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Tutto e subito 1 - Home page | IRIS Università degli ... · forme di lavoro manuale che hanno...

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Tutto e subito

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Mario Gandolfo Giacomarra

Una sociologiadella cultura materiale

Sellerio editorePalermo

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Una sociologia della cultura materiale

Presentazione 13Capitolo ILa cultura materiale nelle scienze umane 17Un’attenzione che viene da lontano - Il tempo del la-voro nella «Nouvelle Histoire» - Le parole e gli og-getti nella ricerca dialettaleCapitolo IILo spazio sociologico della cultura materiale 38Dimensioni antropologiche della cultura materiale -La sociologia e le sociologie: quale spazio per lacultura materiale?- Due modi possibili di fare so-ciologia della cultura materialeCapitolo IIISociologia del lavoro tradizionale: agricolturae pastorizia nella Sicilia dei feudi 61Il latifondo e l’economia agropastorale - La colti-vazione del grano e delle leguminose - La pastoriziae le ragioni dell’ambiente - Le procedure di casei-ficazione, le mansioni e le gerarchieCapitolo IVLavoro e società nelle saline del Trapanese 87Introduzione - La struttura della salina e il lavorodegli uomini - Le fasi di coltivazione del sale - Ma-

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Indice2003 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo

2001 © e-mail: [email protected]

Craxi, Bobo

Route El Fawara – Hammamet / Bobo Craxi, Gianni Pennacchi. -Palermo : Sellerio, 2003.(La nuova diagonale ; 52)ISBN 88-389-1902-X.1. Craxi, Bobo. I. Pennacchi, Gianni.324.245074092 CDD-20

CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana

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Una sociologia della cultura materialeturazione del sale e operazioni di raccolta - Il siste-ma gerarchico degli uomini di salinaCapitolo VLo studio della cultura materiale come sociologiadella cultura 122La cultura materiale nelle realtà in transizione -Nuovi progetti per nuovi attori sociali: dalla docu-mentazione alla riproposta - Dalle mostre della ci-viltà contadina ai musei della cultura materialeCapitolo VI

Musei e comunità locali 142Il museo: pratiche sociali intorno a un apparato dicomunicazione - Verso un museo del territorio - Leoperazioni museografiche: il senso e le procedure

Riferimenti bibliografici 165

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A Pietro Giannopolo di Caltavuturo e a Settimo La Monica di Casteldaccia:

hanno creduto ai progetti nati intorno alla cultura materiale in Sicilia e vi si sono

impegnati con la più grande forza di volontà.Intellettuali senza saperlo, prima che

fossero strappati a quelli che credevano in loro

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Non stupisca il titolo! Ormai da tempo la denominazione«Sociologia della cultura», per indicare una delle disciplinesociologiche coltivate e insegnate nelle università italiane,è stata sostituita da «Sociologia dei processi culturali».Chissà se questo porterà a smarrire il senso profondo che la«Sociologia della cultura» ha avuto negli ottanta anni del-la sua esistenza, prima tedesca e poi inglese ed europea ingenere. Resta il fatto che il concetto di cultura condivisoe praticato in quell’ambito non corrispondeva a quello pro-prio delle scienze antropologiche ma a un prodotto ri-conducibile a quella che i filosofi di Francoforte chia-marono industria culturale della società di massa. Nederiva che nei cinquant’anni trascorsi c’è stata una culturadegli antropologi (quale venne formulata nel 1871 daEdward B. Tylor, accostata nelle società complesse aidislivelli sociali, per cui si articolava in strati culturali di-versi o si distingueva, contrapponendole, una cultura ege-monica e una subalterna) e una cultura dei sociologi,non espressione di popoli o gruppi d’interesse etnologico,ma prodotto di operatori culturali che, di mestiere, «pro-ducono cultura» o (come oggi si preferisce dire) «produ-cono eventi». Sociologi e antropologi, lungo queste vie, fa-ticavano a incontrarsi, e così è stato per lungo tempo.Che cosa intendiamo per cultura materiale?Manca una de-finizione coerente e rigorosa ma, per cominciare, in via

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Presentazione

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tivo di fondo che ci spinge a interessarci della culturamateriale e a richiamare l’attenzione su un universo perlungo tempo negletto. Di qui, ancora, l’idea di proporreuna «sociologia della cultura materiale», non per inven-tare nuove sigle ma per ampliare l’ambito di interessedella sociologia della cultura. Il sociologo della cultura, colui che accentra i suoi interessisugli operatori e i promotori di cultura, può a sua volta co-gliere il significato e il senso del valore semiotico della cul-tura materiale e delle iniziative intese a documentarla, tu-telarla, valorizzarla e offrirla alla fruizione. Si apre così agliaspetti sociologici della complessa problematica museale,nel passaggio dal valore d’uso al valore segno degli ogget-ti, dal tempo in cui essi servivano alla produzione a quel-lo in cui diventano testimonianze di realtà trascorse ma an-cora avvertite come proprie dalle comunità interessate.*

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provvisoria possiamo intenderla come il complesso di at-tività lavorative tradizionali cui le comunità si dedicano,gli strumenti di lavoro di cui dispongono, le connessestrutture sociali e i relativi apparati simbolici. L’interesseper la cultura materiale si è diffuso nelle scienze umane,nella storiografia in particolare, sotto l’influenza del ma-terialismo storico, anche per gli stimoli provenienti primadalla preistoria e dall’archeologia e in seguito dall’an-tropologia. Esso ha il merito di avere richiamato l’atten-zione sulle tecniche, sui prodotti e sugli oggetti concretidella vita sociale. A secolo xx ormai inoltrato, sono stati gli antropologi a oc-cuparsene, in sintonia con gli storici della Nouvelle Histoirefrancese (attenti alla vita quotidiana, alle permanenze e so-prattutto al lavoro e a quanto vi è connesso). I sociologihanno seguito un percorso diverso: il lavoro tradizionale èstato tenuto in disparte, e si è accentrato lo sguardo sul la-voro industriale. Da qui gli spazi dedicati, per esempio, al-la sociologia urbana e a quella rurale in termini dialetticie subalterni. Lo studio del lavoro tradizionale è statoescluso anche da una più generale sociologia del lavoro, di-versi essendo gli strumenti e le finalità conoscitive.Trattati per lungo tempo con sufficienza, considerati ar-caici, residuali e destinati a sparire, il lavoro agricolo, pa-storale e quello artigiano di fatto sopravvivono in ampie re-gioni del mondo, talora rinascendo, e continuano a pro-durre reddito e assicurare sopravvivenza: dall’economiasommersa dei tuguri urbani o delle sperdute masserie ru-rali al bricolage e al «fai da te», per non dire di alcuneforme di lavoro manuale che hanno conosciuto di re-cente ritorni inattesi. Nell’uso delle tecniche tradizionali di produzione e lavo-razione non c’è solo una dimensione culturale, ma cen’è anche una sociale tutta da investigare. Questo è il mo-

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* I capitoli III e IV riprendono i risultati di ricerche monografiche condot-te dall’autore per le quali si rimanda ai «Riferimenti bibliografici».

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Un’attenzione che viene da lontano

Che cos’è la cultura materiale? Quali ambiti concettualiricopre? In quale area semantica si colloca? Che defi-nizione ne hanno dato studiosi di preistoria e archeo-logi, storici e antropologi che se ne occupano ormai dapiù di un secolo? Una constatazione disarmante, pe-raltro segnalata in più occasioni, è che di essa mancaancora una definizione rigorosa e condivisa. Sorvolandosui secoli precedenti, dall’interesse rilevato in periodoilluminista sino alla fine del secolo XIX (quando esso ac-quisisce dimensione scientifica) e da allora a oggi, la no-zione rimane poco e male definita, caratterizzata più daconnotazioni che da denotazioni, troppo imprecisainsomma per diventare un concetto definito e stabile.In via provvisoria possiamo intenderla qui come ilcomplesso di attività lavorative tradizionali cui le co-munità si dedicano, gli strumenti di lavoro di cui di-spongono, le connesse strutture sociali e i relativi ap-parati simbolici.Un’attenzione rivolta al mondo del lavoro non è re-cente ma risale a tempi remoti se, solo per richiamareun esempio, due grandi opere di fine Ottocento, direttea ricostruire l’universo delle antichità greche e latine (laDaremberg Saglio e Pottier del 1877 e la Pauly-Wis-

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Capitolo I

La cultura materiale nelle scienze umane

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tempo e il modo di diventare un oggetto di studio bendefinito: l’orientamento intrapreso viene lentamenteabbandonato col venir meno della temperie culturale il-luminista, a conferma di come le ragioni ideologicheprevalessero ancora su quelle storico-documentarie. Occorre attendere ancora un secolo perché emerganoragioni che possano dirsi scientifiche: è quando, ametà Ottocento, giunge a maturazione il nuovo quadroepistemologico coincidente con il Positivismo, a lungopreparato nel Settecento e già segnalato da AugusteComte nel 1826: esso costituisce una vera e propriaéclosion épistémologique (per dirla con Althusser), ca-ratterizzato com’è da acquisizioni negli ambiti più di-versi dell’universo delle scienze, punto d’origine diorientamenti disciplinari distinti e specializzazionisempre più avanzate. Nascono la chimica e la biologia,l’antropologia e la psicologia, e naturalmente la socio-logia, ognuna delle quali introduce concetti euristici dinuovo conio che ne accompagnano e ne consentono glisviluppi successivi. Il primo ricorso all’idea e alla nozione di cultura ma-teriale, dettato da ragioni scientifiche, si ritrova neglistudi di preistoria, e compare in germe già nelle Anti-quités celtiques et antédiluviennes (1847) di Boucherde Pertes. Lungi dal fermarsi a un’emozione estetica fi-ne a se stessa, effetto talora prodotto dai reperti del-l’archeologia classica, «l’attenzione rivolta agli utensilidi pietra rende il nuovo orientamento scientifico ra-dicalmente diverso: all’oggetto d’arte eccezionale si so-stituisce l’oggetto materiale, comune e anonimo, di cuisi cerca un legame materiale con il resto della civiltàche lo ha prodotto» (Bucaille Pesez 1978, 272). Da al-lora in poi l’interesse scientifico per la cultura materialecresce e si diffonde in ambiti disciplinari nuovi fino a

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sowa del 1894-1914), delineano un quadro articolato ecomplesso della cultura materiale di quei secoli perchédispongono di un’ampia e ricca letteratura sull’argo-mento, disseminata di minute e preziose informazioni(da Varrone a Columella, a Plinio...). L’interesse nonscema nel Medioevo com’è testimoniato, solo per citareancora un esempio, dalle attente e minute descrizionitrasmesseci da autori arabi che si spostano da un pae-se all’altro del Mediterraneo tra il IX e il XII secolo. Nési può dire che venga meno tra Umanesimo e Rinasci-mento, stimolato ora dalle scoperte di nuovi mondi: èil periodo in cui si moltiplicano curiosi ed eruditi di raf-finata cultura, autori di opere talora bizzarre e com-posite, ma di grande rilievo per la quantità delle noti-zie riportate.Un rilievo sistematico al mondo della cultura materia-le non viene dato però prima del XVIII secolo, limitandoalmeno i nostri riferimenti al mondo occidentale. L’o-rientamento degli Idéologues si rivela profondamente in-novativo al riguardo e non a caso una parte consi-stente dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert èdedicata alla ricostruzione dettagliata delle attività la-vorative di metà Settecento: il sottotitolo dell’enci-clopedia (Dictionnaire raisonné des sciences des arts et desmétiers) è, a sua volta, rivelatore se in essa confluisco-no note di agricoltura, arte e architettura, arti e me-stieri, caccia e pesca, cibo, moda e abbigliamento (perriprendere i titoli dei sei volumi pubblicati in tradu-zione italiana, sul finire degli anni Settanta). A con-ferma di come l’Illuminismo lasci tracce profonde e du-rature nel tempo, ritroviamo lo stesso interesse, che vaben oltre la semplice curiosità, nelle opere dei numerosiviaggiatori stranieri che tra Sette e Ottocento visitanol’Italia. Allora, però, la cultura materiale non ha il

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tura del collettivo e concerne dunque intere popola-zioni; non si nutre dei fatti isolati o degli eventi ecce-zionali ma di tutto quello che è stabile nel tempo:«Lo studio della cultura materiale privilegia le masse ascapito delle individualità e delle élites, si dedica ai fat-ti ripetuti e non all’evento; non si occupa delle sovra-strutture ma delle infrastrutture, privilegiando l’eco-nomia e i modi di produzione» (ivi, 305). In secondoluogo, essa viene a identificarsi nel modo più con-gruo con e negli oggetti concreti: utensili di pietra e at-trezzi agricoli, manufatti domestici e armi sono quelliche meglio caratterizzano gli insiemi socio-culturalistudiati. In terzo luogo, lo studio della cultura materialesi basa su una visione marxista della storia: non nega ildinamismo storico, ma lo fa dipendere dalle condizio-ni tecniche, economiche e sociali in cui si svolge:«Studiare la cultura materiale significa attribuireun’importanza causale ai limiti materiali di cui culturee società devono tener conto. Nell’ottica leninista lacultura materiale finisce con l’essere considerata ‘mo-tore della storia’, e Bloch e Febvre ritengono l’econo-mia centrale nella spiegazione del dinamismo stori-co» (ivi, 283). Almeno nella sua fase iniziale, la storiadella cultura materiale risulta dunque inserita in unacornice ideologica prossima al materialismo storico dicui, non a caso, condivide per lungo tempo le realiz-zazioni politiche, i successi e le crisi istituzionali.Non è difficile avvertire in diverse opere degli storicifrancesi l’eco delle pagine marxiane dedicate al processolavorativo e alla produzione di plusvalore: «Il mezzo dilavoro è una cosa o un complesso di cose che il lavo-ratore inserisce fra sé e l’oggetto del lavoro, che gli ser-vono da conduttore della propria attività su quell’og-getto. La terra stessa è un mezzo di lavoro, eppure pre-

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debordare sul piano istituzionale, tra la fine del XIX ei primi anni del xx secolo. Nel 1919 in Russia nasce in-fatti l’Akademija istorii material’noj kul’tury: il solofatto di intitolare l’accademia alla storia (piuttostoche all’archeologia o alla preistoria) fa capire comesia questo il settore in cui l’interesse per la cultura ma-teriale trova nuova linfa e sollecita nuovi interessiscientifici, oltre che politici. Una conferma viene dal-la Polonia, dove la carenza di documenti scritti rendedifficile la ricostruzione della storia nazionale, il che facrescere il valore attribuito alle testimonianze sostitu-tive, e alla cultura materiale in primo luogo: in tale di-rezione si muove la fondazione dell’Instytut HistoriiKultury Materialnej, in seno al quale si pubblica un qua-drimestrale in cui i lavori di storia prevalgono su quel-li di archeologia. Tra gli anni Venti e i Quaranta, dai paesi dell’est eu-ropeo l’interesse per la storia della cultura materiale sidiffonde in Occidente in risposta, anche qui, alle sto-rie nazionali redatte sul finire dell’Ottocento: è il casodi quelle francesi, di cui Marc Bloch e Lucien Febvrelamentano la totale assenza di attenzione per gli aspet-ti economici e sociali, per i sistemi di produzione e ingenere per tutta la vita materiale. Da qui il progetto dicostruire una «nuova storia», caratterizzata da un de-ciso orientamento verso l’economico, il sociale e ilmateriale, finendo col coltivare interessi confinanticon la sociologia, l’antropologia e soprattutto con l’e-conomia politica: dando inoltre la preminenza alle di-namiche socio-economiche, non possono ignorare l’in-segnamento del materialismo storico.Dal quadro appena delineato si ricavano i primi trattiche aiutano a definire la cultura materiale indicandonele direzioni di studio. In primo luogo, essa è una cul-

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menti che stanno sia a monte che a valle della produ-zione: essa comprende infatti sia gli strumenti di lavoro(a loro volta fabbricati con l’aiuto di altri strumenti),sia la natura modificata dalla produzione, sia infine ilconsumo dei prodotti.

Il tempo del lavoro nella «Nouvelle Histoire»

Nel 1929, sulla scia degli storici prima richiamati,nasce in Francia la Nouvelle Histoire, una scuola chedella rivista Annales d’histoire économique et sociale (inseguito Annales: Economies, Sociétés, Civilisations) fauno strumento di battaglia, oltre che di ricerca. Tra idiversi argomenti che ne costituiscono il quadro in-novativo si collocano in prima istanza le riflessioni sulsenso del tempo storico quale si delinea nel nuovo con-testo scientifico. Fernand Braudel, che ne è il capo-scuola, distingue nel divenire delle società tre ritmitemporali diversi: il primo riguarda l’avvenimento edè il tempo breve, «commisurato all’individuo e alla vi-ta quotidiana» sulla base del quale si costruisce lastoria evenemenziale; il secondo riguarda la congiun-tura, «il ciclo, ovvero l’interciclo, che propone a nostrascelta una decina d’anni, un quarto di secolo e, all’e-stremo limite, il mezzo secolo». Il terzo ritmo dellastoria, che qui maggiormente ci interessa, concerne la«lunga durata»: è il tempo che si misura a secoli,«un tempo rallentato, a volte quasi al limite dell’im-mobilità, fatto di permanenze e ripetizioni, definitodal non-avvenimento; è il tempo delle strutture,«realtà che il tempo stenta a logorare e che portacon sé molto a lungo… elementi stabili per un’infinitàdi generazioni» (1973, 63-68).

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suppone a sua volta, prima di poter servire come mez-zo di lavoro nell’agricoltura, tutta una serie di altrimezzi di lavoro e uno sviluppo della forza lavorativa re-lativamente già elevato… Se si considera l’intero pro-cesso [lavorativo] dal punto di vista del suo risultato,cioè del prodotto, mezzo di lavoro e oggetto di lavorosi presentano entrambi come mezzi di produzione e illavoro stesso si presenta come lavoro produttivo. Se dalprocesso lavorativo, inoltre, risulta come prodotto unvalore d’uso, in esso entrano come mezzi di produzionealtri valori d’uso, prodotti di processi lavorativi pre-cedenti. Lo stesso valore d’uso che è il prodotto di que-sti ultimi costituisce il mezzo di produzione di quel la-voro. Quindi i prodotti non sono soltanto il risultatoma anche, insieme, condizione del processo lavorativo»(Marx 1977, I, 213-15).Tra gli storici polacchi, com’è comprensibile, l’ispira-zione marxiana si fa più esplicita. Al riguardo ci limi-tiamo a richiamare Jerzy Kulczycki (1955, 520-21) ilquale, in una rivisitazione critica della storiografiapolacca, dopo aver elogiato gli studiosi della cultura ma-teriale, ne indica quelli che egli ritiene gli oggetti dipertinenza: a) i mezzi di produzione ricavati dalla na-tura, le condizioni naturali di vita e le modificazioniprodotte dall’uomo; b) le forze di produzione (stru-menti di lavoro e mezzi umani), l’esperienza e l’orga-nizzazione tecnica dell’uomo in quanto soggetto dilavoro; c) i prodotti materiali ottenuti partendo daquei mezzi e da quelle forze, strumenti di produzionein quanto oggetti fabbricati; d) i prodotti destinati alconsumo.Dal rapido elenco scaturisce una considerazione che sirivelerà importante nelle pagine che seguono. Nel-l’ambito della cultura materiale si fanno rientrare ele-

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dellata dalle diverse forme di produzione. L’una el’altra sono strettamente legate, ma insieme sono net-tamente distinte perché si collocano, rispettivamente,sul piano dei tempi lunghi e su quello delle congiun-ture.Una seconda linea di riflessione riguarda i «protago-nisti» dei diversi ritmi storici i quali sono, com’è com-prensibile, soggetti sociali distinti: l’avvenimento èagito da sovrani, condottieri e in generale dalle «clas-si egemoniche» di una società; protagonisti non rico-nosciuti, «soggetti senza storia», dei fatti di lungadurata sono invece schiavi, contadini, operai, per cui sipuò ben dire che «la storia strutturale (ovvero dellestrutture di lunga durata) è una storia di popolazioni».In uno dei primi numeri delle Annales Braudel di-chiarava perciò di voler delineare «le storie silenziosee quasi obliate degli uomini, realtà di lunga durata il cuipeso fu immenso e il rumore appena percettibile», etorna a ribadire lo stesso obiettivo in diverse altresedi (1977, XXI). Nella direzione tracciata sono esem-plari la ricerca condotta dallo stesso autore sul sedice-simo secolo (La Méditerranée: le monde méditerranéen àl’époque de Philippe II, 1949) e quella sul quattordice-simo secolo condotta da Emmanuel Leroy Ladurie(Montaillou: village occitan, 1975).Viene per ultima l’analisi dei settori caratterizzati dal-la «lunga durata», in cui si coglie l’ampiezza di vedu-te e riferimenti che qualifica un po’ tutta la NouvelleHistoire. Persistenze secolari sono rilevabili nell’ambitogeografico per il gravoso condizionamento che l’am-biente naturale esercita sui gruppi umani. Ad esso ri-spondono, secondo modalità diverse, le varie formed’insediamento nel territorio i cui segni sfidano loscorrere del tempo, come mostra la resistenza secolare

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Se si guarda più da vicino lo svolgersi dei tre ritmi tem-porali, non è difficile osservare come la storia deigruppi umani consista di un continuo alternarsi dipermanenze e mutamenti: le più varie trasformazioni,economiche, sociali o politiche, trovano le condizionidel loro prodursi proprio nelle permanenze. Questo èvero sia nel senso che ogni mutamento consiste nelcambiare qualcosa che gli preesiste, sia nel senso chel’innovazione si distende su una base che non cambia,pena il non verificarsi dell’innovazione stessa. Ogni av-venimento, fatto che interrompe un flusso o cambiauno stato di cose preesistente, si verifica insommaperché alla sua base sta uno strato di continuità e dipermanenza. Il concetto di permanenza al quale ci riferiamo nonvuol dire certo immobilità assoluta ma ritmo lentissimodi cambiamento che, se commisurato alla breve vita delsingolo uomo, non è se non difficilmente avvertibile:«La storiografia tradizionale, interessata ai ritmi bre-vi del tempo, all’individuo, all’évènement, ci ha abituatida tempo al suo racconto frettoloso, drammatico, dibreve respiro. La Nouvelle Histoire (economica e so-ciale) pone invece al primo posto, nella sua ricerca, leoscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro du-rate… Molto al di là di questo secondo recitativo si col-loca una storia dal respiro ancora più sostenuto, di am-piezza secolare stavolta: la storia di lunga o addirittu-ra di lunghissima durata». La storia della cultura ma-teriale appare «una storia strisciante, di un’evoluzioned’estrema lentezza, quasi immobile ma non del tutto»(ivi, 59-60). Suggestiva si rivela al riguardo la me-tafora che accompagna le parole del grande storico: lavita materiale «si svolge al piano terra dell’edificio del-la società»; al piano superiore sta la vita economica mo-

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quale l’uomo per mezzo della propria azione media, re-gola e controlla il ricambio organico fra se stesso e lanatura: contrappone se stesso, quale una delle potenzedella natura, alla materialità della natura. Egli mette inmoto le forze naturali appartenenti alla sua corpo-reità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsidei materiali della natura in forma usabile per la pro-pria vita. Operando mediante tale moto sulla naturafuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tem-po la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in que-sta sono assopite e assoggetta il gioco delle loro forze alproprio potere». Tre pagine dopo ha modo di precisare:«Nel processo lavorativo, l’attività dell’uomo opera at-traverso il mezzo di lavoro un cambiamento dell’og-getto di lavoro che fin da principio era posto come sco-po. Il processo si estingue nel prodotto. Il suo prodottoè un valore d’uso, materiale naturale appropriato a bi-sogni umani mediante cambiamento di forma. Il lavo-ro si è oggettivato e l’oggetto è lavorato» (1977, I, 211-12, 215).È superfluo segnalare l’attenzione che Marx riserva al-la dimensione sociale delle tecniche di produzione.L’idea conseguente, che non si possa fare solo storiadelle tecniche trascurando il contesto sociale, è diffu-sa e condivisa fra gli storici i quali ribadiscono in piùluoghi come nella storia delle invenzioni, assunta adesempio, le dinamiche storiche (e geografiche) si com-prendono solo se collegate al sociale: «non è l’inven-zione a contare ma la sua diffusione. L’invenzioneprende corpo solo se risponde a un bisogno economicoe sociale: il mulino ad acqua nell’antichità non servivaperché c’era la schiavitù. Su questa linea si muoveBloch, che collega la tecnica al sociale» (Bucaille Pesez1978, 293). La diffusione spaziale di uno strumento o

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della toponomastica assunta a fonte di conoscenzastorica. Altre persistenze si rintracciano nella storia del-le idee: i «quadri mentali», ovvero alcuni degli universiepistemologici e delle cornici interpretative elaborati incontesti storicamente definiti, «raggiungono regolar-mente secoli di durata, essendo respinti solo dopoaver lungamente servito. L’universo aristotelico restaincontestato o quasi sino a Galileo, Cartesio e New-ton» (Braudel 1973, 66). Diffusi e condivisi ai più di-versi livelli sociali, essi diventano «prigioni di lunga du-rata» in quanto, pur offrendo aiuto per la sopravvi-venza delle comunità umane, rappresentano ostacoli asviluppi che potrebbero essere ben più rapidi. Persistenze nei tempi lunghi sono ancora rintracciabi-li nell’ambito del commercio: si pensi ai «giochi delloscambio» - annota Braudel (1981, 25) - ovvero ai si-stemi differenziati che si vanno compenetrando at-traverso le transazioni commerciali e finiscono con il di-venire complementari gli uni agli altri. Pur fonda-mentali e ineliminabili, essi non esauriscono però ilcomplesso della vita economica entro la quale si collocaal primo posto la produzione, ultimo settore caratte-rizzato dalla longue durée: qui acquista un rilievo cen-trale il mondo del lavoro e delle tecniche produttiveche consentono la trasformazione dei materiali grezziin prodotti finiti; qui si colloca la cultura materiale nel-le sue dimensioni sociali (in quanto tutte le attività le-gate alla sopravvivenza dei gruppi umani sono regola-te socialmente) e culturali (in quanto vi si elaboranonorme, modelli di comportamento, vere e proprie «vi-sioni del mondo e della vita»). Nella direzione tracciata tornano di nuovo familiari leosservazioni di Marx sul processo lavorativo: «Il lavoroè un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel

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Altri storici si inseriscono nello stesso filone della sto-riografia italiana del dopoguerra, esiti ulteriori del-l’insegnamento braudeliano coniugato con l’ispira-zione gramsciana, anche se si è notato che «l’ap-prodo da Gramsci a Braudel apriva problemi di cuinon si è a tutt’oggi presa piena coscienza, tanto di-verse erano la prospettiva del rinnovamento storio-grafico auspicato da Gramsci e la storia sociale sullalinea Braudel-Annales» (Galasso 2002). Pensiamo adAlberto Caracciolo che, oltre alle istituzioni centra-li del governo, ha studiato vari aspetti della storia ru-rale, attento a inserire le ricostruzioni in cornici di ri-flessione più ampie; e, per converso, a EdoardoGrendi e a Carlo Ginzburg, interessati a ricostruirerealtà sociali ed economiche osservandone i riflessisulle piccole dimensioni della «microstoria». Anche inItalia una rivista accompagna le nuove prospettiveteoriche e di ricerca: si tratta di Quaderni storici,nata a metà anni Sessanta e impostata per numerimonografici, molti dei quali dedicati alla cultura ma-teriale. Il più importante in tal senso risale al 1976 edè curato da Diego Moreno e Massimo Quaini la cui«prospettiva teorica è la connessione fra geografia, ar-cheologia e scienze sociali: gli oggetti d’uso quoti-diano sono posti in primo piano nella ricerca empi-rica, superando in gran parte una tematizzazionetradizionale» (Wickham 2002, 325). Nella direzioneintrapresa, la rivista costituisce un’importante pale-stra per l’esordio dei giovani storici e un luogo d’in-contro per studiosi italiani e stranieri, costituendo lavia lungo la quale la «Nuova storia» si diffonde inItalia e mette a fuoco diversi altri aspetti del quoti-diano, riconducibili alle mentalità, all’immaginario oalla marginalità.

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di una tecnica produttiva, se collegata al fattore tempo,fornisce inoltre importanti indicazioni di ricerca. Le‘aree culturali’ vengono infatti delineate, per lo più, sul-la base di fatti tecnologici: adottando la prospettiva dif-fusionista si ricostruiscono contatti e apporti culturalifra popolazioni in base alla diffusione di oggetti e ditecniche; coniugandola con quella funzionalista, essaconsente di individuare il ruolo delle invenzioni par-tendo da oggetti tecnici usati per fabbricarne altri.

L’esperienza francese alla quale ci stiamo ampiamenterifacendo registra ampie ricadute in Italia: stanno a te-stimoniarlo le ricerche condotte a partire dagli anni Ses-santa, frutto di iniziative promosse in quegli anni e ispi-rate all’insegnamento proveniente dalle Annales. Finoai primi anni Settanta «cultura materiale» è ancoraun’espressione di cui si servono gli archeologi per lan-ciare una sorta di sfida agli storici tradizionali, ma nonpassa molto tempo che essa diviene patrimonio con-cettuale dei secondi: molti giovani storici si trasferi-scono infatti a Parigi per lavorare accanto a Braudel,condividendone la visione duttile e articolata dellastoria e dando opportuno rilievo «alla storia dell’eco-nomia (come Marc Bloch, del resto) poiché l’economiavista storicamente (cioè in maniera dinamica e duttile)dava più chances della pura e semplice storia delleidee» (Villari 2002). Ciò perché la dimensione econo-mica non esclude ma più e meglio di altre riesce ad in-cludere l’arte e la letteratura, la vita sociale e i com-portamenti umani. Una simile concezione della storiasta alla base dei venti volumi della Storia d’Italia Ei-naudi, un’opera pensata e diretta da Ruggiero Romanonella temperie culturale di quegli anni e proseguita neisuccessivi volumi degli Annali.

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linguisti e dialettologi non è mancato il dovuto rico-noscimento al nesso che un vocabolario intrattienecon la relativa cultura (e dunque con la cultura mate-riale): a partire dalla linguistica d’impianto storicista,passando per quella geografica di Jules Gilliéron, efinendo con la linguistica spaziale di Matteo Bartoli,tutte vedono nelle parole delle unità linguistico-cultu-rali, non semplici etichette di realtà preesistenti macondizioni del loro stesso esistere. Movendo dall’ipotesiSapir-Whorf, una simile prospettiva attraversa loStrutturalismo di Saussure e Hjelmslev, la semiotica diLotman e Uspenskij (1975) per giungere fino a Zyg-munt Bauman (1976). Sul piano del metodo, invece, già la dialettologia ot-tocentesca, nel momento in cui si inseriva nel campotradizionalmente riservato alla linguistica filologica, ab-bandonava la raccolta dei dati in base alla documen-tazione scritta e alla ricostruzione comparata, orien-tandosi verso la viva voce dei parlanti dei quali dunquescopriva e valorizzava le competenze. In una simile di-rezione le ricerche sulle parole non potevano andare di-sgiunte dalle ricerche sulle cose, producendo così stu-di sulla cultura materiale che si segnalano ancora oggiper la ricchezza dei risultati conseguiti. Al di là delle singole monografie lessicali, sono gliAtlanti linguistici a costituire una delle più complesserealizzazioni in cui si manifesta la tendenza delineata.I circa venticinque messi in cantiere dal 1880 a oggi,molti dei quali non ancora condotti a termine o in at-tesa di pubblicazione, costituiscono testimonianze di unorientamento e di un’attenzione che si è venuta affi-nando nel tempo, in una direzione prima etnografica eoggi anche socio-linguistica. È quanto si ricava, peresempio, dallo Sprach- und Sachatlas Italiens und der Süd-

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Le parole e gli oggetti nella ricerca dialettale

L’adozione di un’ottica riconducibile alla cultura ma-teriale, se da un lato ha consentito di mettere assieme,offrendo loro una griglia interpretativa comune, lavo-ri dispersi e talora privi di uno statuto scientifico bendefinito, dall’altro ha fatto avvertire il valore positivodi approcci interdisciplinari per le ricerche condotte inquest’ambito. È significativo che, sin dalle origini,Braudel auspicava che le diverse scienze del socialemettessero insieme «tecniche e conoscenze», non tra-scurando le più vecchie a vantaggio delle più giovani,«che promettono molto, ma non sempre mantengono»(1973, 58). Nel quadro epistemologico delineatosi suc-cessivamente, e accomunante i settori più diversi, si èvenuta proclamando una sempre maggiore esigenzadi interdisciplinarietà e, in tale direzione, tornano al-la memoria le affermazioni di Giorgio Raimondo Car-dona (1977, 41), troppo recise ma ancora condivisibi-li: «I modelli autonomi del sapere hanno esaurito la lo-ro funzione. Oggi è necessario trovare nuove sintesiche non siano più canapi intrecciati di singoli fili ritortima bensì sistemi dinamici formati da sottoinsiemi in-terconnessi e interagenti che solo un’équipe organica dispecialisti può realizzare. La nuova sintesi non è ancorastata raggiunta ma è in questa direzione che va ricer-cato il nuovo modello di cui la cultura del presente habisogno». Anche ricerche, in origine progettate e condotte in am-biti ben delimitati e scientificamente validi, possonocontribuire alla raccolta di informazioni di rilievo: ta-le è il caso del gran numero di studi condotti tra XIX exx secolo sulle diverse aree dialettali del nostro e di al-tri paesi. Quanto alla prospettiva teorica, da parte di

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novative che tale territorio hanno percorso, definendolequanto al centro in cui sono state generate e da cui sisono irradiate, quanto al vigore della loro capacità dipenetrazione e quanto agli itinerari seguiti... La se-conda condizione che la considerazione spaziale del da-to linguistico deve rispettare è che esso venga costan-temente collegato al dato etnografico. Non si può farela storia di una parola senza tener conto dell’oggettocui si riferisce» (Grassi 1976, 430). Quest’ultimo riferimento va al metodo di Wörtherund Sachen coltivato nei primi decenni del Novecentoda Jacob Schuchardt e Rudolf Meringer, impegnati astudiare le parole collegandole agli oggetti: «La geo-grafia linguistica si fa allora storia sociale e culturaleperché di una comunità definisce le tendenze e gliorientamenti… le propensioni storiche rispetto aigruppi circostanti e ai loro comportamenti culturali»(ibidem). Il primo riferimento va invece ad una pro-spettiva che si può dire «diffusionista»: la lettura del-le carte di un Atlante consente di cogliere dinamichespaziali talora non altrimenti rilevabili, e accertare secerte linee di diffusione linguistica costituiscono pre-messe di innovazioni sul piano delle tecniche oppuretracce e persistenze di realtà ormai dissolte. Lungo lastessa linea, definibile di «dinamica culturale e lin-guistica», si muovono gli apporti provenienti dallaLinguistica spaziale di Matteo Bartoli, per il qualeinnovazioni linguistiche possono coprire antiche tec-niche o viceversa, e aree geograficamente isolate emarginali sul piano linguistico possono presentare stru-menti e tecniche che arcaici non sono. L’evoluzionedelle parole non va di pari passo con quella degli og-getti: può accadere perciò che una dalla parte passi adesignare il tutto e viceversa, o che certi strumenti di

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schweiz di Karl Jaberg e Jacob Jud, più comunementeinteso in Italia come Atlante italo-svizzero (AIS): pro-gettato e realizzato fra il 1928 e il ’40 con intenti prin-cipalmente linguistico-spaziali, esso costituisce un pre-zioso strumento di documentazione di realtà tecni-che e strumentali diffuse nelle campagne italiane deiprimi decenni del Novecento. Non è privo di signifi-cato che Paul Scheuermeier, uno dei redattori dell’A-tlante, offra le informazioni più complete oggi dispo-nibili sulle attività agricole e pastorali del tempo nel suoBauernwerk in Italien. «Accanto alla puntigliosa de-scrizione degli strumenti compresa nel testo, indub-biamente colpisce il rilievo del materiale iconografico:le fotografie e i disegni – nota Michele Dean –. Alla fo-tografia è affidato il compito di illustrare il modo, lecondizioni nelle quali si svolgono i singoli momenti diun ciclo lavorativo, consentendo di documentare le con-dizioni, i gesti degli uomini non meno che il paesaggio,la casa, ecc.; spetta invece al disegno di isolare le cose,gli strumenti, gli utensili, presentandoli nei più minu-ti particolari costruttivi, sì da intenderne appieno mo-dalità d’uso e difformità» (Scheuermeier 1980, XII).Quale genere di contributi gli Atlanti linguistici pos-sono dare agli studi di cultura materiale? Essi sono fon-damentalmente due. In primo luogo, costituisconofonti documentarie importanti, anzi essenziali quandosono carenti le altre: allora essi «costituiscono un pre-zioso strumento di indagine storica delle culture su-balterne, e in particolare di quella contadina». Questoè possibile purché la considerazione spaziale del datolinguistico rispetti almeno due condizioni: «la prima èche essa si proponga in modo preminente non già di ri-costruire gli stadi di lingua che si sono succeduti in undeterminato territorio ma di individuare le correnti in-

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atto, un sapere e non sempre è sostituibile con paroleestranee al luogo d’origine. Anche se si rintracciano in al-tre regioni le stesse tecniche o gli stessi attrezzi, puòben darsi che lì si individuino in modo unitario complessidi parti che qui sono singolarizzate o raggruppate in mo-di diversi. Tradurre in altre lingue rischia infine di «tra-dire» le ragioni stesse del conoscere, sfumando il senso diun termine, smarrendo la porzione di area semantica ri-coperta, generando corrispondenze sballate, sovrapposi-zioni non coincidenti, veri e propri fraintendimenti. Venendo al nostro argomento, se teniamo presenti le ri-serve avanzate da Haudricourt e osserviamo i modi diraccolta delle informazioni adottati in molti Atlantidel passato, non possiamo non rilevare come la culturamateriale sia stata spesso considerata lì un fatto acces-sorio e trattata con sufficienza, finendo col costituire so-lo un atlante nell’Atlante. Per non dire che molto ma-teriale linguistico finiva con lo sfuggire alle maglie deiquestionari perché i somministratori erano estranei allacultura osservata. Solo nei progetti più recenti si co-mincia con lo studiare prima l’oggetto, consultandocontadini, pastori e artigiani: si parte dunque da ricer-che sul campo condotte con il metodo dell’osservazioneetnografica, si articola l’universo studiato in settori di in-teresse, si elaborano monografie di prova, si indivi-duano per ognuno le rilevanze linguistiche e si rimandala formulazione dei questionari a tempi successivi.Il primo riferimento va all’Atlante Linguistico dellaSicilia che, ideato a metà anni Ottanta, costituisceun punto di svolta rispetto a precedenti esperienze diatlanti regionali non solo per il ricorso organico allenuove tecnologie informatiche oggi disponibili, maanche e soprattutto per la dimensione programmati-camente etnografica e ancor più socio-linguistica che ne

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lavoro, sostituiti da altri (diversi nella forma ma simi-li nella funzione), non lascino tracce nel vocabolario. Di qui discende una raccomandazione sul piano del me-todo, di un genere eminentemente tecnico. Nel rico-struire la storia dell’aratro André Haudricourt, agro-nomo prima che etnografo e linguista, dopo essersisoffermato sui materiali provenienti dall’archeologia, daidocumenti iconici e dai testi, prende in esame l’appor-to proveniente dalle parole e dalla loro storia per ri-solvere questioni innanzitutto tecniche: «Il vocabolariotecnico costituisce una testimonianza collettiva e in-conscia, più sicura e obiettiva insieme, di quella esplicitae cosciente di un testo scritto o di un’opera dovuta a unsolo individuo» (1955, 45). Riconosce poi ai linguisti ilmerito di aver raccolto una mole di informazioni sullacultura materiale ma, riferendosi proprio alla scuola deiWörther und Sachen, ne segnala la debolezza di metodoperché dà allo studio delle parole la precedenza suquello degli oggetti. Affinché il ricorso al linguista nonsi risolva in danno, Haudricourt ritiene invece neces-sario «studiare prima l’oggetto, la sua tecnica, la suafunzione. Solo dopo tale lavoro primordiale, di base, cisi potrà render conto del senso esatto e del valore spe-cifico o generale dei diversi termini del vocabolario chedesignano l’oggetto o le sua varie parti» (ivi, 49).Un simile modo di porre la questione giustifica l’esigenzadi conservare il nome dell’oggetto per come è stato regi-strato e trascritto, in lingua o nel dialetto locale, e di sfug-gire così al «pericolo delle traduzioni» le quali generano er-rori e approssimazioni e sono «vere e proprie trappole».In armonia con quanto rilevato in precedenza, la termi-nologia relativa ad attrezzi o loro parti, tecniche o loro fa-si, non può essere del resto considerata una sempliceetichettatura: ogni termine singolarizza un manufatto, un

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quali è possibile ricevare tendenze verso l’uno o l’altropolo. Essi non vengono individuati ricorrendo alla so-la collocazione geografica (secondo la logica delle areelinguistiche di Bartoli), ma anche a fatti d’ordine eco-nomico e sociale, tratti in sviluppo e tratti sostanzial-mente statici potendo caratterizzare le singole aree. Daqui lo staff di ricerca fa discendere l’analisi dei processidi vettorializzazione e un monitoraggio statistico con-tinuo (con relativa tipologia cartografica fatta di cartepolarizzanti, irradiazionali e metacarte): ad essi segue lacostruzione di indici di variabilità inter-areale, gene-razionale, culturale e funzionale. In conclusione, ancheper quello che parrebbe un progetto dettato da tutt’al-tri interessi, si tornano a porre questioni di generesocioterritoriale, come la convergenza e la divergenza(da chi e verso dove), la spazialità e il territorio, e l’at-tenzione viene incentrata soprattutto sulla complessitàdei sistemi urbani (D’Agostino Pennisi 1995).

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ispira le ricerche. I Materiali che accompagnano l’A-tlante dai primi anni Novanta si possono consideraretappe di studi e di analisi condotte con tecniche ap-propriate e sempre più raffinate: gli uni e le altre han-no già prodotto risultati conoscitivi di rilievo intornoalla cultura materiale isolana (in particolare sul mondodelle zolfare e della pastorizia) oltre che sulle variazionisocio-linguistiche.1

L’accostamento di due orientamenti (etnografico esociolinguistico), che tra l’altro fanno appello a com-petenze diverse, e i risultati scientifici che emergonodalle ricerche convergono sulla bontà di un metodo in-novativo nella direzione delineata: si parte dallo sfon-do culturale di una realtà, quale si riflette o si deter-mina nei suoi aspetti linguistici, se ne rilevano le rea-lizzazioni nello spazio geografico e se ne registrano levariazioni socio-situazionali in parlanti di strati so-ciali diversi. Da qui il ricorso attento e avvertito alle re-gistrazioni delle testimonianze orali cui segue il lorotrattamento con ricorso alle nuove tecnologie infor-matiche (Ruffino 1995).In questa direzione risulta centrale, nell’esecuzionedel progetto, la messa a punto di strumenti adeguati al-l’individuazione di punti rappresentativi dove con-centrare la ricerca: non si tengono separati quelli rite-nuti «conservativi» da quelli «innovativi» (indivi-duandoli in maniera generica e superficiale, come pureaccadeva in passato), ma si concentra l’attenzione sucentri valutati in prevalenza innovativi o recessivi e dai

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1 Da quando, nel 1995, il progetto dell’Atlante linguistico è passato alla fa-se operativa, sono stati pubblicati 18 volumi, decine di carte linguistiche eun cd rom multimediale che riporta le trascrizioni e rende consultabili le re-gistrazioni sonore. È stato inoltre costituito un archivio sonoro in cui sonoconservate circa 1500 ore di registrazioni.

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smo. Taluni momenti della cultura popolare, apparte-nenti alla sfera ‘spirituale’, sono stati osservati e iper-valutati, quelli appartenenti alla sfera ‘materiale’ taciutie neppure visti… Agiva cioè sul terreno limitato del-l’osservazione del mondo popolare la dicotomia tranatura e cultura, con segno positivo per quest’ulti-ma, su cui si era venuta costruendo la cultura occi-dentale. La cultura materiale era troppo strettamenteconnessa al dominio della natura per poter meritare at-tenzione scientifica e positiva connotazione» (Buttitta1980, 29).Un nuovo e più deciso modo di pensare si diffonde apartire dal 1871 quando, delineando il metodo di stu-dio di quella che egli chiama cultura (o civiltà), EdwardB. Tylor pone in primo piano la cultura materiale:«Il primo passo nello studio della civiltà è quello di se-zionarla in aspetti particolari e di classificare questi ingruppi. Così quando si esaminano le armi, queste de-vono essere classificate come lancia, mazza, fionda, ar-co e freccia; nelle arti tessili devono essere collocate laconfezione delle stuoie e delle reti e varie specie di con-fezioni e di intrecci delle fibre… Il lavoro dell’etno-grafo consiste nel classificare tali particolari allo scopodi distribuire la loro distribuzione geografica e storicae le relazioni che intercorrono tra essi» (in Rossi 1970,13). Lo studio dei miti, dei riti e delle cerimonie vieneposto di seguito alla prima, il che costituisce un’ulte-riore conferma dell’importanza ad essa attribuita.Negli anni Dieci del Novecento, studiando le comunitàindiane d’America, Franz Boas individua nella culturamateriale uno dei tratti primari della cultura intesa insenso antropologico: «La cultura può essere definita co-me la totalità delle reazioni e delle attività intellettualie fisiche che caratterizzano il comportamento degli in-

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Dimensioni antropologiche della cultura materiale

Sulla concezione della «lunga durata» gli storici in-contrano gli antropologi e, non a caso, la NouvelleHistoire fa più volte appello ai contributi provenienti daquesti ultimi: «L’etnologia esercita qui l’attrazionepiù seducente e, rifiutando il primato dello scritto e latirannide dell’avvenimento, trascina la storia verso lastoria lenta, quasi immobile, della lunga durata» (LeGoff Nora 1981, IX). I settori di ricerca dei primi si of-frono del tutto naturalmente all’attenzione dei secon-di, e questa convergenza non è recente se si bada ai le-gami scientifici che gli autori delle Annales intratte-nevano già negli anni Trenta con gli etnologi del-l’Année sociologique. Tra le scienze umane e sociali, in effetti, l’antropologiaculturale dedica grande attenzione alla cultura materialein quanto mezzo di risposta ai bisogni di sopravvivenzadei gruppi umani. Questo non si verifica però in ma-niera lineare e senza contraddizioni, se è vero cheper gran parte del secolo XIX prevale una linea di pen-siero diversa. Il fatto è che «ciascuna rappresentazio-ne di un universo culturale dato ne enfatizza alcuniaspetti, altri ne tace. È così anche per l’immagine delmondo popolare consegnata alla storia dal Romantici-

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Capitolo II

Lo spazio sociologico della cultura materiale

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ogni ambiente antropizzato ne porta su di sé i segni erivela i rapporti che l’uomo intrattiene con esso. Gli an-tropologi sociali della scuola britannica fanno tesorodell’insegnamento ricevuto e ogni loro monografia supopoli d’interesse etnologico non trascura perciò det-tagliate ricostruzioni delle attività di sussistenza, ri-servando particolare attenzione all’organizzazione so-ciale, oltre che alle tecniche e ai modi di lavorazione. L’orientamento delineato trova conferma negli autoridella Socio-etnologia francese del periodo compreso fragli anni Venti e i Quaranta (Chiozzi 1974). MarcelMauss, allievo di Emile Durkheim, ribadisce in più luo-ghi come lo studio di una comunità debba cominciarecol ricostruirne le attività produttive, essendo queste lebasi di partenza per poter comprendere altri tratti, so-ciali e/o culturali che siano. Studiare le tecniche èimportante infatti non solo in sé, ma anche per lacomprensione del «fatto sociale totale»: esse non sonofatti isolati ma si collegano all’ambiente tecnico dicui fanno parte e al gruppo sociale che le adotta. Di-sponendosi in una dimensione temporale, sono anchefattori di coesione in senso generazionale: «Ogni grup-po umano possiede e trasmette di generazione in ge-nerazione l’eredità tecnica accumulata nel tempo: ri-cette diverse, esperienze e attrezzature conosciute datutti o segreti conservati gelosamente da certe catego-rie professionali (che agiscono allora come cellule spe-cializzate della memoria del gruppo). È questo bagaglio,in ogni caso, che permette a ogni generazione di so-pravvivere senza dover reinventare tutto» (Balfet1981, 78). Oggetti di memoria, le tecniche vengono ap-prese mediante un apprendistato più o meno lungo incui la spiegazione è già dimostrazione. Esse sono infi-ne elementi di organizzazione in quanto lo sfrutta-

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dividui che compongono un gruppo sociale in rela-zione al loro ambiente naturale, ad altri gruppi, ad al-tri membri del gruppo stesso… La cultura è stata finoradescritta sotto forma di cultura materiale, di relazionisociali, di arte e religione, nell’ordine… Nell’ambitodella cultura materiale vengono raggruppate la rac-colta, la conservazione e la preparazione del cibo, delrifugio e del vestiario, i processi e i prodotti dellamanifattura, i metodi di locomozione: la conoscenza ra-zionale viene generalmente riportata a questo com-plesso di attività» (ivi, 35). Negli anni Trenta, e in un contesto ancora diverso qualè quello delle isole polinesiane, Bronislaw Malinowskitorna a collocare la cultura materiale ai primi posti do-po aver rilevato come la funzione della cultura consistanel rispondere ai bisogni di sopravvivenza, risposta da-ta dalle attività lavorative: «La cultura comprende gliartefatti, i beni, i processi tecnici, le idee, le abitudinie i valori che vengono trasmessi socialmente. Non sipuò comprendere realmente l’organizzazione sociale senon come parte della cultura». Questo accade per-ché, per poter vivere, «l’uomo altera continuamentel’ambiente circostante. In tutti i punti di contattocon il mondo esterno egli crea un ambiente artificiale,secondario: costruisce case o fabbrica rifugi, prepara ilcibo in maniera più o meno elaborata procurandoseloper mezzo di armi o di attrezzi, costruisce strade e siserve di mezzi di trasporto… Gli artefatti, gli edifici,le imbarcazioni, gli attrezzi e le armi… in una parola ilcorredo materiale dell’uomo, costituiscono nel lorocomplesso gli aspetti più evidenti e più tangibili dellacultura. Essi ne definiscono il livello e ne costituisco-no l’efficienza» (ivi, 135-36). Risultato di una com-plessa pratica sociale e prodotto del lavoro umano,

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giuridico, «spesso metafisico e religioso, e sempre mo-rale», Mauss ha modo di rilevare: «L’organizzazionedel mestiere, l’organizzazione stessa del lavoro, se purcostituisce un fenomeno economico, è soprattutto, ineffetti, un fenomeno tecnico: non può esservi divisio-ne del lavoro senza uno stato sociale definito, senzaun’assegnazione di compiti da parte della società stes-sa» (ivi, 112-13).Ancora in ambito antropologico, ma più attento allastoria delle tecniche che alla dimensione sociale, simuove André Leroi-Gourhan, etnologo e curatore delMusée de l’homme. Nel delineare i rapporti che le tec-niche intrattengono con l’ambiente egli fa ancora ap-pello alla memoria del sociale: «Le tecniche godono diuno spazio particolarmente importante: ricorrendo adesse superiamo il margine troppo stretto dei testi e deirapporti orali. A partire dal momento in cui l’uomonon può parlare più, perché è assente o è morto, equando mancano gli archivi, continuano a resisteredue testimonianze: l’Arte e le Tecniche» (1943, 7).Qualsiasi oggetto di cultura materiale diventa nel tem-po «testimone culturale», segno di realtà trascorse e delrelativo universo tecnologico: l’insieme degli attrezzi dilavoro rappresenta perciò «la principale carta d’identitàdi un gruppo» e tecniche e strumenti, «muti testi-moni della storia dell’uomo», proclamano le strette con-nessioni fra il lavoro e la comunità. A differenza di Mauss, lo studioso non trae però da si-mili premesse tutte le conseguenze che ci si aspette-rebbe di rilevare nei due importanti volumi di Evolu-tion et techniques, e omette di considerare la dimensionesociale del lavoro umano privilegiandone quella esclu-sivamente tecnica. Sul modello delle tassonomie dellescienze naturali, elabora una tipologia generale delle

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mento di un territorio comporta assegnazione di spazi,accettazione di regole e competenze comuni: «La so-pravvivenza collettiva esige che gli uomini si dianoun’organizzazione capace di coordinare lo sfrutta-mento, fissando i diritti e i doveri di ognuno e prov-vedendo alla perpetuazione delle risorse. In modo taleche tra attività tecnica e organizzazione sociale funzioniun sistema di relazioni ambivalenti dei cui esempi è pie-na la letteratura» (ivi, 79). Facendo tesoro di simili premesse, in cui si riservagrande spazio al sociale, Mauss studia le diverse tec-niche di produzione elaborando metodi di classifica-zione di tipo funzionalista che ancora oggi si rivelanovalide. Nelle pagine del suo Manuale dedicate alla tec-nologia egli dà il dovuto rilievo alle attività manuali e,dopo aver distinto gli utensili dagli strumenti e dallemacchine, riprende note pagine durkheimiane quandoosserva: «A partire dal momento in cui si elaboranotecniche generali per usi speciali viene introdotta la di-visione del lavoro… e con la divisione del lavoro, tro-viamo per la prima volta la nozione di mestiere». Suc-cessivamente precisa: «La messa in funzione dellostrumento richiede una tecnica che non è necessaria-mente diffusa al medesimo livello in tutta la società.Generalmente – continua, riferendosi alle società pri-mitive – la divisione del lavoro avviene per sesso o peretà, ma può anche stabilirsi per località, in base allapresenza dei materiali» (1969, 34). Il socioetnologo av-verte già l’esigenza del rinvio alla divisione socialedel lavoro propria delle società complesse, ma preferi-sce riservare lo sviluppo dell’argomento a un capitolosuccessivo, dedicato ai «fenomeni economici». Qui, do-po aver segnalato che la divisione del lavoro non è deltutto riducibile ad essi, essendo anche un fenomeno

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nire degli anni Sessanta, sulla scia di Antonio Gramsci,si elaborano perciò i concetti di «cultura egemonica eculture subalterne» delle quali si mettono in rilievo itratti in contrasto con riguardo sia alle rappresentazionimentali che alla vita materiale: «Le concezioni, i com-portamenti ed il patrimonio di cognizioni delle ‘élites’(e cioè delle classi e dei ceti sociali ‘dominanti’ ed‘egemonici’) non sono certo uguali alle concezioni, aicomportamenti ed al patrimonio di cognizioni del co-siddetto ‘popolo’ (e cioè delle classi o degli strati sociali‘dominati’ e ‘subalterni’): alla diversità della condizionesociale (politica, economica, ecc.) si accompagna una di-versità culturale (e cioè di conoscenze e convinzioni, ol-tre che di usi e costumi, di osservanze e di gusti, e viadicendo) nella quale si manifesta la disuguale parteci-pazione dei diversi strati sociali alla produzione ed al-la fruizione dei beni culturali» (Cirese 1973, 12).In secondo luogo, il diffondersi della consapevolezzadella cultura come sistema in cui tout se tient offre im-portanti spunti di riflessione sulla complessità del fat-to tecnologico: per coglierne il senso e comprenderneil valore sociale, oltre che la funzione, strumenti di la-voro e manufatti non si possono assumere come fattiisolati ma devono essere correlati, in quanto unitàdel sistema, alle competenze tecniche, alle visioni delmondo, ai rapporti sociali e alla più generale realtà eco-nomica. Comincia a delinearsi una dimensione chenel percorso seguito si rivelerà centrale e feconda di esi-ti (la dimensione semiotica), partendo dall’idea chel’uomo può ritenersi parte della cultura materiale inquanto «il suo corpo, in quanto trasduttore semiotico,gli offre il valore di segno e gli oggetti materiali portanosu di sé altri segni inerenti arti, diritto, religione, pa-rentela» (Bucaille Pesez 1978, 305).

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tecniche i cui capitoli sono i mezzi elementari d’azio-ne sulla materia, i trasporti, le tecniche di fabbrica-zione, di acquisizione e di consumo (ivi, 17-20). Tuttoquanto va oltre non lo interessa più di tanto: egli per-ciò «non sale verso l’alto» (classificando le tecniche inbase alle funzioni svolte), ma scende verso il basso, fra-zionandole nei costituenti elementari (il movimento, itrasformatori di movimento, i generatori di forza).In questa direzione dà il dovuto rilievo al gesto umanocome luogo di orientamento delle forze e di articola-zione dei movimenti, ma a questa attenzione non fa se-guire considerazioni di maggior rilievo, quali sono inprimo luogo quelle sul sociale e sull’economico: «Tut-to quanto riguarda gli aspetti sociali, religiosi o esteticidella vita va oltre gli obiettivi di quest’opera: essa si li-mita a studiare l’acquisizione dei prodotti necessarialla vita materiale (prodotti animali, vegetali, minera-li) e il loro consumo nell’alimentazione, nel vestiario enell’abitazione» (ivi, 19). Non è senza significato che,qualche pagina prima, l’autore avesse professato lasua fede nel «determinismo tecnico [che] è forte tantoquanto quello della zoologia».

Negli anni del secondo dopoguerra, il diffondersi dellaprospettiva semiotico-strutturale investe anche lo studiodella cultura materiale: già richiamato dagli evoluzionistiper definire i singoli stadi evolutivi, dai diffusionisti perindividuare le aree culturali e dai funzionalisti per co-gliere i rapporti tra bisogni e risposte culturali, esso vie-ne ora ad arricchirsi di nuovi significati. In primo luogo, partendo dalla dimensione sociale piùvolte ripresa e variamente articolata, si introducono ele-menti di riflessione riguardanti i dislivelli interni di cul-tura presenti e operanti nelle società complesse. Sul fi-

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lavoro, benché già propri in germe di certe specie ani-mali, contraddistinguono il processo lavorativo speci-ficamente umano; per questo Franklin definisce l’uomo‘a toolmaking animal’, un animale che fabbrica stru-menti. Le reliquie dei mezzi di lavoro hanno, per il giu-dizio su formazioni sociali scomparse, la stessa im-portanza che ha la struttura delle reliquie ossee per co-noscere l’organizzazione di generi animali estinti. Nonè quel che viene fatto, ma come viene fatto, con qua-li mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche econo-miche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a mi-surare i gradi di sviluppo della forza lavorativa umana,ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadroviene compiuto il lavoro» (Marx 1977, I, 214). La questione qui adombrata rimanda a quella del rap-porto fra il mondo materiale e il mondo intellettuale.Considerati a lungo in contrapposizione, in realtà nonè possibile comprendere l’uno ignorando l’altro, il cheè necessario ribadire nel presente contesto: «Il reper-torio d’immagini della cultura materiale aiuta a metterea fuoco l’oggetto perché concentra la nostra attenzio-ne sulla natura ricorrente della relazione: da un lato ilmondo materiale che condiziona (o genera?) le formeculturali, dall’altro un mondo culturale che rappre-senta (o ricrea?) gli aspetti materiali» (Wickham 2002,325-26). Il quadro dei riferimenti torna a incentrarsiperciò su dimensioni più propriamente storico-sociali,radicando la cultura materiale nei contesti territorialiche le sono propri: «Tutte le forme di azioni espressi-ve, che postulano schemi di valore condivisi social-mente (donde l’opportunità di non ridurre il culturaleal mentale), sono strettamente collegate con lo spazio,il luogo, il territorio, riferimenti spesso trascurati dal-la tradizione storiografica» (Grendi 1994, 544). Sono

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In questa direzione, la linea di pensiero può essere svi-luppata e articolata più in profondità. L’oggetto e lostrumento di lavoro appaiono infatti carichi di più si-gnificati, non esprimono solo una tecnica e una fun-zione, ma rispondono anche a scelte d’ordine cultura-le; essi hanno un significato sociale, oltre che estetico,e possono essere testimoni allo stesso tempo di un si-stema economico. Gli attrezzi di cui l’uomo si munisceper ottenere certi scopi, e dei manufatti costruiti persoddisfare dei bisogni, non significano insomma soloper quello a cui servono: «Essi, per il loro stesso modod’essere, per come devono essere costruiti e come de-vono essere usati, per le utilità che consentono e quel-le che escludono, si fanno portatori di una vasta seriedi scelte e potenzialità conoscitive, comportamentali eeconomiche» (Miceli 1980, 14). Ciò significa che, stu-diati in una dimensione semiotica, strumenti e mezzi dilavoro non svelano solo l’universo sociale di cui fannoparte ma rivelano anche il sapere in essi cristallizzato,le visioni del mondo, i modi in cui i loro produttorihanno concepito il mondo e su di esso sono interve-nuti. Gli attrezzi di cui una comunità si munisce ten-dono a farsi infine portatori di una vera e propriaWeltanschauung: «L’informazione infatti che gli ar-tefatti ci danno riguarda il modo in cui altri uomini pri-ma di noi – i produttori appunto di quegli oggetti –hanno concepito e organizzato il mondo e sono inter-venuti su di esso» (ibidem).In questa stessa prospettiva, di semiotica della cultura,uno strumento di lavoro non è solo segno di se stesso,ma rimanda alle «competenze» di colui o coloro che lousano, ai rapporti sociali che si instaurano e alle realtàeconomiche in cui si inserisce. Tornano familiari le no-te pagine marxiane: «L’uso e la creazione dei mezzi di

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cazioni primitive non costituiscono delle singolarità ec-cezionali, senza analogia con quelle in atto tra i popo-li più civili; sembrano al contrario riallacciarsi, senza so-luzione di continuità, alle prime classificazioni scien-tifiche». Interessante è la conclusione cui pervengono:«Le cognizioni da cui dipendono queste antichissimeclassificazioni hanno senz’altro svolto un ruolo im-portante nella genesi della funzione classificatrice in ge-nerale. Ora, risulta da tutto questo studio che siffattecondizioni sono di natura sociale. Lungi dall’ammettereche siano state le relazioni logiche delle cose a serviredi base alle relazioni sociali degli uomini, risulta che so-no state queste a far da prototipo a quelle». E ribadi-scono subito dopo: «La società non è stata semplice-mente un modello secondo il quale avrebbe lavorato ilpensiero classificatore, sono i suoi quadri che son ser-viti da quadri al sistema. Le prime categorie logiche so-no state categorie sociali, le prime classi di cose sonostate classi di uomini in cui sono state integrate questecose» (1976a, 134-36).Non diverse ma complementari, in riferimento allepratiche di nomadismo eschimesi, sono le considera-zioni espresse nel saggio intorno alle Variations sai-sonnières del 1904, scritto da Mauss e Henri Beuchatma chiaramente ispirato da Durkheim. Qui la vita so-ciale appare scandita dal ritmo delle attività produt-tive. Le relazioni si allacciano e si sospendono se-guendo una dinamica che articola i periodi dell’annosecondo le scadenze del calendario lavorativo in piùfasi: a) periodi di abbondanza (dopo la raccolta deiprodotti), b) tempi morti (le lunghe notti invernali deipaesi freddi), c) tempi di raccolta e di grande ricorsoalla manodopera, per portare a termine i lavori. «Lavita sociale tra gli Eschimesi – annotano gli autori –

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i riferimenti che, in una prospettiva sociologica cor-rettamente intesa e praticata, devono tornare a essererecuperati e adeguatamente valutati.

La sociologia e le sociologie: quale spazio per la culturamateriale?

Quale e quanto spazio la sociologia ha riservato alla cul-tura materiale? La risposta non può che essere proble-matica e controversa a un tempo. Negli ultimi annidell’Ottocento, mentre perdura l’interesse degli storiciper i fatti individuali ed eccezionali, la nascente socio-logia scientifica si caratterizza per l’attenzione rivolta aifenomeni socioculturali collettivi e ricorrenti, tratti benpresto riconosciuti come propri della cultura materiale.Il riferimento va, in primo luogo, alla sociologia diEmile Durkheim, vera e propria «socioetnologia» per lepertinenze che andavano ben oltre ristretti ambiti spe-cialistici e ne lambivano molti di quelli ormai da tempoassegnati all’odierna antropologia culturale. Anche se lostudioso finirà col privilegiare l’analisi delle manifesta-zioni simboliche delle culture, ne La division du travail so-cial (1893) ribadisce in più luoghi la connessione fra di-visione sociale del lavoro e crescita del bagaglio tecnicodisponibile. Per non dire che riafferma più volte l’o-rientamento in numerosi saggi dell’Année sociologique,prendendo in carico i fenomeni socioculturali nella lorocomplessità e non trascurando dunque le componentimateriali delle culture: tale è il caso di articoli scritti incollaborazione con gli allievi e, in particolare, del saggiodel 1902 sulle Classifications. Riflettendo su alcune forme primitive di classifica-zione, Durkheim e Mauss rilevano come «le classifi-

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gnato ad osservare con grande attenzione i più minu-scoli particolari della vita materiale dei contadini e de-gli operai.Ma che cosa è accaduto da allora nella direzione in-trapresa? In un contributo dedicato alle «società contadine»(che sono poi quelle di più immediato riferimento perla cultura materiale) lo storico tedesco Werner Rosenerrileva come la ricerca sulle società contadine abbiaregistrato un grande sviluppo negli ultimi tempi. Ri-ferendosi alle sollecitazioni provenienti dallo studio del-le società del Terzo Mondo (dove i contadini sono an-cora la maggioranza della popolazione) e dal disgregarsidegli imperi coloniali in Africa e in Asia, nota inoltrecome si sia assistito al ridestarsi di un particolare in-teresse dell’Occidente industrializzato per il propriopassato contadino. Il cambiamento segnalato è avve-nuto però solo di recente mentre, tra i pochi autori chese ne sono occupati, è prevalsa per lungo tempo «latendenza ad una trasfigurazione romantica del mondorurale del passato, ad una idealizzazione dei contadini,della loro cultura e delle loro forme sociali, ad unrimpianto nostalgico per forme di vita perdute irri-mediabilmente» (1998, 122).Le cose non sono andate diversamente nel nostro pae-se. Nella nota bibliografica che accompagna una rac-colta di testi sulla «civiltà contadina», Gilberto A.Marselli rileva la scarsità di contributi al riguardo e os-serva come «gran parte della letteratura disponibile siaprevalentemente in lingua straniera». Fanno eccezione«alcune pubblicazioni relative a ricerche empiriche sucasi e problemi concreti della nostra realtà agricola o –sia pure in un diverso contesto – alle inchieste parla-mentari condotte dall’Unità a oggi: a partire dall’in-

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passa attraverso una specie di ritmo regolare. Essanon è, nelle diverse stagioni dell’anno, uguale a sestessa. Ha un momento di apogeo e uno di ipogeo…L’inverno è una stagione in cui la società, fortemen-te concentrata, è in uno stato cronico di efferve-scenza e di superattività. Poiché gli individui sonoravvicinati gli uni agli altri più strettamente, le azio-ni e le relazioni sociali sono più numerose, più legate,più continue… Inversamente in estate i legami socialisi rilasciano, le relazioni si fanno più rare… Vi ètutta la differenza che vi può essere tra un periodo diintensa socialità ed una fase di socialità languente edepressa» (1976, 228-29). Non diversa è la situazione nei paesi occidentali dove,da luglio in poi, la vita urbana entra in una fase di de-pressione, per effetto della dispersione estiva, mentrela vita rurale segue il cammino inverso. Ma ciò che quiinteressa è la conclusione cui gli autori pervengono:«Quando, sotto l’influenza di certe circostanze (gran-di pesche alla balena, grandi mercati), gli Eschimesi so-no portati a ravvicinarsi d’estate… ritornano tutte lecerimonie e le danze folli, i pasti e gli scambi pubbliciche ordinariamente comportano… La vita sociale, sot-to tutte le sue forme, morale, religiosa, giuridica, è fun-zione del suo substrato materiale, varia con questo sub-strato, cioè con la massa, la densità, la forma e lacomposizione dei raggruppamenti umani» (ivi, 232-33). È stato notato che un forte orientamento del genere,verso il mondo del lavoro nelle sue molteplici compo-nenti, era nello spirito del tempo: era l’epoca dei primisommovimenti delle classi operaie, delle internaziona-li socialiste, delle lotte per la Comune di Parigi cuiDurkheim e molti dei suoi allievi prendono parte daprotagonisti; del naturalismo di Zola, infine, impe-

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Due modi possibili di fare sociologia della cultura materiale

Nelle condizioni delineate, è possibile ritagliare unospazio per una «sociologia della cultura materiale»? Ese sì, in che senso? ed entro quali ambiti si può muo-vere? che genere di rapporti una sociologia della culturamateriale può intrattenere con la sociologia del lavoro?quali contatti con la sociologia urbana e rurale? equali infine con la sociologia della cultura?Cominciamo col rispondere alle ultime tre domande. Secerchiamo possibili connessioni con la prima, al cui cen-tro sta «lo studio dei modi di integrazione delle attivitàeconomiche nelle strutture della società», rileviamo co-me in essa convergano non solo gli studi sul mercatodel lavoro, sulla disoccupazione e sulle dinamiche sa-lariali, ma anche le ricerche sull’organizzazione dellavoro e sui rapporti che quest’ultima promuove (o su-bisce) con le innovazioni tecnologiche. Nella direzionetracciata, le diverse sociologie applicate hanno messo afuoco i mutamenti intervenuti nel sistema di fabbricanel corso del secolo appena passato, con l’introduzionedelle macchine, l’automazione e la robotica industria-le, nella successione di taylorismo, fordismo e ‘toyoti-smo’ (Cavalli 1998, 234-35). Un secondo ambito in cui cercare possibili collocazionie apparentamenti è quello proprio della sociologia del-l’ambiente e del territorio: la sociologia rurale ha pro-dotto diversi studi sulle trasformazioni sociali dellecampagne nel passaggio dall’antico al moderno, pur es-sendo stato in ambito urbano che si è prodotta la mag-gior parte delle ricerche (a partire dalle ricche e com-plesse indagini condotte dalla Scuola di Chicago).Ripercorrendo gli itinerari dei settori disciplinari ri-chiamati è dato constatare, però, un orientamento di

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chiesta Franchetti-Sonnino del 1875 sulle condizionidella Sicilia a quella più famosa di Jacini ultimata nel1885 per giungere, in epoca più recente, a quella di Vi-gorelli sulle ‘condizioni di miseria’ del 1954 o a quelladella commissione Medici sulle condizioni dei pastorisardi del 1971» (1973, 40).Tornando a Rosener, lo storico sostiene con decisioneche la responsabilità dell’oblio delle radici rurali del no-stro continente sia da addebitare agli studiosi delle so-cietà europee ai quali rimprovera di aver trascurato ilfatto che gran parte della popolazione europea è vissutanelle campagne sino a fine Ottocento, l’agricolturacostituendone la principale risorsa. «Con gli occhi ri-volti ai problemi della realtà contemporanea, sia gli sto-rici che i sociologi hanno per lungo tempo posto al cen-tro delle loro ricerche gli elementi distintivi della civiltàurbana e industriale. L’attenzione si è quindi focaliz-zata sugli sviluppi dell’industrializzazione, sull’espan-sione urbana, sull’ascesa della classe operaia e sulla na-scita di nuovi valori nella società industriale, mentre so-no stati trascurati i fenomeni della società agraria chela ha preceduta» (1998, 122). Storici e sociologi, ap-punto.Degli storici abbiamo detto. Quanto ai secondi, sononote le tendenze che hanno caratterizzato lo sviluppodella sociologia nel corso del Novecento: la prima èconsistita nella moltiplicazione dei paradigmi teorici edegli approcci metodologici; la seconda ha visto la so-ciologia espandersi nella ricerca empirica e applicata, ascapito dell’elaborazione teorica; la terza ha riguarda-to la sua articolazione in diverse branche settoriali,ognuna con una autonomia propria, anche se, specia-lizzandosi, essa ha visto indebolirsi le comunicazioni egli scambi tra le diverse sottodiscipline.

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resto, la cultura viene inserita di solito fra i tratti co-stitutivi della sociologia, relativamente alla quale èdato rintracciare una linea di pensiero centrale per ilnostro discorso. Attraverso un recupero della definizione antropologica,ma in parte ridisegnandola, per «cultura» si intende un«patrimonio intellettuale e materiale... costituito da:a) valori, norme, definizioni, linguaggi, simboli, segni,modelli di comportamento, tecniche mentali e corporeeaventi funzione cognitiva, affettiva, valutativa, espres-siva, regolativa, manipolativa; b) le oggettivazioni, isupporti, i veicoli materiali o corporei degli stessi; c) imezzi materiali per la produzione e la riproduzione so-ciale dell’uomo». Essa viene prodotta e sviluppata per in-tero «attraverso il lavoro e l’interazione sociale, tra-smessa ed ereditata per la maggior parte dalle genera-zioni passate... e soltanto in piccola parte prodotta ori-ginalmente o modificata dalle generazioni viventi».Non è altro, infine, dalla realtà sociale ma ne costituisceun livello particolare: «La sua funzione precipua stanel designare e specificare un piano della realtà socialeche, per quanto sia strettamente intrecciato con il si-stema sociale e con i sistemi intrapsichici, appare distintoda essa nella coscienza sociale» (Gallino 1983, 188).Dal ridisegno sociologico del concetto antropologico dicultura emergono tre aspetti che conviene rilevare,sia pur sinteticamente:a) la cultura comprende «i mezzi materiali per la produ-zione e la riproduzione sociale dell’uomo»: nel coniuga-re il funzionalismo di Malinowski con l’organicismo diDurkheim si mette in primo piano la cultura materiale;b) essa «rappresenta un livello particolare della realtàsociale»: si conferma l’interesse per la cultura in quan-to fatto sociale;

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fondo: nel loro operare scientifico i sociologi hanno pri-vilegiato il moderno sul tradizionale, il mutamentosulla permanenza, l’urbano sul rurale, connotando va-riamente e talora trascurando il secondo termine dellacoppia. Se mai se ne sono occupati, lo hanno fatto conmolta circospezione, come se trattassero argomentitotalmente al di fuori dalle loro competenze e, se han-no coltivato ambiti vicini a quelli cui qui siamo inte-ressati, non hanno investito direttamente quelli piùpropri della cultura materiale: il lavoro tradizionale nel-le forme di produzione connesse all’artigianato e alle la-vorazioni manuali, all’agricoltura estensiva e alla pa-storizia transumante, ecc. La sociologia ha privilegiatoil lavoro industriale su quello manuale e ha finito per-ciò col darsi una sorta di statuto di scienza della societàindustriale: quanto ne esulava, non è stato giudicato de-gno di interesse ed è stato liquidato come arcaico e invia di sparizione. Né tutto questo è dovuto al caso, dalmomento che essa nasce al tempo della seconda rivo-luzione industriale e si ritaglia un ambito d’attenzionespecifico, rivolto in primo luogo alle società coinvoltenei processi di modernizzazione produttiva. Dati i percorsi segnalati non è difficile comprendere ledifficoltà, per una sociologia della cultura materiale, amuoversi nella direzione della sociologia del lavoro o diquella del territorio. Rimangono da esplorare le con-nessioni possibili con la grande area delle sociologie deiprocessi culturali, in cui convergono discipline diversema tutte apparentate dal fatto di studiare fenomeni si-tuati nella sfera della cultura, ma prodotti e connotatisocialmente. La dimensione culturale dei processi socialiè stata sempre tenuta presente nelle analisi e nelle ri-cerche empiriche, soprattutto in quelle condotte sulcampo, a contatto con gli attori sociali studiati. E, del

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trezzi e gli strumenti di lavoro. Una sociologia della cul-tura materiale, dunque, intesa come studio del lavoro tra-dizionale in una dimensione sociale: essa si ritaglia uncompito definito in tal senso nel momento in cui mettea fuoco i rapporti di produzione vigenti nell’antico la-tifondo o nel lavoro artigiano, nella pesca o negli im-pianti di estrazione del sale marino.Una «sociologia della cultura materiale» può praticarsianche in una seconda direzione, ritagliandosi un ambi-to più ristretto della sociologia della cultura, quale si èstoricamente delineata. Nelle realtà del nostro paeseche solo negli ultimi trent’anni sono state coinvolte inprocessi di mutamento, talora permanendo ancora in unafase di transizione, si è assistito ad opere di raccolta, do-cumentazione e riproposta della cultura materiale con-dotte da soggetti non istituzionali ma da docenti, politicie intellettuali a vario titolo: reperti destinati ad una ve-loce scomparsa sono stati assunti nel loro valore segnico,come testimonianze di un recente passato e hanno co-stituito altrettante occasioni per elaborare riflessioni eprodurre «eventi», allestendo mostre e musei o pro-muovendo pubblici dibattiti. Nell’insieme di azionipromosse da queste nuove figure riteniamo di poterindividuare un ambito particolare su cui è chiamata a ri-flettere la sociologia della cultura.

Per come si è configurata nei decenni trascorsi, la so-ciologia della cultura ha focalizzato l’attenzione sui rap-porti storicamente osservabili tra i sistemi sociali e leproduzioni culturali, da una parte, e le attività e gli in-teressi di coloro che li promuovono e li realizzano, dal-l’altra: attorno agli uni e agli altri le collettività si or-ganizzano e ne sono in qualche modo influenzate. Ilconcetto di cultura condiviso e praticato in quest’am-

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c) è prodotta dal «lavoro e dall’interazione sociale»: siconferma l’importanza della cultura materiale, basedi produzioni socioculturali più ampie e complesse.Nella direzione indicata si coglie l’importanza della di-stinzione tra cultura materiale e cultura non materiale, in-crociantisi a loro volta con le qualità di sostitutività/nonsostitutività. La cultura, in pratica, verrebbe elaboratae costruita nel tempo attraverso due distinte modalitàdi costruzione/creazione: una è di tipo cumulativo,l’altra di tipo sostitutivo. «Si ha una sostituzione di ele-menti culturali allorché nuove definizioni, nuove tec-niche mentali e corporee, nuovi manufatti... rendonoobsoleti [quelli preesistenti] superandoli per efficacia,utilità, valore d’uso, nel mentre stesso che li ingloba-no». Le tecnologie di produzione sono sostitutive,così come i mezzi di produzione e quelli di trasporto;non sono invece sostitutivi le espressioni artistiche, i si-stemi religiosi e filosofici. «Tutti gli elementi della cul-tura in generale o di una cultura specifica possonoquindi rapportarsi a quattro grandi classi di elementi:la cultura materiale sostitutiva (p. es. i mezzi di pro-duzione), la cultura materiale non sostitutiva (l’archi-tettura, le arti figurative), la cultura non materialesostitutiva (le scienze formali, la logica, la matematica),la cultura non materiale non sostitutiva (la musica, lanarrativa, la religione)» (ivi, 192-93).Dal quadro delineato può farsi discendere la proposta diuna «sociologia della cultura materiale», praticabile inuna direzione tesa a colmare la già richiamata lacuna so-ciologica relativamente alle realtà non industrializzate. Selo studio della cultura materiale rimanda all’universo dellavoro e alle tecniche nella loro connessione col sociale,è in seno alla sociologia che ci si può e si deve far caricodei rapporti sociali su cui si dispiegano le tecniche, gli at-

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l’economia politica, l’organizzatore di una nuova cul-tura, di un nuovo diritto». Il senso e il ruolo degli in-tellettuali risulta più chiaro nei brani successivi. Dopoaver precisato infatti che gli intellettuali ‘organici’così creati sono «specializzazioni» dell’attività primitivamessa in opera dalla nuova classe sociale, Gramsci os-serva che essi incontrano «categorie sociali preesi-stenti… rappresentanti una continuità storica inin-terrotta anche dai più complicati e radicali mutamen-ti delle forme sociali e politiche. La più tipica di que-ste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici, mo-nopolizzatori per lungo tempo di alcuni servizi im-portanti: l’ideologia religiosa cioè la filosofia e la scien-za dell’epoca, con la scuola, l’istruzione, la morale, lagiustizia, la beneficienza, l’assistenza» (1977, 3-5).In un passaggio successivo l’autore introduce una net-ta distinzione fra due tipi di intellettuali, gli uni di ti-po urbano, gli altri di tipo rurale: i primi «sono cresciuticon l’industria e sono legati alle sue fortune. La lorofunzione può essere paragonata a quella degli ufficialisubalterni nell’esercito: non hanno nessuna iniziativaautonoma nel costruire i piani; mettono in rapporto, ar-ticolandola, la massa strumentale con l’imprenditore,elaborano l’esecuzione immediata del piano di produ-zione». Gli intellettuali di tipo rurale, invece, appaio-no più legati alla tradizione, sono «legati alla massa so-ciale campagnola e piccolo borghese, di città (special-mente dei centri minori), non ancora elaborata e mes-sa in movimento dal sistema capitalistico: questo tipodi intellettuale mette in contatto la massa contadina conl’amministrazione statale o locale (avvocati, notai,ecc.) e per questa stessa ragione ha una grande funzionepolitico-sociale, perché la mediazione professionale èdifficilmente scindibile dalla mediazione politica».

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bito è diverso da quello dianzi rilevato: la cultura deisociologi, per come è stata intesa, non è perciò espres-sione di popoli o gruppi d’interesse etnologico, maprodotto di operatori culturali che, di mestiere, «pro-ducono cultura» oppure (come oggi si preferisce dire)«producono eventi» nella società di massa.Se sorvoliamo sugli apporti di Karl Mannheim e diMax Scheler (due classici della Kultursoziologie tedescadegli anni Venti e Trenta, più prossima in realtà alla so-ciologia della conoscenza), in quella che si configura apartire dagli anni Sessanta rientrano i fondamentalicontributi sull’industria culturale variamente ricon-ducibili a Edgar Morin per la Francia e a RaymondWilliams per la Gran Bretagna. Non c’è dubbio peròche al suo rinnovamento «hanno contribuito la diffu-sione degli studi sul pensiero di Gramsci, non solo inItalia ma pure in Francia e in Gran Bretagna, conl’attenzione che esso reca al ruolo degli intellettuali co-me produttori e mediatori di cultura ad uso della clas-se sociale da cui emergono o a cui si riferiscono; lo svi-luppo di una corrente strutturalista in seno al marxismo(Goldmann, Althusser); la crescita degli studi di se-miotica generale; la critica della cultura di massa degliesponenti della teoria critica della società» (ivi, 207). Le riflessioni che l’ideologo sardo dedica alla storia de-gli intellettuali e all’attività culturale in Italia sono al ri-guardo ricche di significato. Egli parte dalla constata-zione che «ogni gruppo sociale, nascendo sul terrenooriginario di una funzione essenziale nel mondo dellaproduzione economica, si crea insieme, organicamente,uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneitàe consapevolezza della propria funzione non solo nelcampo economico, ma anche in quello sociale e politi-co. [Tali sono] il tecnico dell’industria, lo scienziato del-

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Il latifondo e l’economia agropastorale

In questo capitolo, e nel successivo, proviamo a rico-struire il quadro sociale relativo ad alcune attività lavora-tive ancora vivaci in Sicilia nella seconda metà del Nove-cento: la prima in realtà è scomparsa già (o solo?) negli an-ni Sessanta, essendosi profondamente riorganizzata; laseconda sopravvive ancora in aree appartate e poco an-tropizzate, ma si avvia a scomparire perché ritenuta noncompatibile con la disciplina delle aree protette, e in ognicaso ormai non coerente con il nuovo quadro normativo direcente emanato dall’Unione Europea; la terza, infine, do-po aver superato le difficoltà dei decenni scorsi, si è rior-ganizzata in un nuovo contesto, ecocompatibile, sco-prendo nuove vie di commercializzazione. L’orientamen-to adottato vuol essere, naturalmente, quello proprio del-le ricerche di cultura materiale: partiamo dalle fasi lavo-rative in cui ogni ciclo si articola, concentriamo l’attenzionesulle tecniche e sugli strumenti di lavoro tradizionali (di cuiriportiamo per esteso le denominazioni dialettali, indici dispecificità locali); da qui facciamo discendere considerazioniche aiutino a ricostruire i rapporti sociali vigenti nelle di-verse realtà geografiche e produttive.

In Sicilia, più che in altre regioni, le zone costiere dasempre sono state realtà molto diverse da quelle

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Capitolo III

Sociologia del lavoro tradizionale:agricoltura e pastorizia nella Sicilia dei feudi

Proprio per la specifica collocazione degli intellettualidi tipo rurale, legati alla tradizione ma in condizioni diassolvere a funzioni politico-sociali, Gramsci attribui-sce loro, in determinate condizioni, il ruolo di pro-duttori e mediatori di cultura: «Ogni sviluppo organi-co delle masse contadine, fino a un certo punto, è le-gato ai movimenti degli intellettuali e ne dipende… Al-tro è il caso degli intellettuali urbani: i tecnici di fab-brica non esplicano alcuna funzione politica sulle loromasse strumentali, o almeno è questa una fase già su-perata; talvolta avviene proprio il contrario, che lemasse strumentali, almeno attraverso i loro propri in-tellettuali organici, esercitano un influsso politico suitecnici» (ivi, 11-12). Ne risulta in qualche modo legit-timata un’attenzione non più, o non solo, rivolta al-l’industria culturale in senso stretto, ma al complesso diattività e iniziative incentrate sulla cultura materiale ealle nuove figure che se ne sono fatte promotrici.

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Fino agli anni Cinquanta, quando il sistema cominciòa sfaldarsi velocemente, l’economia delle zone interneha continuato ad esprimersi anche in un artigianato diservizio all’agricoltura, prima che alla vita domestica.Tra l’una e l’altro si inserivano spesso attività agrico-le minori, come le colture legnose della vite e dell’uli-vo, e attività proprie di una borghesia rurale a serviziodi quel modo di produzione. Un modo di produzionefeudale e, non a caso, il latifondo era denominato colcorrispondente dialettale di feudo (fiéu), caratterizza-to com’era da specifici tratti ambientali, sociali edeconomici. «Il termine non fa riferimento soltantoalla grande estensione della proprietà, ma anche allecondizioni ambientali e territoriali che la caratteriz-zano: l’assenza quasi assoluta di fabbricati e di pian-tagioni legnose, la deficiente o inesistente viabilità, lascarsezza d’acqua, la mancanza di popolazione resi-dente, i modi peculiari di produzione e di organizza-zione del lavoro che ne fanno un mondo remoto re-golato da leggi proprie» (ivi, 207).La monocultura granaria impoveriva le terre su cui insi-steva: il sistema della rotazione delle colture si rivelava co-sì una pratica essenziale al riproporsi negli anni della pro-duzione cerealicola. La rotazione più diffusa era a ca-denza triennale (ed era perciò detta tirzirìa), ma poteva es-sere quadriennale, e persino quinquennale nelle terrepiù povere. Le vaste estensioni di terra venivano divisein almeno tre vaste superfici (dette trizzati): la prima eralasciata a riposo (si diceva lassari sanu u turreni), destinataal pascolo per essere ceduta quindi ai pastori; nella se-conda si coltivavano leguminose da granella (soprattuttofave, nel qual caso si diceva: fari a favata) o prati di fo-raggio, veccia o sulla (fari a suddata); nella terza si semi-nava il grano. L’anno successivo nella porzione prima a

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dell’interno: lì prevalevano le colture intensive esi insediarono le prime attività industriali, mentrequi continuava a permanere la coltivazione estensi-va del grano e delle leguminose alternata alla pa-storizia. Le aree collinari dell’interno sono statecaratterizzate per secoli dalla schiacciante egemoniadel latifondo, realtà prima di tutto ambientale: lecolline dell’interno, costituite in gran parte di argilla,sopportano infatti la coltura granaria meglio delle al-tre, anche se «si fan compatte e impermeabili sottole piogge invernali, o si inaridiscono e si spaccano inenormi fenditure sotto i forti calori estivi: l’acquad’inverno tende a far marcire le sementi, e la com-pattezza del suolo a soffocarle; e d’estate la siccitàtende a isterilire il grano ancora in erba, ad avviz-zirne le spighe e a rovinarne l’apparato radicale» (Pe-cora 1974, 27).Ma il latifondo è anche una realtà sociale, culturale edeconomica. «All’interno di questa struttura si sonopotuti perpetuare nel tempo arcaici rapporti socialidi produzione e tecniche colturali estremamente re-gredite, il cui quadro è stato sconvolto soltanto intempi recentissimi dalle lotte contadine del dopo-guerra, dalla sia pur lenta e ritardata diffusione deimezzi meccanici, ma soprattutto da un continuo flus-so migratorio» (Nicosia 1980, 205). Il latifondo davaorigine a un’economia propria, di tipo appunto agro-pastorale, ma anche a specifiche situazioni culturali.Buona parte della cultura tradizionale isolana, popolareo meno che fosse, si è venuta conformando, infatti, sullatifondo: il sostanziale conservatorismo dei proverbi,lo spirito di rassegnazione rilevabile nei racconti, la le-gittimazione del «padrone»... sono tutti tratti culturalidi ascendenza latifondista.

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coordinamento e controllo della produzione, più cheluogo di produzione essa stessa. Al suo interno non sisvolgevano operazioni agricole e i suoi locali funge-vano da magazzini o centri contabili. Insediamento ti-pico del latifondo, essa era costituita da un cortile(bagghiu propriamente detto) e da edifici che lo cir-condavano lungo tre o quattro lati: quello centrale, di-rimpettaio all’ingresso ad arco, fungeva da dimora del-l’antico feudatario ed era perciò il più rifinito (a duepiani, con balcone e finestre, e con servizi adeguati);i due laterali non andavano oltre il piano terra, contetti spioventi verso l’interno, ed erano costituiti damagazzini, ripostigli per gli attrezzi, luoghi di lavo-razione dei prodotti di campagna (compresi frantoiper le olive e palmenti per l’uva). Il lato anteriorecomprendeva, oltre all’ingresso ad arco munito diun grande portone, locali destinati all’alloggio deibraccianti nei brevi periodi in cui prestavano il lorolavoro nel feudo.Casamenti di antichi feudi, alcune risalenti a secoli or-mai lontani, o complessi edilizi successivi, le masserieconservano ancora l’aspetto di luoghi fortificati, con al-te mura e poche finestre minuscole, elevate e munite diampie inferriate. Alcune resistono ancora alla sfidadel tempo, con attività e forme di vita quotidianariorganizzate in modi nuovi rispetto al passato: vipossono abitare stabilmente alcune famiglie le quali nehanno risistemato i locali principali, cambiandone de-stinazione d’uso; possono riproporsi come luoghi di in-sediamento stagionale, destinate al riposo di affittuarie mezzadri nel periodo dei lavori più intensi nei cam-pi; possono essere diventate, infine, vere e propriesedi stabili di allevamento bovino e ovino, finendo colrendere permanente e unica una funzione in origine so-

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riposo si coltivavano leguminose, nella seconda grano e laterza era lasciata a riposo. Il terzo anno si operava un ul-teriore spostamento, sì da permettere a ogni porzione diterra di arricchirsi di sostanze chimico-proteiche da im-piegare poi nella coltura dei cereali.Il sistema della rotazione triennale riusciva meglio d’al-tri a contemperare esigenze contraddittorie quali eranoquelle dei coltivatori e degli allevatori, rendendo perciòcomplementari pastorizia e agricoltura: con la primainfatti si forniva all’altra il concime organico necessarioe ciò consentiva di ricavare utili da terreni che doveva-no restare a riposo ogni tre anni per non esaurire le scar-se disponibilità energetiche. Ma la condizione più im-portante di sopravvivenza del sistema di produzioneagropastorale era l’abbondanza di manodopera. A met-tere in crisi il sistema non fu perciò la legge di Riformaagraria del 1950 che aboliva di fatto il latifondo (dopo lasua abolizione ufficiale nel 1812), ma fu l’emigrazione(attivatasi nel secondo dopoguerra e in veloce crescita fi-no agli anni Sessanta) con la conseguente desertificazionedelle campagne e l’abbandono delle terre coltivabili.La coltivazione dei cereali oggi resiste solo su grandiestensioni di terra e solo se può essere meccanizzata perintero, dalla semina alla trebbiatura. Si sono contratte fi-no a sparire le coltivazioni di fave (che pure entravanonella rotazione triennale) e lenticchie; si sono invece este-se le leguminose da foraggio, il fieno, il trifoglio e l’erbamedica, destinate agli allevamenti stabulari, principal-mente bovini.

Vera e propria testimonianza storica della vita e dellavoro negli antichi feudi dell’interno è la masseria(massarìa, ma in alcune province il termine per indi-carla è bagghiu), espressione del capitale e centro di

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ddisa e frasca). Il tutto veniva legato lungo strati suc-cessivi, partendo dalla base e ricoprendo l’intera im-palcatura. L’interno del pagghiaru presentava un rudi-mentale giaciglio (iazzu) fatto di rami di ginestra lega-ti a quattro pioli laterali e collegati tra loro da ramet-ti orizzontali. Alla trave sommitale, tramite cordicelle,era sospesa un’asse con il vitto, mentre rudimentali ta-voli, panche e pioli appendiabiti costituivano il corre-do della capanna, sul cui pavimento di terra era anchescavato un focolare (fucagnu).Le case di insediamento permanente erano costituite dauno o più fabbricati che venivano accostati l’uno al-l’altro man mano che mutavano le esigenze della fa-miglia che le abitava. Gli insediamenti familiari più po-veri si limitavano alla casa d’abitazione e a una stalla-magazzino, ma era frequente che, articolati in unità di-stinte, ci fossero stalla, pollaio e magazzino dei forag-gi (stadda, gaddinaru, pagghiera) e un recinto per animalicon una tettoia di riparo (appinnatu). Il complesso po-teva comprendere anche un forno per la panificazionesettimanale, in un corpo a parte, e un pozzo coperto dacupola emisferica con cisterna attigua: accanto stavanoun lavatoio di pietra o di legno (pila) e un recipiente cu-bico di pietra destinato ad abbeverare gli animali (sci-fu). L’ultimo elemento del nucleo abitativo era costi-tuito dal burgiu, deposito all’aperto di paglia o fieno, aforma prismatica, alto da 5 a 8 mt e con tetto a spio-venti di frasche o di argilla impastata con paglia.

La coltivazione del grano e delle leguminose

La coltivazione del grano nel latifondo aveva una dura-ta annuale e il suo articolarsi nel tempo costituiva una sor-

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lo parziale. Non è raro incontrare anche casine con pre-tese decorative, bene in vista su alture isolate, dimorepadronali dei tempi andati, dalle cui poche finestre ilfeudatario esercitava sui braccianti un controllo con-tinuo, ideologico prima che operativo: sparse lungo levallate dell’Imera, del Platani, dell’Alto e del Basso Be-lice, nelle zone delle Madonie digradanti verso il Nis-seno, nella piana di Catania e nelle colline degli Iblei,alcune sono ancora in buono stato anche se non piùabitate.Accanto alla masseria stavano talora dimore povere edessenziali che, singolarmente o a gruppi, erano sparsenel latifondo: luoghi di vita pulsante e vivace per alcunimesi all’anno, diventavano poi ambienti silenziosi equasi sempre chiusi in attesa del ritorno. L’agglomerato(indicato col nome generico de i casi) era costituito dadiversi tipi di abitazioni; tra di esse spiccavano però lecapanne di paglia (i pagghiari), accostate l’una all’altrao isolate nelle vaste distese e presenti ancora in grannumero fino ai primi anni Sessanta. Esse erano costi-tuite essenzialmente di due parti: una base di muri asecco alti fino a mt 1,50 nella quale si ricavava l’a-pertura di accesso, munita di porta di legno o di arbustiintrecciati; una copertura di erbe e arbusti sistemati suun’intelaiatura di rami. Sul muretto di base, di formaquadrangolare (mt 4-5 di lato) o rettangolare (mt 7-9per 10-12), si sistemavano rami d’albero sfrondati divaria lunghezza e spessore (fracuna, palacciuna, stacci dicersa o di muddìa, a seconda del tipo di legno), legati traloro in testa con fil di ferro o fibre vegetali. Su di es-si si sistemavano le canne che formavano nell’insiemeun’impalcatura conica o prismatica e vi si distribuiva-no in modo uniforme e in senso verticale erbe spon-tanee e arbusti di macchia mediterranea (canneddi,

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gno, l’aratro vero e proprio era costituito da un bloc-co di legno massiccio, ricurvo a forma di angolo ot-tuso, squadrato nella parte centrale e assottigliatoverso l’estremità in cui si inseriva il vomere; la bure(percia), trave lunga e sottile, collegava l’aratro algiogo, scorrendo parallelamente ai due animali datraino; il giogo (iuvu) stava poggiato sul dorso deimuli e la stabilità dell’attacco era assicurata da un mi-nuscolo basto (vardunieddu) o da un basto con sche-letro esterno in ferro (sidduni).

La semina. Le operazioni di semina avevano luogo nonprima di novembre inoltrato, dopo che il terreno erastato adeguatamente cunzatu dall’esposizione al sole esuccessivamente all’acqua oltre che dalla distribuzionedi concime organico (grassura) nell’appezzamento di ter-ra. Si adottavano due sistemi di semina: il primo, det-to a spagghiu, consisteva nello spandere a semicerchiochicchi di grano chiusi in pugno e prelevati ogni voltada una borsa di palma nana (coffa) che il seminatore te-neva a tracolla. Il secondo sistema consentiva una se-mina più accurata e uniforme ed era detto a ssurcu: ri-servato alle leguminose da granella (fave e lenticchie),veniva praticato da una coppia di contadini, uno deiquali apriva un solco e l’altro vi depositava il seme; ilsolco di ritorno preparava la traccia per la nuova se-mente e al tempo stesso ricopriva il solco già seminato.Alla semina seguivano i lavori stagionali di ripulituradel terreno, compendiabili in almeno tre interventi: ilprimo riguardava i campi coltivati a fave e consistevanel rialzare la terra attorno alla piantina ormai in fasedi crescita (arrifùnniri); il secondo (scirbari) consistevanello svellere, con la zappetta a febbraio e a mano adaprile, le erbacce infestanti cresciute in mezzo al grano

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ta di scansione dell’anno: dai lavori da effettuare nel cam-po di grano il contadino e la sua famiglia facevano di-pendere infatti tutte le altre attività agricole. Settembrecostituiva il primo mese dell’anno agrario, quello in cuiiniziavano le attività di aratura e dal quale entravano invigore i rapporti di lavoro tra proprietario terriero (o af-fittuario, come il gabelloto) e prestatori d’opera, impiegatiannuali (annaluori), mezzadri o compartecipanti (mitatieri).

L’aratura costituiva il momento iniziale del lungo ciclodi produzione del grano dopo che si era proceduto aduna pratica (vruscari) funzionale a quel modo di pro-duzione: bruciare le ristoppie rimaste nei campi dopola mietitura e l’eventuale pascolo. Essa si svolgeva indue o tre tempi e veniva intrapresa nel mese di set-tembre, subito dopo le prime piogge che interrompe-vano la lunga siccità estiva. In un primo momento sisolcava la terra in senso diagonale partendo da un an-golo dell’appezzamento e rompendo le zolle d’argilla(çiaccari u turreni); dopo una decina di giorni si ripas-sava l’aratro sul terreno, tracciando dei solchi per-pendicolari ai primi e dunque doppiandoli (arrifùnnirio dubbulari); raramente si ripassava una terza volta, ameno che certe condizioni non richiedessero di risi-stemare il terreno (ritrizzari). Il modo di orientare i sol-chi era strettamente dipendente dalla successiva se-mina: quando i terreni si configuravano secondo lineedi pendenza più o meno accentuate, ad esempio, eranecessario che i solchi si muovessero in senso diagonaleper agevolare le successive operazioni.L’aratro in uso fino a quando il sistema cominciò asfaldarsi fu l’aratro a chiodo (aratu), munito di vomeredi ferro e trainato da una coppia di muli. Formato datre parti distinte, tutte in legno di quercia o di casta-

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Il «corredo» del mietitore era costituito dalla falce (fa-ci) con lama dentata lunga 40-50 cm, apice appuntito ecorta impugnatura di legno di frassino. A difesa delledita si usavano dei ditali di canna, tagliati obliquamentefino all’altezza della prima falange, per consentireun’adeguata mobilità. L’abbigliamento era costituito dacamicia e pantaloni leggeri, pettorale (pittera) di olonao di cuoio di forma quadrangolare, sospeso al collo e al-lacciato posteriormente all’altezza del cinto, vrazzali diolona infilato nel braccio destro a protezione dellostesso. Se il grano era stato seminato a solchi la di-stribuzione del lavoro tra i mietitori era fatta in modotale che ognuno seguisse tre o quattro filari per volta;se invece il grano era stato seminato a spaglio, la di-stribuzione risultava meno ordinata e il gruppo si spo-stava collettivamente in varie direzioni. Il mietitore co-minciava con l’isolare un congruo numero di steli digrano con la falce, lo stringeva con la mano sinistra e ti-rava na faciata, cioè tirava rapidamente a sé la falce emieteva. Ripetendo più volte lo stesso gesto formavaun mazzo di spighe che il mietitore stringeva nel brac-cio sinistro e quindi deponeva per terra dopo averlo an-nodato con gli stessi gambi di frumento. Il mazzo co-sì deposto costituiva un mienzu ièrmitu su cui un altromietitore, procedendo di conserva col primo, ne pog-giava un secondo sì da formare un ièrmitu intero.Il gruppo dei mietitori era accompagnato dal liaturi cheteneva al cinto un fascio di liami (cinghie di fibre ve-getali di ampelodesma – ddisa – preparate con cura sindalla tarda primavera). Il compito del liaturi era quel-lo di raccogliere i fasci di grano lasciati per terra dallecoppie di mietitori e formare i covoni raccogliendoli agruppi di sette o di nove per volta. Il suo lavoro eraagevolato dal ricorso a due strumenti: l’ancinu e l’an-

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o alle leguminose; il terzo infine (zzappuliari) consistevanel rimuovere la terra incrostata durante le piogge in-vernali dopo che si erano tracciati dei solchi (fari i sur-chi) nei terreni in forte pendenza per convogliarvil’acqua piovana

La mietitura manuale del grano, tra la seconda decadedi giugno e la seconda di luglio, prevedeva per ognicomprensorio un periodo di lavoro intenso e concen-trato in un breve arco di tempo (da una a due setti-mane): era questo infatti il periodo in cui il grano (u la-vuri), secco al punto giusto per consentire una buonatrebbiatura, resisteva senza strasiccari, sgranandosi co-sì le spighe dai gambi e perdendo flessibilità all’atto delmietere. Il periodo ideale per la mietitura giungeva intempi diversi in dipendenza dell’altura del terrenocoltivato, della sua esposizione e dell’andamento cli-matico della stagione. Questo fatto consentiva ai con-tadini piccoli proprietari di effettuare delle prestazio-ni lavorative di reciproco scambio, operando alla spic-ciolata e costituendo piccoli gruppi di cui facevano par-te anche le componenti femminili del nucleo familiare.Ma nei grossi latifondi comportava la richiesta, con-centrata in brevissimo tempo, di grandi quantità di ma-nodopera: lavoratori stagionali migranti partivano per-ciò a giugno dalle campagne dell’Agrigentino e risali-vano la Sicilia dell’interno fino alle alture delle Ma-donie. I prestatori d’opera si organizzavano in squadreformate da otto mietitori e da un addetto a legare i co-voni; il punto di attacco di un campo di grano venivastabilito in relazione alla disposizione del terreno (si co-minciava infatti sempre dal basso) e all’inclinazione chei venti estivi avevano fatto assumere alle spighe (pro-cedendo dal lato opposto all’incurvatura dei gambi).

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sottile strato di frasche. Munita di una stretta aperturarivolta ad oriente, la loggia offriva riparo ai bambini dairaggi del sole e custodia al cibo da consumare nelle di-verse ore del giorno. L’aia (di forma circolare e larga10-15 mt) era sistemata nel punto del terreno piùesposto ai venti e, possibilmente, nei pressi del campodi grano da trebbiare. Si preferiva utilizzare quella del-l’anno precedente perché apprestarne una nuova, senon ce ne erano di disponibili, richiedeva una serie diinterventi: per la ripulitura dalle erbacce e la frantu-mazione delle zolle, per il compattamento del terrenoe la frequente spruzzatura d’acqua si arrivavano a im-piegare anche due giornate di intenso lavoro.Preliminare alle operazioni di trebbiatura era il tra-sporto dei covoni di grano, già sparsi per i campi agruppi di sei (essendo questa la quantità caricabile adorso di mulo). Nelle grosse aziende era in uso una slit-ta con ripiano orizzontale e aste laterali unite allasommità, trainata dai buoi: era detta stràula, e strauliariera il termine per indicare il trasporto. Quest’ultimo sieffettuava nelle ultime ore della notte, prima chespuntasse il sole ad asciugare l’umidità notturna: i co-voni venivano sistemati in modo uniforme su tutta lasuperficie disponibile dell’aia e venivano liberati dalleliami. La trebbiatura (a pisata) cominciava non primadelle dieci del mattino, allorché l’umidità notturnaera evaporata e le spighe erano state ben riscaldate dalsole. Il pisaturi, col capo coperto da un fazzoletto ros-so legato per le punte e da un berretto o da un cappellodi paglia a larghe falde, si disponeva al centro dell’aiae faceva entrare uno o due animali. Tenendoli per le re-dini e con la mano destra maneggiando un bastone concordicella terminale (zzotta) per incitare gli animali, eglili faceva girare a piccolo trotto, avanzando di un pas-

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cinedda. Il primo era un grosso uncino di ferro, lata-mente somigliante a una falce, dalla forma allungata; ilsecondo strumento era invece una forca di legno di no-ce o di mandorlo, lunga circa un metro e divaricata aforma di Y. Raccolti i primi quattro ièrmiti con l’ancinue infilatili nell’ancinedda, il legatore appoggiava il fasciosulla gamba destra, sfilava una liama, la stendeva sulterreno e vi depositava il mezzo covone così formato.Ripeteva la stessa operazione per formare un altromezzo covone e, nell’appoggiarlo sul primo, stringevail tutto con l’ancinedda posta a cavallo del covone.Infine afferrava i due capi estremi della liama, premevail ginocchio sulla sommità del covone liberandosi del-l’ancinedda, attorcigliava tra di loro i due capi e li in-castrava sotto la liama ormai tesa. I covoni (gregni), ri-sultanti da questo complesso lavoro di coordinamentodi uomini e braccia umane, venivano sparsi sul terreno,disposti a gruppi per agevolare le successive opera-zioni di carico su animali da soma e trasporto sul luo-go della trebbiatura.

La trebbiatura tradizionale del grano si effettuava ri-correndo ad animali equini che con gli zoccoli batte-vano le spighe sistemate sull’aia. L’ultima fase del cicloproduttivo richiedeva un grosso impegno a cui eranochiamati quasi tutti i membri della famiglia contadina,ognuno adibito a compiti e prestazioni ben definiti. Peralcuni giorni di seguito l’aia (aria) diventava il luogodella vita e del lavoro collettivo, dove si consumavanoi pasti e si trascorrevano le ore notturne, vigilando aturno sull’aria ‘mpianta. Per questo motivo, in assenzadi ripari duraturi, i contadini usavano costruire una ru-dimentale capanna conica costituita da pali e canne in-fissi sul terreno, legati alla sommità e ricoperti da un

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grano al centro dell’aia, sottoposto in seguito al vagliodi un setaccio (un crivu d’aria, a maglia larga) chetratteneva i residui di spighe non frantumate e lascia-va passare i chicchi di grano. Un ulteriore vaglio era af-fidato al crivu d’uocchi, a maglia stretta, che trattene-va il grano lasciando cadere la polvere. Per quest’ulti-mo complesso di operazioni si faceva ancora ricorso amanodopera femminile: i membri della famiglia delcontadino erano tutti impegnati chi a vagliare il grano,chi a porgerglielo dal mucchio, chi a raccogliere lespighe residue per sottoporle a battitura con un maz-zuolo di legno. Non era raro però che si ricorresse aprestatori d’opera muniti di grossi setacci sospesi a untreppiedi (trippuodu), agevolando così lo svolgersi del-l’operazione.

Il ciclo del grano si concludeva con la misurazione ela divisione del prodotto, il che ci riporta dal pianopuramente tecnico a quello più specificamente so-ciale. Il frumento annittatu veniva risistemato in uncumulo al centro dell’aia e misurato con un recipien-te cilindrico della capacità di 16 kg (tùmminu), quin-di sistemato in sacchi di iuta o di tela di quattrotùmmina ognuno e trasferito nei magazzini padro-nali o portato nella casa del contadino. Qui, in as-senza di contenitori di legno, stava dentro cilindri dicanna senza fondo alti circa due metri (cannizza),tenuti in luoghi asciutti e ventilati. Nel caso in cuifosse stato il mezzadro ad aver lavorato nelle terre diun grosso proprietario terriero la misurazione delgrano prodotto era invece molto complicata, essendoi rapporti di lavoro regolati da pesanti consuetudiniagrarie: ultimata la trebbiatura e prima di procederealla divisione del prodotto veniva effettuato il prelievo

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so ad ogni giro in modo da coprire l’intera estensionedell’aia (tagghiari l’aria) e facendo loro invertire ognitanto il senso di marcia. Mentre controllava il movi-mento degli animali, infine, eseguiva brevi cantilene oinvocazioni, allo scopo di incitare gli animali al trotto,ma anche di scandire il ritmo di lavoro.L’intera pisata si articolava in tre momenti: la primacacciata durava circa un’ora e si concludeva quando sierano sgranate le spighe dello strato superiore. Porta-ti fuori gli animali, i contadini che vigilavano sulla pi-sata riaccostavano al centro dell’aia le spighe fuoriusciterivoltando i residui dei covoni di grano (vutari l’aria).Seguiva la seconda cacciata che si concludeva conun’altra vutata, cui seguiva una breve cacciata finale.Alla pisata, effettuata nelle ore più calde del giorno, se-guiva la spagghiata, consistente nel lanciare in aria lapoltiglia di grano, pula e paglia per separare il primodalle altre sfruttando l’azione del vento. Per questo mo-tivo era necessario che spirasse un vento regolare,possibilmente di tramontana, frequente nelle ore po-meridiane. Muniti di tridenti di legno, cinque o seicontadini si disponevano sull’aia in posizione perpen-dicolare alla direzione del vento. A conclusione dellaspagghiata, la paglia risultava tutta sospinta al limiteesterno dell’aia, sistemata in un cumulo a forma dimezzaluna (pagghiarizzu). Il lavoro si concludeva altramonto, quando la paglia era tutta raccolta (nni-sciuta) e rimaneva al suolo il grano misto al bastardu(pula, polvere, ecc.).Seguivano le operazioni intese comunemente col ter-mine annittari, le quali cominciavano con il lanciocontrovento dei chicchi di grano, per liberarlo dalle ul-time impurità, tramite una pala di legno (perciò l’o-perazione era detta paliari). Si formava un mucchio di

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anche su terreni in forte pendenza, falciano il granomeccanicamente e lo trebbiano, senza ricorso ad altramanodopera che non siano il conduttore e un aiutanteche gli sta dietro. Sempre più spesso, ormai, le attivitàdella mietitura e della trebbiatura si portano a terminein qualche ora: sono perciò lontani i tempi in cui tral’una e l’altra operazione passavano settimane di in-tenso lavoro.

La pastorizia e le ragioni dell’ambiente

Per lo meno dal tempo degli Aragonesi, cui si deve unaprofonda riorganizzazione delle attività pastorali nelMezzogiorno d’Italia, i rilievi della Sicilia costitui-scono i poli di un movimento periodico dalla montagnaal piano e viceversa. A fronte della ridotta presenza diattrezzi e mezzi di lavorazione, i segni che la pastorizialascia riprodotti sul paesaggio sono numerosi e talora in-delebili nei secoli. Nei mesi estivi l’attività pastorale la-scia tracce ben visibili in montagna, tracce che nei me-si successivi hanno tutto il tempo di deperire, se non disparire del tutto. Sono segni insicuri e instabili, perchésono precarie e limitate nel tempo le attività di cui so-no espressione. I luoghi di ricovero e di caseificazionecostituiscono perciò testimonianze della presenza deipastori che rimangono nelle distese pascolative al di làdel limitato periodo del loro sfruttamento. A chi giraper i monti in primavera, accade di ritrovarsi davantia capanne semidistrutte, con porte spalancate e fraschedi copertura imputridite, recinti diroccati: sembranotracce d’insediamenti abbandonati da decenni e risal-gono invece all’estate precedente, destinati a essererioccupati nei mesi a venire.

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di una serie di diritti che sarebbe lungo citare, si pas-sava alla restituzione al padrone degli anticipi ricevutiin corso d’anno e infine si giungeva alla divisione delprodotto rimasto in parti uguali o in proporzioni del60 e del 40% (Cancila 1980). Sul finire degli anni Cinquanta, una forma rudimentaledi meccanizzazione si diffuse per le campagne isolane:ci riferiamo alla trebbiatrice meccanica (a trebbia), le cuicomponenti venivano attivate da una trattrice agrico-la collegata attraverso una lunga cinghia e posta a di-stanza di venti metri circa. Le trebbiatrici appartene-vano a singoli imprenditori di servizio all’agricoltura,i quali disponevano anche di trattrici e di altri poverimacchinari agricoli. Si spostavano da una località al-l’altra, partendo dalle zone meridionali dell’Isola, egiungevano sulle alture settentrionali verso la secondametà di luglio. Prendevano posto in vasti pianori dovegià da giorni erano sistemati in posta grandi quantità dicovoni di grano da trebbiare: contadini con mogli ebambini stavano a fare la guardia notte e giorno finchégiungeva la trebbia, trainata dalla trattrice cingolata, earrivava il loro turno. Accanto ai tecnici, stavano at-torno alla trebbiatrice molti altri soggetti: famiglieintere, gente che si offriva di tenere i sacchi da riem-pire di grano, ricevendone un modico compenso, poveriche chiedevano l’elemosina, donne che tornavano daspigolare e si mettevano a turno in attesa di trebbiareil magro raccolto. Intorno alla trebbia si formava in-somma tutto un mondo di popolazione marginale, fe-lice di poter finalmente accedere al raccolto annuale. Ilricorso alle trebbiatrici meccaniche non è durato mol-to. Risale infatti alla seconda metà degli anni Settantala sempre maggiore diffusione di mietitrebbiatrici se-moventi e autolivellanti che si spostano senza difficoltà

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stretto passaggio, comunica con il più piccolo riserva-to agli agnelli (para); un altro recinto è riservato alle ca-pre, con alte piante spinose collocate sopra i muretti dipietra; un minuscolo riparo al coperto (ciarviddaru) è de-stinato ai capretti neonati; se si pratica allevamento dibovini, recinti di diversa conformazione sono destinatiagli animali adulti (parcu) e ai relativi vitelli (zzàccanu). Costruiti in zone poste al riparo del vento freddo ditramontana, i recinti sono esposti ai raggi del sole na-scente, per affrettare l’evaporazione dell’umidità not-turna, e in pendenza, per favorire lo smaltimento dei li-quami. Di misure variabili, dai dieci ai trenta metri didiametro, essi sono variamente delimitati: su una basecon muretti di pietre a secco, alta mt 1-1,20, stanno ta-lora sistemati rami di ginestra spinosa o di susino sel-vatico, ma i recinti di tale tipologia costruttiva di-ventano oggi sempre più rari. I pastori fanno semprepiù ricorso a pali di legno piantati per terra e avvolti dafil di ferro o filo spinato: ad essi intrecciano rami e ar-busti del luogo, incrociati sì da formare una rete altadai 120 ai 150 cm da terra. L’ingresso al recinto è pra-ticato nella parte che dà verso valle ed è munito di unaporta di assi di legno inchiodati trasversalmente o dinodosi rami di ginestra intrecciati. Lungo il murettoesposto verso monte sono praticati dei passaggi parti-colari (i vadili), utilizzati per la mungitura di animali dipiccola taglia. Il modo in cui essi sono conformaticonsente ai pastori addetti di immobilizzare gli animalial rientro serale e mungerli prima di lasciarli andare li-beri verso altri recinti. Quanto alla capanna, essa è destinata al ricovero dei pa-stori, che in passato erano soliti pernottare nel màrcatu,ma funge più spesso da zammatarìa, luogo riservato allalavorazione dei latticini: ha dimensioni più piccole di

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Costruzioni in muratura si incontrano solo nei piano-ri sedi di insediamento stagionale ormai da lungo tem-po: la toponomastica, anche solo quella registrata sul-le carte militari, ne offre abbondanti testimonianze. Lospostamento continuo di uomini e animali, alla ricercadi erba fresca (tale essendo anche il nomadismo addo-mesticato con cui si identifica la transumanza meri-dionale), non rende conveniente approntare ovili in mu-ratura in tutte le aree in cui si fa tappa durante i tra-sferimenti, anche perché questi avvengono per lo più suterreni presi in affitto. Si utilizzano perciò locali e ri-coveri preesistenti (come nel caso delle masserie dicollina) oppure ci si limita a risistemare capanne di pa-glia e altri ricoveri effimeri. È ancora il caso di segna-lare che i pastori fanno poco ricorso a risorse che nonsiano del luogo: pietre e massi, arbusti e rami d’albero,erbe e frasche, pelli d’animali e lana, fango e cenere.

I luoghi di ricovero degli animali che si incontrano inprevalenza nelle aree sommitali si articolano in due set-tori: il complesso dei recinti entro cui stanno rinchiu-si gli animali nelle ore notturne; una capanna di paglia(pagghiaru) che, quasi addossata ai recinti, funge da ri-paro per i pastori e presenta una zona attigua dove sicaseifica; una tettoia sopraelevata di frasche o lamiera,usata come deposito delle forme di cacio appena lavo-rate. Il complesso dei recinti, della capanna e dei luo-ghi destinati alla caseificazione prende il nome di màr-catu e si trova al centro dell’area pascolativa presceltaper la stagione, in vicinanza di punti d’acqua (bevai,sorgenti, fontane...). I recinti all’interno del màrcatu so-no diversi, ognuno individuato da un nome proprio edestinato a ospitare animali di diversa età o condizio-ne: il più grande è chiamato mànnara e, tramite uno

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Parlando di pastorizia transumante, un’attività che si rea-lizza nel movimento continuo da un pascolo all’altro,non possiamo non accennare infine a quelli che diciamoi «segni della mobilità». I sentieri, spesso visibili a ma-lapena, non sono quasi mai segnati dall’uomo in altamontagna, ma bensì dagli animali: lungo i ripidi versanti,questi si dispongono in lunghe file dietro il capro-guidafinendo col creare sottili piste di terra battuta che ven-gono cancellate solo al sopravvenire delle nevi inverna-li. Segni più importanti della mobilità sono le trazzere:risalenti a tempi remoti, destinate alle greggi transumantigià al tempo degli Aragonesi, sono ancora segnate sullemappe catastali, ma oggi sono per lo più trasformate inrotabili o ridotte a sentieri. Ad alta quota, invece, con-servano ancora le dimensioni originarie e costituisconopunti di snodo stabili per i sentieri che se ne dipartono.Col ritrarsi della pastorizia tradizionale, però, la ra-gnatela di trazzere e sentieri sta scomparendo: dovecircolavano greggi di centinaia di pecore, accade oggi diveder transitare mezzi fuoristrada con pastori a bordo;gli animali stanno sul rimorchio che li segue.

Le procedure di caseificazione, le mansioni e le gerarchie

Il curàtulu (il pastore più anziano, di solito anche il piùcapace e stimato) dirige il complesso delle operazioni dicaseificazione, quando non si impegna direttamente nellavoro. Nel latte appena munto e versato nella tina dilegno si aggiunge del presame di capretto (quagghiu, ri-cavato dal terzo stomaco) che fa precipitare la caseina.A circa mezz’ora dalla somministrazione del caglio, sene estrae una morbida pasta caseosa (tuma), dopo chesi è proceduto a romperla con una batterella (ruòtila).

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quelle presenti in passato nei vasti latifondi. All’internodel pagghiaru sono sistemati: un rudimentale giaciglio(iazzu o ghittena) di rami di ginestra legati a quattro pio-li laterali piantati nel pavimento e collegati da ramettiorizzontali; un ripiano di legno (tavulieri) utilizzato perla manipolazione dei latticini, con tutto il corredo distrumenti di lavoro necessari; un focolare al centro delpavimento e un furcatu, talora all’esterno della capanna,tronco d’albero con fronde tagliate e rami capitozzati,piantato per terra e munito di rametti o piolini cui at-taccare indumenti o attrezzi destinati alla caseificazione. I luoghi di caseificazione si articolano in tre settori: nelprimo (zammatarìa), ospitato nella capanna o in pove-ri rustici riattati ogni anno, si effettua il coagulo del lat-te dentro una tina di doghe di castagno e si pratica lamanipolazione della pasta caseosa (tuma) sul tavulieri.Il secondo, posto all’esterno, è costituito dal focolare eda un complesso di fornelli su cui si scalda il latte o siporta ad ebollizione il siero. Il terzo, infine, è costituitoda appositi contenitori di canne e rami di salici in-trecciati e inchiodati su traverse di legno (appinnati):esposti all’aria e al vento, sopra alti pali piantati per ter-ra, vi si sistemano i latticini messi a scolare nei giornisuccessivi alla lavorazione. Il focolare più comune(furnaca) è sistemato al riparo dei venti, su superfici inpendenza con la parte posteriore scavata nel terreno el’apertura ricavata nella parte esposta a valle: la caldaia(quarara o quararuni, a seconda delle dimensioni) vienein tal modo interrata oppure accerchiata da un murettosemicircolare di pietre impastate di fango e cenere, alfine di evitare dispersioni di calore. A parte il fucagnudella capanna, utilizzato nei giorni di pioggia, un altrogenere di focolare è il cufuni, più semplice del prece-dente e non interrato ma sistemato su massi refrattari.

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il bastone del guardiano, la batterella per la tuma, le fi-scelle, le scope e gli scopini, sono tutti attrezzi in granparte autocostruiti e ricavati dai vegetali disponibilisul posto. La presenza molto limitata del metallo nellatecnologia pastorale, la sua tarda introduzione, in ognicaso, sono in gran parte dovute alle distanze degli in-sediamenti pastorali dai paesi in cui si concentra l’arti-gianato, oltre che ai frequenti trasferimenti da una lo-calità all’altra. Per questo motivo è stato detto che la pa-storizia è l’attività che incide meno sul complesso am-bientale nel quale si insedia; sia pure inconsapevol-mente, fa proprie le «ragioni dell’ambiente» in fun-zione del quale elabora adeguate strategie.

Per il modo in cui si svolgono, il complesso delle attivitàpastorali hanno bisogno continuo di collaborazione, diprestazioni collettive d’opera. Sorvolando, per ragioni dispazio, sui vari generi di associazioni pastorali, nonsenza però aver segnalato come esse confermino e ap-profondiscano, lungi dall’abolirle, le disuguaglianze dipartenza, concentriamo ora l’attenzione sulla dimen-sione sociale sottostante alle tecniche attraverso le man-sioni assolte dalle diverse persone impegnate nell’a-zienda pastorale. La figura più importante dell’azienda(arbitriu) è quella del curàtulu che bada alla contabilità ge-nerale e cura i rapporti commerciali con l’esterno. Eglirappresenta in qualche modo l’azienda al di fuori deglistretti confini del màrcatu: vende gli animali e i lattici-ni trattando in prima persona con i dettaglianti o gli in-cettatori; si occupa dell’affitto dei pascoli o ne disponela cessione a terzi; fissa le date di transumanza e mon-ticazione e indica il turno di successione delle aree in cuiil pascolo viene diviso; nei casi in cui si dispone di locali,egli si occupa infine della stagionatura. Lo zammataru sta

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Bianca ed elastica, viene compressa entro fiscelle digiunco (fasceddi), messa a scolare e il giorno dopo im-mersa nella scotta calda per acquistare consistenza.Se non consumate come primosale, le forme di caciovengono avviate alla stagionatura in locali appositi. Unsecondo genere di latticino, solo di latte di vacca e apasta filata, è il caciocavallo (cascavaddu). La lavora-zione comincia dalla filatura della tuma messa a riposoper ventiquattr’ore, passa per il confezionamento a pe-ra o a parallelepipedo, giunge alla cottura in scotta cal-da per rassodarne le forme, per concludersi con lastagionatura. Il terzo genere di latticino è consideratoun sottoprodotto della produzione casearia: è la ri-cotta. In contemporanea al lavoro del caciaio, un aiu-tante alimenta il fuoco sotto la caldaia di rame conte-nente il siero residuale (lacciata) della lavorazione delformaggio. Vi aggiunge del latte, vi versa un acidifi-cante (agru) e attende che il liquido giunga a ebolli-zione. Allora affiorano granuli sempre più consistentidi ricotta: una parte viene prelevata e travasata in fi-scelle di legno o di giunco; un’altra parte viene versa-ta insieme col siero caldo entro scodelle per essereconsumata subito. Quando non è consumata allo statofresco, la ricotta può essere sottoposta a stagionatura(salandola e essiccandola all’aria o al forno).Chiudiamo questa rapida ricostruzione delle attivitàpastorali con una considerazione ricollegabile alle «ra-gioni dell’ambiente» richiamate in apertura. I testimo-ni materiali dell’attività pastorale risultano pochi e disommaria fattura, ma tale povertà è funzionale al suomodo specifico di operare, dato l’isolamento dei pa-stori e la necessaria dipendenza dalle risorse ambienta-li disponibili. Gli attrezzi del pastore derivano infatti perlo più dagli alberi, dagli arbusti e dalle erbe spontanee:

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no ammessi come apprendisti in azienda e per alcuni an-ni rimanevano allo stato di garzuni. L’espressione localeiri di fora o iri adduatu (andare fuori o andare in affitto)era il modo di indicare l’instaurarsi di un nuovo rapportodi lavoro, ma rende bene il significato profondo del-l’allontanarsi dal paese e dalle consuete reti di relazione,per ritesserne di nuove in un mondo potenzialmente osti-le. Se non era subito adibito alle mansioni di sfacinnatu,ma si dedicava alla custodia delle greggi, egli dipendevadal cumpagnu, giovane ventenne esperto guardiano dipiccole greggi, a sua volta sottoposto al picuraru o al cra-paru; non aveva diritto a giorni di riposo e tornava a ca-sa solo a fine anno. Ancora oggi, solo giungendo algrado di picuraru, in effetti, al giovane viene affidato unintero gregge e allora acquisisce i primi diritti e un au-mento di retribuzione. Da garzuni il salario si raddoppia,e si triplica talvolta, nel corso degli anni; da cumpagnu ri-sulta quadruplicato. Il picuraru non solo percepisce un sa-lario otto volte superiore a quello del neo-assunto, ma hadiritto a porzioni di terra da coltivare, ad un equino ametà con il proprietario, a 48 giorni di ferie (a vicenna)e ad animali propri da immettere nel gregge dell’asso-ciazione pastorale. Sono in realtà ben pochi coloro che possono saliretutti i gradini della gerarchia pastorale: i rapporti di la-voro infatti rimangono precari, si interrompono quasisempre a fine anno e dipendono, in ogni caso, dallaconsistenza del mercato delle braccia disponibili. Inpassato il personale dell’azienda risultava quasi semprein soprannumero di almeno un terzo per la funzionecalmieratrice sui salari svolta dalla sovrabbondanzadi manodopera. Oggi la situazione appare molto cam-biata, per i veloci processi di desertificazione richia-mati: già si ritiene fortunato il proprietario di bestiame

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al gradino immediatamente inferiore della scala gerar-chica: bada infatti alla caseificazione registrando gior-nalmente le forme di cacio prodotte e supplisce il curà-tulu nei periodi di assenza. Lo mprucchiaturi, figura dicui oggi non rimane traccia neanche nei ricordi dei pa-stori, badava alle pecore partorienti e agli agnelli appe-na nati, marchiandoli. Il ribbattieri è addetto alla pani-ficazione in azienda, il magazzinieri alla custodia delmagazzino. Le figure qui richiamate sono assunte inazienda con contratto annuale rinnovabile e sono detteprezzamari. Tutti gli altri prestatori d’opera sono inveceassunti come salariati (surdunieri) per periodi variabili ditempo: sono i guardiani del gregge (picuraru, agniddaru,craparu, ciarviddaru, vaccaru, ecc.), gli aiutanti apprendisti(garzuni), il custode degli equini (imintaru), l’aiutante tut-tofare (sfacinnatu). I diritti di cui godono e le retribuzioni che percepisconoi prestatori d’opera richiamati variano molto da luogo aluogo e non sempre è facile unificare dati sparsi e sal-tuari. I prezzamari sono retribuiti, a seconda del tipo diassociazione pastorale, o come salariati con successivoconguaglio degli utili o semplicemente dividendo questiultimi a fine anno, una volta fissato e versato alle asso-ciazioni il costo d’esercizio per capo di bestiame. In ge-nere però si osservano certe regole nella retribuzione diprezzamari e surdunieri, a parte il vitto giornaliero ugua-le per tutti: pane, ricotta, siero e poco formaggio. Le re-tribuzioni differenziate, com’è facile capire, traduconosul piano contabile il variare dell’importanza dei ruoli. Sipuò quindi rilevare una rigida «gerarchia pastorale», trai pastori che «fanno società». Com’è prevedibile, in passato era frequente che si ri-corresse a forme di lavoro minorile. Le prime assunzio-ni avvenivano all’età di 10-12 anni, quando i ragazzi era-

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Introduzione

I modi di estrarre il sale dall’acqua del mare nei diversicontinenti sono sostanzialmente tre: il primo, adotta-to in regioni fredde, ricorre al congelamento dell’acqua,che si divide così in una parte ghiacciata e in unadensa ma ancora liquida in cui si concentra il sale; il se-condo, adottato dove c’è grande disponibilità di ma-teriale combustibile, ricorre all’evaporazione controllatadel liquido acquoso per somministrazione regolata dicalore; il terzo, infine, ricorre all’evaporazione spon-tanea all’aria libera. Quest’ultimo è il più diffuso nel-le regioni calde o a clima temperato-caldo, purché al-l’adeguata sistemazione dell’area prospiciente il mare siaccompagni in estate una temperatura elevata e dura-tura con venti caldi e secchi: tale è il mar Mediterra-neo, lungo le cui coste la coltura del sale marino risalea tempi remoti. Gli interventi lavorativi rimangono so-stanzialmente simili in tutte le regioni; piccole varia-zioni dipendono dal quadro ambientale, ma anche dalcontesto sociale e culturale. In Italia impianti saliniferi sono stati in funzione finoagli anni Cinquanta in diverse regioni: è il caso dellaSardegna, della Romagna e della Sicilia. Quanto aquest’ultima, dopo un lungo periodo in cui mercati di

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Capitolo IV

Lavoro e società nelle saline del Trapanese

che riesce a trovare gente disponibile a lavorare inazienda, lontano dai centri abitati! Da questo deriva lapossibilità di remunerazioni più adeguate e il ricono-scimento di diritti una volta misconosciuti. Eppure, ri-mangono ancora dei segnali di situazioni non del tuttotrascorse: è il caso del persistere della compartecipa-zione (franchizza), che fa diminuire di parecchio laquota del salario e la fa dipendere dalla aleatorietà de-gli andamenti stagionali. La compartecipazione è un in-dizio del persistere di una insicurezza di fondo nella ge-stione dell’azienda pastorale, di un senso di preca-rietà al quale si cerca di rispondere allevando animali diproprietà all’interno del gregge: solo che, a guardar be-ne, sono precari anch’essi.

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cano infatti: a) la rottura della crosta salina di superficiee l’espulsione delle acque di risulta, b) la sistemazionedel sale in cumuli conici alti circa un metro dentro lestesse vasche, c) il suo trasferimento sulle piattaformeattigue. Qui il sale marino rimane a riposare in grandicumuli di forma prismatica ricoperti di tegole, in attesadella commercializzazione. «Dalle pendici del monte Erice lo sguardo spazia sullabianca città di Trapani, sul suo porto, sulle sue saline,fino a Torre Nubia e, nei giorni sereni, fino alle isoledello Stagnone e distingue nettamente, almeno nelterritorio di Trapani e Paceco, la struttura particellaredell’area saliniera, la distribuzione delle varie saline at-traverso i colori rossastri e bianchi delle loro vasche, laloro diversa grandezza in base all’estensione dei baci-ni salanti e al numero di cumuli di sale sulle aie. Si di-stinguono, inoltre, la rete dei canali principali, i barconicircolanti su di essi, il grande deposito del sale pressola banchina meridionale del porto, le numerosi case deisalinai sormontate per lo più da torri coniche, i carat-teristici aeromotori, le strade che penetrano nell’areasaliniera» (Ruocco 1958, 50). L’immagine risalenteagli anni Cinquanta fa comprendere l’alto grado di an-tropizzazione dell’ambiente delle saline. Conviene de-linearne la struttura nei dettagli prima di procedere al-la ricostruzione delle attività di coltivazione del sale edel quadro sociale che fa da sfondo.

La struttura della salina e il lavoro degli uomini

Da un punto di vista ecologico la salina è stata inter-pretata come un «sistema termodinamico aperto, co-stituito dalla struttura fisica delle vasche, dalle tecno-

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sbocco del sale prodotto furono Venezia e Napoli, le sa-line del Siracusano si ridussero a rifornire solo il mer-cato locale: il venir meno di una congiuntura economicafavorevole e il processo di industrializzazione accele-rarono la fine degli impianti operanti nell’area di Au-gusta; i danni arrecati dall’alluvione del 1951 a quellidell’area di Vendicari, oggi eretta a riserva naturale, av-viarono a loro volta alla chiusura di saline che ormai la-voravano in perdita: nel 1958 ne rimanevano in attivitàancora 14, ma non tardarono a sparire anch’esse. Lun-go la costa compresa fra Trapani e Marsala, invece, lesaline continuano a operare ancora oggi e il prodottoviene quasi tutto destinato all’esportazione. Ciò anchese la coltura del sale ha dovuto più volte scontrarsi conl’espansione dell’edilizia urbana trapanese e marsalesei cui imprenditori avevano individuato nell’area dellevasche interrate un’appetibile vocazione: solo nel 1996il diffondersi di una sensibilità ambientalista ha favo-rito la costituzione dell’area in riserva naturale orien-tata («Le vie del sale») e dunque la conservazione diquanto ancora esisteva.La durata del lavoro in salina varia passando da una zo-na all’altra e, nella stessa salina, da un anno all’altro, indipendenza delle condizioni climatiche e meteorologi-che. Insediati gli impianti dove le coste sono molto bas-se fino a collocarsi, talora, sotto il livello del mare, l’ac-qua marina viene fatta entrare nella tarda primavera inun complesso sistema di vasche salanti e fatta circuitaredall’una all’altra, man mano che il crescente caloreestivo la fa evaporare lasciando cristallizzare il clorurodi sodio. A partire dalla fine di giugno il sale cominciaad affiorare giungendo a naturale maturazione. Si pro-cede allora alla raccolta in tre fasi successive, le qualigenerano un paesaggio in veloce mutamento. Si prati-

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tre saline del Trapanese, operano quattro ordini di va-sche. Il primo è costituito da una vasca profonda e diampie dimensioni (è detta fridda e raggiunge i 32.690mq): qui direttamente dal mare entra l’acqua verginegrazie al gioco delle maree, per cui paratie a tenuta sta-gna vengono azionate a seconda del bisogno. Alla frid-da segue un secondo ordine di vasche dette ‘retrocalde’:sono i vasi di acqua vergine di livello superiore a quel-lo del mare, dove l’acqua viene pompata facendo ri-corso al mulino a vento. Questo viene installato qui,piuttosto che in corrispondenza dei bacini del primo or-dine, in quanto l’acqua da sollevare è già ridotta a cir-ca un terzo di quella entrata nella fridda, per effettodella prima evaporazione. Accanto al vasu vero e pro-prio, profondo da 50 a 70 cm, è sistemato il vasu cul-tivu (una volta detto vasu ri cuvernu), esteso 10.725 mqcomprensivi del primo, ineliminabile dal ciclo di pro-duzione per i sali che vi precipitano, ma soprattuttoperché funge da riserva dell’acqua matri (liquido residuodella campagna di raccolta precedente).Il terzo ordine di vasche è costituito dalle ‘messaggere’o ‘mediatrici’ (chiamate ruffiani, con eventuali appen-dici dette ruffianeddi). Il nome deriva dalla posizione in-termedia occupata fra il primo ordine delle vasche equello dei bacini con acqua matura per la deposizionedel sale. A Nubia la ruffiana misura solo 7.600 mq ma,in generale, le vasche di quest’ordine sono ridotte insuperficie e in profondità perché l’acqua che vi afflui-sce è più densa e più calda di quella delle precedenti. Ilquarto ordine dei bacini di evaporazione è costituitodalle vasche calde (dette appunto càuri) che a fine ciclodanno acqua fatta, matura cioè per la deposizione delcloruro di sodio. Il numero delle càuri varia da una sa-lina all’altra, facendosi progressivamente più piccole e

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logie di pompaggio e distribuzione dell’acqua alimentatida flussi di materia e di energia... Il sistema salina,composto dalla struttura fisica, dal sottosistema di re-golazione e controllo (il salinaio) e dai sottosistemiecologici, può considerarsi come un organismo quasi vi-vente che si alimenta di materia organica (il plancton)ed inorganica (l’acqua marina), di energia (solare ed eo-lica) e di informazione (i messaggi climatici e quelli eco-nomici). Il sistema garantisce da secoli la propria so-pravvivenza (e quindi quella dei sottosistemi, fra lorofunzionalmente integrati, che lo compongono) rea-gendo omeostaticamente alle perturbazioni esterne edinterne. La salina può infine essere letta come un si-stema termodinamico aperto e lontano dall’equilibrio,che integra un sistema tecnico ed un sistema ecologico»(Butera La Franca 1988, 107).In seno al quadro delineato, le soluzioni costruttive del-l’impianto salinifero variano in funzione dei diversicontesti ambientali e della ‘storia sociale’ del territoriosu cui insiste. Rimane invece comune agli impiantil’articolazione in ordini successivi di vasche di grandezzae profondità variabili in progressione: in esse «viene ese-guita una precipitazione frazionata dei vari sali, racco-gliendo soltanto quelli voluti… Nel complesso dellevasche l’acqua marina subisce graduali aumenti di den-sità e la funzione dei vari bacini evaporanti è in prati-ca quella di fare precipitare in momenti chiaramente de-finibili i sali disciolti nell’acqua marina. Essi precipitanonei successivi ordini di vasche, le quali sono dunque tut-te preparatorie a quelle terminali in cui si cristallizza ilcloruro di sodio» (ivi, 108).Dai rilievi effettuati tra il 1984 e l’85 risulta che nel-la salina Chiusa di Nubia, frazione di un migliaio diabitanti in comune di Paceco, non molto diversa da al-

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70x25x25 o chiappi di cm 70x50x25). Gli argini più lar-ghi sono detti vrazza (bracci), costruiti accostando bloc-chi a secco in doppia fila e riempiendo lo spazio inter-medio con argilla impermeabile: larghe 60-80 cm, sonovie di comunicazione tra i settori della salina e in certicasi vi sono alloggiati canali di scorrimento delle acque.Diverso è il muro esterno di recinzione della salina:chiamato traversa, ricavato dall’accostamento incrocia-to di molteplici ordini di blocchi di tufo, esso funge dariparo dell’intera struttura dal mare aperto, raggiun-gendo 3 mt di larghezza e 1,20 di altezza (ivi, 108-09).

Il quadro ricostruito non può dirsi completo se non sifa cenno agli aeromotori la cui opera continua a rive-larsi essenziale: mentre il resto si va meccanizzando, gliimpianti di sollevamento tradizionali resistono neltempo, perché la tecnica costruttiva li rende poco sen-sibili ad agenti estranei e perché si può fare ricorso an-cora ad artigiani del legno locali, per le riparazioni o lamanutenzione ordinaria. In ogni salina operavano inpassato almeno due mulini a vento, elementi centralidel sistema perché dal sollevamento dell’acqua dallafridda al vasu cultivu dipendevano allora, non meno dioggi, i suoi successivi spostamenti per caduta da unavasca all’altra. L’energia eolica, presente in tutta l’Isola,è del resto abbondante lungo le coste del Trapanese,esposte ai venti provenienti da nord-est e nord-ovest,nonché ai venti caldi meridionali, forti ma di minorefrequenza (Ruocco 1958, 84). Il primo mulino di tipo olandese (mulinu a stidda)metteva in funzione il frantoio del sale ed era installatonell’edificio della salina (casa salinara o casa ri salina) cheoccupava il centro dell’area destinata a salina. Siste-mato sul tetto a terrazza, dentro una torre in muratu-

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meno profonde: le sette presenti nella salina esamina-ta misurano dai 1.125 ai 2.338 mq. L’acqua vienefatta passare dall’una all’altra, depositandovi solfati dimagnesio e di calcio e diminuendo di volume. È di re-cente introduzione una vasca ‘servitrice’, tesa a facili-tare la regolare distribuzione dell’acqua matura nelle ca-selle salanti: è la sintina, che si estende per 1.875 mq.Nei bacini di evaporazione finora visti si svolgono le fa-si preparatorie alla produzione del sale; quelle in cui ilcloruro di sodio si cristallizza sono invece le caselle sa-lanti (caseddi). In passato erano la metà delle càuri,mantenendo così costante il ritmo di distribuzionedell’acqua matura da queste a quelle. Con l’introdu-zione della sintina, il rapporto è cambiato: a Nubia ope-rano sette caseddi per sette càuri più una sintina (peruna superficie totale, rispettivamente, di 9.650 e15.650 mq); in altre saline si sono rilevate 14 caselle sa-lanti contro 19 calde e 4 vasche di acqua vergine. Lasuperficie salante è circa un sesto o un settimo della su-perficie evaporante: 9.650 mq di quella a fronte dei66.665 di questa, escludendo la prima delle due friddi– 27.840 mq – utilizzata per le attività di piscicoltura.I bacini dei primi due ordini sono caratterizzati da con-torni e fondo irregolari, mentre le caselle salanti sonoquadrilateri regolari di ampiezza pari a 1.500 mq eprofondità non superiore ai 20 cm.Le caselle sono disposte lungo una o più file accostate,separate da argini di terra battuta, con fondo piatto, li-vellato e impermeabilizzato. Attigue alle salanti sono va-ste piattaforme larghe talora 10, talaltra 20-25 metri: so-no dette ariuni e vi vengono sistemati i cumuli di saleraccolto dalle caselle in attesa della commercializza-zione. Gli argini fra i diversi bacini sono costituiti dablocchi di tufo dell’isola di Favignana (cantuna di cm

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sciandole arrotolate da una parte della pala in attesadella messa in funzione del mulino. Nei giorni lavora-tivi, infine, si ncucciava, si distendevano cioè le vele pertutta la superficie della pala ricorrendo a sarvamanu,augghiola e una manuzza pi ccùsiri i veli, minuscolistrumenti usati per fissare la tela alle pale del mulino.Al levarsi del vento, l’addetto ne orientava le palenella direzione del vento stesso (purtari u mulinu avventu), allentava le vele riducendo l’energia motrice alrinforzarsi del vento, oppure ricorreva al frenu perrallentare il moto rotatorio e regolare la velocità del-l’impianto.All’interno della torre del mulino (di forma troncoco-nica e alta una decina di metri) operava una spira,destinata al pompaggio dell’acqua nella fridda: lunga cir-ca quattro metri, di legno, presentava un’anima eli-coidale cosparsa di catrame impermeabilizzante e unguanto dogato; superiormente sboccava nel cunuc-chiuni (pignone di legno di 50-70 cm che assicurava ilcollegamento tra la corona dentata superiore e l’asseverticale del mulino) e inferiormente in un panareddu dispira, altro pignone di legno (presente sia nella spira chenella spiricedda). Diverse chiavi, in legno o metallo, era-no usate per gli interventi sulla spira o su altre strutturedel mulino, semplici assi con forcina terminale permanovrare viti e altre componenti. La ricostruzione consente di confermare la considera-zione prima fatta: la salina è un sistema complesso, incui alcuni fenomeni naturali vengono sfruttati con l’au-silio di energia e di informazione. Fonti di energia sonoil sole e il vento, ma anche la temperatura dell’aria, l’u-midità e la pioggia. Il processo di trasformazione dellamateria prima (l’acqua marina) nel prodotto finito (il sa-le) non è però spontaneo ma fa appello all’informazione,

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ra, da un ripiano superiore ne scendeva una ruotadentata di legno, base di un asse verticale (detto rittu);la parte superiore dell’asse, attraverso appositi pigno-ni di legno, era collegata alle pale del mulino, struttu-re di legno costituite di assicelle incrociantisi in sensoorizzontale e verticale; a forma di trapezio isoscele al-te circa due metri e di 50 cm di base, esse presenta-vano un asse sporgente dalla base minore che venivaagganciato al perno della corona dentata posta nellaparte più alta della torre. Sul pavimento stava unastruttura collegata al mozzo della ruota dentata chescendeva dal tetto, con una base cilindrica in basso etroncoconica in alto: al suo interno veniva versato il sa-le grezzo da triturare. Oggi mulini del genere non so-no più in funzione, anche se non sono del tutto scom-parsi, e la molitura viene affidata a frantoi centralizzati,a energia elettrica. Piccoli frantoi in metallo, modernie semplificati, non sono riusciti a prendere il posto deltradizionale mulino a stella nella casa salinara, perché in-tanto la molitura del sale andava spostandosi fuoridalla singola salina.Il secondo mulino, con funzioni di pompaggio del-l’acqua, era sistemato tra il primo e il secondo ordinedi vasche. Sono pochi i mulini a stella che sopravvi-vono in salina, esemplari talora restaurati, del tutto so-stituiti ormai da mulini autoorientabili e sensibili ancheai venti più deboli: sono detti mulini miricani, ma diamericano non hanno nulla, se non che sono modernie di provenienza estera.Quand’era in funzione il sistema di pompaggio con ri-corso al mulino olandese, a inizio stagione (nel mese dimarzo), si arbulava u mulinu, si predisponeva cioè l’in-tera armatura attaccandovi le pale di legno (ntinni); inseguito lo si spaiava, vi si legavano cioè le vele la-

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Le fasi di coltivazione del sale

Nella fascia sud-occidentale della Sicilia la tempera-tura media annua cresce lentamente fino al mese diaprile, aumenta rapidamente nei due mesi successivie raggiunge i valori massimi a luglio e agosto (l’arianon è mai secca allora, e l’umidità è sempre molto ele-vata); dopo comincia un calo lento e graduale che ne-gli ultimi giorni di settembre si fa repentino, conpiogge e veloci mutamenti delle condizioni atmosfe-riche. Simili condizioni climatiche si rivelano ottimaliper la coltivazione del sale marino: non a caso gli sta-gni costieri (margi) sono stati oggetto di sfruttamen-to sin da tempi remoti. L’inizio della campagna è ab-bastanza regolare in quanto, a parte rare eccezioni, leoperazioni non sono ostacolate da piogge primaveri-li; la conclusione è invece variabile e dipende dal-l’arrivo delle piogge settembrine che, se abbondanti epersistenti, possono interrompere bruscamente il ci-clo produttivo. Il semestre invernale coincide con ilperiodo di riposo, quando il lavoro scema ma non ces-sa del tutto, dal momento che l’intero impianto sali-nifero abbisogna di costante cura e manutenzione: co-me in ogni organismo biologico, trascurare la salinanon tarda a ripercuotersi sulla qualità e sulla quantitàdel sale prodotto in estate. Il ciclo del sale, consistente nel trasferimento del li-quido salmastro da una vasca all’altra prima di proce-dere alla raccolta, si articola in quattro fasi di lavoro,ognuna caratterizzata da specifiche operazioni tese araggiungere determinati stadi di coltivazione. Il suc-cedersi delle fasi è scandito in maniera abbastanzaregolare, andamento atmosferico aiutando: al passaredei mesi corrispondono interventi preordinati.

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ovvero ad un sistema di regolazione e di controllo: essosi identifica con il salinaio ed è fatto di tre distinti sen-sori. Il primo è l’apparato sensoriale umano, sollecitatodalle condizioni meteorologiche, i cui segnali vengono se-guiti nel loro evolversi temporale attivando le operazioninecessarie. Il secondo è l’occhio che analizza un altro se-gnale: il colore delle vasche (generato da alobatteri e al-ga rossa, sensori biologici della concentrazione salina) dalquale dipende l’inizio delle operazioni di raccolta. Il ter-zo, infine, è uno strumento tecnico, il densimetro (oareometro di Baumé), a cui è affidata la verifica quan-titativa della densità del liquido salmastro: da essa di-pende la regolazione dei flussi d’acqua nelle vasche, azio-nando le saracinesche o il sistema di pompaggio (Bute-ra La Franca 1988, 107).Al centro del sistema omeostatico e del complessooperativo (energia e informazione) che entrano in fun-zione nella produzione del sale marino si colloca in-somma l’universo sociale dei salinai, in cui convergonoi saperi sedimentati nel tempo, le competenze derivantida osservazioni ed esperienze di vita, l’organizzazione.Quegli uomini hanno progettato e costruito bacini, ca-nali ed edifici i quali costituiscono la struttura fisicadella salina, segni materiali e concrezioni del sapere; at-trezzi e gesti consentono la messa in opera della «mac-china» scandendo le fasi principali in cui si articola l’in-tero ciclo; il sistema sociale della salina, infine, è rigi-damente organizzato: ogni prestatore d’opera disponedi una competenza e di una forza lavorativa da coor-dinare con quella di decine di altri uomini e da su-bordinare a chi ne ha il potere e il ruolo. Da qui l’in-teresse rivolto ai rapporti di produzione, con riferi-mento ai diritti di proprietà, ai rapporti di dipendenzae ai ruoli che i singoli rivestono.

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Il lavoro di ripulitura che richiede più attenzione e pe-rizia è quello dedicato alle vasche degli ordini suc-cessivi, rispettivamente le retrocalde (càuri, in passa-to dette anche ricàuri), e le vasche di cristallizzazione(caseddi). Qui i salinai procedono a prosciugare i bacinitramite una spiricedda i lignu che viene trasferita da unpunto all’altro della salina: vite di Archimede o cocleadi legno, di circa due metri e a forma di cilindro al-lungato, con un’anima interna elicoidale e cosparsa dicatrame impermeabilizzante lungo la superficie ester-na, essa svolge funzioni di pompaggio dell’acqua tra-sferita da una vasca all’altra e viene azionata a manogirando una manovella posta su un’estremità del ci-lindro. Se il fondo delle retrocalde è molle e fangoso,i salinai lasciano passare alcuni giorni in attesa che siprosciughi: tendono allora ad affiorare sagome di sa-le e fanghiglia mescolati, composti di solfati di calcioe magnesio residui della campagna precedente: essi co-stituiscono la mammacàura che viene raccolta conun’apposita pala dalla base ricurva (paluneddu) e si-stemata provvisoriamente dentro le vasche stesse (laforma di pesce che viene conferita ai mucchietti cosìformati li fa chiamare comunemente pisci i mam-macàura). Seguono l’estirpazione di flora di varia composizio-ne (murvàcchiara) spontaneamente germogliata nelfondo delle vasche e una delicata opera di livella-mento e compattamento delle stesse, utilizzando ildorso del paluneddu, pala di lamiera con lungo ma-nico in legno, ricurva lateralmente per accrescerne laportata. Qui si fa ricorso alla mammacàura per ilsuo alto potere impermeabilizzante: una volta spal-mata essa serve infatti a risagomare e ricompattarefondo e pareti delle càuri. Impermeabilizzare bene le

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I lavori preparatori si svolgono a partire dall’ultima de-cade di marzo e consistono nel far defluire a mare tut-te le acque accumulatesi nei bacini durante i mesiinvernali (assummari a salina). Alle operazioni di de-flusso e prosciugamento, a qualche giorno di distanza,si accompagna la pulizia dei canali di collegamento, lasistemazione del fondo delle vasche, il riattamento in-fine di tutte le parti della salina danneggiate nella sta-gione invernale. A dirigere i lavori è il curàtulu i sali-na che condivide i ritmi vitali dell’intero complesso:egli conosce i mille segreti della salina; assegna nomipropri, quasi umanizzandole, alle singole caselle sa-lanti; ripartisce operai stagionali (staçiuneri) e avven-tizi giornalieri (òmini r’aiutu) fra coloro che ripulisconoi canali e quelli che sistemano le vasche partendodalla fridda, per procedere al successivo riempimento.Gli operai, giovandosi del gioco delle maree, azionanola paratia centrale del muro di cinta della salina (tra-versa), denominata purteddu a cchiavi: il tipo di più re-cente introduzione, purteddu a vvàlvula, viene regola-to automaticamente dall’alternarsi delle maree. Apartire dal mese di aprile l’acqua marina raccolta nel-la fridda comincia a chiarificarsi e ad aumentare di sa-linità, partendo dai 3,5° Baumé, valore medio del-l’acqua del Mediterraneo. Ultimata la pulizia delle vasche più esterne, i salinaiprocedono a ripulire i vasi, azionando delle chiuse di le-gno (purtidduzzi cu tilaru), paratie di legno usate comesaracinesche per regolare il passaggio dell’acqua dauna vasca all’altra in vista del successivo compatta-mento di argini e fondo. Lasciano da parte solo il va-su cultivu che non svuotano sino in fondo (tenendo inriserva l’acqua matri) ma liberano solo dell’acqua pio-vana di superficie.

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verso il lento e ordinato trasferimento dei salinai dauna vasca all’altra, e giungono a conclusione a maggioinoltrato con le caselle salanti pronte a ricevere alcunesettimane dopo il denso liquido salmastro già maturo.Quello qui ricostruito è un lavoro duro e faticoso nelcomplesso, discreto e poco appariscente allo sguardo diveloci osservatori, con pochi operai rispetto a quelli im-piegati nella raccolta: manovrare il rullo compattatore,girare per ore di seguito la manovella della coclea,eseguire attentamente le riparazioni sono tutte opera-zioni di fatica, da ripetere più volte finché il tempo nonsi mette decisamente al bello. Ma è anche un lavoroche richiede conoscenze ed esperienza di vita di mare:i salinai devono ad esempio conoscere bene i movi-menti delle maree, variabili nel trascorrere dei mesi enel mutare dei luoghi, per potersene servire con pro-fitto nel riempimento dei bacini della serie più esternae nelle successive ricariche.

La fase successiva dei lavori riguarda l’afflusso del-l’acqua marina nelle vasche (ittari a ffunnu a salina) edè una diretta prosecuzione delle attività preparatorie.Come già anticipato, il caricamento del primo ordinedi bacini si effettua ricorrendo al gioco delle maree; ilpassaggio dell’acqua (già molto ridotta per effettodell’evaporazione) nella seconda serie dei vasi avvie-ne grazie all’aspirazione della coclea azionata dalmulino a vento; negli ordini di bacini successivi l’ac-qua affluisce invece per caduta: si manovrano op-portunamente delle chiuse di legno (purtidduzzi cu ti-laru) che, una volta spalmato del fango sulla superfi-cie, ne assicurano un perfetto isolamento (stagghiari avucca è l’espressione che indica la chiusura ermeticadella vasca). Il caricamento delle caselle salanti viene

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superfici a contatto con l’acqua evaporante è ritenutoessenziale dai salinai, per evitare l’infiltrazione di fal-de acquifere o di acqua marina nella fridda e la di-spersione di acqua in evaporazione, il che pregiudi-cherebbe il buon andamento della coltivazione: percontrollare che il lavoro sia ben fatto essi usanolanciare nel liquido pugni di sabbia che, in presenzadi infiltrazioni, creano mulinelli (detti bburruggi) se-gnalanti il tratto da compattare. L’opera di pulitura, prosciugamento e sistemazione siconclude nelle vasche salanti: tirari a piaia (tale è il mo-do di intenderla) è un’operazione eseguita annual-mente, a differenza di altre vasche dove talora la si ri-manda di qualche anno. Quando il fondo di queste va-sche è duro e compatto, una volta fatta defluire l’acquaresidua, i salinai provvedono a ripulirne e spianarne lesuperfici interne e a raccoglierne la morbida fanghigliadi deposito, ricorrendo a un rastrello con manico di le-gno e lamina rettangolare metallica ortogonale al ma-nico (rasteddu i lignu). Quando invece il pavimento èdissestato e fangoso, l’opera di risistemazione è piùcomplessa: i salinai compattano il suolo facendoviscorrere un pesante cilindro di pietra imperniato su unaforca metallica da loro trainato (rùzzulu), ne livellano lasuperficie e la impermeabilizzano con uno strato delcomposto già segnalato, la mammacàura. Si usa infinerivestire il fondo delle vasche salanti con una sabbia fi-nissima proveniente dall’Isola Grande dello Stagnonedi Marsala, allo scopo di evitare che il fango si mescolial sale raccolto nelle caseddi e di favorire l’assorbi-mento del calore solare per cederlo lentamente nelle orenotturne. I lavori preparatori della coltivazione del sale si svol-gono nell’arco di quaranta o cinquanta giorni, attra-

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vasu quando quella diventa oleosa (l’acqua filìa); deci-de di trasferire l’acqua nel bacino successivo quando di-viene densa e pesante (acqua marciusa); riconosce infinel’acqua matura (acqua fatta) dal colore rossastro che es-sa assume nelle retrocalde e dall’odore di sostanzeputrefatte che ne emana (dovuto a microfauna svi-luppatasi spontaneamente quando l’acqua raggiunge i14-15° Baumé). Stabilire e mantenere il giusto equili-brio tra i diversi bacini di alimentazione e di deposi-zione significa tener sempre a regime la fridda e leretrocalde, non far mai mancare l’acqua matura alle ca-selle salanti e ‘servire’ sempre nuova acqua se ne eva-pora in eccesso. Quest’ultimo è il momento più delicato: il sistemadella salina comincia infatti a funzionare al massimodopo che il liquido salmastro è affluito nelle caselle sa-lanti, a giugno inoltrato. Per mantenere l’acqua algiusto livello di salinità, sei càuri alimentano tre caseddi,seguendo un turno di una càura per tre caseddi al gior-no: il ciclo di distribuzione (ittari o cuvirnari a ffacciu[l’acqua ê caseddi]) si esaurisce così nell’arco di seigiorni. Il governo delle acque fa ricorso a una dozzinadi operai che azionano manualmente una o più spiri-ceddi per trasferire il liquido da una vasca all’altra; l’in-troduzione della sintina riduce invece l’impiego di ma-nodopera: bastano il curàtulu e un collaboratore a di-stribuire acqua a giorni alterni per semplice caduta. I segnali prodotti al formarsi dell’acqua fatta (momen-to conclusivo della maturazione) sono diversi: al colo-re rossastro e al cattivo odore si aggiungono il calare dellivello dell’acqua e il crescere della salinità nelle re-trocalde (l’acqua strinci, aumenta cioè di salinità, ecala); nell’ultima vasca della serie delle càuri l’acqua ma-tura genera una sottile schiuma (rabbìu) a contatto

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detto ìnchiri i caseddi nfacciu: accanto al liquido pro-veniente dal terzo ordine di vasche si utilizza anchel’acqua matri del vasu cultivu: residuo della raccoltaprecedente, conservata in una retrocalda e stemperatadalle piogge invernali, essa svolge un’importante fun-zione di lievito nei confronti dell’acqua vergine (acquacrura) proveniente dalla fridda, elevandone la densitàe affrettando la deposizione del cloruro di sodio magenerando un prodotto meno puro per la presenza disali di magnesio.

Maturazione del sale e operazioni di raccolta

Con maniari u sali si intende la terza fase del ciclo, con ri-ferimento alla serie di operazioni svolte nei bacini salantiuna volta ‘serviti’ a dovere. Man mano che le vasche so-no messe a regime, curàtulu e staçiuneri vengono impe-gnati in un’osservazione attenta e continua dei vari ba-cini, in ognuno dei quali il sale raggiunge in tempi diversiil giusto grado di maturazione: da questo dipende ladecisione su quando trasferire l’acqua da un bacino al suc-cessivo. Oggi il grado di salinità delle acque viene misu-rato col densimetro o areometro di Baumé (pisasali), main passato era tutto affidato alla grande capacità di os-servazione dei salinai, all’esperienza accumulata e alclassico ‘colpo d’occhio’, in base al riconoscimento dei co-lori, dal rosa al rosso, che accompagnano i diversi stadi dimaturazione, e poi al bianco brillante per effetto dei cri-stalli di sale che si formano in superficie. In ogni caso, ancora oggi il salinaio sa riconoscere ilgrado di salinità dall’aspetto, dalla fluidità o untuositàdelle acque, oltre che dal colore cangiante. Capisce cheè giunto il momento di trasferire l’acqua dalla fridda al

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buiscono ordinatamente all’interno di ogni casedda eadoperano il paluneddu finché lo spessore del salenon supera i 2-4 cm. In seguito fanno ricorso al palui rùmpiri, pesante palo di ferro spalettato ad unaestremità e collegato dall’altra ad un robusto manicodi legno trasversale, cilindrico e bilaterale: impu-gnando i due lati del manico, essi piantano l’attrezzosulla crosta del sale, imprimendo veloci movimenti ro-tatori alternati e con la paletta terminale lo frantu-mano in minuscoli granuli. Ulteriori interventi sono richiesti nella salina ormaimuddata in dipendenza delle condizioni atmosferiche.La pioggia ricompatta infatti la superficie granulosa, tor-nando a indurirla: gli operai fanno scorrere allora un ru-dimentale erpice (éffici) formato da un asse di legno conchiodi sporgenti da un lato e trainato da due operai tra-mite corde legate alle estremità; altro strumento usatocome erpice è la grata, costituita da assi incrociantisi insenso trasversale e adatta a rimuovere anche il sale infrantumi. Se invece prevalgono giorni di bonaccia(calìu) e mancano i refoli di vento che favoriscono l’e-vaporazione dell’acqua, si formano sulla superficiefrantumata degli agglomerati salini di varia consistenza(nèvuli): gli operai provvedono allora a demolirli fa-cendovi scorrere di nuovo l’erpice, ma dalla parte privadi chiodi. Nel giro di una settimana il lavoro si con-clude, in attesa del primo raccolto di metà luglio.

Accumulo del sale e scolo delle acque. A partire dal me-se di luglio, le saline cambiano completamente aspetto,non solo per il colore bianco brillante derivante dallacristallizzazione del sale, ma anche e soprattutto perl’improvviso brulicare di uomini che, nel giro di alcu-ni giorni, provvedono a raccogliere il sale puro, prima

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con i conci di tufo sugli angoli dei quali si depositanominuscoli cristalli di sale. È il momento di trasferire illiquido nelle caselle salanti: a metà giugno la salinitàraggiunge infatti i 24-25° Baumé, ottimali per la de-posizione del sale puro. Azionando paratie e chiuse dilegno, il liquido viene fatto passare per il canali mastru(o canali r’acqua fatta) e raggiunge appunto le caseddi(Ruggirello 1984). Il giungere a maturazione del saleviene denominato a partenza ru sali: il salinaio intentoad osservare sottili cristalli saldarsi in un’unica su-perficie, all’inizio una semplice pellicola che va rapi-damente ispessendosi, usa dire, appunto: U sali parti!oppure U sali quagghia!Qualche giorno dopo, allorché lo spessore della crostaraggiunge i sei, gli otto e talora i dieci cm, la cristal-lizzazione viene ritenuta ottimale e non viene piùspinta oltre per non pregiudicarne la purezza. È ilmomento della raccolta. La raccolta del sale si concentra nel mese di luglio, maprevede una serie di interventi preliminari sulle su-perfici ormai incrostate a partire dalla fine di giugno.

Rottura della crosta del sale. I lavori sono svolti da unadecina di operai stagionali e/o avventizi (staçiuneri e/oòmini r’aiutu) che restano in salina una settimanacirca. Essi consistono nel muddari a salina, nel fran-tumare cioè la crosta del sale ispessitasi nelle vaschesalanti a due settimane dall’afflusso dell’acqua matura,al fine di ammorbidire la superficie indurita del salee facilitare le successive attività di raccolta, accre-scendo nello stesso tempo il volume di sale in lavo-razione grazie all’esposizione ai raggi solari di nuoveporzioni di acqua salmastra. Gli operai addetti afrantumare la crosta del sale (rùmpiri u sali) si distri-

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lo incrociantisi perpendicolarmente, detti spiaturi. Altridividono la casella in tanti filati ortogonali (mìttinu a ca-sedda ncurrìa), praticando ulteriori canali di scolo a re-ticolo che sboccano nei due principali. Per facilitare loscorrimento delle acque gli stessi provvedono periodi-camente a spuari i spiaturi, a rimuovere cioè il sale che sicondensa nei canali e blocca il deflusso dell’acqua. Al-l’angolo di maggiore pendenza della casella viene dispostauna spiricedda, tramite la quale l’acqua matri viene pre-levata e trasferita in una retrocalda: un giovane, l’as-summaturi r’acqua (o assummavasu), passa le ore dellagiornata a girare la manovella della coclea. Una mazza,strumento costituito da un manico e da un pezzo di le-gno fissato alla base, viene usata per compattare brevi su-perfici delle vasche salanti o rompere blocchi di sale.Segue il lavoro di accumulo del sale, dall’alba al primopomeriggio, svolto da operai detti partitara, i quali conuna pala staccano le incrostazioni di sale e le riunisconoin cumuli conici non più alti di un metro (munzeddi) la-sciati a scolare nei bacini stessi (ammunziddari u sali): lasalina appare allora un insieme ordinato di cumuli di sa-le e, al posto dei canali di scolo, si delineano vie di pas-saggio che rimangono libere in vista del successivo tra-sferimento. Il numero degli operai impegnati dipende daquello degli uomini della venna, in un rapporto di uno adue per evitare che il sale accumulato rimanga nel bacinooltre le 24 ore. A coordinare il lavoro dei diversi grup-pi sono addetti il capupartitara, per i primi, e il capu-venna, per i secondi: essi controllano il lavoro deglioperai, ne accelerano o rallentano il ritmo, spostandoli insettori diversi dei bacini salanti.

Trasporto e deposito del sale. L’attività con cui si con-clude il raccolto, e insieme si chiude l’intero ciclo di

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che i composti di magnesio, precipitando a gradi più al-ti di salinità, ne pregiudichino l’originaria purezza. Igiorni buoni per la raccolta, a meno che non si continuia immettere acqua dalle retrocalde alle caselle salanti(sprecando così liquido prezioso), finiscono con l’esseresempre pochi e in quel ristretto periodo occorre con-centrare grandi quantità di manodopera che il curàtu-lu accorto ha impegnato con largo anticipo.Il moltiplicarsi repentino dei prestatori d’opera segna ilmomento in cui si comincia a raccogliere il sale, siste-mandolo prima nelle caselle salanti e depositandolo poisulle piattaforme attigue. Gli uomini impegnati nel la-voro di raccolta svolgono operazioni rigidamente coor-dinate, dove il contributo del singolo dipende stretta-mente da quanto gli altri hanno fatto prima di lui e ren-de possibili gli interventi di coloro che lo seguono. Sututte emerge l’immagine oleografica del trasporto del sa-le fuori dalle caseddi: file ordinate di uomini incappuc-ciati, con ceste di sale in spalla, uscivano in passato daibacini risalendo su instabili assi di legno fino alle aie dideposito (ariuni) alimentando cumuli prismatici di sale(munzidduni). Lavoro duro, com’è dato comprendere,svolto ormai in piena estate, non più mitigato dai ventiprimaverili e anzi oppresso dai caldi venti di scirocco cheinvestono l’area costiera per settimane intere.

Il lavoro di raccolta (nnésciri u sali) si articola in una se-quenza di operazioni che vedono impegnati gli operaistagionali della salina e, successivamente, gli uomini disquadre di trasportatori cottimisti (òmini ri venna). Prima di iniziare la raccolta vera e propria gruppi di ope-rai procedono a liberare le caselle dall’acqua matri e il sa-le rimane a secco per qualche ora. In ogni casella salan-te essi praticano, con pala e paluneddu, due canali di sco-

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piaghe sul corpo dei trasportatori. Il successivo ricor-so alla cesta di lamierino zincato (cardarella, quandonon conserva il nome della precedente) allevia la fati-ca con il diffondersi di un cuscinetto imbottito di pa-glia (cuscineddu) poggiato sulla spalla e lì fissato da unabenda che parte dalla fronte (fruntagghiu). Un berrettodi panno ricopre il capo degli addetti al trasporto e nescende posteriormente una striscia di stoffa che im-pedisce alle gocce di salamoia di inzuppar loro il colloe le spalle. Dura poco l’uso della carriola (curriola, prima di legnoe poi di metallo) per trasferire il sale lungo assi di le-gno, sostituita ormai da nastri meccanici trasportatoriche avviano direttamente il sale sulla piattaformaattigua.Figura di complemento degli addetti al raccolto e al tra-sporto del sale continua ad essere quella dell’acqualo-ru, incaricato di distribuire acqua agli uomini impegnatinel lavoro: egli tiene a disposizione in un angolo dellacasedda alcune brocche (quartari) di terracotta o di la-mierino, e un secchio di legno dogato (bigghiolu); adogni richiamo porge acqua da bere al salinaio, o lo aiu-ta a tergersi le parti del corpo dall’acqua salmastra pre-levando il liquido da una botte montata su un carret-tino. Altra figura è quella del baddaronzularu, incaricatodi liberare il sale deposto sull’ariuni dai residui di fan-go (i baddarònzuli) mescolatisi durante la raccolta.Quest’attività continua ad essere preziosa perché sul-la qualità e sul relativo prezzo di vendita del sale incidela purezza del prodotto, libero degli ultimi residui ri-masti in fondo alla casedda. Un addetto (pitiniaru) en-tra nel bacino salante a raccolto ultimato, raschia colpaluneddu e ammucchia i residui (pitìnii) versandoliquindi in contenitori distinti affidati alla venna per il

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produzione, consiste nel trasferimento del prodotto dal-le caselle salanti alle aie attigue (ariuni) già compattatecon strati di mammacàura. Composta da quindici-ven-ti operai, la venna comprende salinai adibiti a specifi-che mansioni e perciò divisi in due squadre di variaconsistenza in base alle distanze da coprire fra caseddie ariuni: la prima può essere costituita da tre partitarae un aiutante per casella che rompono il sale e lo si-stemano in cumuli; la seconda da dodici uomini, tra pa-litteri e cartiddara, alternantisi tra loro nelle mansioni,i quali costituiscono la venna propriamente detta eportano le ceste di sale fuori dalle caselle salanti. In al-tre condizioni la prima squadra è costituita da cinqueuomini (detti in saline e tempi diversi palitteri, palatu-ra o spalatura) che, con una pala i carricatu (detta anchepala i ìnchiri), palìanu u sali, spalano cioè i cumuli di sa-le delle caseddi e riempiono i contenitori adibiti altrasporto; la seconda, di dieci uomini, è formata da co-loro (carricatura o cartiddara) che vanno a rovesciare icontenitori sulla piattaforma, dopo esserseli caricati sul-la spalla sinistra: è significativo che coi nomignoli dimancusi ri salina o spaddini siano indicati quelli che usa-no la destra. Impegnati in un continuo andirivieni dai bacini salantialle piattaforme e viceversa su instabili assi di legno, gliuomini delle due squadre della venna invertono il lororuolo ogni volta che finiscono di scaricare sull’ariuni240 ceste di sale. Il lavoro dei cartiddara, nelle condi-zioni in cui viene svolto, è infatti duro e faticoso: colcapo ricoperto da un sacco di iuta che scende sulle spal-le a mo’ di cappuccio, dall’antica cesta di fibre vegetali(cartedda di virgulti di castagno intrecciati a olivo sel-vatico) caricata sulla spalla cola un rivolo continuo di li-quido salmastro che si asciuga e indurisce provocando

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la terza raccolta e, bel tempo aiutando, la salina tornaogni volta ad essere quel complesso sistema omeostaticodestinato a produrre sale, grazie alla regolazione e alcontrollo affidati all’uomo.

La fine di settembre segna, tranne casi eccezionali, lafine del ciclo annuale del sale marino. Nel semestre au-tunno-invernale la salina sembra perciò entrare in le-targo, non però nel senso che essa viene completamenteabbandonata, ma che al fervore brulicante d’uominisuccedono attività poco visibili e non più concentratein breve tempo: è un organismo sempre in vita, anchese i suoi cicli metabolici cambiano ritmo in rapporto altrascorrere delle stagioni dell’anno. Il curàtulu ri salina, da solo o con l’aiuto di operai av-ventizi provvede a sistemare per l’inverno i bacini sa-lanti: le caseddi, già prosciugate a fine raccolta, e le càu-ri, con le acque mature in deposito, a ottobre vengonoriempite di acqua marina azionando coclee e saracine-sche; a novembre viene il turno della ruffiana, del va-su cultivu e dell’eventuale vasu ri mmenzu, di cui si ri-pulisce il fondo; l’acqua piovana che completa l’operadi ripulitura viene fatta defluire aprendo le chiuse di le-gno. A dicembre infine il lavoro si concentra nellafridda, dove nel periodo di riposo diventa sempre piùfrequente la pratica della piscicoltura: la si prosciuganelle giornate di bel tempo, se ne ripulisce il fondo del-la flora spontanea e la si rimette subito nfunnu r’acqua,facendovi affluire acqua marina per l’allevamento deipesci. Nei mesi successivi il curàtulu ricorre a operaigiornalieri solo per controllare gli invasi ed evitareche l’acqua tracimi. Cure a parte sono riservate al sa-le sistemato sugli ariuni: i munzidduna vengono lascia-ti esposti alle piogge ottobrine, che assicurano un ade-

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trasferimento. Il tavularu costituisce l’ultima figuradi aiutante degli òmini ri venna: egli dispone assi di le-gno (tavuluni) tra caselle e aie di deposito, e tra la ba-se di queste e la sommità dei grossi cumuli di sale. Viavia che il munzidduni cresce diviene infatti semprepiù difficile per i trasportatori rovesciare il contenutodelle ceste in cima al cumulo, il che rende necessario si-stemare l’asse di legno sempre più in pendenza. Sul complesso universo di operai e aiutanti vigila ilcuràtulu, ma è il signaturi che in realtà sovrintende aldeposito, col compito di contare le ceste e registrare le«salme» di sale (ognuna corrispondente a 24 ceste o 12carriole): egli segna su un’astina di legno, sorta di re-golo rudimentale denominato tagghia (o signa), il nu-mero delle «salme» messe in deposito; tenendola legataalla cintola, vi fa scivolare un piolino (scanneddu) per se-gnare su un lato le singole «salme» e sull’altro le suc-cessive decine. Nelle pause del trasporto modella conuna pala il cumulo di sale sull’ariuni facendogli assu-mere così una forma prismatica sempre più regolare.Alto dai sei agli otto metri, il munzidduni non vienecompletato prima che siano passati 3-4 giorni di lavo-ro: ogni squadra non arriva infatti a depositare più di200 «salme» al giorno, e certi depositi di sale arrivanoa superare le 800 «salme». A fine luglio giunge a conclusione il primo raccolto del-l’anno, ma, come abbiamo detto, nelle saline del Tra-panese si riescono a condurre a termine due e anche trecampagne di raccolta di sale per anno. I salinai sta-gionali immettono perciò nuova acqua nelle vasche edanno inizio ad un nuovo ciclo di coltivazione. A di-stanza di poco più di un mese (in pieno agosto) pro-cedono alla seconda raccolta del sale, ripetendo ope-razioni identiche alle prime. A fine settembre avviene

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lazione. Era possibile anticipare quest’ultima purchénon si interrompesse mai il lavoro prima di aver com-pletato a ricina (dieci salme, venti salme, ecc.). Com-piute invece le cento salme si invocava il sacramento». Dei sistemi tradizionali di trasporto rimangono oggisempre meno tracce e quel poco non pare destinato aresistere nel tempo. In passato, quando era destinato alconsumo locale, il sale veniva avviato su carretti atrazione animale verso il mulino-frantoio sistematoall’interno della casa ri salina. La quantità di sale av-viata al porto di Trapani in vista dell’esportazionecresce ogni anno di più: il trasporto viene compiuto siasu barconi a vela latina e fiocco (schifazzi), di 10-12tonnellate di stazza e manovrate da un solo marinaio,sia su barche senza ponte e senza vela (muçiari o sali-nari), di 5-6 tonnellate di stazza, naviganti a rimorchioo lungo pali fissati nel fondo dei canali. Le saline chenon hanno accesso ad una rete di canali ricorrono adun primo trasporto su motoape o carretti e quindi al-l’imbarco. Gli impianti serviti dal canali ri mmenzu in-terno alle saline cominciano a smerciare sale già in in-verno, allorché i barconi possono muoversi agevol-mente durante l’alta marea; gli altri, non potendo lebarche accedere al canale e dovendosi muovere in ma-re aperto, soggette a frequenti blocchi per le avversecondizioni meteorologiche, finiscono col trasferire sa-le nel porto trapanese solo nei mesi estivi.

Il sistema gerarchico degli uomini di salina

Ripercorrendo le fasi successive della coltivazione delsale, non è difficile rilevare la gran quantità di lavo-ratori coinvolti in una salina e la rigida articolazione dei

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guato dilavamento del sale, liberandolo dei sali di ma-gnesio e contribuendo a purificarlo; tra ottobre e no-vembre il curàtulu e i suoi collaboratori provvedono aricoprire i cumuli prismatici con uno strato di tegole diterracotta (ciaramiri) sistemate a incastro e formanti tet-ti a due spioventi.L’ultima attività che trova posto in salina nel semestredi riposo è costituita dalla vendita e dal trasporto delsale verso i mercati di consumo, transitando dal portodi Trapani. La commercializzazione del prodotto grez-zo comincia nella stagione invernale: si scopre il mun-zidduni da un lato e si comincia a prelevare il sale dalbasso, avanzando lentamente per non farlo rovinare sul-l’aia. L’unità di misura del sale venduto era costituitain passato dal tùmminu, della capacità di 17 litri circa,ma il suo uso si è andato riducendo con il ricorso pri-ma alle stesse ceste di raccolta e poi a sistemi più mo-derni. Addetto alla misurazione era il tumminaru, uo-mo di fiducia incaricato di bàttiri u tùmminu: riempiredi sale il recipiente, livellarne con la ràsula il contenu-to, rovesciarlo dentro il sacco che altri gli porgevano.Sedici tùmmina costituivano una sarma: la differenzafra il sale raccolto (quando una «salma» corrispondevaa 24 ceste di ferro) e quello venduto (quando corri-spondeva solo a 16 ceste) restava a disposizione del pa-drone della salina e prendeva il nome di resa (Manu-guerra 1980, 382). Diversi dettagli sono riportati in Guggino (1974, 331):«Ogni sarma era costituita da 24 ceste contenenti 20chili di sale. La decima salma era costituita però da 25ceste e toccava in omaggio al proprietario della salina.Ogni 24 o 25 ceste riempite si tagghiava, cioè veniva se-gnata la salma… Cento salme segnavano l’ora del ri-poso che spesso coincideva con il momento della co-

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cennio 1797-1807, rallentata da brevi periodi di crisio di ristagno (1808-1813). La responsabilità diretta diquesto ceto nella gestione delle aziende è consentitadalle forme sempre più diffuse dell’ingabellamento, chelasciano ai proprietari una rendita non troppo alta, masicura» (Costanza 1988, 54).Tra Otto e Novecento, i proprietari di una sola salinadiventano sempre più rari: sopravvive pur tra diffi-coltà la concentrazione delle proprietà in mano a pochirappresentanti del vecchio ceto latifondista. In ogni ca-so, finché i profondi rivolgimenti sociali ed economicidel primo e secondo dopoguerra non intaccano l’anticomondo della salina, l’assetto proprietario muta lenta-mente. La gestione conserva dimensioni familiari oquasi, soprattutto quando la proprietà rimane nellemani della vecchia aristocrazia del luogo. Se le condi-zioni dell’assetto proprietario mutano nel tempo, è so-lo per ragioni di successione ereditaria: alcuni impian-ti si frazionano, altri rimangono a comproprietà indivisafra eredi sensibili alle ragioni della produzione. In un ar-co di tempo pari a mezzo secolo, dai 39 impianti censitinel 1890 si passa ai 51 nel 1938, rimanendo invariataperò la superficie complessiva delle saline, a confermache non si tratta di nuove acquisizioni (Cumin 1939, 9). Intraprendenti gabelloti prendevano allora in affitto unasalina nel semestre della campagna salifera, talora an-che tre o quattro per anno, impegnandovi i membridelle loro famiglie estese e limitando all’essenziale ilpersonale avventizio. Non pochi gestori hanno finitoperciò con l’acquisire nel tempo diritti di proprietà sul-la salina: anche per questa via al ceto aristocratico si èandato sostituendo il ceto dei gabelloti. Sempre menocurate le saline dagli stessi antichi proprietari, la ge-stione con il ricorso all’affitto e alla metateria (fino ap-

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loro interventi, sia come singoli che come componen-ti di un gruppo: trentacinque circa fra operai, stagionalie dirigenti dei lavori, più un numero variabile (maspesso intorno alla decina) di giornalieri, costituivanoe continuano a costituire ancora un mondo organizza-to secondo precise mansioni e rigide scansioni tempo-rali, in una gerarchia riconosciuta da chiunque entravaa far parte del sistema. L’opera di ricostruzione del la-voro in salina non può dirsi completa perciò se non de-lineiamo le mansioni svolte dai diversi salinai e i rap-porti di produzione vigenti, con riferimento ai diritti diproprietà e ai rapporti di dipendenza.Quanto al passato, «il processo di enucleazione bor-ghese che interessa la città [di Trapani] è in granparte legato al commercio del sale; ma sino alla finedel secolo XVIII esso è gestito da una nobiltà civicache proviene per lo più dai ranghi della burocrazia fi-scale e giudiziaria, o dalle professioni, ed è nobilitatacon i titoli stessi della originaria concessione di sali-ne… Se la classe patrizia mantiene sino a quel perio-do pressoché intatta la sua consistenza patrimoniale, èvero che si tratta di un patriziato di ascendenza bor-ghese, non militare, nel cui ambito si verificano nelcorso dei secoli frequenti mutuazioni familiari e so-ciali… Il patriziato mantenne dunque, per quattrosecoli, la proprietà di quasi tutte le aziende». Pur inqueste condizioni, riesce lentamente ad affermarsiun nuovo ceto di imprenditori, i cosiddetti salinisti,che lentamente si pone alla guida delle attività pro-duttive salinifere, quanto più la classe aristocratica sirivela incapace di gestirle. «La crescita del nuovo ce-to dei salinisti, che proviene dalle categorie dei cura-toli diventati gabelloti o dei grandi affittuari, è scan-dita dai tempi stessi dell’euforia commerciale del de-

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2000-2500 unità nel trimestre delle operazioni di rac-colta: «I lavoratori addetti al raccolto del sale pro-vengono in parte dall’agricoltura e in parte dall’indu-stria peschereccia del tonno. I primi, occupati negli al-tri periodi dell’anno come braccianti giornalieri, per lopiù zappatori di vigna, trovano durante la stasi dei la-vori agricoli occupazione nelle saline; i secondi vannoa lavorare in salina appena chiuso il periodo della pescadel tonno, epoca (fine giugno) che coincide quasi conl’inizio dei lavori di raccolta del sale. Si verifica così unflusso annuale di popolamento temporaneo nelle salineche si inizia nel marzo con l’arrivo degli stagionieri, au-menta notevolmente durante il periodo della raccoltadel sale, per cessare poi dopo il raccolto» (Cumin1939, 12). Oggi, sia pur ridotti, i salinai provengonoancora in gran parte dai settori dell’agricoltura e dellapesca.Il proprietario è di solito fisicamente presente in salinasolo durante il raccolto e lì va perciò a risiedere sta-bilmente per qualche mese occupando un’ala dellacasa ri salina. La figura che invece emerge su tutte èquella del curàtulu i salina: amministratore, direttoree sorvegliante degli impianti e dei lavori, egli gode del-la fiducia del proprietario per essere vissuto sul postoper anni di seguito mostrando la perizia e l’efficienzadel vero mastru i salina; ma gode anche di un buon pre-stigio sociale all’esterno, per le competenze e le ca-pacità che gli vengono riconosciute. Il suo contratto dilavoro è annuale: lavora in salina tutti i mesi dell’an-no occupando talora con la famiglia parte della casa risalina; ogni anno mette a coltura strisce di terra atti-gue alle vasche, dove coltiva ortaggi e piantine dibreve ciclo. Negli ultimi anni ha perso molto del ca-rattere originario, divenendo sempre più chiaramente

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punto al passaggio di proprietà) è andata crescendo neltempo.Vent’anni dopo il quadro risulta meglio definito: «Nonsi tratta per lo più di un giustapporsi di saline appar-tenenti allo stesso proprietario o a componenti dellastessa famiglia, di guisa che il frazionamento sia quasiillusorio… ma si tratta di parti distaccate che vivonouna vita autonoma a guisa di tante aziende agricole lon-tane l’una dall’altra e appartenenti allo stesso pro-prietario. Ogni salina costituisce un’unità a sé, indi-pendente dalle altre vicine, nella quasi totalità dei ca-si, con tutti gli impianti e le attrezzature occorrenti alfunzionamento di una salina, con la ripartizione delsuolo tra i vari ordini di vasche» (Ruocco 1958, 47).Negli anni successivi la proprietà si avvia a un frazio-namento sempre più veloce: è allora che, lungi dalcrearvi nuovi impianti, in una con l’abbandono e il qua-si immediato interramento delle vasche, le aree delle sa-line cambiano destinazione d’uso e sono vendute a im-prenditori edili che vi costruiscono palazzi per soddi-sfare la crescente fame di alloggi. Dove il sistema re-siste, nella forma più diffusa della compartecipazione,uno o più salinai prendono in gestione una salina per ilsemestre della campagna salinifera e cedono ai pro-prietari quote variabili della produzione, a partire dal30-50%; altre saline sono di proprietà e gestione di so-cietà di salinai; in quasi tutte infine, che siano gestiteda nuovi proprietari o da affittuari, si alterna la pro-duzione del sale alla piscicoltura.Quanto ai lavoratori dipendenti, il carattere stagiona-le della coltivazione del sale aveva e continua ad avereun’immediata ricaduta sull’impiego precario in sali-na. Quando in tutti gli impianti fra Trapani e Marsa-la si praticava la coltura del sale si raggiungevano le

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sersi confusa per qualche anno con il suttacuràtulu, la fi-gura è andata scomparendo con lo sparire degli antichimulini, sostituiti da quelli autodirezionali e a bassa ma-nutenzione. Accanto alle due (o tre) figure centrali che, non a ca-so, lavorano talora tutto l’anno in salina e rientranoperciò nella categoria degli annalori, si pongono gli ope-rai stagionali. Gli staçiuneri costituiscono gruppi dioperai specializzati, varianti dalla quattro alle otto odieci unità a seconda dell’estensione della salina edella disponibilità di manodopera. Essi sono assunti adapertura della campagna salinifera, ricevono un salariomensile e rimangono impiegati in salina fino a raccoltoultimato: puliscono i canali, sistemano le vasche,provvedono al trasferimento delle acque, sistemano imunzidduni di sale e li ricoprono di tegole. Il numerodi stagionali non sempre è adeguato alla mole di lavoroda espletare, o non sempre il curàtulu riesce ad assi-curarsene la presenza costante per tutto il semestredella campagna: si impone allora il ricorso a òminir’aiutu che collaborano, quando non ne prendono il po-sto, con gli staçiuneri. Operai avventizi, impiegati e re-tribuiti a giornata, adibiti a lavori generici o di ap-prendistato, danno una manu r’aiutu (e così finisconocon l’essere chiamati) a quanti ne hanno bisogno.Vengono per ultimi gli apprendisti i quali completanol’universo sociale della salina durante i lavori: tra di lo-ro il pitiniaru e il tavularu. Gli operai della venna alloggiano nella casa ri salina, do-ve consumano i pasti nelle ore serali e, a meno che nonrisiedessero nelle vicinanze, in passato tornavano inpaese a settimane alterne da sabato sera a domenicanotte. Essi lavorano a cottimo (a stagghiu) e il loro com-penso settimanale dipende perciò dalle «salme» di sa-

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un amministratore che stacca i ritmi della sua vita pri-vata da quelli della salina: vive stabilmente in paesenei mesi invernali e si reca in salina solo per i lavoriperiodici.Il curàtulu riceve dal proprietario un compenso fissomensile, l’uso gratuito dell’abitazione per l’intero nu-cleo familiare e un’indennità, per «salma» di sale pro-dotto, denominata mazza a ttùmminu. Durante la col-tivazione del sale a lui è affidata la direzione dei lavori,dal caricamento al prosciugamento delle vasche, fino altrasporto e alla commercializzazione del sale raccolto;nei mesi di stasi lavorativa, invece, le sue funzioni van-no dalla sorveglianza della salina agli interventi sugliimpianti effettuati personalmente o ricorrendo a ope-rai assunti a giornata. Responsabile primo della buonao della cattiva annata, di seguito alla conduzione dellasalina, è lui a scegliere i collaboratori stagionali, lavenna cui affidare il trasporto (nominando capuvenna,capupartitara e suttacapu), il signaturi di sua fiducia e, na-turalmente, a curare i rapporti contabili col proprietariodal quale, a fine settimana nei mesi di lavoro, riceve lasomma di denaro da corrispondere ai salinai. Nelle saline più estese è talora presente un collabora-tore del curàtulu, addetto a varie mansioni: il sutta-curàtulu abita nella casa della salina per tutto l’anno, seimpiegato stabilmente, o per il solo semestre dellacampagna di raccolta. Fra gli stagionali, quando non erastabilmente impiegato in salina, emergeva per capacitàe responsabilità il mulinaru, addetto al buon funzio-namento dell’antico mulino olandese e alla sua manu-tenzione: era provvisto di capacità non disgiunta dal-l’esperienza, come l’intuire in anticipo il mutare delladirezione del vento, predisponendo le pale di conse-guenza ed evitandone il danneggiamento. Dopo es-

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salina per accudire a varie incombenze e acquisire in-tanto i rudimenti di un mestiere. Tra gli adolescentic’erano gli aiutanti quattordicenni detti trippiddui per-ché in gruppi di tre percepivano il compenso di dueadulti; i quindicenni impegnati con la venna nel tra-sporto del sale e detti menzaiurnata perché retribuiti al50%; l’assummaturi r’acqua e l’acqualoru, ragazzini didodici-tredici anni che distribuivano acqua agli uo-mini impegnati nel lavoro. Di giovane età era anche ilbaddaronzularu, ragazzo che non veniva remunerato peril lavoro svolto: figlio di staçiuneri, veniva mandato insalina in segno di riconoscenza verso il curàtulu che as-sumeva un familiare per l’intera campagna, oppureapparteneva a povere famiglie del circondario bisognosedi aiuto (Ruggirello 1984).

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le raccolte dalla loro squadra: prendono a cottimo (astagghiu) l’incarico e lo portano a termine nel più bre-ve tempo possibile per spostarsi successivamente al-trove. Ne derivano duri rapporti fra i componenti e di-viene oggetto di orgoglio, frutto di perizia, impegno esolidarietà di squadra, il distacco che non di rado si ve-rifica fra i cumuli di sale approntati dai partitara equelli che gli òmini ri venna riescono a smaltire: l’or-goglio di un gruppo si traduce in discredito e schernonei confronti dell’altro.Quella del signaturi è una figura di rilievo per la fun-zione esercitata: segna sulla tagghia le «salme» e leloro decine, per conto del proprietario; sul finire dellagiornata, si reca nella casa di salina dove comunica alcuràtulu la quantità di sale raccolto in ogni singolacasedda; solo dopo che quest’ultimo ha provvedutoalla registrazione del prodotto, azzera la tagghia, per ri-cominciare l’indomani. Poiché controlla le ceste disale trasferite sull’ariuni in vista del compenso da cor-rispondere alla venna a fine raccolto, la sua vigilanza sifa sentire sugli uomini addetti: non è un caso che i sa-linai badino a contare personalmente le ceste, dele-gandone il compito al capuvenna (o a un suo sostituto)il quale intona i canti ru salinaru: il ‘contare cantando’permette di far corrispondere un numero ad ogni ver-so sino alle 24 ceste che segnano il compiersi della «sal-ma»; da qui partono le unità, e poi le decine, an-ch’esse contabilizzate cantando (Guggino 1974, 331). Sorvoliamo sulle figure dei battellieri e dei carrettieri,addetti al trasporto del sale fuori dalla salina e, av-viandoci alla chiusura, richiamiamo l’attenzione sulricorso al lavoro minorile in salina, molto diffuso finoagli anni Sessanta. Si trattava in gran parte di ragazziche, chiuse le scuole, venivano avviati al lavoro in

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desertificazione delle zone interne che si accompagnaall’emigrazione e all’inurbamento, il lento esaurirsidell’artigianato tradizionale e di attività agricole che dasecoli segnavano il territorio: sono tutti fenomeni an-cora troppo recenti perché li si possa guardare con lostesso occhio dello storico.Della cultura materiale di un universo sociale ed eco-nomico vecchio di secoli, ma che sopravvive finoagli anni Sessanta del Novecento, non si può fare ar-cheologia, naturalmente, né ancora storia nel sensopiù pieno del termine, ma si può fare memoria: l’e-sigenza di collocare la cultura materiale su una di-mensione connessa alla memoria dipende dal fatto chenon rimangono disponibili solo gli attrezzi di lavoroma sono ancora presenti anche le persone che li usa-vano fino a un recente passato. «La memoria rifiutala morte e la storia l’accetta – è stato rilevato, anchese in un contesto del tutto diverso – e storia e me-moria, lungi dall’essere sinonimi, sono talvolta inaperto conflitto. Vi è una sorta di confine impreciso,di spazio ambiguo, una soglia insomma oltre la qualela memoria non è più altro che storia. Banalmente sipotrebbe collocare tale soglia nel passaggio tra gene-razioni: in tale prospettiva la morte degli ultimi ingrado di ricordare corrisponde alla morte della me-moria» (Tota 1999, 81).Nella direzione qui indicata, è il caso di osservare co-me nel nostro paese un’attenzione per la cultura ma-teriale, accanto all’interesse coltivato dalla preistoria edall’archeologia, si cominci a nutrire già in tempi lon-tani, e solo in rari casi sia riconducibile a semplice cu-riosità. Essa non viene meno col passare del tempo, an-zi si va ritagliando propri spazi entro i quali si perfe-zionano i quadri di riferimento e i metodi di ricerca: si

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La cultura materiale nelle realtà in transizione

La Nouvelle Histoire coltiva un interesse di grande re-spiro per la cultura materiale e ad essa fa ricorso per ri-costruire realtà lontane nel tempo, di cui non esistonoche labili tracce negli archivi: i già citati La Méditer-ranée di Fernand Braudel e Montaillou di EmmanuelLeroy Ladurie costituiscono in tal senso pietre milia-ri di un percorso esemplare. Etnologia e antropologiaculturale vi fanno ricorso per delineare le basi di so-pravvivenza di comunità insediate in realtà lontane sulpiano culturale e talora remote su quello geografico:con la socioetnologia francese di Durkheim e Mauss simuovono in tale direzione quasi tutte le monografie diantropologia sociale britannica, a partire da Mali-nowski fino a Edward Evans-Pritchard e a RaymondFirth.Ma cosa accade se a diventare oggetto di attenzione èla cultura materiale di una realtà in transizione, cui nonpossono gettare uno «sguardo da lontano» né gli uni négli altri e che i sociologi non possono ignorare? È il ca-so del Mezzogiorno d’Italia, in cui rinnovamenti pro-duttivi non si sono verificati a fine Ottocento ma si so-no cominciati a registrare solo negli ultimi quaranta an-ni. Talora segnati da processi di sfaldamento, come la

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Capitolo V

Lo studio della cultura materialecome sociologia della cultura

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dalle varie comunità per rispondere ai bisogni di so-pravvivenza, non perdono il loro valore originario mane acquisiscono uno nuovo in quanto testimonianzedelle loro concezioni del mondo e della vita. Come ab-biamo già osservato, quelli che erano mezzi di inter-vento sul mondo, e di interpretazione dello stesso,tendono ad essere assunti come segni di una cultura edella sua storia, diventano cioè beni culturali nelsenso pieno del termine. Agli ultimi sviluppi contribuiscono intellettuali di di-verse regioni, e soprattutto di quelle meridionali, manon crediamo di esagerare indicando in un gruppo distudiosi palermitani (interni ed esterni alla locale uni-versità) quello che più si impegna nella nuova direzio-ne impressa alle teorie e alle pratiche connesse alla cul-tura materiale, elaborando e portando a termine pro-getti di grande valore scientifico e culturale. Facendotesoro di ricerche monografiche sparse, condotte in am-bito antropologico ma con la dovuta attenzione al so-ciale, il nuovo orientamento fa registrare un decisivopasso avanti a partire dalla metà degli anni Settanta: al-lora il gruppo si impegna a definire le modalità della ri-cerca, gli interessi da rivolgere al settore, se e in qualmodo coniugarli con quelli più propri della storia so-ciale (in primo luogo la storia del movimento contadi-no). Momenti centrali dell’esperienza scientifica e cul-turale insieme sono due congressi internazionali tenu-tisi a Palermo nel 1978 e nel 1980, occasioni di con-fronto fra coloro che, con obiettivi e modalità diffe-renti, si occupano professionalmente di cultura mate-riale. Alla pubblicazione dei relativi Atti (AA.VV.1980 e 1984) seguono numerose ricerche incentrate suicicli di produzione tradizionali, pubblicate in variesedi e in diversi formati. Tra i due congressi si colloca

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passa così da una prospettiva di tipo folklorico aduna di tipo ergologico, per procedere lentamente ver-so una di tipo storico-sociale.Il fatto che in tempi recenti quell’attenzione si vada an-cora riconfigurando, in una direzione socioantropolo-gica e semiotica, e ci si proponga di raggiungere obiet-tivi diversi da quelli coltivati in passato, non è privo diconseguenze. A cominciare dalla denuncia del poco onullo interesse nutrito nei suoi confronti dagli stu-diosi dell’Ottocento, che pure hanno «scoperto» ilpopolo quale entità sociale degna di interesse. Nuovemodalità operative si prospettano all’operatore culturalein rapporto alla situazione in cui si trova ad operare.Questa infatti non è posta in un tempo altro (come av-viene per lo storico o l’archeologo), ma è una realtà cheesiste ancora o è appena scomparsa, e a rimanere nonsono povere tracce: il ricercatore ha dinanzi a sé, oltreagli strumenti, gli uomini che talora li hanno usati finoall’anno precedente. A fronte dello sfaldarsi della realtà socioculturalepreesistente, i cui tratti distintivi resistono ancora nel-le zone più isolate, a chi studia la cultura materiale siimpongono almeno due esigenze: la prima, di tipo co-noscitivo, è diretta a ricostruire quadri dettagliatidelle realtà produttive tradizionali attraverso estesecampagne di ricerca in aree ben delimitate. Questoconsente di rilevare le linee di diffusione di innova-zioni tecniche, culturali o linguistiche e contribuiscecosì a spiegare dinamiche culturali di varia natura. Laseconda esigenza è quella che diciamo della ripropo-sta, intesa come recupero e fruizione critica dei re-perti di cultura materiale, in risposta a esigenze po-litico-culturali sempre più avvertite ai più diversi li-velli. Le pratiche collettive, messe in atto e praticate

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tive. A partire dalle riflessioni condotte e dai dibattitiche suscitano, per finire ai progetti e alle realizzazionicompiute, tutte le azioni intraprese possono consi-derarsi tasselli di un nuovo ambito d’attenzione:quello coltivato da figure sociali emergenti in quelleche abbiamo chiamato realtà in transizione.

Nuovi progetti per nuovi attori sociali: dalla documenta-zione alla riproposta

Tra i progetti varati dalla Regione Siciliana nell’ambitodi una legge recante provvedimenti in favore dell’oc-cupazione giovanile (legge regionale n. 37/1978), il«Censimento dei beni etnoantropologici» [prima sche-da: strumenti di lavoro] è quello che ha maggior rilie-vo tra le iniziative intraprese di seguito alla legge80/1977. Oggetto del rilevamento sono gli strumenti dilavoro e i cicli lavorativi tradizionali, anche se sono i ci-cli a essere studiati per primi, e solo in seguito si pas-sa a documentare gli attrezzi. Ne deriva che la singolascheda è incentrata su un oggetto specifico, ma la let-tura di una serie di schede in successione permette diricostruire il quadro complessivo delle tecniche pro-duttive diffuse nell’Isola a metà Novecento. Progettatoe condotto a termine con fini in prevalenza etnografi-ci (catalogazione delle tecniche tradizionali di produ-zione), il Censimento non trascura gli aspetti storico-so-ciali, né quelli linguistici (una parte di rilievo della sche-da riguarda la documentazione delle forme dialettalicon la trascrizione dei nomi di attrezzi e tecniche nel-la forma originaria), né tanto meno quelli socio-cultu-rali. È superfluo infatti rilevare come «la materia, laforma, il colore, il luogo e l’epoca di provenienza, so-

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il Censimento regionale dei beni culturali, incentratosugli strumenti di lavoro.

Tutto questo è possibile perché in Sicilia l’orienta-mento delineato ha una tempestiva ricaduta sul pianolegislativo: ai beni etnoantropologici (in cui rientranogli attrezzi del lavoro tradizionale) viene infatti rico-nosciuta rilevanza istituzionale dalla legge regionale80/1977, recante «Norme per la tutela, la valorizza-zione e l’uso sociale dei beni culturali e ambientali nelterritorio della Regione Siciliana». Nel trasferire allaRegione le relative competenze, la legge attribuisce lo-ro piena dignità di beni culturali, prevedendo specifi-che sezioni delle Soprintendenze provinciali, e questofatto permette l’attivazione di diverse iniziative dirilievo. Qui di seguito ne prendiamo in considerazionedue: la prima (di documentazione) vede l’Università diPalermo farsi promotrice e, insieme con le altre duedell’Isola, coordinatrice di un ampio lavoro di catalo-gazione esteso a tutti i comuni dell’Isola; la seconda (diriproposta) riguarda le mostre del lavoro contadino e leattività che ne accompagnano l’allestimento, promotorioperatori culturali e amministratori di enti locali.Si tratta di un intenso lavoro al quale si dedicano, in-terpreti dei nuovi orientamenti, attori sociali di variaformazione: tecniche e strumenti del lavoro tradi-zionale vengono consapevolmente assunti come te-stimonianze di un mondo sociale ed economico perlungo tempo ignorato. In questa prospettiva, inse-gnanti e studenti, politici e operatori culturali, co-minciano ad elaborare nuovi sensi e a praticare nuo-ve modalità di fruizione della cultura materiale: le mo-stre del lavoro tradizionale e i musei della civiltàcontadina costituiscono esempi di attività significa-

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niscono col coinvolgere fasce di popolazione che ha pas-sato la vita intera in quel mondo.Con le quasi diciannovemila schede compilate, il Cen-simento colma una lacuna conoscitiva intorno al mon-do contadino e artigiano in via di sparizione per le ve-loci trasformazioni in corso e per l’esaurimento di at-tività una volta vivaci a livello locale. Non che nessu-no se ne sia mai interessato, ma coloro che se ne sonooccupati nella gran parte dei casi hanno finito col faresolo storia del latifondo o del movimento contadino,sorvolando su aspetti ritenuti arcaici e primitivi qualile tecniche lavorative. Accanto al valore scientificodell’iniziativa regionale se ne colloca uno politico-cul-turale: oltre a produrre una enorme raccolta di docu-menti, essa soffre stimoli al dibattito, all’approfondi-mento e alla riflessione. Il fatto di impostare una nuo-va prospettiva di studio comporta inoltre un aggiusta-mento di parametri fra soggetti e oggetti di studio: igiovani addetti al censimento vanno dai contadini,dai pastori o dagli artigiani con l’aria umile di chi ha daimparare e quelli diventavano perciò fonte di sapere perchi ne risulta sprovvisto. Questo stato di cose puòinfine contribuire a collocare idealmente su gradini di-versi della scala sociale i «lavoratori della mano», sti-molandoli a prendere coscienza dell’importanza delloro lavoro e del contributo arrecato alla vita in società.Emergono così nuove figure sociali che si fanno pro-motrici di dibattiti, convegni e seminari. Non sono«esperti» ma attori sociali alle cui capacità proget-tuali e propositive si associano competenze soprattut-to politico-culturali; persone che, in un confronto con-tinuo con le comunità di appartenenza elaborano iti-nerari in cui all’operare quotidiano si accosta una con-tinua azione programmatica tesa alla sensibilizzazione

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no indispensabili per sapere da quale gruppo sociocul-turale proviene un reperto, a quando risale, perché ecome è stato concepito, utilizzato e percepito» (BucaillePesez 1978, 85).A svolgere il lavoro, tra il giugno 1979 e il dicembre1980, sono due giovani per comune assunti in base a li-ste speciali di collocamento; a seguirne lo svolgimento(con seminari e incontri periodici, ora in città ora neisingoli comuni) sono gli istituti di antropologia cultu-rale dei tre Atenei isolani. Al Censimento segue tra il1981 e l’83 un lavoro di «normalizzazione» del mate-riale raccolto attraverso tre successivi interventi: a) re-gistrazione su scheda dei cicli lavorativi presi in esame;b) revisione e numerazione progressiva delle schede; c)inventario delle schede incrociandone i dati con i co-muni in cui un ciclo era stato studiato e con gli attrezzidi lavoro censiti per comune. Negli anni successivivengono trasferite presso il Centro del Catalogo del-l’Assessorato Regionale dei Beni Culturali 18.461schede, un numero considerevole, a copertura del 95%dei comuni dell’Isola. L’opera di catalogazione permette di conseguire ungran numero di risultati:a)si produce un’ampia documentazione dei reperti dicultura materiale secondo modalità che l’evolversi del-le tecnologie rende possibili;b)sul piano del metodo, i giovani addetti fanno ampioricorso a interviste e questionari, ma soprattutto al-l’osservazione etnografica, non omettendo di racco-gliere le storie di vita di coloro che hanno vissutonelle realtà socioeconomiche di riferimento;c)accanto all’esigenza scientifica della documentazionese ne impone una di riproposta che si può definire po-litico-culturale: si attivano numerose iniziative che fi-

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Nello stato di cose delineato si coglie subito l’impor-tanza del collegamento con la scuola, la quale è tra leprime a essere coinvolte nel nuovo discorso che si in-tende condurre, e sin dall’inizio sono molti gli indizi diun rapporto in via di perfezionamento. Insegnanti eoperatori scolastici lamentano infatti che la scuola siaentrata nelle realtà locali come un corpo estraneo,portatrice spesso di nozioni, ideologie e lingua an-ch’esse estranee: le mostre sulla «civiltà contadina»possono diventare allora occasioni di ripensamento e ri-fiuto dei luoghi comuni, operando laddove essi si for-mano e vengono alimentati.Fra le esperienze condotte a scuola e da segnalare a mo-dello, risale al 1977 l’inizio di un paziente lavoro di ri-cerca condotto nella scuola media di Campobello diMazara (Trapani), teso alla ricognizione di oggetti delmondo contadino dell’area del Basso Belice ed esitatonell’allestimento di una mostra. Promotori ne sonogli insegnanti e realizzatori gli stessi giovani scolari che,con l’aiuto dei loro nonni, ricostruiscono la storia chesta dietro ad ogni oggetto e vengono così aiutati a ri-flettere sulla loro realtà sociale. L’amministrazionecomunale, sensibile alle problematiche sottese all’ini-ziativa, va incontro agli operatori scolastici istituendonel 1978 il «Museo della vita e del lavoro contadino».È significativo del nuovo orientamento che sin dall’i-nizio, negli intenti dei promotori, esso voglia essere«non solo sede di conservazione ed esposizione dei ma-teriali, ma luogo di ricerca e di lavoro didattico, centrodi documentazione della storia locale e della cultura po-polare» (Cusumano 1978, 4).Il numero delle mostre locali allestite tra l’estate 1979e la fine del 1980 sale a livelli non immaginabili un an-no prima, accompagnato da crescente consenso e coin-

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e al dibattito, per finire spesso nell’allestimento diuna mostra che nei casi più felici diventa museo.

A riandare col ricordo alle prime mostre del lavoro con-tadino allestite in Sicilia non si possono non registrare glienormi progressi compiuti in breve tempo da un’idea chenon sembrava aver futuro al di fuori di una ristretta cer-chia di intellettuali. Il progetto che si intendeva realizzarepoteva già contare su precedenti di non poco rilievo: è ilcaso della mostra, poi «Museo della stadura», allestita neiprimi anni Settanta in località san Marino di Bentivoglio,in Emilia Romagna. Ma sembrava difficile che un’ini-ziativa nata in quella regione potesse attecchire solodue anni dopo in una regione del sud, e in Sicilia in par-ticolare. Invece le cose vanno diversamente.La prima mostra, allestita a Caronia (Messina) nel1976, nasce dalla collaborazione di studenti, contadi-ni ed emigrati che, rientrati in paese nel periodo esti-vo, recuperano attrezzi di lavoro da vecchie stalle ab-bandonate. Inizialmente, in risposta ai giovani chevanno a sollecitarne l’impegno per un’iniziativa del tut-to nuova, contadini e pensionati manifestano diffi-denza e incredulità, riandando con la memoria alladura fatica che gli attrezzi di lavoro evocano, ai rap-porti di sfruttamento nel lavoro dei campi. Il successivotrasferimento dei materiali lì esposti nei locali del«Museo internazionale delle marionette» di Palermo,costituisce un fatto nuovo anche per la città, mo-strando di poter rispondere ad esigenze già silenziosa-mente avvertite e coltivate in ampi strati degli opera-tori culturali del capoluogo. E le iniziative che ac-compagnano la mostra (visite guidate delle scuole, di-battiti e seminari) finiscono col fungere da cassa di ri-sonanza per la stessa.

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La veloce accelerazione e la moltiplicazione delle ini-ziative di riproposta crediamo trovino nel Censimentodei beni etnoantropologici una sorta di causa efficien-te: esso può costituire ovunque l’inizio di un processodi sensibilizzazione verso una realtà di solito trascuratae il fatto che sia l’amministrazione comunale, conproprio personale, a seguirne lo svolgimento può essereinterpretato come il segnale per un nuovo discorsoda sviluppare e portare avanti. Per questo motivo puòrisultare facile a molti operatori culturali, e agli stessigiovani incaricati del censimento, promuovere atti-vità parallele che coinvolgono la popolazione locale: ri-flessioni e seminari, appunto, ma soprattutto mostre incui essi stessi si fanno accompagnatori raccogliendoinformazioni e ricordi. Il difficile stato di vita di cui siva prendendo coscienza si accompagna all’esigenza diripensare criticamente il proprio passato: l’emigrato ri-vede con rabbia nei reperti esposti le tracce remote dicui pensa di essersi liberato andando all’estero; l’an-ziano pensionato ricostruisce negli attrezzi la memoriadel proprio passato; il giovane ha modo di scoprire unarealtà che a scuola non ha avuto tempo e modo di co-noscere. Non c’è spazio per richiami nostalgici: alcontrario, le mostre e le iniziative parallele costitui-scono occasioni di denuncia delle condizioni del passatoe di riflessione sulle prospettive per il futuro. Si tratta di nuove figure, dunque, assimilabili agli«intellettuali» d’impronta gramsciana dianzi richia-mati, ma anche di nuovi processi culturali, esiti dinuovi percorsi in vista di obiettivi prima non avverti-ti, il che aiuta a comprendere meglio la novità del fe-nomeno. Per questo motivo qui conviene fare appelload una nuova sociologia della cultura, diversi essendogli operatori e diversi gli obiettivi: non direttori di isti-

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volgimento di pubblico.2 È come se una parola d’ordi-ne investisse giovani e anziani dei comuni dell’Isola, te-si a recuperare le tracce di un passato che si volevascomparso. E invece, si vedono contadini e artigiani an-dare a rovistare nelle stalle e nei laboratori abbandonatiper trarne fuori attrezzi ormai da anni in disuso. Nonsemplici tracce ma ampie dimensioni del mondo con-tadino tornano così a ricomporsi, e i promotori delle ini-ziative si fanno ogni volta da parte per lasciar posto acoloro che ne sono stati inconsapevoli protagonisti.Tutto questo non vede sparire l’opera del gruppo di stu-diosi palermitani che, per primi, si muovono nella di-rezione delineata.3 Dai primi anni Novanta i loro in-teressi originari cominciano a diversificarsi ma conti-nuano a operare vivacemente per la fruizione, in rife-rimento alle mostre e successivamente ai musei: in talsenso operano il Servizio museografico e il Laboratorioantropologico, strutture interne alla facoltà di Lettere diPalermo ma operanti in tutto il territorio regionale.4

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2 Mostre di cultura materiale vengono allestite a Palermo, Assessorato Tu-rismo (novembre 1978), Castellana Sicula, Palazzo Adriano e Polizzi Ge-nerosa (agosto 1979), Vallelunga e Palma di Montechiaro (ottobre-no-vembre 1979), Marineo, Villalba e Caltavuturo (gennaio 1980), Palermo,Società Storia Patria, e Petralia Sottana (aprile 1980), Castellammare delGolfo (agosto 1980), S.Giuseppe Jato (ottobre 1980), S.Stefano Quisqui-na (dicembre 1980). 3 Segnaliamo solo alcune attività espositive delle tante realizzate: La tessi-tura popolare (Gibellina, gennaio 1982), L’Isola ritrovata (Palermo, aprile1982), I colori del sole (Palermo, giugno 1982), Arti e mestieri (Gibellina eCampobello di Mazara, maggio-settembre 1983 e giugno-novembre 1985),Le arti del fuoco (Caronia, gennaio 1985), La terra colorata (S.Stefano Ca-mastra, agosto 1989).4 Tra le mostre curate dal Servizio Museografico ricordiamo: Le forme dellavoro (Palermo, marzo 1986), La mano di Penelope (Caccamo, maggio1986), La terra e il fuoco. Ceramica popolare (Mazara del Vallo e Gibellina,maggio-ottobre 1991), Il sapere della mano: l’intreccio (Buscemi e Palazzo-lo Acreide, aprile-maggio 1992).

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disponibili soggetti privati (il che pure avviene, ma inpochi casi) o che mecenati non mettano a disposizionespazi e fondi per i progetti di esposizione permanente,il materiale raccolto per la mostra finisce con l’andaredisperso, tornando nelle stalle o nei magazzini da cui èuscito.I musei vengono ospitati di solito negli edifici disponi-bili, naturalmente, ma di preferenza all’interno di loca-li che in passato fungevano da supporto alle attività agri-cole prima che venissero dismessi: è il caso dei bagli odelle masserie, ancora diffusi nelle campagne siciliane. Seall’interno dei paesi, vengono di solito allestiti in palazzidell’antica nobiltà rurale, quando non in ex conventi ac-quisiti al demanio o in chiese sconsacrate. In altri casi an-cora si fa ricorso a reti museali, allestite nei paesi e in edi-fici rurali circostanti e comprendenti un nucleo centra-le e una serie di aree espositive collegate. È raro che sirealizzino musei totalmente o parzialmente en plein air.Al di là delle soluzioni adottate, però, per ogni esposi-zione vengono programmaticamente mantenuti i colle-gamenti con il contesto territoriale di pertinenza e si pro-muovono itinerari comprendenti visite alle realtà localiaccanto alle fruizioni museali.L’esigenza espressa dai nuovi operatori culturali neinuovi contesti dianzi delineati si concretizza in ungran numero di iniziative: dopo il museo di Campo-bello di Mazara (1978) è la volta di quello di Gibellina(1981), di Geraci (1983), di Bisacquino (1984), diSant’Agata di Militello (1984), di Modica (1988), diRoccapalumba (1990), di Petralia Sottana (1996) e dimolti altri, considerato che ormai sono una quarantinaquelli che risultano sparsi per l’Isola. Riteniamo però che l’esperienza più significativa di mu-seo della cultura materiale sia costituita da quello al-

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tuzioni culturali o curatori di musei, più interessati ta-lora alla custodia che alla fruizione, chiusi spesso in unorizzonte sospeso tra l’accademico delle Università e l’i-stituzionale delle Soprintendenze, e neppure scienza epratiche asettiche, con una lunga tradizione alle spalleo una legislazione su cui fare affidamento, ma gli uni ele altre impegnati in direzione del nuovo, engagés ap-punto. Riteniamo che questo sia il fenomeno più rile-vante registrato fra le comunità in transizione, dove ilsapere non è qualcosa di già definito e semplicementeda trasmettere ma, prima ancora, è da costruire equotidianamente valutare in un confronto continuo coni nuovi contesti in via di configurazione.

Dalle mostre della civiltà contadina ai musei della cultu-ra materiale

Gran parte delle mostre del lavoro contadino allestitetra gli anni Settanta e gli Ottanta diventano perma-nenti col passare del tempo, riproponendosi come ve-ri e propri musei della cultura materiale. Ciò avvienequando, facendosi interpreti della nuova sensibilità edegli orientamenti politico-culturali coltivati da stratisempre più larghi della popolazione, i comuni mettonoa disposizione tutto quanto è necessario (dai locali al-le strutture espositive, ai sistemi di custodia, ecc.). Nonsempre il passaggio si rivela indolore, naturalmente,perché coloro che hanno prima lavorato con le scola-resche e poi allestito le mostre hanno spesso diffi-coltà a far accettare ad amministratori e dipendenti co-munali le logiche con cui hanno operato e che ora ve-dono trascurate o negate. Quando non si verifica la di-sponibilità degli enti locali, a meno che non si rendano

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che interrompono i lavori per guidare i visitatori fa-cendo appello alla loro competenza.È importante, infine, perché non viene meno nel tempol’impegno profuso nell’iniziativa dal comune e dai privaticon i quali vige una convenzione rinnovata annual-mente: il primo tiene nel museo custodi e guide stabili ene fa nel tempo un vero e proprio centro di cultura; i se-condi non solo si assumono il compito di curare, re-staurare e mantenere alto il profilo degli spazi espositi-vi, ma integrano l’attività museografica con azioni cheoggi diremmo di marketing, secondo modalità da tempoadottate in America (Mancuso Giacomarra 2003): ilriferimento va alla gestione di attività di ristorazione conprodotti tipici della salina riservate a visitatori singoli oa comitive, in occasione di incontri o cerimonie.L’esempio di Nubia viene seguito dal museo della salinaEttore Infersa, allestito nel 1997 una ventina di km piùa sud, in territorio di Marsala, nei pressi delle Isole del-lo Stagnone. Come il primo, è collocato accanto agliimpianti di lavorazione ma ne differisce per le soluzioniespositive adottate (con ricostruzioni in plastico divasche salanti e altre componenti della salina all’internodi un edificio).È il caso di richiamare infine che nel 1996 tutta l’areadelle saline trapanesi viene eretta a Riserva regionaleintegrale («Le vie del sale») e la presenza dei duemusei si rivela oltremodo significativa in quantoproietta il complesso di strutture e strumenti di lavo-ro su una nuova dimensione, quella di beni culturali inuna realtà ambientale di pregio. Un’area destinata aRiserva non inquadra infatti solo aspetti d’ordineambientale o urbanistico: in essa si attiva un processoche va al di là degli interventi oggettivi di tutela,documentazione e restauro, ma prima ancora dà un

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lestito tra il 1986 e l’87 all’interno della salina di Nu-bia sopra descritta, grazie alla collaborazione delle fa-coltà di Lettere e di Architettura dell’Università di Pa-lermo. Il Museo delle Saline, in parte en plein air, è ospi-tato nel magazzino della casa ri salina e tiene in espo-sizione attrezzi e macchinari utilizzati nel lavoro del sa-le, ognuno accompagnato da schede e pannelli tesi a ri-costruire le fasi del ciclo lavorativo. L’esperienza è daritenersi importante in quanto vede il succedersi or-dinato di una serie di attività che in qualche modo lapreparano: il Censimento condotto da due giovani ca-talogatori del comune di Paceco; una vasta ricercacondotta in vista della compilazione delle schede, esi-tata nella stesura di una monografia sulla lavorazionedel sale marino; l’allestimento di una mostra tempo-ranea in locali messi a disposizione dal comune; il tra-sferimento dei materiali della mostra alla Triennale diMilano (di cui si fa promotrice la locale Azienda del tu-rismo con la collaborazione delle due facoltà); l’of-ferta di disponibilità dei locali da parte di una famigliadi salinai per l’allestimento del museo. Ma esso è importante anche perché, a differenza di al-tri musei che finiscono con l’adattarsi a contenitori divario genere (spesso angusti e poco adatti a contenereuna esposizione stabile), può disporre di un edificio an-nesso alla salina e di uno spazio espositivo en plein air,per intero ricavato dall’impianto produttivo ancorain funzione e di proprietà privata, adottando così mo-delli diffusi nel nord Europa. Non si «museifica» in-somma una realtà ormai scomparsa e la salina continuaa operare e a produrre sale marino, senza che ciò creiimpaccio all’esposizione dei reperti. Diventa un vero eproprio «museo vivente» nei mesi di coltivazione delsale, quando capita di vedere i proprietari o i gestori

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Nell’area circostante la casa stanno le vasche in cui av-viene la coltivazione del sale. Essa comprende:– un canale di trasferimento dell’acqua marina da unimpianto all’altro;– diverse serie di vasche salanti, dalle più ampie eprofonde alle più strette e superficiali, dove viene av-viato il liquido in maturazione. Tra una vasca e quellaattigua stretti viottoli consentono agli operai addetti ailavori di trasferirsi da un punto all’altro dell’impiantosalinifero;– un aeromotore che aziona la pompa aspirante per tra-sferire l’acqua dal primo al secondo ordine di vasche; – una coclea o vite d’Archimede, sistemata sull’ango-lo d’ingresso, costituisce un esemplare di altre utilizzateper favorire il deflusso d’acqua tra le vasche; – due piattaforme (spiazzi rettangolari delimitati dablocchi di tufo), dove rimane a riposo il sale raccolto,coperto di tegole, in attesa della commercializzazione.Al locale adibito a museo si accede attraverso unostretto ingresso laterale.Sulla sinistra sono sistemate varie componenti del mu-lino a stella olandese, tra le quali è un pignone di legnoche opera all’interno della torre. Segue una bacheca divetro in cui sono esposti un grosso ago e altri minuscolistrumenti usati per fissare la tela alle pale del mulino.Parte del pavimento è riservata a una coclea mobile uti-lizzata nel pompaggio dell’acqua da una vasca all’altra:è lunga circa due metri ed è sistemata orizzontalmen-te su un sostegno. Sulla parete di fondo sta appoggia-ta una della quattro pale del mulino. Alla sua destra,sulla parete attigua, stanno una scala a pioli e un pi-gnoncino di legno funzionante nella coclea. Dalla stes-sa parte del locale stanno infine un pignone e pezzi delmeccanismo frenante del mulino.

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senso nuovo a tutto quanto è compreso entro i suoiconfini. I reperti e i manufatti ricadenti nella Riservaperdono, se mai lo avessero ancora, il loro precedentevalore d’uso e ne acquistano uno nuovo, un «valore se-gno» inquadrabile a sua volta nel più generale valoresimbolico dei luoghi.

Riteniamo opportuno presentare, a questo punto, lastruttura e le modalità di allestimento del Museo delleSaline di Nubia: più che limitarci ad una banale de-scrizione, ci interessa richiamare l’attenzione sullemodalità e sulle tecniche espositive, nonché sul sensoparticolare che i realizzatori hanno voluto dare sia alcontenitore che ai reperti esposti. Partendo da Trapani, si percorre la strada litoranea di-retta a Marsala la quale si snoda lungo un succedersi divasche salanti, quel che resta di strutture salinifere mol-to numerose in passato e via via interrate col cresceredell’urbanizzazione. A circa mezzo km dal bivio per ilpaesino è un piazzale con accesso secondario al «ma-gazzino del sale» della salina. La casa salinara è costi-tuita da un edificio rettangolare, lungo una trentina dimetri e largo una dozzina, il quale è articolato in duegrandi locali accostati longitudinalmente: – il primo comprende un magazzino, in cui sono espo-sti i reperti; una pedana su cui è sistemato il basamentodel mulino del sale; una scala interna che consente diaccedere ad un soppalco-terrazza. Qui è collocata laparte superiore del mulino a vento, con le pale collegateda un asse di legno al basamento, mulino-frantoio delsale grezzo; – il secondo locale, antica dimora dei lavoratori disalina articolata in più camere su due piani, in parte èattualmente adibito a spazio di ristoro per i visitatori.

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campana di vimini intrecciati (nassa), usata per la pescadegli animali allevati in salina nei periodi di riposo. Nelfondo a destra del locale stanno infine: un carrettinocon una botte d’acqua fresca da bere; uno spianatoio dilegno usato per compattare e appianare le superfici del-le vasche salanti; due uccelli imbalsamati e impagliati,esemplari dei tanti che approdano in salina durante lemigrazioni annuali da nord verso sud e viceversa.Come abbiamo anticipato, al di là dei dettagli esposi-tivi, ciò su cui riteniamo di dover richiamare l’atten-zione è la varietà delle forme e soluzioni espositiveadottate per reperti museali poco omogenei morfolo-gicamente: si tratta infatti non di quadri o scultureequiparabili per forma e dimensione, ma di pezzi di-versissimi tra loro. Gli spazi riservati ad attrezzi estrumenti del ciclo sono chiaramente delimitati, a in-dicare le singole fasi in successione: da qui il ricorso abacheche per i pezzi più minuscoli, a pedane o supportivari per i più grandi, a pareti separatorie in tela di iu-ta per creare ambienti distinti. Accanto ad ogni at-trezzo sta la relativa «scheda di ricerca» che ne illustracaratteristiche e modalità d’uso; pannelli fotografici ri-costruiscono per immagini la «storia sociale» della sa-lina, mentre i murales aiutano a delineare il contesto fi-sico e tecnico entro il quale lo strumento viene usato.

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Lungo la parete di fronte all’ingresso sono esposte trechiavi, in legno o metallo, usate per lavori di manuten-zione del mulino. Seguono una pala di raccolta e una ma-novella appartenente ad una coclea mobile destinataal pompaggio dell’acqua. Orizzontalmente, e parallela al-la parete, è sistemata una coclea fissa, operante all’in-terno della torre del mulino, lunga circa quattro metri.A ridosso della stessa parete sono esposti: un apparecchiometallico destinato alla molitura del sale; un rastrello conmanico di legno e lamina rettangolare metallica; un pa-lo di ferro, spalettato ad una estremità; una brocca di le-gno usata per distribuire acqua da bere.Sul tratto di pavimento attiguo all’ingresso stanno si-stemati, a sinistra: un carretto siciliano di tipo trapa-nese; una carriola di legno e una cesta di lamierino zin-cato, usate per il trasporto del sale sulla piattaforma.Sono sospesi alla parete: un cuscinetto imbottito di pa-glia; un blocco di legno usato per compattare o romperepezzi di sale; una pala di lamiera con lungo manico dilegno. Ancora sul pavimento, ma sulla destra, stanno:un cilindro di pietra usato per compattare le superficidelle vasche; una saracinesca di legno per regolare ilpassaggio dell’acqua da una vasca all’altra; una strutturaa grata utilizzata a mo’ di erpice per rimuovere il salein frantumi.Tutta la superficie posta a destra dell’ingresso è sepa-rata dalla prima da un grande arco poggiante su pilastridi mattoni di tufo: lo spazio è riservato per intero allabase del mulino-frantoio. Dal tetto a terrazza scendeuna ruota dentata di legno, base dell’asse verticaledel mulino, mentre sul pavimento, appoggiata alla pa-rete, è una struttura in muratura a base cilindrica e poitroncoconica dentro la quale si versa il sale grezzo datriturare. Sotto una piccola finestra sta sistemata una

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ai percorsi culturali delineati dagli operatori; destinatarinon possono che essere i visitatori, distinti in «ideali»e «empirici», a seconda che siano quelli immaginati op-pure tutti coloro che ne frequentano effettivamente lesale. Assimilato a un apparato di comunicazione, inoltre, ilmuseo non si sottrae ma interagisce con l’intero siste-ma dei media entro cui opera. In tale direzione agi-scono quelli che vengono denominati paramedia: co-munemente associati al museo, di cui sono strumentioltre che prolungamenti ideali, essi vanno dai cataloghiai siti Internet, dai libri di critica alle recensioni suigiornali fino alla gestione complessiva dell’informa-zione sui mass media, tesa a far conoscere ad ampie fa-sce di pubblico le attività promosse e realizzate all’in-terno della struttura museale. Se ora passiamo a riflettere sui singoli fattori della co-municazione, relativamente agli oggetti esposti tor-nano utili le osservazioni di Jorge Glusberg, fondatoree già direttore del Centro de Arte y Comunicación diBuenos Aires, che tra i primi ha provato a interpreta-re il museo e i reperti esposti in chiave semiotica:«Nonostante la varietà delle differenti opere che [il mu-seo] contiene, il comune denominatore è che essoemette segni. Le strutture semiotiche ospitate nel mu-seo sono sistemi di segni, [costituendo] un arsenale diinformazioni a disposizione di chi può interpretarli, dichi vi ha accesso… Il contenitore – il museo appunto –è pure esso un segno: un segno complesso risultantedalla sintesi di tutti i segni che ne fanno parte. Segnodi cultura, il museo è anche un operatore semantico chefunge da contenitore di altri segni e altri messaggi...Mentre funge da segno, ciascun museo si presenta co-me la facciata di un complesso organico le cui parti

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Il museo: pratiche sociali intorno a un apparato di co-municazione

Alla ricostruzione di fenomeni riconducibili in unambito di sociologia della cultura, quali sono andatisvolgendosi in un’area in transizione come la Sicilianegli ultimi anni del Novecento, non riteniamo su-perfluo far seguire brevi riflessioni sulle complesseproblematiche connesse a quelli che oggi si vanno con-figurando come musei del territorio, nonché sulleoperazioni museografiche assunte nella loro dimen-sione di pratiche sociali. Cominciamo con l’osservare che, nella prospettiva disemiotica della cultura alla quale ci stiamo ampiamen-te rifacendo, il museo può essere assimilato ad un ve-ro e proprio «apparato di comunicazione» i cui fatto-ri, pur con qualche approssimazione, si possono indi-care tra i soggetti e gli oggetti sui quali abbiamo dian-zi richiamato l’attenzione. Esso è costituito di oggettiesposti sì, ma anche di strutture, personale, normedi funzionamento, messaggi prodotti e trasmessi: persegni si possono intendere tutti i reperti esposti, gli og-getti-segno che hanno perso il loro originario valored’uso; mittenti possono ritenersi coloro che allestisco-no l’esposizione, secondo il progetto elaborato in base

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Capitolo VI

Musei e comunità locali

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tiche espositive progettate e realizzate dai curatoridell’allestimento museale. «I visitatori del museo han-no una serie di gradi di libertà nel decodificare i mes-saggi inscritti nell’allestimento museale sia dall’istitu-zione stessa (l’utente modello) sia dai curatori (il visi-tatore modello). Essi cioè svolgono un lavoro inter-pretativo che consiste nell’attribuzione di senso a ciòche leggono. Tali attività, soprattutto al livello distrategie testuali composte da linguaggi non verbali co-me nel caso del museo, avvengono perlopiù a livello ta-cito» (Tota 1999, 102-03). Si finisce qui con l’investire il piano della ricezione, at-tività su cui si è andata focalizzando l’attenzione deglistudiosi di comunicazione. Nel caso dell’esposizionemuseale, «studiare la ricezione significa ricostruire lemodalità attraverso cui il pubblico costruisce gli arte-fatti mentali corrispondenti all’evento che sta consu-mando (la mostra, il museo)... Sul piano sincronico [es-si] hanno a che fare con informazioni testuali (gli og-getti esposti) e con informazioni contestuali (l’orga-nizzazione dello spazio all’interno degli edifici, l’illu-minazione, la rete prossemica, cioè la definizione isti-tuzionale delle distanze appropriate, ecc.). Sul pianodiacronico una dimensione cruciale è quella della car-riera estetica del singolo visitatore: quali le sue espe-rienze precedenti di fruizione museale [compresi con-sumi culturali contigui: teatri, cinema…]?» (ivi, 106).L’esigenza di reinterpretare i fattori operanti nel mu-seo come apparato di comunicazione se, da una parte,ci allontana dalle proposte avanzate vent’anni fa, dal-l’altra ce ne fa riscoprire il valore anticipatore, avendopresente la complessità delle problematiche solleva-te, a partire dal fatto che ogni atto di comunicazione èuna «azione sociale» orientata. La conservazione e

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hanno la doppia funzione di significante (la sua fun-zione istituzionale, espressione di un’era e di una cul-tura) e di significato (parte dell’immagine complessivadi una società)» (1983, 18, 28).Le note sono del tutto condivisibili, anche se è il casodi precisare che non si possono ricondurre allo stato disegno sia i reperti esposti che il museo nel suo insieme,perché così se ne sminuisce la complessità semantica. Ilmuseo in sé può essere sì considerato una struttura cheospita segni e, nel far questo, configurarsi come «me-tasegno» (o segno complesso, come annota l’autore), maè molto più significativo equipararlo ad un messaggio:nell’ospitare un insieme di segni (quali sono i repertiesposti), il museo trasmette infatti messaggi (ricon-ducibili alle modalità e alle logiche espositive) fino alpunto di potersi ritenere esso stesso un messaggio, seassunto nella sua complessità. È lo stesso Glusberg, delresto, a segnalare la differenza: se il museo è un «segnoche contiene altri segni», non può che offrirsi come una«entità comunicativa che trascende la fisicità deglioggetti esposti».È intorno ai destinatari che, di recente, si sono pro-dotti riflessioni e approfondimenti dei quali non sipuò non tener conto. Identificarli solo con i visitatorinon basta, risultando necessario accostare ad essi gliutenti. L’«utente modello» rinvia al piano istituzionale,ai modi cioè in cui «l’istituzione contribuisce a pre-determinare le modalità d’uso del museo stesso: comee quando vi si accede? chi discrimina? chi sottorap-presenta?». Il «visitatore modello» invece corrispondeal tipo di visitatore che i curatori hanno in mentequando allestiscono il museo e ad esso è rivolto l’in-sieme delle istruzioni che ne accompagnano la visita: lariflessione che ne consegue rimanda all’analisi delle poe-

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tra i processi attraverso cui i diversi gruppi socialitentano di negoziare la definizione dell’evento a loropiù congeniale e i riflessi istituzionali di tali contro-versie. La memoria diviene così un’arena negozialealtamente conflittuale in cui i diversi attori sociali simuovono seguendo dinamiche contrastanti e il museodiviene il luogo, lo spazio istituzionale entro cui espri-mere tali conflitti. Il linguaggio museale diviene il co-dice condiviso entro cui esprimere l’antagonismo… Imusei sono istituzioni potentissime in tal senso: fun-zionano come agenzie del ricordo, ma solo di quellopossibile» (Tota 1999, 108-09).Se infine il modo in cui «la memoria si oggettiva è so-cialmente definito e culturalmente determinato», ren-dendo possibili solo certe memorie a preferenza d’altre,si comprende come la problematica qui ripresa si ri-proponga in maniera più complessa nei musei di culturamateriale i quali possono non avere molto in comunecon quelli archeologici, d’arte medievale o moderna,ecc., che da secoli custodiscono filoni di memorie chesi astraggono dal mondo sociale e tecnico del lavoro,lungi dal rinviarvi (Karp Lavine 1995). Se nei musei ar-cheologici si depositano i segni della storia, in quelli ar-tistici i segni della bellezza, in quelli di cui ci occu-piamo qui non possono che stratificarsi i segni della me-moria, con tutto quanto essa comporta in termini diconflitti e di negoziazioni, scontri e accordi, nel deli-neare un progetto espositivo che si offra infine comemessaggio complessivo per la comunità.

Riflessioni e dibattiti sul senso che acquisiscono i mu-sei di cui ci occupiamo in questa sede, non solo in séma anche nei confronti del territorio circostante, non-ché della popolazione che in esso si riconosce, sono in

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l’esposizione di opere, la loro classificazione e siste-mazione sono state per lungo tempo ritenute sempliciattività empiriche, regolate dall’esperienza o dall’in-tuizione dei curatori. Ma l’aver assimilato il museo adun mezzo di comunicazione (e dunque ad una azionesociale orientata) non può farci vedere in esso unarealtà neutrale, esterna alle dinamiche sociali della so-cietà in cui opera. I diversi modi di allestire e di ope-rare del museo aprono invece prospettive di riflessionediverse, derivanti dal fatto che ogni allestimento èuna pratica sociale di parte (il che era già stato avvertitoda Glusberg 1983, 24). Se è vero infatti che il museosvolge istituzionalmente una funzione diffusa nellesocietà, teso a salvaguardare ed esporre oggetti, non èdetto che ad essere allineati nelle bacheche siano quel-li che meglio rappresentano i valori condivisi, stretta-mente connessi agli eventi che più d’altri rispondono aibisogni della memoria collettiva. E questa, a sua volta,non è definita una volta per tutte e per tutti, non ècioè valida in ogni tempo e per tutte le componenti so-ciali della comunità: è invece frutto di negoziazioni e diaccordi, ma anche di conflitti, perché non tutti glieventi vissuti vengono accolti nel rango dei fatti da ri-cordare, ma alcuni vengono rimossi, altri posti in se-condo piano, o ripresi solo a certe condizioni. Il museo svolge in concreto una serie di azioni ricon-ducibili alla «tecnologia della memoria». Esso infatti sipresenta come «istituzione deputata alla conservazio-ne/rielaborazione della memoria, come luogo in cuiprendono forma processi di ricostruzione e rappre-sentazione di qualche pezzo di passato collettivo... Ilmuseo è uno dei soggetti istituzionali che per defini-zione sono deputati ad intervenire nella prefigurazio-ne delle pratiche sociali del ricordo... C’è un intreccio

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recuperare in occasione delle mostre etnografiche al-lestite per l’Esposizione Nazionale di Milano del 1888e per quella di Palermo del 1891/92. Da queste vienefuori il nucleo di un Museo etnografico siciliano che na-sce però solo nel 1910 e continua a operare ancora og-gi. Articolata secondo linee espositive attente al con-testo sociale di pertinenza, l’iniziativa del museo vieneben presto a connotarsi di orientamenti decisamente in-novativi per quel tempo. A partire infatti dalla fine de-gli anni Trenta, Giuseppe Cocchiara, docente e cura-tore del museo, dichiara di volerne fare non solo luogodi tutela e conservazione ma, prima ancora, centro didocumentazione, attivando una biblioteca e un archi-vio di corrispondenze internazionali, oltre che luogo diricerca affidata a studiosi locali, studenti e docenti uni-versitari.Nella direzione intrapresa, un ruolo di approfondi-mento, e forse di rifondazione, va riconosciuto ai con-tributi presentati a metà degli anni Sessanta nel corsodi un convegno dedicato alla «Museografia folklorica»(Pirrone 1968). Esso vede la partecipazione di architettie studiosi di tradizioni popolari, di curatori di musei edesperti a vario titolo, i quali, da punti di vista diversima convergenti, trattano alcune delle più complesseproblematiche concernenti i musei di quel genere:musei che non raccolgono e custodiscono reperti cui siastato già riconosciuto un valore (storico, artistico o ar-cheologico che sia), ma umili oggetti d’ogni giornoche sono ancora usati dagli stessi soggetti sociali che siritrovano tra i visitatori, ideali destinatari del messaggiomuseale. Un primo argomento di dibattito parte dalla mancataattribuzione di valore agli oggetti esposti nei museifolklorici, il che genera spesso freddezza nei loro con-

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atto ormai da tempo e sono andati riproponendosi e ap-profondendosi negli anni grazie ai contributi prove-nienti dai settori più diversi. Li si può far partire dal-le esposizioni dei primi anni Settanta, in merito allequali si poteva leggere: «Al di là della portata cono-scitiva che il taglio di ricerca può offrire, c’è un’indi-cazione che possiamo derivare da questi interessi: se at-traverso la cultura materiale riusciamo a cogliere le rea-li condizioni in cui si sviluppa il ciclo di produzione edi riproduzione, di necessità centriamo il tema del la-voro e del suo sfruttamento e come questo si realizzinell’organizzazione della società e del territorio». Unasimile presa di coscienza inizia con la rivoluzione in-dustriale e, da allora, si delinea con sempre maggiorechiarezza nella storia del movimento operaio e conta-dino: «Ora occorre riconoscere che questo processoemancipativo, formatosi sull’esperienza delle lotte peril lavoro e per condizioni di vita più civili… vuole an-che essere riappropriazione di un patrimonio culturaleproprio, interno alla propria storia, base per una eman-cipazione più diffusa e consapevole» (Pavia 1976,339).E però, per la modernità delle proposte teoriche eoperative, un ruolo premonitore pensiamo debba essereancora riconosciuto alle attività museografiche svoltenel Mezzogiorno d’Italia, e in particolare in Sicilia. Adifferenza che in altre regioni, un interesse per la cul-tura materiale qui si delinea, in realtà, già sul finire delsecolo XIX, grazie all’impegno di Giuseppe Pitrè, me-dico e umanista palermitano noto per aver dato inizioagli studi di demologia. Nel complesso delle ricerchecondotte o delle informazioni raccolte dallo stesso,un posto di rilievo viene riservato agli attrezzi di lavoroe agli oggetti della vita quotidiana che egli ha modo di

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sono chiamati a un lavoro di mera catalogazione oppurea formulare giudizi sulla realtà culturale dei ceti su-balterni; in ultima analisi se la museografia folkloricaintenda opporsi alla massificazione dell’uomo oppureaffidare ad altri la battaglia per la risoluzione in un sen-so o nell’altro del suo destino» (ivi, 163-4). La conferma a un orientamento di politica culturale giàelaborato e condiviso dai diversi partecipanti al semi-nario di metà anni Sessanta viene da una messa apunto di qualche anno dopo, la quale per molti versi èassimilabile ad una sorta di petizione di principio:«La costruzione di un museo folklorico coinvolge pre-liminarmente il problema fondamentale del tipo di ri-cerca che gli si deve presupporre e lo deve alimentaree orientare. In sostanza: 1) rifiutiamo un museo folk-lorico che non sia occasione di presa di coscienza an-zitutto per la gente la cui cultura si vuole documenta-re; 2) rifiutiamo un museo folklorico che non si pongacome operazione progressiva nei confronti della realtàche documenta, ma al contrario si riduca a strumentoinaccettabile di conservazione» (Miceli 1973, 249).Un secondo argomento di dibattito riguarda, su un pia-no più teorico, il rapporto fra museo e realtà e qualeposto riservare a quest’ultima negli spazi espositivi:questione per nulla accademica, se è vero che il rispettoper la realtà si fa cogente in quanto quella da cui pro-vengono i reperti in esposizione è di solito ancora esi-stente, sia pure destinata a una rapida scomparsa.Qui la posizione è altrettanto decisa: l’esposizione dioggetti e strumenti nelle sale di un museo risponde a lo-giche che non sono quelle del contesto in cui possibil-mente continuano a essere usati. Degli oggetti esposti,pur permanendo la dimensione fisica, cambia il senso,in quanto perdono il loro precedente valore d’uso e ne

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fronti. La risposta è decisa: «Per vincere l’indifferen-za, e la diffidenza, che circonda i musei di folklore e ingenerale i musei, la terapia non sintomatica ma radicaleè da cercare negli oggetti stessi, nel modo di disporli eutilizzarli… I criteri espositivi tradizionali, l’ordina-mento per serie, per materia o unità socio-culturali, perquanto utile, oggi non rispondono più alle esigenze del-lo studioso e del visitatore… L’ipotesi di procedere perlinee strutturali, tanto a livello urbanistico quanto og-gettuale, mi pare offra una rara possibilità di trasfor-mare radicalmente i musei da collezioni di oggetti instrumenti permanenti di analisi per immagini, vuoidelle componenti ideologiche, vuoi dei temi culturali,o delle strutture profonde dei mondi sociali che sivogliono rappresentare» (Buttitta 1971, 162). Da qui scaturisce l’affermazione di un principio poli-tico-culturale, prima che scientifico. Riflettendo sul ruo-lo che un museo può svolgere relativamente alla con-servazione e, soprattutto, al recupero della cultura lo-cale, viene ribadita in più luoghi l’esigenza di nonfarne «un recupero in chiave scientifico-accademica…ma [una] riappropriazione di tale cultura… la quale èpossibile se non si risolve nella mitizzazione museo-grafica e archivistica di forme materiali e orali di cul-tura, ma si dispone all’assunzione di tali fatti nel pro-prio orizzonte ideologico». Ne segue che «un museo difolklore deve innanzitutto avere una dimensione sto-rica. Di una storia che non sia mera rappresentazionedel passato, ma autocoscienza del presente e conside-razione del futuro». In chiusura si colloca una do-manda a cui le esperienze sopra richiamate daranno ri-sposte esaurienti: «Vogliamo sapere se i musei folklo-rici debbano essere centri di ricerca pura oppure, perdire così, applicata; se i ricercatori e gli ordinatori

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diffondendo uno che si propone di garantire in manieraprogrammatica la cosiddetta «tutela attiva», custodia esoprattutto fruizione dei beni culturali di un’area de-terminata: è il museo del territorio, luogo di tutela e ri-proposta non di realtà singolarmente prese nella di-mensione loro propria (archeologica, artistica, antro-pologica o ambientale che sia), ma di tutti questi aspet-ti nel loro complesso, in quanto assumibili a segni di unben definito contesto. Ogni reperto (storico o archivi-stico, di cultura figurativa o plastica, di livello popolareo no) vi viene ammesso infatti in quanto espressione del-l’area che vi gravita attorno: condizione è appunto il le-game dei materiali esposti con il territorio circostante. Naturalmente questo modo di procedere continua a ri-spondere a quell’orientamento di semiotica della culturache in più occasioni abbiamo avuto modo di richia-mare. Ogni paesaggio porta impressi su di sé «i segnidel lavoro umano e delle concezioni del mondo dellecomunità che vi si sono insediate»; rivela perciò irapporti che quelle comunità hanno intrattenuto con es-so e risulta essere, infine, uno specchio che rimanda in-dietro, a chi l’interroghi, ciò che le comunità vi hannodepositato (Turri 1974). Il senso ultimo di un museodel territorio si muove nella stessa direzione: anch’es-so è uno specchio che rimanda indietro i segni delle at-tività umane e può essere inteso perciò come il «luogo»in cui sono raccolte le più significative testimonianze diuna realtà antropizzata. Il museo si offre insommacome risposta organizzata ad una esigenza diffusa nel-le più diverse società: documentare e tutelare i segni la-sciati dalle comunità sul territorio.

Lungo la prospettiva delineata è opportuno precisareche quei segni si collocano sul piano geografico, stori-

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acquistano uno nuovo, il valore segno, come abbiamopiù volte ribadito. Nessun allestimento può proporsi diessere una riproduzione fotografica della realtà dalmomento che il linguaggio stesso del museo non èquello della realtà: «Il museo è altra cosa dalla vita; èperciò assurdo volervela introdurre in modo imme-diato. Per aderire alla vita il museo non può copiarlama trasporla nel proprio linguaggio e nella propria di-mensione… Se no uccide la vita e non realizza sestesso» (Cirese 1977, 43). Lungo la stessa prospettiva mostrano di muoversi leargomentazioni successive: «Quello che interessa non èaffatto riprodurre una certa realtà il più precisamentepossibile. Vengono fuori solo copie kitch inutili e morte.Interessa piuttosto capire quella realtà, interpretarla, pas-sare dal continuo della vita vissuta, che è ovviamente ir-riproducibile, al discontinuo cioè alle scelte dell’osser-vazione e dell’analisi. E il museo deve essere appunto unluogo di analisi e una guida alla comprensione». E qual-che rigo sotto, a conferma di come la memoria non sianeutrale e obiettiva ma frutto di una ricostruzione es-senzialmente di parte: «Se anche la documentazione im-plica una trascelta e dunque il riferimento a precisi ca-noni di valutazione, occorre portare avanti sino in fon-do questa constatazione. Non dunque ostentazione diuna falsa obiettività, ma proposta documentata di chia-vi interpretative ben orientate» (Miceli 1973, 247-8).

Verso un museo del territorio

Accanto a quelli che sono stati chiamati musei della cul-tura materiale, della civiltà contadina, della salina, e pri-ma ancora del folklore… negli ultimi anni se ne è andato

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to sulla cultura implicita nell’espressione, così come undecennio prima l’accento era stato posto sulla sua ma-terialità. Settori della storia dell’arte, a loro volta, si ser-vono della medesima terminologia al fine di superare iconfini fra la produzione d’élite e quella popolare arti-stico/artigianale, così da riappropriarsi di una dimen-sione, quella culturale, che in origine è stata inventataper escluderli» (Wickham 2002, 325).L’orientamento delineato è concretamente praticabilese si tiene presente che le varietà culturali di un’area sipossono disporre su tre assi: diatopico, diacronico e dia-stratico. Sull’asse diatopico si documentano le specificitàdi ogni porzione del territorio ritenute rappresentativedi attività produttive, pratiche artistiche, usanze ocostumi locali. La localizzazione su carta dei fenomenidocumentati costituisce, in tal senso, una proiezioneutile anzi scientificamente necessaria. Nella prospettivadiacronica vengono registrate in sequenza le fasi prin-cipali della storia della comunità, attraverso docu-menti e ricostruzioni: il posto centrale qui è occupatodai reperti archeologici rinvenuti nel territorio ma an-che dai documenti (atti notarili, riveli e platee, ecc.) eda quant’altro si ritenga significativo per delineare lastoria della comunità. Rimane per ultimo l’asse dia-stratico, quello su cui si collocano i segni delle stratifi-cazioni sociali proprie delle società complesse: le ope-re d’arte colta rientrano nel museo alla pari dei reper-ti di arte minore, opere per lo più di artigiani e mae-stranze locali. Ma è qui, soprattutto, che possono far-si rientrare i reperti di cultura materiale, per altrocollocabili sull’asse diacronico, mantenendo la distin-zione tra oggetti d’uso, costruiti perché servono a bi-sogni concreti, e oggetti segno, costruiti per l’intrinsecovalore simbolico di cui sono portatori.

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co e sociale e sono quindi leggibili lungo tre dimensioni:la prima è topografica, nel senso che essi sono varia-mente diffusi nel paesaggio circostante, concentrati qui,glabri altrove, caratterizzati da predominanze o daassenze; la seconda dimensione è temporale, poiché es-si si succedono e si sovrappongono nello scorrere deglianni e il territorio si offre come una realtà «multi-strato», dove ogni livello non distrugge ma si sovrap-pone a quello preesistente; la terza dimensione è sociale(ed economica), in quanto i segni lasciati dagli uominisono connessi al loro essere sociale, ai mestieri che eser-citano, ai ruoli che svolgono. Un museo del territorioche intenda documentare e tutelare le varietà cultura-li dell’area su cui insiste non può che articolarsi perciòin diverse sezioni ed è superfluo rilevare come quella dicultura materiale ne costituisca la chiave di volta, senon è interamente ad essa dedicato. Accanto ad essa sicollocano legittimamente le altre sezioni, di archeolo-gia o d’arte colta, di arte plastica o figurativa, di ma-nufatti in ceramica o terracotta, di ricami o abbiglia-menti, opere di artisti e artigiani locali e qualsiasi altratestimonianza rinvenibile nel territorio circostante.Quanto abbiamo rilevato non dovrebbe generare obie-zioni sul piano scientifico, se solo si pensa che il lavo-ro umano si colloca al centro della vita sociale e im-pronta di sé molte, per non dire tutte, le altre espres-sioni culturali. Del resto è stato osservato che dagli an-ni Settanta in poi «la cultura materiale come concettosi è evoluta, così come si sono evolute la storia, l’ar-cheologia e la storia dell’arte. La svolta post-processualedi una certa archeologia negli ultimi quindici anni,nel senso di una maggiore disponibilità a confrontarsicon versioni del passato più narrative che sono il ter-reno degli storici, si serve della e quindi pone l’accen-

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A differenza però di quanto avviene nei musei tradi-zionali, tesi a tutelare beni in qualche modo già rico-nosciuti, in un museo del territorio nulla è deciso sindall’inizio. Per cominciare si impone dunque l’esigen-za di scegliere quali oggetti prendere in considerazione,per poi decidere quali sottoporre a tutela e infine qua-li esporre: l’esigenza cioè di ricerche preliminari disfondo. Le operazioni su cui passiamo ora a riflettere(e che nei musei tradizionali possono ritenersi lavori diroutine) possono costituire le fasi ideali di costruzionedi un itinerario conoscitivo.

Documentare che cosa? documentare come? È la primadomanda che non possono fare a meno di porsi i nuo-vi operatori culturali, le figure sulle quali abbiamogià richiamato l’attenzione e che non possono nonsvolgere un ruolo ineliminabile nell’allestimento di unmuseo del territorio. Allorché si trattava di esporre«opere d’arte» e «pezzi unici», la risposta alle do-mande di partenza era scontata: istituzionalmente eradestinato alla raccolta e alla tutela tutto quanto era giu-dicato «artistico», storicamente rilevante, unico nel suogenere. Ma quando si intende mettere in rilievo ilvalore semiotico di una serie di oggetti, come attrezzie strumenti di lavoro, in passato trascurati e consideratidi nessun conto, la selezione non è più automatica: nonbasta più il criterio della unicità o pretesa artisticità afar decidere cosa prelevare mentre si allarga l’universodelle testimonianze da prendere in considerazione. Da qui l’esigenza di partire non dal pezzo da collezio-nare e da esporre, bensì dalla ricerca documentaria sulterritorio. Come l’insegnante per le mostre, l’operatoreculturale procede per settori, tenendo però conto chenel contesto territoriale studiato tout se tient e una ri-

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Se infine ci poniamo dalla parte del visitatore, ad im-porsi nel museo del territorio sono le funzioni da as-solvere nei confronti della comunità, prima ancoradei reperti da esporre, dal momento che anch’essointende essere «non solo sede di conservazione e diesposizione o, peggio, deposito di oggetti polverosi, maprima ancora luogo di ricerca e di studio, centro di ri-cerca e documentazione». Si offre così come una sor-ta di laboratorio integrato (Glusberg 1983, 54), quandosi introducono nei luoghi di esposizione elementi strut-turali che li trasformano in centri di studio e di for-mazione in relazione al contesto geografico e alle di-mensioni storiche e sociali dell’area interessata: aigruppi interdisciplinari, costituiti al fine di assolvere al-le funzioni proprie di un museo-scuola o laboratorio, so-no devoluti compiti di formazione, tirocinio e divul-gazione, utilizzando i risultati della ricerca e della do-cumentazione.

Le operazioni museografiche: il senso e le procedure

Complesso di disponibilità per iniziative di vario ge-nere, il museo del territorio si offre al visitatore perquanto è esposto al suo interno, e soprattutto per la se-rie di «discorsi» che consente di fare, anche solo di-sponendo variamente sequenze di documenti e reper-ti materiali. Manifesta così tutta la valenza di «luogo diconoscenza» definendo le griglie di lettura del pae-saggio circostante, del quale espone i testi e aiuta a ri-costruire i contesti. Perciò a ragione Glusberg puòsostenere che «museologia e sociologia si pongono co-me due aspetti della medesima ricerca: la sociologia del-la cultura e della conoscenza» (ivi, 26).

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d) individuazione di momenti significativi da documen-tare con fotografie, rilievi, grafici e materiale d’archivio;e) raccolta degli oggetti da esporre, non punto di par-tenza ma esito di un lavoro articolato.

Schedare è l’operazione che, lungi dallo scadere in unsemplice inventario di oggetti raccolti, è in grado dipromuovere un discorso ben più complesso dal puntodi vista conoscitivo. Diretta a individuare ogni reper-to dal punto di vista morfologico e funzionale, una cor-retta schedatura prevede la compilazione di almeno tretipi distinti di scheda:a) la prima è la scheda di individuazione dei repertiche hanno accesso al museo. Essa, di seguito al numerod’inventario, registra denominazioni, misure, carat-teri morfologici, funzioni, provenienza, donatore ovenditore, data dell’acquisizione, riproduzione foto-grafica del pezzo; b) la seconda è la scheda di indicazione, destinata ad es-sere accostata all’oggetto esposto. Vi sono riportate so-lo la denominazione e la funzione (il ciclo e la fase es-sendo spesso ricavabili dalla sezione del museo in cuil’oggetto è collocato); c) la terza è la scheda di ricerca. Tenendo conto del fat-to che il museo del territorio non è solo sede di con-servazione, ma prima ancora luogo di ricerca, il ruolodi quest’ultima scheda si rivela essenziale in quanto visono riportati i risultati delle ricerche condotte sulle at-tività lavorative, sulle pratiche artistiche, ecc. Il ri-cercatore e l’operatore culturale procedono dalla realtàstudiata alla scheda; partendo da quest’ultima il visi-tatore compie il percorso inverso. Se riandiamo alla connessione, di principio oltre che difatto, tra l’opera di catalogazione, le mostre e i musei

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cerca condotta in un ambito può ben debordare in al-tri. Condotta sulle fonti d’archivio, sui materiali astampa, sulle informazioni raccolte fra anziani delluogo, essa può esitare nella raccolta di pezzi di variaconsistenza, fisica e documentaria, solo dopo che siastata condotta a termine. Il compito dell’operatoreconsiste nel valutare il valore testimoniale di ogni sin-golo reperto in seno al discorso che intende portareavanti: da qui, e non da altro, discende la possibilità discegliere tra un pezzo e l’altro. Il che cosa documentarediscende insomma, prima che dagli oggetti a disposi-zione, dai criteri adottati nello studio dell’universo pre-so in esame.

Raccogliere costituisce la seconda operazione affidata achi svolge attività nel museo. In un museo del terri-torio, però, non si tratta di raccogliere pezzi sparsi (an-che se gli stessi vanno in qualche modo custoditi),rintracciare «cose antiche» e sistemarle in bacheca. Sitratta invece di individuare gli anelli materiali signifi-cativi nel quadro di conoscenze che si è andato deli-neando, ricostruire quelli mancanti con sussidi di variogenere finché non si siano rintracciati gli originali. In maniera schematica e riassuntiva, nelle prime dueoperazioni museografiche riteniamo che si debbanoattivare e condurre a termine le fasi di lavoro seguen-ti: a) studio del territorio per farne emergere i settori por-tanti su cui concentrare l’attenzione; b) indagini specifiche per ogni singolo settore che esi-tino in documentazioni, materiali e no, ampie e det-tagliate; c) articolazione del settore indagato in aree tematicheomogenee da studiare singolarmente;

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telligente», che aiutino a capire, cioè, e non semplice-mente a visionare.È utile richiamare al riguardo un fatto che ha a che fa-re con il «senso» stesso dell’esporre: che se ne siaconsapevoli o no, sistemare un insieme di oggetti in uncerto modo e in una determinata successione significaprivilegiare certe «letture» su altre possibili, evidenziarealcuni aspetti o certi dettagli e nasconderne altri (tor-na qui la questione della memoria in quanto tecnologianon neutrale). Anche se si può lasciare il visitatore li-bero di costruire suoi personali itinerari di lettura,non c’è dubbio che in ogni museo le modalità esposi-tive finiscono con l’imporre una sola linea interpreta-tiva, che su un piano ideale corrisponde a quanto la ri-cerca preliminare ha messo in luce, ma che può benis-simo non tenerne conto per le ragioni più varie (pra-tiche o ideologiche che siano).

Riproporre è la funzione sulla quale più di recente si èconcentrata l’attenzione e che, nei musei del territorio,acquista un significato del tutto nuovo se si pensa alle ini-ziative di cui essi si fanno promotori: mostre temporaneedi reperti di nuova acquisizione, collezioni provenienti daaltri musei, reperti conservati nei magazzini o già espostinelle sale del museo ma sistemati secondo logiche e mo-dalità che offrano nuove possibilità di lettura. La «ri-proposta» fa già comprendere da sola in che senso l’i-stituzione può considerarsi viva e non deposito di pezzipolverosi: il museo offre un complesso di disponibilità periniziative di vario genere e ciò è possibile se di esso si faun luogo di continua scoperta di tratti della cultura locale.

Strutture di supporto. Al di là dei materiali esposti,una componente essenziale di un museo del territorio,

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della cultura materiale, segnaliamo che le schede delCensimento del 1979/80 possono fungere, nella granparte dei casi, da modelli della scheda di ricerca, quan-do non è dato esporle in originale. Esse prevedono: a)la denominazione del reperto (in dialetto e possibil-mente in lingua), b) una dettagliata descrizione dellesue parti, c) la documentazione grafica e fotografica delreperto, d) la descrizione del ciclo lavorativo di cui l’og-getto fa parte, in particolare della fase in cui viene uti-lizzato, delle operazioni che consente di compiere, e)una ricostruzione dei rapporti sociali tra proprietari oaffittuari e chi usa (o usava) l’attrezzo, f) brevi ri-mandi bibliografici (Vibaek 1984).

Tutelare appartiene al complesso di funzioni istituziona-li assolte dal museo in quanto tale, e quello del territorionon può sottrarsi al compito. Le particolari azioni di tu-tela e gli interventi di restauro si esercitano qui in modimolto specifici che non è il caso di richiamare.

Esporre. Il materiale da sistemare in una realtà musealedel tipo qui delineato non consente scelte univoche, co-me abbiamo già rilevato nel Museo delle Saline: ognunodei pezzi da esporre (dalla coclea all’aratro, fino ai mi-nuscoli strumenti dell’artigianato del legno o dell’artedel ricamo) richiede forme e soluzioni espositive pro-prie. Ciò che importa, in ogni caso, è che gli attrezzi egli strumenti dei cicli lavorativi esposti siano chiara-mente ricostruiti, delimitati e ordinati; che schede te-se a illustrare caratteristiche e modalità d’uso degli at-trezzi, pannelli fotografici e murales aiutino a inserirelo strumento nel suo contesto e a farne comprenderel’uso; che, nell’ideale metalinguaggio del museo, i localie le singole sezioni propongano percorsi di «lettura in-

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ne assegnato il compito di fornire un quadro com-plessivo dell’area, anche ricorrendo a ricostruzionivirtuali e a quanto le nuove tecnologie della comuni-cazione offrono in vista degli obiettivi che ci si pro-pone di raggiungere.

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più importante persino di quanto accada in altri, è co-stituita dalle strutture di supporto. A partire dalla presentazione del museo. Un rilievonon indifferente finiscono con l’avere infatti le infor-mazioni sulla funzione che esso svolge e sui locali cheospitano le collezioni: in tal modo il visitatore vienemesso in condizione di scegliere consapevolmente isettori da visitare, costruire un suo itinerario facendoricorso ad una sorta di «carta del museo» che con-senta una prima presa di contatto con la struttura.Qui sono comprese le sale della fototeca e dei docu-menti storici: fotografie d’epoca e documenti d’ar-chivio vengono messi a disposizione del visitatoreche intenda documentarsi in via preliminare sullastoria della comunità.Ma il supporto di gran lunga più importante, quelloche meglio d’altri esprime i nuovi orientamenti mu-seografici, è costituito dal Centro di documentazione delmuseo, la cui valenza è didattica e scientifica insieme.Esso prevede innanzitutto una biblioteca e uno sche-dario dove sono raccolti materiali bibliografici relati-vi agli oggetti esposti, e poi ancora cataloghi, dé-pliants, brochures, glossari, dizionari, testi di divulga-zione. Vi stanno inoltre depositati, disponibili per laconsultazione, fotografie e diapositive, audiovisivi e fil-mati, monografie e pubblicazioni con i risultati dellericerche svolte nel territorio di riferimento in vista del-l’allestimento del museo stesso. Oltre ad una diafoto-teca, con servizi fotografici completi relativi a feste, ce-rimonie, cicli di lavoro, nel Centro sono previste unanastroteca e una videoteca con relativi apparecchi diaudio e video-riproduzione, una sala multimediale concd rom e relativi lettori, svariati documenti su sup-porto informatico. Al Centro di documentazione vie-

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