Un lavoro da manualeInsegnare la storia e la geografìa alla media delPobbligo
Mario Pinotti Fulvia Giovannoni
Storia
Qual è l’attuale stato dell’insegnamento della storia nelle scuole medie inferiori? L’analisi di qualche manuale, tra i più diffusi, può fornire un contributo per affrontare questa domanda.
I libri di testo risentono abbastanza fedelmente degli orientamenti, dei quesiti, delle aspettative, in una parola della concezione che gli insegnanti hanno della materia ‘storia’ e dei problemi connessi alla sua mediazione didattica. D’altra parte la grande diffusione dei manuali e il loro ruolo nella odierna didattica finiscono col condizionare le scelte tematiche e metodologiche degli insegnanti stessi.
In questa sede si prendono in considerazione sei libri di testo, che sono stati analizzati secondo tre prospettive: le scelte tematiche, l’organizzazione del discorso storico, l’addestramento alle operazioni storiografiche. I manuali considerati sono: L. Al- terocca-S. Mallarini-V. Morone, Gli uomini nel tempo, Torino, Sei, 1990; Carlo Cartiglia, Uomini, fatti, storia, Torino, Loe- scher, 1988 (terza ed.); Antonio Londrillo, Viaggio nella storia, Milano, Mursia, 1990; Riccardo Neri, Progetto storia, Firenze, La Nuova Italia, 1990; Aa.Vv., La linea del tempo, Bologna, Zanichelli, 1990; Aa.Vv., Le civiltà e la storia, Milano, Bruno Mondadori, 1991.
Le scelte tematiche
Sicuramente il testo, che propone più riferimenti politico-eventografici e quindi si configura in senso più tradizionalista, è Gli uomini nel tempo della Sei. Dei sei capitoli dedicati alla storia romana, ben cinque sono di res gestae, così come dei nove capitoli dedicati all’età di mezzo, ben sette si concentrano sugli eventi ritenuti canonici dalla storiografia più vetusta. Per esempio nulla si dice della crisi del Trecento, mentre si parla ancora con un certo rilievo della cattività avignonese. La prospettiva non muta risalendo a tempi meno remoti. Delle 184 pagine spese per la sezione Restaurazione e Risorgimento, ben 127 pagine possono essere considerate ‘politiche’ e anche le 150 pagine riferite al tempo intercorso tra le due guerre mondiali, insistono in questo approccio. Un altro aspetto, complementare al criterio generale con cui è stato costruito questo manuale, è la predominanza euro- centrica e con essa italocentrica. Le rare volte in cui si esaminano gli altri universi-mondo non ci si libera da questo condizionamento. Si pensi a un titolo come Africa ed America continenti sconosciuti (vol. II, p. 195). La stagione delle scoperte geografiche è affrontata secondo la vecchia tesi storiografica, secondo la quale lo spostamento del
Italia contemporanea”, settembre 1992, n. 188
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‘centro’ dell’Europa dal Mediterraneo alle coste atlantiche si sia determinata all’inizio del Cinquecento. Sono stati ignorati contributi di una ricerca storiografica, che da Braudel arrivano a Wallerstein. Insomma, fin da una prima lettura, questo testo si distingue dagli altri cinque qui esaminati come testo coerentemente tradizionale. Altre successive osservazioni consolideranno questa mia interpretazione, illustrando le conseguenze didattiche di tale scelta storiografica.
Gli altri cinque manuali fanno parte a sé, nel senso che si segnalano per un’attenzione a temi relativamente nuovi per la didattica della storia e che solo da un quindicennio sono diventati oggetto di esplorazione. Queste cinque opere, tuttavia, non rappresentano un corpo omogeneo. Alcune si segnalano più di altre nel tentativo di ridimensionare l’ottica eurocentrica. È il caso di Uomini, fatti, storia di Franco Cartiglia e Progetto storia di Riccardo Neri, quando dedicano ai quadri di civiltà nell’età del bronzo e del ferro (cfr. vol. I, sez. 2) una descrizione che, oltrepassando la regione egiziana e della Mezzaluna fertile, si spinge dall’Africa all’Asia orientale, dall’America all’Europa tutta. Nel secondo volume, ancora, si confrontino i capitoli 8, 10, 11 della proposta della Nuova Italia (con particolare riferimento alla parte documentaria) e i capitoli 16, 17 e 30 della proposta della Loescher, anche se — in quest’ultimo caso — proprio il capitolo 30 dedicato all’India e alla Cina, è posto come appendice finale nel libro ed è liquidato con due sole pagine di “schede di lavoro” . In Viaggio nella storia della Mursia va segnalata l’unità didattica riferita a “L’America prima degli Europei” (cfr. vol. II, unità didattica 7, pp. 145 sgg.) ma questo snodo rimane sacrificato in un piano espositivo generale, in cui l’interesse per gli altri mondi resta prevalentemente condizionato dal punto di vista degli europei (cfr. vol. II, parte III, L ’Europa e gli altri continenti nell’età moderna, pp. 175 e sgg.). Tuttavia più ci si avvicina alla contempora
neità più la tematizzazione delle culture ‘altre’ perde la propria specificità. Ovviamente non si tratta di cercare la ragione di questo smarrimento nei possibili limiti soggettivi degli autori, imputandolo o a scarsa sensibilità verso questi problemi o a incompetenza. Due altri motivi, ben più consistenti possono spiegare questo ripiegamento: uno di carattere storico e uno di carattere storiografico. L’affermazione dell’“universo-mondo” Europa nell’Ottocento ha inghiottito progressivamente le peculiarità degli altri universimondo, lasciandole sempre più sullo sfondo o ai margini. Il motivo storiografico è connesso, invece, come prospettiva d’analisi, all’assunzione della periodizzazione della politica, che con i suoi tempi sempre più accelerati non consente di sistematizzare in modo soddisfacente i ritmi temporali di altre strutture sociali diverse da quelle europee. Sono nodi ancora irrisolti su cui la didattica della storia dovrà interrogarsi a lungo e che nel frattempo si pagano in termini di limitata comprensione dei principali quesiti del nostro tempo. In ogni caso meritano una segnalazione il capitolo Paesi ricchi e Terzo Mondo (vol. Ili, pp. 362 sgg.) di Riccardo Neri e i capitoli 28, 30 e 32 di Carlo Cartiglia.
Allargando lo sguardo all’insieme delle te- matizzazioni si può cogliere meglio la tensione tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’, una tensione che rischia di far saltare in mille frammenti il piano espositivo unitario delle varie proposte didattiche. Irrompono nella narrazione, accanto a oggetti più tradizionali, l’economia (in modo particolare nel testo di Antonio Londrillo), la vita quotidiana, l’immaginario collettivo, i rapporti sociali, tutti filoni che persistentemente attraversano la storia dall’antichità a oggi. Colpisce in Progetto storia la particolare sensibilità per le categorie marginali: i pauperes dell’alto medioevo, le minoranze religiose (ebrei, musulmani, eretici, streghe), le donne (lavoratrici, bigotte, casalinghe), i malati (appestati, lebbrosi). C’è però un testo che si distin
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gue forse più degli altri nello sforzo di garantire unitarietà alla propria esposizione, e questo è il testo della Bruno Mondadori. I riferimenti, sparsi tra le diverse unità, alla tecnologia, ai rapporti sociali, all’econo- mia, alla demografia, alla politica, alla mentalità vengono messi a fuoco dalla griglia (posta subito dopo l’indice generale), in cui si richiamano tutti i materiali iconografici e i dossier secondo una classificazione per variabili tematiche, e dagli esercizi di ricapitolazione — in coda a ogni sezione di lavoro —, che suggeriscono la compilazione di quadri sinottici, da intendere come embrionali modelli di documentazione archivistica o di mappe concettuali. In altri termini l’apertura a nuovi campi di indagine, fino a qualche tempo fa consuetudinariamente ignorati dalla storia insegnata, obbliga gli estensori di un manuale a interrogarsi sui criteri ordinatori con cui esporre i propri profili storici e a riflettere sulle categorie fondanti del discorso storiografico. Senza questa riflessione si rifluisce nel seno della storiografia tradizionale. Si prenda ad esempio l’età contemporanea. Anche in questo caso il ‘nuovo’ appare, ma con maggiore difficoltà; esso stenta a caratterizzare il quadro storico e rimane come soffocato in una materia in cui ha, tuttavia, un peso quantitativamente rilevante. Ma per discutere tale problema non ci si deve più limitare a una ricognizione delle tematiche illustrate, bensì indagarne i caratteri di organizzazione interna.
L’organizzazione della conoscenza storica
La disavventura più grande, in cui possa incorrere un insegnante, è quella di procedere giorno dopo giorno senza aver chiari gli obiettivi didattici del proprio insegnamento. I manuali giocano la propria credibilità nell’essere garanzia contro questo pericolo. Fino a quando si è conservato un discorso
storico in qualche modo codificato nei suoi momenti informativi e nelle sue modalità espositive, i manuali non hanno incontrato grosse difficoltà nell’assolvere tale funzione. Tra di essi le differenze andavano ricercate solo nella maggiore o minore puntualità nel cogliere i momenti cronologici essenziali e nel rendere accattivante la narrazione. Ma la recente inondazione di nuovi orizzonti di ricerca, di nuove tipologie di fonte, di nuove contiguità con altre discipline sociali ha reso la vita più difficile ai libri di testo. Come comporre questo diluvio di novità senza rimanerne sommersi e senza ridurle a semplificazioni banalizzanti? E come comportarsi nei riguardi del ‘vecchio’? Come guidare alla lettura di fonti tanto diverse per matrici linguistiche? Come resistere alla tentazione di redigere pubblicazioni troppo voluminose? E soprattutto come stimolare nei destinatari una motivazione sempre più fragile nei confronti della storia?
Per affrontare queste domande si esaminerà il problema della periodizzazione e del rapporto narrazione-documentazione.
Per la chiarezza delle scansioni periodiz- zanti mi soffermo su Le civiltà e la storia. Fin dal secondo volume la centralità dell’Europa non viene ripercorsa alla luce del tempo breve della politica eventografica, ma alla luce delle lunghe fluttuazioni cicliche delle congiunture proprie della civiltà feudale-mercantile. Questa millenaria struttura europea, configurantesi tra il VII e il XVIII secolo, è ripartita in sei momenti (cfr. unità didattiche 8-13), che coincidono con le grandi fasi congiunturali dell’alto medioevo, della ripresa urbana dell’XI secolo, della crisi del Trecento, dell’ascesa del Cinquecento, della stagnazione del XVII e del rilancio del XVIII secolo. L’ultima unità è dedicata alla cesura tra la storia della società feudale-mercantile e la storia della società contemporanea. Questa impostazione viene riproposta anche nel terzo volume, se pur con minor decisione. Anche qui sono indivi-
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duate le tre grandi fasi espansive della società contemporanea, quella coincidente con la prima rivoluzione industriale (prima metà dell’Ottocento), quella della seconda fase dell’industrializzazione (fine Ottocento- inizio Novecento) e quella del secondo dopoguerra. A parte una ricognizione specificamente dedicata all’Italia postunitaria, le restanti unità sono dedicate alle crisi e alle cesure (guerre mondiali e rivoluzioni), che segnano il passaggio attraverso queste tre fasi dell’età contemporanea. Tale organizzazione fornisce i parametri per poter indagare entro ogni periodo vari aspetti della realtà sociale, rielaborabili con gli strumenti ordinatori che ricordavo poco sopra (griglie ed esercizi). Questo approccio consente di eludere una grande difficoltà, che è quella di organizzare in successione cronologica fenomeni irriducibili a questa operazione, poiché segnati da un diverso statuto temporale. Il vantaggio didattico è evidente. Una tale distribuzione della materia consente all’insegnante di costruirsi un percorso, che può essere contemporaneamente elastico ed essenziale; essenziale perché può riferirsi ad alcuni momenti paradigmatici della storia contemporanea ed elastico perché all’occor- renza può affrontarli con maggiore o minore estensione analitica.
Anche in Progetto storia si profila la medesima impostazione, sebbene la sua proposta si presenti in modo più schematico.
La contemporaneità viene ridotta a tre momenti essenziali: l’Ottocento, i decenni del secondo dopoguerra, gli anni scanditi dalle due guerre mondiali. Pure in questo caso la prima e l’ultima partizione sono analizzate con un approccio che ricorda quello strutturale secondo le variabili canoniche (economia, rapporti sociali, politica, mentalità-ideologia); alla sezione di mezzo è attribuito il compito di spiegare le cesure e le continuità tra i periodi che la racchiudono.
Al contrario La linea del tempo e soprattutto Uomini, fatti e storia offrono una divi
sione troppo frammentata, in cui è difficile recuperare una chiara periodizzazione in cui plasmare flessibilmente l’oggetto dell’insegnamento. Chi è nella scuola conosce bene quanto sia necessario organizzare attorno a pochi punti fermi il proprio itinerario didattico, dal momento che le settimane a disposizione sono solo 34 in ogni anno scolastico, sempre che qualche emergenza particolare non ne diminuisca ancora di più il numero. Ma anche nel caso di un ottimale svolgimento dell’anno scolastico, Uomini, fatti e storia, offrendo 37 capitoli (cfr. vol. Ili) uno in successione all’altro senza interni raggruppamenti, mette in difficoltà quell’insegnante che debba decidere da solo la ‘taratura’ del programma. C’è il rischio di un ripiegamento su una scelta di consuetudine (arrestarsi a ridosso della prima guerra mondiale) o su una scelta che, per arrivare oltre la seconda guerra mondiale, privilegi la storia politica (perdita della complessità fornita dallo stesso libro) oppure che, nel tentativo di costruire un percorso originale, si smarrisca.
Narrazione e documentazione
Alla storia ‘racconto’, intendendo con racconto la narrazione e l’argomentazione al tempo stesso, si affida decisamente Gli uomini nel tempo. Ma non solo; è evidente anche la volontà di servirsi di un linguaggio ‘alto’. Prendendo come campione analitico il tema del risorgimento, ora e in tutto il resto del paragrafo, si notano termini quali “illuminismo”, “romanticismo”, “liberalismo moderato”, “liberalismo democratico” , “federalismo”, termini che negli altri testi esaminati o non compaiono o compaiono infrequentemente e corredati da una scheda di approfondimento semantico. Questo lessico ‘alto’, usato correntemente, offre il vantaggio di risparmiare lunghe e generiche perifrasi e di impegnare il racconto a un livello analitico assai denso. Tale opzione,
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tuttavia, non garantisce la trasmissione del discorso storico da un doppio pericolo in cui il testo tende a cedere: l’eccessivo nozionismo e la presenza di affermazioni inesplicabili. Nel primo pericolo gli autori della Sei incorrono quando spiegano perché l’armistizio di Salasco si è chiamato in tal modo, quando affermano che Garibaldi fermò i francesi davanti al Gianicolo nel 1849 o quando segnalano che il primo parlamento italiano era costituito da 443 deputati senza spiegare, se non un bel po’ di pagine dopo, quale fosse il sistema elettorale. Nel secondo pericolo incorrono o quando usano soggetti discutibili (il Veneto — p. 112 — a proposito delle vicende militari del 1848), o quando non spiegano l’avversione dei contadini ai patrioti italiani nel 1848-1849 in Toscana (p. 118) o i motivi della repressione attuata dai garibaldini in Sicilia nel 1860 (p. 148). Questa ‘deificazione’ del racconto, poi, ha il suo contraltare nello scarsissimo rilievo affidato alle capacità comunicative della iconografia e della cartografia o di altre fonti dirette.
Del tutto antitetica è stata la scelta compiuta da Franco Cartiglia. La narrazione è relegata a un ruolo men che marginale e ha il compito di fornire una cronologia scheletrica e così priva di commento da risultare senza valore informativo, se non ci fosse una parte del testo, le “schede di lavoro”, in cui l’alunno è guidato a riflettere e a utilizzare quelle informazioni attraverso operazioni volte a dotarle di senso. Le fonti documentarie scritte (coeve e non), la cartografia e la parte illustrativa rappresentano lo sfondo entro cui quella cronologia può recuperare il suo significato conoscitivo. Uomini, fatti e storia si presenta come un libro di testo che non può essere usato in modo passivo dall’insegnante che lo adotta, poiché comunica una conoscenza storica non immediatamente data, ma da recuperare attraverso una complessa operatività storiografica.
Gli altri quattro volumi compiono una scelta intermedia, distribuendosi attorno a
questi due poli. Riccardo Neri è più vicino a Cartiglia per la concisione del testo narrativo mentre Antonio Londrillo si distingue per un racconto dalla forte ambizione informativa. Il viaggio nella storia della Mursia a un primo livello di narrazione molto stringata, ma che vuole soddisfare un livello informativo essenziale, accompagna delle integrazioni direttamente inserite nel testo (distinguibili per il diverso carattere a stampa), che sono veri approfondimenti di parole-chiave. Un ulteriore materiale informativo sono le ricognizioni monotematiche, su sfondo giallo, pensate come digressioni o parentesi utilizzabili all’oc- correnza in nome di ciò che appare in ultima analisi centrale nel manuale: la narrazione politica. Del resto anche queste digressioni in campo giallo non rappresentano il momento della documentazione come alternativa al racconto, ma una integrazione del racconto stesso. Esse sono piene di citazioni, usate per consolidare l’autorità del discorso e per garantirgli maggiore oggettività.
Dall’altro lato l’indirizzo proprio di Progetto storia, il tentativo di ridurre il più possibile la narrazione della “politica”, conduce l’autore a notevoli semplificazioni, che rendono povera e talvolta imprecisa la descrizione delle vicende. Sempre rispetto al campo d’analisi del risorgimento, Neri, lungi dal proporre un nuovo approccio a questo momento cruciale della storia d’Italia, sembra ridurlo alla questione dell’indipendenza degli stati italiani dall’Austria. Perdono di spessore le differenti posizioni politiche all’interno del movimento patriottico italiano, sì da rendere incomprensibile l’articolazione del liberalismo moderato prequarantottesco (cfr. vol. Ill, cap. 1, p. 28). Più avanti, parlando del biennio 1946-1947 in Italia, ci si riferisce ad “alcune riforme” senza specificare quali o si usano espressioni come “la borghesia liberale e nazionalista”, equiparando il significato di “nazionale” e “nazionalista”
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(cfr. vol. Ill, cap. 1, p. 31). Uno dei problemi più difficili da chiarire sembra essere il giudizio sulla condotta di casa Savoia, di cui si vuole accreditare al tempo stesso la vocazione patriottica e le mire espansionistiche sull’Italia settentrionale. Altre imprecisioni non mancano. A p. 142, ad esempio, si afferma che i due ex ducati danesi dello Schleswig e dello Holstein si sono staccati dalla Danimarca, mentre si sa che furono conquistati da una azione militare congiunta della Prussia e dell’Austria. Imprecisioni come queste, per certi aspetti intrinseche alla narrazione eventografica, vengono messe in ombra dal restante apparato del testo nelle parti dedicate a “lavorare sul testo” e a “le fonti della storia” . Vi sono raccolte, oltre alle fonti documentarie tradizionali, fonti dirette, distinte per tipologia: iconografiche, quantitative, orali, musicali, cartografiche. Mediante questa via viene integrata la carenza informativa ed esplorata la struttura sociale nelle più varie direzioni tematiche. La linea del tempo, scegliendo anch’es- so di contenere il nozionismo, si scontra con il problema della chiarezza della informazione. Un evidente limite di molti manuali è il continuo inserimento con funzione esplicativa di digressioni sulla economia, la cultura, le dinamiche sociali, che finiscono per frammentare il racconto. Rimane così irrisolto il problema di individuare una soddisfacente periodizzazione capace di conciliare le diverse stratificazioni della storia. A questa difficoltà il manuale della Zanichelli vuole rispondere in diversi modi. Le “strisce del tempo” alleggeriscono il racconto e fungono da scheda cronologica, consultabile all’occasione e a cui consegnare certi passi della narrazione. Un secondo strumento sono “le parole per capire”, un archivio concettuale in cui si sedimenta l’essenzialità della conoscenza storica. Le immagini infine intervengono diffusamente. Esse non sono solo un altro modo per comunicare gli stessi contenuti, ma sono usate sovente per
dire ciò che le parole non sono in grado di esprimere con pari efficacia.
Questa caratteristica, così evidente anche in Progetto storia, non lo è altrettanto in Le civiltà e la storia, che colpisce per il rilievo assegnato alle immagini. Le fonti iconografiche fiancheggiano il testo narrativo allo scopo dichiarato di trattare vari filoni tematici (la società e la politica, la vita quotidiana, ecc.), stimolando “un uso diretto delle fonti” e avvicinando “alla comprensione del contesto storico attraverso il linguaggio visivo” (cfr. le pagine introduttive del primo volume). Questo scopo a mio parere non viene pienamente raggiunto. Le didascalie, che accompagnano le immagini, non forniscono sufficienti informazioni sulle fonti (autore, data, luogo di conservazione), né forniscono gli strumenti per la loro analisi (assenza di scheda operativa).
L’addestramento alle operazioni storiografiche
La risposta alla questione va cercata nel modo in cui vengono proposte le fonti e gli esercizi necessari a leggerle correttamente.
Nel manuale della Sei l’opzione per un ‘racconto forte’ ha posto in secondo piano l’attenzione per la documentazione e di conseguenza per l’operare dell’alunno sulle fonti. Gli esercizi, posti in coda ai capitoli, non sono strutturati secondo una tassonomia di operazioni cognitive generali crescen- temente gradutate, tanto meno per operazioni storiche. Cito come esempio la richiesta un po’ generica di cercare due fonti celebrative e non scritte di Garibaldi (vol. Ili, cap. 10, p. 187), che appare fine a se stessa, e l’esercizio di comprensione dei messaggi impliciti nel dialogo fra Tancredi e il principe di Salina ne II Gattopardo (cfr. vol. Ili, cap. 8, p. 152). Non discuto il valore in sé di quest’ultima richiesta, ma il fatto che essa non sia inserita in una strategia operazio-
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naie convintamente assunta. Assai più esteso è il campo di osservazione che offrono gli altri libri di testo. Sarebbe troppo lungo passare in rassegna analiticamente tutti i manuali e anche ripetitivo. Mi limito a scegliere le proposte che più si distinguono. Rispetto alle immagini il modo più rigoroso di presentazione è quello fornito dal manuale della Zanichelli. Ognuna di esse è accompagnata da una didascalia, che oltre a indicare l’oggetto, specifica anche l’autore (nel caso si tratti di riproduzioni di quadri noti) e il luogo in cui l’originale è depositato. I testi della Bruno Mondadori e della Nuova Italia segnalano raramente gli autori delle raffigurazioni e il luogo di conservazione. Questa differenza deriva dalla diversa funzione che viene assegnata all’iconografia; proprio per questo stupisce la ridotta attenzione di Riccardo Neri alla intenzionalità della fonte iconografica, trascurando di insistere su ciò che può informare sulle circostanze della sua produzione. E ciò nonostante egli la usi in modo rilevante. L’autore attira ad esempio opportunamente, con domande guidate, l’osservazione su una foto, che ufficialmente raffigura la cattura di briganti meridionali da parte delle guardie regie nei primissimi anni dell’Unità, ma che in realtà è stata scattata dopo che i prigionieri erano già stati uccisi (cfr. vol. Ili, p. 203).
Rispetto alle operazioni suggerite si avverte l’attenzione verso tassonomie cognitive di valenza generale, ma non mancano suggerimenti inerenti ad abilità tipicamente disciplinari. Accanto alle inconsuete e irrinunciabili operazioni di comprensione testuale, di analisi, di correlazione tra informazioni o tra concetti, meritano una particolare segnalazione gli esercizi di traduzione da un linguaggio a un altro senza perdite di significato: da un quadro a un testo scritto, da una carta tematica a una tabella. Più schematiche appaiono le richieste di correlazione tra cause ed effetti dei fenomeni sociali (cfr. A. Londrillo, Viaggio nel
la storia, vol. Ill, u.d. 1, p. 39 e Neri III, cap. 7, p. 230) che danno un sapore troppo deterministico alla interpretazione delle relazioni antropiche. Non convincono molto neppure certi esercizi di controllo delle informazioni secondo il sistema del test chiuso (vero o falso; scelta multipla). Troppo insistente su questo punto è il manuale della Mursia, a conferma dell’esistenza in esso di vincoli ancora molto stretti con la tradizionale concezione del manuale come strumento esaustivo dell’informazione storica. Infine un’ultima segnalazione da Le civiltà e la storia. I dossier si presentano come un microrepertorio di fonti e di schede informative, che inducono alla costruzione di brevi unità didattiche. Oltre a riproporre operazioni già sperimentate in altre parti del libro, essi spingono verso il confronto tra storia generale e storia locale e la valutazione dei diversi volti che possono assumere i fenomeni sociali in rapporto ai diversi punti di osservazione.
Considerazioni conclusive
L’aspetto più appariscente di questi manuali è la permanenza del ‘vecchio’ nelle vesti della storia eventografica. In maggiore o minore misura permangono tutti i luoghi delle res gestae (si veda la ricostruzione delle vicende risorgimentali). Accanto al ‘vecchio’ però hanno fatto irruzione le tematiche di più recente indagine. Ciò che distingue a mio avviso un manuale dall’altro è il rilievo assegnato al ‘vecchio’ e al ‘nuovo’, rispettivamente, nella consapevolezza che nessuno è riuscito a ricomporre convincentemente l’uno e l’altro. Chi ha tentato di percorrere la via della innovazione tematica si è scontrato con la forma stessa del manuale ed è stato costretto a rompere, anche visivamente, l’unità del messaggio trasmesso; si pensi alle diverse partizioni utilizzate. Manuali come quelli della Loescher, della
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Bruno Mondadori, della Zanichelli, della Nuova Italia sembrano più dei labirinti, entro cui aggirarsi per ricostruire percorsi didattici, che letture lineari. Del resto l’editoria scolastica, se vuole reggere la sfida dei tempi e garantire all’insegnante rigore operativo e creatività operazionale, deve battere proprio questa strada; diversamente si avranno testi come quello della Sei, che, pur nella rispettabilità del suo vetusto conservatorismo, si espone al rischio della inadeguatezza informativa. Questi limiti, a mio avviso, non dipendono tanto dalla imperizia degli autori, bensì dalla pretesa di esaurire nella narrazione il sapere storico, ma non si risolvono riducendo la narrazione ai minimi termini come è stato tentato nell’opera di Cartiglia. Sono ancora nume
Geografia
Quando, sul finire degli anni settanta, Massimo Quaini si pronunciava sui manuali di geografia, denunciava in essi due gravi limiti1: sul piano dei contenuti, il permanere del vecchio paradigma ambientalista di stampo positivistico; sul piano didattico, l’insistere sulla trasmissione nozionistica ed enciclopedica di un sapere fatto solo di nomi di mari, di fiumi, di monti, di luoghi. L’arretratezza dunque era duplice: a livello scientifico, le conoscenze trasmesse si rifacevano ancora all’idea che l’ambiente fisico naturale deter
rosi i problemi da affrontare. L’apertura a nuovi campi di indagine obbliga a fare i conti con la periodizzazione non più componibile nella linearità del tempo breve degli eventi. Il moltiplicarsi delle fonti apre la questione del rapporto tra le scienze antropiche e la storia a partire dai diversi linguaggi delle diverse discipline. Su tutt’altro versante rimane aperto infine il “problema dei problemi” : come motivare l’alunno allo studio della storia.
Se l’editoria scolastica non saprà affrontare questi nodi, modificando veste e strategia, correrà il rischio di diventare un ostacolo per il rinnovamento didattico in quanto strumento inutile per l’insegnamento della storia.
Mario Pinotti
minasse in modo meccanico le condizioni di vita dell’uomo sulla Terra; sul piano pedagogico, si disattendevano i richiami degli stessi programmi scolastici, laddove essi consigliavano di muovere dall’esperienza vissuta degli alunni per costruire le prime ricerche d’ambiente.
A quindici anni di distanza, sappiamo che molte cose sono cambiate. Nuovi paradigmi scientifici hanno dimostrato l’inconsistenza dell’ambientalismo geografico2; recenti programmi ministeriali hanno posto con sempre
1 Massimo Quaini, La geografia nella scuola e nella società italiana, in Aa.Vv., Problemi di didattica della geografia, Torino, Loescher, 1978, pp. 15-45.2 II determinismo o ambientalismo geografico, dopo essere stato il paradigma dominante in geografia per tutta la seconda metà dell’Ottocento, è entrato in crisi agli inizi del nostro secolo, a opera di geografi quali Paul Vidal de la Blache, Max Sorre, Maurice Le Lannou e Jean Brunhes, che vi hanno sostituito il cosiddetto “possibilismo”). (cfr. Paul Claval, L ’evoluzione storica della geografia umana, Milano, Angeli, 1980). Nella geografia contemporanea Attilio Celant e Adalberto Vallega riconoscono quattro paradigmi: il possibilistico, il marxista, il funzionalistico, il sistemico. Cfr. Attilio Celant e Adalberto Vallega (a cura di), Il pensiero geografico in Italia, Milano, Angeli, 1984. Secondo Vincenzo Vagaggini, invece, i paradigmi che si stanno delineando nel contesto della ricerca geografica sono almeno cinque: il marxista, l’esistenzialista, il normativo-analitico, il sistemico, il compor-
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maggior forza l’accento sullo sviluppo delle capacità di costruzione attiva delle conoscenze, anziché sulla trasmissione passiva di un insieme di nozioni preconfezionate3. E dei manuali, cosa ne è stato? Sono usciti finalmente dal loro isolamento o il solco che li separava dalla ricerca scientifica o dalla società si è approfondito? In che modo hanno interpretato il rinnovamento epistemologico che ha caratterizzato la geografia e le riflessioni che psicopedagogisti ed esperti di didattica sono andati svolgendo intorno agli scopi e alle modalità di attuazione dei processi educativi?
I cinque manuali di geografia per la scuola media inferiore assunti come campione per l’indagine, rappresentano, dal punto di vista quantitativo, una realtà circoscritta rispetto a un mercato editoriale che proprio negli ultimi due anni ha moltiplicato le sue proposte, anche solo nel tentativo di rincorrere i mutamenti geopolitici e sociali occorsi al blocco dei paesi socialisti. Si ritiene tuttavia che questi testi, per la loro recente data di edizione o per essere stati di frequente adottati nelle scuole, possano rappresentare un campionario sufficientemente significativo. Essi sono: Gianni Sofri (a cura di), Corso di geografia, Bologna, Zanichelli, 1989, 3 voli. (I ed. 1976); Alida Ardemagni, Francesco Mambretti, Giovanni Silvera, Geo. Fare geografia, Milano, Principato, 1987, 3 voli.; Aa.Vv., Geografia, Milano, Bruno Monda- dori, 1991, 3 voli.; Giulio Mezzetti, Geografia, Firenze, La Nuova Italia, 1979; C. Cas- sinotti, G. Airoldi, M. Brambilla, F. Leoni, Una finestra aperta sul mondo. Corso di educazione geografica per la scuola media, Torino, Paravia, 1990.
Più difficile sarà rispondere alla domanda: perché i manuali sono cambiati o sono rimasti ancorati a vecchi schemi culturali? A quali motivazioni possono essere fatte risalire le scelte didattiche e di contenuto operate dagli autori? Le variabili che concorrono alla produzione di un manuale sono infatti molteplici e non tutte riconducibili allo statuto epistemologico della disciplina da un lato o al campo psicopedagogico dall’altro. La matrice culturale degli autori, le valutazioni di mercato, i giudizi degli insegnanti sulle edizioni precedenti sappiamo che influiscono sul prodotto finale, ma non sappiamo ancora come e in quale grado. Una sociologia del manuale di geografia è ancora tutta da costruire. Essa richiederebbe di ‘uscire’ dal testo, per esplorarne il contesto di produzione e di uso. Per questi motivi, la lettura dei volumi solleva domande cui è possibile rispondere solo in via di ipotesi.
Analizzati dal punto di vista dei contenuti, i cinque testi si possono raggruppare secondo due differenti tipologie, alla prima delle quali appartiene unicamente il manuale di Airoldi-Brambilla, mentre della seconda fanno parte, pur con diverse connotazioni, i rimanenti quattro. Il testo della casa editrice Paravia esordisce, nel primo volume, con una voluminosa trattazione di geografia fisica, relativa alla posizione della Terra nell’universo e alla sua storia geologica; prosegue con lo studio dell’atmosfera e del clima, dei mari, dei venti, dei vulcani e dei terremoti, sempre a scala planetaria4. La scelta di questa scala per studiare i fenomeni fisici, anche quando nel primo volume l’oggetto del corso di studi è l’Italia, ha un importante risvolto: l’ambiente fisico vive di vita propria,
tamentistico. Cfr. Vincenzo Vagaggini, Le nuove geografie. Logica, teoria e metodi della geografia contemporanea, Genova-Ivrea, Herodote edizioni, 1982.3 Cfr. Dm 9 febbraio 1979. Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale; Dpr 12 febbraio 1985, n. 104. Approvazione dei nuovi programmi didattici per la scuola primaria.4 C. Cassinotti-G. Airoldi, Una finestra aperta sul mondo. Corso di educazione geografica per la scuola media, Torino, Paravia, 1990, vol. I, pp. 34-112.
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senza nessun rapporto con le società umane che vi abitano, che abitandovi lo trasformano. A riequilibrare il testo non basta ad esempio la sezione dedicata nel primo volume ai paesaggi italiani, poiché questi vengono dopo le regioni amministrative, che significativamente rappresentano il secondo criterio organizzatore dei contenuti, dopo quello fisico5.
Geografia fisica e geografia politica sono i due poli fondamentali del percorso didattico proposto: da un lato la natura con i suoi processi fisici, dall’altro l’uomo degli Stati e delle regioni amministrative; tra le due geografie non vi è alcun rapporto. Quando poi si individua un legame, questo si rivela di tipo ambientalistico: nel secondo volume, infatti, ci vengono spiegati “gli elementi fisici del successo europeo”, rintracciabili nella centralità del continente rispetto alle altre terre emerse dell’emisfero settentrionale, nell’abbondanza di pianure e nel clima mite6. Queste le caratteristiche fondamentali del testo della Paravia, che lo qualificano come una permanenza nella manualistica contemporanea di quel vecchio modello deterministico, già criticato negli anni Settanta.
Completamente diversa l’impostazione degli altri quattro manuali, i quali, per alcune analogie di fondo, possono essere ricondotti a un medesimo modello di geografia. Ciò è riconoscibile già nelle prime battute delle singole introduzioni, quando gli autori spiegano le finalità conoscitive della geografia o gli scopi del testo. Scrivono gli autori del testo curato da Sofri:
La geografia [...], più che la Natura, studia l’ambiente degli uomini e i rapporti degli uomini con il loro ambiente. [...] Per questo, la geografia non è solo una scienza della Natura, ma anche e
soprattutto una scienza dell’uomo, che ha molti punti di contatto con la natura, con l’economia, con le altre scienze che riguardano gli uomini (vol. I, p. 8).
Mezzetti sottolinea da subito che “lo studio e la conoscenza dell’ambiente hanno sempre origine da una necessità concreta” (vol. I, p. 6), e precisa che “lo stesso territorio può essere usato in modi diversi da gruppi sociali che hanno scopi diversi” (vol. I, p. 10).
Anche il programma di lavoro del manuale della Bruno Mondadori è simile:Sul nostro pianeta i fattori umani e quelli naturali si combinano sempre. Infatti, da quando gli uomini si sono diffusi in ogni parte della Terra e da quando la società si è industrializzata, gli uomini hanno modificato tutti i paesaggi. Alcuni sono stati modificati molto, altri meno. In questo libro si mostra quanto questi paesaggi sono cambiati e perché sono cambiati (vol. I p. 13).
Tale programma di lavoro, centrato sull’analisi e la spiegazione delle trasformazioni degli ambienti naturali in territori abitati dalle società umane, viene puntualmente rispettato nel corso dei capitoli, secondo una scansione che può essere sinteticamente riassunta in quattro punti: illustrazione dei quadri ambientali (morfologia, clima, acque, vegetazione); analisi dei paesaggi umani, cioè delle modificazioni apportate nel tempo agli ambienti naturali a opera degli uomini riuniti in società; spiegazione delle trasformazioni avvenute; situazione attuale, processi e dinamiche ancora in corso. Per l’Italia, ad esempio, i quadri ambientali fatti oggetto di studio sono le Alpi, la Pianura Padana, gli Appennini, le zone costiere.
È bene aggiungere che ciascun manuale interpreta il modello a livelli diversi di approfondimento, o lo fa precedere da parti
5 C. Cassinotti-G. Airoldi, Una finestra aperta sul mondo, vol. I, cit., pp. 130-271.6 C. Cassinotti-G. Airoldi, Una finestra aperta sul mondo, vol. I, cit., pp. 58-67.
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introduttive su problemi generali di geografia fisica e umana7; né va taciuto il fatto che in nessun caso (tranne che in Mezzetti) è stata abbandonata la trattazione delle regioni italiane e degli stati del mondo, che tuttavia sono posti alla fine dei singoli volumi, a indicare la diminuita importanza dell’argomento neH’economia complessiva dell’opera.
Le implicazioni epistemologiche di un approccio di questo tipo sono evidenti. Innanzitutto l’ambiente fisico è visto e studiato non di per sé, ma per quello che ha significato e significa per gli uomini che lo hanno rimodellato perché rispondesse ai bisogni espressi dalle diverse società che vi si sono insediate. Di conseguenza il dato fisico, naturale, non viene percepito come una costrizione cui l’uomo si è dovuto adattare, come una qualunque altra specie vivente sulla Terra; esso è piuttosto interpretato come una gamma di possibilità, cui gli uomini hanno attribuito significati e valori, tratti dalla loro cultura e civiltà in senso lato. Infine l’uomo, gli uomini, non sono ingenuamente considerati come un’entità omogenea e immutabile, ma come un insieme di classi e gruppi sociali, che sul territorio hanno proiettato i loro bisogni, ma anche le loro contraddizioni e lotte per cambiare gli assetti preesistenti.
Il modello enunciato ora nelle sue caratteristiche generali, lo si può ritrovare e ripercorrere, a titolo di esempio, in una unità tematica: la Vaipadana. Questa pianura, modellata durante le ere geologiche dal corso del fiume Po e dai suoi affluenti, viene distinta, per la natura dei terreni, in una parte alta, asciutta, e in una parte bassa, irrigua. L’ambiente originario, fatto di boschi e di li
paludi, è stato profondamente trasformato dall’azione dell’uomo in tre direzioni principali: disboscamento e messa a coltura dei terreni, regolamentazione dei corsi d’acqua mediante la costruzione di argini e di una fitta rete di canali per l’irrigazione, creazione di una trama di centri abitati e di vie di comunicazione, che ai nostri giorni, nell’alta pianura, ha preso la forma e le funzioni della conurbazione. Lo sviluppo, nell’alta pianura, dell’industria e della megalopoli milanese è messo in relazione con fattori storici, quali il successo della gelsibachicoltura nella piccola azienda a conduzione mezzadrile o con opportunità offerte dall’ambiente, quali la presenza di miniere e la possibiltà di usare l’acqua per far muovere le ruote dei mulini. Il tipo di agricoltura, altamente specializzata e meccanizzata, tipico invece della bassa pianura, viene correlato di volta in volta alla grande disponibilità di acque per scopi irrigui, ai massicci investimenti di capitali che a partire dal Settecento furono impiegati per costruire opere di canalizzazione, ai più generali processi innescati dalla rivoluzione industriale nei paesi europei.
Il quadro si completa con l’analisi degli sviluppi recenti e delle trasformazioni ancora in corso: la meccanizzazione sempre più spinta ha eliminato anche gli ultimi residui del paesaggio agrario della piantata; l’uso di fertilizzanti e antiparassitari inquina sempre più l’ambiente, con effetti anche gravi sulla vita dell’uomo; le abitazioni, in campagna, somigliano a quelle di città; nelle aree rurali penetrano attività di tipo industriale, che danno vita al paesaggio della campagna urbanizzata8. Anche quando si fa ricorso ai caratteri fisici dell’ambiente, questi non so
li manuale della Principato ad esempio, in ciascun volume fa precedere ai quadri ambientali una sezione dedicata all’esame di alcuni problemi e strutture si carattere generale, intitolata “Città e campagna” nel primo e secondo volume, “Sviluppo e sottosviluppo” nel terzo.8 Sulla Vaipadana: Aa.Vv., Geografia, vol. I, cit., pp. 58-81; Gianni Sofri (a cura di), Corso di geografia, Bologna, Zanichelli, 1989, vol. I, pp. 100-130; Alida Ardemagni-Francesco Mambretti-Giovanni Silvera, Geo. Fare geografia, Milano, Principato, 1987, vol. 1, pp. 166-181; Giulio Mezzetti, Geografia, Firenze, La Nuova Italia, 1979, vol. I, pp. 100-106 e 121-144.
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no mai concepiti in modo deterministico, bensì sono messi in relazione con il tipo di società che li ha posti in valore. Si nota chiaramente che il modello funziona grazie all’apparato conoscitivo ed esplicativo messo a punto dalle scienze umane: geografia, storia ed economia, compenetrandosi a vicenda, aiutano a ricostruire le strutture di fondo di un ambiente rimodellato da civiltà diverse che vi si sono avvicendate nel tempo9.
Se comuni sono gli ambiti di indagine e i modelli esplicativi che ricorrono nei quattro manuali, comune deve esserne la matrice culturale. Essa va rintracciata, per l’Italia, in quel movimento di svecchiamento culturale che ha investito la geografia negli anni sessanta e settanta, e che rivendicava, nello studio dei rapporti tra l’uomo e l’ambiente, il ricorso ai modelli e alle strumentazioni delle scienze umane o sociali, di contro al vecchio modello positivista che trattava le collettività umane alla stregua delle altre specie viventi sulla Terra. Muovendo dalle riflessioni dei geografi “possibilisti” francesi, l’indirizzo in questione si è arricchito dei contributi critici del marxismo, dando vita a un panorama di ricerche e di posizioni complesso e articolato10.
Sappiamo però che in anni recenti altri paradigmi hanno fatto la loro comparsa in geografia, da quello normativo-analitico a quello fenomenologico; di essi non reca traccia la didattica dei libri di testo, segno di una loro debolezza all’interno della comunità scientifica oppure di una loro intrinseca difficoltà di traduzione didattica per la scuola media, dove la geografia è insegnata dal professore di lettere11; dato che i due motivi non si escludono, è possibile che essi interagiscano rafforzandosi a vicenda.
Sarà interessante seguire in futuro lo sviluppo dei contenuti nei manuali di geografia, per verificare se si avranno dei tentativi di traduzione didattica di altri paradigmi scientifici, tenuto conto anche del fatto che quello attualmente più diffuso e che si è cercato di illustrare nelle pagine precedenti, è stato di recente messo in discussione in ambito storiografico, per la sua eccessiva preoccupazione di distinguere l’ambito dei fenomeni naturali da quello dei processi sociali, in una fase storica in cui vi è bisogno di ripensare i rapporti tra l’uomo e l’ambiente in modo unitario12.
La riflessione richiede ora che ci si sposti
9 II tipo di trattazione della pianura padana svolto nei quattro manuali citati può essere fatto risalire, nell’ambito della ricerca, ai seguenti contributi: Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari, Laterza, 1987 (prima edizione 1961); Lucio Gambi, Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, in Una geografia per la storia, Torino, Einaudi, 1973, pp. 148-174; Lucio Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d ’Italia, vol. I, Torino, Einaudi, 1972, pp. 5-60; Cesare Saibene, La Padania, in Aa.Vv., Ipaesaggi umani, Milano, Tei, 1977, pp. 52-73; Aa.Vv., Paesaggio. Immagine e realtà, Milano, Electa, 1981 (in particolare la sezione intitolata: Il paesaggio della pianura Padana, con contributi di Lucio Gambi, Carlo Poni e altri); Guido Crainz, La cascina padana, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea. Spazi e paesaggi, Venezia, Marsilio, 1989.10 Per limitarsi agli anni sessanta e settanta, si vedano: Lucio Gambi, Geografia fisica e geografia umana di fronte ai concetti di valore, in Id., Questioni di Geografia, Napoli, Esi, 1964, pp. 17-50; Id., Geografia regione depressa, in Id., Una geografia per la storia, Torino, Einaudi, 1973, pp. 38-64; Mario Ortolani, La geografia umana, in Aa.Vv., Introduzione allo studio della storia, Milano, Marzorati, 1975, pp. 129-169; Massimo Quaini, Marxismo e geografia, Firenze, La Nuova Italia, 1974; Massimo Quaini, La costruzione della geografia umana, Firenze, La Nuova Italia, 1975; Aldo Pecora, Ambiente geografico e società umane, Torino, Loescher, 1977.11 Non si può sottovalutare, negli indirizzi normativo-analitico e sistemico, il massiccio uso di modelli matematici, che ne rendono quanto meno problematico un loro uso per chi sia sprovvisto di basi adeguate. Per un ‘assaggio’ si veda: Richard Fluggett, Analisi dei sistemi e spazio geografico, Milano, Angeli, 1983.12 Cfr. Alberto Caracciolo, L ’ambiente come storia. Sondaggi e proposte di storiografia dell’ambiente, Bologna, Il Mulino, 1988.
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dal piano dei contenuti a quello della traduzione didattica, per esaminare le modalità di trasmissione o di costruzione del sapere geografico adottate dai cinque manuali. A livello generale, si può affermare che i contenuti di apprendimento sono ancora organizzati in un testo scritto che, obbedendo alle regole della descrizione, della narrazione e dell’ar- gomentazione, rappresenta per l’alunno la fonte principale delle conoscenze. In questo modo gli argomenti tematizzati, siano essi i quadri ambientali, il popolamento umano o le regioni amministrative, difficilmente possono attivare nello studente quelle operazioni cognitive messe in atto dal geografo quando costruisce le proprie conoscenze: te- matizzazione di un problema, ricerca di fonti, estrapolazione ed elaborazione delle informazioni, critica delle fonti, ricostruzione di un modello interpretativo del problema iniziale, concettualizzazione dello spazio. Soltanto Mazzetti adotta un sistema misto che, pur senza rinunciare al testo scritto come veicolo principale delle conoscenze, problematizza gli argomenti e guida il lettore alla soluzione con molta gradualità.
Sotto questo profilo i manuali odierni non si discostano di molto da quelli che li hanno preceduti; i motivi di tale rigidità didattica possono essere diversi e vengono segnalati qui in veste di ipotesi da verificare. La didattica della geografia non ha ancora prodotto, a livello di riflessione teorica e di ricerca sul curricolo, risultati paragonabili ad esempio alla didattica della storia. Dagli anni settanta, dopo che è stato denunciato il suo stato di arretratezza e si è propugnata
una didattica della ricerca, non si sono fatti sostanziali passi in avanti nell’individuare le categorie fondanti della ricerca geografica, né sono state costruite proposte articolate di curricoli disciplinari verticali, graduati per obiettivi e strategie di apprendimento. I pochi progetti che possediamo si sono limitati a ritrovare nelle strutture della conoscenza geografica gli obiettivi della tassonomia di Bloom, quando da parte di alcuni psicopedagogisti si metteva in discussione l’adattabilità di quelle griglie tassonomiche a tutte le discipline e ambiti di conoscenza13. In secondo luogo vi è forse una domanda di “didattica delle operazioni e delle abilità cognitive” assai debole da parte degli insegnanti, i quali, non esistendo praticamente in Italia corsi di laurea specifici in geografia, provengono da altre lauree e hanno in genere sostenuto pochi esami di geografia. Tali insegnanti, per la formazione che hanno ricevuto, non hanno mai avuto occasione di svolgere una ricerca geografica e quindi non conoscono i modelli teorici, né tanto meno le fonti della geografia.
Tuttavia al filo conduttore costituito dal testo scritto, si affiancano in questi manuali alcuni importanti elementi che è interessante analizzare dal punto di vista didattico; li possiamo raggruppare in tre categorie: il materiale fotografico, l’apparato cartografi- co, gli eserciziari. Sulla funzione e l’uso della fotografia nel libro di testo, avevano provveduto Giorgio Bergami e Tonino Bet- tanini a toglierci l’illusione che essa fosse la rappresentazione iconica oggettiva della realtà descritta nel testo: quando negli anni
13 La rielaborazione della tassonomia di Bloom (Benjamin S. Bloom, Tassonomia degli obiettivi cognitivi. La classificazione delle mete dell’educazione, Teramo, Giunti e Lisciani, 1983, edizione inglese: Taxonomy o f Educational Objectives: the Cognitive Domain, London, 1956) si trova in Franco Frapponi, Dal curricolo alla programmazione. La scuola di base tra riforma e innovazione didattica, Teramo, Giunti e Lisciani, 1987. Ha trasferito queste tassonomie nella didattica della geografia: Dario Ghelfi, Didattica della geografia, Milano, 1987, pp. 6-76. Per alcune critiche ai modelli tassonomici: Clotilde Pontecorvo, La ricerca sul curricolo: teoria e pratica dell’innovazione, in Aa.Vv., Curricolo e scuola. Innovazione educativa e sviluppo sociale, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1978 (in particolare pp. 103-109).
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settanta i quadri ambientali e le concentrazioni urbane mostravano già evidenti segni di degrado a livello sia ecologico che sociale, i manuali insistevano a pubblicare foto-cartoline di bei paesaggi incontaminati e di moderne città, ordinate e operose14.
I manuali odierni sembrano aver riconosciuto l’intenzionalità del messaggio di cui è portatrice la fotografia, e mostrano di servirsene soprattutto per rappresentare le trasformazioni del territorio a opera delle società umane, anche nei loro aspetti più contraddittori e dunque criticabili. Le foto di paesaggi agrari, quando in esse siano riconoscibili la geometria dei campi, il tipo di colture, la maglia viaria, le forme del popolamento, permettono di formulare interessanti ipotesi sulle strutture agrarie caratterizzanti le località rappresentate15. Le foto dei centri urbani, anziché risolversi nell’immagine di qualche monumento o panoramica dall’alto, riescono a cogliere le diverse funzioni cui assolvono le città (abitativa, industriale, del terziario)16. Non mancano neppure, in questi testi più recenti, crude rappresentazioni del degrado dei suoli, dell’inquinamento atmosferico, dello squallore di certe periferie urbane17.
Escluso da questi processi di innovazione dell’uso della fotografia a scopo didattico è il volume della Paravia, che presenta fotografie in formato troppo piccolo per poter essere lette adeguatamente, e i cui colori, nonché i soggetti rappresentati, hanno un aspetto vecchio e superato. Per questo manuale l’ipotesi che si può fare è che il mancato svecchiamento dei contenuti si accompagni a un’altrettanto sensibile arretratezza sul piano didattico.
Ma dove la fotografia riesce a esplicare maggiormente la sua valenza didattica di fonte per lo studio della geografia, è in quei testi nei quali è accompagnata da articolate e puntuali didascalie, che guidano lo studente all’interpretazione della rappresentazione iconica.
Questo risultato è pienamente raggiunto nel Mezzetti, nel Sofri e nel testo di Bruno Mondadori; del tutto inutili invece le didascalie di Paravia, come si può ricavare dall’esempio a p. 136 del I volume: “Le colline del Viterbese, uno dei numerosi aspetti paesaggistici del Lazio” .
L’uso della fotografia a scopo didattico, tuttavia, potrebbe tendere a risultati ben più significativi se fosse finalizzato a costruire nell’alunno la capacità di interrogarla come fonte. Infatti l’offerta sia pur di ampie didascalie non fa che accrescere la funzione di trasmettitore di conoscenze, già riconosciuta da tempo al manuale: la didascalia spiega ciò che è importante vedere. Più significativa, dal punto di vista didattico, sarebbe l’operazione di guidare il ragazzo a riconoscere da solo gli elementi rilevanti di una foto, rispetto a un problema dato. E non solo, poiché la fotografia come fonte implica le operazioni di critica della fonte e quindi la sua contestualizzazione (chi l’ha prodotta, quando, dove, a che scopo). Ma i manuali, anche in questo caso, non fanno che riflettere una debolezza più complessiva della didattica della geografia, trascurando due aspetti: che per interrogare la fonte si deve individuare un problema iniziale, a partire dal quale possiamo porre domande alla fonte stessa; che la fonte va criticata per la connaturata par-
14 Giorgio Bergami, Tonino Bettanini, Fotografia geografica/geografia della fotografia, Firenze, La Nuova Italia, 1975.15 Cfr. il testo della Zanichelli, vol. I, pp. 89, 116, 121 e quello della Bruno Mondadori, vol. I, pp. 133, 168, 169.16 Cfr. il testo della Principato, vol. Ili, pp. 73-95.17 Cfr. il testo del Mezzetti, vol. Ili, pp. 182, 186, 189 e quello della Principato, vol. I, p. 76.
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zialità del suo punto di vista18. Molte delle osservazioni compiute a proposito delle fotografie, andrebbero ripetute per l’apparato cartografico. Il numero e la varietà di tipi di carte (topografiche, fisiche e politiche, tematiche) presenti nei testi o offerte in appositi atlanti, denotano una sempre maggiore sensibilità nei riguardi di una didattica attiva, operativa, che sa usare la carta come uno strumento di conoscenza fra tanti. Ma anche in questo caso vi è il rischio di considerare la rappresentazione cartografica come la trasposizione oggettiva della realtà su carta, poiché manca un approccio critico alla carta come fonte, che evidenzi il nesso, mai neutrale, bensì sempre ideologico, tra il contenuto rappresentato e il soggetto che lo rappresenta19.
Si segnalano infine, al termine di ogni capitolo o di ogni unità di lavoro, gli eserciziari, volti a rendere didatticamente più attivo il rapporto con la disciplina insegnata. Si tratta di test di vario tipo. I più semplici e i meno originali costituiscono una verifica delle conoscenze apprese: domande relative ai contenuti dei capitoli. Una maggiore operatività è richiesta invece dagli esercizi di ricerca di informazioni desunte da carte, grafici o tabelle; altri esercizi ancora sviluppano la capacità di traduzione dei dati statistici in rappresentazioni grafiche o cartografiche, la capacità cioè di passare da un linguaggio a un altro. Infine sono presenti verifiche che impil- cano l’acquisizione di “obiettivi superiori convergenti e divergenti”, per usare una terminologia tratta dalla tassonomia di Bloom:
si chiede allo studente, dopo aver raccolto una serie di dati e di informazioni intorno a un problema, di avanzare ipotesi di spiegazione, discutendone con il ‘gruppo-classe’. Tale proposta è interessante e va valutata positivamente. Il corso della Paravia invece non ne reca traccia, a ulteriore conferma dell’esistenza di un nesso fra trattazione di contenuti ormai superati e arretratezza sul piano dell’organizzazione didattica.
Viene da chiedersi rispetto agli eserciziari se essi siano usati dall’insegnante in classe, come strumenti per costruire conoscenze insieme agli alunni, oppure se vengono distrattamente assegnati come compito da svolgere a casa. Più in generale sarà interessante seguirne l’evoluzione in futuro, per verificare se la loro introduzione nei manuali scolastici è da interpretarsi come un primo, ancora timido passo verso la costruzione di una didattica integralmente attiva, che sviluppi nei ragazzi le abilità di base della ricerca geografica; oppure se essi si cristallizzeranno in una serie di test, da svolgersi meccanica- mente.
In conclusione possiamo affermare che si sono verificati dei mutamenti nei manuali di geografia per la scuola media; a un radicale rinnovamento dei contenuti, concretizzatosi nella fine del paradigma determinista e nella sua sostituzione con alcuni dei temi più classici della geografia umana del nostro secolo (meno che nel caso di Paravia), si accompagna il tentativo di fare del manuale uno strumento di lavoro, che attivi nello studente alcune operazioni cognitive della ricerca geo-
18 Cfr. Andrea Bissanti, La fotografia come strumento di lettura del paesaggio, “Scuola e Didattica”, 1986, n. 8, pp. 35-38.19 Massimo Quaini, L ’Italia dei cartografi, in Storia d ’Italia, Torino, Einaudi, 1976, vol. VI, pp. 3-24; Franco Farinelli, La cartografia della campagna nel Novecento, in Storia d ’Italia, vol. VI, cit., pp. 626-636; Franco Farinelli, Dallo Spazio bianco allo spazio astratto: la logica cartografica, in Aa.Vv., Paesaggio. Immagini e realtà, cit.; Aa.Vv., Arte e scienza per il disegno del mondo, Torino, Electa, 1983; Aa.Vv., Cartes et cartographes. Les arpenteurs de la Terre, “Le courrier de l’Unesco”, Juin 1991; J.B. Harley-Dawid Woodward (a cura di), The History of Cartography, Chicago, University o f Chicago Press, 1987.
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grafica. Vi è da augurarsi che il processo continui, soprattutto per quel che riguarda il secondo punto; non basta infatti aggiungere al testo qualche esercizio per pensare di ripercorrere in classe le fasi del lavoro del geografo. Il grande assente è ancora una
volta la fonte, e primo ancora, il problema per il quale si va alla ricerca di fonti. Ma un testo che sviluppasse a pieno queste categorie, non sarebbe forse già più un manuale.
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