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Un grande economista e il problema coloniale italiano

Date post: 24-Jan-2017
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Un grande economista e il problema coloniale italiano Source: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, Anno 5, No. 11 (Novembre 1950), pp. 276-277 Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40757715 . Accessed: 14/06/2014 10:48 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente. http://www.jstor.org This content downloaded from 188.72.126.47 on Sat, 14 Jun 2014 10:48:18 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Un grande economista e il problema coloniale italianoSource: Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africae l’Oriente, Anno 5, No. 11 (Novembre 1950), pp. 276-277Published by: Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO)Stable URL: http://www.jstor.org/stable/40757715 .

Accessed: 14/06/2014 10:48

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.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].

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Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO) is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extendaccess to Africa: Rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente.

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276 AFFRICA

III poli! ßiomi i il proli [iilß italiano

II pensiero di Luigi Einaudi sulla questione delle nòstre attività e dei nostri interessi in terra d'Africa.

N. d. fi.

Il 16 gennaio 1946, alla Consulta Nazionale, Fattuale Capo dello Stato italiano, Luigi Einaudi, un uomo che (sono parole sue) « non è mai stato un colonialista e, finche è durata la libertà di scrivere e di parlare, ha sempre scritto contro ogni imperialismo coloniale e contro l'oppressione e lo sfruttamento dei popoli coloniali da parte degli egoismi delle madrepatrie », teneva un discorso sul Problema colo- niale italiano.

Poco meno di cinque anni sono trascorsi da allora, ed è tremendo constatare quale enorme passo indietro abbia compiuto la realtà rispetto alle idee e alle speranze che ogni spirito libero aveva, diritto di nutrire allora.

Ma quelle idee e quelle speranze sono valide oggi come allora. Se non possiamo riportare per intero il discorso tenuto nel gennaio 1946 da Luigi Einaudi, che, partendo dal problema coloniale italiano abbracciava ben più vaste que- stioni di politica internazionale, vogliamo tuttavia ricordarne certi punti, agli italiani e agli stranieri, per il significato che essi traggono dal momento in cui furono esposti e dall'uomo - un economista ed un anticolonialista - da cui furono esposti. Un economista ed un anticolonialista che non temeva di affermare che le imprese coloniali sono una missione.

Luigi Einaudi ricordava tre comandamenti di politica coloniale da lui fìssati nel 1911 nel corso di una polemica con Eduardo Giretti:

1. E9 necessario in primo luogo bandire ogni idea di lucro per lo Stato. Questo primo comandamento ci era dato fin dal 1852 da Cantillo Cavour, il quale proclamava il prin- cipio che le colonie non debbono rendere mai nulla agli Stati.

2. E' necessario limitare il più possibile i lucri gratuiti o privilegiati di particolari gruppi di sudditi in colonia. Le colonie non si conquistano a favore del popolo conquista- tore, ma a vantaggio dei popoli conquistati. Una colonia può vivere a lungo a vantaggio (anche) della Madrepatria soltanto a questa condizione: che essa serva ad educare il popolo indigeno all'indipendenza. * 3. Gli eventuali benefici della colonizzazione non possono essere che lenti e costosi. Tanto più alta, nobile, feconda

sarà Topera civilizzatrice quanto meno ci riprometteremo di trame vantaggi immediati e diretti e quanto più saremo consapevoli di dover sopportare dei costi senza compensi materiali... I popoli grandi sono quelli che, consapevoli, si sacrificano per le generazioni venture.

Questi i comandamenti che un grande economista fissava, in termini che si direbbero morali o politici o qualunque altra cosa fuorché economici. E li ricordiamo a tutti coloro che pensano in termini di economia come distinta dalla politica e dalla morale.

« Dal quel giorno - diceva Luigi Einaudi nel suo, discorso del gennaio 1946 - sono passati 35 anni, e oggi penso che nulla di diverso da quello che era stato scritto allora voglia- no dire le nuove formule dell'amministrazione fiduciaria; che « amministrazione fiduciaria » possa voler dire soltanto che lo Stato amministratore deve amministrare non per sé, ma per i popoli che ancora si trovano in regime coloniale; che lo Stato amministratore deve sperare un vantaggio per se stesso o me- glio per i figli suoi delle generazioni venture solo dall'avere, coi sacrifici, procacciato benefici di gran lunga maggiori di benessere e di libero governo ai popoli amministrati; che il fine ultimo dei popoli titolari di colonie deve esser quello della compiuta indipendenza politica ed economica delle colonie ed il permanere tra la madrepatria e le colonie dei soli vincoli morali derivanti dai comuni interessi e dai comuni sentimenti.

«Abbiamo noi, negli anni che sono decorsi dalla prima nostra avventura coloniale, abbiamo noi soddisfatto a questi principi?

« Ecco una recentissima relazione, in cui appare che ad uno almeno di questi requisiti noi abbiamo pienamente sod- disfatto. Si legge in questa relazione « essere noto che in questo primo cinquantennio le colonie italiane non hanno dato all'Italia alcun reale profitto». Esse viceversa hanno spesso pesato gravemente sul bilancio nazionale. Si può dire che tanto l'Italia quanto i singoli coloni hanno investito in questa impresa le migliori risorse, ripromettendosi di raccogliere in tempi successivi il frutto di tanti sforzi.

« Questo cinquantennio dunque si può dire sia stato un cinquantennio di sacrifìci. Ed è questo un primo grande titolo per conservare quelle colonie. Se avessimo lucrato, se avessimo ottenuto dei vantaggi, forse questo titolo non lo avremmo così grande e così sicuro.

« Permettetemi ora che io riassuma alcune poche cifre, che spero non vi annoieranno troppo, su quest'opera e su questi sacrifìci compiuti dall'Italia nelle nostre colonie. Tutte que- ste cifre si riferiscono al 1940.

« In quell'anno il capitale investito nelle colonie italiane da privati era di 4 miliardi e 558 milioni, cifra che dovrebbe moltiplicarsi per un coefficiente da dieci a venti se doves- simo rapportarla a somma attuale. Inoltre 907 milioni erano stati investiti da Enti pubblici e 240 da società per azioni. Il totale dell'investimento è perciò di 5 miliardi e 705 milioni.

«Nell'agricoltura i coloni italiani della Tripolitania ave- vano messo in valore 148.145 ettari, di cui 94.250 a colture arboree. Nella Cirenaica abbiamo 79.831 ettari messi a col- tura, di cui 9.928 a colture arboree. I poderi costituiti dagli italiani erano 3.675 in Tripolitania, 2.206 nella Cirenaica; "con 23.919 coloni italiani nella prima e 15.014 nella seconda.

«Si erano costruiti nella Tripolitania 1.450 chilometri di strade moderne bene attrezzate e 1.616 chilometri di piste e strade a fondo naturale. Nella Cirenaica 1.137 chilometri di strade di grande comunicazione moderne e 1.124 chilo- metri di piste e strade a fondo naturale.

«La popolazione (per la Libia, il tempo trascorso era stato troppo breve per trame deduzioni concrete) dell'Eri- trea era passata da 275.000 abitanti nel 1905 a 596.000 nel 1931. Più che raddoppiata dunque; indice sicuro del pro- gredire della civiltà, della sicurezza pubblica e del benessere; che altrimenti la popolazione non avrebbe potuto aumentare.

«Quel che sopratutto conta, e moralmente costituisce nostro titolo di onore, è l'opera per la scuola: nell'Eritrea vi erano nel 1938-39 123 classi per eritrei con 4.177 alunni; nella Somalia 10 scuole con 896 alunni indigeni; nella Libia, tra il 1920-21 ed il 1939-40, le scuole coraniche erano passate da 70 a 629 ed i loro alunni da 2.369 a 13.508. Le scuole elementari erano passate da 15 a 95; i maestri italiani da 18 a 120, i maestri indigeni da 42 a 131, e gli alunni da 1.135 a 8.391. Nelle scuole femminili uguale progresso: le scuole aumentate da 3 a 8, le classi da 13 a 28; le maestre italiane da 6 a 22; quelle indigene da 4 a 12; e le alunne da 275 a 742; e così pure nelle scuole di arti e mestieri, progredite da 2 a 4, con maestri italiani passati da 4 a 6, con quelli indigeni da 6 a 9, con alunni cresciuti da 87 a 308.

«Ma più importante ancora per i risultati ottenuti è il quadro dell'assistenza sanitaria. Nell'Eritrea noi avevamo, nel 1940, 1 lebbrosario, 5 ospedali, 51 ambulatori, 29 sifili- comi, 3 laboratori di chimica farmaceutica.

«Nel 1938 erano stati curati negli ospedali eritrei 5.467 indigeni, ed ambulatoriamente 160.930 pure indigeni. Nella Somalia gli indigeni curati negli ospedali e nelle infcrmerie erano 1.208, negli ambulatori 43.646. Nella Tripolitania, dove al momento della occupazione vi erano 2 cosidetti ospedali, lasciammo un ospedale moderno a Tripoli dotato di 1.000 letti, uno a Misurata con 150 letti, uno a Zuara con 40 letti. In Tripoli città vi erano 15 ambulatori. Nel resto della Tripolitania si noveravano 60 infcrmerie.

«Nella Cirenaica lasciammo 5 ospedali con 660 letti; 7 infcrmerie con 174 letti e 19 ambulatori. Nella prefet- tura di Tripoli 26 ed in quella di Misurata 12 erezioni e restauri di moschee e templi attestavano il nostro contri- buto alla assistenza religiosa degli indigeni. «Un congresso internazionale, il quale si era radunato nel maggio 1938 a Tripoli, il Congresso di agricoltura tro- picale e subtropicale, nella seduta terminale, per bocca del Presidente, aveva concluso con queste parole: «Gli espo- nenti dei paesi colonizzatori di più antica tradizione non potevano non riconoscere che l'Italia, con l'opera compiuta in Libia, apriva nuove vie all'opera di colonizzazione, indi- rizzandola, oltre che all'incremento della produzione e alla

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rinascita delle terre, anche e sopratutto all'evoluzione delle popolazioni locali, ed alla diffusione della civiltà ».

Quali vie dunque - si chiedeva allora Luigi Einaudi - si aprono dinnanzi a noi per il governo delle colonie italiane?

Tre vie: la sovranità assoluta dello Stato italiano, l'am- ministrazione fiduciaria di un certo numero di stati, l'am- ministrazione fiduciaria affidata all'Italia.

Da scartarsi la prima, perche è un anacronismo econo- mico, perche «parlare di sovranità assoluta di stati singoli è essere fuori del mondo attuale », perche « la realtà con- siste esclusivamente nell'interdipendenza degli stati sovrani ».

Da scartarsi la seconda, in quanto posta anch'essa fuori della realtà ; volendo fare un paragone, « una amministrazione fiduciaria di parecchi stati sovrani in una colonia corrispon- derebbe ad un governo di coalizione in cui ognuno dei partiti coalizzati fosse occupato esclusivamente a mettere delle mine sotto ognuno degli altri partiti ».

Unica alternativa rimane l'amministrazione fiduciaria affi- data all'Italia. « Ragione vorrebbe che questo principio dell'amministrazione fiduciaria fosse esteso non solo all'I- talia, ma anche agli altri paesi. Ma poiché noi non siamo arbitri dei trattati di pace, posso soltanto augurarmi - diceva Luigi Einaudi - che l'Italia, diventata amministra- trice fiduciaria delle sue colonie, dia tale esempio agli altri popoli, alle altre nazioni, sì che anche essi vedano la necessità e la convenienza in avvenire di seguire il nostro esempio. Il problema concreto che si presenta è questo: da chi deve essere dato il mandato...? ».

Da chi deve essere dato il mandato? Non da un consesso di stati sovrani, si chiami esso Società delle Nazioni o Organizzazione delle Nazioni Unite. « L'istituto del man- dato, creato dalla Società delle Nazioni, per cui certe colo- nie erano amministrate da taluni stati per mandato di quel consesso di stati, si risolve praticamente in una farsa ».

Il mandato può esser dato soltanto da « qualche cosa che sia al disopra di un consesso di stati, da un'assemblea la quale provenga direttamente dai popoli i quali compon- gono questi medesimi stati ».

« Soltanto quando saremo parte integrante di una orga- nizzazione supernazionale, allora soltanto l'amministrazione fiduciaria avrà un senso, perche, se dovranno essere appli- cate a noi sanzioni, ciò accadrà attraverso i nostri rappre- sentanti, attraverso un organismo supernazionale, attraverso un governo di cui noi saremo parte integrante. Quella amministrazione fiduciaria dalla quale avremmo avuto il mandato sarà allora anche cosa nostra, perche gli italiani avranno eletto nel parlamento federale supernazionale i loro rappresentanti.

« Utopia ? Forse. Ma io credo che nulla sia così utopi- stico, così irreale come la politica del gioco dei contrasti fra i potenti della terra, come la politica dell'egoismo nazio- nale. Ieri l'amico Nitti disse che noi non possiamo essere contro nessuno dei grandi blocchi, ma dobbiamo essere con tutti i blocchi. Aggiungo che noi dovremmo cercare di essere parte di un solo grande blocco, nel quale si mani- festi la volontà non dei singoli governi, ma di tutti gli uomini che faranno parte del grande blocco. La politica realistica non è una politica la quale in realtà giovi ai popoli. Vera e sola politica realistica è quella che guarda fermamente ad un ideale; è quella che nel campo colo- niale, come ho detto, mira all'elevazione dei popoli indi- geni, in guisa che essi meritino di diventare indipendenti e conservino con la madrepatria quei vincoli di affetto e quei vincoli di interesse che noi avremo potuto e saputo creare nel tempo in cui ne eravamo i tutori. Soltanto questa è la politica realistica: soltanto questa in realtà corrisponde agli interessi supremi del nostro paese.

« Noi guardiamo... fidenti verso l'avvenire perche l'Italia, alle origini della sua formazione storica, non ha avuto lo spirito di conquista, ma ha avuto invece gli ideali di tutti i pensatori del nostro risorgimento di tutte le città d'Italia, da Torino a Napoli, da Cesare Balbo a Giuseppe Mazzini.

«E' forse, questa di cui ho parlato, l'utopia di un eco- nomista il quale desideri di veder ristabilita nel mondo quella libertà di commercio che oggi è diventata una vana aspirazione, un mito a cui invano aspirano imprenditori che vedono ferme le loro macchine ed operai che non possono dare alle macchine il loro lavoro?

Forse è un'utopia; ma utopia simile a quella che muo- veva Gamillo di Cavour quando, iniziando la sua coraggiosa politica economica di libertà, alto proclamava che la scienza economica non era la scienza dell'interesse, non era la scienza dell'egoismo, ma era la scienza dell'amor di patria ».

L'epopea tei Mania La celebrazione del primo cinquantennio del «Co- mité Spécial du Katanga » esalta, nella Fiera di Elisabethville, le fortunose e fortunate vicende di un ricchissimo territorio, alla cui valorizzazione gli

italiani cooperarono largamente.

di TINA D'ALBERTO

David Livingstone morente si rammaricava di non aver visto il Katanga.

Ne raccontavano meraviglie i mercanti arabi, che spin- gevano i loro traffici nel cuore dell'Affrica. Dicevano che l'oro, l'oro di M'Siri, vi sgorgava copioso come le acque del grande fiume.

Per « oro » intendevano il rame, di cui la regione è straordinariamente ricca ; per « grande fiume » intendevano il Congo, che nel suo corso superiore (Lualaba) la bagna e la feconda.

Ma ne Katanga ne M'Siri si chiamava la regione, bensì Garenganze. Katanga si chiamò il suo penultimo sovrano indigeno, M'Siri l'ultimo. La fama e il nome del re Katanga obliterarono la fama e il nome della regione, si sostituirono ad esso.

Il re Katanga, padrone del rame del Garenganze, aveva un invidioso rivale nel confinante re Tanganyika. Cùpido delle ricchezze di Katanga, l'astuto Tanganyika gli mandò, emissario d'amicizia, il proprio figlio M'Siri.

M'Siri era ambizioso, intelligente, ardito. Conquistò la simpatia di Katanga e ne sposò la figlia. Non trascorse molto tempo che Katanga morì (e non di morte naturale, si disse): M'Siri si affermò suo erede e non permise che gli si contestasse il diritto alla successione. Con gli avversari e con i capi vicini fu deciso e senza scrupoli. Le pareti del suo palazzo si riempirono di foschi trofei di vittoria, le stanze del suo harem di donne, i suoi recinti di schiavi. Un vasto impero prese corpo e s'impose con la sua potenza nell'Affrica Centrale: M'Siri ne era il capo, Bunkeia la capitale.

M'Siri significa « il sole ». Arnot, primo messaggero della Bibbia e dell'Inghilterra alla sua corte, ce lo descrive nel 1884 come « vecchio d'aspetto, con volto liscio ed ama- bile » e, quasi meravigliosandosene, constata che « davvero, aveva tutta l'aria di un gentiluomo di razza ».

*

II Katanga fu dunque l'ultimo sogno di Livingstone. Stanley, che lo raccolse, cercò nel 1878 di trasmetterlo ai suoi compatrioti; ma Governo e finanza, società geografiche e stampa furono sordi al suo richiamo. Quando, nel 1884, Arnot giunse alla corte di M'Siri, il sogno stava già per essere realizzato da altri.

Mentre le carovane di M'Siri fluivano verso le coste dell' Angola per portare su quei mercati avorio, rame e schiavi, e dalle coste del Tanganyika e del Mozambico i commercianti arabi si susseguivano sulle piste del Katanga, esploratori ed avventurieri tedeschi, portoghesi e inglesi si erano mossi alla favolosa conquista.

Dall'est i tedeschi Bohn e Reickhard, morto di stenti il primo in vista di Bunkeia, ritiratosi il secondo sotto lo sconforto dell'isolamento e la minaccia delle orde di M'Siri.

Dall'ovest i portoghesi Carlos de Brito-Capello e Ro- berto Ivens, sospinti dal sogno di un grande impero por- toghese d'Affrica, che unisse l'Angola al Mozambico attra- verso il Katanga. Ma il Portogallo non aveva più pionieri degni del grande Enrico, e la spedizione fallì per inca- pacità politica, o per decreto del destino.

Quando già Arnot, con la sua Bibbia, aveva raggiunta

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