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STORIE IN CORSO VI.
Seminario nazionale dottorandi
Catania, 26-28 maggio 2011
www.sissco.it
Tra le acque, in Alta Valle Gesso.
Turismo, ambiente e identità nel villaggio alpino di Entracque
dal secondo dopoguerra a oggi
1. Presentazione.
Il quesito centrale della ricerca, i risultati attesi e quelli conseguiti
Nelle Alpi sud-occidentali la storia contemporanea ha trovato
il suo limite diacronico nel lavoro di Nuto Revelli: le
testimonianze raccolte ne Il mondo dei vinti (1977) e ne
L’anello forte (1985) calano il sipario della ricerca storica sul
tramonto della società alpina tradizionale. Così, a partire dagli
anni ‟80 del Novecento, le scienze umane in montagna sono
state rappresentate principalmente da geografi, sociologi e
antropologi. Pur attingendo dai risultati pubblicati nei differenti
ambiti di ricerca, la tesi ha un taglio antropologico1 e si propone
di indagare le trasformazioni avvenute e i cambiamenti ancora
in atto in una piccola comunità di media montagna situata nel
cuore del Parco delle Alpi Marittime: Entracque (904 m slm, circa 800 abitanti). Non si tratta di
realizzare una sorta di impossibile “antropologia d‟emergenza”2 volta a recuperare, prima che
svaniscano del tutto, gli ultimi scampoli di una cultura contadina ormai pressoché estinta: quello che
interessa sono le metamorfosi, gli stravolgimenti, gli elementi di continuità, i recuperi, le
rifunzionalizzazioni che si sono verificati in paese negli ultimi sessant‟anni e che sono tuttora in corso.
1 Il dottorato in Storia dell‟Università di Genova fa parte della Scuola di dottorato “Società, culture, territorio” e
comprende un curriculum in Antropologia, cui il presente lavoro afferisce. 2 Il termine urgent anthropology indica l‟etnografia di una cultura o di una manifestazione culturale prossima
alla sparizione, che deve essere documentata tempestivamente prima che venga meno. Iniziatore
dell‟antropologia urgente è considerato l‟etnomusicologo statunitense Alan Lomax, noto soprattutto per aver
documentato il patrimonio del blues rurale americano.
2
Il macro-tema della trasformazione è affrontato attraverso l‟analisi di tre aspetti principali intorno ai
quali si articola la tesi: turismo, ambiente e identità. L‟ipotesi di partenza è che ciascuno di questi
elementi influisca e venga a sua volta influenzato dagli altri due.
Il turismo infatti agisce sull‟ambiente in due modi: contribuendo in maniera massiccia alla
costruzione del territorio (strutture ricettive, cartellonistica didattica o escursionistica, infrastrutture
sportive, edilizia della seconda casa) e dando vita a nuove percezioni dell‟ambiente3, sia da parte di chi
risiede nella località convertita a sito turistico, sia da parte di chi vi giunge come visitatore, con il suo
bagaglio di aspettative più o meno stereotipate4. Il turismo non riveste soltanto un ruolo importante nel
modellare i luoghi e l‟immaginario dei luoghi, ma influenza anche le identità locali in due direzioni:
nel senso di distruggere antiche appartenenze e nel senso contrario di promuovere la nascita di nuove
autopercezioni, talvolta anche di inedite rivendicazioni identitarie.
La valle Gesso, in cui si trova Entracque, fa parte delle cosiddette “valli occitane”, protagoniste a
partire dagli anni ‟60 di un risveglio autonomistico su base linguistico-identitaria (cfr. Degioanni
1992; Borgna 2010). Ancora oggi i più accesi sostenitori del movimento promuovono (più o meno
velleitarie) istanze indipendentistiche: con il P.N.O. francese (Partit Nazionalista Occitan) sono fautori
di una grande nazione Occitana estesa sui due versanti delle Alpi (dalle vallate del cuneese alla Val di
Susa) e su tutta la parte meridionale della Francia fino alla Val d‟Aran, nei Pirenei, che riunisca le
popolazioni in cui accanto all‟italiano o al francese sopravvive ancora una delle lingue d‟Oc (da cui il
nome “Occitania”).
Chiudendo il cerchio e tornando dall‟identità al territorio, vale la pena notare come le politiche
identitarie possano sia contribuire a plasmare il paesaggio (per esempio dagli anni ‟90 molte valli
alpine hanno adottato una doppia cartellonistica – in italiano e in patois – e si scorgono sventolare
sulle facciate di molte case i simboli occitani) come anche costituire un patrimonio simbolico capace
di funzionare da richiamo turistico. La maggioranza dei militanti occitanisti ha infatti ripiegato oggi su
più miti rivendicazioni culturali raggiungendo una buona visibilità a livello nazionale (la lingua
occitana è tutelata dallo Stato italiano ai sensi della legge 482/99) e internazionale (l‟occitano è
candidato a patrimonio dell‟UNESCO). La riscoperta e la valorizzazione del patrimonio poetico e
musicale delle valli, affiancata da una complessa operazione di costruzione dell‟identità occitana
produce oggi nelle valli interessate dal fenomeno un notevole ritorno di immagine: i turisti si lasciano
sedurre volentieri dall‟ennesima invenzione della tradizione (Hobsbawn, Ranger 1994), ancora una
3 Impiego in questa sede le parole “ambiente” e “territorio” come quasi sinonimi. Etimologicamente “ambiente”
rimanda a all‟idea del mondo come sistema di relazioni in cui anche l‟uomo è inserito; “territorio” ha
un‟accezione più concreta, geografica, e indica quella porzione di spazio dai confini necessariamente imprecisi
in cui si svolge la maggior parte delle nostra esistenza quotidiana. 4 Sull‟immaginario, turistico e non, delle Alpi si è scritto moltissimo, cfr., a titolo di esempio: Bonesio (2000);
Camanni (2002); Canestrini (2002); Crettaz (2006); Cuaz (2002, 2005); Delfino, Giordano (2009); Schama
(1997).
3
volta affascinati dal mito duro a morire di una presunta “autenticità montanara” (Delfino, Giordano
2009).
Il territorio della ricerca, sorta di “substrato” su cui si innestano il fenomeno turistico e le dinamiche
identitarie, è un ambiente di media montagna (compreso fra gli 800 e i quasi 3300 metri delle
culminazioni più elevate), su cui ha insistito dal 1857 al 1943 una delle riserve venatorie di Casa
Savoia, a lungo importante fonte di reddito per le magre entrate delle casse comunali della valle e per
quanti erano assunti come dipendenti della Riserva o traevano profitto dall‟indotto generato dalla
presenza dei reali. Al termine del secondo conflitto mondiale, il paese, provato da venti mesi di
occupazione e di guerra civile, è allo stremo. Gli entracquesi emigrano in America, in Australia, più
spesso nella vicina Francia o verso un posto in fabbrica alla Fiat di Torino, alla Michelin di Cuneo e
nelle industrie di fondovalle: si tratta di migrazioni permanenti, in cui chi parte non ha più intenzione
di tornare come un tempo con il sole di primavera. Diminuisce il numero degli entracquesi e ne
aumenta l‟età media:
Ciò che ha caratterizzato Entracque rispetto a altri piccoli centri alpini è stato l‟avvicendarsi di
istituzioni, talvolta concorrenti, che hanno determinato il destino del suo territorio: dall‟inizio degli
anni ‟60 all‟inizio degli anni ‟80 il paese si trasforma in un grande cantiere che ospita centinaia di
lavoratori da tutta Italia, arrivati in valle Gesso al seguito delle ditte che per conto dell‟Enel
costruiranno tre invasi e una centrale idroelettrica sotterranea immediatamente a monte di Entracque.
Il paese e il paesaggio si trasformano: declina una volta per tutte l‟economia alpina, Entracque
raddoppia il volume dei suoi alloggi e vive per due decenni all‟ombra dell‟ENEL come modesta
località turistica votata alle villeggiature estive a allo sci invernale. Gli anni ‟80 portano con sé la
chiusura dei grandi cantieri e nel contempo la fine di un certo turismo delle lunghe permanenze: il
paese affronta una fase di transizione in cui si cerca faticosamente di immaginare un futuro turistico
post-Enel. In quello stesso periodo si afferma l‟ultima delle istituzioni che hanno giocato un ruolo
fondamentale in valle Gesso: il Parco delle Alpi Marittime (fino al 1995 Parco dell‟Argentera), la cui
istituzione nel 1980, ha posto definitivamente un freno alle richieste di captazione idrica dell‟ENEL
che avrebbero modificato, prosciugandolo, il volto della valle.
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Entracque ha dunque attraversato una transizione rapidissima: in poco più di vent‟anni si è
trasformata da paese di agricoltori e contadini, prima in paese-cantiere e poi in località turistica
inserita in un‟area protetta. È stata teatro di una delle prime aspre “battaglie di costume civile”
dell‟Italia del boom economico, in cui per una volta le istanze ambientaliste hanno avuto la meglio
sulle mire di sfruttamento della grande industria.
Dal dopoguerra a oggi, attraverso le tappe principali appena menzionate, Entracque ha acquisito una
nuova fisionomia: intervistando residenti e turisti si è tentato di comprendere cosa vede chi guarda
Entracque, quanti paesi immaginati può ospitare uno stesso territorio.
I risultati della ricerca possono essere sintetizzati in prima battuta con una serie di osservazioni
provvisorie, eventualmente rivedibili nel caso in cui emergano ulteriori elementi dall‟elaborazione dei
dati, che procede in parallelo alla scrittura della tesi:
I. La percezione dell‟ambiente da parte della popolazione residente rivela tre aspetti interessanti.
In primo luogo, un elemento emerso dalle interviste è la distanza percettiva tra chi ha memoria del
paese prima del boom economico e chi è nato dopo la Grande Trasformazione. I primi (nati fino agli
anni ‟60) hanno una percezione articolata del territorio, con una padronanza complessa della
toponomastica locale e una conoscenza mediamente approfondita dei dintorni. In particolare gli
anziani tendono a utilizzare nelle descrizioni del paese le categorie contrapposte di
ordinato/bello/positivo e disordinato/brutto/negativo: dalle interviste emerge come il paesaggio rurale
coltivato delle vecchie fotografie sia ritenuto ordinato e “bello” di contro al paesaggio inselvatichito e
“disordinato” di oggi, dove, intorno all‟abitato cresciuto in maniera scomposta, alberi e arbusti
avanzano a spese dei campi, mentre mulattiere e terrazzamenti cadono in rovina. All‟opposto, per i
bambini, che apprendono a scuola e al Parco l‟importanza delle piante, Entracque è percepita oggi
come più “bella” perché più ricca di piante e quindi più “naturale”.
Un secondo elemento di interesse è la progressiva perdita della capacità di nominare i luoghi del
paese e dei dintorni da parte delle generazioni giovani. Per un principio che si potrebbe definire di
“economia della conoscenza” si tende a prestare attenzione e quindi a far rientrare nella percezione
cosciente soltanto ciò che in qualche modo “serve”. L‟attuale stile di vita della maggior parte degli
entracquesi è ormai svincolato dalla terra quanto quello di qualsiasi cittadino: la campagna è inutile se
non come sfondo ameno o meta di escursioni occasionali. Non è più indispensabile come lo era per i
contadini saper distinguere balze rocciose, alberi isolati, curve della strada, bivi o rivi secondari: questi
elementi smettono di essere riconosciuti, designati, percepiti; il paesaggio diventa muto per chi lo abita
perché (quasi) nessuno ha più bisogno di interpretarlo. Le cose che “servono” si trovano tutte in paese
o altrove, in città: servizi, negozi, luoghi di svago o di lavoro: la mappa dei luoghi e dei sentieri di un
entracquese diventa così sempre più simile a quella di un forestiero5.
5 Anzi, spesso i forestieri, se non sono turisti occasionali, ma nuovi abitanti trasferitisi in paese per scelta,
dimostrano un‟attenzione al territorio e una capacità di lettura maggiori rispetto a quella degli entracquesi stessi.
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Un ultimo aspetto interessante da rilevare è una sorta di ipo-percezione dell‟impatto delle strutture
della centrale idroelettrica dell‟ENEL (una diga immediatamente a ridosso dell‟abitato e i numerosi
tralicci dell‟alta tensione che si dipartono dall‟impianto sotterraneo) e dei condomini costruiti negli
anni ‟60-‟70 che svettano sulle vecchie case: molto spesso durante le interviste tutti questi elementi
estremamente evidenti sono stati commentati solo su sollecitazione. La ipo-percezione assume le
sembianze di una rimozione collettiva nel caso della mappa di comunità6 della valle Gesso, in cui i
valligiani che hanno preso parte alla realizzazione della mappa hanno scelto di non rappresentare e
quindi di non riconoscersi in nessuna delle strutture di maggiore impatto sul paesaggio (dighe, cave,
impianti di risalita). Senz‟altro persone diverse da quelle coinvolte nella stesura della mappa,
avrebbero dato luogo a rappresentazioni differenti, resta il fatto che quella attuale è il ritratto di una
valle e di una Entracque invisibili agli occhi. Più che quella di oggi si è scelto di rappresentare la valle
Gesso di ieri: i nipoti hanno disegnato una mappa molto simile a quella che avrebbero tracciato i loro
nonni. Ma mentre gli avi avrebbero rappresentato la realtà a loro contemporanea, i discendenti hanno
deciso di escludere gli elementi di rottura col passato e di riconoscersi in esso. Questo atteggiamento
può essere interpretato in due modi: disegnare una valle che non c’è sta a indicare o un‟u-topia, un
progetto, una rilettura intelligente e creativa del passato, oppure un‟a-topia, una perdita di contatto con
il luogo quale è ora in cui si mescolano il rimpianto per ciò che è stato, il rifiuto di ciò che è e
l‟incapacità di inventarsi un futuro.
II. Il turismo, che costituisce la principale risorsa economica del paese, è vissuto con moderato
entusiasmo, talvolta quasi come un male necessario, sempre come l‟unica via possibile per un paese
dove chi ha potuto, appena ne ha avuto la possibilità, ha abbandonato senza rimpianti l‟agricoltura e
l‟allevamento. L‟atteggiamento prevalente è di tipo semiassistenzialistico: l‟iniziativa personale
langue, quando non è addirittura osteggiata, e ci si affida per la promozione e lo sviluppo del territorio
a interventi dall‟alto, promossi dalle istituzioni in generale e in particolare dal Comune e dal Parco.
L‟analisi del fenomeno turistico ha permesso di indagare, attraverso questionari, la percezione
turistica del territorio, rivelando interessanti correlazioni tra modi di fruire il territorio e percezioni
dell‟ambiente, tra la presenza del Parco e l‟immagine del paesaggio. A un tipo di vacanza può essere
approssimativamente fatto corrispondere un modello mentale del paesaggio e di chi lo abita, più o
meno stereotipato: per esempio, agli occhi degli alpinisti il paese è poco più di un‟ipotesi, una tappa
aggirabile sul cammino per la montagna, per gli sciatori di giornata il territorio è una sorta di ameno
6 Le “mappe di comunità” sono la versione italiana delle “Parish maps” inglesi promosse dall‟associazione
Common Ground (cfr. www.commonground.org.uk). Una mappa di comunità è uno strumento con cui gli
abitanti di un determinato luogo scelgono di rappresentare il patrimonio, il paesaggio, i saperi in cui si
riconoscono e che desiderano trasmettere alle nuove generazioni. Evidenzia il modo con cui la comunità locale
vede, percepisce, attribuisce valore al proprio territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua realtà
attuale e a come vorrebbe che fosse in futuro. Consiste in una rappresentazione cartografica o in un qualsiasi
altro prodotto od elaborato in cui la comunità si può identificare (cfr. www.mappadicomunita.it). Nel caso della
Carto ‘d la gent d’isi (“Carta delle gente di qui”) della valle Gesso il risultato finale è stato un acquerello
realizzato da un‟artista locale.
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sfondo bidimensionale, per chi soggiorna più a lungo si danno invece modelli di conoscenza più vari e
approfonditi.
Un ulteriore elemento di interesse è costituito dalla convergenza tra gli slogan che pubblicizzano il
paese di Entracque (“paese tranquillo” in cui si può fare “un tuffo nella natura”) e la realtà: è ben vero
che il piccolo paese è un posto di fatto tranquillo inserito in una cornice ambientale di pregio, ma è
altrettanto vero che non si tratta senz‟altro delle uniche caratterizzazioni possibili del luogo, la cui
immagine finisce per rimanere impigliata nella rete simbolica ideata per promuoverlo.
Oltre alla ricostruzione storica del fenomeno turistico, mi sono soffermata sulla selezione degli
elementi che, consciamente o inconsciamente, viene operata in sede di costruzione del sito turistico: in
omaggio allo stereotipo della montagna rurale e statica, che inchioda i centri alpini in una dimensione
idealizzata di inizio secolo, l‟attuale immagine turistica di Entracque non mette in risalto gli aspetti
storici e culturali del piccolo borgo, dotato di una pluricentenaria storia di commerci e traffici (leciti o
meno) col versante francese delle Alpi, fiorente centro laniero fino alla fine dell‟Ottocento e terra di
pastori transumanti fin oltre la seconda metà del Novecento – oggi il paese si autorappresenta piuttosto
come un luogo senza storia o con una storia “dal fiato corto”, a breve raggio, che arriva a includere
appena i soggiorni reali della seconda metà dell‟Ottocento.
III. “Identità” è una parola tanto frequente nei dibattiti antropologici quanto pronunciata
malvolentieri dalla maggior parte degli studiosi. Infatti questa parola nitida, limpida, elegante, pulita,
che fa capolino dappertutto nella letteratura specializzata come nei discorsi di uomini politici e comuni
cittadini, gode ormai di pessima stampa. Infatti se fino a ieri si spiegavano i fenomeni sociali in
termini di identità ora si tratta piuttosto di capire perché tanti siano “posseduti dallo spirito
dell‟identità” (Remotti 2010: XX; cfr. anche Remotti 1996, Fabietti 1995, Maher 1994). L‟identità è
uno strumento che dalla cassetta degli attrezzi degli antropologi è passata sotto le luci del tavolo di
dissezione: invece che il modello di spiegazione dei fenomeni è diventata essa stessa ciò che deve
essere spiegato.
A Entracque ho affrontato dunque criticamente il tema dell‟identità da un lato indagando l‟adesione
in paese all‟identità collettiva occitana, che è risultata molto modesta, e dall‟altro cercando di
esplorare i meccanismi di auto-rappresentazione della comunità durante la riproposizione di un rito
che si svolge ogni cinque anni durante la settimana pasquale: le Parlate di Entracque, una
rappresentazione in forma drammatica della Passione.
2. Contesto della ricerca e collocazione del lavoro di dottorato al suo interno
La tesi è un caso di studio che si inserisce nell‟ambito dell‟antropologia alpina, disciplina inaugurata
nel secondo decennio del Novecento dal giovane antropologo francese Robert Hertz, con un articolo
sul culto alpestre di San Besso (Hertz, 1994). Bisogna però attendere la seconda metà del secolo
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scorso per veder nascere i primi studi etnografici scientificamente fondati dedicati al mondo alpino,
che mettono in relazione gli elementi tradizionali con le dinamiche del cambiamento. In particolare,
spetta al cosiddetto paradigma revisionista, a partire dagli anni Ottanta, il compito di liberare le Alpi
dall‟immagine di immobilità e arretratezza economica, sociale e culturale in cui erano state rinchiuse7.
Un tempo considerate una sorta di mondo statico-esotico dietro casa, le Alpi di oggi, contese fra aree
protette, turismo e cemento sono a pieno titolo inserite nei flussi (economici e simbolici) che
interessano ormai ogni area d‟Europa e del mondo. Gli antropologi alpini lo sanno bene già da tempo8
e guardano alle Alpi come a una realtà in divenire in cui si sono verificati e sono tuttora in corso
processi che vale la pena studiare proprio nella loro complessità e contemporaneità. La tesi si propone
dunque come l‟etnografia di una comunità alpina inserita in uno spazio transfrontaliero, sensibile ai
cambiamenti climatici, politici e economici in corso a livello nazionale e globale: la porzione di Alpi
di cui mi sono occupata è un piccolo mondo complesso, dove in controluce si possono leggere
fenomeni di scala maggiore. Il tentativo è quello di ricavare, confrontando persistenze e mutazioni, da
un passato “rispettabilmente esotico” e da un presente decisamente più familiare, un‟interpretazione
profonda (Geertz 1988) e – in certa misura – generalizzabile, della trasformazione del luogo e di chi lo
abita. L‟ambizione è che il contributo possa uscire dall‟ambito strettamente accademico e rivelarsi uno
strumento utile per le istituzioni che operano sul territorio nonché, magari, un‟occasione per gli
entracquesi di vedersi “da fuori”, secondo scorci e prospettive mai presi in considerazione prima d‟ora.
I temi che si è cercato si sviluppare, attualizzandoli e calandoli nel contesto, sono in parte quelli
“classici” dell‟antropologia (identità, percezione del territorio, immaginario alpino e turistico), in parte
temi comuni a altre discipline (rapporto uomini-parchi, evoluzione della relazione uomo-ambiente,
dinamiche demografiche). Pertanto, se l‟impostazione di fondo del paradigma revisionista informa
l‟intero lavoro, ho di necessità attinto ai lavori realizzati in ambiti disciplinari altri rispetto
all‟antropologia. Per quanto riguarda la percezione dell‟ambiente, i principali punti di riferimento sono
costituiti dall‟ecologia culturale di Tim Ingold (2000; 2001), dai lavori di Cristina Grasseni (2003;
2008; 2009) e dalla psicologia ambientale.
L‟analisi dei rapporti tra il Parco e la popolazione locale è avvenuta attraverso la lente di studi di
carattere geografico (Giacomini, Romani 1982), sociologico (Osti 1994, 1999) e di ecologia politica
(Robbins 2004).
7 Il testo di riferimento è il saggio di Pier Paolo Viazzo, Upland Communities. Environment, Population and
Social Structure in the Alps since the Sixteenth Century, pubblicato nel 1989 per la Cambridge University Press e
tradotto l‟anno seguente in italiano con il titolo Comunità alpine: ambiente, popolazione, struttura sociale dal
XVI secolo a oggi. Comunità alpine è oggi riconosciuto come il manifesto del paradigma revisionista, che mette
in discussione l‟immagine delle società alpine come isolate e arretrate economicamente e culturalmente rispetto
ai centri di pianura. 8 Nel 1974 l‟antropologo statunitense John Friedl, partito per studiare la società rurale del villaggio alpino di
Kippel, in Svizzera, scopre che ormai “non era possibile studiare le tradizionali pratiche agro-pastorali quando
nel villaggio rimanevano solo uno o due agricoltori, né pareva opportuno porre un‟enfasi indebita sugli elementi
tradizionali, ignorando gli evidenti mutamenti che si erano prodotti negli ultimi decenni attraverso
l‟industrializzazione” (Friedl: 1974: 3). Oggetto della sua ricerca divenne allora proprio il mutamento sociale e
economico a Kippel, definito non a caso “a changing village”.
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Lo studio delle trasformazioni del paesaggio ha preso le mosse dalle analisi semiotiche del geografo
Eugenio Turri (1974, 1979, 1998, 2002) e dalle suggestioni di Franco La Cecla (1988, 1995), per
approdare alle pubblicazioni interdisciplinari più recenti, curate da geografi, architetti e antropologi.
L‟antropologia del turismo e l‟antropologia del paesaggio sono ambiti dotati ormai di un‟autonomia
disciplinare, che mettono a disposizione un corpus di opere di riferimento e offrono contributi
aggiornati (cfr. rispettivamente Simonicca 1997, 2006 e Lai 2000).
Per quanto riguarda il tema della rifunzionalizzazione delle feste popolari, il punto di partenza è
costituito dagli studi di Gian Luigi Bravo (1983, 1984, 2001, 2005), con l‟intento manifesto di
muovere oltre il folklore (Clemente, Mugnaini 2001). La discussione critica dei concetti chiave di
tradizione e identità ha la sua base nei lavori classici di Hobsbawn e Ranger (1994) e Appadurai
(2001) e nelle ormai pluriennali riflessioni sull‟identità di Francesco Remotti (Remotti 1996, 2010) e
sugli “eccessi di culture” analizzati da Marco Aime (2004). Per quanto riguarda le analisi
specificamente linguistiche ho potuto fare affidamento sui molti lavori specialistici (Telmon 1992,
2004, 2006; Toso 2006, 2007) e utilizzare come fonte di dati preziosi una tesi di laurea in dialettologia
sul paese di Entracque (Fantino 2002).
3. La metodologia della ricerca.
a. Alcune osservazioni sul campo (dove è il campo a essere osservato)
Il lavoro sul campo è legato alla terra, intimamente
intrecciato con il paesaggio naturale e sociale.
James Clifford, Strade
Mentre il luogo della ricerca dello storico è per lo più l‟archivio, il sito della ricerca per eccellenza
dell‟antropologo che si cimenti in un‟etnografia è il campo, luogo e periodo ancora considerato da
molti come il banco di prova della teoria, insieme segno distintivo della disciplina e rito di passaggio
di ogni antropologo. La parola “campo”, come evidenzia James Clifford (1999: 70,73), evoca
immagini mentali di uno spazio sgombro, di coltivazione, di lavoro, di terreno. Il campo in cui ho
svolto la mia ricerca l‟ho trovato invece ingombro di elementi concreti, che non sapevo interpretare e
di modelli teorici appresi su libri e manuali che non sapevo se, come e con quale diritto avrei potuto
applicare. Non potevo fare piazza pulita di quasi nulla: non c‟era verso di eliminare i turisti perché
proprio la loro presenza caratterizzava il mio studio; non potevo permettermi di ignorare le industrie e
le infrastrutture perché erano parte integrante del processo di trasformazione del territorio e dei suoi
abitanti; avevo a che fare con “indigeni mobili”, che talvolta viaggiavano quanto e più di me e che in
nessun modo potevo identificare incatenandoli al luogo di residenza. Nelle parole di Clifford, il lavoro
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sul campo “aveva luogo in relazioni mondane, contingenti, di viaggio, non in un sito controllato di
ricerca” (Clifford 1999: 91).
Così, al primo viaggio di ricognizione nel paese di Entracque, ero decisamente disorientata. Dovevo
raccogliere dei dati, consapevole del fatto che racimolare interviste, materiale d‟archivio o fotografie
non costituisce una fase preliminare, puramente empirica, della ricerca antropologica, una fase distinta
dal momento successivo e più “alto” della elaborazione teorica. Si tratta invece di un‟attività
interpretativa, già impregnata di teoria (Scarduelli 2003: 7). Diventava allora fondamentale tenere
sotto controllo il mio sguardo affinché col suo “carico di teoria” non finisse per schiacciare luoghi e
persone, restituendo di essi un‟immagine deformata. Dovevo educare il mio regard poco éloigné e
molto “da vicino”, a mettersi a fuoco sulle cose importanti, con un occhio vigile aperto sulla teoria e
l‟altro critico spalancato sul mondo.
Nonostante avessi come guida il progetto di ricerca, non sapevo esattamente che cosa avrei dovuto
osservare e, degli oggetti che mi capitavano sotto gli occhi, che cosa ritenere interessante e cosa no.
Da un lato correvo il rischio di non vedere nulla, di trovarmi inserita in un contesto a tal punto simile
al mio da non riuscire a scorgervi alcunché di rilevante. Poiché i nostri sguardi sono addestrati a
prestare attenzione più agli scarti che alla norma, alle discontinuità piuttosto che all‟omogeneo, siamo
portati a cogliere l‟inusuale, l‟anomalo, più facilmente rispetto al lento trasformarsi che tuttavia
conduce a grandi modificazioni. Il quotidiano è per eccellenza l‟evidenza inosservabile, sempre
presente e mai percepita. D‟altro canto rischiavo di cadere nell‟errore opposto: quello di trovare tutto
interessante, tutto degno di nota o, peggio ancora, “pittoresco”. Come il protagonista de Il coraggio
del pettirosso in visita a Roma descritto dal romanziere Maurizio Maggiani, andavo in giro per le
poche vie del paese “perdendomi regolarmente dopo pochi passi, muovendomi come se avessi avuto
gli occhi immersi in una soluzione d‟oppio. Tutto aveva un significato e niente ne aveva uno preciso”.
Il mio “sguardo da vicino” antropologico era un poco presbite e tendeva a confondersi con l‟aumento
della prossimità. Così, non potendo fidarmi soltanto dei miei occhi, ho deciso di moltiplicare gli
sguardi. Per interpretare il territorio mi sono affidata alle cartoline d‟epoca e a quelle contemporanee
(sguardi turistici), alle carte topografiche (sguardi geografici), agli scatti di altri e miei (sguardi
documentari), all‟occhio della memoria che disegna la mappa di comunità e, soprattutto, agli occhi
degli entracquesi. Occhi bambini che conoscono solo il presente, occhi anziani già velati che ricordano
il passato e occhi di mezz‟età, nati con e dentro il mutamento. Attraverso interviste, racconti, disegni –
sovrapponendo cartine e memorie, ho cercato di descrivere la Grande Trasformazione della piccola
realtà alpina di Entracque. Va da sé che un altro antropologo sul medesimo campo forse avrebbe
incrociato e interrogato sguardi diversi e con ogni probabilità avrebbe infine scritto un‟etnografia
differente del medesimo paese: fatalmente complementare e incompleta, come questa e come ogni
tentativo di interpretazione della realtà.
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b. Fonti e tecniche della ricerca etnografica impiegate sul campo
La lunga permanenza sul campo, durata più di un anno, ha permesso di raccogliere una grande
quantità di dati, che alla vigilia della stesura della tesi, con discreto sgomento di chi scrive, ha assunto
le sembianze di un bazar di generi diversi. Il progetto di ricerca iniziale prevedeva il ricorso a un
numero limitato di fonti e metodi, le une e gli altri decisamente convenzionali: da un lato ricerca
bibliografica e d‟archivio, dall‟altro osservazione partecipante, interviste e questionari.
La valida bibliografia esistente su Entracque è stata la fonte principale dell‟introduzione alla storia
del paese: si è trattato di uno di quei casi fortunati in cui gli storici hanno già scritto “la storia di cui gli
antropologi hanno bisogno” (Viazzo 2001: 354). Dagli archivi matrimoniali della parrocchia e del
Comune di Entracque ho poi ricavato i dati necessari per verificare le dinamiche migratorie e
matrimoniali nel corso del „900 e per analizzare la struttura dei soprannomi famigliari entracquesi (i
cosiddetti stranòm, cognomi aggiuntivi che identificano una famiglia al di là del cognome anagrafico),
che oggi sopravvive solo in forma molto ridotta.
La scelta di circoscrivere la ricerca a un solo paese (dei due iniziali) ha tuttavia esteso il periodo da
trascorrere nella sola Entracque, consentendomi sia di individuarvi nuove fonti (ex-voto pittorici) sia
di sperimentarne di alternative e impreviste (la realizzazione di cartoline disegnate dai bambini della
scuola primaria per esplorare la loro percezione dell‟ambiente; l‟utilizzo di video realizzati dai ragazzi
delle scuole medie in cui gli alunni presentano lavori che esprimono l‟idea attuale e futura del loro
paese). Senza contare che il maggior tempo a disposizione ha permesso di accumulare una maggiore
documentazione fotografica.
Così la valigia – o meglio, lo zaino – del ritorno dal campo si è a poco a poco riempito di
registrazioni, questionari, tabelle di intervista, appunti, video, disegni, mappe, vecchie cartoline, scatti
contemporanei e fotografie di ex voto. L‟eterogeneità delle fonti utilizzate e il loro diverso modo di
impiego hanno posto alcune interessanti questioni sulle possibilità e sui limiti dell‟impiego dei vari
materiali, che vanno emergendo col procedere dell‟analisi e della stesura della tesi.
Esaminiamo ora una per una le tecniche della ricerca etnografica impiegate sul campo.
In primo luogo va considerata l‟osservazione diretta, di prima mano, della vita nel paese.
L‟osservazione partecipante ha assunto una forma poco appariscente, anzi “quotidiana”: pur non
avendo preso parte come co-protagonista agli eventi collettivi che hanno animato il paese durante
l‟intero ciclo annuale (le Parlate, le sagre di paese, le processioni), mi sono trovata a condividere
giorno dopo giorno con i miei informatori l‟esperienza di vivere e lavorare nello stesso luogo.
Osservazione partecipante ha voluto dire quindi far fronte davanti a un caffè alla solitudine autunnale
che segue l‟affollamento turistico di agosto, confrontarsi coi problemi tipicamente invernali della
mobilità e del freddo (lamentarsi perché la serratura dell‟auto è ghiacciata, gli autobus sono pochi e il
tempo atmosferico sempre e comunque diverso da quello che si vorrebbe): condividere, in altre parole,
la realtà di vivere e lavorare al paese per quattordici mesi.
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La durata della permanenza sul campo – un campo permeabile, da cui è stato possibile entrare e
uscire spesso in base agli impegni accademici e famigliari – ha permesso di abbracciare un anno intero
e addirittura di “doppiare” i primi mesi, quelli che – nella concitazione dell‟arrivo e dell‟insediamento
– erano risultati più opachi per la ricerca.
La seconda tecnica utilizzata sul campo è stata la conversazione sviluppata attraverso gradi differenti
di formalità: dalle chiacchiere quasi giornaliere che aiutano e stabilire e a mantenere i rapporti
all‟intervista, libera o strutturata. Per quanto riguarda la storia di Entracque e le singole storie
individuali di cui è intessuta la storia del paese, ho fatto ricorso per lo più a interviste libere, narrative.
Talvolta le interviste si sono trasformate in vere e proprie narrazioni di storie di vita. Queste interviste
sono state svolte spesso utilizzando materiale fotografico d‟epoca e attuale, in modo da suscitare negli
intervistati ricordi e impressioni, rendendo più agevole il confronto passato-presente. In un caso ho
ottenuto il permesso dai discendenti di leggere e utilizzare le memorie scritte di una ex
contrabbandiera entracquese.
I dati quantitativi relativi alla lingua locale li ho invece ricavati attraverso cento tabelle di intervista
formali e stampate, compilate al cospetto degli intervistati.
Per quanto riguarda i turisti, ho effettuato una cinquantina di interviste strutturate e utilizzato dei
questionari, in parte somministrati direttamente, in parte affidati a esercenti di alberghi e campeggi
che hanno provveduto a distribuirli ai loro clienti.
Ho inoltre deciso di tentare una via decisamente poco ortodossa, ovvero quella di proporre la
compilazione dei questionari in rete sul social network Facebook. A questo proposito ho creato
un‟apposita pagina aperta a tutti in cui ho esposto i termini della ricerca e insieme la richiesta di
collaborazione. Hanno aderito al mio appello cinque utenti, che hanno offerto il loro aiuto e messo a
disposizione anche materiale fotografico personale su Entracque: il risultato è stato modesto, ma se si
considera la ridotta frequentazione delle pagine dedicate al paese non si è trattato di un esito negativo.
L‟idea è nata dalla constatazione dell‟esistenza di ben due pagine dedicate a Entracque su Facebook,
una ormai in disuso e una moderatamente attiva, sulle quali scrivono frequentatori passati e presenti
del paese. Ho dunque lanciato un amo per sollecitare un “dono del tempo e del sapere” (Aime,
Cossetta 2010: 117) rivolto a soggetti il cui legame con Entracque era già stato sufficiente a indurli a
iscriversi al gruppo dedicato al paese. La buona conoscenza di Entracque e la decisione spontanea di
“abboccare” e dedicare un po‟ del proprio tempo alla compilazione ha fatto sì che i questionari
risultassero particolarmente completi e interessanti.
Mi sono poi avvalsa della collaborazione di informatori privilegiati, in possesso di particolari
competenze: un impiegato comunale, il responsabile dell‟Ecomuseo della Segale, una linguista
entracquese.
Particolarmente interessante è stato il confronto con una dottoranda antropologa oceanista, originaria
del paese e residente a Entracque. Di ritorno dal periodo di campo trascorso nel villaggio kanak di
Belep ha scoperto che il suo villaggio era a sua volta diventato oggetto di studio da parte di una
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collega: antropologa e nativa, è stata determinante come controparte competente e critica. Proprio il
feed-back tra etnografa straniera e collega nativa – un tempo impensabile, oggi sempre meno raro – ha
fatto emergere con tutta la sua forza l‟aspetto della restituzione e dell‟assunzione di responsabilità
epistemica e soprattutto morale di chi scrive nei confronti delle conseguenze di ciò che ha scritto, in
particolare verso le persone di cui, direttamente o indirettamente, ha scritto (cfr. infra, par. seguente).
4. La struttura della tesi di dottorato9
La tesi si articola in una breve presentazione e in una lunga introduzione di carattere metodologico,
in cui particolare attenzione è dedicata ai temi, strettamente legati alla ricerca sul campo, della
responsabilità e della restituzione del sapere. Da sempre, infatti, gli antropologi che fanno ricerca sul
campo accumulano un debito di riconoscenza verso la comunità che li accoglie, ma rispetto al passato
gli etnografi si trovano oggi sottoposti a un maggiore controllo da parte degli “studiati” circa la
conoscenza trasmessa e divulgata. Mentre difficilmente una donna o un uomo Ndembe avrebbero
potuto contattare Victor Turner per invitarlo a rivedere, per esempio, la sua teoria dei colori, è assai
più probabile che i “nativi” di Entracque leggano, commentino e mettano in discussione le conclusioni
presentate nella tesi. Non solo è probabile, ma è anche auspicabile: infatti “anche scrivere per il
pubblico locale” (in Viazzo 2003: 251) è una delle dimensioni della restituzione (la restituzione del
sapere) attraverso la quale l‟antropologo salda il suo debito di riconoscenza. Senza contare che
un‟antropologia per soli antropologi avrebbe senso quanto “un diritto per soli giuristi e una chiesa per
soli ecclesiastici (in Viazzo 2003: 251).
All‟introduzione segue una prima parte che descrive il paese prima e durante la trasformazione del
periodo degli anni ‟60-‟80 in particolare dal punto di vista demografico (andamento e distribuzione sul
territorio della popolazione, dinamiche migratorie) e economico-sociale (evoluzione delle attività
economiche, struttura famigliare). Il capitolo si chiude con la ricostruzione della battaglia contro i
canali di gronda portata avanti da molti valligiani e da numerose associazioni contro l‟ENEL: si trattò
di uno scontro che mise in luce i contrasti tra un neonato ambientalismo di estrazione cittadina e gli
interessi dell‟industria e di quella parte dei lavoratori locali che promuoveva lo sfruttamento delle
acque come mezzo per salvare la montagna dallo spopolamento. Il capitolo è preceduto da una
sommaria storia dell‟insediamento di Entracque dalle sue origini alle soglie del Novecento: ho ritenuto
necessario dedicare alcuni accenni ai secoli sottratti al ricordo diretto e al racconto perché a Entracque
non accadesse di finire inchiodata al solo passato della prima metà del Novecento, schiacciata su pochi
(benché decisivi) anni a fronte di una storia iniziata da due millenni. Infatti “quando uno studio
antropologico è centrato sul mutamento recente, la ricostruzione del passato tende a essere piuttosto
9 Se non il contenuto e l‟impostazione generale, l‟ordine dei capitoli e il titolo stesso della tesi sono da
considerarsi ancora provvisori.
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selettiva, venendo semplicemente intesa come uno sfondo necessario per una comparazione con gli
stili di vita contemporanei osservati e direttamente documentati dall‟antropologo” (Viazzo 2001: 82).
Il secondo capitolo è dedicato al tema del turismo nel paese: vengono analizzati la costruzione del
sito turistico e i modelli di turismo passati e si confronta l‟immaginario turistico locale con le
contemporanee Alpenanschauungen, i diversi modi di guardare alle Alpi.
Il terzo capitolo sviluppa il tema della percezione dell‟ambiente. Si prendono in esame le diverse
immagini del paese messe in relazione con l‟età e con la provenienza (locali/turisti) delle persone e si
tenta una sintesi dei risultati emersi. Si analizza il ruolo del Parco nella costruzione della percezione
dell‟ambiente.
Il quarto capitolo affronta i temi dell‟identità linguistica occitana e del recupero delle tradizioni.
A un quinto, breve, capitolo è affidato il compito di riassumere i risultati della tesi.
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