loro. Per prima cosa il modello è rilevante perché identifica chi sono i talenti di importanza strategica nel nuovo contesto economico, definendo le caratteristiche da valutare nei potenziali lavoratori in sede di selezione e diventando inoltre un utile strumento per individuare e mappare i talenti creativi già presenti in azienda. Viene fatta così luce sui numerosi studi economico-organizzativi prodotti nel tempo in relazione al concetto di ‘talento’: secondo il ricercatore americano la condizione di talento può essere infatti raggiunta da qualunque soggetto che riesca ad integrare la formazione ricevuta con la capacità creativa, diventando un talento creativo. Pur rimanendo sempre vero che il talento è dotato in primis di una buona educazione che gli permette di avere specifiche competenze e di attivare particolari comportamenti (Cheese et al. 2008), esso possiede anche un adeguato livello di capitale creativo, il quale va a influire sulla capacità di generare idee e conoscenza con efficacia e sistematicità (Florida 2002).

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La seconda ragione che motiva l’importanza del Modello delle 3T applicato in azienda è che esso individua il talento, la tecnologia e la tolleranza come dimensioni fondamentali non solo per l’attrazione, la ritenzione e la gestione dei talenti creativi nell’impresa ma anche per la trasformazione del lavoratore medio in un talento creativo, mediante un processo di arricchimento dello stock di capitale creativo ed all’estrazione del valore nascosto in suo possesso. E’ grazie a queste tre dimensioni che creatività ed innovazione sono stimolate anche in ambito aziendale. Le aziende possono così limitare la mobilità orizzontale dei lavoratori (Florida 2002) diventando employer of choice (Ahlrichs 2000) dei talenti creativi. Il Modello delle 3T indica come impostare alcuni processi di gestione delle risorse umane attraverso cui le aziende possono diventare talent powered organizations (Cheese et al. 2008). L’obiettivo diventa quello di comprendere come lo stesso modello e ciascuna delle dimensioni che lo compongono possano fornire un contributo alla gestione aziendale delle risorse umane, interpretando gli studi fatti da una parte sulle modalità di attrazione, dall'altra su quelle di gestione e ritenzione dei lavoratori, nel tentativo di stimolare e implementare lo stock di creatività in loro possesso. 4.1– Il talento per la gestione delle risorse umane Nel Modello delle 3T il talento creativo è un individuo in possesso sia di capitale umano che di capitale creativo. Inoltre esso è difficile da attrarre e trattenere a causa della sua predisposizione verso l’individualismo e la diversità di esperienze. Così come nel 3T model la presenza di creativi talentuosi costituisce una leva efficace per attrarne altri in una stessa area geografica, un’impresa in cui lavorano molti creativi e che riesce a comunicare questa sua specificità al mercato del lavoro risulterà sicuramente più attrattiva nei confronti di altri lavoratori ad alto tasso di creatività. Viene così attivato un circolo virtuoso grazie a cui ‘talento attrae talento’: essi certificano infatti l’esistenza nell’impresa di una cultura della retention meno soggetta a norme e gerarchie tradizionali e più orientata alla creatività, alla prestazione, all’innovazione ed al cambiamento (AA.VV. 2006). Ma se chiunque può potenzialmente diventare un talento creativo, esso non va solo attratto dall'esterno. L’impresa dei talenti deve anche riuscire a stimolare ed arricchire il capitale creativo di tutti i lavoratori interni tramite il loro coinvolgimento nei processi aziendali (Ceccon 2009) e l’attivazione di pratiche e strumenti ad hoc che facilitino la loro partecipazione attiva nel business (Lucarelli 2010). Diventa fondamentale riconoscere l’importanza del potenziale di idee e conoscenza che il singolo può apportare (Giubitta e Gianecchini 2009). All’interno dei modelli di talent management tradizionali l’economia creativa rende quindi necessaria l’attivazione di sistemi specifici di managament delle idee (Getz e Robinson 2003). L’impresa diventa un sistema creativo, un ambiente dinamico e stimolante, nella convinzione che la gestione delle idee riguardi l’azienda nel complesso e debba diventare un fatto ordinario (Lucarelli 2010). I contesti organizzativi “in cui enigmatici ‘sciamani creativi’ producono, in modo imperscrutabile, idee originali” (ivi, p.4) sono ormai obsoleti.

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4.2 – La tecnologia per la gestione delle risorse umane

La tecnologia è un altro importante fattore incluso nel Modello delle 3T di Florida: in particolare il ricercatore sostiene che i creativi cercano luoghi che offrono infrastrutture e tecnologie adeguate per facilitare e supportare lo svolgimento delle proprie attività lavorative ed extra-lavorative. L’applicazione del Modello delle 3T in ambito aziendale sottolinea in primis la maggiore probabilità che le imprese operative in settori high-tech hanno di vincere la competizione globale del talento creativo. La necessità di creare ed innovare in maniera pianificata e continuativa è strategica soprattutto per tali realtà, che risulteranno così arene creative molto stimolanti ed attraenti per gli stessi creativi. Secondariamente, l’adattamento del 3T model in azienda attesta la capacità delle imprese che presentano sistemi e strutture tecnologiche a supporto delle attività e della creatività del singolo soggetto di attrarre e trattenere i talenti creativi per lunghi periodi. La creatività per l’innovazione d’impresa è infatti sempre più vista non come il risultato di specifiche capacità personali, ma soprattutto come una competenza ottenibile tramite l’inter-scambio di idee e pareri, attraverso il meccanismo secondo cui le idee e la conoscenza sono stimolate lavorando con altri soggetti (Schultze 2000) detentori di background e specializzazioni differenti (Argote e Ophir 2002). I talenti creativi preferiscono aziende che hanno attivato supporti interni alla creatività appartenenti soprattutto alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Gorgoglione e Garavelli 2006) che permettano sia la produzione di conoscenza, di informazioni e di pratiche ex novo sia il loro scambio tra soggetti creativi diversi. A livello applicativo, l’utilità di tecnologie aziendali che sappiano rispondere alle necessità elencate si riscontra soprattutto: • durante la fase di formazione e aggiornamento del dipendente. In questo caso le

tecnologie adeguate sono progettate a partire da piattaforme e-learning pensate e utilizzate come strumento di erogazione e di interscambio di conoscenza sia tra formatore e fruitore della formazione che tra fruitori della stessa;

• durante l’attività lavorativa quotidiana. Anche nello svolgimento del lavoro day by day i lavoratori necessitano di strumenti specifici come gli IT-Based Creativity Support Systems (Gorgoglione e Garavelli 2006), sistemi a supporto della fase di incubazione dell’idea. Questi funzionerebbero “come un individuo aggiuntivo che propone nuove informazioni al gruppo in un processo iterativo fin quando emerge un’idea creativa” (ivi, p.15). Altre aziende hanno invece introdotto strumenti per creare connessioni e conoscenza tra lavoratori come i tool di Framework for Networked Creativity (Brennan e Dooley 2005).

Ultimamente stanno acquisendo importanza gli strumenti web 2.0 con funzionalità trasversali, da poter utilizzare sia durante il processo di formazione che nelle diverse fasi lavorative. Essi aiutano e sostengono il singolo lavoratore in azienda (Sage e Rouse 1999), favorendo in ultima analisi anche la costituzione di imprese virtuali (ivi). Per via dunque dell’applicazione del 3T model anche la strategicità in ambito aziendale della tecnologia si trasforma abbattendo le gerarchie ed i confini organizzativi, verso strutture economiche maggiormente ‘fluide’.

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4.3 – La tolleranza per la gestione delle risorse umane Nel Modello delle 3T Florida parla di tolleranza e diversità come termini sinonimi, intendendo l’apertura di un’area geografica alla diversità nelle sue differenti accezioni. I creativi prediligono posti eterogenei e in cui sia possibile fare esperienze variegate e conoscere persone di culture e tradizioni differenti. Applicando il modello di Florida in azienda è possibile sostenere come favorire l’integrazione tra lavoratori sia diventato anche un vero fattore di attraction e retention dei talenti creativi nelle imprese, oltre che un importante leva morale ed etica (European Commission 2007). Questa apertura mostrata dalle aziende testimonia infatti la presenza di un ambiente altamente creativo e innovativo (Bassett-Jones 2005), grazie all’incontro di persone differenti che apportano il proprio background per lo svolgimento delle attività economiche proteggendo le propria unicità. Le imprese che si impegnano nell’attivazione di programmi di gestione e valorizzazione della diversità si propongono così come un ambiente ideale per i talenti creativi. Quanto scritto è stato dimostrato da uno studio della Commissione Europea (European Commission 2003) che ha rilevato come tra i benefici ottenuti da quelle istituzioni che hanno sviluppato politiche di diversity management ci sia proprio anche l’aumento dell’innovazione e della creatività dei dipendenti e la capacità di attrarre e trattenere individui di talento. E’ necessario comunque sottolineare come non sempre la possibilità di lavorare insieme a persone differenti sia un fattore positivo per il lavoratore e per l’impresa. Diversi studi (es. Knight et al. 1999) hanno sostenuto come ambienti eccessivamente eterogenei rischiano di affrontare conflitti, turnover aziendali più elevati, minore integrazione e problemi di comunicazione. Per stimolare la creatività occorre allora considerare sia le competenze funzionali sia le rispettive inclinazioni dei lavoratori e la loro capacità di integrazione con altri individui. 4.4 – L’integrazione tra le leve per la gestione delle risorse umane Nel presentare il Modello delle 3T si è posto l’accento più volte sulla sua natura sistemica, considerando l’importanza delle relazioni tra le tre dimensioni che lo compongono. Questo aspetto rimane valido anche nell’applicazione del modello in ambito aziendale: un’impresa attenta ad una dimensione e che tralascia le altre risulterebbe in effetti molto meno capace di attrarre e trattenere i talenti creativi al suo interno, e ciò limiterebbe seriamente la creatività e l’innovazione aziendale. Per esempio un’impresa che focalizza i propri sforzi solo sull’attrazione del talento creativo senza costituire un ambiente eterogeneo e non adottando strumenti tecnologici a supporto della sua attività, non riuscirebbe a trattenerlo una volta assunto perché non gli garantirebbe quelle dimensioni ritenute di primaria importanza. Ma anche se l’impresa ci riuscisse esso non avrebbe prestazioni coerenti con le attese, generando costi aziendali piuttosto che valore. Allo stesso modo un’azienda altamente tecnologica e nella quale sono attivi sistemi a supporto della creatività del lavoratore e delle sue attività ma in cui non vengono curate le altre leve, è probabile che rilevi delle inefficienze. Concentrandosi infatti solo su questa dimensione, l’impresa non avrebbe al proprio interno le risorse umane eterogenee e talentuose per le quali progettare e implementare tali sistemi.

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Un’impresa che decide di concentrarsi solo sulla tolleranza e sulla valorizzazione della diversità rischia invece di dover gestire lavoratori mediocri, le cui integrazioni non apportano valore aggiunto al business aziendale a causa della mancanza di talento creativo. Inoltre l’assenza di tecnologie adeguate limita i benefici potenziali conseguibili grazie alle pratiche di diversity management. In conclusione, i vantaggi ottenibili adottando ed attivando tutte le leve del Modello delle 3T sono maggiori della somma di quelli raggiungibili con le singole dimensioni. Questo si dimostra in linea con gli studi che sostengono come un sistema di gestione delle risorse umane che favorisca l’innovazione aziendale debba essere composto da pratiche integrate, coerenti e complementari (Laursen e Foss 2003).

5 – Conclusioni In questo capitolo sono stati presentati i temi dell’importanza della creatività e dell’innovazione per le aziende e per la competitività d’impresa. Si è anche affermato come queste due leve siano sempre più incrementabili grazie allo stock di capitale creativo in possesso dei talenti in azienda. E’ stato poi riportato il Modello delle 3T di Florida proponendo una sua applicazione in ambito aziendale. In particolare, sono state valutate le due ragioni principali per cui questo modello può costituire un valore aggiunto alla gestione delle risorse umane nelle imprese, vale a dire la chiarezza che esso riesce a fare sia intorno al concetto di talento sia in relazione alle modalità di attrarlo all’interno e alimentare la creatività organizzativa. L’obiettivo era quello di comprendere se e come sviluppare alcune idee di applicazione del modello in azienda che vengono solo accennate negli studi di Florida e di altri ricercatori, nel tentativo di costruire un sistema adeguato alle sfide poste dall'economia creativa contemporanea che contenga, unifichi e ordini gli studi di HRM più significativi in relazione allo sviluppo della tecnologia, di politiche e pratiche di talent e diversity managament. Il lavoro tralascia l’analisi quantitativa riguardo al calcolo ed all’eventuale revisione degli specifici indicatori che definiscono ciascuna delle tre T. Inoltre, le analisi formulate non tengono conto della peculiarità delle aziende operative nelle singole nazioni, ma affrontano i temi da un punto di vista generale. Tenuto conto dei limiti e degli sviluppi del tema, la speranza è che sia stato raggiunto l’obiettivo di sviluppare un argomento il più possibile nuovo e aggiornato, nel tentativo di porre basi adeguate per eventuali elaborazioni future.

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L’Organizzazione che apprende – i modelli teorici e la “cassetta degli attrezzi” per l’innovazione di Alessandro Paparelli EDITOR – TICONZERO.INFO REGIONAL HUMAN RESOURCES DIRECTOR, ASIA PACIFIC – SALVATORE FERRAGAMO

L’apprendimento organizzativo e’ un processo complesso e affascinante che, se correttamente innescato e mantenuto, può portare davvero a “cambiare marcia” nella capacità di innovare di un’organizzazione. In questo capitolo viene presentata una possibile “cassetta degli attrezzi” di fattori organizzativi e soluzioni a disposizione dell’innovazione in azienda.

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Dai tempi del fordismo, quando si tentò di individuare un “metodo universale” (o “one best way”, come viene comunemente indicato in letteratura) che potesse determinare un modello competitivo universale che incorporasse tutte le possibili conoscenze accumulate, molti elementi hanno portato tutti gli attori economici a ridefinire il ruolo dell’apprendimento e della conoscenza come fattore competitivo per le organizzazioni. Il ritmo al quale l’organizzazione è in grado di apprendere, il livello di coinvolgimento dei suoi membri nel processo di apprendimento, la capacità di trasferire l’apprendimento in conoscenza, la possibilità di ottenere vantaggi dalla conoscenza che viene creata, l’intensità e la facilità dello scambio di conoscenza, le connessioni con altri attori in processi inter-organizzativi e simili argomenti sono diventati di assoluto interesse nella determinazione della competitività e nella capacità di innovazione delle aziende. Un punto di vista comune, e ormai sufficientemente consolidato, nelle teorie che affrontano l’innovazione organizzativa, e’ quello di considerare l’innovazione come un processo di apprendimento, basato su una data forma di tecnologia, ovvero come un processo di acquisizione di informazioni, e, in quanto processo di apprendimento, intrinsecamente cumulativo.

1- Varietà dei processi di apprendimento e fonti di conoscenza Il progresso tecnologico e l’innovazione coinvolgono solitamente una varietà di processi di apprendimento. Fonti interne: • ricerca e sviluppo formale svolta internamente; • progettazione e reperimento degli strumenti; • learning-by-doing e learning-by-using; • il marketing, così come le risorse umane interne e la formazione sono

fondamentali fonti di conoscenza. Fonti esterne: • ricerca e sviluppo esterna condotta congiuntamente o a contratto da fornitori

specializzati di servizi di R&S; • acquisizione di licenze e acquisto di brevetti e altri diritti di proprietà industriale; • sfruttamento di letteratura scientifica e tecnica, compresi brevetti e

partecipazioni a conferenze e workshop; • risorse Internet sia specializzate che generiche; • acquisizione di macchinari e attrezzature collegate a innovazioni di prodotto e di

processo; • conoscenze acquisite attraverso l’interazione con fornitori di macchinari,

materiali, componenti o software; • imitazione dei concorrenti, comprese attività di reverse engineering; • conoscenze acquisite dai clienti, attraverso una migliore comprensione dei

fabbisogni degli utilizzatori; • servizi forniti da consulenti; • partecipazione a fiere ed eventi. La rilevanza relativa di tali fonti di conoscenza dipende in gran parte dall’azienda e dalla tecnologia. Le piccole aziende sono maggiormente dipendenti dalle fonti esterne rispetto alle grandi aziende, poiché il costo di ricerca tra le varie fonti di innovazione è alto.

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Come conseguenza, il rischio di fallimento è anch’esso alto rispetto alle grandi aziende. Questo spesso produce una caduta nel tasso di innovazione.

2- Innovazione e apprendimento come processo interattivo Queste diverse fonti sono complementari piuttosto che alternative: in generale, le aziende utilizzano simultaneamente un gran numero dei canali citati. Le fonti esterne di conoscenza non possono sostituire le scelte strategiche e gli skill manageriali all’interno dell’azienda. Inoltre, si osserva una forte interdipendenza intersettoriale in termini di generazione e utilizzo di innovazioni tecnologiche e l’efficacia delle varie fonti di innovazione viene moltiplicata quando le aziende operano in contesti ad alta intensità di conoscenza (in termini di prossimità geografica, tecnologica o settoriale). Apprendimento e innovazione costituiscono intrinsecamente un processo collettivo e interattivo che implica il coinvolgimento di agenti, skill tecnici, frammenti di conoscenza, competenze e capacità eterogenei. Tra questi elementi si innescano meccanismi di contatto, interazione, integrazione e un complesso sistema di feedback. L’innovazione ha quindi una natura fondamentalmente sistemica, organizzativa e spesso spaziale e comporta, in varie forme e gradi, collaborazione e cooperazione tra una moltitudine di attori diversi: si passa dunque dal modello lineare al modello concatenato. L’identificazione e la gestione delle complementarietà – e la capacità di riconfigurarle – sono elementi centrali nei processi di innovazione. Ciò è ancor più importante quando si riconosce che la produzione richiede sempre più l’accesso a diverse basi di conoscenza e l’integrazione delle stesse. Inoltre, tale conoscenza progredisce spesso a ritmi molto elevati e le innovazioni scaturiscono da ogni angolo del sistema. A sua volta, la “complessità” della conoscenza schiude opportunità per il progresso attraverso l’adozione di nuove tecnologie e lo sfruttamento delle complementarietà tra nuove e vecchie tecnologie e prodotti. In alcuni casi, l’apprendimento ha natura distribuita: piuttosto che essere l’output di un “piano” ben specificato e pre-organizzato, esso emerge dalle interazioni di agenti debolmente connessi e dall’accumulazione di miglioramenti minori, che portano a risultati inaspettati.

3- Dall’apprendimento individuale a quello organizzativo Meccanismi e potenziale d’apprendimento negli individui sono stati studiati da diverse discipline e possono beneficiare di una tradizione significativa e di una conoscenza consolidata, anche se varia e non sempre convergente. Nel momento in cui le organizzazioni hanno recentemente realizzato che la loro competitività è sempre più determinata da caratteristiche che sono in qualche misura connesse con le capacità di apprendimento dei loro membri, è emerso come critico il tema di come trasferire l’apprendimento individuale al livello dell’organizzazione.

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Molti contributi sono stati elaborati per chiarire questo collegamento. Alcuni di essi si sono focalizzati sull’aspetto sociale dell’apprendimento, dove l’apprendimento sociale è definito come il processo attraverso il quale l’individuo, in base a stimoli sociali e interni collegati all’ambiente sociale, acquisisce informazioni dal contesto sociale e le elabora per produrre comportamenti sociali. La connessione tra apprendimento individuale e apprendimento sociale, fondamentale per capire come poter inquadrare (e quindi gestire e supportare) l’apprendimento a livello organizzativo, può essere basata sul concetto di comunicazione, la quale in tutte le sue forme influenza il comportamento (Watzlawick, 1971), che a sua volta è sempre determinato da un processo di apprendimento. Gli individui si connettono quindi gli uni agli altri attraverso la comunicazione e grazie a questo mezzo trasferiscono il proprio apprendimento a livello sociale, “apprendendo comportamenti” e permettendo agli altri di fare altrettanto. Nondimeno, il trasferimento all’organizzazione dell’apprendimento individuale è messa in dubbio da alcuni punti di vista che sono invece scettici a questo riguardo e che sottolineano la difficoltà di applicare una funzione tipicamente umana a un’entità non umana. Una possibile risposta a queste opinioni è data dalla natura “politica” delle organizzazioni: l’apprendimento individuale contribuisce all’apprendimento organizzativo nella misura in cui gli individui apprendono nell’interesse dell’organizzazione, che essi riconoscono quale entità politica nei confronti della quale sono impegnati. Altri punti di vista hanno evidenziato il rischio che l’apprendimento organizzativo possa tradursi sostanzialmente in una modalità di rinforzare lo status quo o in uno strumento semplicemente più subdolo per controllare le persone.

4 - L’organizzazione che apprende Le critiche appena esposte devono essere prese in considerazione per meglio comprendere il processo ed evitare rilevanti rischi di un utilizzo distorto dei meccanismi di apprendimento organizzativo. Tuttavia ci sono pochi dubbi sulla rilevanza dell’apprendimento organizzativo sia per la competitività in generale che per l’innovazione in particolare. In seguito alla rivoluzione industriale, l’apprendimento era inteso come learning by doing, ovvero come processo attraverso il quale acquisire esperienza su attività meccaniche e tecniche, sempre connesse alla strumentazione che veniva utilizzata per tali attività. Tutti i moderni approcci e le conoscenze sviluppate relativamente ai processi di apprendimento derivano invece dalla sopraggiunta possibilità di separare la conoscenza dal capitale fisico, a partire dal modello di Lewin Quest ultimo, nato come modello per il cambiamento e utilizzato in seguito anche come modello per l’apprendimento, prevede tre fasi: scongelamento (unfreezing) dei sistemi esistenti, introduzione (introduction) di nuovi valori e comportamenti e ricongelamento (refreezing). Lo scongelamento dovrebbe aver luogo in seguito alla presa d’atto di incongruenze involontarie causate da determinate azioni. Tali circostanze dovrebbero essere naturalmente sgradite alle persone, e indurle alla ricerca di nuovi e più soddisfacenti elementi da introdurre nel sistema. In termini generali si può affermare che un’organizzazione apprende quando acquisisce informazioni di qualsiasi tipo e con qualunque mezzo, da cui deriva che tutte le organizzazioni apprendono, nel bene o nel male, ogni volta che

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incrementano il loro magazzino di informazioni, conoscenze, know-how, tecniche o pratiche. Lo schema generale dell’apprendimento organizzativo comprende un prodotto dell’apprendimento, cioè un contenuto informativo, un processo di apprendimento, che consiste nell’acquisizione, elaborazione e immagazzinamento dell’informazione, e un soggetto di apprendimento, a cui si attribuisce il processo di apprendimento. L’apprendimento può essere attribuito a un agente interno o esterno all’organizzazione o perfino alle stesse informazioni. Si può anche parlare di un particolare tipo di apprendimento che consiste nel disapprendimento, cioè l’acquisizione di informazioni che conducono a rimuovere qualcosa dal bagaglio di conoscenze di un’organizzazione. All’interno di questo schema un’importante tipologia di apprendimento è il progressivo miglioramento della prestazione in relazione a un dato compito da parte di un’organizzazione: si tratta di un apprendimento strumentale (implicito nelle curve di apprendimento formulate dagli economisti) che può essere positivo o negativo a seconda dei valori che definiscono il concetto di miglioramento. I termini “apprendimento organizzativo” e “capacità organizzativa di apprendimento” riportano alla questione se le organizzazioni possano compiere un’attività definita come apprendimento o se invece possano apprendere solo tramite l’attività mentale dei loro singoli membri. Innanzitutto un’organizzazione può apprendere tramite l’apprendimento individuale dei suoi membri, anche se non è necessario che tutti i suoi membri apprendano. Oppure può apprendere reclutando nuovi membri che possiedono conoscenze che l’organizzazione non ha. D’altra parte ci sono casi in cui i singoli membri apprendono qualcosa che l’organizzazione a cui appartengono non ha appreso. L’apprendimento individuale è dunque una condizione necessaria ma non sufficiente all’apprendimento organizzativo: perché questo esista è indispensabile che ciò che viene appreso individualmente sia diffuso e generalizzato nelle mappe cognitive e nei comportamenti dell’organizzazione e abbia conseguenze sull’organizzazione stessa. E’ anche vero però che in un’organizzazione il singolo individuo non apprende quasi mai individualmente: l’apprendimento individuale avviene infatti solitamente all’interno di una struttura di ruoli e compiti, di interazioni e comunicazioni, di rapporti interpersonali e di potere che imprimono il loro ordine e il loro carattere sulla natura e i contenuti dell’apprendimento individuale. Per questo motivo l’apprendimento individuale nelle organizzazione è nella sua essenza già un fenomeno organizzativo. E’ possibile che i membri di un’organizzazione sappiano fare qualcosa collettivamente, di cui nessuno singolarmente è capace. L’apprendimento in questo caso non è tanto la risultante dell’apprendimento dei singoli individui, ma degli effetti d’interazione e di coordinamento tra essi. Di questo apprendimento e dei comportamenti da esso generati può però mancare una documentazione esplicita; inoltre gli individui possono scoprire di aver appreso nuovi modelli e comportamenti solo dopo averli di fatto attivati: non è quindi detto che l’apprendimento sia del tutto cosciente e intenzionale. Quando parliamo di apprendimento organizzativo è importante distinguere tra processo e prodotto. Se generalmente siamo portati a dare all’apprendimento una connotazione positiva, esso è d’altro canto di per sé un processo del tutto neutro, i cui prodotti o risultati possono essere giudicati buoni o cattivi, positivi o negativi, in base a qualche valore o criterio di valutazione.

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Nei paragrafi seguenti vengono approfonditi i contributi di Argyris e Schon e di Peter Senge, che hanno avuto entrambi un ruolo fondamentale nella costruzione del quadro concettuale dell’apprendimento organizzativo. 4.1 Il contributo di Argyrys e Schon Nell’ambito dei suoi studi, Argyris (1992) sottolinea un aspetto che è strettamente connesso con i processi di apprendimento: Egli afferma che l’apprendimento avviene alla presenza di due condizioni. Secondo la prima condizione, l’apprendimento ha luogo quando un’organizzazione raggiunge un risultato prefissato, ovvero quando c’è un match tra l’azione progettata e l’effettivo risultato. Secondo la seconda condizione, l’apprendimento ha luogo quando viene identificato e successivamente corretto un mismatch tra intenzioni e risultati, ovvero quando un mismatch viene trasformato in un match. Il ruolo dato da Argyris ai mismatch sta alla base dell’importanza degli errori per i processi di apprendimento. Nelle tesi elaborate con Schon sulla base di questi concetti, Argyris distingue tra due tipi di apprendimento organizzativo in base alla reazione agli errori. Quando la correzione avviene senza mettere in discussione o alterare i valori sottostanti al sistema siamo in presenza di un single-loop learning, mentre quando questo avviene siamo in presenza di un double-loop learning. Entrambi i tipi di apprendimento sono necessari e trovano applicazione nelle organizzazioni: il primo è adatto a task ripetitivi e routinari, mentre il secondo è adatto a task complessi e non programmabili. Per cogliere però appieno il significato di tali dinamiche è necessario fare un passo indietro per analizzare la teoria dell’azione che ne sta alla base. 4.1.1 La teoria dell’azione Quando i membri apprendono nell’interesse dell’organizzazione di cui sono parte, la conoscenza che ne deriva può essere variamente rappresentata nella forma di sistemi di credenze sottostanti l’azione, di prototipi da cui sono derivate le azioni o di prescrizioni procedurali per l’azione. Argyris e Schon rappresentano tale conoscenza tramite ciò che chiamano teorie dell’azione, che hanno il pregio di includere le strategie d’azione, i valori che ne governano la scelta e gli assunti su cui si formano. Una teoria dell’azione si definisce in base a una situazione particolare S, a una particolare conseguenza intesa in quella situazione C e a una strategia d’azione A finalizzata ad ottenere la conseguenza C nella situazione S. Per cui la forma generale di una teoria dell’azione è: se hai intenzione di produrre la conseguenza C nella situazione S, allora metti in atto A. La teoria dell’azione può assumere due forme diverse: con l’espressione teoria dichiarata si intende la teoria dell’azione proposta per spiegare o giustificare un dato schema di attività; con l’espressione teoria-in-uso s’intende la teoria dell’azione implicita nell’attuazione dello schema stesso. Nel caso delle organizzazioni, la teoria-in-uso va costruita in base all’osservazione degli schemi di comportamento interattivo generati dai singoli membri dell’organizzazione. E’ possibile che le teorie-in-uso organizzative non siano esplicite ma tacite e che le teorie-in-uso tacite non corrispondano alla teoria dichiarata dell’organizzazione; essa può rimanere tacita o perché non è descrivibile o perché non è discutibile.

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La teoria-in-uso può essere indescrivibile perché i membri dell’organizzazione che la mettono in atto sanno più di quanto siano in grado di verbalizzare, mentre può essere sottratta alla discussione perché ogni tentativo di rivelarne l’incongruenza con la teoria dichiarata sarebbe percepito come minaccioso o imbarazzante. Si può descrivere la teoria-in-uso di un’organizzazione da una prospettiva interna o esterna: da un punto di vista esterno si osserva come il sistema dei compiti dell’organizzazione sia messo in atto dal comportamento governato da regole dei suoi membri, dal punto di vista interno invece si ha qualche accesso al know-how che genera e controlla le pratiche adeguate al sistema di compiti dell’organizzazione. Questo know-how può assumere la forma di una conoscenza procedurale o della percezione spontanea della cosa giusta da fare in quel momento, tali rappresentazioni sono per l’appunto la teoria-in-uso dell’organizzazione vista dall’interno. Ogni membro di un’organizzazione costruisce la propria rappresentazione della teoria-in-uso della totalità, ma la sua immagine è sempre incompleta, per cui vi è un continuo intrecciarsi delle immagini che gli individui hanno della propria attività nel contesto dell’interazione collettiva. Un’organizzazione è simile a un organismo: ognuna delle sue cellule contiene un’immagine particolare, parziale e cangiante in rapporto al tutto, e al pari di un organismo, la prassi di un’organizzazione scaturisce da queste stesse immagini; la sua teoria-in-uso si fonda sui modi in cui i suoi membri se la rappresentano. La continuità organizzativa non esisterebbe se si fondasse unicamente su una molteplicità di atti immaginativi, paralleli e privati. I membri di un’organizzazione non possono basarsi solo sull’interazione faccia a faccia per confrontare e modificare le proprie immagini individuali della teoria-in-uso organizzativa, essi hanno bisogno di riferimenti esterni a guida delle loro revisioni private. Tale funzione di riferimento è assolta dalle mappe, dalle memorie e dai programmi organizzativi. Esempi di mappe sono i diagrammi di flusso lavorativo, gli organigrammi e i disegni o le fotografie del luogo di lavoro; le memorie organizzative invece comprendono gli archivi, i documenti e i database; i programmi infine sono descrizioni procedurali delle routine organizzative come i piani di lavoro, le politiche e i protocolli. Artefatti di questo tipo descrivono gli schemi di attività presenti e fungono da guida per l’attività futura. L’apprendimento organizzativo si verifica quando gli individui all’interno di un’organizzazione sperimentano una situazione problematica e, nell’interesse dell’organizzazione, la indagano. Essi reagiscono alla sorpresa della mancata corrispondenza tra i risultati attesi e i risultati effettivi dell’azione, tramite un processo di pensiero e nuovi corsi di azione che conducono a modificare le immagini dell’organizzazione o il modo di intendere i fenomeni organizzativi, e a ristrutturare le attività così da allineare risultati e aspettative, modificando, in questo modo, la teoria-in-uso organizzativa. Perché l’apprendimento derivante dall’indagine organizzativa divenga organizzativo, esso deve radicarsi nelle immagini dell’organizzazione conservate nelle menti dei suoi membri e/o negli artefatti cognitivi (le mappe, le memorie e i programmi) radicati nell’ambiente organizzativo. I prodotti dell’apprendimento dell’indagine organizzativa possono assumere varie forme, che per poter essere definite apprendimento devono dimostrare un avvenuto cambiamento della teoria-in-uso organizzativa. I prodotti dell’apprendimento organizzativo quindi sono tali quando sono accompagnati da modificazioni del

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comportamento che esprimono mutamenti della teoria-in-uso organizzativa e quando sono incorporati nelle immagini individuali che immagazzinano la conoscenza organizzativa. Le organizzazioni e i suoi membri apprendono continuamente, tuttavia apprendere non è facile, al contrario può essere faticoso, doloroso e a volte addirittura impossibile. Anche l’apprendimento ha i suoi limiti, ossia casi in cui si è verificato in modo incompleto. Di questo aspetto è utile considerare alcuni esempi che aiutano a identificare come l’apprendimento organizzativo svolga (o non svolga) la sua funzione in relazione ai processi di innovazione. Vi sono situazioni in cui i membri di un’organizzazione non trasformano le nuove intuizioni in azione, ma vi sono anche casi in cui l’indagine degli individui sfocia sia in nuove intuizioni che in azione, ma senza produrre alcun cambiamento della teoria-in-uso organizzativa. Vi sono casi poi in cui l’indagine organizzativa dà luogo a una temporanea modificazione della teoria-in-uso organizzativa: le nuove modalità di comprensione associate a tale cambiamento però esistono soltanto nelle menti di alcuni soggetti e l’organizzazione le perde quando questi se ne vanno. Infine non tutte le modificazioni della teoria-in-uso organizzativa possono essere definite apprendimento. L’apprendimento strumentale può essere inoltre, come ricordavamo sopra, non solo positivo ma anche negativo:

• i fini dell’azione possono essere di per sé giudicati negativamente; • il valore attribuito a un caso particolare di apprendimento può variare a

seconda del modo in cui se ne giudica la validità; • nelle prime fasi di un apprendimento valido e attuabile è possibile che esso

conduca a effetti che nel complesso sono negativi; • i membri dell’organizzazione possono imparare collettivamente a conservare

schemi di pensiero e d’azione che inibiscono l’apprendimento organizzativo. Quando si vuole comprendere o favorire l’apprendimento organizzativo, bisogna considerare la varietà dei modi in cui ogni suo caso particolare può dimostrarsi non valido, improduttivo o addirittura negativo. Per questo motivo è importante distinguere tre tipi di apprendimento organizzativo:

1 l’indagine organizzativa, cioè l’apprendimento strumentale che conduce al miglioramento dell’esecuzione dei compiti organizzativi;

2 l’indagine con cui un’organizzazione esplora e ristruttura i valori e i criteri con cui definisce ciò che intende per miglioramento della prestazione;

3 l’indagine con cui un’organizzazione cresce la sua capacità di apprendimento del tipo 1 e 2.

4.1.2 Apprendimento single-loop e double-loop Come sopra accennato, Argyris e Schon distinguono tra due diversi modelli o cicli di apprendimento: l’apprendimento single-loop (a circuito singolo) e l’apprendimento double-loop (a circuito doppio). Con il termine di apprendimento single-loop si intende un apprendimento strumentale che modifica le strategie d’azione o gli assunti ad esse sottostanti, in modo da lasciare immodificati i valori di una teoria dell’azione. In questi casi di apprendimento un unico circuito di retroazione, mediato dall’indagine organizzativa, collega l’eventuale errore rilevato alle strategie d’azione dell’organizzazione e gli

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assunti ad esse sottostanti. Queste strategie o assunti vengono modificati in modo che la prestazione organizzativa si mantenga all’interno della gamma fissata dai valori e dalle norme organizzative esistenti: i valori e le norme stesse rimangono immutate. Per apprendimento double-loop invece si intende l’apprendimento che comporta un mutamento, oltre che delle strategie e degli assunti, anche dei valori della teoria-in-uso. I due loop sono i due circuiti di retroazione che collegano gli effetti dell’azione osservati alle strategie e ai valori di cui le strategie sono al servizio; le strategie e gli assunti possono mutare sia insieme che in seguito al mutamento dei valori. L’apprendimento a circuito singolo è sufficiente quando la correzione dell’errore può avvenire modificando le strategie e gli assunti organizzativi entro un quadro costante di valori e norme di prestazione; tale apprendimento è strumentale e volto soprattutto all’efficacia. In alcuni casi però la correzione dell’errore richiede l’indagine che modifica i valori e le norme organizzative, cioè ciò che intendiamo per apprendimento double-loop. In ogni caso particolare di apprendimento double-loop è possibile che i mutamenti dei valori e delle norme non siano desiderabili: la loro desiderabilità è determinabile solo con una critica, legata in modo specifico alla situazione, ai mutamenti e all’indagine che li ha determinati. Comunque è solo grazie a questo tipo di apprendimento se gli individui e le organizzazioni possono rivolgere l’attenzione alla desiderabilità dei valori e delle norme che governano le loro teorie-in-uso. La differenza tra apprendimento single-loop e apprendimento double-loop è legata a diversi fattori. Prima di tutto la distinzione è complicata dalle dimensioni e dalla complessità dell’organizzazione. Le teorie-in-uso organizzative sono composte da molte parti interconnesse, alcune di queste parti sono locali e periferiche, altre sono elementi nucleari essenziali alla struttura nel suo complesso. L’importanza dell’apprendimento organizzativo a doppio circuito varia per l’intera organizzazione in base al grado di coinvolgimento dei valori e delle norme fondamentali. Inoltre le grandi organizzazioni hanno un carattere stratificato, esse sono descrivibili con una scala di aggregazione che va dagli individui ai piccoli gruppi, ai settori (costituiti da svariati piccoli gruppi) alle divisioni (raggruppamenti di settori), all’organizzazione nel suo complesso, fino all’ambiente in cui l’organizzazione interagisce con altre organizzazioni, ognuna delle quali è caratterizzata da propri interessi, intenzioni, valori e teorie-in-uso. Sappiamo che l’organizzazione agisce, interagisce, indaga e apprende, ma altrettanto possono fare i gruppi, i settori e le divisioni ai differenti livelli d’aggregazione al suo interno. Spesso le azioni di unità intra-organizzative sono essenziali per l’indagine organizzativa e importanti per l’apprendimento sia single-loop che double-loop. L’apprendimento può essere più o meno circoscritto a un’unità organizzativa a seconda che il legame tra quella unità e le altre sia forte o debole. Di conseguenza il tipo di apprendimento organizzativo dipende dal livello di aggregazione in cui si verifica e dal legame forte o debole delle unità intra o inter-livello. Un secondo fattore che comporta una distinzione tra i due tipi di apprendimento è la relazione tra prodotti e processi dell’apprendimento. Finora abbiamo definito l’apprendimento double-loop e single-loop in base ai prodotti dell’indagine organizzativa, distinguendo tra un mutamento della teoria-in-uso organizzativa che modifica le strategie d’azione e gli assunti e un mutamento che modifica i valori. Ma

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sono importanti anche i valori e le norme che governano i processi di indagine organizzativa, perché sono necessari per la capacità di un’organizzazione di migliorare la sua prestazione e di ristrutturare i valori che definiscono il miglioramento. Quando si vuole stabilire se un caso di apprendimento organizzativo è a circuito singolo o a circuito doppio è importante considerare non solo da dove l’indagine è iniziata ma anche dove si dirige. La distinzione tra i risultati dell’apprendimento a doppio circuito per la teoria-in-uso organizzativa e dell’apprendimento a doppio circuito nei processi di indagine organizzativa si connette alla distinzione tra errori del primo ordine ed errori del secondo ordine. Gli errori del primo ordine nella teoria-in-uso organizzativa sono costituititi dai costi eccessivi o dalla necessità di troppe firme. Gli errori del secondo ordine che si producono nei processi di indagine organizzativa sono all’origine dell’esistenza e della persistenza degli errori del primo ordine. L’apprendimento a circuito doppio nell’indagine organizzativa consiste nel mettere in discussione, nel raccogliere informazioni e in una riflessione che tematizzi gli errori del secondo ordine. Quando questo apprendimento ha successo produce un cambiamento caratterizzato da valori che promuovono l’indagine, che produce un apprendimento valido e agibile in relazione all’errore del secondo ordine. Tali cambiamenti sono poi strettamente collegati al sistema di apprendimento di un’organizzazione e alle singole teorie-in-uso che rafforzano tale sistema per esserne a loro volta rafforzate. 4.2 Il contributo di Peter Senge Il concetto di Larning Organisation viene sviluppato da Senge nel celebre libro The Fifth Discipline. Pubblicato nel 1990, ha provocato una vera propria tempesta sia in ambito accademico che in quello industriale. Il lavoro svolto Senge ha avuto una risonanza e un’applicazione molto vasta, al punto che il Journal of Business Strategy ha nominato l’autore “strategista del secolo”, mentre l’Harvard Business Review ha definito la Quinta Disciplina come uno dei libri chiave degli ultimi 75 anni. 4.2.1 La Learning Organisation Secondo Senge le Learning Organisation sono: “…organizzazioni in cui gli individui continuamente espandono le loro capacità al fine di raggiungere i risultati che desiderano; in cui nuovi modi di pensare vengono sfidati e in cui gli individui imparano continuamente al fine di vedere l’insieme delle parti” Senge sottolinea come in situazioni di rapido cambiamento solo le organizzazioni flessibili, pronte all’adattamento e produttive riusciranno ad eccellere. Per fare ciò le organizzazioni devono scoprire come coinvolgere gli individui a tutti i livelli. Anche se tutti sono in grado di apprendere, le strutture al cui interno si muovono i partecipanti all’organizzazione non sono sempre in grado di trasmettere la conoscenza. Intervistando manager a ogni livello organizzativo, Senge ha scoperto che domandando loro cosa significhi far parte di un ottimo team la risposta era sempre

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la stessa: le persone parlano del sentirsi parte di qualcosa di più grande di loro stessi, dell’essere integrati ed essere produttivi. Il vero apprendimento può essere considerato perciò l’essenza stessa dell’essere umano, e tale caratteristica è estendibile alle organizzazioni, che sono create da uomini. Per una Learning Organisation non basta apprendere per sopravvivere. L’apprendimento da sopravvivenza (survival learning) è importante, ma non sufficiente: per avere una vera Learning Organisation questa deve essere sostenuta da apprendimento generativo (generative learning), che è l’unico in grado di aumentare la capacità di un’organizzazione di creare e innovare. 4.2.2 Le cinque discipline Ciò che distingue una Learning Organisation da una struttura organizzativa tradizionale è la capacità di integrare quelle che vengono indicate da Senge come le cinque discipline fondamentali, dove per discipline Senge intende una serie di principi e pratiche che vengono studiate, interiorizzate ed integrate nella vita organizzativa. Le cinque discipline che Senge identifica sono:

1. Pensiero sistemico 2. Personal mastery 3. Modelli mentali 4. Costruzione di una visione comune 5. Team learning

Condizione essenziale per sviluppare le discipline all’interno dell’organizzazione è a sua volta la disponibilità di tutti gli individui a modificare il modo di percepire il loro ruolo all’interno delle strutture, diventando attori e smettendo di vedersi come soggetti riceventi.

Pensiero Sistemico In Senge, come in altri contributi precedenti, la teoria sistemica viene applicata all’organizzazione per comprendere il legame delle parti con l’insieme. La teoria sistemica è un’ incentivo per capire le relazioni tra le parti e un mezzo per integrare le discipline. Nella realtà aziendale vengono spesso prese decisioni a breve termine senza, però, considerare i possibili effetti su altri fattori nel lungo termine. Un esempio di tale approccio è dato dal taglio dei costi di ricerca e design che può apportare nel brevissimo termine un risparmio considerevole, ma che nel lungo periodo sarà estremamente dannoso per la profittabilità del prodotto. La non percezione delle problematiche legate alle scelte di breve termine è dovuta alla mancanza di feedback. Un vero coinvolgimento degli attori porterebbe infatti ad una visione più completa delle problematiche e delle loro conseguenze. Ovviamente un tale approccio comporta anche inevitabili ritardi nel decision making, ma questi vengono giustificati dall’affidabilità dei giudizi espressi di conseguenza. Il problema più rilevante nel pensiero sistemico è tuttavia spesso costituito dal riconoscere il sistema come tale. Acquisire la capacità di riconoscere le basi

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sistemiche e applicarle alla realtà richiede uno sforzo notevole da parte dell’organizzazione. Personal Mastery “Le organizzazioni imparano solamente attraverso individui che apprendono. L’ apprendimento individuale non garantisce, però, che ci sia apprendimento organizzativo ma senza questo (l’apprendimento individuale) non ci potrà essere nessun apprendimento organizzativo.” Quella indicata come “Personal mastery” è la disciplina attraverso la quale si dovrebbe migliorare e chiarire continuamente la propria vision personale. Tale disciplina va oltre lo sviluppo di competenze e capacità e oltre la crescita spirituale, anche se coinvolge entrambi questi aspetti. Secondo Senge, gli individui caratterizzati da un’alta personal mastery sono coloreo che vivono nella ricerca dell’apprendimento continuo. Si tratta di un processo appunto continuo, che rende consapevoli dei propri limiti cognitivi e conoscitivi, e che ha come risultati una forte autostima e sicurezza personale. Attraverso lo sviluppo di questa disciplina Senge auspica lo sviluppo della capacità di vision individuale, di gestione della tensione creativa (ossia la gestione del gap tra realtà e vision personale), tramite il riconoscimento delle tensioni strutturali e delle nostre forze.

Modelli mentali Per modelli mentali si intendono profonde assunzioni, convinzioni, generalizzazioni o immagini attraverso cui gli uomini percepiscono il mondo e in base ai quali agiscono. L’impatto di questi modelli interni sul modo di agire e sui comportamenti è spesso ignorato o sottovalutato e per questo motivo la disciplina dei modelli mentali prende avvio “girando lo specchio verso l’interno”, ovvero imparando a portare in superficie la propria visione interiore del mondo. Sul piano concreto, ciò comporta ad esempio la capacità di condurre conversazioni costruttive imparando a bilanciare la difesa delle proprie ragioni con il saper essere aperti ai suggerimenti (advocacy and inquiry). Immediata conseguenza di questa disciplina a livello organizzativo è che mentre il controllo e il coordinamento rimangono centralizzati, la responsabilità aziendale può essere distribuita molto più ampiamente, poiché tutti hanno la responsabilità di esprimere le proprie idee, difenderle e utilizzarle al fine di influenzare gli altri.

Costruire una Visione Comune L’idea di costruire una visione comune è stata per decenni l’ispirazione alla base dell’idea di leadership. Già Weber, ed in seguito House, nella teoria della leadership carismatica, indicano come il leader non si limiti a un adattamento passivo alla situazione, ma voglia modificare quest’ultima in relazione a una sua visione e strategia personali.

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Secondo Senge una tale visione ha la capacità di incoraggiare la sperimentazione e l’innovazione all’interno dell’organizzazione. Laddove ci sia una vision vera e sentita gli individui apprendono e raggiungono l’eccellenza non perché gli viene chiesto, ma perché lo vogliono. Molto spesso i leader hanno una vision personale che non è però condivisa perché ciò che manca è una metodologia per trasferire la vision dal singolo all’organizzazione. Questo può avvenire solo attraverso processi ripetitivi. Occorre in questi processi aumentare la chiarezza del messaggio al fine di suscitare entusiasmo e far penetrare la vision nell’organizzazione.

Team Learning Senge definisce il team learning come: “…il processo per allineare e sviluppare le capacità all’interno di un team al fine di ottenere i risultati che i membri veramente desiderano” Questa disciplina si basa sulla capacità di rompere modelli mentali e saper costruire una visione comune, ma soprattutto richiede che i membri all’interno del team sappiano interagire tra di loro. La disciplina del team learning deve essere iniziata attraverso il dialogo e la capacità dei partecipanti di sospendere qualsiasi giudizio per entrare in uno spirito di “pensiero comune”. Ciò comprende anche il saper riconoscere strutture e interazioni non formali che possono minare la capacità del team di apprendere. All’interno della Quinta Disciplina, il dialogo è uno dei concetti chiave dell’opera e si ricollega in parte alla nozione di dialogo del fisico David Bohm, che spiega come attraverso il dialogo un gruppo diviene aperto a un flusso di intelligenza più grande. Qualora il dialogo sia accompagnato da un approccio sistemico, si può creare un linguaggio più adeguato per affrontare la complessità. In questo senso il dialogo rappresenta in Senge uno dei momenti fondamentali del cammino dell’organizzazione verso l’apprendimento continuo. 4.2.3 L’innovazione: la sesta disciplina La capacità di saper gestire nel modo desiderato le cinque discipline descritte rende possibile, secondo Senge, la creazione di una vera Learning Organisation. In lavori successivi, Senge introduce anche quella che potrebbe essere definita la sesta disciplina, ovvero l’innovazione. Senge riprende i concetti espressi da Arie de Geuns in “The Living Company”, dove l’autore olandese indica come le imprese vengano trattate come macchine da profitto, piuttosto che come comunità viventi (e le risorse umane di conseguenza trattate come “normali” risorse che possono essere utilizzate o messe da parte). Rifacendosi anche alla teoria X di McGregor (secondo la quale i dipendenti sono inaffidabili e non si sentono parte dell’organizzazione essendo solamente interessati alla busta paga) e alla teoria Y di Drucker (secondo la quale i dipendenti sono degli adulti responsabili che cercano di contribuire il più possibile), Senge cerca di affrontare uno dei problemi fondamentali di un’organizzazione: la capacità di innovare e di innovarsi.

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Se un’organizzazione è del tipo “X”, l’istituzione non riesce ad innovare perché manca all’interno il desiderio di innovare. Ma altrettanto (se non maggiormente) difficoltosa è la situazione in cui ci si trova di fronte ad un’impresa del tipo “Y”, nella quale i componenti sono ansiosi di contribuire al benessere dell’organizzazione perché questo corrisponde anche ad un aumento del loro benessere. Secondo Senge la chiave di lettura di questo apparente rebus sta nell’essere in grado di definire esattamente la differenza tra due concetti: mission e vision, la cui mancata comprensione può determinare l’incapacità dell’organizzazione di innovare. Relativamente alla mission, Senge afferma che ciò che è importante capire è che la mission costituisce l’orientamento dell’organizzazione, rappresenta una direzione e non una destinazione, spiega ai membri dell’organizzazione il motivo per cui stanno lavorando insieme. In quest’ottica, i valori organizzativi spiegano come si intende interagire nel cammino volto a soddisfare la mission. Comunicare e definire in modo appropriato il concetto di “vision” è altrettanto importante. Secondo Senge la vision è “un’immagine o rappresentazione del futuro che cerchiamo di creare”. Il pericolo più grande e più evidente in questo caso è che la ricerca di risultati immediati e di breve termine possa portare a dimenticare o oscurare gli obiettivi più grandi. In questo senso la vision è da considerarsi un mezzo pratico e non una concezione astratta: i leader che non hanno una vision chiara non saranno infatti mai in grado di valutare il progresso rispetto a quello che vorrebbero raggiungere. Oltre a mission e vision, la terza componente che Senge indica come determinante dell’innovazione è la valutazione dei risultati. La valutazione comprende sia il mero aspetto quantitativo che la sua interpretazione. Attraverso la valutazione l’organizzazione si sottopone ad un’analisi critica del proprio operato. Ognuno dei tre fattori indicati contribuisce a costruire un ciclo di apprendimento che porta all’apprendimento organizzativo.

5. Trade-off organizzativi Per completare il quadro concettuale sull’apprendimento organizzativo, è utile infine richiamare il fatto che nell’ambito dei processi di apprendimento orientati all’innovazione si riscontrano situazioni che possono essere definite come veri e propri trade-off organizzativi e che comportano una serie di problemi per le aziende o per qualsiasi altro agente di innovazione e apprendimento: 1 Trade-off tra esplorazione e sfruttamento: ovvero tra la necessità di esplorare i potenziali benefici di nuove e intrinsecamente incerte tecnologie o, più in generale, nuove opportunità e di contro l’adozione di specifici percorsi e “traiettorie” tradizionali, che potrebbero rivelarsi in futuro inefficienti od obsolete. 2 Trade-off tra integrazione e coordinamento da una parte – collegati alla maggiore capacità di sfruttare in maniera efficiente le conoscenze disponibili internamente – e specializzazione e decentralizzazione dall’altra – collegati al bisogno di avere accesso a nuove e diverse conoscenze e di mettere a frutto i possibili vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione.

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In risposta a questi trade-off, le aziende, ma anche le regioni e i sistemi produttivi locali, devono sviluppare e bilanciare specifiche capacità:

• capacità di esplorazione, ovvero di monitorare sistematicamente i processi tecnologici e organizzativi e di impegnarsi in maniera persistente nella ricerca di nuove soluzioni;

• capacità di assorbimento, ovvero costruzione e sviluppo di canali di comunicazione con altri attori e capacità di comprendere, selezionare e internalizzare innovazioni generate altrove. Le capacità di assorbimento non sono mai sostitutive delle attività tecnologiche autonome, ma piuttosto strettamente complementari;

• capacità integrative, ovvero abilità di combinare attori, attività, risorse e frammenti di conoscenze al fine di riconfigurare l’architettura cognitiva e organizzativa dei processi produttivi e di innovazione e di rendere coerenti le vecchie competenze e funzioni con le nuove.

6. Condizioni organizzative che facilitano l’apprendimento I modelli sopra descritti e le esperienze provenienti dalla prassi degli ultimi anni ci permettono di tentare di identificare una lista di condizioni organizzative che supportano i processi di apprendimento all’interno delle organizzazioni, andando così a costruire le fondamenta per l’innovazione. Disponibilità di informazioni La disponibilità di informazioni dovrebbe essere garantita a tutti i livelli organizzativi, dal momento che essa è cruciale per i processi di innovazione. I sistemi informativi dovrebbero essere progettati in modo da essere capillari e flessibili senza sovraccaricare gli utenti. Stile di management Bilanciamento tra libertà e controllo; obiettivi chiari e precisi a livello di missione strategica, insieme alla massima autonomia nel raggiungerli a livello di processi; stile collaborativo e partecipativo; comunicazione aperta in tutte le direzioni; feedback frequenti, costruttivi e orientati al supporto; incentivi equi e generosi e ricompense per gli sforzi innovativi; decision making distribuito; assenza di valutazioni punitive; supporto e cooperazione tra i gruppi, le unità organizzative e le funzioni. Risorse personali e strutturali Le risorse personali che possono alimentare l’apprendimento organizzativo e l’innovazione consistono in conoscenze utili per una determinata innovazione, competenze in settori e mercati rilevanti e precedenti esperienze. Riguardo alle risorse strutturali, alcune delle più importanti sono la disponibilità di risorse finanziarie, infrastrutture appropriate, ricerche di mercato, database e programmi di formazione. Strutture organizzative e sistemi Alcune delle soluzioni che possono rivelarsi più efficaci sono strutture decentralizzate e piatte, sistemi informativi che forniscono feedback pubblici e tempestivi sulle performance organizzative, ricerche sperimentali sistematiche per

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identificare modelli organizzativi impliciti, sistemi di incentivi che promuovono l’apprendimento organizzativo. Regole, procedure e dinamiche di potere Regole, procedure e dinamiche di potere influenzano soprattutto il processo di comunicazione: canali attivati, direzione della comunicazione e rilevanza relativa dei diversi attori coinvolti. Questi meccanismi sono necessari e utili anche nei processi di apprendimento e innovazione, nonostante il rischio il rischio di avere un’eccessiva formalizzazione è maggiore che in altre situazioni. Cultura I fattori culturali che dalla prassi emergono come maggiormente rilevanti sembrano essere l’apertura individuale nei confronti dell’ambiente, la volontà di crescita e la consapevolezza dei propri limiti personali e del proprio potenziale; l’orientamento alla sfida e l’accettazione degli errori e dell’incertezza. A livello organizzativo dovrebbero essere trasmessi valori coerenti, attraverso comunicazione e simboli. Fattori esterni Tali fattori fanno riferimento a una varietà di elementi quali barriere e vincoli, interdipendenze tra business consolidati e business in sviluppo, fluttuazioni della domanda e del mercato, cambiamenti nelle dinamiche di potere etc.

7. Il ruolo del management Il tema dell’apprendimento organizzativo è divenuto un tema relativo non più soltanto a processi individuali o a fattori organizzativi, ma anche alla strategia e all’indirizzo generale dell’azienda. Nella prassi si sono riscontrati molti casi nei quali il successo delle iniziative in questa direzione è stato possibile grazie a un approccio pervasivo all’apprendimento organizzativo, così come molti casi nei quali i fallimenti sono stati dovuti a un approccio segmentato che si è focalizzato su singoli elementi o meccanismi, senza il supporto di un framework organizzativo. L’apprendimento organizzativo implica un livello significativo di autonomia, decentralizzazione e auto-organizzazione. Ma questo non significa che il ruolo del management diminuisca in termini di direzione e coordinamento (Sbrana e Torre, 1996). Il tipo di auto-organizzazione connessa ai processi di apprendimento organizzativo non è un processo spontaneo e deve essere progettata, supportata e coordinata al fine di costruire il contesto appropriato nel quale si possa esprimere. Tali compiti sono prerogativa del management, che ha quindi un ruolo cruciale in questo processo.

8. Soluzioni per l’apprendimento organizzativo L’apprendimento organizzativo può essere promosso in vari modi e avvalendosi di diversi strumenti. Le alternative vengono selezionate in base alla situazione specifica, che è determinata da numerosi fattori quali:

• tipo di competenza coinvolta (conoscenza, attitudine o esperienza);

• Tipo di contenuto oggetto del processo di apprendimento (tecnico, manageriale);

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• numero di persone coinvolte;

• rilevanza della dimensione di gruppo vs. dimensione individuale;

• prevalenza della rilevanza esterna vs. interna;

• Etc. In base al posizionamento della situazione relativamente a queste e altre dimensioni, l’azienda può utilizzare una o più delle seguenti soluzioni di apprendimento:

• Formazione on the job

• Comunicazioni formali

• Aula tradizionale (con uno o più docenti)

• Business case

• Tutorship

• Simulazioni

• Role play

• Business game

• Discussioni

• Realizzazione di progetti sul campo

• Job rotation

• Apprendimento attivo

• Mobilità inter-aziendale

• E-learning Risulta evidente da questa analisi che lo sforzo innovativo dell’organizzazione richiede l’utilizzo di un set di strumenti molto ampio, in grado di rispondere ai diversi fabbisogni generati dalla complessità del processo di innovazione. (adattato da Decastri, M., Paparelli, A. (2008), Organizzare l’Innovazione. Guida Alla Gestione Dei Processi Innovativi Aziendali, Hoepli, Milano)

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AUTORI Fabio Sgaragli

Già manager per il gruppo di strategia globale di PricewaterhouseCoopers a New York e Londra, è un eclettico esperto di business, con una passione per l’innovazione, lo sviluppo organizzativo e le dinamiche di cambiamento. Speaker e formatore, ha maturato esperienze a livello internazionale per aziende come Ferrari, Maserati, Toyota Motor, Starwood, Bristol Myers Squibb, PricewaterhouseCoopers, UBS, HSBC, Nike ed ha alle spalle migliaia di ore di interventi in più di 30 paesi nei cinque continenti. E’ inoltre editor e columnist di Ticonzero, la casa editrice Italiana che pubblica da quindici anni contenuti di frontiera su temi di business e management. Eugenio Tosi

Formatore e Consulente Senior, nasce come responsabile Formazione e Sviluppo di importanti realtà come Bristol, Abbott e Gruppo Arena. Nell’ottobre del 2004 ha fondato la Tosi Consulting Group s.r.l., una società di consulenza e formazione nelle aree della gestione delle risorse umane, vendite, marketing e comunicazione. Tra i clienti più importanti spiccano realtà come Ferrari, Renault, Nissan, Pegeout, Aprilia Moto, Natuzzi, Divani&Divani, Fidesa, E-Bay Italia, Roca, Gaui Italia e molti altri. Ad oggi la Tosi Consulting Group s.r.l. vanta uno staff di 15 Consulenti Senior che erogano la formazione anche a livello internazionale in Inglese, Francese, Tedesco e Spagnolo. Gianfranco Marrone

E’ professore ordinario di Semiotica, Semiotica della cultura e Semiotica della pubblicità nell'Università di Palermo, dove è Coordinatore del Dottorato di ricerca in Design, espressione e comunicazione visiva. Fa inoltre parte del Consiglio scientifico e del Collegio dei docenti del Dottorato SUM in Semiotica, presso l’Università di Bologna. Tiene regolarmente corsi e seminari presso diverse università italiane e straniere. Giornalista pubblicista, collabora a “La Stampa” di Torino e ad altre testate. Dirige l’e-journal “E/C”, rivista dell’Associazione italiana di studi semiotici; fa parte del Comitato scientifico delle riviste Versus e Lexia. E’ Presidente del centro studi Quarto Piano, che svolge ricerche per enti pubblici e aziende private. Lavora nel campo della sociosemiotica, occupandosi di tematiche legate alla spazialità urbana, al cibo e all’alimentazione, ai media, alla politica, alla pubblicità, al giornalismo. È interessato al rapporto tra semiotica, estetica, sensorialità e corpo. Si occupa di comunicazione, estetica, teoria e analisi letteraria dal punto di vista della filosofia del linguaggio e della teoria della significazione. Dario Mangano Dario Mangano insegna Semiotica nei corsi di laurea in Disegno industriale e in Comunicazione internazionale dell'Università di Palermo. Ha pubblicato Semiotica e design (Roma, 2008). Fa parte del comitato di redazione della rivista "E/C", per la quale ha curato con Alvise Mattozzi il numero monografico Il discorso del design. Si interessa di tecnologie e di interazione uomo-macchina. Ha scritto sui manuali di istruzioni per l'uso, sui segnali stradali, sugli apparecchi fotografici e sulle relazioni tra musicista e strumento nel jazz.

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Alberto Maestri Laureato con lode in Comunicazione e Marketing all'Università di Modena e Reggio Emilia, frequenta ora il corso di laurea magistrale in Pubblicità, Editoria e Creatività d'Impresa presso lo stesso ateneo. E’ blogger e junior editor per NinjaMarketing.it, dove si interessa e scrive di social media, marketing research e innovazione. Da Gennaio 2010 a Gennaio 2011 ha collaborato con OPERA, unità di ricerca su social network e industrie creative del Dipartimento di Comunicazione e Economia a Reggio Emilia. Attualmente vive a Parigi come studente Erasmus di Information et Communication all'Université Paris 13-Paris Nord. Alessandro Paparelli

Alessandro Paparelli e’ Direttore del Personale Asia Pacific di Salvatore Ferragamo, come membro del Management Board riporta direttamente al CEO Asia Pacific. In precedenza ha ricoperto il ruolo di Responsabile Sviluppo Organizzativo corporate presso la sede centrale di Ferragamo a Firenze, dopo una carriera nella consulenza di direzione (EOS) e in universita’ (Luigi Bocconi di Milano). E’ inoltre editor e columnist di Ticonzero, e’ membro del Foreign Correspondents’ Club di Hong Kong. Ha un’intensa attivita’ editoriale come columnist e autore, tra cui recentemente di due volumi: Organizzare l’Innovazione (con M. Decastri) e La Nuova Rivoluzione Cinese – Etica, Business e Cultura (con A. Oschetti e M. Pira), entrambi editi da Hoepli. Contribuisce inoltre regolarmente al magazine L’Impresa del Sole 24 ore con la rubrica Orientale e Personale.

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Ticonzero – Knowledge and Ideas for Emerging Leaders è il magazine on-line che si occupa, con un approccio dinamico ed innovativo, delle tematiche di management. Si presenta, fin dal 1997, come uno spazio "unconventional" in cui professionisti, aziendali ed accademici, possono dialogare e confrontarsi su esperienze di valore. L’attenzione al rinnovamento continuo del suo progetto editoriale gli consente di rispondere sempre meglio alle esigenze della sua community di incontrare, e far incontrare tra loro, i manager di successo di oggi e di domani. Diventa ben presto voce autorevole per tutti coloro che si interessano alle problematiche organizzative e manageriali. Con oltre 30.000 contatti al mese è una delle riviste di business più seguite del web.

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