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Un banchetto letterario: la letteratura italiana e cucina · 2018-05-21 · Manzoni, un brano da I...

Date post: 26-Jan-2020
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Un banchetto letterario: la letteratura italiana e cucina Classe 5^A Corso serale ENO CASAMASSIMA IISS MAJORANA Un banchetto letterario: la letteratura italiana e cucina Classe 5^A Corso serale ENO CASAMASSIMA IISS MAJORANA 1
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  • Un banchetto letterario: la letteratura italiana e cucinaClasse 5^A Corso serale ENO CASAMASSIMA IISS MAJORANA

    Un banchetto letterario: la letteratura italiana e cucina

    Classe 5^A Corso serale ENO CASAMASSIMA IISS MAJORANA

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  • Presentazione progetto

    Destinatari

    Gli obiettivi del progetto

    Metodologia

    Il progetto parte dalla consapevolezza che il cibo è insieme necessità e piacere, segno inequivocabile di potere, controllo e supremazia; la tavola può unire o dividere, mescolare o ribadire le differenze di classe; Il cibo è simbolo di prosperità, di vita, di abbondanza, ma anche metafora di possibile caduta e peccato originario.

    Nella letteratura italiana la centralità del cibo è stata evidente fin dall'inizio e ribadita in ogni passaggio d'epoca. Basti pensare al rilievo reale e metaforico del cibo nella Commedia e nel Convivio di Dante; nelle novelle del Decameron di Boccaccio; nelle Intercenali di Alberti; nel Cortegiano di Castiglione e nel Galateo di Della Casa; nei Promessi Sposi di Manzoni e nelle novelle di Verga; nelle opere di Gadda e di Calvino; nel Ventre di Napolidi Matilde Serao, in Fame e in Nascita e morte della massaia di Paola Masino.

    Il progetto è nato dall'intento di esplicitare le potenzialità formative che la letteratura offre agli studenti e di promuovere l'integrazione tra i diversi saperi che è indispensabile per la costruzione di competenze. Pensare per competenze comporta due condizioni: una didattica centrata sui discenti e uno sguardo concretamente rivolto al mondo che circonda la scuola.

    La letteratura è qui intesa come uno strumento estremamente potente e versatile sul piano delle competenze comunicative, emotive e sociali, e delle competenze di cittadinanza in genere, come enunciato nel Documento programmatico di COMPìTA (Competenze dell'italiano), un progetto pilota, pluriennale di ricerca-azione, finalizzato a promuovere l'innovazione didattica nel secondo biennio e nell'ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado, e sostenuto da una convenzione del MIUR, Direzione Generale per gli Ordinamenti e per l'Autonomia Scolastica, con l'Università di Bari capofila, che coinvolge altre università e scuole di

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  • secondo grado (licei, istituti tecnici e istituti professionali), selezionate su tutto il territorio nazionale, guidato da un gruppo di italianisti di scuola e università (del quale fa parte anche la sottoscritta) (www.compita.it).

    Pertanto, il progetto intende coinvolgere la letteratura, la storia e l'enogastronomia, affinché questi saperi si uniscano e offrano un contributo reale alla formazione culturale degli studenti, in una visione interdisciplinare e pluridisciplinare.

    Infine, l'analisi dei testi, prima ricercati con l'aiuto del docente, sarà finalizzata alla riappropriazione del testo in una forma di riscrittura personale, ovvero nella rielaborazione di ricette di cucina e nella produzione di saggi su usi e costumi dell'arte culinaria nella storia italiana, raccolti in un e-book, utilizzando la piattaforma Epubeditor, fruibile da tutta la comunità scolastica e non solo. Il lavoro finale sarà presentato al comitato scientifico di COMPITA.

    Gli studenti della classe 5^ A serale di Casamassima

    Sviluppare:

    l'abitudine all'attività cooperativa in particolare per la formazione del saperela pratica del dialogo e dell'ascolto reciprocol'acquisizione e l'uso di competenzela ricerca di informazioni e il loro uso appropriatoin modo più consapevole l'espressione della propria interiorità e dei sentimenti

     

    Competenze letterario-interpretative

    Quelle individuate dai documenti Compita per la poesia e per il testo narrativo (aspetti della competenza interpretativo-letteraria, indici disciplinari, descrittori di attività e compiti per le classi del II biennio e dell'anno V)

    Lezione frontale in orario curricolare

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  • Lezione guidata con domande

    Lezione dialogata

    Ricerca e relazione orale

    Esercitazione a piccoli gruppi e individuale (in tal caso domestica)

    Lavoro a distanza tramite e-mail

     

    Il tutto tenendo ben presente i principi base della centralità del testo, del lettore e del procedimento euristico

     

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  • TESTI DA ANALIZZARE

    Passi scelti da:

    Dante, Convivio e Purgatorio

    Speculum perfectionis

    Petrarca, Sonetto 9 da Canzoniere

    Boccaccio, Novelle VIII, 3 e VI, 2

    Pulci, versi dal Morgante

    Verri, Il caffè

    Manzoni, un brano da I promessi sposi

    Pascoli, Il risotto romagnuolo e La piada

    Moretti, La Piè (Il pane dei poveri)

    Marinetti, Il manifesto della cucina futurista

    Saba, Polpette al pomodoro

    Rodari, Gli uomini di burro

    Calvino, La distanza della luna

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  • Dante Aliglieri, Convivio

    IL "Convivio" di Dante

    Convivio I, 1 (1-19)

    1. Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere [ed] è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propia perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.

    2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro all'uomo e di fuori da esso lui rimovono dall'abito di scienza.

    3. Dentro dall'uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l'uno dalla parte del corpo, l'altro dalla parte dell'anima. Dalla parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Dalla parte dell'anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose dilettazioni, nelle quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile.

    4. Di fuori dall'uomo possono essere similemente due cagioni intese, l'una delle quali è induttrice di necessitade, l'altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene delli uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione essere non possono. L'altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano.

    5. Le due di queste cagioni, cioè la prima dalla parte [di dentro e la prima dalla parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avegna che l'una più, sono degne di biasimo e d'abominazione.

    6. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che all'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono

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  • affamati.7. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane

    delli angeli si manuca! e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo!

    8. Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch'elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande se[n] gire mangiando.

    9. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono della loro buona ricchezza alli veri poveri, e sono quasi fonte vivo, della cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata.

    10. E io adunque, che non seggio alla beata mensa, ma, fuggito della pastura del vulgo, a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m'ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolemente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale alli occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.

    11. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata. Ed ha questo convivio di quello pane degno, co[n] tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata.

    12. E però ad esso non s'assetti alcuno male de' suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno assettatore de' vizii, perché lo stomaco suo è pieno d'omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe.

    13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa colli altri simili impediti s'assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, ché non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farà loro e gustare e patire.

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  • 14. La vivanda di questo convivio saràe di quattordici maniere ordinata, cioè [di] quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d'alcuna oscuritade ombra, sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado.

    15. Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.

    16. E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolemente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene.

    17. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propia ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all'entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata.

    18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati.

    19. Li quali priego tutti che se lo convivio non fosse tanto splendido quanto conviene alla sua grida, che non al mio volere ma alla mia facultade imputino ogni difetto: però che la mia voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.

    Convivio I, 13 (11-12)

    11. Così, rivolgendo li occhi a dietro e raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato dalle macule e dall'essere di biado; per che tempo è d'intendere a ministrare le vivande.

    12. Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soverchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce.

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  • Il ConvivioÈ un'opera mista di prosa e versi di argomento filosofico-dottrinale, scritta da Dante in un periodo agli inizi del suo esilio (probabilmente intorno al 1304-1308): il progetto originale dell'opera prevedeva quindici trattati in prosa volgare, uno introduttivo e altri quattordici di commento ad altrettante canzoni dottrinali composte dall'autore negli anni precedenti. Dante non portò a termine l'opera e la lasciò incompiuta dopo il IV Trattato, probabilmente per dedicarsi alla composizione della Commedia. Il titolo significa letteralmente «banchetto» e allude alla volontà dell'autore di imbandire ai lettori la sapienza attraverso delle vivande rappresentate dalle canzoni, mentre il pane è costituito dal commento in prosa. L'ambizione di Dante era quella di creare una vasta opera enciclopedica, in cui affrontare tutti gli argomenti dello scibile e dimostrare così il proprio sapere e la propria maestria letteraria per riscattare la sua condizione di esule.

    L'opera nasce dagli studi filosofici cui Dante si era dedicato negli anni successivi alla morte di Beatrice, come egli stesso precisa nel Trattato introduttivo (in cui, tra l'altro, reinterpreta in chiave allegorica la donna gentile di cui aveva parlato nella Vita nuova, dichiarando che essa altro non era che allegoria della filosofia). Dante afferma nel I Trattato di essere ai piedi della mensa dei veri sapienti, dalla quale raccoglie le briciole, per cui è sua intenzione condividere la ricchezza del sapere con gli altri lettori comunicando le sue scoperte: da qui la scelta del volgare come lingua dell'opera, dal momento che il pubblico cui si rivolge è italiano, colto ma non specialistico, formato da alta borghesia e piccola nobiltà, quindi non necessariamente in grado di intendere il latino. 

    II Trattato

    È dedicato a commentare la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete: Dante spiega anzitutto le circostanze biografiche in cui la lirica venne composta, ovvero il periodo seguente alla morte di Beatrice in cui lui cercò consolazione nello studio della filosofia (specialmente leggendo Cicerone e

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  • Boezio), quindi reinterpreta la donna gentile di cui si parlava nei capp. XXXV-XXXIX della Vita nuova come allegoria della filosofia, per cui la materia narrativa del libello giovanile viene rivisitata e attualizzata. Su questa base egli svolge il commento e l'interpretazione della canzone, tessendo un appassionato elogio della filosofia e dello studio della materia dottrinale.

    III Trattato

    È il commento alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona, la stessa intonata da Casella nel Canto II del Purgatorio e collegata anch'essa alla figura della donna gentile, esaltata secondo la poetica stilnovistica della «loda». Come nel II Trattato, anche qui Dante compie numerose divagazioni di carattere scientifico, filosofico, teologico.

    IV Trattato

    La canzone commentata è Le dolci rime d'amor ch'i' solìa, che si distende per trenta capitoli con un raddoppiamento esatto rispetto ai due Trattati precedenti, entrambi di quindici capitoli. Dante abbandona il tema biografico-amoroso, affrontando una elaborazione di carattere più strettamente teorico: il tema centrale è la definizione della nobiltà, che è quella d'animo e non di sangue (secondo il celebre motivo stilnovista) ed è quindi una sorta di dono divino, di cui il destinatario deve rendersi degno con una condotta virtuosa da esprimere nell'impegno politico e civile. Il tema sociale si fonde con quello politico, poiché Dante esalta il concetto di monarchia universale rappresentata storicamente dall'Impero romano e poi dal Sacro Romano Impero, voluta quindi dal disegno provvidenziale di Dio attraverso la vicenda di Enea, la fondazione di Roma e del Papato (la stessa visione tornerà, con qualche correttivo, nella Commedia e nella Monarchia).

    Stile e prosa del Convivio

    Varie sono le fonti e i modelli cui Dante si rifà nella composizione di quest'opera cui doveva affidare, almeno nelle intenzioni, la sua fama negli anni successivi: anzitutto i filosofi pagani alla cui lettura si era avidamente dedicato prima dell'esilio, fra i quali spiccavano Aristotele e i già citati Cicerone e Boezio, cui vanno aggiunti naturalmente gli autori cristiani

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  • (anche se nell'opera si avverte una certa sopravvalutazione della speculazione filosofica e della ragione umana a scapito della teologia: ciò è stato interpretato come causa del cosiddetto «traviamento» morale di Dante, rimproveratogli da Beatrice nel Canto XXX del Purgatorio e all'origine, forse, dello smarrimento nella selva oscura). Un certo debito di Dante è innegabile anche verso la tradizione medievale della letteratura didascalica, a cominciare dalle opere di Brunetto Latini come Trésor (in lingua d'oïl) e Tesoretto, nonché alle razos dei poeti provenzali con cui essi spiegavano il significato delle loro poesie e le commentavano.

    La prosa del Convivio è il risultato di questa ricerca dottrinale e rappresenta una scommessa vinta nel tentativo di usare il volgare per scrivere un'opera di così elevato impegno intellettuale: lo stile è decisamente elevato e il volgare dimostra una vitalità e un'efficacia che sarebbe stata impensabile al latino medievale, dal quale comunque trae l'equilibrio compositivo, la lucida chiarezza, la complessità sintattica e la simmetria. Dante fonda in un certo senso la «prosa filosofica in volgare» (secondo la definizione di Segre) e la arricchisce con l'uso frequente di similitudini e metafore, allo scopo di dare concretezza ed evidenza alle proprie argomentazioni, anche a quelle di carattere più squisitamente teorico.

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  • LA RICETTA DEL SAPERE (riscrittura ad opera di tutta la classe)

    Questa è la ricetta di un piatto molto gustoso, il piatto della CONOSCENZA

    Ingredienti:

    1 kg di gioia

    1 kg di emozione

    1 kg di creatività

    1 kg di fantasia

    1 kg di ricerca

    1 kg di analisi

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  • 500 gr di carta e penna

    500 gr di digitale

    1 kg di libri

    infinite parole

    1 kg di competenze

    Un pizzico di follia

    Pazienza e tempo q.b.

    Consapevolezza e disponibilità ad apprendere q.b.

    Preparazione:

    Disponi il tuo cuore e la tua testa all'apprendimento: serve silenzio, concentrazione e tanta gioia. Usa consapevolezza e disponibilità ad apprendere in ogni passaggio della ricetta.

    Prendi gioia, emozione, creatività e fantasia e aggiungili alla ricerca e all'analisi.

    Con carta e penna e col digitale frulla il tutto e spalma il composto sui libri.

    Crea infinite parole con competenza e un pizzico di follia.

    Usa pazienza e tempo quanto basta per mescolare gli ingredienti.

    Il tutto va cotto sul tuo cuore e nella tua testa per l'eternità.

    La conoscenza sarà pronta ogni volta che testa e cuore saranno disposti ad accoglierla.

    Buon appetito

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  • Dante, Purgatorio, XXIII, vv. 1-36

    I golosi del Paradiso

    Mentre che li occhi per la fronda verdeficcava io sì come far suolechi dietro a li uccellin sua vita perde,

    lo più che padre mi dicea: «Figliuole,vienne oramai, ché ‘l tempo che n'è impostopiù utilmente compartir si vuole».

    Io volsi ‘l viso, e ‘l passo non men tosto,appresso i savi, che parlavan sìe,che l'andar mi facean di nullo costo.

    Ed ecco piangere e cantar s'udìe‘Labia mea, Domine' per modotal, che diletto e doglia parturìe.

    «O dolce padre, che è quel ch'i' odo?»,comincia' io; ed elli: «Ombre che vannoforse di lor dover solvendo il nodo».

    Sì come i peregrin pensosi fanno,giugnendo per cammin gente non nota,che si volgono ad essa e non restanno,

    così di retro a noi, più tosto mota,venendo e trapassando ci ammiravad'anime turba tacita e devota.

    Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,palida ne la faccia, e tanto scema,che da l'ossa la pelle s'informava.

    Non credo che così a buccia strema

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  • Erisìttone fosse fatto secco,per digiunar, quando più n'ebbe tema.

    Io dicea fra me stesso pensando: ‘Eccola gente che perdé Ierusalemme,quando Maria nel figlio diè di becco!'

    Parean l'occhiaie anella sanza gemme:chi nel viso de li uomini legge ‘omo'ben avria quivi conosciuta l'emme.

    Chi crederebbe che l'odor d'un pomosì governasse, generando brama,e quel d'un'acqua, non sappiendo como?

    S. Dalì, L'albero dei golosi Dante, appena entrato nella VI Cornice del Purgatorio guarda con attenzione tra le fronde dell'albero, quando Virgilio lo avverte che il tempo è poco ed è necessario procedere. Il poeta segue il maestro e Stazio che parlano tra loro, finché sente delle anime che cantano piangendo il Salmo Labia mea, Domine e ne chiede spiegazioni a Virgilio. Questi risponde che forse sono anime di penitenti e infatti poco dopo i tre sono raggiunti da una schiera di golosi, che procedono spediti e li guardano sorpresi, senza fermarsi. Ciascuno di loro ha il volto pallido e scavato dalla magrezza, al punto che la pelle aderisce tutta alle ossa del cranio; Erisìttone non dimagrì così tanto a causa del castigo di Cerere, mentre i golosi ricordano a Dante gli Ebrei che a Gerusalemme, durante l'assedio di Tito, furono indotti ad atti di cannibalismo. Il loro volto è così smunto che sembra di leggervi la parola

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  • OMO, e tutto ciò a causa del profumo dei frutti che pendono dall'albero e dell'acqua, che producono quell'effetto in modo incomprensibile all'uomo.

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  • LA GOLOSITA' (riscrittura ad opera di tutta la classe)

    Recita il dizionario Treccani:

    golóso (ant. gulóso) agg. [dal lat. gulosus, der. di gula «gola»].   ጀ 1. a.Ghiotto, avido di cibi raffinati e ricercati o in genere di determinati cibi: essere g. di dolci, di frutta, di ostriche. Più spesso, usato assol., che ha il vizio della gola: è molto g.; non sono affatto g.; anche sostantivato: i g. sono puniti da Dante nel 2° cerchio dell'Inferno. b. fig. Avido, desideroso, bramoso: esser g. di piaceri, di soldi; un pubblico g. di notizie scandalistiche; riferito agli occhi e allo sguardo, che rivela concupiscenza, desiderio sensuale: le rivolse uno sguardo g.; la guardava con occhi g.; con altro sign., nel linguaggio poet., riferito agli occhi, bramosi di vedere: sempre con li occhi gulosi si mira innanzi (Dante). 2. estens. Di cibo, che stuzzica la gola (meno com., in questo senso, di gustoso, ghiotto, appetitoso): piatti g.; un g. manicaretto. ◆ Dim. golosino, golosétto; accr. golosóne (f. -a); pegg. golosàccio (gli ultimi due, usati di solito come sost.). ◆ Avv. golosaménte, con golosità, con avidità: mangiava golosamente la sua porzione di dolce; seguiva golosamente tutti i particolari della vicenda.

    L'aggettivo rimanda ad una certa voluttà nel ricercare i cibi più raffinati. Si collega anche al termine leccornìa: questa parola significa   ᠀挀椀戀漀  squisito e raffinato' e deriva da lecconerìa, cioè cibo da leccone, che anticamente significava ‘goloso'.

    Inoltre, il termine si collega a gola, che per estensione è usato come sinonimo di " ingordigia ", " golosità ", uno dei sette vizi capitali secondo la morale cattolica.Essa si ha quando l'uomo, spinto dagli stimoli dell'appetito concupiscibile, eccede la giusta misura nel dedicarsi ai piaceri del cibo e delle bevande. Tale disordinata concupiscenza dei piaceri del palato contamina la vita spirituale dell'uomo e, se giunge a distogliere l'uomo dal suo fine ultimo, cioè dal pensiero della salvezza dell'anima e di Dio, può divenire peccato mortale.

    Nel Convivio (III, VII 17), Dante accenna al vizio della gola, annoverandolo tra i vizii consuetudinarii (sì come la intemperanza, e massimamente del

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  • vino), distinti dai vizi connaturali, cioè da quelli a li quali naturalmente l'uomo è disposto (sì come certi per complessione collerica sono ad ira disposti).

    Il peccato di g. ha una collocazione precisa nelle due strutture topografiche e morali dell'Inferno e del Purgatorio. Nell'Inferno esso è punito nel terzo dei nove cerchi (dopo la lussuria e prima dell'avarizia e prodigalità, secondo uno schema progressivo di maggiore gravità), al di fuori della città di Dite, tra i peccati cioè meno gravi d'incontenenza, che men Dio offende e men biasimo accatta (XI 82-84).

    Nel Purgatorio esso è punito nel sesto dei sette gironi del sacro monte (Pg XXII 115 ss., XXIII, XXIV), dopo l'avarizia e prodigalità e prima della lussuria, secondo uno schema progressivo di minore gravità: tra quei peccati, cioè, generati dall'erroneo indirizzarsi dell'amore d'animo, con troppo... di vigore (Pg XVII 96), con ordine corrotto (v. 126) in quanto corrompe l'ordine naturale al bene.

    I golosi dell'Inferno sono dannati a restare distesi sotto lo scroscio costante di una pioggia etterna, maladetta, fredda e greve, fatta di grandine grossa, acqua tinta [" sporca "] e neve (If VI 8 e 10). A guardia del luogo della loro pena vi è Cerbero, il mitico mostruoso cane trifauce (di derivazione virgiliana), che li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e 'l ventre largo, e unghiate le mani (vv. 16-17; descrizione di avidità animalesca volutamente ambigua e antropomorfa nei termini barba, mani, a raffigurare i caratteri simbolici del goloso). La pioggia per la sofferenza che produce fa urlar... come cani le anime dei peccatori che dei piaceri del ventre fecero il solo scopo della loro vita (Paul. Philipp. 3, 19 " quorum deus venter est "), e un cane dal ventre largo le grafia, iscoia ed isquatra, e con i suoi latrati le 'ntrona... / sì, ch'esser vorrebber sorde (If VI 18, 32-33).

    Nel Purgatorio le anime di coloro che assecondarono i piaceri della gola oltra misura (Pg XXIII 65), purgano il loro peccato soffrendo gli stimoli della fame e della sete (il contrapasso è, in questo caso, evidente), resi più acuti dalla vista di due alberi posti alle due estremità del girone, pieni di pomi odorosi (a odorar soavi e buoni, XXII 132), e di una sorgente di acqua limpida (un liquor chiaro, v. 137), che bagna e rende fragranti con i suoi spruzzi le foglie di uno degli alberi (Di bere e di mangiar n'accende cura / l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo / che si distende su per sua verdura, XXIII 67-69). Il

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  • tormento per le anime che girano incessantemente si rinnova di continuo (E non pur una volta, questo spazzo girando, si rinfresca nostra pena, vv. 70-71). Il loro aspetto è deformato dall'estrema magrezza: profonde e scure occhiaie, pallore sul volto, pelle a contatto diretto con le ossa dello scheletro (Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, / palida ne la faccia, e tanto scema [" scarna "] / che da l'ossa la pelle s'informava, vv. 22-24); le occhiaie somigliano ad anella santa gemme, tanto gli occhi sono privi di luce, quasi invisibili e infossati nel profondo de la testa (vv. 31 e 40), e chi nel viso de li uomini legge  ᬀ omo ' / ben avria quivi conosciuta l'emme (vv. 32-33: cioè le due occhiaie simili a due  ᬀ O ', e la linea dei sopraccigli e del naso, simile a una  ᬀ M ', messa in rilievo dalla magrezza). Ai due estremi del girone, presso i due alberi odorosi e carichi di pomi, si ode una voce che indica rispettivamente  ᬀ esempi ' di temperanza e di intemperanza (presso il primo: l'episodio evangelico, narrato in Ioann. 2, 11, della vergine Maria, che alle nozze di Canaan spinse Gesù a compiere il miracolo di mutare l'acqua in vino, non per sua golosità, ma perché fosser le nozze orrevoli e intere, conformi alle buone usanze e complete [XXII 143]; la credenza, affermata da Valerio Massimo [II I 3], citato poi da s. Tommaso in Sum. theol. II II 149 4, secondo cui le antiche donne romane bevevano solo acqua; il racconto biblico, in Dan. 1, 3-20, secondo cui il profeta Daniele rifiutò i cibi raffinati della mensa del re Nabuccodonosor, accontentandosi del cibo semplice dei poveri, e ricevendo, quale ricompensa, da Dio le doti del sapiente e del saggio; la mitica leggenda dei tempi dell'età dell'oro, secondo cui gli uomini allora soddisfacevano ai bisogni del sostentamento con mezzi semplici, come le ghiande e l'acqua di ruscello; l'episodio evangelico, narrato in Matt. 3, 4 e in Marc. 1, 6, secondo cui s. Giovanni Battista, ritiratosi nel deserto, si nutrì di miele e di locuste. Presso il secondo: l'episodio, narrato da Ovidio in Met. XXII 210 ss., dei centauri, che, ubriacatisi durante le nozze di Piritoo, aggredirono la sposa e le altre donne presenti, generando una mischia furibonda, in cui molti di essi persero la vita per mano di Piritoo e di Teseo; l'episodio biblico del libro dei Giud. 6, 11 e 7, 25, secondo cui Gedeone, dovendo muovere contro i Madianiti, non volle tra le fila dei suoi soldati quegli Ebrei che presso la fonte di Arad mostrarono troppo slancio e mollezza nel voler soddisfare la sete; e oltre a queste, altre colpe de la gola / seguite già da miseri guadagni, XXIV 128-129). Inoltre la voce divina presso i due alberi fa precedere l'elenco degli   ᬀ  esempi ' da un ammonimento (presso il primo: Di questo cibo avrete caro, " mancanza " [XXII 141], che ricorda il divieto fatto da Dio ad Adamo ed Eva di cibarsi dei

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  • pomi dell'albero della scienza del bene e del male, in Gen. 2, 17; presso il secondo: Trapassate oltre sanza farvi presso: / legno è più sù che fu morso da Eva, / e questa pianta si levò da esso [Pg XXIV 115-117], con più preciso riferimento al lignum del racconto biblico, che si trova più sù, in cima alla montagna del Purgatorio, nel Paradiso terrestre). Infine, le anime penitenti, ogni volta che giungono vicino al secondo albero, si fermano qualche istante gridando e alzando le mani verso le foglie, quasi bramosi fantolini e vani (v. 108), per poi riprendere, delusi, il loro andare, accompagnato dal canto " Labïa mëa Domine " (versetto 17 del Miserere; Pg XXIII 11).

    Tra i golosi dannati nel terzo cerchio dell'Inferno D. immagina d'incontrare Ciacco (v.). Fra i golosi del Purgatorio il papa Martino IV, Ubaldino della Pila, Bonifazio Fieschi, Marchese degli Orgogliosi, Bonagiunta Orbicciani e Forese Donati: v. le singole voci e soprattutto quelle degli ultimi due personaggi, di grande rilievo nella Commedia

    La domanda nasce spontanea: si può essere golosi di un cavolo? Be', proprio no... E' difficile che la nostra gola accolga con gioia questa verdura, che certamente fa benissimo, ma non stuzzica il palato. L'orco di Pollicino era goloso di bambini...

    La golosità, però, rimanda ad un peccato...E non è soltanto perché minaccia la bilancia, ma anche perché la golosità rimanda all'idea di soddisfare altri piaceri.

    Tuttavia, il buon cibo è sicuramente una favola!!!

    Leggetevi questo articolo e capirete:

    http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Ricette_da_fiaba.html

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    http://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Ricette_da_fiaba.html

  • San Francesco, Speculum perfectionis

    Speculum perfectionis112. DEL CIBO E DEL PANNO CHE, PRESSO A MORIRE, EGLI DESIDERAVA

    1812113. Stava il Santo, infermo dell'ultima malattia che lo portò a morte, nel

    luogo di Santa Maria degli Angeli. Un giorno chiamò i suoi compagni e disse loro: « Voi sapete come Donna Jacopa de Settesoli è vivamente devota a me e al nostro Ordine. Credo perciò ch'ella considererà grande favore e consolazione se la informiamo del mio stato. Domandatele specialmente che mi faccia avere del panno monacale color cenere e, insieme, mi mandi anche di quel dolce che a Roma preparò per me più volte». I romani chiamano quel dolce: mostaccioli, ed è fatto di mandorle, zucchero e altri ingredienti. Quella nobildonna era molto religiosa, una delle vedove più nobili e ricche di Roma. Per i meriti e la predicazione di Francesco, aveva ricevuto dal Signore la grazia di emulare, nelle lacrime e nel fervore, nell'amore e nell'appassionata dedizione a Cristo, Maria Maddalena. Scrissero dunque una lettera come aveva detto il Santo; e un frate andava cercando un compagno che recapitasse alla nobildonna la lettera, quando fu picchiato alla porta del luogo. Un frate aprì, ed ecco, lì in persona, Donna Jacopa, venuta con gran fretta a visitare Francesco. Un frate la riconobbe e si recò immediatamente da Francesco, annunziandogli con grande gioia che Donna Jacopa era venuta da Roma con suo figlio e molto seguito a fargli visita. Soggiunse: « Cosa facciamo, padre? Possiamo lasciarla entrare da te? ». Disse questo, perché per volontà di Francesco era stato deciso che in quel luogo, per preservarne il decoro e il raccoglimento, non vi entrasse alcuna donna. Ma il Santo disse: « Tale regola non va osservata per questa nobildonna, che una grande fede e devozione ha fatto accorrere qui da tanto lontano ». Così Donna Jacopa entrò dal beato Francesco, scoppiando in lacrime davanti a lui. E, cosa mirabile, portava con sé il panno mortuario, color cenere, per fare una tonaca, e le altre cose contenute nella lettera, come se l'avesse ricevuta in antecedenza. La signora disse ai frati: « Fratelli miei, mentre pregavo ebbi questa ispirazione:--Va' a visitare il tuo padre Francesco; affrettati, non

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  • indugiare; ché, tardando, non lo troveresti più vivo. E portagli il tale panno per la tonaca e tali altre cose, per fargli quel dolce. Inoltre, porta con te gran quantità di cera per farne delle candele, e anche dell'incenso ---». Questo, tranne che l'incenso, era annotato nella lettera che si stava per recapitarle. E così avvenne che Colui, il quale ispirò ai re Magi di andare con doni a onorare il Figlio suo nel giorno della sua nascita, ispirò anche a quella nobile e santa signora di recarsi con doni a onorare il suo dilettissimo servo nei giorni della sua morte, o meglio della sua vera nascita. Preparò quella signora il cibo che il Santo desiderava mangiare, ma egli ne mangiò ben poco, perché sempre più gli mancavano le forze e si avvicinava alla morte. Fece fare anche molte candele che, dopo la morte del Santo, ardessero intorno alla sua salma; e con il panno, i frati confezionarono la tonaca con la quale venne sepolto. Francesco stesso ordinò ai frati di cucirgli del sacco sulla veste che portava, in segno ed esempio di umiltà e di sovrana povertà. E in quella settimana in cui era venuta Donna Jacopa, il nostro santissimo padre migrò al Signore.

    Il testo Speculum perfectionis o Legenda antiquissima è un'opera di scrittore anonimo scritta intorno al 1318 sulla vita di San Francesco d'Assisi.

    Creduta per molto tempo opera di frate Leone, compagno fedele del santo, lo Specchio di perfezione è in realtà opera anonima dovuta ad una revisione di materiali contenuti nella Legenda Perusina.

    Il manoscritto più antico dello Speculum si trova a Firenze nel monastero d'Ognissanti e riporta la data del 1317.

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  • PANE (riscrittura ad opera di tutta la classe)

    Si tratta di un cibo immancabile sulle nostre tavole, essenziale alla vita umana, simbolo del lavoro dell'uomo ed anche alimento sacro.

    PANE

    PANE che accompagni

    PANE che sazi

    PANE scuro dei poveri

    PANE bianco dei ricchi

    La tua presenza sulla tavola

    riempie gli occhi.

    Il tuo profumo dal cesto

    inebria le narici.

    La tua fragranza in bocca

    scioglie le papille.

    Ogni senso da te appagato

    mostra il lavoro di ogni dì,

    che trasforma la fatica nella gioia della tavola.

    Un approfondimento a questo link:

    http://www.storico.org/storia_societa/pane.html

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    http://www.storico.org/storia_societa/pane.html

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  • Francesco Petrarca, Canzoniere

    Sonetto 9 del Canzoniere

    Petrarca, Canzoniere Sonetto 9

    Quando 'l pianeta che distingue l'oread albergar col Tauro si ritorna,cade vertu da l'infiammate cornache veste il mondo di novel colore;et non pur quel che s'apre a noi di fore,le rive e i colli, di fioretti adorna,ma dentro dove gia mai non s'aggiornagravido fa di se il terrestro humore,onde tal fructo et simile si colga:cosi costei, ch'e tra le donne un sole,in me movendo de' begli occhi i raicria d'amor penseri, atti et parole;ma come ch'ella gli governi o volga,primavera per me pur non e mai.

    Con il titolo Canzoniere si è soliti designare l'opera Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca, cioè la raccolta delle sue rime. Il titolo di Rime sparse, col quale essa appare in molte edizioni, è desunto dal primo verso del sonetto-proemio.

    L'opera raccoglie le liriche composte da Petrarca nell'arco di tutta la vita, approssimativamente dal 1335-1336 (ma forse anche prima) sino agli ultimi anni prima della morte, nel 1373-74, e l'autore sottopose le sue poesie a un continuo lavoro di riscrittura e rielaborazione che lui stesso definì labor limae, arrivando alla sistemazione definitiva in una raccolta concepita come opera organica. Il titolo, Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di cose volgari"), allude al carattere sparso dei componimenti (che nel sonetto proemiale sono appunto detti "rime sparse") e al loro scarso valore, dal momento che il poeta considerava i versi volgari inferiori a quelli scritti in latino; le liriche della raccolta erano da lui chiamate nugae, "cose da poco",

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  • definizione di maniera che forse non va intesa in senso spregiativo visto che era usata talvolta anche per le composizioni latine. La raccolta non ha un vero e proprio schema narrativo ed è priva di qualunque cornice in prosa, distaccandosi così dai modelli precedenti della Vita nuovae del Convivio, e se il tema centrale è la storia tormentata dell'amore di Petrarca per Lauranon mancano temi d'occasione, come ringraziamenti ad amici e conoscenti o rime encomiastiche per i potenti protettori del poeta, così come liriche di argomento politico (specie le canzoni Spirto gentil e Italia mia) e sonetti di polemica contro la corruzione della Curia papale di Avignone, detta "avara Babilonia". L'opera comprende 366 poesie tra cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, che si succedono apparentemente prive di uno schema anche se, come detto, il libro racconta le fasi dell'amore per Laura e dunque c'è un ordine cronologico; il numero delle poesie rispecchia quello dei giorni di un anno bisestile e la raccolta si può dividere in due parti (Rime in vita di Madonna Laura e Rime in morte di Madonna Laura), anche se tale suddivisione si deduce dal tema delle poesie e non è resa esplicita dall'autore (la canzone 264 è la prima rima in cui si accenna in modo allusivo alla morte della donna, benché il fatto venga dichiarato solo nel sonetto 267). L'ordine delle liriche non rispetta comunque quello della composizione, in quanto il sonetto di apertura è stato composto intorno al 1350 e costituisce una sorta di bilancio a posterioridella vita amorosa del poeta, quindi la struttura del Canzoniere è frutto di una rielaborazione finale dell'autore cui, probabilmente, è giunto solo negli ultimi anni della sua vita. Dell'opera esiste l'autografo di Petrarca e l'edizione critica si basa principalmente sul Codice Vaticano Latino 3196, scritto in gran parte di suo pugno e che contiene anche le annotazioni a margine e le correzioni apportate dal poeta, consentendo perciò di ricostruire con buona approssimazione la "storia editoriale" di quest'opera che, almeno sotto questo aspetto, è già decisamente moderna.

    Il sonetto n. 9 paragona l'effetto del sole sulla terra e gli effetti degli occhi di Laura su Petrarca. Il sole fa nascere frutti preziosi, come tuberi, asparagi, tartufi, soprattutto in pirimavera, quando la terra si risveglia dinanzi ai suoi raggi ed è quasi ingravidata dal seme della luce. I frutti preziosi sono pronti per essere colti e gustati.

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  • Forse non avviene la stessa cosa in amore: i raggi dagli occhi di Laura producono pensieri, atti e parole d'amore in Petrarca, ma questi non sa come questa donna operi in amore, perché non vi è mai gioia e corrispondenza d'amore.L'amore è decisamente più difficile da realizzarsi rispetto alla nascita di un frutto della terra. 

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  • CROSTATA ALLA FRUTTA (riscrittura ad opera di Campobasso Miriam)

    Crostata alla frutta

    INGREDIENTI PER UNA CROSTATA DI FRUTTA DA 26cm:

    PER LA CREMA PASTICCERA:2 uova80g di zucchero (4 cucchiai)30g di amido di mais (2 cucchiai)1/2 litro di lattebuccia di limone

    GELATINA FATTA IN CASA:125 ml di acqua50 g di zucchero8g di amido di mais

    PER DECORARE:

    Pezzi o Fettine di Frutta a piacere

    PREPARAZIONE

    Usiamo la base frolla già pronta

    PREPARIAMO LA CREMA PASTICCERA:

    In un pentolino versiamo 500ml di latte, un pezzetto di scorza di limone, e facciamo scaldare sul fuoco.

    In un'altra pentola rompiamo 2 uova, aggiungiamo 80g di zucchero e mescoliamo con una frusta, aggiungiamo 30g di amido di mais e mescoliamo bene.

    Togliamo la scorza di limone dal latte e spegniamo il fuoco, quindi

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  • aggiungiamo il latte caldo alla crema, mescoliamo bene e riportiamo sul fuoco per 3- 4 minuti sempre mescolando. Quando la crema si addensa la possiamo versare sulla base.

    Ora disponiamo la frutta a piacere, fragole tagliate a metà, kiwi e banane tagliate a fette e frutti di bosco al centro. Ricopriamo tutta la crema con la nostra frutta preferita.

    PREPARIAMO LA GELATINA FATTA IN CASA

    La gelatina impedirà alla frutta di annerirsi e la manterrà fresca per ore, inoltre darà un aspetto lucido e invitante alla nostra crostata di frutta!

    Amalgamiamo 50g di zucchero e 8g di amido di mais, aggiungiamo 125 ml di acqua e mescoliamo con la frusta, mettiamo sul fuoco per circa 3 minuti sempre mescolando. La gelatina è pronta, la togliamo dal fuoco e spennelliamo per bene tutta la superficie della nostra crostata.

    Ecco fatto, la crostata di frutta è pronta! Perfetta per l'estate, colorata, fresca e buonissima!

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  • Giovanni Boccaccio, Decameron

    Boccaccio, Decameron

    Giovanni Boccaccio, Decameron, Ottava giornata, Novella terza

    Calandrino, Bruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia, ed egli turbato la batte, e a'suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.

    Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono, la reina ad Elissa commise che seguitasse, la quale ancora ridendo incominciò:

    Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta, non men vera che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma io me ne 'ngegnerò.Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l'un Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de'modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de'fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa. E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl'intagli del tabernacolo il quale è sopra l'altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s'accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario.

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  • A' quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de'Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d'acqua.

    - Oh, - disse Calandrino - cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de'capponi che cuocon coloro?Rispose Maso: - Mangiansegli i Baschi tutti.Disse allora Calandrino: - Fostivi tu mai?A cui Maso rispose: - Di'tu se io vi fu' mai? Sì vi sono stato così una volta come mille.Disse allora Calandrino: - E quante miglia ci ha?Maso rispose: - Haccene più di millanta, che tutta notte canta.Disse Calandrino: - Dunque dee egli essere più là che Abruzzi.- Sì bene, - rispose Maso - si è cavelle.Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l'aveva per vere, e disse: - Troppo ci è di lungi a' fatti miei, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una satolla. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre così virtuose?A cui Maso rispose: - Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù: l'una sono i macigni da Settignano e da Montici, per virtù de' quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina; e per ciò si dice egli in que' paesi di là, che da Dio vengono le grazie e da Montici le macine; ma ecci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de'quali v'ha maggior montagne che monte Morello che rilucon di mezza notte vatti con Dio. E sappi che chi facesse le macine belle e fatte

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  • legare in anella, prima che elle si forassero, e portassele al soldano, n'avrebbe ciò che volesse. L'altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sè, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è.Allora Calandrin disse: - Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?A cui Maso rispose, che nel Mugnone se ne solevan trovare.Disse Calandrino: - Di che grossezza è questa pietra? O che colore è il suo?Rispose Maso: - Ella è di varie grossezze, ché alcuna n'è più e alcuna meno, ma tutte son di colore quasi come nero.

    Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembiante d'avere altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n'andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli.

    Ultimamente, essendo già l'ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n'andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro: - Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niun'altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v'andasse, v'andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l'avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de'cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca.

    Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra sé medesimi cominciarono a ridere, e guatando l'un verso l'altro fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che egli rispose: - Che abbiam noi a far del nome, poi

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  • che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza star più.- Or ben, - disse Bruno - come è ella fatta?Calandrin disse: - Egli ne son d'ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo.A cui Brun disse: - Or t'aspetta; - e volto a Buffalmacco disse: - A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l'abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l'ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci vegga.Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s'accordò, e ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogn'altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che così era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi.Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando. Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un'altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n'ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all'analda non era, e faccendo di quegli ampio greé, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empiè.Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l'ora del

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  • mangiare s'avvicinava, secondo l'ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: - Calandrino dove è?Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose: - Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi.Disse Bruno: - Ben che fa poco! a me par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d'andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone.- Deh come egli ha ben fatto, - disse allora Buffalmacco - d'averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d'essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire.Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: - Noi che faremo? Ché non ce ne andiam noi?A cui Bruno rispose: - Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa - ; e il dir le parole e l'aprirsi e '1 dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre.Buffalmacco, recatosi in mano uno de'ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno: - Deh! vedi bel codolo, così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! - e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa. E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de'gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo.Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era ciascuno.Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua.

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  • Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: - Mai, frate, il diavol ti ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare.Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: - Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m'hai diserto; ma in fè di Dio io te ne pagherò - ; e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le treccie la si gittò a'piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e'piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce.Buffalmacco e Bruno, poi che co'guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell'uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell'un de'canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d'altra parte Calandrino scinto e ansando a guisa d'uom lasso sedersi.Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: - Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre? - E oltre a questo soggiunsero: - E monna Tessa che ha? E'par che tu l'abbi battuta; che novelle son queste?Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito a formare intera la parola alla risposta. Per che soprastando, Buffalmacco ricominciò: - Calandrino, se tu aveva altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai.A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: - Compagni, non vi turbate, l'opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l'un l'altro, io v'era presso a men di diece braccia; e

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  • veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v'entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto.E, cominciandosi dall'un de'capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel'avessero, e poi seguitò: - E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que'guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sì come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l'ho tanto battuta quant'io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni; che maladetta sia l'ora che io prima la vidi e quand'ella mi venne in questa casa!E raccesosi nell'ira, si voleva levar. per tornare a batterla da capo.Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un'altra volta la moglie, levatiglisi allo 'ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d'apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua, o perch'egli aveva in animo d'ingannare i suoi compagni, a'quali, come s'avvedeva d'averla trovata, il doveva palesare.E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.

    Giovanni Boccaccio, Decameron, Sesta Giornata, Novella seconda

    Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda.

    Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò:

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  • Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio.E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino. Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de'futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose né più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E così le due ministre del mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m'ha tornata nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n'era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d'invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora che egli

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  • avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d'ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia a' morti.La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: - Chente è, Cisti? è buono? -Cisti, levato prestamente in piè, rispose: - Messer sì, ma quanto non vi potre' io dare a intendere, se voi non assaggiaste -.Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l'usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse: - Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo -; e con loro insieme se n'andò verso Cisti.Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: - Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d'assaggiarne gocciola!E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a' compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n'andò a ber messer Geri. A' quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una parte de' più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de' suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense.Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco. Il quale come Cisti vide, disse: - Figliuolo, messer Geri non ti manda a me. -Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: - Tornavi e digli che sì fo: e se egli più così ti risponde, domandalo a cui io ti mando. -Il famigliare tornato disse: - Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a

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  • te. -Al quale Cisti rispose: - Per certo, figliuol, non fa. -- Adunque -, disse il famigliare - a cui mi manda? -Rispose Cisti: - Ad Arno. -Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero dello 'ntelletto e disse al famigliare: - Lasciami vedere che fiasco tu vi porti -; e vedutol disse: - Cisti dice vero -; e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.Il quale Cisti vedendo disse: - Ora so io bene che egli ti manda a me -, e lietamente glielo impiè.E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: - Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m'avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co' miei piccoli orcioletti v'ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d'esservene più guardiano tutto ve l'ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace.Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico.

     Raccolta di cento novelle di G. Boccaccio, la cui stesura definitiva può essere attribuita agli anni tra il 1349 e il 1351. Consta d'un proemio, di un'introduzione e di dieci giornate (in greco δέκα ἡμέραι), comprendenti dieci novelle ciascuna. Le cento novelle si fingono raccontate da sette donne (Pampinea, Filomena, Neifile, Fiammetta, Elisa, Lauretta, Emilia) e tre giovani (Filostrato, Dioneo, Panfilo), in campagna presso Firenze, dove la brigata si era rifugiata per l'infuriare in città della pestilenza del 1348. Nella prima giornata si ragiona "di quello che più aggrada a ciascheduno", nella seconda di avventure e peripezie terminate felicemente, nella terza della conquista di beni agognati, nella quarta di amori a triste fine, nella quinta di liete avventure amorose, nella sesta di motti arguti, nella settima di inganni delle mogli ai mariti, nell'ottava di burle e beffe, nella nona di vari fatti a piacimento del novellatore, nella decima di imprese e atti magnanimi. Al principio della quarta giornata e in una Conclusionealla fine del Decameron, l'autore lo difende dai malevoli.

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  • Dalla novella VIII, 3 di Boccaccio: MACCHERONI BENGODI (riscrittura ad opera di Vitalini Sabrina)

    INGREDIENTI

    300 g farina bianca150 g semolino fine100 g grana grattugiato80 g burrouova1 L brodo di pollo e manzosale

    Durata: 1 hLivello: FacileDosi: 4 persone

    Per la ricetta dei maccheroni di Bengodi, con la farina, il semolino, le uova e un pizzico di sale preparate la pasta (aggiungete poca acqua nel caso ce ne fosse bisogno), poi dividetela a pezzetti, rotolateli sulla spianatoia fino ad ottenere dei cilindretti poi da essi ricavate gli gnocchi piuttosto piccoli e arrotolateli sul rovescio della grattuggia. Scaldate il brodo in una pentola piuttosto larga, quando avrà raggiunto l'ebollizione tuffatevi i "maccheroni" e, mescolando di tanto in tanto, cuoceteli per circa 10′.

    Questo tipo di impasto richiede un tempo di cottura più lungo di quello per gli gnocchi di patate che, invece, vengono scolati appena salgono in superficie. Pertanto, prima di scolare i "maccheroni", assaggiatene uno e verificate la cottura, indi estraeteli dall'acqua con il mestolo forato e metteteli in una zuppiera condendoli, mano a mano, con il formaggio. Condite con il burro che potrete aggiungere fuso o a riccioli.

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  • Dalla novella VI, 2 di Boccaccio: TORTA DI PANE E DI VINO (riscrittura ad opera di Vitalini Sabrina)

    Ingredienti

    500 g di pane raffermo

    qualche biscotto avanzatomezzo litro di vino rossocannella100 g di uva sultanina100 g di zucchero semolato250 ml di panna liquida2 uova interescorza di limone

    Preparazione

    Fare ammorbidire il pane spezzettato e i biscotti frantumati in mezzo litro di vino rosso, nel aromatizzato con la cannella e nel quale si sarà disciolto lo zucchero, per circa 30 minuti. Strizzare bene il pane facendo fuoriuscire tutto il vino eventualmente in eccesso. Unire tutti gli ingredienti e amalgamare bene con un cucchiaio di legno.Ungere di burro sciolto la tortiera, versare l'impasto , cospargere con un po' di zucchero e qualche fiocchetto di burro.

    Infornare a 180° C per circa un'ora.

    La torta di pane e vino e' ottima anche tiepida.

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  • Luigi Pulci, Morgante

    Morgante

    Luigi Pulci, Morgante, XVIII, 112-142

    112Giunto Morgante un dì in su 'n un crocicchio,uscito d'una valle in un gran bosco,vide venir di lungi, per ispicchio,un uom che in volto parea tutto fosco.Dètte del capo del battaglio un picchioin terra, e disse: «Costui non conosco»;e posesi a sedere in su 'n un sasso,tanto che questo capitòe al passo.

    113Morgante guata le sue membra tuttepiù e più volte dal capo alle piante,che gli pareano strane, orride e brutte:- Dimmi il tuo nome, - dicea - vïandante. -Colui rispose: - Il mio nome è Margutte;ed ebbi voglia anco io d'esser gigante,poi mi penti' quando al mezzo fu' giunto:vedi che sette braccia sono appunto. -

    114Disse Morgante: - Tu sia il ben venuto:ecco ch'io arò pure un fiaschetto allato,che da due giorni in qua non ho beuto;e se con meco sarai accompagnato,io ti farò a camin quel che è dovuto.Dimmi più oltre: io non t'ho domandatose se' cristiano o se se' saracino,o se tu credi in Cristo o in Apollino. -

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  • 115Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,io non credo più al nero ch'a l'azzurro,ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;e credo alcuna volta anco nel burro,nella cervogia, e quando io n'ho, nel mosto,e molto più nell'aspro che il mangurro;ma sopra tutto nel buon vino ho fede,e credo che sia salvo chi gli crede;

    116e credo nella torta e nel tortello:l'uno è la madre e l'altro è il suo figliuolo;e 'l vero paternostro è il fegatello,e posson esser tre, due ed un solo,e diriva dal fegato almen quello.E perch'io vorrei ber con un ghiacciuolo,se Macometto il mosto vieta e biasima,credo che sia il sogno o la fantasima;

    117ed Apollin debbe essere il farnetico,e Trivigante forse la tregenda.La fede è fatta come fa il solletico:per discrezion mi credo che tu intenda.Or tu potresti dir ch'io fussi eretico:acciò che invan parola non ci spenda,vedrai che la mia schiatta non tralignae ch'io non son terren da porvi vigna.

    118Questa fede è come l'uom se l'arreca.Vuoi tu veder che fede sia la mia?,che nato son d'una monaca grecae d'un papasso in Bursia, là in Turchia.E nel principio sonar la ribecami dilettai, perch'avea fantasiacantar di Troia e d'Ettore e d'Achille,

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  • non una volta già, ma mille e mille.

    119Poi che m'increbbe il sonar la chitarra,io cominciai a portar l'arco e 'l turcasso.Un dì ch'io fe' nella moschea poi sciarra,e ch'io v'uccisi il mio vecchio papasso,mi posi allato questa scimitarrae cominciai pel mondo andare a spasso;e per compagni ne menai con mecotutti i peccati o di turco o di greco;

    120anzi quanti ne son giù nello inferno:io n'ho settanta e sette de' mortali,che non mi lascian mai lo state o 'l verno;pensa quanti io n'ho poi de' venïali!Non credo, se durassi il mondo etterno,si potessi commetter tanti maliquanti ho commessi io solo alla mia vita;ed ho per alfabeto ogni partita.

    121Non ti rincresca l'ascoltarmi un poco:tu udirai per ordine la trama.Mentre ch'io ho danar, s'io sono a giuoco,rispondo come amico a chiunque chiama;e giuoco d'ogni tempo e in ogni loco,tanto che al tutto e la roba e la famaio m'ho giucato, e' pel già della barba:guarda se questo pel primo ti garba.

    122Non domandar quel ch'io so far d'un dado,o fiamma o traversin, testa o gattuccia,e lo spuntone, e va' per parentado,ché tutti siàn d'un pelo e d'una buccia.E forse al camuffar ne incaco o bado

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  • o non so far la berta o la bertuccia,o in furba o in calca o in bestrica mi lodo?Io so di questo ogni malizia e frodo.

    123La gola ne vien poi drieto a questa arte.Qui si conviene aver gran discrezione,saper tutti i segreti, a quante carte,del fagian, della stama e del cappone,di tutte le vivande a parte a partedove si truovi morvido il boccone;e non ti fallirei di ciò parola,come tener si debba unta la gola.

    124S'io ti dicessi in che modo io pillotto,o tu vedessi com'io fo col braccio,tu mi diresti certo ch'io sia ghiotto;o quante parte aver vuole un migliaccio,che non vuole essere arso, ma ben cotto,non molto caldo e non anco di ghiaccio,anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso(pàrti ch'i' 'l sappi?), e non troppo alto o basso.

    125Del fegatello non ti dico niente:vuol cinque parte, fa' ch'a la man tenga:vuole esser tondo, nota sanamente,acciò che 'l fuoco equal per tutto venga,e perché non ne caggia, tieni a mente,la gocciola che morvido il mantenga:dunque in due parte dividiàn la prima,ché l'una e l'altra si vuol farne stima.

    126Piccolo sia, questo è proverbio antico,e fa' che non sia povero di panni,però che questo importa ch'io ti dico;

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  • non molto cotto, guarda non t'inganni!ché così verdemezzo, come un ficopar che si strugga quando tu l'assanni;fa' che sia caldo; e puoi sonar le nacchere,poi spezie e melarance e l'altre zacchere.

    127Io ti darei qui cento colpi netti;ma le cose sottil, vo' che tu creda,consiston nelle torte e ne' tocchetti:e' ti fare' paura una lampreda,in quanti modi si fanno i guazzetti;e pur chi l'ode poi convien che ceda:perché la gola ha settantadue punti,sanza molti altri poi ch'io ve n'ho aggiunti.

    128Un che ne manchi, è guasta la cucina:non vi potrebbe il Ciel poi rimediare.Quanti segreti insino a domattinati potrei di questa arte rivelare!Io fui ostiere alcun tempo in Egina,e volli queste cose disputare.Or lasciàn questo, e d'udir non t'increscaun'altra mia virtù cardinalesca.

    129Ciò ch'io ti dico non va insino all'effe:pensa quand'io sarò condotto al rue!Sappi ch'io aro, e non dico da beffe,col cammello e coll'asino e col bue;e mille capannucci e mille gueffeho meritato già per questo o piùe;dove il capo non va, metto la coda,e quel che più mi piace è ch'ognun l'oda.

    130Mettimi in ballo, mettimi in convito,

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  • ch'io fo il dover co' piedi e colle mani;io son prosuntüoso, impronto, ardito,non guardo più i parenti che gli strani:della vergogna, io n'ho preso partito,e torno, chi mi caccia, come i cani;e dico ciò ch'io fo per ognun sette,e poi v'aggiungo mille novellette.

    131S'io ho tenute dell'oche in pasturanon domandar, ch'io non te lo direi:s'io ti dicessi mille alla ventura,di poche credo ch'io ti fallirei;s'io uso a munister per isciagura,s'elle son cinque, io ne traggo fuor sei:ch'io le fo in modo diventar galanteche non vi campa servigial né fante.

    132Or queste son tre virtù cardinale,la gola e 'l culo e 'l dado, ch'io t'ho detto;odi la quarta, ch'è la principale,acciò che ben si sgoccioli il barletto:non vi bisogna uncin né porre scaledove con mano aggiungo, ti prometto;e mitere da papi ho già portate,col segno in testa, e drieto le granate.

    133E trapani e paletti e lime sordee succhi d'ogni fatta e grimaldellie scale o vuoi di legno o vuoi di corde,e levane e calcetti di feltrelliche fanno, quand'io vo, ch'ognuno assorde,lavoro di mia man puliti e belli;e fuoco che per sé lume non rende,ma con lo sputo a mia posta s'accende.

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  • 134S' tu mi vedessi in una chiesa solo,io son più vago di spogliar gli altariche 'l messo di contado del paiuolo;poi corro alla cassetta de' danari;ma sempre in sagrestia fo il primo volo,e se v'è croce o calici, io gli ho cari,e' crucifissi scuopro tutti quanti,poi vo spogliando le Nunziate e' santi.

    135Io ho scopato già forse un pollaio;s' tu mi vedessi stendere un bucato,diresti che non è donna o massaioche l'abbi così presto rassettato:s'io dovessi spiccar, Morgante, il maio,io rubo sempre dove io sono usato;ch'io non istò a guardar più tuo che mio,perch'ogni cosa al principio è di Dio.

    136Ma innanzi ch'io rubassi di nascoso,io fui prima alle strade malandrino:arei spogliato un santo il più famoso,se santi son nel Ciel, per un quattrino;ma per istarmi in pace e in più riposo,non volli poi più essere assassino;non che la voglia non vi fussi pronta,ma perché il furto spesso vi si sconta.

    137Le virtù teologiche ci resta.S'io so falsare un libro, Iddio tel dica:d'uno iccase farotti un fio, ch'a sestanon si farebbe più bello a fatica;e traggone ogni carta, e poi con questaraccordo l'alfabeto e la rubrica,e scambiere'ti, e non vedresti come,

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  • il titol, la coverta e 'l segno e 'l nome.

    138I sacramenti falsi e gli spergiurimi sdrucciolan giù proprio per la boccacome i fichi sampier, que' ben maturi,o le lasagne, o qualche cosa sciocca;né vo' che tu credessi ch'io mi curicontro a questo o colui: zara a chi tocca!ed ho commesso già scompiglio e scandolo,che mai non s'è poi ravvïato il bandolo.

    139Sempre le brighe compero a contanti.Bestemmiator, non vi fo ignun divariodi bestemmiar più uomini che santi,e tutti appunto gli ho in sul calendario.Delle bugie nessun non se ne vanti,ché ciò ch'io dico fia sempre il contrario.Vorrei veder più fuoco ch'acqua o terra,e 'l mondo e 'l cielo in peste e 'n fame e 'n guerra.

    140E carità, limosina o digiuno,orazïon non creder ch'io ne faccia.Per non parer provàno, chieggo a ognuno,e sempre dico cosa che dispiaccia;superbo, invidïoso ed importuno:questo si scrisse nella prima faccia;ché i peccati mortal meco eran tuttie gli altri vizi scelerati e brutti.

    141Tanto è ch'io posso andar per tutto 'l mondocol cappello in su gli occhi, com'io voglio;com'una schianceria son netto e mondo;dovunque i' vo, lasciarvi il segno sogliocome fa la lumaca, e nol nascondo;

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  • e muto fede e legge, amici e scogliodi terra in terra, com'io veggo o truovo,però ch'io fu' cattivo insin nell'uovo.

    142Io t'ho lasciato indrieto un gran capitolodi mille altri peccati in guazzabuglio;ché s'i' volessi leggerti ogni titolo,e' ti parrebbe troppo gran mescuglio;e cominciando a sciòrre ora il gomitolo,ci sarebbe faccenda insino a luglio;salvo che questo alla fine udirai:che tradimento ignun non feci mai. -

    Il Morgante è un poema epico-cavalleresco in ottave di Luigi Pulci. Composto negli anni Sessanta del 15° sec., fu pubblicato nel 1478 in un'edizione minore, di 23 canti; l'editio princeps, riveduta e ampliata a 28 canti, e detta perciò comunemente, ma non esattamente, Morgante maggiore, è del 1483.

    L'argomento è comune a quello dell'epopea carolingia, ma Pulci ha posto al centro dell'azione nuovi personaggi, quali il gigante Morgante, convertito al cristianesimo da Orlando, un altro gigante, Margutte, e due diavoli, Astarotte e Farfarello. Il protagonista, figura popolaresca comicamente intesa, muore punto da un granchio.

    Il brano analizzato riproduce uno dei passi più famosi ed emblematici dell'intera opera: in esso il gigante Margutte ("margutte" o "margutto" è, nei dialetti dell'Italia centrale, un "fantoccio" o addirittura uno "spaventapasseri", come ha osservato Gianfranco Contini) fa una "professione di fede", enunciando la propria visione della vita, irriverente e maliziosa, al termine della quale muore soffocato dalle sue stesse risate. Il personaggio di Margutte, uno sfacciato furfante che pensa che il vino sia l'unica salvezza dell'uomo, rappresenta la creazione meglio riuscita del poema, con cui si attua il radicale stravolgimento di tutti gli ideali tipici della cultura cavalleresca. È un anti-eroe, ingenuo e bizzarro, cinico e buffone, attraverso il quale Pulci enuncia una filosofia alternativa rispetto a quella degli umanisti, animalesca, spregiudicata e fraudolenta.

    Mentre sta facendo ritorno in Levante, Morgante incontra in modo fortuito Margutte, un bizzarro "mezzogigante" che si presenta come peccatore incallito e sciorina un improbabile "credo" culinario, in cui afferma di riporre

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  • la sua fede unicamente nel gioco d'azzardo e nel vino. Il passo, giustamente celebre in quanto tratteggia un personaggio deforme e paradossale, contiene vari elementi sacrileghi e blasfemi che hanno contribuito ad attirare sull'autore accuse di empietà, tali da farlo morire in odore di eresia e di negargli una sepoltura cristiana. In seguito Morgante e Margutte diverranno amici e compiranno assieme varie imprese, di segno beffardo (come gli scherzi ai danni di un povero oste) o di carattere nobile (come quando libereranno la giovane Florinetta).

    https://epicacavalleresca.weebly.com/il-credo-di-margutte.html

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    https://epicacavalleresca.weebly.com/il-credo-di-margutte.html

  • IL PRANZO DI UN GOLOSO DI PRIMA RISMA: Margutte (riscrittura ad opera di Cellamare Italia)

    Cappone, sia lesso, sia arrosto; anche nel burro, nella birra, nel mosto

    Fegatelli

    Buon vino

    Torta e tortino.

    Calcolo delle Calorie

    Cappone 100 gr 300 calorie

    Fegatelli 100 gr 140 calorie

    Birra 50 cl 225 calorie

    Vino ad alta gradazione alcolica (14°) 77 calorie ogni 10 cl 385 calorie

    Torta di cioccolato - una fetta - 410 calorie (per porzione)

    Totale calorie: 300+140+225+385+410= 1460 calorie

    DICHIARAZIONE NUTRIZIONALE

    VALORI MEDI PER PORZIONE

    ENERGIA5775 Kj

    1395 kcal

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  • GRASSI 97 g

    CARBOIDRATI 6,15 g

    PROTEINE 172,8 g

    Sodio 92,8 mg

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  • Pietro Verri, Il caffè

    Il Caffè

    Cos'è questo Caffè? È un foglio di stampa, che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi Autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando fate voi conto di continuare quest'Opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina


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