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Un mercato di capitali per imprese a finalità. Prima analisi di fattibilità sociale

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Regione Toscana – Assessorato Servizi Sociali Un mercato di capitali per imprese a finalità sociale Prima analisi di fattibilità Davide Dal Maso Davide Zanoni Matteo Bina Milano, novembre 2009
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Regione Toscana – Assessorato Servizi Sociali

Un mercato di capitali per imprese a finalità sociale

Prima analisi di fattibilità

Davide Dal Maso Davide Zanoni

Matteo Bina

Milano, novembre 2009

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Un mercato di capitali per imprese a finalità sociale

Prima analisi di fattibilità Sommario Obiettivi della ricerca e note metodologiche 3 Premessa 5 Evoluzione del mercato, in relazione al contesto sociale e politico 9 Analisi della domanda di capitali (imprese emittenti) 16 Analisi dell’offerta di capitali (investitori) 36 Situazione attuale: un mercato segmentato 52 Nuovo scenario: una borsa dedicata alle IFS 57 La Borsa Sociale 71 Appendici 80

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Obiettivi della ricerca e note metodologiche

Questo rapporto restituisce i risultati di una ricerca condotta tra i mesi di aprile e luglio 2009 da Avanzi, nell’ambito di un più ampio progetto affidato a Fondazione Culturale Responsabilità Etica dall’Assessorato ai Servizi Sociali della Regione Toscana.

L’obiettivo di questo studio è verificare la fattibilità tecnica e la sostenibilità di un mercato di capitali per imprese a finalità sociale (d’ora in avanti, IFS). Si tratta di un mercato per molti aspetti comparabile a quello delle tradizionali borse finanziarie, ma che se ne differenzia per il fatto che (i) i titoli negoziati sono emessi da imprese che perseguono obiettivi dichiarati di generazione di valore sociale e che (ii) gli investitori cui si rivolge, corrispondentemente, perseguono obiettivi “misti”, di natura finanziaria e sociale.

A questo scopo, abbiamo strutturato il rapporto in tre sezioni distinte:

• nella prima, vengono descritte le premesse di tipo ideale che hanno animato lo sforzo di ricerca, sia nella dimensione analitica sia in quella propositiva. Si dà conto dei motivi per cui oggi questa iniziativa appare opportuna e tempestiva;

• nella seconda, viene analizzato il potenziale di domanda di capitale, rappresentato dalle IFS, e di offerta di capitale, rappresentato da investitori socialmente responsabili;

• nella terza, infine, si definiscono le caratteristiche tecniche del mercato e si tratteggia il modello di business dei soggetti che potrebbero gestirlo, formulando una stima di conto economico di medio periodo.

In appendice, sono stati riportati gli elementi essenziali di una metodologia per la valutazione del valore sociale generato dalle imprese candidate alla quotazione.

Dal punto di vista metodologico, si tratta di un lavoro basato in larga misura su desk research, svolto utilizzando una pluralità di fonti, di volta in volta richiamate nel testo. In diverse fasi dell’analisi, sono state realizzate varie interviste qualitative ad esperti, professionisti, operatori del settore di interesse.

Una attività di supervisione generale è stata affidata ad un Comitato di Indirizzo, che è intervenuto con commenti, suggerimenti, indicazioni nelle fasi topiche del progetto e che ha rivisto le bozze del presente documento. Un sentito ringraziamento a:

• Luca Bagnoli, docente economia aziendale all’Università di Firenze, indicato da Confcooperative

• Giampaolo Barbetta, docente di economia politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

• Alessandra Dal Colle e Marco Ratti, della direzione di Banca Prossima

• Luca Filippa, direttore ricerca e sviluppo di Borsa Italiana

• Giorgio Fiorentini, docente di economia e gestione delle aziende non profit all’Università Bocconi

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• Roberto Randazzo, avvocato e docente di diritto degli enti non profit all’Università Bocconi

• Mauro Gori, responsabile attività economiche e finanziarie di Legacoop

• Alessandro Messina, responsabile area retail dell’ABI

• Giulio Tagliavini, docente di economia degli intermediari finanziari all’Università di Parma

• Stefano Zamagni, docente di economia politica all’Università di Bologna e presidente dell’Agenzia per le Onlus

• Nereo Zamaro, dirigente di ricerca presso l’Istat

Hanno inoltre contributo, in veste di esperto tecnico su questioni legali, Valentina Zadra, avvocato presso lo Studio legale Cleary Gottlieb Steen & Hamilton e Fabrizio Plateroti, responsabile della Divisione Regolamentazione di Borsa Italiana.

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Premessa

La Borsa Sociale (d’ora in avanti, BS) di cui andremo parlando, lo diciamo subito, a scanso di equivoci, è un mezzo, non un fine. In quanto strumento, va valutata in relazione alla sua capacità di contribuire al raggiungimento di un obiettivo – che perciò va dichiarato con chiarezza: attraverso la BS, noi vogliamo stimolare la crescita di un approccio all’attività economica diverso da quello oggi prevalente. Questa affermazione può apparire presuntuosa e velleitaria o forse, più modestamente, ingenua. In realtà, altro non facciamo che riprendere e sviluppare in termini moderni un filone di pensiero che ha attraversato nel tempo l’evoluzione della teoria economica e che annovera tra i propri promotori autorevolissimi Autori.

Uno dei tratti fondamentali dell’approccio teorico prevalente tra gli economisti è la netta separazione tra il ruolo dello Stato e quello dei privati. Questi soggetti operano in due mondi paralleli, il mercato e la sfera pubblica, con la minor area di sovrapposizione possibile: l’assunto è che lo Stato non debba entrare nella sfera della produzione della ricchezza, bensì debba limitarsi a provvedere alla redistribuzione di quella parte di essa che, attraverso il fisco, è destinata a fini generali. Invece, un ruolo del tutto marginale, se non nullo, è riservato ai soggetti privati, ed in particolare alle imprese, nella produzione di beni pubblici. Addirittura, si sostiene che sia impropria la distrazione dell’impresa dal suo obiettivo unico, cioè la creazione di valore per gli azionisti.

Da questo punto di vista, la pratica della responsabilità sociale d’impresa (in inglese, corporate social responsibility, da cui l’acronimo CSR) costituisce una forma di mitigazione degli effetti più estremi dell’applicazione del principio dello sharholder value. Fatto salvo il limite minimo rappresentato dal rispetto delle leggi, l’azione dei manager deve essere orientata alla massimizzazione del profitto e la scelta di andare oltre il dettato delle norme giuridicamente vincolanti si giustifica solo in tanto in quanto si ritenga che un comportamento non opportunistico produca, magari indirettamente o in un arco di tempo più diluito, un qualche vantaggio economico per l’impresa. L’idea è, insomma, che le vacche felici diano il latte più buono. Ma la controparte, lo stakeholder, non è un fine in sé; è solo lo strumento per il raggiungimento del fine vero (l’interesse dell’azionista), che rimane l’unico faro del manager. La pratica della CSR, quindi, tempera gli aspetti più aggressivi delle politiche orientate allo shareholder value, ma non mette in discussione i principi su cui dovrebbe fondarsi l’attività delle imprese.

Le riserve sulla capacità di incidere realmente sui modelli di produzione, peraltro, non mettono in discussione la valutazione complessivamente positiva sul “fenomeno CSR”. Il punto è che ci sembra utile sviluppare e promuovere proposte ulteriori, che aiutino la crescita anche di altri modelli di impresa e di economia. In questo senso, l’iniziativa di una borsa sociale vuol essere un’operazione che punta al pluralismo delle forme di esercizio dell’attività economica. La BS non vuole la chiusura delle Borse “normali” – anzi, ne ha bisogno. Ma l’idea che esistano solo le borse così come sono concepite oggi, che non possano essercene di diverse, ci sembra una limitazione di opportunità.

La crisi finanziaria degli ultimi mesi ha offerto agli economisti, ai decisori politici e alla comunità nel suo insieme una straordinaria occasione per ripensare dei paradigmi che spesso sono stati dati per scontati.

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Nonostante la timidezza delle classi dirigenti (politici, imprenditori, studiosi e opinion leader), si insinua nella società una sensazione di disagio profondo. Che, cioè, la finanziarizzazione del sistema, intesa come subordinazione dell’economia alle esigenze degli investitori, non produca sempre benefici collettivi; che, in altre parole, l’idea secondo cui “ciò che è bene per la General Motors è bene per il Paese” non funzioni sempre – soprattutto quando in realtà si intende il bene degli azionisti di General Motors. Che poi questi siano, direttamente o indirettamente, i cittadini (poiché i principals cui dovrebbero rispondere gli investitori istituzionali sono i sottoscrittori dei fondi comuni e dei fondi pensione), in realtà non migliora affatto la situazione – come ha ampiamente argomentato proprio di recente Luciano Gallino1.

In questo contesto, appare meno temeraria la proposta di un modello di impresa differente, non totalmente alternativa a quella capitalistica tradizionale. La sfida rimane comunque difficile, perché occorre minare una visione preanalitica dell’economia. Parliamo di convinzioni preanalitiche in quanto la maggioranza degli operatori della business community si è culturalmente formata secondo i dettami delle teorie che abbiamo sopra stigmatizzato e ha interiorizzato convinzioni profonde, che determinano il modo in cui le questioni vengono affrontate prima ancora che vengano affrontate. Esiste, cioè, un bias culturale che compromette la possibilità di argomentare su problemi fondamentalmente nuovi, di fronte ai quali gli strumenti a disposizione appaiono del tutto inadeguati.

Il primo punto da articolare consiste nella confutazione dell’idea secondo cui il mercato sia il luogo in cui si realizzano gli spiriti animali dei soggetti economici, quello in cui si realizzano gli egoismi. Che ciò accada, è vero. Che accada solo questo, no. In realtà, il mercato esisteva ben prima dell’affermazione dell’impresa capitalistica ed ha prosperato anche senza di essa. Il mercato è un’istituzione sociale prima ancora che economica, che si è realizzato in una delle fasi più creative della storia dell’Occidente. Ed è, prima di tutto, luogo di esercizio di virtù civiche e di democrazia. Ridurlo alla funzione di scambio di equivalenti corrisponde ad uno svilimento che, alla fine, esprime una profonda sfiducia nell’uomo. Come l’esperienza di ciascuno può testimoniare, infatti, la dimensione economica rappresenta una porzione importante, ma non certo esclusiva, nella vita delle persone. Le relazioni, gli affetti, le appartenenze sono anzi spesso le determinanti fondamentali delle scelte che compiono. Anche i processi decisionali dei soggetti economici per eccellenza, le imprese, sono in larga misura orientati da fattori non economici, come hanno ampiamente provato gli studi comportamentali. Nella realtà delle cose, non esiste un mercato abitato solo da homines oeconomici, soggetti perfettamente razionali e orientati esclusivamente dal raggiungimento di convenienze economiche. È fondamentalmente falso che le persone, nella propria attività lavorativa, ricerchino solo la soddisfazione di aspettative di ordine economico.

Qui proponiamo invece l’idea, eterodossa, secondo cui anche attraverso la libera iniziativa privata, realizzata nel mercato e non ai suoi margini, si possano produrre beni comuni. Che anche l’impresa possa creare benefici sociali, non come sottoprodotto, ma come risultato voluto e perseguito di una missione dichiarata. E che, infine, questa idea sia perfettamente compatibile con le logiche del mercato, della concorrenza e della efficienza gestionale.

Stiamo tratteggiando le caratteristiche di quella che chiameremo impresa a finalità sociale (IFS), organizzazione che sintetizza le caratteristiche tipiche della società commerciale for profit ma le orienta ad un fine che non è la generazione del massimo ritorno sull’investimento, bensì di valore sociale. Nell’impresa capitalista, la funzione 1 Gallino L., Con i Soldi degli Altri, 2009

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obiettivo è rappresentata dal profitto; il rispetto delle norme giuridiche ed etiche costituiscono il vincolo cui è sottoposto. Nell’IFS, è il contrario: l’obiettivo è la creazione di valore sociale; l’equilibrio economico-finanziario è il vincolo. Questo non significa, come meglio diremo oltre, che l’IFS non debba essere profittevole, anzi.

L’idea della BS rappresenta una sfida per l’economia sociale prima ancora che all’economia capitalista. È una specie di esame di maturità. Una verifica per capire la volontà e la capacità di superare i confini di un sistema che la riduce ad un ruolo ancillare, di mera supplenza delle funzioni pubbliche (nel senso di statuali).

La sfida peraltro sembra essere lanciata anche dal fronte istituzionale. Le istituzioni nazionali ed europee affrontano il tema dell’economia sociale con sempre maggiore attenzione. La Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 afferma che “l’economia sociale, unendo redditività e solidarietà, svolge un ruolo essenziale nell’economia europea permettendo la creazione di posti di lavoro di qualità e il rafforzamento della coesione sociale, economica e territoriale, generando capitale sociale, promuovendo la cittadinanza attiva e una visione dell’economia fatta di valori democratici che ponga in primo piano le persone, nonché appoggiando lo sviluppo sostenibile e l’innovazione sociale, ambientale e tecnologica”. Invita inoltre la Commissione “a promuovere l’economia sociale attraverso le sue nuove politiche e a difendere il concetto di fare impresa in un altro modo insito nell’economia sociale, la cui principale forza propulsiva non è la redditività economica, bensì la redditività sociale, in modo da tenere in debito conto le specificità dell’economia sociale nell’elaborazione della legislazione”.

È chiaro in questa risoluzione il pieno riconoscimento del concetto di economia sociale che si distingue dal sistema economico tradizionale per l’attenzione delle imprese alla creazione di valore sociale, ma anche dal modello non profit per l’esistenza di un’attività imprenditoriale (sia che si tratti di società commerciale che di organizzazione in senso lato).

Nell’ambito così definito a livello comunitario, si inserisce quindi l’idea progettuale di un mercato di capitali dedicato alle imprese dell’economia sociale quale strumento per promuoverne lo sviluppo e per dare impulso ad un nuovo modello di imprenditoria responsabile. Nel contesto italiano, pur ritardato da un quadro giuridico incapace di far fronte tempestivamente alle istanze e necessità che emergono da questo settore, stanno comunque emergendo soggetti di impresa che mostrano una struttura produttiva e organizzativa del tutto simile alle imprese tradizionali, ma che perseguono interessi collettivi diversi dall’utile privato (es. cooperative sociali). La questione diventa, quindi, come stimolare lo sviluppo di questa economia in misura tale da portarla ad un livello di significatività che le dia maggiore dignità e riconoscimento, senza compromettere la qualità della sua natura.

Uno degli elementi, certo non l’unico, necessari a questo scopo è il raggiungimento di una scala dimensionale sensibilmente maggiore che comporti un rafforzamento dell’attività dispersa ma incisiva delle piccole e medie imprese dell’economia sociale.

In questo studio proponiamo alcune valutazioni preliminari per disegnare uno strumento utile allo scopo: un mercato dei capitali. L’idea che cercheremo di sviluppare mira alla creazione di un meccanismo di incontro tra un’offerta di capitali finanziari “responsabili” e una domanda rappresentata da imprese che abbiamo chiamato IFS. Riteniamo che un simile istituto possa facilitare il perseguimento dell’obiettivo di crescita dimensionale cui facevamo sopra cenno e possa altresì contribuire alla maturazione in senso più ampio dell’economia sociale, oggi relegata ad una funzione marginale. Per riuscire nell’intento è necessario mettere a fuoco la natura dell’impresa sociale, definirla come soggetto che appartiene al mercato e in

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qualche modo lo ridefinisce, lo arricchisce di una dimensione, lo porta a funzionare anche per il raggiungimento di scopi sociali oltre che economici. Si tratta di un salto culturale, di un passaggio delicato nel contesto italiano, caratterizzato da forti resistenze nei confronti del mercato e da una netta divisione tra impresa profit e organizzazione non profit.

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Evoluzione del mercato, in relazione al contesto sociale e politico

L’idea di un mercato di capitali per IFS può sembrare bizzarra se si ha riguardo alla situazione attuale. Lo spazio che queste organizzazioni occupano oggi è, obiettivamente, di nicchia. Sembra mancare, quindi, una delle condizioni necessarie per la sostenibilità di una borsa vera e propria, cioè la dimensione. Il nostro tentativo è andato nella direzione di immaginare la situazione che si potrà presentare tra qualche anno, quando una serie di tendenze di cui oggi intravediamo solo alcuni aspetti, arriveranno a maturazione – cambiando così i fattori di competitività che determinano il successo delle imprese nel mercato.

L’obiettivo di questo paragrafo è quello di individuare alcune di queste tendenze, cercando di meglio definire gli ambiti in cui le IFS potranno affermarsi nel prossimo futuro. Riteniamo che il crescente interesse dei cittadini (nelle diverse dimensioni attraverso cui esprimono la loro soggettività di consumatori, utenti, investitori, elettori …), delle imprese e delle istituzioni, nei confronti delle tematiche ambientali e sociali determinerà nuovi spazi di operatività per le IFS, che hanno perciò di fronte una straordinaria opportunità di sviluppo. Sensibilità ambientale, consumo critico, dinamiche demografiche, cambiamento dei modelli di welfare sono solo alcuni dei fenomeni le cui evoluzioni comporteranno influenze importanti sulla crescita di quella che, con accezione quanto mai ampia, viene definita economia sociale. Si va cioè formando un mercato, o meglio una pluralità di mercati, in forte espansione, che non risultano ancora adeguatamente presidiati perché i soggetti che potrebbero operarvi (quelle che noi chiamiamo IFS) non sono sufficientemente strutturate dal punto di vista finanziario e operativo. Il rischio è che vengano coperti da imprese capitalistiche tradizionali, il cui obiettivo di massimizzazione del profitto (che crea inevitabilmente forti conflitti tra gli interessi degli stakeholder) le mette però in contraddizione con la natura anche relazionale dei beni e dei servizi offerti. Definire un ambito di azione delle IFS è un esercizio complesso e potrebbe correre il rischio di essere fuorviante, dato che queste vengono definite tali non tanto sulla base del settore di attività quanto in base alle proprie modalità operative (mission, valore aggiunto sociale, ecc.). Come avremo modo di argomentare, per noi IFS non è solo quella che opera, per esempio, nel campo del risparmio energetico; può esserlo anche una “normale” attività produttiva o commerciale che sia esercitata con l’obiettivo di generare valore sociale: un’azienda agricola che operi in un’area controllata dalla criminalità organizzata cercando di sottrarsi alle logiche mafiose ed offrendo delle opportunità di promozione sociale, per esempio, potrebbe essere un caso esemplare di IFS.

È altrettanto vero, d’altra parte, che gli ambiti operativi delle imprese che più si avvicinano ad essere a finalità sociale sono prevalentemente legati a determinati comparti e che possa quindi avere un valore esemplificativo partire dal considerare proprio quei settori particolarmente significativi per le imprese in questione.

Numerosi segnali confermano la crescente attitudine “critica” dei cittadini europei nei confronti dei modelli di consumo. Un’attitudine che si manifesta nella domanda in aumento di beni che presentino caratteristiche etiche, espresse da valori come la sostenibilità, la solidarietà, la reciprocità e la valorizzazione dei legami sociali e comunitari. Un’ampia gamma di comportamenti che non riguarda solo le scelte di consumo degli individui ma sempre più si riflette direttamente nella richiesta alle aziende e alle istituzioni dell’adozione di precise politiche rispettose di questi valori.

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In tutta Europa sono in crescita tendenziale i consumi e la nascita di nuove imprese ed iniziative legate, solo per fare pochi esempi, alla salvaguardia ambientale, all’agricoltura biologica, ai trasporti e all’edilizia sostenibili, alle energie rinnovabili, al riciclo di materiali, al commercio equo e solidale, ai gruppi di acquisto solidali, al turismo responsabile, alla finanza e agli investimenti sostenibili: un panorama estremamente variegato che raccoglie al suo interno tipologie diversissime di soggetti e di mercati di riferimento. Prenderemo qui in esame pertanto solo alcuni aspetti e tendenze rappresentativi.

La riforma dei sistemi di welfare

È nell’ambito dei servizi alla persona e, più in generale, nel campo dell’assistenza che è ragionevole immaginare una forte crescita del ruolo delle IFS. Si prenda il caso di un’impresa che gestisce una casa di cura o una residenza per anziani: è naturale che, se l’obiettivo è quello di ricavare da questa attività il massimo profitto possibile, chi ne ha la responsabilità sia portato ad aumentare i ricavi, per esempio cercando di alzare le tariffe o forzando l’erogazione di prestazioni anche non necessarie; o a ridurre i costi, per esempio utilizzando materiali di scarsa qualità; o a contenere i rischi, per esempio evitando di accogliere ospiti con limitata capacità di reddito. Probabilmente, questa tensione finirà con l’influenzare anche la relazione con i dipendenti, che potrebbero trasferire la loro insoddisfazione nel modo in cui, per esempio, si rapportano con i pazienti. E tutto questo, si badi, senza che ciò comporti una violazione esplicita di norme di legge o contrattuali. Semplicemente, il manager sarà inevitabilmente portato a privilegiare gli interessi del gruppo cui sente di dover rispondere in prima istanza, cioè gli azionisti. L’esperienza peraltro dimostra come, in una situazione del genere, la prevenzione di comportamenti opportunistici sia possibile solo a costo di un sistema di controllo non sempre efficace e comunque molto costoso. Solo il contenimento in origine della tensione verso il profitto può limitare questa deriva. Ecco che entra in gioco lo specifico delle IFS, organizzazioni in cui la motivazione intrinseca è un fattore che orienta in misura determinante il comportamento degli operatori.

Questi temi sono stati ripresi e sviluppati anche all’interno del recente Libro Bianco2, pubblicato a maggio 2009 dal ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, che sancisce i principi guida cui si ispirerà lo sviluppo futuro del welfare nel nostro Paese, alcuni di particolare interesse per il presente studio: la sussidiarietà “della famiglia, dell’impresa (sia non profit che for profit) e di tutti i corpi intermedi”, l’economia sociale di mercato ed il superamento della rigida distinzione tra pubblico e privato.

Partendo dalle tendenze demografiche in atto, il testo considera gli scenari critici che si prospettano per la sostenibilità della spesa sociale nel nostro Paese. Secondo quanto stimato, nel 2045 il 30% della popolazione avrà un’età maggiore di 65 anni con un ulteriore aggravio dei costi per la cura di malattie croniche, che colpendo il 25% della popolazione pesano già oggi per il 70% della spesa. Dice il documento: “L’eccessivo peso del capitolo pensionistico penalizza, in particolare, la spesa sanitaria […]. Nel 2050, in assenza di politiche correttive e di riequilibrio, la spesa sanitaria potrebbe più che raddoppiare.” E ancora: “Occorre rivisitare, attraverso la formula della sussidiarietà quella forma di governance per cui il monopolio statale sulle decisioni di spesa sui servizi sociali ha spesso favorito gli interessi dei fornitori anziché quelli dei destinatari.” Per cui l’attore pubblico “Invece di essere il

2 Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali: “La vita buona nella società attiva. Libro bianco sul futuro del modello sociale”, Roma, maggio 2009.

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monopolista della erogazione è chiamato a determinare le linee guida degli interventi e assicurare il controllo sulla qualità dei servizi”. Di più, “il superamento della distinzione tra pubblico e privato attraverso il riconoscimento alle formazioni sociali di una soggettività di rilievo pubblico anche nella programmazione dei servizi.”

Il tema del superamento della distinzione pubblico – privato è ulteriormente ribadito in seguito, dove si giudica come un grave errore l’adozione di una visione del welfare che ne ha interpretato lo sviluppo “sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ove ciò che era pubblico veniva assiomaticamente associato a “morale” perché si dava per scontato che fosse finalizzato al bene comune, e il privato a “immorale” proprio per escluderne la valenza a fini sociali.”

Citiamo ancora: “Per farsi carico delle persone e dei loro bisogni si rende necessario, in molti contesti, il coinvolgimento di organizzazioni diverse che cooperino, attraverso la combinazione di diverse capacità e competenze, nella progettazione ed erogazione dei servizi. Si tratta di favorire, in chiave sussidiaria, lo sviluppo di reti di servizio (partecipate da operatori pubblici e privati, profit e non profit) capaci di bilanciare aspetti di competitività e di collaborazione, nella ottica di migliorare efficacia ed efficienza dei servizi. L’attore pubblico, da unico erogatore di servizi, diventa ora, mediante i regimi di autorizzazione e accreditamento definiti nella legge Biagi, il soggetto che favorisce la crescita e lo sviluppo sul territorio del mercato dei servizi.”

Un ruolo di primo piano viene quindi riconosciuto al terzo settore “ […] soggetto flessibile e particolarmente adeguato a inserirsi nella nuova organizzazione dei servizi e del lavoro nell’era post-industriale […]”. Così, “Enormi, e in parte non ancora esplorate, sono dunque le potenzialità del terzo settore, nella rifondazione del nostro sistema sociale […]”. In particolare, ruolo strategico è attribuito anche al mondo cooperativo, “sintesi tra sviluppo imprenditoriale, economico e sociale […]”

Insomma, un accreditamento del ruolo e dell’azione dei soggetti che già oggi sono protagonisti dell’economia sociale, ed un forte rimando al ruolo che il privato – sia profit sia non profit – dovrà assumere nel welfare “sociale di mercato” prossimo venturo. Non è irragionevole immaginare, quindi, che si aprano dei vasti spazi di opportunità per nuovi operatori del sociale.

I servizi pubblici locali

Un altro caso che ben può rappresentare la potenzialità dello strumento di cui parliamo è quello delle aziende di servizio pubblico locale. La fornitura di energia elettrica, di gas, di acqua, di servizi di trasporto, e, in qualche caso, d’altro, era stata garantita nel passato dalle amministrazioni locali stesse, in prima persona. Successivamente, sono stati creati degli enti separati, ma sempre di natura pubblica, poi delle società di diritto privato. In alcune situazioni, porzioni più o meno ampie del capitale di queste società sono state vendute a soggetti privati, finanziari o industriali, o addirittura collocate sui mercati, attraverso la quotazione in borsa. In questa evoluzione c’è una soluzione di continuità importante: mentre la trasformazione in società per azioni ha probabilmente reso più efficienti le strutture, agendo sulle diverse procedure e sugli stili manageriali, la privatizzazione del capitale ha inciso sulla missione, che è passata dal servizio al cittadino in condizioni di economicità alla creazione di valore per gli azionisti attraverso la fornitura di servizi a dei cittadini.

Emblematica, da questo punto di vista, la polemica delle settimane scorse sulla qualità dei servizi di Amsa (l’azienda milanese servizi ambientali) in materia di pulizia della città. Citiamo da Il Corriere della Sera (del 13/11/09): “Per alcuni, politici e

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tecnici, l’inizio del decadimento del servizio va fatto risalire a un passaggio preciso: l’incorporazione di Amsa nel gruppo A2A, nato il primo gennaio 2008 dalla fusione di Aem Spa Milano e Asm Spa Brescia. Fino a quel momento, ricordano in azienda, l’input del Comune all’Amsa (prima con Albertini e poi all’inizio del mandato di Letizia Moratti) era stato di chiudere il bilancio con utili modesti ma di riversare tutte le efficienze realizzate sul servizio. Ora la situazione è diversa: il Comune ha un peso ridotto nell’assetto societario, circa il 27%, e non è difficile immaginare che le indicazioni degli azionisti siano cambiate. Amsa lo scorso anno ha fatto 16 milioni di euro di utili e la previsione per l’anno in corso è di 21. Fin qui tutto bene, se non fosse che — come non si stanca di ripetere Berlusconi — la città è sporca”. Ancora, dalla stessa fonte: “Gli utili devono essere all’ultimo posto — rincara l’assessore Maurizio Cadeo, che gestisce i rapporti con l’azienda di via Olgettina — prima devono essere garantite qualità, efficienza e flessibilità”. Ci domandiamo: che cosa potranno pensare di questa affermazione gli altri azionisti, che rappresentano la maggioranza del capitale di una società quotata in borsa? Siamo davvero sicuri che vogliano considerare gli utili “all’ultimo posto” in ordine di importanza? Comunque la si veda, appare chiara la stridente contraddizione tra una missione orientata al servizio alla comunità, sia pure in condizioni di efficienza ed economicità, e una struttura societaria tirata verso la massimizzazione del profitto.

Peraltro, anche il riferimento ai cittadini come stakeholder principali (in quanto clienti e, indirettamente, azionisti), va lentamente perdendo di significatività: queste imprese, nel tentativo di sfruttare economie di scala e di scopo, si stanno consolidando, finendo così col de-territorializzarsi e col perdere il legame col cliente-proprietario. Chi conosce il settore, poi, sa come il potere delle amministrazioni locali, spesso ancora in maggioranza, non riesca a incidere davvero sulle scelte di strategia industriale una volta che siano entrati partner che siano detentori di forte know how gestionale e interessati al massimo ritorno sul loro investimento – non avendo da render conto alle comunità di origine dell’impresa.

Anche in questo caso, è evidente come questo processo di trasformazione abbia influito negativamente sul rapporto con la comunità locale: il modello che punta allo shareholder value non può che configgere con gli interessi dei cittadini – al di là degli equilibrismi degli amministratori e dei manager: che senso ha, per esempio, mantenere una linea di autobus per una contrada remota, la cui gestione genera una perdita? Nessuno, se l’obiettivo è solo generare profitto; molto, se è servire una comunità per cui quel collegamento è, magari, vitale. La domanda legittima è: chi mai investirebbe in una società che gestisce (anche, non solo) una linea in perdita? La risposta: un investitore che sia interessato alla sopravvivenza di quella comunità per cui l’autobus è importante e che, a fronte di questo beneficio sociale, sia disposto a rinunciare ad una quota (non necessariamente a tutto) di ritorno finanziario.

Va da sé che la limitazione della spinta verso il profitto da un lato deve essere compensata da una produzione di valore sociale misurabile e, dall’altro, non deve diventare un alibi per l’inefficienza gestionale. Si pone, tra l’altro, un problema di metrca, su cui torneremo più avanti.

Nuova domanda di beni e di servizi ad alto contenuto ambientale o sociale

Quest’ultimo paragrafo tocca, sia pure in modo superficiale, diversi ambiti dell’economia in cui la spinta all’innovazione ha prodotto i cambiamenti più significativi. In verità, la trattazione sarebbe potuto essere più estesa e più approfondita, ma qui interessa dal conto di una linea di tendenza che si va definendo

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in modo, a nostro avviso, molto netto. Oltre a nuovi prodotti e nuovi servizi, si vanno formando veri e propri modelli di business, che puntano a ridurre, se non risolvere completamente, la questione del conflitto di interesse tra gli stakeholder.

Il commercio equo e solidale Attivo in Europa dagli anni ’60, il commercio equo e solidale (CES) costituisce un caso emblematico di conciliazione delle istanze di solidarietà e giustizia e utilizzo degli strumenti del mercato. Per quanto al suo interno convivano visioni diverse su finalità e metodologie di azione, il CES resta uno dei capisaldi del consumo critico.

Il suo approccio, che riconosce all’individuo il potere di agente economico – e, nello specifico, uno dei più potenzialmente rilevanti – e lo esorta ad utilizzarlo, rende questa particolare attività economica (oltre che per le dimensioni che ha raggiunto) particolarmente significativa in questa sede.

Una ricerca internazionale commissionata da FLO - Fairtrade Labelling Organizations (il coordinamento internazionale dei marchi di garanzia del commercio equo) condotta su un campione di 14.500 persone in 15 paesi, tra cui l’Italia, ha dimostrato la continua crescita nella domanda di prodotti certificati del commercio equo e solidale3.

Nel solo 2008 le vendite dei prodotti a marchio sono cresciute del 75% in Svezia, del 45% in Inghilterra, del 24% in Austria, e del 20% in Italia, dove le vendite a valore sono stimate in 43,5 milioni di euro nel 2008 contro i 39 milioni del 2007.

Il fatturato complessivo del CES in Europa ammontava nel 2005 a € 605 mln, testimonianza del riconoscimento di questo modello anche da parte di fasce di consumatori più ampie rispetto alla cerchia dei maggiormente sensibilizzati.

Ulteriore sintomo dell’importanza e della diffusione raggiunte dal CES in Europa era la penetrazione in tutti i canali della distribuzione: secondo dati del 2004 e 20054, i prodotti del CES erano presenti negli scaffali di circa 79.000 strutture, con una nettissima prevalenza della gdo (57.000), seguita dai normali esercizi commerciali (19.000) e solo in ultima posizione dalle “botteghe del mondo” (2.854) con una presenza nelle tre tipologie di canale in 5.500 punti vendita in Italia.

Ambiente L’ambiente ed i problemi ad esso collegati riscontrano una rilevanza via via crescente nell’attenzione dei cittadini europei. Secondo i dati dell’ultima rilevazione di Eurobarometro su questo tema5, “l’ambiente ha un’importanza indiscutibile nella vita dei cittadini dell’Unione: il 96% degli intervistati ritiene personalmente importante la protezione dell’ambiente (e per il 75% del campione questa è “molto importante”). L’idea di ambiente viene direttamente collegata ai problemi ambientali globali e la maggior parte dei cittadini afferma la propria preoccupazione per i cambiamenti climatici (57%) e l’inquinamento delle acque (42%) e dell’aria (42%). Tali sensibilità si riflettono anche nei comportamenti di consumo e stando a quanto gli intervistati hanno dichiarato, ben il 75% del campione si dichiara pronto all’acquisto di prodotti rispettosi dell’ambiente anche se questi dovessero costare un po’ di più di altri privi di questa caratteristica. Significativo anche come il 62% degli Europei considerasse nel 20086 i cambiamenti climatici ed il riscaldamento globale come il secondo più grave problema che il mondo deve attualmente affrontare, preceduto solo da povertà,

3 Globescan per FLO – Fairtrade Labelling Organisations, 2009 4 Krier, 2005, citato in Barbetta “Il commercio equo e solidale in Italia”, Milano 2006 5 Eurobarometer “Attitudes of European citizens towards the environment”, marzo 2008 6 Eurobarometer “Europeans’ attitudes towards climate change”, settembre 2008

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mancanza di cibo e acqua potabile (68%) e che il 56% degli intervistati ritenesse che affrontare le tematiche ambientali potesse avere degli effetti positivi sull’economia europea.

Queste sensibilità si sono concretizzate nel 61% dei casi in azioni intraprese personalmente, mentre il 76% degli intervistati reputava che le aziende e l’industria non stessero facendo abbastanza, un giudizio che vedeva questa categoria di soggetti ricevere i giudizi più severi dagli europei, peraltro assai critici anche nei propri confronti, dato che secondo il 67% del campione gli stessi cittadini dell’Unione non erano sufficientemente attivi su questo fronte, mentre un maggiore impegno avrebbe dovuto essere profuso dai governi nazionali secondo il 64% e dalle istituzioni comunitarie secondo il 54%.

La sensibilità per i temi ambientali si rifletteva oltre che nelle scelte di consumo, anche in numerosi altri comportamenti della sfera privata. Tra i più diffusi primeggiava la raccolta differenziata, seguita da risparmi di acqua ed energia domestiche ed utilizzo di trasporti sostenibili. Il 10% si dichiarava disponibile ad acquistare energia da fonti rinnovabili anche se questa dovesse costare dall’11% al 30% in più, percentuale che saliva al 24% se il maggior costo si fosse limitato alla forchetta compresa tra il 6 e il 10%, per arrivare al 44% dei cittadini europei disposti ad acquistare energia da fonti rinnovabili nel caso in cui il sovrapprezzo fosse stato incluso tra l’1 ed il 5%.

Una importante iniziativa in risposta a queste problematiche arriva proprio dall’Unione Europea. La Commissione ha infatti annunciato insieme a 800 rappresentanti delle imprese e della ricerca in Europa lo stanziamento 268 milioni di euro per progetti di ricerca in tre settori del mercato importanti per favorire la ripresa economica, renderla più sostenibile e basata sulle conoscenze scientifiche e contribuire a raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra dell’UE e del mondo. Gli ambiti interessati dai finanziamenti saranno l’efficienza energetica degli edifici (responsabili da soli di circa un terzo delle emissioni di CO2 dell’Unione, con un intervento complessivo di €1 mld), le auto verdi (€1 mld) e le fabbriche del futuro (€1,2 mld), per promuovere la competitività in particolare delle piccole e medie imprese europee a livello mondiale. L’iniziativa rientra nell’ambito del Piano Europeo di ripresa economica che prevede uno stanziamento complessivo di € 3,2 mld per la ricerca nel periodo 2010-13 tramite i tre partenariati pubblico privato (Public Private Partnership), finanziati in parti uguali dalle imprese e dalla Commissione (tramite il Settimo Programma Quadro per la Ricerca e lo Sviluppo), mirati a far convergere gli interessi pubblici e quelli delle imprese.

Energie rinnovabili Secondo quanto pubblicato dal rapporto UNEP nel 20097, le energie rinnovabili ricevono nel mondo la maggioranza dei nuovi investimenti, contribuendo per circa il 40% all'incremento nella capacità di generazione installata all'anno. Tra il 2004 e il 2008 gli investimenti nel settore delle energie pulite sono cresciuti di oltre quattro volte, anche se l’impatto della crisi ha fatto segnare una crescita del “solo” 5% nell’ultimo anno a fronte di un +50% di quello precedente, per un ammontare complessivo di $ 140 mld.

La crescita degli investimenti in Europa è stata del 2%, corrispondente ad un investimento complessivo di $ 49,7 mld, mentre un forte rallentamento (-8%) si è registrato negli Stati Uniti, un importante segnale di crescita è arrivato dai paesi in via

7 United Nations Environmental Programme “Global Trends in Sustainable Energy Investment”, 2009

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di sviluppo, dove gli investimenti sono cresciuti del 27 per cento, grazie soprattutto a Cina ($ 15,6 mld, prevalentemente nel settore eolico), India ($ 4,1 mld) e Brasile ($ 10,8 mld, in prevalenza verso il bioetanolo). Incoraggiante anche la crescita del 10%, con $ 1,1 mld.

Agricoltura Biologica L’Italia è leader in Europa per superfici coltivate (oltre 1 milione di ettari, +7,5% nel 2007 rispetto al 2005) ed è il quarto produttore mondiale. Nel solo 2006, si sono aggiunte 1.175 nuove imprese, portando la crescita di operatori nel biennio 2005 - 2007 al 25%8, per un fatturato complessivo di circa € 2,5 mld.

Stime recenti accreditano il mercato complessivo in Europa di un ammontare complessivo delle vendite di circa € 13 mld nel 2006, dove in paesi come la Germania arriva a pesare per il 3,5% dell’intero mercato alimentare e viene distribuito ampiamente tramite i canali della grande distribuzione e dei discounts.

8 Dati tratti dal rapporto "The world of organic agriculture - statistics and emerging trends 2007" elaborato dal Forschungsinstitut für biologischen Landbau e dalla Stiftung Ökologie & Landbau, 2008

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Analisi della domanda di capitali (imprese emittenti)

Soggetti non profit

Chi sono

L’universo delle istituzioni non profit si contraddistingue per una grande eterogeneità di soggetti, che si differenziano tra loro per numerose caratteristiche tra le quali: forma giuridica, ambito di attività, modalità di azione, finalità, dimensioni, fonti di finanziamento. Una varietà che ne rende complesse la mappatura e la catalogazione.

Una parziale definizione della materia deriva dall’intervento del legislatore, che a partire dagli anni ottanta ha proceduto ad integrare le norme vigenti con una ulteriore regolamentazione di specifiche aree del terzo settore9.

Da rilevare come, nonostante questa produzione normativa ormai ventennale, e un ruolo sempre crescente del terzo settore nella società italiana, continui a non esistere nel nostro Paese una disciplina organica delle istituzioni non profit.

Classificazione in base alla forma giuridica

Un’ ampia base di dati sull’esteso panorama degli enti non profit operanti nel nostro Paese è quella offerta dal Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale10 (che raccoglie dati aggiornati al 1999) e dai successivi aggiornamenti11.

Il rapporto identifica cinque popolazioni istituzionali, classificandole sulla base della forma giuridica:

• Associazioni riconosciute

• Fondazioni

• Associazioni non riconosciute

• Comitati

• Cooperative sociali

A queste cinque è stata affiancata una ulteriore categoria (Altre Forme) nella quale sono stati raccolti i soggetti che in virtù del loro particolare profilo non rientravano nelle cinque precedenti.

9 Possiamo citare, tra i principali interventi legislativi in materia:

• Legge 49 del 1987 – cooperazione con i Paesi in Via di Sviluppo e ONG • Legge 218 del 1990 – fondazioni bancarie • Legge 266 del 1991 – organizzazioni di volontariato • Legge 381 del 1991 – cooperative sociali • Legge 383 del 2000 – associazioni di promozione sociale • DL 4 dicembre 1997 n. 460, "Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e

delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale." • DL 24 marzo 2006 n. 155, relativo alle imprese sociali,

10 CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale. Dimensioni e caratteristiche strutturali delle istituzioni non profit in Italia”, Roma Giugno 2008 11 ISTAT “Le fondazioni in Italia. Anno 2005”, Roma , aprile 2009, “Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005”, Roma, agosto 2008, “Le organizzazioni di volontariato. Anno 2003”, Roma, ottobre 2005.

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Secondo i dati Istat, le istituzioni non profit erano, nel 2001, 235.232 ed impiegavano 488.523 addetti (oltre a circa 100 mila collaboratori coordinati e continuativi), il 2,5 % dell’intera forza lavoro nazionale, per un ammontare complessivo delle entrate corrispondente a oltre 73 mila miliardi di lire (l’equivalente di circa € 37 mld).

Tabella 1: Unità istituzionali nel 1999 e nel 2001

Tipologia N° di unità % su base nazionale N° di addetti % su base

nazionale

Dati 1999

Istituzioni non profit 221.412 nd 531.926 nd

Dati 2001

Istituzioni non profit 235.232 5,4 488.523 2,5

Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Per quanto non confrontabili direttamente con i dati aggregati del rapporto Istat, merita almeno citare le interessanti rilevazioni compiute da IRIS Network relative alle imprese sociali, che testimoniano della vitalità di un settore dinamico ed in crescita12.

Il rapporto, la cui pubblicazione è attesa per la fine del 2009, dà conto di oltre 10.000 imprese sociali (di cui oltre 7.300 cooperative sociali e oltre 2.600 tra fondazioni e altri soggetti non profit): una galassia di soggetti che impiega 244.000 persone a titolo retribuito e circa 34.000 volontari, per un giro d’affari complessivo di circa € 6,4mld13.

I beneficiari sono 3,3 milioni di cittadini, che usufruiscono di servizi di valore sociale prevalentemente in ambito socio assistenziale ed educativo.

Ripartizione e numerosità in base alla forma giuridica

Tabella 2: Caratteristiche strutturali

Area geografica

Forma giuridica

Associazione riconosciuta

Fondazione Associazione non

riconosciuta

Comitato Coop sociale

Altre forme

Totale

Italia 1999 61.309 3.008 140.752 3.832 4.651 7.861 221.412

Toscana 1999

5.704 229 11.016 371 244 457 18.020

Italia 2005 Non disp. 4.720 Non disp. Non disp.

7.363 Non disp.

Non disp.

Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

12 Rapporto sull’impresa sociale in Italia, a cura di Iris Network, Coordinamento editoriale e delle ricerche: Carlo Borzaga, Flaviano Zandonai. Donzelli, pubblicazione attesa per fine 2009 13 Il campo di indagine del rapporto è ovviamente più ampio di quanto traspaia dalla presente citazione, ed utilizza alcune delle più recenti rilevazioni Istat integrandole con stime ricavate da tassi di crescita di grandezze analoghe a quelle indagate (come ad esempio le imprese profit censite operanti in settori affini a quelli di azione delle imprese sociali)

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Per quanto limitati a due sole categorie di enti, merita riportare i dati delle rilevazioni Istat pubblicate nel 200714, che danno conto della crescita continua del non profit: le cooperative sociali passavano dalle 4.651 del 1999 alle 7.363 del 2005, e le fondazioni da 3.008 a 4.720.

Secondo quanto rilevato nel rapporto Istat la distribuzione territoriale registrava una maggiore concentrazione nelle regioni settentrionali, con il 51 % delle istituzioni non profit.

Su base regionale le maggiori presenze erano in Lombardia (14,1 %) seguita da Veneto (9,5 %), Emilia Romagna (8,7 %), Piemonte (8,4 %) e Toscana (8,1 %). Le regioni con la minore presenza erano nel 1999 la Valle d’Aosta, il Molise, la Basilicata, l’Umbria e la Calabria, che contavano complessivamente per il 6% del dato nazionale.

Interessante considerare il rapporto tra soggetti non profit presenti sul territorio e popolazione residente. Il dato su base nazionale registrava 38,4 istituzioni attive ogni 10.000 abitanti e tendeva a confermare l’indicazione dei dati assoluti rispetto alla distribuzione regionale: 44,0 nelle regioni settentrionali, 42,3 in quelle del centro e 29,4 al Sud. I dati per singole regioni indicavano invece una presenza territoriale molto maggiore in alcune delle regioni a minore densità abitativa: Trentino – Alto Adige (88,7), Valle d’Aosta (69,2), Umbria (52,0) e Friuli - Venezia Giulia (51,6).

Che cosa fanno

L’immagine che emergeva dalle rilevazioni Istat, dava la rappresentazione di una galassia di soggetti polarizzata intorno al settore della Cultura, sport e ricreazione, che pesava per il 64% del totale, all’interno del quale il 40,6% delle istituzioni era dedita alle attività sportive.

Con pesi relativi molto minori, seguivano poi gli altri settori: Assistenza sociale (8,7%), Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi (7,1%), Istruzione e ricerca (5,3%), Sanità (4,4%), Tutela dei diritti e attività politica (3,1%), Promozione e formazione religiosa (2,7%), Sviluppo economico e coesione sociale (2,0%), Ambiente (1,5%), Cooperazione e solidarietà internazionale (0,6%), Filantropia e promozione del volontariato (0,6%).

Tabella 3: Numerosità delle istituzioni per forma giuridica e settore di attività prevalente

Settore di attività prevalente Forma giuridica Totale

Ass. riconosciuta Fond.

Ass. non riconosciut

e Comitato

Coop.

sociali Altre forme

Cultura, sport e ricreazione

37.245 865 97.725 2.334 476 1.747 140.391

Istruzione e ricerca

2.631 714 5.676 202 135 2.294 11.652

14 ISTAT, “Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005”, Roma, 2008, e ISTAT, “Le fondazioni in Italia. Anno 2005”, Roma, 2008.

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Sanità 5.338 167 3.483 64 362 262 9.676

Assistenza sociale

6.575 773 8.073 322 2.397 1.204 19.344

Ambiente 1.274 15 1.738 155 66 29 3.277

Sviluppo economico e coesione sociale

963 82 2.281 204 692 116 4.338

Tutela dei diritti e attività politica

1.578 21 4.954 170 0 120 6.842

Filantropia e promozione del volontariato

380 147 635 59 0 25 1.246

Cooperazione e solidarietà internazionale

420 36 845 90 10 30 1.433

Religione 1076 157 2.771 109 0 1.790 5.903

Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi

3.608 0 11.863 75 0 105 15.651

Altre attività 222 31 707 48 514 138 1.660

Totale 61.309 3.008 140.752 3.832 4.651 7.861 221.412

La classificazione in base al settore di attività prevalente rappresentata in tabella, segue la classificazione ICNPO (International Classification of Nonprofit Organisation)15 - Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Una volta individuati i settori maggiormente rappresentativi sotto il profilo della numerosità, merita indagarne ulteriormente alcune dimensioni significative nell’ottica del presente rapporto, per evidenziare quali settori e quali istituzioni abbiano caratteristiche tali da giustificarne l’accesso ad una futura Borsa Sociale.

Una rappresentazione estremamente interessante si ricava prendendo in considerazione il peso economico ed occupazionale dei singoli settori prevalenti di attività e della media degli istituti di ogni settore. Prendendo a parametro della dimensione economica l’ammontare delle entrate, i primi quattro settori sono: Assistenza sociale (20,0% sul totale), Sanità (18,8%), Cultura, sport e ricreazione (17,4%), Istruzione e ricerca (13,5%).

Un dato che indica come i maggiori flussi di entrate si concentrassero già nel 1999 in quegli ambiti (Assistenza, Sanità e Istruzione) che vedono un impegno importante delle imprese sociali e – aspetto forse ancor più interessante - che nella prospettiva degli attuali trend nelle politiche di welfare, vedono una loro maggior presenza (per numero e per dimensioni) nel futuro.

Le istituzioni operanti in tre dei quattro settori individuati sopra, spiccano anche tra i primi quattro settori classificati per entrate medie per istituzione: la Sanità con 1,421 miliardi di lire, la Filantropia e la promozione del volontariato (1,207 miliardi), l’Istruzione e ricerca (847 milioni) e l’Assistenza sociale (756).

15 Salomon, L.M., Anheier, H.K., In Search of Nonprofit sector II: the Problem of Classification, Voluntas, 3, 1992)

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Se si considera il peso occupazionale, valutando ancora il dato per settore prevalente di attività e per istituzione media, emerge come i settori che impiegano il maggior numero di dipendenti siano ancora l’Assistenza Sociale (151.547 dipendenti, il 28,4% del totale), la Sanità (121.389, 22,8%) e l’Istruzione e ricerca (105.470, 19,8%).

Tabella 4: Dimensioni dei settori di attività per entrate e per numero di dipendenti

Settore di attività prevalente

Entrate per

settore

Entrate medie per istituzione

% sul totale

Dipendenti per

settore

Dipendenti medi per

istituzione

% sul totale

Cultura, sport e ricreazione

12.718.207 91 17,4 45.155 0,32 8,4

Istruzione e ricerca

9.864.196 847 13,5 105.470 9,05 19,8

Sanità 13.752.334 1.421 18,8 121.389 12,54 22,8

Assistenza sociale

14.631.395 756 20,0 151.547 7,83 28,4

Ambiente 342.221 104 0,5 2.264 0,69 0,4

Sviluppo economico e coesione sociale

2.846.097 656 3,9 26.832 6,18

5,0

Tutela dei diritti e attività politica

1.952.531 285 2,7 10.175 1,48 1,9

Filantropia e promozione del volontariato

1.504.441 1.207 2,1 476 0,38

0,08

Cooperazione e solidarietà internazionale

893.881 586 1,1 908 0,63 0,1

Religione 1.630.444 276 2,2 11.553 1,95 2,1

Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi

8.108.518 518 11,1 45.430 2,90 8,5

Altre attività 4.926.603 2.968 6,7 10.727 6,46 2,0

Totale 73.116.868 330 100 531.926 2,40 99,48

Fonte: elaborazioni su dati CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Le risorse umane

I soggetti non profit operanti in Italia hanno raggiunto negli ultimi anni una dimensione a livello aggregato del tutto significativa anche per quanto riguarda le dimensioni occupazionali, coinvolgendo quasi 4 milioni di persone.

Una prima considerazione merita di essere dedicata ad un aspetto specifico del settore non profit, che a differenza di tutti gli altri settori vede un impegno assolutamente rilevante di volontari. Secondo le rilevazioni Istat, nel 1999 questi

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ammontavano a circa 3 milioni e 200 mila individui, che secondo una stima prudenziale di un’ora dedicata al mese, hanno prodotto l’equivalente di circa 400 mila giornate lavoro al mese. Il dato è significativo, non soltanto per il valore economico, ma anche per la rappresentatività e l’alto grado di coinvolgimento del tessuto sociale che il non profit esprime.

Per quanto la parte preponderante della forza lavoro fosse costituita dall’impiego di volontari, il settore già impiegava 10 anni fa quasi 532.000 dipendenti (equivalenti a quasi il 3% dell’intera occupazione nazionale) oltre a circa 98.000 tra collaboratori e lavoratori distaccati o comandati.

Le dimensioni occupazionali medie per singola istituzione testimoniano di un universo composto in gran parte di soggetti di dimensioni medie e piccole con poche eccezioni di soggetti di grandi dimensioni. La media di dipendenti per istituzione era infatti nel 1999 di 2,4, fatte salve importanti differenze all’interno del mondo non profit dovute non solo a singoli soggetti di dimensioni superiori alla media, ma anche, più organicamente alla tipologia di istituzione. Caso emblematico di questo scostamento erano e sono le cooperative sociali, con una media di dipendenti per soggetto di 26,2 nel 1999 e di 33,1 secondo le rilevazioni del 2005 che testimoniano anche un trend di crescita dimensionale.

Tabella 5: Istituzioni per numero di persone impiegate

Forma giuridica

Persone impiegate Totale

Dipendenti Di cui a tempo parziale

Lavoratori distaccati o comandati

Collaboratori Volontari Religiosi Obiettori

Associazioni riconosciute

116.553 7.312 3.523 22.745 1.107.531 27.018 14.365 1.291.735

Fondazioni 50.674 5.414 1.138 4.333 63.226 1.372 834 121.577

Associazioni non riconosciute

102.423 10.121 9.938 39.378 1.931.550 36.432 6.779 2.126.500

Comitato 767 148 46 1.000 38.750 287 194 41.044

Cooperative sociali

121.894 26.345 871 7.558 19.119 560 2.995 152.997

Altre forme 139.615 14.175 2.030 4.926 61.009 30.379 2.621 240.580

Totale 531.926 63.515 17.546 79.940 3.221.185 96.048 27.778 3.974.423

Toscana 24.853 4.568 948 5.353 305.403 3.639 2.611 342.807

Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Per alcune delle tipologie istituzionali in esame, si sono resi disponibili ulteriori rilevamenti statistici successivi al rapporto cui fanno riferimento i dati sopra riportati, e grazie ai quali è stato possibile costruire la tabella seguente.

Questa intende, oltre che dare conto dei dati più aggiornati, anche fornire un’ulteriore immagine delle dimensioni relative ed assolute della forza lavoro coinvolta da alcune istituzioni.

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Nel tentativo di dare un’immagine più aderente alla dimensione complessiva dei redditi complessivi distribuiti, l’esercizio di calcolo è stato svolto considerando la categoria degli Addetti retribuiti, che include oltre ai lavoratori dipendenti (sia a tempo pieno che parziale) anche i collaboratori ed i lavoratori distaccati e comandati.

Tabella 6: Aggiornamenti settoriali da rilevazioni successive al 1999

Tipo di istituzione e anno dei dati

Addetti retribuiti

Media degli addetti retribuiti per istituzione

(intero universo)

Media degli addetti retribuiti per istituzione

rispetto alle sole istituzioni con almeno 1 dipendente (universo)

Organizzazioni di volontariato (2003)

11.983 0,6 (21.021) 5,4 (2.219)

Cooperative sociali (2005)

Di cui:

• Tipo A

• Tipo B

• Miste

• Consorzi

244.223

176.378

54.329

10.681

2.835

33,1 (7.363)

40,1 (4.345)

22,5 (2.419)

34 (315)

10 (284)

36,7 (7164)

41,6 (4.240)

23 (2.368)

35 (304)

11,5 (248)

Fondazioni (2005)

Di cui:

• Miste

• Operative

• Erogative

106.137

36.730

67.608

1.811

22,4 (4.720)

48 (1.439)

36 (2.338)

4 (943)

40,32 (2.632)

50,4 (728)

42,4 (1.594)

5,7 (314)

ONG (2007)* 13.000 54,4 (239) N.d.

Associazioni di promozione sociale (2007)*

11.700 82,9 (141) N.d.

* Dati basati su stime ISTAT

Fonti: Elaborazione su dati: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008; Istat “ Le organizzazioni di volontariato in Italia. Anno 2003”, 2006; Istat “Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005”, 2008; Istat “Le fondazioni in Italia. Anno 2005”, 2007.

Per completezza, a integrazione della tabella, citiamo i dati sulle classi dimensionali delle cooperative sociali, sempre tratti dal rapporto Istat 2008, secondo il quale il 39,1% delle cooperative impiegava meno di 10 lavoratori, il 22,3% da 10 a 19, il 23,0% da 20 a 49, il 14,2% da 50 a 249 ed infine l’1,4% oltre 250.

Una ulteriore rappresentazione dimensionale utile a definire il profilo dei soggetti non profit dal punto di vista delle risorse umane è quella operata per settore prevalente di attività, già introdotta nel precedente paragrafo (dal quale riportiamo per chiarezza una parte della griglia).

Dal punto di vista delle persone complessivamente coinvolte si attesta come settore di maggior rilievo quello legato a Cultura, sport e ricreazione (1.764.021) grazie anche alla grande partecipazione di volontari, seguito da quelli dell’Assistenza sociale (693.849), dalla Sanità (455.750) e dall’Istruzione e ricerca (254.740).

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Altro dato significativo è quello degli addetti retribuiti (dipendenti, lavoratori distaccati o comandati, collaboratori), che conferma l’ordine di classificazione che vede tra i settori di maggior peso l’Assistenza sociale (151.547 dipendenti), la Sanità (121.389) e l’Istruzione (105.470), con un numero medio di dipendenti per istituzione rispettivamente di 7,83 (Assistenza Sociale), 12,54 (Sanità) e 9,05 (Istruzione).

Tabella 7: Settori di attività per numero di persone impegate

Settore di attività

prevalente

Dipendenti per settore

Dipendenti

medi per istituzion

e

% sul

totale

Lavoratori

distaccati o

comandati

Collaboratori

Volontari Religiosi e

Obiettori

Totale soggetti coinvolti

Cultura, sport e ricreazione

45.155 0,32 8,4 2.318 25.422 1.677.936

15.508 1.766.339

Istruzione e ricerca

105.470 9,05 19,8 965 17.452 114.447 17.371 255.705

Sanità 121.389 12,54 22,8 1.650 5.768 318.894 9.699 457.400

Assistenza sociale

151.547 7,83 28,4 2.972 15.844 492.875 33.583 696.821

Ambiente 2.264 0,69 0,4 37 620 85.274 1.087 89.282

Sviluppo economico e coesione sociale

26.832 6,18

5,0 379 4.279 34.305 2.325 68.120

Tutela dei diritti e attività politica

10.175 1,48 1,9 1.540 1.723 208.347 1.547 223.332

Filantropia e promozione del volontariato

476 0,38

0,08 149 329 45.940 369 47263

Cooperazione e solidarietà internazionale

908 0,63 0,1 154 597 34.230 1.534 37.423

Religione 11.553 1,95 2,1 79 495 131.458 39.683 183.268

Relazioni sindacali e rappresentanza di interessi

45.430 2,90 8,5 6.884 6.967 65.757 599 125.637

Altre attività

10.727 6,46 2,0 419 444 11.722 567 23.879

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Totale 531.926 2,40 99,48

17.546 79.940 3.221.185

123.872

3.974.469

Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Dimensioni economiche e bisogni finanziari

Dal punto di vista del profilo economico e finanziario al mondo del non profit facevano capo entrate per circa € 38 mld, con una cifra media per singola istituzione di circa € 170.000. Il peso economico delle singole istituzioni mostrava differenze significative in base alla forma giuridica, alla collocazione territoriale ed al settore di attività.

Riguardo alla forma giuridica il peso maggiore in termini assoluti era quello delle associazioni non riconosciute, seguite dalle associazioni riconosciute. Le due categorie nel loro insieme pesavano per il 57,6% delle entrate ed il 56,9% delle uscite.

Diverso è però lo scenario se si prendono in considerazione i dati medi per singola istituzione. In questo caso emerge una maggiore disponibilità di risorse in capo alle fondazioni, con un ammontare medio per istituto di oltre € 1,5 mln, seguite dalle istituzioni con altra forma giuridica (€ 929.000) e dalle cooperative sociali (€ 620.000).

Anche in questo caso estremamente significativo è il confronto con dati più aggiornati: secondo quanto riportato dai rapporti Istat pubblicati nel 2008, l’ammontare complessivo delle entrate delle fondazioni era cresciuto nel 2005 a € 15,6 mld con una media per istituzione di circa € 3,3 mln16.

Anche i dati relativi alle imprese sociali testimoniano di un tasso di crescita estremamente rilevante. Per quanto non sia possibile fare un confronto diretto, in quanto le rilevazioni del rapporto Istat 2005 considerano il valore della produzione invece dei soli ricavi, merita registrare che l’ammontare complessivo di questo dato era di € 6,381 mld con un valore medio per cooperativa di € 867.000.

Gli istituti censiti nel 1999 si caratterizzavano nella maggior parte dei casi per il ricorso a finanziamenti prevalentemente di origine privata (l’87,1% a fronte di un 12,9% di origine pubblica), con una quota maggioritaria di fonte prevalentemente pubblica solo nel caso delle cooperative sociali.

Merita anche rilevare come la maggior parte delle fonti [di finanziamento] di origine pubblica [derivasse][fosse rappresentata] da ricavi per contratti e/o convenzioni (76% del totale) e la maggior parte di quell[e][i] di origine privata da ricavi derivanti da vendita di beni e servizi (41%) e da contributi degli aderenti (26%).

Tipo di finanziamento

Tavola 8: Istituzioni per dimensione economica (milioni di lire)

Forma Entrate Uscite

16 Op. Cit. ISTAT, 2008

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giuridica

Valori assoluti % Media per istituzione

Valori assoluti %

Associazioni riconosciute

19.102.826 26,1 313 17.249.222 24,9

Fondazioni 10.058.727 13,8 3.345 9.392.353 13,6

Associazioni non riconosciute

23.055.756 31,5 165 22.119.705 32,0

Comitato 425.286 0,6 112 420.549 0,6

Cooperative sociali

5.839.091 8,0 1.257 5.767.434 8,3

Altre forme 14.635.182 20,0 1.863 14.224.192 20,6

Totale 73.116.868 100,0 331 69.173.455 100,0

Toscana 3.961.902 5,4 3.773.605 5,5

Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Tabella 9: Istituzioni per tipo di finanziamento

Forma giuridica

Finanziamento prevalentemente pubblico

Finanziamento prevalentemente privato

Totale

Dati assoluti % Dati

assoluti % Dati assoluti %

Associazioni riconosciute

10.221 16,7 51.088 83,3 61.309 100

Fondazione 471 15,7 2.537 84,3 3.008 100

Associazioni non riconosciute

13.507 9,6 127.245 90,4 140.752 100

Comitato 505 13,2 3.327 86,8 3.832 100

Cooperative sociali

2.734 58,8 1.917 41,2 4.651 100

Altre forme 1.032 13,1 6.828 86,9 7.860 100

Totale 28.470 12,9 192.942 87,1 221.412 100

Toscana 2.466 13,7 15.554 86,3 18.020 100

Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Tabella 10: Istituzioni per tipo di finanziamento (dettaglio)

Forma giuridica

Fonte pubblica Fonte privata Totale

Sussidi e contributi a titolo

Ricavi per contratti e/o

Contributi degli

Ricavi derivanti da vendita

Donazioni offerte e lasciti

Redditi finanziari e

Altre entrate di fonte

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gratuito convenzioni aderenti di beni e servizi

testamentari

patrimoniali

privata

Associazioni riconosciute

2.100.186 4.765.244 3.489.048 5.272.779 887.119 1.177.846

1.410.603

19.102.826

Fondazione

1.100.613 3.145.010 430.996 1.260.787 327.687 2.721.064

1.072.569

10.058.727

Associazioni non riconosciute

1.844.678 3.037.304 7.572.258 6.463.135 659.424 906.671 2.572.287

23.055.756

Comitato 44.487 47.839 76.021 79.396 121.564 13.850 42.128 425.286

Cooperative sociali

149.719 3.462.559 108.329 1.757.971 53.590 19.067 287.856 5.839.091

Altre forme 1.006.825 5.664.335 503.515 4.445.648 345.015 1.076.673

1.593.171

14.635.182

Totale 6.246.508 20.122.291 12.180.167

19.279.716

2.394.400 5.915.171

6.978.614

73.116.868

Toscana 310.211 763.196 673.466 1.109.794 143.649 532.760 428.825 3.961.902

Fonte: CNEL/ISTAT “Primo rapporto CNEL/ISTAT sull’economia sociale”, Roma Giugno 2008

Opportunità e limiti nell’accesso al mercato dei capitali

La vigente normativa in tema di organizzazioni che a vario titolo vengono incluse nell’ambito del terzo settore pone precisi vincoli alle modalità di reperimento di capitali. Fatto salvo il caso delle cooperative, che grazie anche alle novità introdotte dalla riforma del diritto societario, hanno facoltà di ricorrere all’emissione di strumenti finanziari, ai soggetti regolati dalla legge sulle Onlus (incluse le cooperative sociali) o dal D.lgs. 155 del 2006 sull’impresa sociale17 è fatto divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione, comunque denominati.

Tale prescrizione pone un forte vincolo alla possibilità di tali soggetti di ricorrere al mercato dei capitali per il reperimento delle risorse necessario al proprio sviluppo.

Un interessante tentativo di oltrepassare questo impedimento era stato introdotto con la proposta di istituire i titoli di solidarietà, una lodevole iniziativa che non ha ancora avuto, ad oggi, la possibilità di avviarsi e per la cui trattazione rimandiamo al paragrafo ad essi dedicato.

Tali limitazioni nelle possibilità di accesso al mercato dei capitali si riflettono nel ricorso prevalente all’indebitamento verso i propri soci o verso istituti di credito tradizionali quali fonti di capitali.

Il finanziamento bancario

17 D. Lgs. n. 460 del 4 dicembre 1997 “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale” e D. Lgs. 24 marzo 2006 n.155, “Disciplina dell'impresa sociale, a norma della legge 13 giugno 2005, n. 118”.

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Stando ad alcuni tra i più recenti dati disponibili, l’accesso dei diversi soggetti del terzo settore al mercato dei capitali si caratterizza in Italia per uno stretto rapporto con le istituzioni bancarie: il 77% delle organizzazioni intervistate dichiara di avere una banca di riferimento.

È quanto emerge dall’indagine svolta sul tema della finanza specializzata per il terzo settore, curata dal centro di ricerche sulla cooperazione dell’Università Cattolica di Milano18, secondo la quale circa il 60% delle organizzazioni sono pienamente soddisfatte del proprio rapporto con le banche.

Il ricorso agli istituti bancari si concretizza prevalentemente nell’utilizzo del conto corrente e nei prestiti a breve termine, mentre i soggetti intervistati dichiarano di non soffrire di problemi di razionamento del credito.

Le politiche di indebitamento rispecchiano un atteggiamento prudente, consentito anche dalla possibilità di finanziarsi tramite l’utilizzo degli utili accantonati ed il ricorso alle istituzioni pubbliche. Tale atteggiamento viene in generale confermato dal basso livello di patrimonializzazione dei soggetti del terzo settore che risulta dall’analisi dei bilanci dei soggetti interpellati, con l’importante eccezione delle cooperative sociali che presentano invece la caratteristica contraria.

Quanto emerge, invece, dall’incrocio delle risultanze dell’indagine con quelle di un focus group appositamente organizzato per lo svolgimento del presente rapporto19 dà conto dell’esistenza di tre principali questioni comuni alla maggior parte dei soggetti interessati:

• Il peso dei tassi di interesse e l’esigenza di reperire capitali a tassi più favorevoli

• Il livello elevato di garanzie richieste dagli istituti bancari, mediamente maggiore a quello richiesto alle imprese “profit”

• I tempi lunghi di riscossione dei crediti verso la Pubblica Amministrazione

I principali utilizzi dei finanziamenti ottenuti sono legati ad investimenti indirizzati all’acquisto di automezzi e attrezzature o alla ristrutturazione e all’acquisto di immobili. Una ulteriore frequente motivazione delle richieste di credito (in questo caso generalmente a breve termine) è legata a difficoltà di flussi di cassa derivate dalla lunghezza nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione (fonte di una parte considerevole del fatturato del settore).

Nonostante i vincoli normativi citati nel precedente paragrafo merita sottolineare che un migliore accesso alle fonti di finanziamento potrebbe essere già implementabile tramite un maggiore ricorso ai consorzi fidi, uno strumento che come evidenziato

18 Cesarini F. e Barbetta G.P. (a cura di) “La finanza specializzata per il terzo settore in Italia”, Bancaria Editrice, Roma, 2004 19 Il giorno 22 maggio, si è tenuto a Firenze un Focus Group organizzato dall’Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Toscana in collaborazione con Avanzi. L’incontro era rivolto agli operatori del settore e mirava ad indagare le difficoltà di reperimento del credito e le possibilità di sviluppo di strumenti volti ad ampliare l’accesso al mercato dei capitali . Vi hanno preso parte 15 dirigenti di altrettante organizzazioni del terzo settore della Toscana: Anpas Toscana, Conferenza Regionale Misericordie Toscane, Consorzio Costa Toscana, Consorzio Metropoli, Coop. Soc. Compass, Consorzio Co&so Firenze, Esprit, Fondazione Culturale Responsabilità Etica, Osservatorio sull’Economia Civile della CCIAA di Firenze, Cesvot, Fondazione Monnalisa Onlus, Consorzio Eureka, Astir, CNA Toscana, Federsolidarietà – Confcooperative Toscana.

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nello studio curato da Barbetta e Cesarini20, consentirebbe di diminuire le difficoltà di lamentate dai soggetti non profit nell’accesso al credito bancario.

Il caso delle cooperative sociali

Riteniamo utile a questo punto proporre un approfondimento sulle cooperative sociali. L’istituto della cooperativa si rende infatti particolarmente interessante nell’ambito del presente studio, in virtù della maggiore elasticità degli strumenti volti a reperire capitali, anche tramite l’emissione di azioni, consentita alle cooperative dal nostro ordinamento, e della tipologia di attività svolta, più simile a quella delle imprese sociali qui ipotizzate rispetto a quella di altri soggetti non profit.

Ci soffermeremo qui in particolare sulle cooperative sociali, una categoria maggiormente interessante in questa sede, per la quale sono disponibili dati aggiornati al 200521.

In quell’anno le cooperative sociali rilevate erano 7.363, con un incremento del 19,5% rispetto al 2003 e del 33,5% rispetto al 2001.

I consorzi erano invece 284, con un incremento del 3,9% sul 2001.

Il valore della produzione realizzata dal complesso delle cooperative sociali nel 2005 ammontava a circa € 6,381 mld, con un valore medio per unità di € 867.000, differenziato per tipologia di cooperativa: superiore alle media per le cooperative di tipo A (€ 951.000) e inferiore per quelle di tipo B (€ 700.000). Il valore della produzione dei consorzi si è invece attestato su di una media di oltre € 2 mln per soggetto.

In riferimento ai costi, invece, il dato aggregato era di € 6,227 mld, con un valore medio di € 846.000.

Significativi anche i dati tendenziali, che registrano un incremento nell’attività economica del 32,2% sul fronte dei ricavi e del 33,6% su quello dei costi, rispetto ai valori rilevati soltanto due anni prima (valori ai prezzi del 2005).

In termini assoluti, il complesso delle cooperative sociali può essere suddiviso sulla base dell’ammontare dei ricavi secondo le classi dimensionali della griglia seguente:

Tabella 11: Classi dimensionali

Importo dei ricavi (K€) Percentuale sul totale delle cooperative (A+B) e dei

consorzi

Percentuale sul totale dei soli consorzi

< 250 44% 27,1%

250 – 500 18,9% 17,3%

500 – 1.000 16,9% 14,8%

1.000 – 2.000 10,8% 12,0%

> 2.000 9% 28,9%

20 Cesarini F. e Barbetta G.P. (a cura di), 2004, op. cit 21 Istat, Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005, Roma, 2007

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Fonte: elaborazione su dati Istat, Le cooperative sociali in Italia. Anno 2005, Roma, 2007

A differenza del panorama generale delle istituzioni non profit italiane, le fonti di finanziamento delle cooperative sociali erano di [provenienza][origine] prevalentemente pubblica. Questo è il caso infatti per il 65,9% del campione, mentre per il 34,1% dei casi queste erano di origine prevalentemente privata.

La forza lavoro impegnata nelle cooperative sociali era composta da 244.000 lavoratori retribuiti, dei quali 211.000 dipendenti, 32.000 con contratto di collaborazione e circa un migliaio interinali. A questi si affiancavano 34.000 lavoratori non retribuiti, divisi tra volontari, volontari del servizio civile e religiosi. Il 71,2 delle risorse umane complessive era costituito da donne.

Soggetti profit

Chi sono, quanti sono, che cosa fanno

Dare conto della domanda potenziale di capitali reperiti tramite il ricorso alla Borsa Sociale da parte delle imprese sociali for profit è un esercizio a dir poco complesso. Una tale stima può essere azzardata sulla base di confronti e di valutazioni dei parametri della realtà oggi esistente. Faremo dunque un tentativo di raffronto con alcuni dati significativi utili a rendere meno vaghi i contorni dell’universo di riferimento delle IFS.

Valgono comunque le considerazioni di ordine qualitativo svolte nel paragrafo sull’evoluzione del mercato, dove sono state individuate le categorie di imprese maggiormente vocate alla partecipazione a BS.

Una prima immagine utile allo scopo è quella che dà conto del panorama delle imprese profit italiane. Questa può essere ricavata dalle rilevazioni Istat del 2006 sulla loro struttura e dimensioni22. L’indagine registra l’esistenza di 4.824.991 imprese in attività.

Una parte significativa di queste operava negli ambiti maggiormente affini a quelli ipotizzabili per le imprese a scopo sociale: 20.392 nel campo dell’istruzione, 246.399 in quello della sanità e assistenza sociale e 254.501 in altri servizi pubblici, sociali e personali. Il totale delle imprese incluse in questi tre settori contava 531.292 unità, equivalenti al 10,8% del totale.

Va tenuto in considerazione l’aspetto esemplificativo del presente esercizio statistico, dato che una impresa sociale può essere attiva in qualunque settore dell’attività economica: basti pensare ad una qualunque azienda che impieghi tra i suoi dipendenti una certa percentuale di lavoratori svantaggiati.

Una ulteriore dimensione utile a circoscrivere ulteriormente l’universo di indagine è quello del fatturato (i dati in questo caso risalgono al 2004).

22 Istat, “Struttura e dimensione delle unità locali delle imprese”, Roma, 2009

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Tabella 12: La ripartizione delle imprese italiane per fatturato (€K)

Classi di fatturato Imprese Percentuale sul totale Addetti

0 – 100 2.811.576 65,7% 3.761.081

100 - 200 545.795 12,7% 1.325.510

200 – 500 447.748 10,4% 1.786.773

500 – 1.000 203.468 4,7% 1.323.329

1.000 – 2.000 129.449 3,0% 1.244.980

2.000 – 5.000 83.845 1,9% 1.438.985

Oltre 5.000 55.994 1,3% 5.581.102

Totale 4.277.875 99,7% 16.461.760

Fonte: Istat, Struttura e dimensione delle imprese, Anno 2004, Roma, 2006

Individuando come classe dimensionale di interesse per il presente studio quella compresa tra € 1 e 5 mln, rileviamo come le imprese incluse in questo intervallo fossero nel 2004, 213.294.

A puro titolo indicativo è possibile continuare l’esercizio iniziato più sopra e operare una ulteriore discriminazione sui dati Istat 2004 sulla base del settore di attività, individuando nella classe di fatturato specificata le imprese che operano in ambiti di attività potenzialmente affini a quello delle imprese sociali come sono state qui ipotizzate. La rilevazione Istat 2004 divide l’universo delle imprese in quattro settori: Industria, Costruzioni, Commercio e alberghi, Altri servizi. Le imprese appartenenti alla categoria Altri servizi che avevano realizzato un fatturato compreso tra € 1 e 5 mln erano 38.455.

Un ulteriore interessante esercizio di analisi è quello contenuto nel già citato Rapporto sull’impresa sociale curato da Iris Network, di prossima pubblicazione23 e dal quale riportiamo un estratto:

Anche in questo caso gli autori dello studio hanno preso in considerazione le aziende profit operanti nei settori nei quali opera la maggior parte delle aziende non profit.

23 Rapporto Iris Network L’IMPRESA SOCIALE IN ITALIA, Economia e istituzioni dei beni comuni, a cura di Carlo Borzaga e Flaviano Zandonai (disponibile su www.irisnetwork.it)

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Tabella 13: Imprese e addetti, secondo il settore prevalente di attività. Anni 2001 e 2007.

Lo studio in questo caso dà conto di un bacino di quasi 500 mila imprese appartenenti ai settori in esame attive nel 2007 che impiegavano oltre 1 milione e 400 mila addetti.

Il caso inglese: le Community Interest Companies

A scopo comparativo riteniamo utile proporre al pubblico italiano il caso delle Community Interest Companies (CIC). Esse costituiscono un nuovo tipo di società introdotto dal governo inglese nel 2005 con il Companies (Audit, Investigations and Community Enterprise) Act del 2004 e rivolto alle imprese che svolgano attività di tipo sociale.

Le CIC sono state create con l’intenzione di dare il via ad un tipo di impresa che avesse la capacità di riempire il vuoto normativo esistente tra il mondo del non profit e un numero crescente di iniziative promosse da diversi soggetti dell’economia sociale, alla ricerca di nuovi strumenti per poter dare risposte adeguate a un contesto in rapida evoluzione.

L’istituzione delle CIC dava anche una risposta all’esigenza di riconoscimento e credibilità delle imprese stesse che non desideravano avvalersi della qualifica di Charities (un istituto paragonabile alle nostre Onlus), [riguardo alla garanzia dell’][in ragione della necessità di assicurare l’]effettivo svolgimento di attività di interesse sociale, e [del]la destinazione a tali fini di utili ed incrementi di valore del capitale e del patrimonio, aprendo così la strada alla possibilità di svolgere un’attività volta alla produzione sociale senza dover sottostare ai vincoli delle istituzioni non profit.

La CIC si è quindi posta come un soggetto semplice da costituire, con tutte le flessibilità e le garanzie dell’impresa tradizionale, ma con una serie di caratteristiche che ne assicurino il beneficio sociale quale fine preponderante.

2001 2007

Settore prevalente di attività Imprese Addetti Imprese Addetti Var %

Imprese Var %

Addetti

Istruzione 14.463 50.555 18.519 71.891 28,0 42,2

Sanità 196.522 363.226 225.052 438.338 14,5 20,7

Ass sociale residenziale 2.307 56.736 3.705 100.997 60,6 78,0

Ass sociale non residenziale 2.730 68.592 5.555 120.785 103,5 76,1

Cultura, sport e ricreazione 237.017 575.126 243.180 704.779 2,6 22,5

Totale 453.039 1.114.235 496.011 1.436.790 9,5 28,9

Totale generale 4.185.045 15.643.272 4.475.192 17.575.843 6,9 12,4

Fonte: elaborazioni degli autori su dati Istat - Archivio statistico delle imprese attive (2001e 2007)

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Anche nel Regno Unito come in Italia, le imprese che svolgono attività sociale possono assumere diverse forme giuridiche, registrate o meno come Onlus.

Le CIC possono essere strutturate in modo che la responsabilità dei soci sia “limited by guarantee,” o possono essere “public or private companies limited by shares”. In determinati casi le CIC possono pagare dividendi anche se limitati.

Una charity può richiedere la conversione in CIC (previo permesso della Charity Commission) perdendo in tal modo lo status di charity riconosciuta, insieme ad una serie di vantaggi – tra cui quelli fiscali - che lo status comporta. Una charity per contro può possedere una CIC, che è autorizzata a conferire denaro alla charity stessa.

Una impresa tradizionale può invece essere costituita come CIC presentando al Registrar of Companies la documentazione prevista, e pagando il costo di registrazione (25£ per le imprese esistenti e 35£ per quelle di nuova costituzione). Una volta ottenuta l’approvazione del Registrar la documentazione viene passata al Regulator of Community Interest Companies che ne valuta la rispondenza ai criteri di impatto sociale e rilascia la registrazione.

Le CIC vengono identificate direttamente con le Imprese a Scopo Sociale, ed offrono una serie di possibilità che le rendono particolarmente adatte ad operare nell’ambito dell’economia sociale.

Le charities inglesi devono generalmente sottostare a dei limiti nella retribuzione dei propri dirigenti, il che comporta che nella maggioranza dei casi il fondatore di una impresa sociale non possa sedere nel consiglio di amministrazione se desidera essere retribuito, perdendo così il controllo strategico dell’impresa in favore di un board composto di volontari.

Le CIC sono tenute ad utilizzare le proprie risorse in favore della mission per la quale vengono costituite, ed in virtù di questo vincolo la loro attività è sottoposta ad alcune restrizioni.

• Il cosiddetto “Asset Lock” prevede che le CIC non possano trasferire il proprio patrimonio o parti di esso ad un prezzo inferiore al loro prezzo di mercato, a meno che il beneficiario non sia un altro ente soggetto al medesimo vincolo.

• Per i casi in cui lo statuto preveda la possibilità di distribuire dividendi, la normativa ha introdotto un “ Dividend Cap”, che sancisce un tetto massimo al di sopra del quale non è possibile remunerare gli azionisti. Un analogo tetto viene anche applicato al pagamento degli interessi sul debito, nei casi in cui il tasso di interesse venga vincolato alla performance della CIC.

• I tetti posti dalla normativa vigente prevedono: un limite alla remunerazione delle azioni del 5% oltre al tasso base praticato dalla Bank of England (tasso Repo), e un ammontare massimo del totale dei dividendi pari al 35% del totale dei profitti distribuibili.

• La normativa prevede anche la possibilità di distribuire dividendi oltre all’ammontare massimo previsto, in misura della capacità di remunerazione non utilizzata negli esercizi precedenti, fino a un massimo di cinque anni. Il totale dei dividendi distribuiti non deve comunque eccedere il massimo aggregato previsto per l’esercizio in corso.

• Tra gli strumenti consentiti per la raccolta di capitali, è contemplato anche il ricorso al “debt with equity caracteristic”, ossia la possibilità di emettere titoli di debito il cui tasso di interesse concordato venga legato alle performance

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dell’impresa (con indicatori quali i profitti, il fatturato o altre voci del bilancio). Onde evitare il depauperamento dell’impresa aggirando i vincoli posti dalla norma sull’Asset Lock, il legislatore ha previsto un “Interest Cap” che limita il pagamento di interessi sui debiti legati alla performance ad un tetto massimo pari al tasso base della Bank of England aumentato del 4%.

• In caso di scioglimento della CIC gli eventuali assets residui dal pagamento di costi e debiti vengono conferiti ai detentori delle quote o delle azioni in proporzione ai titoli detenuti, nella misura del valore pagato per le azioni o le quote. L’eventuale parte residua del patrimonio dovrà essere conferita a un altro ente a patrimonio vincolato.

Il successo della formula è testimoniato anche dall’accoglienza riservata a questo tipo di impresa: a giugno 2009 le CIC regolarmente registrate erano 285724 con un numero di iscrizioni al registro crescente di anno in anno:

Tabella 14: Iscrizioni CIC per anno

Iscrizioni approvate dal 1 luglio 2005 Periodo

Iscrizioni approvate per anno

Totale cumulato

Luglio 2005 - Marzo 2006 208 208

Aprile 2006 – Marzo 2007 637 845

Aprile 2007 – Marzo 2008 814 1659

Aprile 2008 – Marzo 2009 1,122 2,781

Fonte: Regulator of Community Interest Companies, Aprile 2009

Conclusioni: quale domanda per una Borsa Sociale?

Abbiamo passato in rassegna nelle pagine precedenti alcune delle caratteristiche salienti dei soggetti profit e non profit utili a circoscrivere la possibile domanda di capitale da parte dei soggetti possibili candidati alla quotazione presso la Borsa Sociale e valutarne le dimensioni potenziali. Come già argomentato nella sezione dedicata al contesto, lo scenario che si prospetta presenta alcuni elementi potenzialmente favorevoli all’espansione (sia numerica che dimensionale) delle IFS.

Una crescente domanda di beni e servizi a contenuto sociale proveniente dai cambiamenti in atto nel tessuto socioeconomico italiano si manifesta con evidenza sempre maggiore, come numerosi stimoli provengono dal mercato stesso, in vari ambiti del quale emergono evidenti segni di attenzione alla dimensione etica e ambientale dei comportamenti di consumo, insieme ad una crescente sensibilità alle ricadute socio – ambientali dei comportamenti delle aziende.

Altri stimoli provengono anche dal mondo istituzionale, sia tramite l’introduzione di normative maggiormente attente a questi aspetti (in particolare in ambito ambientale), sia tramite la progressiva affermazione di orientamenti politici che contemplano una

24 Dati tratti dal sito del Regulator of Community Interest Companies: http://www.cicregulator.gov.uk/index.shtml

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visione del welfare più favorevole che in passato a delegare l’erogazione di beni e servizi di carattere sociale all’intervento di soggetti privati, sia non che for profit.

Non ci nascondiamo le indubbie difficoltà che anche l’economia sociale, come ogni altro settore produttivo, incontra nell’attuale periodo di crisi, e non siamo in grado di prevedere quali ne saranno le conseguenze, ma riteniamo che dall’analisi compiuta emerga comunque l’esistenza di un bacino potenziale (per numeri e per contesto) compatibile con la nascita di una Borsa Sociale.

È altamente plausibile d’altronde che questa possa nascere e sostenersi, specie nelle fasi iniziali, con il concorso di alcune condizioni favorevoli:

1. l’onere complessivo del processo di quotazione (sia per la prima ammissione che per il mantenimento) dovrà essere tale da garantire alle imprese emittenti la possibilità di accedere ai finanziamenti a costi comparabili a quelli del tradizionale indebitamento bancario, con tassi e modalità differenti nel caso di emissione delle diverse tipologie di titoli di debito e di rischio;

2. altro aspetto sensibile per l’accesso alla borsa è il tema del potere decisionale degli investitori, che richiede di elaborare modalità di partecipazione che salvaguardino contemporaneamente l’aspirazione di questi ad esercitare poteri di controllo e di gestione connessi all’investimento e la resistenza di molti soggetti ad aprire la compagine sociale per timore di vedere snaturati o comunque intaccati i principi fondativi dell’impresa sociale. La questione, estremamente complessa, potrebbe comporsi su diversi piani di mediazione.

Un primo, ad esempio, in capo alle IFS stesse, che con iniziativa autonoma dei soggetti quotati potrebbero introdurre negli statuti clausole che sanciscano regole di governance tali da garantire le istanze di investitori e fondatori dell’IFS, esplicitando, a titolo di esempio, le finalità dell’impresa e gli strumenti per conseguirle, le regole sul profilo di responsabilità sociale a cui l’impresa debba attenersi, o ancora prevedere meccanismi di gestione del potere decisionale, con l’introduzione di strumenti di bilanciamento dei poteri. Un ulteriore piano di mediazione potrà poi essere il già auspicato intervento legislativo, che conferisca agli strumenti di investimento stessi caratteristiche tali da scongiurarne gli aspetti più speculativi: si pensi ad esempio ai già citati dividend caps e a tutti gli strumenti previsti per le CIC del Regno Unito e per diversi titoli emessi dalle cooperative nostrane;

3. come meglio argomentato in altri passaggi del presente rapporto, una questione dirimente per lo sviluppo dell’economia sociale è quella inerente alla facoltà – sotto determinati vincoli e a certe condizioni – dei soggetti non profit di distribuire utili.

Tale questione, di grande complessità, coinvolge alla base il modello stesso di economia sociale e pone un’ampia serie di problematiche, ma anche alla luce degli sviluppi in atto in numerose realtà estere e in seno allo stesso Parlamento Europeo, la sua discussione non potrà essere a lungo rimandabile.

Una possibile sistemazione della questione non pare nemmeno inarrivabile, potendosi adattare alle specificità del sistema italiano le esperienze già praticate altrove, ed offrire al nostro non profit strumenti di finanziamento con caratteristiche analoghe a quelli concessi alle CIC nel Regno Unito (ossia un tetto alla distribuzione di dividendi, limiti alla remunerazione del capitale,

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vincoli alla distribuzione del patrimonio), peraltro in parte già previsti nel nostro ordinamento dalla normativa sulle cooperative.

È evidente che riguardo al tema qui trattato questo sviluppo potrà comportare una evoluzione radicale del panorama di riferimento, ampliando molto significativamente le possibilità degli enti non profit di accedere a nuove risorse e al tempo stesso di ampliare in qualità e quantità il mercato dei soggetti che avranno la possibilità di ricorrere alla Borsa Sociale;

4. un ulteriore intervento legislativo di importanza determinante, dovrebbe andare nella direzione dell’incentivazione al sostegno dell’economia sociale tramite il riconoscimento di sgravi fiscali sull’investimento in titoli di imprese a scopo sociale. Tale strumento potrebbe riferirsi sia all’investimento tout court tramite il semplice acquisto dei titoli in questione, con modalità comparabili a quanto già avviene per le donazioni alle Onlus, sia alla fiscalità dei profitti derivanti dall’investimento.

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Analisi dell’offerta di capitali (investitori)

Il presupposto su cui si fonda l’idea della Borsa Sociale è che, a fronte di una domanda di capitale rappresentata dalle organizzazioni candidate alla quotazione di cui si è detto nel capitolo precedente, esista una corrispondente offerta, costituita dal risparmio e dai patrimoni di investitori privati e istituzionali intenzionati a indirizzare parte più o meno cospicua del proprio capitale verso investimenti con obiettivi “misti”, cioè di natura economica e di natura finanziaria.

Obiettivo del presente capitolo è quello di identificarli e di stimare l’ammontare che potrebbe essere orientato verso le IFS. Allo scopo, abbiamo segmentato il mercato e abbiamo svolto una ricerca quali-quantitativa, di cui daremo conto, utilizzando fonti esistenti e somministrando una serie di interviste a soggetti qualificati.

Investitori istituzionali

Pur non essendo data una definizione universalmente condivisa, in generale si intendono istituzionali quei soggetti che "istituzionalmente" - e cioè per motivi inerenti al proprio oggetto sociale - investono grandi somme di denaro25. Tipicamente, non usano lo strumento del debito come forma di raccolta e, in particolare, del deposito. Gli investitori istituzionali hanno la particolarità di non poter essere insolventi, in quanto scaricano il rischio sui soggetti nel cui interesse operano la gestione finanziaria o sui mezzi propri. Per questa ragione, possono effettuare investimenti consistenti sul mercato dei capitali.

In verità, per evitare errori derivanti da doppi conteggi, occorre sempre tenere a mente che in molti casi l’investitore finale, cioè il proprietario degli asset gestiti, è una persona fisica. Quindi, quando si considera il patrimonio delle famiglie, per esempio, si include sia la quota che esse amministrano direttamente, sia quella che affidano in gestione a terzi (gli investitori istituzionali di cui sopra, per l’appunto). Ai nostri fini, tuttavia, è possibile tenere distinte le cose con un sufficiente grado di precisione.

Proprio per il fatto che solitamente gestisce un patrimonio nell’interesse di terzi, l’investitore istituzionale agisce sulla base di un mandato – esplicito o implicito – dell’investitore finale (l’asset owner), che definisce le regole cui si deve attenere (nel caso in cui non ci sia un mandato è lo stesso soggetto a dotarsi di regole che lo impegnano a comportarsi in un certo modo).

Nel caso dei fondi pensione, per esempio, il mandato è quello di provvedere al più alto livello possibile di previdenza integrativa; nel caso dei fondi comuni, quello stabilito nel regolamento, eccetera. Tipicamente, poiché l’obiettivo della gestione è di natura finanziaria, si presume che consista nella massimizzazione del ritorno atteso, a determinate condizioni di rischio. Gli obiettivi di natura “extrafinanziaria”, come quelli ambientali o sociali, possono quindi entrare nelle valutazioni dei gestori se:

25 Gli investitori istituzionali sono quelli che lo fanno “istituzionalmente” e per questo hanno meno necessità di essere tutelati rispetto agli investitori retail. Investitori istituzionali sono sicuramente i fondi e le fondazioni, insieme a banche, assicurazioni e finanziarie, In alcune giurisdizioni sono equiparati agli investitori istituzionali gli investitori sofisticati, i c.d. high net worth individuals (vale a dire quelli che investono più di 500.000 euro). Non sono investitori istituzionali per definizione né gli enti religiosi, né le grosse corporate per cui sarebbe necessario segnalare che la definizione che si vuole utilizzare di investitori è quella di norma utilizzata nel diritto del mercato finanziario.

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• il mandato li prevede esplicitamente (come nel caso dei fondi cd etici o socialmente responsabili)

• si ritenga che l’integrazione di aspetti ambientali, sociali o di governance (in inglese, environment, social and governance, da cui l’acronimo ESG) non solo non penalizzino la performance finanziaria, ma anzi riducano i rischi e consentano di cogliere opportunità di mercato – sulla base del presupposto che le variabili ESG stiano diventando fattori di selezione competitiva e che quindi i soggetti che li gestiscono meglio siano anche quelli più promettenti in termini di risultati economici26.

La questione della legittimità di una gestione finanziaria che tenga conto degli aspetti ESG è stata a lungo dibattuta, soprattutto nei Paesi (Gran Bretagna in primo luogo) in cui la pratica si è diffusa prima. Negata per lungo tempo, stigmatizzata come una violazione dei doveri fiduciari del gestore nei confronti dell’investitore, è stata risolta in via dottrinaria dal cd Freshfield Report27, un parere pro veritate richiesto da un’associazione di investitori ad un importante studio legale internazionale, che ha concluso:

“Conventional investment analysis focuses on value, in the sense of financial performance. […] the links between ESG factors and financial performance are increasingly being recognised. On that basis, integrating ESG considerations into an investment analysis so as to more reliably predict financial performance is clearly permissible and is arguably required in all jurisdictions.

It is also arguable that ESG considerations must be integrated into an investment decision where a consensus (express or in certain circumstances implied) amongst the beneficiaries mandates a particular investment strategy and may be integrated into an investment decision where a decision-maker is required to decide between a number of value-neutral alternatives.”

In particolare, poi, con riferimento al contesto britannico, il rapporto afferma:

“Where the purpose of an investment power is to generate returns, a decision-maker must always treat this purpose as the primary objective to be achieved, applying a modern portfolio approach and having regard to the interests of all of the beneficiaries. However, the question is not a zero-sum equation of either maximising returns or favouring ESG issues, but of taking all relevant factors into consideration in a prudent and properly motivated investment analysis. It is not a breach of fiduciary duties per se to have regard to ESG considerations while pursuing the purposes of the trust. Rather, in our opinion, it may be a breach of fiduciary duties to fail to take account of ESG considerations that are relevant and to give them appropriate weight, bearing in mind that some important economic analysts and leading financial institutions are satisfied that a strong link between good ESG performance and good financial performance exists. Further, it is also permissibile (and in some circumstances mandatory) to integrate ESG considerations where their integration accords with the best interests of the beneficiaries (established via implied or express

26 Sul tema dell’impatto sulla performance finanziaria dell’applicazione di pratiche di investimento responsabile sono stati realizzati numerosissimi studi empirici, senza peraltro arrivare a conclusioni definitive. La pubblicazione che fa sintesi di questa letteratura è Demystifying Responsible Investment Performance, – UNEP FI Asset Management Working Group, 2007 27 A legal framework for the integration of environmental, social and governance issues into institutional investment – UNEP FI Asset Management Working Group, 2005

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consensus) or where they act as a point of differentiation among equally attractive investment alternatives”28.

Un successivo, recentissimo, rapporto della stessa UNEP – FI29 va addirittura oltre e arriva a sostenere che i gestori che non considerino gli aspetti ESG nelle proprie attività di servizio agli investitori istituzionali possono essere considerati colpevoli di negligenza. Secondo il rapporto, in molti ordinamenti giuridici il concetto di duty of care può essere esteso fino a comprendere ogni variabile che influenzi il profilo di rischio/rendimento di un portafoglio, tra cui ci sono certamente quelle ambientali e sociali.

A ben vedere, tuttavia, quando l’integrazione dei parametri ESG è finalizzata alla riduzione dei rischi o alla massimizzazione dei ritorni finanziari, non si realizza un cambio della natura del mandato. È un modo diverso di perseguire il medesimo obiettivo. Il problema sta solo nel provare se funzioni o meno. Ma la questione si presenta negli stessi i termini con cui abbiamo descritto l’approccio “strumentale” alla CSR: la responsabilità sociale è una strategia più moderna per perseguire gli obiettivi di sempre. Oggi vengono considerate variabili che un tempo non sembravano rilevanti (il rapporto coi dipendenti, con l’ambiente, con i fornitori, i rischi reputazionali, la fedeltà dei clienti e così via) perché oggi il mondo è cambiato e le imprese si devono adeguare; ma lo scopo rimane il medesimo.

Anche per questi motivi, con sempre maggior frequenza, anche in Italia, ma soprattutto all’estero, gli investitori istituzionali applicano pratiche di investimento [socialmente] responsabile (in inglese, socially responsible investment, da cui l’acronimo SRI). Sono responsabili le pratiche in base alle quali agli obiettivi tipici della gestione finanziaria, cioè l’ottimizzazione del rapporto tra rischio e rendimento in un dato orizzonte temporale, vengono affiancate considerazioni di natura etica, ambientale, sociale o di governance (ESG). Nato nell’ambito degli investitori religiosi, l’affermazione dell’SRI in forme paragonabili a quelle attuali si colloca a margine della contestazione da parte delle organizzazioni studentesche universitarie americane nei confronti del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam; esse iniziarono a criticare l’investimento da parte delle Università (per lo più fondazioni di natura privata) e dei fondi pensione del personale in imprese direttamente o indirettamente coinvolte nel conflitto. L’investimento diventa strumento di promozione del cambiamento sociale. L’uso del denaro viene considerato atto “non neutrale” e perciò politico, in relazione agli effetti che produce.

A questo periodo risale anche la nascita, sempre negli Stati Uniti, del primo fondo comune etico, il Pioneer Fund, che gestiva gli investimenti di varie istituzioni religiose applicando criteri di esclusione nei confronti dei titoli di imprese operanti nel settore del tabacco, dell’alcool e del gioco d’azzardo.

Il momento topico di questa fase storica è rappresentato dalla lotta al regime segregazionista sudafricano. Di nuovo, la figura di spicco è quella di un religioso, il reverendo Leon Sullivan, il quale, intorno alla metà degli anni ’70, riuscì a sollecitare un ampio movimento di opinione e di organizzazione dell’azionariato di alcune grandi corporations. Elaborò una serie di principi di comportamento, diventati noti col suo nome, secondo i quali le imprese statunitensi operanti in Sudafrica avrebbero dovuto applicare gli stessi principi di equità e non discriminazione vigenti nella madrepatria anche ai lavoratori sudafricani. Al lancio di questi principi seguirono vaste operazioni di boicottaggio finanziario e massicce forme di pressione sui manager e sui board 28 ibidem, pag. 100 29 Fiduciary responsibility - Legal and practical aspects of integrating environmental, social and governance issues into institutional investment -– UNEP FI Asset Management Working Group, 2007

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delle multinazionali americane coinvolte più o meno direttamente in pratiche di apartheid. Il movimento registrò alcune clamorose vittorie e l’approccio dell’azionariato attivo si consolidò come uno strumento di promozione e di partecipazione civica.

A partire dagli anni ’80, il fenomeno inizia a consolidarsi anche in Europa, in particolare nel Regno Unito, Paese in cui, nel 1984, viene lanciato il fondo il Friends Provident’s Stewardship Trust. Ma è con gli anni ’90 che la finanza socialmente responsabile compie un salto di qualità e si pone come un esempio reale per tutto il mondo degli investimenti.

Gli SRI hanno fatto la loro comparsa sulla scena italiana in tempi relativamente recenti. Il primo comparto etico è stato costituito nel 1997 da una società di gestione del risparmio del gruppo Sanpaolo IMI. L’esempio della “linea etica” è stato seguito da diverse società di gestione che hanno a loro volta lanciato prodotti simili.

I prodotti finanziari socialmente responsabili sono prodotti che favoriscono la coesione sociale attraverso il finanziamento di progetti e di imprese che presentano un valore aggiunto per l’uomo, la cultura e/o l’ambiente, ossia che hanno un plusvalore sociale, culturale e/o ambientale. I prodotti di risparmio solidale sono disponibili nelle stesse forme dei prodotti di risparmio tradizionali. In base ai suoi criteri di rischio, di liquidità e di rendimento, il risparmiatore può scegliere di investire il suo denaro in conti di risparmio, conti a termine, in SICAV e in fondi comuni di investimento, assicurazioni-vita o ancora in azioni e quote sociali di organizzazioni solidali.

Lo strumento più tipico attraverso cui gli SRI vengono realizzati è il cosiddetto screening, che consiste nel selezionare i titoli da inserire in un portafoglio finanziario attraverso l’analisi del comportamento delle società emittenti secondo criteri ESG. La selezione viene fatta in base a dei criteri negativi (o di esclusione ) e criteri positivi (o di inclusione).

Con criterio negativo si intende una condizione, o una serie di condizioni che, ove si verifichino, comportano l’esclusione della società in esame. Si tratta quindi di una limitazione della libertà di acquisto da parte di un gestore che si impegna a non investire in determinate aziende e in determinati settori che presentano problematiche di ordine ESG come per esempio produzione e del commercio di armi, produzione e distribuzione del tabacco o delle biotecnologie per usi alimentari, il settore chimico e petrolifero che possono essere considerati non compatibili dal punto di vista ambientale.

Non è facile definire in termini assoluti se un’impresa, un settore sono o non sono socialmente responsabili e questa metodologia di screening per esclusione, che è relativamente semplice, può comportare riduzioni significative dell’universo investibile e non sempre riesce a stimolare un reale cambiamento da parte delle imprese escluse.

I criteri più diffusi di screening negativo riguardano:

• Istanze di tipo morale come la produzione di tabacco o alcool, attività legate al gioco d’azzardo o alla pornografia, la produzione o il commercio di armamenti, l’utilizzo di energia genetica, la produzione di organismi geneticamente modificati, la pratica di test su animali per scopi medici, …

• Istanze di tipo sociale come la violazione di norme di tutela dei diritti umani, il mancato rispetto della disciplina in materia di tutela del lavoro, la carenza di

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chiare regole di corporate governance, la presenza connivente dell’impresa in paesi caratterizzati da regimi oppressivi, …

• Istanze di tipo ambientale come l’inquinamento grave, la deforestazione, l’uso inefficiente dell’energia e delle risorse naturali, …

Si applicano, invece, criteri positivi, quando la selezione dei titoli comprende aziende per le quali sia prassi consolidata l'applicazione di comportamenti socialmente responsabili, di codici etici di comportamento e di codici di corporate governance. Si parla in questi casi di approccio best in class, che si basa appunto sulla scelta di imprese che, all’interno del settore di appartenenza, si distinguono per l’elevato profilo ambientale o sociale anche quando il settore, nel suo complesso, è a rischio dal punto di vista della sostenibilità socio-ambientale.

Si consideri ad esempio il settore della produzione di energia: l’economia dei paesi industrializzati si basa sull’utilizzo di combustibili fossili. Dal punto di vista ambientale, si tratta indubbiamente di fonti ad altissimo impatto, che quindi dovrebbero essere escluse. Nondimeno, anche all’interno del settore energy, possono essere operati dei distinguo tra imprese che hanno avviato percorsi di ripensamento della propria strategia rispetto ad altre, focalizzate solo sul business tradizionale.

Nel caso poi di titoli del debito pubblico, si ha riguardo alla qualità delle politiche e delle prassi in materia di tutela e valorizzazione del capitale umano (diritti umani, diritti civili, partecipazione democratica, libertà …), del capitale sociale (sanità, istruzione, giustizia …) e del capitale naturale (aree protette, biodiversità, uso dell’energia …).

In ogni caso, soprattutto in relazione alle considerazioni svolte in introduzione, a fronte del riconoscimento di un potenziale importante dell’SRI in termini di promozione del cambiamento, ne vanno anche ammessi i limiti: l’SRI si realizza attraverso l’investimento in titoli quotati nei grandi mercati internazionali; ciò significa che è orientato verso imprese di dimensioni medio-grandi, spesso molto grandi, che, per definizione, sono le più tradizionali imprese capitalistiche. Di più, per ragioni legate alla diversificazione del rischio e alla riduzione della volatilità, la scelta dei titoli è naturalmente orientata verso i titoli a maggior capitalizzazione. Ne risulta che i portafogli SRI non sono poi così diversi da quelli “normali”. Ci si trovano i titoli delle grandi multinazionali – al più, “depurati” da quelli meno presentabili.

Un altro esempio molto chiaro è quello dei cosiddetti indici “di sostenibilità”. Si tratta di indici finanziari calcolati sulla base di panieri di titoli selezionati secondo criteri di responsabilità sociale. Nella maggioranza dei casi, si tratta di sottoinsiemi dei costituents degli indici finanziari tradizionali. Così, il Dow Jones Sustainability è un derivato del Dow Jones “tradizionale”; lo stesso vale per il FTSE4Good, e così via. E, di nuovo, l’esito di questi esercizi è l’eliminazione dei titoli peggiori dal punto di vista sociale o il soprappeso di quelli delle imprese con le performance sociali e ambientali più brillanti.

Anche in questo caso, peraltro, non interessa tanto dimostrare l’insufficienza dell’SRI, quanto la necessità di allargare la gamma delle possibilità. L’idea delle IFS e della Borsa Sociale non sono alternative all’SRI; possono benissimo convivere. La crescita dell’SRI

Si può discutere se sia più utile modificare, magari anche di poco, le politiche e le pratiche di un’impresa che ha centinaia di migliaia di dipendenti e miliardi di fatturato piuttosto che sostenere la nascita o la crescita di una piccola impresa radicalmente diversa. Senza prendere una posizione su questo dilemma, ci limitiamo a rilevare la

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differenza di obiettivi e di strumenti dei due approcci e a constatare che l’SRI così com’è funziona bene al primo scopo, ma è inadeguato rispetto al secondo.

Le Fondazioni

Il primo attore su cui ci concentriamo sono le fondazioni. Secondo i più recenti dati Istat30, al 31 dicembre 2005 le fondazioni attive erano 4.720, con un trend demografico di rapida crescita. Alla stessa data il patrimonio complessivo delle fondazioni ammontava complessivamente a € 85 mld, con un importo medio pari a circa € 18 mln per fondazione. Circa la metà del patrimonio complessivo è gestito dalle fondazioni bancarie e un altro 20% dagli enti di previdenza privatizzati. Nelle fondazioni erogative risulta concentrato il 60,2% del patrimonio totale (circa € 50 mld).

In particolare, interessa ai fini del nostro studio la categoria delle fondazioni di origine bancaria (FOB), la cui genesi e la cui disciplina sono ben note a chi si occupa dei nostri temi.

Il patrimonio delle FOB a fine è stimato in quasi € 77 mld31. La struttura generale degli investimenti si è mantenuta piuttosto stabile nel tempo dopo il completamento della progressiva (parziale) dismissione delle partecipazioni nelle banche conferitarie. L’attivo è costituito per oltre il 95% da attività finanziare, mentre le immobilizzazioni materiali rappresentano solo l’1,9%.

Obiettivi finanziari e strumenti utilizzati

Con riferimento all’attività di investimento finanziario più classica, le FOB agiscono secondo strategie di allocazione piuttosto diverse tra loro. Alcune attuano un’ampia diversificazione, operando in tutte le classi di attivo; altre concentrano quote relativamente significative in singole imprese. Complessivamente, infatti, circa il 16% del patrimonio è investito in “altre società”, per lo più imprese attive nel tessuto locale per la gestione di infrastrutture o servizi pubblici locali nelle comunità di riferimento. Nell’ambito delle attività finanziarie più tipiche, circa un quarto del patrimonio è investito nelle banche conferitarie, mentre oltre la metà in altri strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, quote di fondi etc). In generale, si registra una riduzione della quota di patrimonio amministrata direttamente a favore di forme di gestione esterna: le gestioni patrimoniali pesano circa il 25% dell’attivo.

Le FOB risultano particolarmente interessanti ai fini della nostra ricerca perché riassumono più di qualsiasi altro investitore istituzionale le caratteristiche di natura sociale degli obiettivi. Infatti, stabilisce il d.lgs. 19/5/99, n. 153, art. 5, “Il patrimonio della Fondazione è totalmente vincolato al perseguimento degli scopi statutari ed è gestito in modo coerente con la natura delle Fondazioni quali enti senza scopo di lucro che operano secondo principi di trasparenza e moralità. Le Fondazioni, nell'amministrare il patrimonio, osservano criteri prudenziali di rischio, in modo da conservarne il valore ed ottenerne una redditività adeguata”.

Con riferimento agli aspetti di responsabilità sociale, le politiche delle FOB, con rare eccezioni, sono ispirate a quella che in letteratura viene chiamata la logica “dei due tempi”, in base alla quale la generazione e distribuzione della ricchezza rispondono a logiche sostanzialmente diverse. In parole più semplici, business is business, philantrophy is philantrophy: nella creazione del valore, si deve puntare alla

30 Fonte 31 Rapporto ACRI, www.acri.it

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massimizzazione del ritorno – che poi può essere redistribuito alla collettività in misura più o meno ampia. Questo approccio è stato realizzato nella forma più esplicita dai grandi tycoon americani dell’ottocento e dei primi del novecento, imprenditori spietati e privi di scrupoli, ma anche munifici benefattori e generosi donatori. Anche le fondazioni nostrane sembrano voler tenere ben distinte le cose: gli investimenti devono tendere al profitto più ampio possibile, in modo che maggiori siano le risorse da destinare all’attività erogatoria; come facciano le imprese in cui i patrimoni sono investiti a produrre questa ricchezza, poco o nulla importa. Questa pratica espone le FOB, è di tutta evidenza, a pesanti contraddizioni: si può sostenere la ricerca sul cancro coi proventi di investimenti in imprese che ne causano la diffusione; si può sostenere la bonifica ambientale di un sito grazie ai dividendi di un’impresa che inquina i suoli – e così via. Queste contraddizioni non emergono nel dibattito politico, neanche a livello locale, un po’ a causa del conflitto di interesse in capo agli amministratori delleFOB, che sono nominati dagli enti che poi beneficiano delle donazioni, un po’ a causa della scarsa attenzione da parte degli stakeholder, cioè dei soggetti, a partire dai media, che dovrebbero agire da “cani da guardia” degli interessi collettivi e stimolare le FOB a comportamenti allineati con gli scopi che sono loro propri.

Opportunità e limiti nell’utilizzo di forme di investimento responsabile

Oltre alla pratica dell’SRI, uno strumento che potrebbe ricondurre a coerenza la posizione delle FOB è quello dei cosiddetti mission-related investment. Si tratta di investimenti finanziari (realizzati quindi attraverso l’allocazione del patrimonio stabile, non della quota di esso dedicato all’attività erogatoria) il cui obiettivo non sia solo quello di un ritorno economico, ma anche di un ritorno sociale coerente con la missione della fondazione.

Questo tipo di investimenti è più complicato, perché, proprio per il fatto che si pone obiettivi “misti”, richiede professionalità ibride. La logica dei due tempi è relativamente semplice, nel senso che il mestiere di chi si occupa di money in e chi si occupa di money out sono chiaramente distinti e rispondono a requisiti riconosciuti e consolidati. Immaginare una funzione diversa può risultare destabilizzante.

Il problema più delicato è tuttavia un altro, cioè l’ammissibilità stessa di questo tipo di pratiche. Le FOB (d.lgs. 153/99, art. 2) “Perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico”, operando “nei settori ammessi e […] in via prevalente nei settori rilevanti”; esse (art. 3 c. 1) “… perseguono i propri scopi con tutte le modalità consentite dalla loro natura giuridica”. Fin qui, non sembrano sussistere ostacoli. Tuttavia, (art. 3 c. 2) “è esclusa […] qualsiasi forma di finanziamento, di erogazione o, comunque, di sovvenzione, diretti o indiretti, ad enti con fini di lucro o in favore di imprese di qualsiasi natura, con eccezione delle imprese strumentali, delle imprese sociali e delle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, e successive modificazioni”. Ora, l’investimento in IFS che abbiano la natura giuridica di società commerciali (quindi, teoricamente, con scopo di lucro), rientra in questo divieto? A nostro avviso, no, perché la fattispecie dovrebbe rientrare nella disciplina della gestione del patrimonio, il cui vincolo principale rimane quello del “perseguimento degli scopi statutari” (art. 5 c. 1), con cui la forma di investimento di cui parliamo non contrasta affatto. Problematica è anche la previsione contenuta nel successivo comma 2, secondo cui “La gestione del patrimonio è svolta con modalità organizzative interne idonee ad assicurarne la separazione dalle altre attività della Fondazione”, anche se il riferimento alla dimensione organizzativa non sembra porre una barriera invalicabile.

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In conclusione, appare piuttosto chiaro che il legislatore avesse in mente il modello “dei due tempi”, ma un’interpretazione estensiva, non forzata, della lettera del decreto ci sembra renda plausibile la nostra ipotesi. Non c’è dubbio, tuttavia, che il punto di svolta sia di natura culturale e professionale: quello che proponiamo è un’attività che richiede le competenze di un gestore finanziario, di un gestore di private equity e di un esperto di economia sociale.

Gli enti religiosi

L’analisi dell’attività di investimento degli enti religiosi è estremamente complessa, da un lato in relazione all’articolazione dei soggetti che ne fanno parte e dall’altro per la scarsa trasparenza che contraddistingue questo specifico aspetto della vita di questi soggetti.

All’interno della categoria consideriamo in particolare gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica (ordini e congregazioni) e le diocesi. Non consideriamo, invece, le istituzioni finanziarie direttamente collegate allo Stato della Città del Vaticano (lo IOR – Istituto Opere Religiose e l’Apsa – Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica).

Per quanto riguarda i primi, la responsabilità della gestione finanziaria per ciascuna di queste organizzazioni è affidata ad un/a economo/a, quasi sempre un/a religioso/a, spesso affiancato da uno o più laici. La “famiglia professionale” è organizzata nel CNEC – Centro Nazionale degli Economi di Comunità, che fornisce servizi ed occasioni di incontro e di scambio agli appartenenti alla rete. Anche le diocesi hanno ovviamente degli economi, che però fanno riferimento alla CEI – Conferenza Episcopale Italiana.

Diversamente da quanto si potrebbe essere portati a pensare, all’interno di questo variegato mondo, ciascun soggetto gode di un’ampia autonomia. Non esistono processi di decisione fortemente accentrati e i punti di coordinamento, al più, offrono sussidi o suggeriscono orientamenti generali, senza entrare nel merito delle scelte delle singole organizzazioni. Forse anche per questo motivo, non è facile ricostruire una fotografia completa della situazione e ottenere una stima attendibile della dimensione e delle caratteristiche del patrimonio da esse amministrato. A ciò si aggiunge una forma di riservatezza, di natura culturale, che porta gli enti religiosi a parlare poco e mal volentieri delle loro attività economiche.

Obiettivi finanziari e strumenti utilizzati

Le politiche di gestione dei patrimoni degli enti religiosi variano ovviamente in relazione alla loro entità e alla natura dei flussi che li alimentano. La principale fonte è tutt’ora rappresentata dalle donazioni, che però sono in costante calo negli ultimi anni. Le diocesi beneficiano dei proventi del meccanismo dell’8 per mille, il cui importo si è stabilizzato tra € 6 e 700 mln32. Proprio per la natura di fondo rolling (che ogni anno viene utilizzato e si ricostituisce), la gestione finanziaria è orientata alla liquidità a breve; quindi, con scarsi margini di intervento in termini di allocazione su classi di attivo rischiose e con orizzonti temporali medio-lunghi, come l’azionario.

Occorre tener presente, inoltre, che una quota – anche in questo caso variabile da caso a caso, ma in generale piuttosto pesante – del patrimonio è rappresentata da

32 www.8xmille.it

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asset immobiliari. Si tratta di cespiti dedicati in parte alle attività di culto (chiese, monasteri …), in parte all’esercizio di attività strumentali alla missione (scuole, ospedali, case di cura…), in parte a utilizzi finalizzati alla generazione di reddito (abitazioni o locali commerciali locati a terzi).

In assenza di un’analisi sistematica delle prassi di investimento degli enti religiosi, ci si affida alle considerazioni degli operatori, basate su evidenze empiriche. Da esse, sembra di potersi ricavare un’indicazione di grande eterogeneità. Sono relativamente pochi gli enti religiosi che si siano dotati di un sistema di amministrazione del patrimonio professionalmente avanzato e che abbiano stabilito processi di investimento strutturati. Nella maggioranza dei casi, le scelte strategiche di allocazione – e, a maggior ragione, quelle tattiche – sono affidate alla banca di riferimento o a consulenti, selezionati più per la prossimità culturale o valoriale che per la competenza tecnica. In ogni caso, quando esista una quota sufficientemente robusta del patrimonio da dedicare ad una gestione finanziaria in senso proprio, la componente obbligazionaria è largamente prevalente.

Opportunità e limiti nell’utilizzo di forme di investimento responsabile

Le considerazioni svolte sopra sulle fondazioni possono applicarsi, almeno in una certa misura, anche agli enti religiosi. Non del tutto, ovviamente, perché per le fondazioni il patrimonio è una componente essenziale (si potrebbe arrivare a dire che la fondazione è un’organizzazione costruita attorno al patrimonio), mentre per un ente religioso è accessoria (una congregazione potrebbe benissimo esistere senza un patrimonio – anzi, secondo alcuni dovrebbe). Nondimeno, per gli enti religiosi che un patrimonio ce l’hanno, l’approccio basato sul concetto di mission-related investment mantiene un suo senso. Sotto questo profilo, le esperienze più avanzate sono registrabili in nord America e, in forme diverse, in nord Europa.

Il caso di riferimento più noto è rappresentato da ICCR (Interfaith Centre on Corporate Responsibility33), un’associazione di investitori religiosi di varie confessioni che da un lato fornisce servizi di informazione sulle politiche e le prassi di responsabilità sociale delle imprese quotate (secondo le regole SRI di cui si è detto sopra) e coordinano le attività di azionariato attivo dei membri. Senza entrare nel merito dei contenuti di questa vasta attività, su cui ci sarebbe molto da dire, rilevano ai nostri fini soprattutto due aspetti: innanzitutto, quello della trasparenza. Gli enti religiosi in nord America e in nord Europa non si vergognano dei denari che hanno, pubblicano bilanci chiari e intelleggibili, dichiarano le proprie politiche di investimento, si sottopongono al giudizio dei fedeli (contributori). Questa circostanza è legata indirettamente ai temi di cui trattiamo in questo rapporto, nel senso che è un pre-requisito, necessario ma non sufficiente, per ulteriori passi. Il secondo aspetto è il riconoscimento del valore sociale dell’investimento, cioè dell’importanza di considerare le conseguenze sociali (e morali) dell’attività finanziaria. Da qui si può partire per avanzare alcune ipotesi di lavoro anche per gli enti religiosi. Di nuovo, sottolineiamo che queste considerazioni valgono solo nella misura in cui esista un patrimonio sufficientemente grande e quindi differenziato in termini di investimento da rendere sensata la proposta dell’allocazione di una parte di esso in IFS. Ove questa circostanza si realizzi, appare del tutto coerente per un ente religioso investire quota parte delle proprie disponibilità in attività imprenditoriali orientate al perseguimento di scopi coerenti coi valori che esso stesso promuove. Peraltro, se non gli enti religiosi direttamente, spesso organizzazioni che essi provengono sono gli idealtipi di IFS di

33 www.iccr.org

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cui abbiamo parlato e parleremo – soprattutto nei settori della sanità, dell’educazione, dei servizi alla persona e così via.

Tecnicamente, riteniamo che la costituzione di un veicolo di investimento dedicato agli investitori religiosi (per esempio, un fondo) sia lo strumento ideale per canalizzare grandi o piccole somme che potrebbero essere raccolte presso le decine e decine di soggetti che costituiscono questo universo in modo da garantirne una gestione efficiente e coordinata.

I fondi pensione

Con le riforme degli anni 90, alla previdenza obbligatoria garantita dagli enti di primo pilastro, anche in Italia è stato affiancato un sistema di previdenza complementare articolata in forme collettive (secondo) e individuali (terzo pilastro). I fondi pensione e le altre forme di previdenza complementare raccolgono il risparmio previdenziale di aderenti e iscritti e lo investono secondo approcci finanziari prudenziali, così da mantenere e incrementare il patrimonio che sarà utilizzato per erogare le rendite pensionistiche. Da questo punto di vista, essi sono a tutti gli effetti investitori istituzionali – anche se non manca chi discute questa natura, ritenendoli piuttosto degli intermediari.

Obiettivi finanziari e strumenti utilizzati

A fine 2008, il mercato previdenziale italiano era così strutturato34:

Tabella 15: le forme di previdenza complementare in Italia

Tipo di forma Numero Iscritti Patrimonio (€ mln)

Fondi negoziali 41 2.043.605 14.092

Fondi aperti 81 798.007 4.663

Fondi preesistenti 411 677.453 35.941

PIP (nuovi e vecchi)

75 1.376.151 6.594

4.853.605 61.306

Fonte: www.covip.it

Il modello prevalente (obbligatorio per i fondi negoziali, assai diffuso tra i pre-esistenti) è quello del mandato affidato a società di gestione.

Con riferimento alle classi di attivo, la situazione è così riassumibile:

Tabella 16: asset class negli investimenti delle forme di previdenza complementare

Tipo di forma Depositi (%) Titoli di debito (%)

Titoli di capitale (%)

OICR, altre attività e

passività (%)

34 dati tratti dalla Relazione Covip 2009

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Fondi negoziali 3,6 74,4 15,6 6,3

Fondi aperti 5,9 51,3 20 22,8

Fondi preesistenti

5,8 63,8 9,5 20,9

PIP (nuovi) 10,8 28,2 32,1 28,9

Fonte: www.covip.it

Va peraltro ricordato che i FP attivati dopo la riforma sono tenuti al rispetto di limiti quantitativi per ogni asset class, fissati per decreto. Nel merito, rilevano ai nostri fini due aspetti specifici dell’investimento pensionistico:

- il peso largamente maggioritario della quota di titoli del debito pubblico all’interno della categoria dei titoli di debito

- la quota relativamente bassa (attorno al 2%) di azioni italiane tra i titoli di capitale. Peraltro, esse sono per lo più rappresentate da imprese a larga capitalizzazione.

Opportunità e limiti nell’utilizzo di forme di investimento responsabile

In ragione degli obiettivi previdenziali, i FP sono vincolati a politiche di investimento particolarmente prudenti. Le asset class più rischiose sono di fatto escluse. Questa circostanza peraltro rappresenta un problema di ordine politico, nel senso che con la nascita del secondo pilastro, è intervenuto un fenomeno di finanziarizzazione delle risorse destinate alla previdenza complementare. Come tutti gli investitori istituzionali, e più di altri, i FP hanno seguito una logica di riduzione del rischio che li ha portati a replicare più o meno passivamente la composizione dei principali indici globali, nei quali il mercato italiano pesa relativamente poco. Il conferimento del TFR ha ulteriormente accentuato la dimensione del problema, in quanto risorse finanziarie dei lavoratori italiani vengono, alla fine, indirizzate al sostegno di sistemi economici stranieri. Se a queste circostanze si aggiunge la (reale o temuta) restrizione del credito bancario, si comprende la minaccia per il sistema economico italiano di non riuscire a garantirsi l’accesso alle risorse finanziarie necessarie alla crescita. Molti operatori del settore si stanno perciò interrogando su come evitare un drenaggio di risorse che porti ad un impoverimento del sistema Italia. Da questo punto di vista, riteniamo che l’accesso alla Borsa Sociale possa rappresentare parte della soluzione al problema, soprattutto se realizzato attraverso veicoli di investimento riservati ai FP, in modo da ridurre il rischio sia attraverso una adeguata diversificazione sia in forza dell’utilizzo di competenze professionali nella selezione degli emittenti in portafoglio.

Le imprese

Tra gli investitori istituzionali, normalmente non vengono ricompresse le imprese. Tipicamente, infatti, esse sono prenditrici di denaro – tendono cioè a indebitarsi coi mercati per finanziare l’avvio gli investimenti che poi sono destinati a generare il plusvalore e a remunerare i prestatori (abbiano essi fornito capitale di credito o di rischio o di debito). Nondimeno, spesso le imprese dispongono di liquidità in eccesso o comunque mantengono un portafoglio di partecipazioni in società collegate al loro business – per ragioni di strategia industriale o puramente finanziaria. È questo il caso che, ancorché marginale nel quadro complessivo che abbiamo delineato, ci

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interessa. Immaginiamo, infatti, che alcune grandi imprese, possano valutare la partecipazione in IFS come forma di esercizio di pratiche di CSR.

Opportunità e limiti nell’utilizzo di forme di investimento responsabile

In Italia operano circa 4,5 milioni di imprese; oltre il 95% ha meno di 10 addetti; solo il 3,5% ne ha più di 250.

Come detto, il caso qui considerato è che alcune imprese possano valutare l’acquisto di titoli emessi da IFS come elemento di una strategia di responsabilità sociale. Molte di esse destinano parte dei propri utili a beneficenza. Si tratta di cifre che, sommate, non sono insignificanti. Secondo una ricerca IRS per il Summit della Solidarietà realizzata nel 200535, incentrata esclusivamente sulle erogazioni liberali fiscalmente deducibili, sono state più di 34 mila (2,3% del totale) le società che hanno elargito donazioni alle organizzazioni nonprofit; questa percentuale é aumentata progressivamente, sia in termini di numero di imprese donatrici che di importo complessivamente devoluto (circa € 266 mln nel 2001 – donazione media € 8000). La generosità delle imprese – rapporto fra donazioni e risultato economico al lordo delle imposte – è pari allo 0,45%, che tende a crescere all’aumentare della redditività e del fatturato aziendale.

Talvolta, ma non sempre, esiste un collegamento tra l’attività dell’impresa e quella dell’organizzazione beneficiata dalle erogazioni liberali. La beneficenza è motivata dal dovere morale dell’impresa di contribuire al progresso della comunità in cui opera e dalla quale ricava una serie di utilità che contribuiscono alla creazione del valore.

L’opportunità è quindi rappresentata dal legame che si può creare tra un’impresa for profit classica e un’IFS anche attraverso il sostegno della prima allo sviluppo della seconda mediante la fornitura di capitale.

Nella gestione delle risorse finanziarie disponibili, in verità, la prospettiva dell’investimento in IFS così come lo stiamo immaginando presenta qualche profilo di problematicità. A seguito di una serie di interviste qualitative con alcune grandi imprese industriali italiane, abbiamo rilevato come la maggior parte di esse abbia policy piuttosto stringenti sull'impiego di eventuali eccedenze di liquidità, che vengono per lo più destinate esclusivamente a depositi bancari. Ciò è dovuto sia a motivi di riduzione del rischio sia all'esigenza di essere liquidi in ogni momento per esigenze di carattere industriale o finanziario. Inoltre, mentre i depositi bancari possono essere scalati dal debito (e quindi determinare un abbassamento dell'indebitamento netto) i titoli di debito non consentono questa possibilità; a parità di indebitamento lordo, quindi, un’azienda che investisse le proprie liquidità in bond avrebbe un indebitamento netto maggiore rispetto ad una che tenesse la propria liquidità in depositi bancari. Il caso potrebbe essere diverso per aziende finanziarie o bancarie.

Per la parte di investimento in azioni, invece, le resistenze sono legate soprattutto agli oneri amministrativi legati alla gestione della partecipazione.

I fondi comuni

A margine di questa disamina sugli investitori istituzionali, dedichiamo un breve cenno ai fondi comuni. Ciò non tanto perché riteniamo che quelli attuali possano diventare operatori attivi sul futuro mercato delle IFS, quanto perché nuovi strumenti

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di gestione collettiva del risparmio potrebbero rappresentare il veicolo ideale per i piccoli risparmiatori. In altre parole, appare evidente che l’attuale sistema di offerta di strumenti di risparmio gestito non è pensata per l’investimento in titoli così particolari come quelli delle IFS. Per converso, l’offerta di risparmio che ci aspettiamo esista tra le famiglie italiane difficilmente potrà arrivare direttamente alla Borsa Sociale, per le ovvie complessità di accesso da parte di un operatore non professionale ad un mercato finanziario, per giunta nuovo. Per questi motivi, riteniamo che ai gestori di fondi comuni si apra uno spazio di opportunità interessante. Essi potrebbero canalizzare tante piccole quote di risparmio e rendere efficiente il processo di selezione degli investimenti attraverso lo sviluppo di competenze professionali specifiche e realizzando così delle interessanti economie di scala e di scopo.

Investitori privati

Le famiglie

Un mercato per IFS come quello che andremo descrivendo può raggiungere dimensioni sufficienti a garantirgli la sostenibilità solo coinvolgendo il pubblico retail. Il settore degli istituzionali, come abbiamo visto, è relativamente piccolo in proporzione al prodotto interno lordo, se confrontato con quello di altri Paesi. Quindi, immaginando di intercettare una piccola porzione del loro patrimonio, si arriverebbe a raccogliere masse inadeguate.

Al di là degli aspetti quantitativi, però, il segmento retail appare di particolare interesse perché, rispetto a quello istituzionale è composto da soggetti più liberi di intraprendere scelte di investimento con obiettivi “misti”. Mentre, come abbiamo visto, l’istituzionale è sempre vincolato dal mandato (che, in difetto di altre indicazioni, si presume orientato all’ottimizzazione del rapporto rischio/rendimento in un dato arco temporale), l’investitore privato, per dir così, può fare del proprio denaro quello che vuole. Ciò non significa, ovviamente, che non tenga conto del ritorno finanziario, quanto che nulla gli impedisce di considerare anche altre dimensioni dell’investimento. Non è, in sintesi, vincolato da obblighi giuridici verso terzi.

Numerose ricerche, oltre all’esperienza quotidiana di ciascuno, testimoniano come tra i cittadini esista una diffusa e crescente sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali e sociali. Questa attenzione si esprime anche attraverso le scelte di acquisto e di consumo e, più in generale, degli stili di vita.

Come ben sanno quanti si occupano di marketing finanziario, però, le decisioni di investimento non seguono le medesime dinamiche che regolano l’acquisto di beni o di servizi di altra natura. Tipicamente, più i beni e i servizi sono percepiti come “vicini”, nel senso che hanno un impatto più diretto sull’esperienza intima delle persone, maggiore è l’attenzione prestata alla dimensione ambientale o sociale. Per questo motivo, i settori che per primi sono stati influenzati dalle nuove tendenze sono stati quello alimentare e quello dell’abbigliamento (desideriamo che le cose che mangiamo o ci mettiamo addosso siano sane e salubri); in seconda battuta, l’arredamento e l’edilizia (l’ambiente domestico in cui viviamo), il turismo e la mobilità – e così via.

La finanza viene spesso vissuta, invece, come un’attività “lontana”. Innanzitutto, di solito se ne occupano altri (la banca, l’assicurazione, il gestore …); in secondo luogo, gli effetti che provoca sono indiretti e spesso del tutto sconosciuti. Che cosa la banca faccia dei denari che uno deposita, non è dato sapere; possono essere utilizzati per finanziare produttori di mine antiuomo, cooperative sociali o che altro. In ogni caso, la responsabilità per le conseguenze sociali delle scelte di investimento è molto meno

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forte rispetto al caso, poniamo, dell’acquisto di un casco di banane o di un paio di scarpe.

Ma anche questo sta cambiando. Secondo una recentissima ricerca promossa dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica il 43,6% di un campione di intervistati rappresentativo della popolazione italiana mostra una certa disponibilità ad investire in imprese sociali, anche se solo per una piccola parte del proprio risparmio; intorno al 20-30%. Ma l’11,2% del campione dichiara la disponibilità a investire almeno metà delle proprie risorse disponibili. Il 39,7%, invece, non sembra essere disposto ad indirizzare la propria scelta verso le imprese di tipo sociale36. Interessante anche il fatto che secondo gli intervistati non vi sono differenze apprezzabili, sotto questo profilo, tra l’investimento in imprese sociali (35,2%) o in quelle tradizionali (33%).

La percezione del rischio va letta in relazione al capitale di fiducia su cui le imprese sociali possono contare. L’indagine Demos fa emergere un quadro di sostanziale equilibrio, che identifica un 27,3% di cittadini che dichiara fiducia sia nell’impresa sociale che in quella tradizionale (cioè for profit); un 18,5% esprime consenso solo nei confronti delle imprese sociali e quasi altrettanti (18,9%) si fida solo delle imprese tradizionali. Infine, i cittadini che esprimono sfiducia nei confronti sia delle imprese sociali che di quelle tradizionali sono 35,4% del campione.

Si sa che questi dati vanno interpretati con prudenza, per il fatto che si registra sempre una discrasia tra il dichiarato e l’agito, soprattutto quando gli intervistati sono sollecitati su questioni di carattere etico, in relazione alle quali sembra “inopportuno” dare risposte “politicamente scorrette”. Questo bias suggerisce di non sovrastimare la portata dei risultati, che tuttavia ci sono e vanno registrati positivamente.

Obiettivi finanziari e strumenti utilizzati

Nel 2007, la ricchezza delle famiglie italiane ammontava a circa € 8,5 mld., tra attività reali (circa il 60% del totale) e finanziarie (il rimanente 40%).

Queste ultime, a propria volta, sono costituite da liquidità e depositi bancari in misura del 25% circa, da titoli pubblici italiani per il 5% circa e da altri titoli e fondi comuni per quasi la metà del totale37.

In particolare, per quanto riguarda quest’ultima voce, la ripartizione precisa vede:

Tabella 17: gli investimenti delle famiglie italiane

Voci € mld

Titoli 729

titoli pubblici italiani 199

obbligazioni private italiane 402

di cui: obbligazioni bancarie 351

titoli esteri 127

Prestiti dei soci alle cooperative 14

Azioni e partecipazioni in società di capitali

756

36 GLI ITALIANI E LA FINANZA ETICA, Indagine Demos & Pi per Banca Etica, 2009, non pubblicata 37 Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane – supplementi al bollettino statistico 2007

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azioni e partecipazioni italiane 668

di cui: azioni quotate 203

azioni e partecipazioni estere 88

di cui: azioni quotate 76

Partecipazioni in quasi-società38 219

Fondi comuni d’investimento 264

Nel corso del 2008, ovviamente, questa quota è stata intaccata dal calo dei corsi azionari.

Opportunità e limiti nell’utilizzo di forme di investimento responsabile

Anche alla luce delle indicazioni offerte dalla ricerca sopra citata, assumiamo che l’offerta di titoli di ISS possa essere apprezzata dal pubblico dei risparmiatori privati. Soprattutto, occorre cogliere la portata del momento storico: l’offerta non solo commerciale, ma, osiamo dire, culturale, della finanza tradizionale, ha profondamente deluso molti piccoli investitori. Il concetto di “risparmio tradito” si è affermato non solo sulle pagine dei giornali, ma nell’immaginario collettivo. L’autodifesa delle istituzioni finanziarie, nella maggioranza dei casi tecnicamente fondata, non è riuscita a intaccare la sensazione di inganno che pervade i clienti. L’intervento pubblico, diretto o indiretto, a vantaggio delle banche che avevano adottato i comportamenti più aggressivi, ha ulteriormente consolidato l’opinione che si sia finito col premiare gli opportunismi e non siano stati tutelati gli interessi dei più deboli. La reputazione delle istituzioni finanziarie nel loro insieme rimane, in generale, ai minimi (nello specifico, poi, in realtà un qualche legame fiduciario con la propria banca di riferimento evidentemente permane). Abbiamo quindi ragione di ritenere che esista un bisogno latente di un’offerta finanziaria alternativa.

Naturalmente, perché questo bisogno sia intercettato e si trasformi in una domanda, occorre che la proposta sia finanziariamente sensata e politicamente credibile. Il che costituisce, per l’appunto, l’oggetto del nostro sforzo di progettazione.

Riteniamo peraltro che un aspetto che potrà caratterizzare positivamente l’offerta di titoli sociali possa essere rappresentato dalla dimensione locale. Ci riferiamo alla possibilità di investire in IFS che operino nelle comunità locali e quindi siano visibili a chi le sostiene. Dicevamo sopra che l’investimento viene percepito come un’esperienza “lontana”, di cui non si percepiscono gli effetti; l’opportunità di verificare direttamente o quasi i risultati delle proprie scelte potrebbe da un lato creare un legame diretto con l’attività finanziata e contribuire alla ricostruzione di un vincolo fiduciario con l’intermediario che ha facilitato l’incontro; dall’altro, la gratificazione derivante dall’esperienza non mediata del beneficio sociale generato potrebbe compensare l’eventuale diminuzione del risultato finanziario espresso in termini di rendimento.

38 Si definiscono “quasi-società” quegli organismi senza personalità giuridica che dispongono di una contabilità completa e il cui comportamento economico e finanziario si differenzia da quello dei proprietari. Sono comprese nell’ambito delle quasi-società non finanziarie le società in nome collettivo, in accomandita semplice, le società semplici, le società di fatto, le imprese individuali (artigiani, agricoltori, piccoli imprenditori, liberi professionisti e comunque coloro che svolgono un’attività in proprio), purché abbiano un numero di addetti superiore alle cinque unità (se gli addetti sono cinque o meno si parla invece di “famiglie produttrici”).

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Va da sé che la Borsa Sociale non potrà essere un solo mercato locale né una somma di mercati locali. Tuttavia, va tenuto conto del fatto che questa dimensione esiste e può essere sfruttata positivamente, soprattutto nelle fasi iniziali di sviluppo del mercato, anche al fine di aumentare la fiducia nel meccanismo attraverso la valorizzazione dei primi casi di successo.

I privati benestanti

Gli individui ricchi (in inglese, high net worth individuals, da cui l’acronimo HNWI, con un patrimonio personale tra € 1 e 5 mln), molto ricchi (very HNWI, con un patrimonio personale tra € 5 e 10 mln) o ultraricchi (ultra HNWI, patrimonio superiore a € 10 mln) in Italia sono circa 163.000 (erano più di 200 mila nel 2007)39, appartenenti a circa 600 famiglie, concentrate per lo più in Lombardia (per circa 25% della ricchezza “private” totale), Lazio (10%), Emilia Romagna, Piemonte e Veneto (attorno all’8% ciascuna). Il loro patrimonio complessivo è stimato in circa € 800 mld nel 200840, anno in cui si è registrato il primo calo dopo una crescita continua nell’ultima decade.

Obiettivi finanziari e strumenti utilizzati

In termini di asset mix, è calcolato che il 16% del patrimonio dei privati benestanti è investito in depositi bancari, il 49% in obbligazioni, l’8% in fondi comuni, l’8% in azioni, il 14% in gestioni patrimoniali, il 6% in prodotti assicurativi41. Gli appartenenti a questo segmento di clientela utilizzano sia la forma dell’amministrazione diretta del patrimonio sia, in misura crescente, quella della delega a strutture professionali (private banking o family offices).

Opportunità e limiti nell’utilizzo di forme di investimento responsabile

Il ruolo dei privati benestanti rileva ai nostri fini sotto un duplice profilo: in primo luogo, per l’attività filantropica; in secondo, per la propensione, soprattutto quando sono anche imprenditori, ad investimenti ad alto rischio.

Per quanto riguarda il primo aspetto, gli esempi sono innumerevoli; la storia remota e recente è costellata di casi di opere grandi e piccole realizzate grazie ai contributi filantropici di individui o famiglie benestanti. In un certo senso, l’idea è che chi abbia goduto di grandi fortune sia in qualche misura tenuto a restituirne parte alle comunità in cui sono vissuti.

L’altro aspetto è l’interesse da parte degli HNWIs a orientare parte dei propri patrimoni verso investimenti ad alto rischio. È abbastanza tipico del comportamento di questo segmento di clientela l’allocazione di una quota minoritaria degli asset su classi di attivo come il private equity o addirittura il venture capital. Si tratta di operazioni che si combinano spesso con la tradizione imprenditoriale di molte famiglie high net worth, che hanno l’esperienza e le competenze, oltre che la disposizione, per individuare idee di business promettenti e scommettere sul loro successo.

Da questo punto di vista, l’offerta della Borsa Sociale dovrebbe incontrare l’interesse di questa categoria di investitori, poiché coniuga alcuni aspetti tipici dell’approccio

39 Merril Lynch e Capgemini, World Wealth Reoprt 2009, non pubblicata 40 Pricewaterhousecoopers, Evoluzione del Private Banking, ottobre 2008, non pubblicata 41 Banca Euromobiliare, il mercato italiano del private banking, 2008, non pubblicata

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filantropico con quelli dell’investimento finanziario in senso stretto. Di nuovo, occorre uno sforzo per concepire una nuova forma di obiettivi “misti”. Nell’investimento nelle IFS non ci saranno né il rischio né il rendimento del private equity (in entrambi i casi, ben più alti); e probabilmente non ci sarà nemmeno la gratificazione morale di una donazione disinteressata e completamente gratuita. C’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.

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Situazione attuale: un mercato segmentato

Borsa Sociale è un mercato organizzato di capitali per imprese a finalità sociale. Con questo termine, ci riferiamo ad imprese esercitate sia in forma di società di capitali sia cooperativa, che perseguono allo stesso tempo obiettivi di generazione di valore sociale e di valore economico. Le IFS non sono affatto organizzazioni non profit, quanto piuttosto imprese che offrono un dividendo misto, risultante di componenti economiche (profitto calmierato), sociali e ambientali.

La creazione della Borsa per IFS si basa su una definizione ampia della domanda di capitali che cerca di tenere insieme imprese profit a finalità sociale e organizzazioni non profit che sono in grado di produrre anche valore economico. Questa definizione non coincide necessariamente con quella di impresa sociale ex d.lgs. 155/06, ma si estende a tutte le realtà che a prescindere dalla natura e veste giuridica esercitano un’attività a forte contenuto sociale e ambientale. Al momento le IFS rappresentano più un riferimento a cui tendere che una realtà oggettiva, ma esistono tuttavia diversi soggetti caratterizzati da un modello gestionale responsabile e dall’esercizio di attività specifiche che possono in qualche modo rientrare in questa definizione.

La pretesa di tenere insieme realtà molto diverse si scontra con resistenze culturali e con difficoltà “tecniche" che complicano la costruzione di un mercato unico per IFS. Le evidenze emerse sottolineano infatti l’esistenza di forti componenti identitarie che ostacolano l’idea di un mercato “misto” che includa profit e non profit. Alcuni soggetti, per esempio, rivendicano la propria natura di attori non economici nel senso di organizzazioni che non svolgono un’attività economica ma esclusivamente sociale e per tanto non assimilabili in alcun modo alle imprese commerciali. In questo caso, l’accesso a forme dirette di finanziamento che non siano a fondo perduto non è ipotizzabile, in quanto non esistono i presupposti per garantire una remunerazione di tali finanziamenti. Inoltre, non si tratta solo di un problema di profitto, quanto di organizzazione e di gestione dell’attività secondo diversi criteri. In questi casi, si rischia, quindi, di assistere ad una auto-selezione da parte di quei soggetti che non hanno interesse a trasformare in alcun modo la propria attività.

Da un punto di vista tecnico, la questione è ancora più complicata. Oggi non esiste una sola tipologia di attori socio-economici per le quali ipotizzare un mercato di titoli quotabili ma piuttosto una serie di imprese/organizzazioni molto diverse tra loro con vincoli più o meno stringenti agli strumenti di finanziamento che possono emettere o utilizzare. Questo darebbe luogo ad un mercato segmentato secondo il criterio del profitto: da un lato le imprese for profit che possono distribuire un utile, dall’altro le organizzazioni non a scopo di lucro. Nei paragrafi seguenti descriviamo le principali caratteristiche di questi due segmenti.

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Figura 1: segmentazione del mercato

1. imprese for profit e mercato azionario

Il primo segmento di mercato è rappresentato potenzialmente da imprese a finalità sociale (IFS) che possono accedere al mercato del capitale inteso, in senso lato, come mercato di partecipazioni al capitale o al patrimonio. Le partecipazioni sono rapporti che attribuiscono il diritto alla ripartizione del capitale o del patrimonio e quindi la qualità di socio o partecipante. Si tratta in particolare di:

• Azioni e di altri titoli rappresentativi della partecipazione al capitale o al patrimonio di società per azioni e in accomandita per azioni e di altri soggetti IRES (enti commerciali e non commerciali).

In tutti questi casi ci troviamo di fronte a titoli quotabili e scambiabili che offrono un rendimento legato alla capacità dell’impresa di creare valore economico. La possibile distribuzione di un utile o di un dividendo nel caso delle società per azioni permette la quotazione di questi titoli il cui valore economico sarebbe pari il valore attuale scontato dei ricavi futuri. Se un investitore decide di rivendere la propria azione di un’impresa sociale troverà un compratore disposto ad offrire il prezzo determinato dalle attese sulla redditività futura. Dei soggetti citati che potrebbero accedere al mercato offrendo partecipazioni, solo una categoria rientra in quello che viene comunemente definito terzo settore, ovvero le cooperative sociali istituite dalla legge 391/1991. Il segmento in questione, relativo agli strumenti azionari e simili, sarebbe dunque composto da:

• piccole e medie imprese profit a scopo sociale, che ottengono accesso al mercato solo a seguito di una valutazione rigorosa del modello gestionale e degli impatti socio-ambientali generati dall’attività

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• società cooperative che svolgono attività ad alto valore sociale e cooperative sociale di categoria A e B che non abbiano previsto nello statuto il divieto alla distribuzione degli utili ai soci.

Un mercato dedicato a questi soggetti rischia di non avere una dimensione minima per la sostenibilità economica ovvero un livello di flottante sufficiente a garantire adeguati volumi di scambio e liquidità sul secondario. Il pool di imprese a finalità sociale che potrebbero essere quotate non è certo limitato, in quanto può estendersi a tutte le imprese commerciali che abbiano determinati requisiti, ammesso che trovino conveniente il ricorso a questo tipo di finanziamento. Questo però impone un’attenta analisi dei costi e delle opportunità nonché la predisposizione di regole di funzionamento semplici e snelle. Alle imprese commerciali si potrebbero aggiungere, a certe condizioni, le cooperative sociali e ordinarie, che potrebbero trovare nuovi strumenti per allargare la compagine sociale nel rispetto del principio mutualistico. In particolare le cooperative sociali rappresentano una realtà dell’economia sociale in forte ascesa, grazie ad un assetto normativo sufficientemente flessibile a garantirne la presenza sul mercato. Secondo l'Istat a fine 2005 le cooperative sociali erano 7.363 con una crescita di oltre il 30% rispetto al 2001. Queste imprese impiegano complessivamente oltre 210.000 addetti retribuiti e 32.000 volontari. Inoltre rivolgono i loro servizi a oltre 3 milioni di persone per un giro d'affari pari a 6,4 miliardi di euro. Il segmento di mercato descritto non sarebbe in grado di favorire il finanziamento di imprese, organizzazioni senza scopo di lucro e tutti quei soggetti del mondo non profit che svolgono attività commerciale o non commerciale ma che sono accomunate dal divieto assoluto alla distribuzione dell’utile e/o che per forma giuridica non possono prevedere la ripartizione del capitale. Per tutti questi soggetti, l’accesso ad un mercato di partecipazioni al capitale sociale sarebbe precluso. Date certe condizioni legislative che limitano la trasferibilità, che impongono il divieto assoluto alla remunerazione dell’investimento, che escludono naturalmente dal mercato gli enti non commerciali, non si può che spostare l’attenzione su un mercato di titoli di debito.

2. imprese non profit e mercato dei titoli di debito

Un secondo segmento del mercato dovrebbe quindi coprire le imprese e le organizzazioni che appartengono al mondo non profit che per natura giuridica non possono remunerare il capitale o che non hanno una struttura di impresa tale da consentire l’accesso al mercato - non hanno un capitale sociale ripartito in azioni. Per questo tipo di soggetti è dunque impossibile immaginare uno scambio di partecipazioni ma si può pensare ad altri strumenti di finanziamento tramite capitale di debito. I titoli di debito trovano infatti minori limitazioni di tipo giuridico (in particolare la loro remunerazione non viola il divieto della distribuzione degli utili per le Imprese sociali), anche se si deve notare che gli strumenti al momento esistenti hanno delle caratteristiche tali da renderne complessa l’emissione, soprattutto per soggetti diversi dalle società. I titoli di debito danno all’investitore una remunerazione certa che può essere anche minima o limitata ma che viene comunque corrisposta. Certo, soprattutto per imprese che non hanno solidità finanziaria, che hanno limitate prospettive di ricavo e che non offrono garanzie patrimoniali, il rischio che tale remunerazione non venga pagata (default) è molto elevato. Tuttavia, in linea teorica, non ci sono vincoli particolari alla loro quotazione e trasferibilità su un mercato dedicato e gestito dalla Borsa Sociale.

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A seconda della forma giuridica assunta dall’impresa a finalità sociale e soprattutto della dimensione della stessa, si possono individuare alcuni strumenti di debito esistenti che potrebbero essere quotati in un mercato dedicato.

Titoli obbligazionari per imprese sociali

L’emissione di obbligazioni è un’operazione con la quale una società richiede al mercato mezzi finanziari che si impegna a restituire ad una data scadenza; l’investitore non mette a disposizione un capitale di rischio, ma fa un finanziamento su cui esige degli interessi. Questo strumento può essere impiegato nei casi di imprese mature che hanno consolidato il proprio business a valenza sociale e che sono in grado di garantire il pagamento di interessi ed il rimborso del capitale ricevuto. Per natura, questo investimento può soddisfare esigenze di investitori sensibili ai temi sociali e ambientali, ma allo stesso tempo avversi a profili di rischio troppo elevati. Le obbligazioni possono essere emesse da società per azioni, da società a responsabilità limitata42 e da società cooperative (ordinarie e sociali). A differenza del vecchio art. 2486 c.c., infatti, che vietava alla società a responsabilità limitata l'emissione di obbligazioni, il nuovo art. 2483 c.c. stabilisce che, se l'atto costitutivo lo prevede, la società a responsabilità limitata può emettere titoli di debito [..]. La sottoscrizione di tali titoli è possibile esclusivamente da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali (banche, sim, sicav, etc.) e cioè da parte di soggetti in grado di compiere un'effettiva valutazione del rischio e della solvibilità della società; successivamente, le obbligazioni possono anche essere alienate a risparmiatori che non siano investitori professionali, soci o non soci, ed anche dipendenti della società, tuttavia, chi trasferisce i titoli risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano a loro volta investitoti professionali o soci della società. La stessa opportunità di emettere titoli obbligazionari è riconosciuta alle cooperative dall’art. 2526 che sancisce che “l’atto costitutivo può prevedere l’emissione di strumenti finanziari secondo la disciplina prevista per le società per azioni e stabilisce i diritti di amministrazione e patrimoniali attribuiti ai loro possessori e le eventuali condizioni per il trasferimento di tali strumenti”. Nelle cooperative in cui si applicano le norme sulle società a responsabilità limitata, le obbligazioni possono essere sottoscritti solo da investitori qualificati. Occorre sottolineare che il possesso di un titolo di debito, al pari di un'obbligazione, non attribuisce diritti decisionali o di amministrazione della società, ma è un prestito contratto dalla medesima. I titoli che potrebbero essere quotati sul mercato gestito dalla Borsa Sociale sarebbero dunque strumenti emessi da società del Libro V del codice civile che abbiano una dimensione patrimoniale significativa e che abbiano assunto la veste giuridica di Imprese sociali (d.lgs 155/2006). Al momento, questa tipologia di emissione obbligazionaria è pressoché inesistente, data la scarsa diffusione di soggetti aventi le caratteristiche indicate. Restano anche molti dubbi circa il potenziale futuro di mercato almeno per due ragioni:

• inadeguatezza dello strumento finanziario per il tipo di imprese • incompatibilità della scala dimensionale con l’istituito dell’impresa sociale (è

difficile che un’impresa di medie dimensioni in grado di emettere un bond si trasformi in impresa sociale senza scopo di lucro).

42 La definizione di società è contenuta nel codice civile, all'art. 2247, secondo cui con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica, allo scopo di dividerne gli utili.

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Tutte le altre categorie di enti non profit (diverse dalle società e dalle cooperative) devono ricorrere a strumenti di finanziamento alternativi, alcuni dei quali purtroppo stentano a prendere piede, altri non sono ancora stati messi a punto.

Titoli di solidarietà

Un tipo di strumento di debito che è stato pensato appositamente per il finanziamento di enti non profit è il c.d. titolo di solidarietà43, un valore mobiliare caratterizzato dal fatto che i fondi raccolti mediante emissione e offerta al pubblico devono essere destinati obbligatoriamente ed esclusivamente al finanziamento di Onlus. Sono titoli a tasso fisso non convertibili che possono essere emessi esclusivamente da banche o intermediari finanziari iscritti nell'elenco speciale previsto dall'art. 107 del Testo Unico Bancario. Purtroppo questi titoli non hanno ancora risposto alle esigenze di finanziamento del settore non profit poiché non risultano ancora operativi. Le ragioni sono in parte riconducibili ad aspetti tecnici (il tasso di riferimento stabilito è il Rendiob, tasso che non viene più calcolato e comunicato dalla Banca d’Italia) ed in parte alla fattibilità finanziaria delle operazioni

Alla luce di questo fallimento, l’Agenzia per le Onlus ha presentato al Consiglio dei Ministri una proposta di modifica dell'articolo 29 del decreto legislativo 460/1997 che prevede: l’adozione del tasso di riferimento Euribor (più uno spread); l’ampliamento dello spettro delle organizzazioni destinatarie dei finanziamenti affiancando alle Onlus anche le altre organizzazioni non profit quali ad esempio le imprese sociali; la previsione di società veicolo (iscritte nella sezione dell'elenco generale prevista dall'art 113 del decreto legislativo n. 385/1993) che possano effettuare operazioni di cartolarizzazione del credito che le ONP vantano nei confronti delle amministrazioni pubbliche.

In attesa di sviluppi in questa direzione, resta il fatto che non esistono al momento strumenti di debito per organizzazioni non profit (diverse dalle società e dalle cooperative) che possano essere collocati e scambiati su un mercato dedicato.

43 Istituiti dal decreto legislativo n.460/1997

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Nuovo scenario: una borsa dedicata alle IFS

La verifica di fattibilità di un mercato strutturato in due segmenti paralleli, l’uno dedicato alle imprese profit per lo scambio di titoli di capitale, l’altro alle imprese non profit (imprese sociali incluse) per lo scambio di titoli di debito, ha fornito sufficienti indicazioni per considerare lo scenario di riferimento piuttosto problematico.

Ceteris paribus, non sembrano esistere le condizioni per poter immaginare due segmenti separati di un mercato dedicato alle imprese a finalità sociale. Questo perché, per quanto riguarda il primo segmento, ci troveremmo di fronte ad un mercato azionario tradizionale rivolto a piccole e medie imprese profit con finalità socio-ambientali, cui si aggiungerebbero le cooperative sociali (pur con i limiti e le condizioni fissate negli statuti alla trasferibilità delle azioni). In pratica, si tratterebbe di un mercato per una categoria di imprese non ancora ben definita nella sua dimensione sociale (imprese profit a finalità sociale) e certamente limitata rispetto all’universo di imprese e organizzazioni dell’economia sociale.

Per quanto riguarda il secondo segmento, l’offerta attuale di strumenti finanziari è molto limitata e non adeguata a soggetti di questa natura sia in termini giuridici (le organizzazioni diverse da società non possono emettere obbligazioni) che dimensionali. Si dovrebbero pertanto immaginare pool di enti o soggetti terzi (consorzi, associazioni di categoria, etc..) con le caratteristiche necessarie all’emissione di titoli per la raccolta di finanziamenti da destinare alle singole realtà. Ma con queste premesse, viene meno il senso di un mercato di scambio strutturato con volumi sufficienti di contrattazioni che garantiscano liquidità agli investimenti.

Ecco dunque la necessità di un nuovo scenario per la costituzione di una vera e propria borsa per IFS. Uno scenario che preveda la revisione legislativa di alcune norme che al momento impediscono la creazione di un mercato dedicato, ma che preveda anche la creazione di strumenti finanziari innovativi pensati appositamente per soddisfare le esigenze di capitalizzazione delle IFS.

Presupposti

In questo nuovo scenario, il modello di Borsa Sociale si verrebbe a configurare come un mercato di strumenti finanziari dedicati, in cui si scambiano prevalentemente partecipazioni (titoli azionari) di imprese a finalità sociale, ma non si esclude la possibilità di quotare titoli ibridi di quasi-equity e obbligazioni convertibili.

Per riuscire a realizzare un modello simile, devono essere soddisfatti alcuni requisiti.

In primo luogo, è necessario che l’oggetto della transazione sia trasferibile senza eccessive formalità ed abbia caratteristiche predefinite e standard. Restano dunque esclusi per definizione tutti quei soggetti che non sono costituiti in forma societaria o che comunque non possono ripartire il capitale sociale in titoli liberamente trasferibili e negoziabili.

In secondo luogo, l’IFS che accede al mercato deve essere in grado di distribuire dei dividendi, se pur entro certi limiti. La remunerazione del capitale di rischio è elemento imprescindibile per attirare investimenti. Certo anche la performance socio-ambientale può essere un parametro sulla base del quale determinare un “prezzo” di quotazione di un titolo ma di per sé tale criterio non è sufficiente ad assicurare la

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creazione di un mercato per un titolo in assenza di qualsiasi previsione che preveda una (anche eventuale) remunerazione dell'investitore nella IFS.

Qui risiede il salto da compiere per andare oltre il concetto di no profit, almeno per quanto concerne le Imprese sociali. La normativa potrebbe infatti concepire l’idea di un utile ragionevole che offra una remunerazione al capitale investito e permetta all’impresa di crescere nel tempo grazie ad una maggiore capitalizzazione. Una crescita non finalizzata alla massimizzazione del profitto quanto alla massimizzazione dell’utilità sociale in presenza di un vincolo di profitto, un livello minimo necessario alla remunerazione dei fattori principali, il lavoro degli addetti e il capitale investito nell’impresa.

La sfida è però trovare il modo di contenere questo meccanismo che può risultare virtuoso solo entro certi limiti ragionevoli, solo contenendo la spinta alla ricerca del profitto come fine in sé. È necessario immaginare degli strumenti di controllo per regolare un mercato di flussi finanziari che alimenta non tanto un settore specifico quanto una tipologia di impresa che svolge attività ad elevato contenuto sociale.

Questa proposta di revisione normativa si basa sulla convinzione che l’istituto dell’Impresa sociale (d.lgs. 155/06) sia in qualche modo incompiuto: a titolo di esempio, basti pensare che se una cooperativa sociale vuole ottenere la veste giuridica di impresa sociale deve rinunciare alla distribuzione degli utili nello statuto; lo stesso dicasi per una onlus che perderebbe i vantaggi fiscali di cui gode. Non ci sono poi indicazioni chiare di quali operazioni, sempre ai sensi del d.lgs. 155/2006, si configurino come distribuzione indiretta di utile, soprattutto se vi rientri la distribuzione dell’incremento del valore della quota al detentore. Se la vendita sul mercato di quote che hanno aumentato il proprio valore (anche solo per una migliore performance sociale o ambientale) si configurasse come distribuzione indiretta di utile – illegittima secondo l’attuale sistema – non potrebbe esistere un mercato secondario per le imprese non profit.

Il fatto è che l’innesto nel d. lgs. 155/2006 di parte della disciplina tipica degli enti commerciali porta con se molti dubbi in chiave interpretativa. Le due filosofie ispiratrici sono diverse, in quanto nella disciplina degli enti commerciali il fine ultimo è il godimento individuale da parte dei soci dei profitti generati, nel caso delle Imprese sociali l’interesse a mantenere un equilibrio economico-finanziario si deve sposare con il perseguimento di un utile sociale. Ma il mantenimento di questo equilibrio può essere difficile senza la capacità di aumentare il capitale e reperire da terzi mezzi di finanziamento. Questi elementi di criticità portano ad escludere il ricorso a questa veste giuridica, almeno fino a quando non verranno chiariti alcuni punti controversi.

In terzo luogo, l’offerta di strumenti finanziari deve essere ampliata sino alla creazione di prodotti innovativi pensati appositamente per soddisfare le esigenze di capitalizzazione (e di finanziamento) delle IFS. Data la pluralità di soggetti che potrebbero comporre la domanda di capitale, non è possibile immaginare un mercato di scambio di semplici titoli azionari.

A seconda della natura giuridica e della struttura societaria dell’impresa che accede al mercato, si devono immaginare titoli di partecipazione con caratteristiche variabili in termini di dividendi e diritti di voto che vadano incontro ad esigenze spesso contrapposte.

Da una parte è necessario garantire le imprese sociali contro il rischio di un’eccessiva e incontrollata apertura della compagine sociale e soprattutto non costringere a distribuire fuori dal circuito di impresa tutto il valore generato. Dall’altra si deve tenere

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conto della volontà degli investitori di ottenere un rendimento se pur variabile o limita, e di prendere parte direttamente alle gestione dell’impresa.

Inoltre, se l’idea è che la borsa debba svolgere anche una funzione di incubatore, ovvero di assistenza a IFS appena nate o ad altre, già solide, che intendano aumentare la propria capitalizzazione, si dovranno offrire diverse soluzioni di finanziamento.

Forme di imprese a finalità sociale quotate in Borsa Sociale

Il mercato di Borsa Sociale è rivolto in particolare a tre tipologie di imprese: IFS di capitali, IFS cooperative, IFS derivate da ONP (Libro I cod. civile).

La prima componente della domanda è rappresentata da imprese a finalità sociale strutturate come società per azioni che possono accedere al mercato delle partecipazioni al capitale. Le azioni emesse da imprese sociali devono avere caratteristiche uniformi e standardizzate e soprattutto non avere formalità di cessione che ne impediscano il trasferimento in modo efficiente e immediato. Le quote di società a responsabilità limitata non sono quotabili, in quanto non sono rappresentate da titoli di credito e potenzialmente sono diverse tra di loro, dato che le caratteristiche vengono decise volta per volta dai soci, e non sono scambiabili liberamente a causa delle formalità richieste per la loro cessione. Stiamo parlando dunque di piccole e medie imprese che possono ottenere accesso al mercato solo a seguito di una valutazione rigorosa del modello gestionale e degli impatti socio-ambientali generati dall’attività. Le azioni emesse da queste società hanno un valore economico che rispecchia il valore attuale scontato dei ricavi futuri ma anche il valore degli impatti sociali attesi. Le IFS cooperative sono società cooperative che svolgono attività ad alto valore sociale e cooperative sociali di categoria A e B che nel proprio statuto non hanno stabilito il divieto alla distribuzione degli utili ai soci. In linea di principio le cooperative sociali, istituite dalla legge 391/1991, sono enti non profit che non hanno come obiettivo la distribuzione del reddito ai soci quanto il perseguimento dell’interesse generale della comunità attraverso la realizzazione della missione produttiva. Tuttavia, al pari delle cooperative ordinarie, una cooperativa sociale può prevedere entro certi limiti44 la distribuzione di una quota di utili ai propri soci (art. 8, legge 59/92). Nelle cooperative è prevista poi la figura del socio sovventore i cui conferimenti sono rappresentati da azioni trasferibili e il cui trattamento in sede di distribuzione o di liquidazione degli utili può essere favorito dallo statuto (remunerazione superiore agli altri soci fino al 2%). Lo stesso trattamento spetta ai possessori delle azioni di partecipazione cooperative che possono essere emesse per finanziare progetti di sviluppo ed investimento pluriennali. Tali azioni sono offerte anche al pubblico e anch’esse garantiscono al portatore una remunerazione maggiorata del 2% rispetto a quella delle quote o delle azioni dei soci della cooperativa. Grazie a queste caratteristiche, le cooperative sociali sono l’unico soggetto del terzo settore a poter accedere direttamente al mercato azionario, almeno da un punto di vista teorico.

44 Le azioni delle società cooperative possono essere ammesse a condizione che l’atto costitutivo dell’emittente e/o la delibera di emissione delle azioni contenga specifiche previsioni atte a garantire la libera trasferibilità delle azioni emesse.

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Per tutto le organizzazioni senza scopo di lucro e tutte le imprese del mondo non profit che svolgono attività commerciale o non commerciale ma che sono accomunate dal divieto di distribuzione dell’utile, l’accesso diretto al mercato “azionario” di capitali sociale rimane precluso. Per le associazioni e le fondazioni che non sono costituite in forma societaria o che comunque non possono ripartire il capitale sociale in quote alienabili e negoziabili, l’accesso è negato per definizione. Per le imprese sociali ex lege invece, il divieto assoluto alla distribuzione degli utili tende ad azzerare il valore economico dell’azione detenuta dall’investitore, in quanto il capitale investito non sarebbe remunerativo. Potrebbe esserci un valore socio-ambientale che dia comunque la possibilità di vendere il titolo in un momento futuro, ma questa ipotesi è tutta da verificare. Se infatti nella fase di collocamento (mercato primario) l’esistenza di investitori istituzionali può garantire il sostegno alle imprese che emettono azioni sul mercato, pur in assenza di utile atteso, nel medio termine la probabilità di rivendere nel mercato secondario è collegata alla presenza di acquirenti interessati alla dimensione extra-economica dell’investimento.

Una terza tipologia di IFS è quella che immaginiamo possa derivare da una ONP. Nel disegno che abbiamo tratteggiato, infatti, associazioni e fondazioni, pur essendo attori importanti dell’economa civile, rimarrebbero escluse dal mercato dei capitali responsabili. Una soluzione che potrebbe essere approfondita è quella della società-veicolo, cioè di un’impresa di capitali, le cui quote o azioni siano in maggioranza della ONP. In questo quadro, la società diventa lo strumento operativo per le attività economiche promosse dall’ONP. Per non incorrere nei limiti posti all’attività commerciale delle Onlus, il capitale della società potrebbe essere aperto anche alla partecipazione di altri investitori, fermo restando che opportune previsioni statutarie assicurino alla ONP il controllo sulla strategia e sulle scelte operative fondamentali. La società-veicolo così formata avrebbe le caratteristiche per accedere al mercato dei capitali, e quindi rientrare nel percorso virtuoso che abbiamo identificato per le IFS.

Non c’è dubbio sul fatto che questo tipo di operazioni possa presentare profili di una certa problematicità per le ONP più piccole: lo sforzo ed il costo per mettere in moto un processo di tale complessità, infatti, si giustifica solo nel caso di iniziative di una consistente portata economica. Questo ostacolo potrebbe essere superato attraverso la creazione di consorzi di ONP prossime per scopo o per natura; così facendo, ciascuna, in proporzione al proprio impegno, potrebbe poi utilizzare la società-veicolo come strumento per le proprie attività e per l’approvvigionamento di capitale. Non va nascosto il rischio che si creino le condizioni, se le cose non vanno per il verso giusto, di conflitto tra le ONP partner – che potrebbero riflettersi negativamente sulla governance e, alla fine, l’operatività della IFS di cui sono socie.

Oggetto della transazione

L’oggetto della transazione potrà essere di varia natura, ma possiamo concentrare l’attenzione su tre tipologie di strumenti finanziari da cui prendere spunto:

• Azioni (social equity)

• Prestiti partecipativi (equity-like capital)

• Titoli obbligazionari convertibili (convertible bond)

Delle azioni abbiamo discusso nello scenario di riferimento. In questa sede vale la pena rimarcare alcuni elementi che possono limitare il funzionamento di un mercato azionario, in particolare la piena trasferibilità delle partecipazioni (per alcuni enti è

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necessario rinunciare alle clausole di limitazione della trasferibilità), la liquidità nel mercato secondario e la certezza di una remunerazione più o meno vincolata. In dettaglio i limiti che possono ostacolare l’investimento nel capitale di rischio di imprese sociali sono riconducibili ai seguenti aspetti:

• incertezza dei profili rischio/rendimento;

• natura giuridica che non consente il ricorso al capitale di rischio quale forma di finanziamento;

• indeterminatezza della strategia di uscita a causa del rischio che la ricerca di capital gain possa compromettere gli obiettivi sociali dell’imprenditore originario e il controllo d’impresa;

• costi di due diligence e di monitoraggio.

L’equity-like capital indica una tipologia di strumenti finanziari particolarmente interessante che hanno caratteristiche sia delle azioni che dei titoli di debito. Come nelle azioni (equity), gli investitori partecipano al rischio di impresa, ad esempio ricevendo il pagamento di interessi che crescono al crescere degli utili. Gli investitori concedono dei prestiti a lungo termine (5-7 anni), possono essere coinvolti nelle attività dell’impresa e in caso di liquidazione, i loro diritti sono subordinati a quelli dei finanziatori senior. La differenza rispetto all’equity tradizionale è che non vi è cessione di quote azionarie, fattore che supera uno dei limiti più significativi all’ingresso delle imprese sociali di medio-piccole dimensioni nei mercati dei capitali, ovvero il rischio di perdere il controllo sul valore sociale prodotto dall’attività.

Uno strumento esistente di natura ibrida che potrebbe essere considerato in questo mercato è rappresentato dal prestito partecipativo. Si tratta di un finanziamento per la realizzazione di programmi innovativi e di sviluppo in favore di piccole e medie imprese che possono così disporre di fonti alternative al capitale di credito tradizionale. La natura è ibrida in quanto per il rimborso del prestito non viene applicato un tasso fisso ma la remunerazione è collegata all'andamento dell’impresa. Si tratta in pratica di un finanziamento a tasso variabile che in condizioni di bassa redditività riduce il costo degli interessi da pagare sui prestiti concessi. La finalità primaria è quella di rafforzare il patrimonio delle imprese e di accelerare il processo di capitalizzazione grazie all'immissione di capitale proprio attraverso apporti monetari da parte dei soci, con la sua amplificazione ed anticipazione da parte di una banca per mezzo del capitale di credito (con il vantaggio per l'impresa di ottenere sin dall'inizio le risorse necessarie per la sua operatività).

Un’applicazione interessante può essere a favore delle cooperative sociali e dei loro consorzi: a fronte dell’apporto di capitale fresco da parte di investitori in qualità di soci sovventori, gli altri soci sottoscrivono un pari aumento di capitale e si impegnano a versarlo negli anni a venire in restituzione del prestito apportato. Ancora una volta però, lo strumento più essere adottato per finanziare solo i soggetti che per forma giuridica non hanno un vincolo al profitto, proprio perché la remunerazione dei prestiti partecipativi, strutturata come sopra descritto, è assimilabile ad una distribuzione di utile. Infatti, in caso di successo dell’attività o dei progetti e quindi di conseguimento di un alto utile, parte di questo viene ridistribuito a coloro che hanno finanziato l’impresa. In caso di insuccesso dei progetti e quindi di scarsa redditività, anche gli investitori percepiranno una remunerazione inferiore.

Le obbligazioni convertibili attribuiscono al detentore la facoltà di convertire la posizione di creditore in quella di socio dell’impresa emittente. All’atto dell’emissione di tali obbligazioni, viene fissato il rapporto di cambio tra obbligazioni e azioni che consente di stabilire quante azioni spettano per ogni obbligazione. In questo modo il

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passaggio da un fase all’altra nell’attività di imprese potrebbe essere meno traumatico, nel senso che a fronte di un investimento esterno iniziale si promette l’apertura in futuro della compagine sociale. Nel frattempo l’impresa può consolidare la propria organizzazione, il proprio business ed acquisire la dimensione di public company.

Struttura del mercato

Borsa Sociale è concepita come un mercato non regolamentato dedicato a IFS. La struttura del mercato ricalca il modello AIM Italia, ovvero il mercato alternativo di investimento gestito e regolamentato da Borsa Italiana S.p.a, progettato per offrire un percorso semplice e flessibile alla quotazione, per consentire alle PMI di avere accesso ai flussi di capitali specializzati.

Il mercato si verrebbe a configurare come un MTF (Multilateral Trading Facilities), ovvero una delle tiologie di trading venues previste dalla direttiva 2004/39/CE sui mercati degli strumenti finanziari, conosciuta con l'acronimo inglese MiFID (Market in Financial Instruments Directive)45.

L'assenza di regolamentazione riguarda il fatto che il funzionamento di tale mercato, l’ammissione dei titoli e l’accesso a tale mercato non sono assoggettati alla vigilanza diretta della CONSOB pur dovendo essere conformi ai requisiti minimi stabiliti da CONSOB mediante proprio regolamento ai sensi dell'art. 77-bis del Testo Unico della Finanza.

Come dimostrato dal caso di AIM Italia, per gli MTF, esiste una certa flessibilità regolamentare che può consentire di creare le migliori condizioni di accesso al mercato dei capitali in modo rapido e a costi contenuti. I regolamenti dell’AIM Italia possono essere un punto di partenza per un’apposita regolamentazione del MTF di borsa sociale.

Ammissione alla quotazione

Il mercato è rivolto solo alle IFS, cioè a quelle imprese che risultano tali dopo un processo di valutazione specifica.

I requisiti di ammissione, che dovranno essere regolati dal gestore del MTF, potrebbero essere i seguenti:

• assenza di requisito di capitalizzazione minima (né di quota di capitale sociale sul mercato – anche se tale quota non dovrebbe essere inferiore al 10%)

• assenza di requisiti relativi al numero minimo di anni di esistenza dell’IFS

• non è richiesta una struttura di governo specifica (fatte salve le norme sulla natura giuridica delle imprese quotabili)

45 Tale direttiva, approvata dal Parlamento e dal Consiglio Europeo il 20 aprile 2004, ha abrogato la prima direttiva 93/22/CE sui servizi di investimento, detta ISD (Investment Services Directive). In Italia il Testo Unico della Finanza è stato modificato con il d.lgs 164 del 17 settembre 2007. Inoltre, nel mese di ottobre 2007 la CONSOB ha provveduto ad aggiornare la propria regolamentazione secondaria (Regolamento Mercati ed Intermediari). Infine, a partire dal 1° novembre 2007 (data di entrata della normativa MiFID) tutti gli operatori sono stati chiamati ad applicare e rispettare la nuova disciplina.

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• assenza di requisiti relativi alla predisposizione e pubblicazione di un prospetto informativo in fase di ammissione essendo l’offerta iniziale riservata a investitori qualificati

• le società candidate alla quotazione devono presentare un’attestazione da parte di soggetti qualificati (di cui si dirà oltre) della sussistenza delle condizioni economico-finanziarie e di responsabilità sociale.

Soggetti specializzati

Nel percorso di quotazione, l’IFS è assistita da una serie di soggetti che svolgono funzioni di accompagnamento e di garanzia.

Nei più importanti mercati finanziari italiani alternativi a quello principale, ruoli e responsabilità variano per contenuti e forme:

Tabella 18: confronto MAC e AIM

MAC AIM Sponsor – è una banca o un’impresa d'investimento che:

• accompagna l'impresa sul Mercato

• assiste nella predisposizione della domanda di ammissione e della scheda informativa

• ricerca lo Specialista che gestisce il collocamento del capitale

• assiste nell'adempimento degli obblighi informativi post ammissione previsti dal Regolamento

NomAd (Nominated Advisor) – può essere una banca d’affari, un intermediario o una società che opera prevalentemente nel settore corporate finance. Deve garantire la trasparenza informativa nei confronti degli investitori, deve stimolare l’attenzione da parte della società al rispetto delle regole derivanti dall’essere quotata su AIM Italia, massimizzandone i benefici, e - più in generale - deve mantenere la qualità e la reputazione del mercato.

I principali compiti del NomAd sono:

• effettuare una due diligence adeguata per poter dichiarare che la società è appropriata per l’ammissione su AIM Italia;

• gestire il processo di quotazione, coordinando il team di consulenti, definendo la tempistica e guidando la società nella redazione del documento di ammissione;

• dare consulenza all’impresa, una volta quotata, circa gli adempimenti previsti dal Regolamento emittenti. Il NomAd assiste la società quotata su AIM Italia per tutto il periodo di permanenza sul mercato.

Specialista – è un intermediario abilitato che, nella fase di ammissione

• valuta la fattibilità dell'operazione e stima il prezzo di collocamento

• contatta i potenziali investitori

• organizza le presentazioni agli investitori

• effettua il collocamento

e, nella fase di negoziazione sul mercato

• facilita l'incontro tra domanda e offerta e la formazione dei prezzi esponendo quotazioni in

Broker – è un intermediario che partecipa ai mercati di Borsa Italiana con il compito di collocare i titoli della società sul mercato, dopo aver definito con quest'ultima la tipologia di investitori target, il prezzo più adeguato e la strategia di investor relations da adottare.

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acquisto e in vendita per controvalori minimi determinati

• promuove l'investimento raccogliendo e concentrando le proposte di acquisto e vendita degli investitori

• produce report periodici sulla società mettendoli a disposizione degli investitori professionali che ne fanno richiesta

Advisor – sono soggetti che svolgono professionalmente attività di consulenza ed assistenza in ambito economico, aziendale, giuridico o fiscale che possono affiancare lo Sponsor nella fase di avvicinamento al mercato

Specialista – ha compito di sostenere la liquidità del titolo. Non sempre lo specialista coincide con il broker che ha collocato i titoli in fase di ammissione, mentre la figura del broker e quella del NomAd possono coincidere.

Qualsiasi sia il modello preferito, occorre comunque garantire che alcune funzioni vengano svolte da soggetti qualificati a farlo. In particolare, ai fini del funzionamento di BS, serve l’intervento di:

1. un soggetto che si faccia garante di fronte alla comunità degli investitori della solidità del progetto imprenditoriale;

2. un soggetto che accerti la capacità dell’impresa candidata alla quotazione di produrre valore sociale in misura sufficiente a considerarla IFS.

Auspicabilmente, nel medio termine queste funzioni dovrebbero essere svolte da un medesimo soggetto, che combini le competenze necessarie per questo duplice fine. Ciò perché riteniamo che un’unica analisi, che integri aspetti economici e socio-ambientali, sia da preferire rispetto a due sistemi paralleli di valutazione, che non comunicano tra di loro e rimangono su piani sostanzialmente diversi. In realtà, sappiamo che la sostenibilità è la risultante delle tre dimensioni economica, ambientale e sociale – che però sono dipendenti l’una dall’altra e che richiedono, per essere misurate correttamente, un approccio sistemico.

La figura cui tendere è quella di un NomAd con anche competenze socio-ambientali – quella che in altri contesti è stata chiamata SNomAd, cioè Social Nominated Advisor.

Non possiamo, tuttavia, ignorare il fatto che ad oggi esistono pochissimi soggetti che abbiano queste capacità. Esistono da un lato le agenzie di rating sociale, che tendenzialmente non si esprimono sugli aspetti di natura finanziaria, e dall’altro banche, SIM e altre organizzazioni simili che, viceversa, sanno poco o nulla di aspetti sociali e ambientali.

In attesa di un progresso della situazione (che, peraltro, non dovrebbe tardare ad arrivare), occorrerà immaginare sue percorsi valutativi indipendenti – e quindi l’intervento di un soggetto simil-sponsor (nella versione MAC) e di un valutatore sociale. Gli uni e gli altri, in ogni caso, dovranno essere in qualche modo accreditati da PBS, al fine di assicurare che abbiano tutte le competenze e i requisiti necessari.

Processo

In fase di ammissione, la società dovrà predisporre soltanto il documento di ammissione, che riporta le informazioni utili per gli investitori relative all’attività della società, al management, agli azionisti, ai dati economico-finanziari, e soprattutto la valutazione di responsabilità sociale del modello di gestione e di efficacia nella creazione di valore sociale, elementi imprescindibile per qualificare un’impresa come

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IFS. Una volta quotata, la società non dovrà presentare i resoconti trimestrali di gestione, ma solo il bilancio finanziario, il bilancio sociale e la relazione semestrale.

Data la rilevanza del loro ruolo a garanzia del sistema, i soggetti che accompagnano l’IFS nel processo di quotazione dovranno essere accreditati secondo criteri precisi, e iscritti in un apposito registro. Riteniamo che questa procedura di accreditamento possa essere posta in capo a Pro-Borsa Sociale (PBS), la società di promozione del mercato di cui si dirà più avanti – anche allo scopo di garantirle una fonte di ricavo. I soggetti accreditati dovranno garantire la trasparenza informativa nei confronti degli investitori, stimolare l’attenzione da parte della società al rispetto delle regole derivanti dall’essere quotata, massimizzandone i benefici, e - più in generale - mantenere la qualità e la reputazione del mercato sociale.

Un’IFS quotata dovrà rispettare una serie di adempimenti: in primo luogo la comunicazione al mercato di informazioni rilevanti relative alla società, alla sua struttura ed attività, per consentire agli investitori di prendere decisioni di investimento ponderate.

Il ruolo dello Sponsor è più simile nel nostro caso a quello già previsto per i mercati tradizionali. Di fatto, si tratta di una banca o, in alternativa, di una SIM, che affianca l’IFS nel processo di quotazione. Oltre ad assisterla nella scelta dello SNomAd-equivalente, e nella predisposizione della documentazione per il listino, lo Sponsor potrebbe impegnarsi, in quanto consulente finanziario di riferimento dell’IFS, alla sottoscrizione di parte del capitale in sede di offerta iniziale, in modo da facilitarne il successo.

Negoziazioni e prezzo di mercato

BS è un mercato sul quale possono operare sia gli investitori istituzionali che gli investitori retail (questi ultimi, solo sul mercato secondario). Grazie alla borsa gli investitori amplieranno le loro opportunità di investimento e potranno operare anche investendo in società di natura diversa da quelle presenti sui mercati regolamentati, ma con un alto potenziale di crescita.

Gli investitori retail possono acquistare titoli in fase di collocamento solo se l’impresa in questione deciderà di presentare a Consob il prescritto prospetto informativo, mentre possono liberamente negoziare titoli scambiati su BS attraverso il loro intermediario o la loro banca sul mercato secondario dopo la quotazione del titolo.

Tutti gli investitori istituzionali possono negoziare i titoli direttamente, ove abilitati, ovvero attraverso il loro abituale intermediario e la liquidità del mercato – in termini di numero di scambi giornalieri – sarà garantita da un operatore Specialista (così come definito nel modello AIM) che agirà come liquidity provider su ogni singolo titolo.

L'impresa deve sempre essere assistita da uno Specialista: se l'impegno viene meno, l'impresa dovrà individuarne uno nuovo, pena la sospensione delle negoziazioni e l'esclusione dal Mercato. Lo Specialista, nella fase di negoziazione sul mercato:

• facilita l'incontro tra domanda e offerta e la formazione dei prezzi esponendo quotazioni in acquisto e in vendita per controvalori minimi determinati

• promuove l'investimento raccogliendo e concentrando le proposte di acquisto e vendita degli investitori

• produce report periodici sulla società mettendoli a disposizione degli investitori professionali che ne fanno richiesta

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Gli scambi sono gestiti su una piattaforma di trading elettronica che il soggetto gestore, essendo già operante nel settore dell’intermediazione, ha a disposizione, con tutte le infrastrutture necessarie connesse.

Le negoziazioni avvengono mediante la modalità dell’asta, con frequenza da definire, ma tendenzialmente quotidiana.

Le proposte di negoziazione immesse dagli specialisti nella fase d’asta sono ordinate, in modo automatico, per ciascuno strumento finanziario sulla base del prezzo, nonché, a parità di prezzo, in base alla priorità temporale determinata dall’orario di immissione. Il prezzo teorico d’asta è il prezzo al quale è negoziabile il maggiore quantitativo di strumenti finanziari. L’ultimo prezzo teorico di asta è considerato valido e viene assunto come prezzo d’asta per la conclusione dei contratti.

Modello di valutazione dell’impresa a finalità sociale

La creazione di BS non può prescindere da una chiara definizione della tipologia di imprese che possono esservi quotate e da una rigorosa valutazione della performance economica e sociale attesa. Se l’IFS cui si rivolge questo mercato rappresenta un equilibrio virtuoso tra produzione di valore economico e creazione di valore sociale, è necessario garantire all’investitore tutte le informazioni per misurarne la performance e l’efficacia.

Inoltre, per come abbiamo definito l’IFS, la valutazione deve estendersi al sistema di gestione e alla capacità dell’impresa di usare in modo efficiente le risorse di cui dispone. Naturalmente questo approccio è molto restrittivo, nel senso che si riferisce ad imprese strutturate con determinate caratteristiche gestionali, ma non preclude l’accesso ad altri soggetti che non hanno ancora una organizzazione così strutturata. L’idea è quella di definire un idealtipo che possa essere un riferimento per la crescita e l’evoluzione di imprese che si affacciano al mercato dell’economia sociale.

I criteri per regolamentare l’accesso alla BS verranno infatti definiti a partire da un modello di valutazione delle IFS che abbiamo sviluppato a partire da alcune metodologie di riferimento per la CSR. A seconda delle dimensioni, caratteristiche e natura giuridica, tali criteri potranno essere declinati in modo flessibile.

Il modello di valutazione in questione è articolato su due livelli di analisi:

1. un’analisi del sistema di gestione, che deve essere in grado soddisfare criteri di responsabilità sociale e di efficienza economica;

2. un’analisi della produzione di valore sociale e ambientale, che deve essere coerente con la missione e proporzionato alle risorse impiegate

Il sistema di gestione interna

Il primo livello è assimilabile ad un’audit, ovvero ad un’analisi dei sistemi e dei processi interni secondo due chiavi di lettura. La prima è l’assunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli attori interessati all’attività di impresa (stakeholders), la seconda è l’efficienza economica nella gestione delle attività.

La valutazione del sistema di gestione si articola in sei ambiti di indagine:

• Profilo di impresa

• Risorse umane

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• Ambiente

• Clienti e Qualità

• Trasparenza

• Performance economica

Ogni ambito di indagine viene declinato in più criteri, ciascuno dei quali rappresentato da alcuni indicatori (vedi grafica). A titolo di esempio, l’ambito Risorse Umane, che riguarda la responsabilità dell’impresa nei confronti dei propri dipendenti e lavoratori, viene investigato prestando attenzione al tema delle pari opportunità, della formazione interna, della partecipazione, delle condizioni di lavoro e remunerative, e infine della sicurezza. Agli indicatori corrispondenti a ciascun criterio viene attribuito un punteggio secondo uno schema predefinito (vedi Scheda di valutazione).

Tabella 19: criteri nell’ambito “risorse umane” ������� � �������� � �������� � �������� � � � � � � � �� � � � � �� � � � � �� � � � � � � � ��� ����� ����� � ��� ����� ����� � ��� ����� ����� � ��� ����� ����

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I sei ambiti vengono analizzati a prescindere dal settore di appartenenza e dalla natura giuridica dell’impresa a finalità sociale. Tuttavia prima della valutazione di ogni impresa, viene effettuato un rapido screening per identificare le questioni chiave e la rilevanza dei criteri per ogni ambito di indagine. In questo modo si tiene conto della natura giuridica, del settore di appartenenza e di altri valori.

Figura 2: modalità di calcolo dello score

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Ad ogni indicatore viene assegnato un punteggio in una scala che va da 0 a 100, poi aggregato in una media semplice per dare un valore a ciascun criterio (c2.1, c2.2.)

I valori dei criteri vengono a loro volta aggregati mediante una media ponderata, i cui pesi sono assegnati in funzione della rilevanza del criterio per l’impresa oggetto d’esame (settore, natura giuridica, etc..)

Il Valore che si ottiene in questo modo è il punteggio dell’ambito Risorse Umane

La stessa operazione viene svolta per gli altri 5 ambiti

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Ad ogni indicatore viene assegnato un punteggio in una scala che va da 0 a 100, poi aggregato in una media semplice per dare un valore a ciascun criterio (c2.1, c2.2.)

I valori dei criteri vengono a loro volta aggregati mediante una media ponderata, i cui pesi sono assegnati in funzione della rilevanza del criterio per l’impresa oggetto d’esame (settore, natura giuridica, etc..)

Il Valore che si ottiene in questo modo è il punteggio dell’ambito Risorse Umane

La stessa operazione viene svolta per gli altri 5 ambiti

Criterio

Come descritto nella grafica precedente, agli indicatori di ciascun criterio viene attribuito un punteggio da 0 a 100, in base alle caratteristiche del sistema di gestione, che viene aggregato con media semplice per ottenere un valore unico. I criteri vengono a loro volta aggregati con una media ponderata i cui pesi riflettono la rilevanza del criterio per l’impresa oggetto d’esame. Se il criterio non è pertinente o applicabile, verrà attribuito un peso pari a zero.

Il valore finale che si ottiene per ogni ambito è un punteggio da 0 a 100 che può essere interpretato in questo modo:

[0] – Sistema insufficiente (l’impresa non mostra un impegno adeguato a gestire le Risorse Umane in modo responsabile)

[0-30] – Sistema sufficiente (scarsa considerazione e impegno solo superficiale da parte dell’impresa)

[30-65] – Sistema consolidato (il sistema di gestione considera in modo responsabile la questione)

[65-100] – Sistema avanzato (l’impresa mostra un forte impegno a migliorare la performance economica e socio-ambientale grazie ad un sistema di gestione avanzato).

Le principali fonti di informazione per condurre l’analisi sono rappresentate da:

• documenti pubblici che sono stati prodotti dalle imprese e dagli stakeholder (Bilancio, Bilancio sociale, etc..)

• interviste dirette al personale delle imprese e agli stakeholder strutturate sulla base dello schema di valutazione.

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La produzione di valore sociale

L’elemento distintivo di un’IFS è certamente la capacità di produrre valore sociale e ambientale, che si misura come il cambiamento indotto nel contesto di riferimento. Come un’impresa profit viene valutata per la capacità di generare profitto così un’IFS viene valutata per il grado di efficacia nel raggiungimento di un certo scopo.

“La social enterprise si configura come un processo innovativo votato esplicitamente alla creazione di valore sociale , attraverso il miglioramento di una situazione di disequilibrio sociale, e intrapreso all’interno di un’organizzazione imprenditoriale designata a contribuire, a iniziare o determinare un cambiamento sociale”46.

La performance di impresa non è più solo economica ma anche socio-ambientale, misurata su più dimensioni in modo quantitativo e prospettico. La valutazione quantitativa degli impatti che l’impresa è in grado di generare è necessaria a stimare il social return, un rendimento aggiuntivo rispetto al ritorno economico tradizionale. I valori numerici permettono di calcolare degli indici di ritorno sociale dell’investimento e di riformulare il profilo rischio/rendimento su più dimensioni.

La metodologia di valutazione della performance sociale si ispira alla teoria del cambiamento, ovvero al modo in cui l’organizzazione ha determinato un cambiamento nella società. Un’IFS può creare valore in modo efficiente ed efficace se utilizza al meglio i mezzi di produzione (input) e se genera dei risultati (output) che determinano impatti positivi per i beneficiari (diretti) e per il resto della comunità (indiretti).

Per misurare l’efficienza del processo, i risultati vengono valutati in rapporto alle risorse impiegate (tempo, denaro, lavoro, materiali), mediante il calcolo di output/input ratio; per misurare l’efficacia dell’attività di impresa, gli impatti diretti e indiretti vengono rapportati agli obiettivi generali.

Il criterio guida è la coerenza con la missione intesa come l’identificazione di un problema sociale e ambientale cui cercare di porre rimedio mediante l’applicazione di strumenti idonei o la produzione di determinati beni e servizi.

I mezzi impiegati, i risultati e gli impatti sono espressi da indicatori che vengono misurati e riportati ad un valore monetario tramite l’uso di proxy. A titolo di esempio, una cooperativa sociale che ha come finalità l’inserimento lavorativo di determinati soggetti, impiega le risorse misurabili in unità di tempo o costi (affitto sale, materiali, etc.) per svolgere dei corsi di riqualificazione professionale; i risultati sono misurati dal numero di partecipanti ai corsi, mentre gli impatti sono valutati in termini di posti di lavoro creati per i beneficiari. Per ottenere un valore monetario dell’impatto che indica il valore totale dei benefici generati, il numero di posti di lavoro viene moltiplicato per il costo unitario del lavoro.

L’espressione degli indicatori in unità monetarie permette il calcolo di indici di rendimento sociale quali il Social Return on Investment della New Economic Foundation (NEF), espressione del rapporto tra benefici totali e valore dell’investimento.

La performance sociale viene misurata dall’andamento di questi indici nel corso degli anni. I valori calcolati per un’impresa vengono confrontati con i valori indice di tutte le altre imprese che operano nel medesimo settore in modo da ottenere un’indicazione comparata (benchmarking).

46 Perrini F. Social entrepreneurship: imprenditorialità per il cambiamento sociale

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Figura 3: la Impact Value Chain

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Fonte: Impact Value Chain, Clark et al., 2004

Il processo di valutazione della performance sociale si compone di diverse fasi:

Fase 1 – identificare la missione, gli obiettivi e i beneficiari principali dell’attività di impresa

Fase 2 – definire una mappa di impatto (Impact Value Chain, Clark et al., 2004) che mostra le relazioni esistenti tra risorse investite, risultati e benefici

Fase 3 – calcolare l’investimento, i risultati prodotti, i benefici generati, mediante indicatori numerici (quantità)

Fase 4 – attribuire un valore monetario agli indicatori mediante proxy

Fase 5 – valutare l’impatto effettivo anche sulla comunità, ovvero circoscrivere il cambiamento direttamente imputabile all’attività svolta e non esito di altri processi

Fase 6 – calcolo di indici di efficacia, efficienza, social return

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La Borsa Sociale

Natura, struttura societaria e modello di governance

Una volta definita la microstruttura del mercato, si tratta ora di comprendere quali debbano essere le caratteristiche che contraddistinguono i soggetti coinvolti nella sua gestione.

Come detto sopra, la disciplina di questa materia è stata profondamente innovata dalla Direttiva MiFID che, tra le altre cose, ha di fatto interrotto il monopolio delle borse sulla gestione dei mercati. Ora, accanto ad esse possono operare anche altre imprese di investimento (in Italia, banche o società di intermediazione) operanti per la gestione dei cosiddetti Sistemi Multilaterale di Negoziazione (in inglese, Multilateral Trading Facility, da cui l’acronimo MTF). Come detto, una MTF è un sistema di negoziazione alternativo ai mercati regolamentati.

Ai nostri fini, quindi, si profilano due opzioni:

1. si costituisce una nuova impresa di investimento, Borsa Sociale S.p.A., che si propone come soggetto Gestore del mercato;

2. si definisce un accordo tra un’impresa già abilitata alla gestione del mercato da un lato e una nuova società, Pro-Borsa Sociale S.p.A. (PBS), che assume l’obiettivo di promuovere la nascita e la crescita del mercato stesso.

Di seguito, svilupperemo solo la seconda, poiché la prima sembra assai difficilmente praticabile per i vincoli di natura legale, economica ed organizzativa che si porrebbero. Nonostante si tratti di un mercato “non regolamentato”, in realtà gli oneri di natura legale che sono richiesti al Gestore sono estremamente elevati e richiedono una complessa organizzazione totalmente dedicata. Le operazioni di ammissione, di quotazione, di gestione delle transazioni e del post-trading sono infatti disciplinate in modo rigoroso e sottoposte a vigilanza. Dato che la sostenibilità stessa del mercato, come vedremo, non si può dare per sicuramente acquisita, un’operazione complessa e costosa come la nascita di una impresa di investimento ad hoc ci sembra oggettivamente temeraria. In conclusione, l’ipotesi 1 è perciò pressoché solo teorica.

Dal punto di vista del governo del mercato, il modello che ci sembra più interessante e più facilmente replicabile è quello utilizzato per il lancio del Mercato Alternativo dei Capitali (MAC). In questo caso, due sono i soggetti che svolgono un ruolo:

• da un lato Promac, Società di Promozione del Mercato Alternativo del Capitale S.p.A.. In particolare, Promac, che detiene la proprietà intellettuale del MAC, ne promuove lo sviluppo e la conoscenza presso imprese e investitori, fornisce supporto agli operatori del Mercato gestisce il sito internet del MAC e organizza eventi per la promozione del Mercato. Promac è partecipata da 17 soci bancari/finanziari e da 7 soci istituzionali;

• dall’altro, Borsa Italiana, col compito di gestire il mercato (anche in questo caso, una MTF). Più precisamente, Borsa Italiana ha la responsabilità di ammettere le imprese alla negoziazione, di gestire le negoziazioni e vigilare sul corretto e regolare svolgimento delle operazioni.

Questo meccanismo permette ai promotori del mercato di assicurare il perseguimento degli obiettivi che si sono posti (tutelati da una serie di clausole ben definite nel rapporto con Borsa Italiana), senza doversi accollare gli oneri e i rischi collegati alla

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creazione di una società di investimento ad hoc. Borsa Italiana, per parte propria, svolge un ruolo di fornitura di servizi del tutto coerente con il proprio core business, con limitati costi marginali e opportunità di ulteriore sviluppo.

Nel caso che ci occupa, la relazione tra il promotore del mercato e il Gestore dello stesso presenta profili di particolare complessità e delicatezza, dato che gli obiettivi e la natura specifici dell’iniziativa richiedono una particolare cura degli aspetti relativi all’accesso al e alla permanenza nel mercato, la cui sopravvivenza è legata alla credibilità che riuscirà a guadagnarsi presso gli operatori.

Per questo motivo, rispetto al caso del MAC, nel nostro il rapporto tra il promotore del mercato e il Gestore dovrebbe essere maggiormente sbilanciato a favore del primo. È infatti PBS l’organizzazione che può farsi garante di fronte al vasto mondo dell’economia civile e alla società in generale della genuinità della proposta politica e del rigore con cui verrà realizzata. Anche se, tecnicamente, sarà il Gestore del mercato il soggetto con cui le IFS stringeranno i contratti che regolano la quotazione, occorrerà assicurare a PBS un ruolo e una visibilità maggiori rispetto a quelli che le derivano dalla posizione di mero soggetto promotore, riservandogli alcuni reali poteri di intervento.

Va ricordato, tuttavia, che gli accordi tra PBS e il Gestore del mercato hanno pur sempre natura privatistica; sono dei contratti che vincolano le Parti, ma non sono opponibili ai terzi. Inoltre, questi accordi non potranno intervenire sulla gestione diretta delle materie riservate dalla legge alle imprese di investimento. Quindi, l’Autorità di Vigilanza guarderà sempre al Gestore del mercato come proprio interlocutore, al di là del fatto che PBS possa vantare o comunicare esplicitamente una sorta di “paternità” del mercato.

PBS dovrà contribuire incisivamente alla definizione delle regole di quotazione (listing rules), anche se poi, tecnicamente, saranno trasferite in un atto del Gestore del mercato. Esse dovranno prevenire comportamenti opportunistici da parte degli emittenti e degli investitori, preservando il capitale di reputazione indispensabile per alimentare la fiducia degli attori coinvolti nel suo funzionamento, indispensabile per la continuità nel tempo dell’impresa.

PBS potrà intervenire nel merito della gestione del mercato indirettamente, per esempio accreditando i soggetti specializzati nella valutazione e nell’accompagnamento delle IFS alla quotazioni, e quindi verificandone le competenze e la credibilità, stabilendo quali metodologie debbano essere utilizzate allo scopo. Il problema che PBS dovrà affrontare e risolvere è, insomma, quello delle regole che caratterizzano questo mercato come unico e ontologicamente diverso dagli altri mercati finanziari tradizionali.

Per coerenza, PBS dovrà costituirsi essa stessa come IFS, ponendosi l’obiettivo di sostenibilità sia in termini economici (e quindi la generazione di un plusvalore che remuneri l’investimento dei soci) sia sociali.

Pur assumendo la natura di società di capitali, per le ragioni che diremo, si darà regole statutarie che ne determinino inequivocabilmente la finalità sociale, anche attraverso la limitazione alla distribuzione degli utili. Dovrà dar conto, come le imprese che al suo mercato saranno quotate, dei benefici sociali generati e misurare il dividendo sociale che offrirà agli azionisti e alla comunità in generale.

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Proprietà e Corporate governance

Nella nostra ipotesi di lavoro, il capitale di PBS sarà suddiviso tra gruppi di azionisti, ciascuno espressione di una platea di soggetti interessati allo sviluppo del mercato. In via preliminare, potrebbero essere identificati almeno quattro gruppi:

• Amministrazioni Locali, in particolare Amministrazioni Regionali – esse sono interessate allo crescita delle IFS operanti nel proprio territorio, in quanto responsabili dello sviluppo economico e della qualità dei servizi sociali che parte di esse possono erogare alle comunità locali. Possono partecipare direttamente o, più agevolmente, attraverso le società finanziarie regionali;

• Fondazioni, in particolare di origine bancaria – esse sono interessate alla crescita delle IFS operanti nel proprio territorio, in quanto soggetti la cui attività è coerente con la loro missione e possono rappresentare oggetto di investimento diretto del loro patrimonio;

• Associazioni di imprese e centrali cooperative, nonché altre organizzazioni che forniscono servizi agli operatori dell’economia civile – esse sono interessate allo crescita delle IFS operanti nel proprio settore di operatività, in quanto espressione diretta del mondo imprenditoriale che si riconosce nell’idea dell’IFS;

• Banche e altri operatori finanziari, in particolare di livello locale o comunque vocati al supporto dell’economia civile – esse beneficiano direttamente o indirettamente dello sviluppo economico sostenibile delle aree o nei settori di operatività.

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Figura 4: diritti di voto in Pro-Borsa Sociale

I soggetti appartenenti a ciascuno di questi gruppi potranno differire per numero e per portata dell’investimento nel capitale di PBS. Nell’ipotesi che abbiamo formulato (e che è stata utilizzata per la stima del punto di pareggio), le quote dei soci sono diversificate per gruppi di azionisti, ma uguali per ciascun azionista appartenente a quel gruppo. Il sistema di governo dovrà comunque garantire l’equilibrio dei poteri di ciascuno gruppo, in modo da evitare il prevalere di interessi di parte.

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Figura 5: quote di capitale in Pro-Borsa Sociale

La struttura di governo societario di PBS dovrà essere disegnata, realizzata e mantenuta in modo da assicurare il contemperamento tra gli interessi di PBS stessa e quello dei suoi soci, in particolare gli investitori privati. Perciò, sarà segnata una netta separazione tra gli organi di governo, quelli di controllo e la struttura operativa, che dovrà riportare ad un Direttore Generale.

Il CdA sarà solo in parte composto da rappresentanti degli azionisti; avrà una quota significativa (almeno un terzo) di membri indipendenti – identificati da un apposito Comitato Nomine.

Il Presidente del CdA sarà eletto tra i membri indipendenti.

I membri del Collegio dei Revisori saranno eletti dall’Assemblea all’interno di una rosa proposta da soggetti indipendenti, quali per esempio l’Agenzia per le Onlus, il Forum del Terzo Settore, l’Albo dei Commercialisti, l’Associazione dei Revisori Contabili.

Ove queste garanzie non fossero ritenute adeguate o sufficienti, è possibile immaginare anche un ruolo di supervisione di un Comitato esterno e indipendente, nominato dalle rappresentanze della società civile organizzata, che verifichi periodicamente il rispetto dei principi e dei valori che hanno ispirato la nascita di PBS e la coerenza tra i risultati ottenuti e gli obiettivi dichiarati.

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Gruppo 1 Gruppo 1 Gruppo 1 Gruppo 1

Assemblea degli Azionisti

Consigliere delGruppo

1

Consiglio di Amministrazione

Consigliere delGruppo

2

Consigliere delGruppo

3

Consigliere delGruppo

4

Consigliere

indipendente

Consigliere

indipendente

Consigliere

indipendente

Figura 6: macro struttura di governo in Pro-Borsa Sociale

Organizzazione

Data la natura di soggetto promotore del mercato, PBS dovrà svolgere due funzioni essenziali: quella di marketing e quella di quasi-supervisione.

La prima è tecnicamente meno complessa. Si tratta, essenzialmente, di sollecitare le imprese che hanno le caratteristiche per farlo, a considerare la strada della quotazione. L’aspetto discriminante sarà, in questo caso, la ricerca dei profili professionali più adatti – cioè persone che conoscano bene sia il mondo del non profit tradizionale sia quello del for profit innovativo). Dal punto di vista delle strategie e degli strumenti, occorrerà agire in diverse direzioni:

• l’intervento nel territorio, attraverso eventi, presentazioni e contatti diretti con le IFS;

• l’utilizzo intensivo della comunicazione, veicolata sia attraverso i media tradizionali (a partire dal web), ma anche gli strumenti di comunicazione informale e cosiddetta virale;

• l’attivazione di contatti con le istituzioni, le organizzazioni imprenditoriali e i mediatori (commercialisti, avvocati, consulenti) che possano da un lato segnalare le imprese con le caratteristiche giuste e dall’altro affiancarle nel percorso di quotazione;

• la creazione di un contesto complessivamente favorevole alle IFS, ivi compresa la dimensione normativa, da migliorare attraverso trasparenti attività di lobby.

Particolare importanza avrà la presentazione di casi di successo, che diventeranno gli esempi cui riferirsi per sollecitare la partecipazione al mercato.

Il secondo ambito di attività è, dicevamo, consiste nella quasi-supervisione del funzionamento del mercato. Utilizziamo questa espressione perché, giuridicamente e

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tecnicamente, l’ammissione (o la sospensione) di una società, così come tutta l’attività di compliance, rientrano tra le responsabilità del soggetto gestore, ma non potrà essere altri che BS a stabilire i contenuti delle listing rules e ad assicurarsi che vengano applicate con correttezza ed equità. Da questo punto di vista, è evidente che sarà BS il soggetto identificato col mercato, anche se non ne è il Gestore in senso tecnico. Si tratta di una situazione, per così dire, di responsabilità oggettiva, da cui dovrebbero discendere dei poteri di fatto. In particolare, quindi, tale funzione di garanzia sarà esplicitata attraverso:

• l’aggiornamento delle regole di quotazione;

• la gestione delle procedure di accreditamento degli soggetti specializzati all’assistenza e alla valutazione delle IFS;

• la verifica del rispetto delle regole in tutte le fasi di funzionamento del mercato, anche attraverso il controllo della soddisfazione degli stakeholder coinvolti nell’iniziativa.

Tecnicamente, queste funzioni (che ai fini della vigilanza rimangono sotto la responsabilità del Gestore del mercato) saranno esercitate da PBP in forza di un accordo privato tra i due, che prevederanno opportuni meccanismi di coinvolgimento.

Anche per questi motivi, oltre che di funzioni specialistiche dedicate a ciascuna di queste attività, PBS si dovrà dotare di una struttura di Audit, indipendente dalle altre, che riporti direttamente al CdA.

Modello di business e prima valutazione economica

Data l’aleatorietà di alcune delle variabili che abbiamo considerato e la loro importanza ai fini di una valutazione di sostenibilità economica, non siamo nelle condizioni di definire un business plan se non con qualche margine di incertezza. Possiamo, al più, individuare le macro-voci di ricavo e di costo che determineranno la sostenibilità del mercato e l’equilibrio dei bilanci di PBS. Va sottolineato una volta di più che la generazione di valore economico rappresenta per le IFS, quale PBS vorrà essere, un vincolo e non un obiettivo. Gli azionisti dovranno essere consapevoli che il loro intervento non ha lo scopo di incamerare dividendi.

Quindi, grossolanamente:

• i ricavi attesi di PBS sono rappresentati da:

o una percentuale delle quote di ammissione (admission fees) e delle quote annuali (annual fees)

o quote annuali accreditamento dei soggetti che affiancano l’IFS

• I costi attesi sono rappresentati da

o personale

o sede e IT

o comunicazione e marketing

o overheads

In ordine ai ricavi derivanti dalle admission e dalle annual listing fees (che saranno esatte dal Gestore del mercato e stornate in parte a PBS in virtù degli accordi cui

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abbiamo fato cenno), stimiamo che il numero di IFS quotate arriverà a circa 70 nel giro di sei anni, periodo entro il quale è previsto il punto di pareggio di bilancio. Abbiamo previsto dei costi di quotazione sensibilmente inferiori a quelli dei mercati tradizionali. Le quote sono state differenziate a seconda della dimensione dell’IFS quotata, misurata in termini di capitalizzazione, arrivando a definire tre gruppi (piccole, medie e grandi). Peraltro, il peso relativo dei costi di quotazione sul valore dell’operazione dipende in larga parte dall’ammontare del flottante: qualora l’IFS decida di mettere sul mercato una quota poco significativa del proprio capitale, l’incidenza dei costi fissi sarà maggiore e quindi il vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento inferiore.

Figura 7: numero di IFS quotate

Questo numero di società ammesse appare sufficiente a garantire la copertura dei costi anche del Gestore del mercato il quale, come detto, avendo già tutte le infrastrutture materiali e immateriali necessarie, dovrà sostenere solo costi marginali – a parte quelli tecnici e amministrativi connessi all’attivazione. Non abbiamo immaginato ricavi per il Gestore direttamente derivanti dalle negoziazioni, che non prevediamo essere troppo frequenti: l’investimento in IFS non ha obiettivi speculativi e quindi non si giustificano operazioni intra-day.

L’altra fonte di ricavo per PBS è rappresentata dalla gestione del meccanismo di accreditamento dei soggetti specializzati nella valutazione delle IFS candidate alla quotazione. Anche in questo caso, abbiamo stimato che possano essere interessati a partecipare un numero limitato di operatori (circa 20 nell’arco dei 6 anni oggetto di

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previsione). Naturalmente, esso è fortemente correlato al numero di IFS quotate e alla quota di mercato che riusciranno ad accaparrarsi e a mantenere i first movers.

Se il numero di questi soggetti accreditati fosse inferiore alle aspettative e quindi insufficiente a garantire adeguate entrate, potrebbe essere adottato un meccanismo che preveda il pagamento a PBS di una quota variabile in relazione al numero di attestazioni di conformità rilasciate alle IFS.

In ogni caso, poiché è certo che nella fase iniziale i costi supereranno i ricavi, occorrerà utilizzare il capitale raccolto presso gli azionisti, che servirà a garantire la copertura delle perdite per i primi anni. Riteniamo che il punto di break even possa essere raggiunto al sesto anno di attività.

Figura 8: costi e ricavi attesi per PBS nei primi 6 anni di attività

Peraltro, la rapidità con cui sarà raggiunto il punto di pareggio può variare significativamente in relazione a ciascuna delle componenti di costo e di ricavo che sono state ipotizzate. Per esempio, stimiamo che, data la natura dell’iniziativa, alcuni servizi possano essere acquistati a costi ridotti: la sede potrebbe essere messa a disposizione a un canone non di mercato o addirittura a titolo gratuito, così come l’accesso ad alcuni servizi di base, come l’IT; lo stesso si può immaginare per altre forniture.

In particolare, una formula che potrebbe essere adottata e che inciderebbe significativamente sul fronte della riduzione dei costi è l’affidamento in outsourcing di alcune attività di coordinamento e di promozione. Da questo punto di vista, Avanzi, quale soggetto ideatore dell’iniziativa e candidata socia di PBS, potrebbe garantire lo svolgimento delle iniziative di comunicazione e di prima organizzazione generale, contenendo i costi fissi di personale di PBS e sfruttando economie di scopo e di scala, evidenti data la natura e la struttura organizzativa di Avanzi.

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L’idea è che, comunque, nel medio periodo l’impresa debba autosostenersi e creare valore anche economico. Sostegni diretto o indiretto sarebbero giustificabili, pena la credibilità dell’intera operazione, solo se a termine.

Al fine di incentivare la partecipazione al mercato da parte delle IFS, abbiamo immaginato che alcuni tra i soci particolarmente coinvolti nello sviluppo dei mercati, o anche altre organizzazioni non socie che tuttavia credano nell’operazione, possano mettere a disposizione dei fondi per alleviare (tendenzialmente solo in parte) i costi diretti e indiretti che le prime IFS dovranno sostenere per la quotazione. Si tratterebbe di un contributo a fondo perduto, con una durata limitata nel tempo, con l’obiettivo di creare l’abbrivio necessario per attivare un circolo virtuoso.

Collegamenti internazionali

L’idea di un mercato italiano di capitali per imprese a finalità sociale nasce da alcune interessanti esperienze in ambito internazionale che hanno come obiettivo la costruzione di mercati finanziari in grado di favorire l’investimento in attività economiche a forte valenza socio-ambientale. Queste esperienze hanno caratteristiche molto diverse fra loro ma possono essere considerate elementi di un unico mercato globale di social capital. Si tratta di piattaforme di scambio on-line o di vere e proprie borse che facilitano il contatto e la transazione tra investitori e imprese a finalità sociale; lo scambio può avvenire in termini di finanziamento diretto a progetti specifici o tramite l’acquisto di quote (azioni) di partecipazione al capitale di rischio. Alcune iniziative sono già in una fase avanzata di sviluppo, se non già operative, altre sono ancora ad uno stadio embrionale.

Esempi includono Give India (United States/India); Bovespa Social (Brazil); Help Argentina (Argentina); Global Giving (US/UK), Connexion Colombia (Colombia); GreaterGood South Africa (South Africa), Mission Fish (US), BetterPlace (Germany); Rangde (India); Wokai (United States/China); Give Meaning (Canada); London Social Stock Exchange (UK); South Africa Social Investment Exchange (SASIX); Social Stock Exchange Asia (SSXA).

L’aspetto forse più interessante di queste iniziative è il potenziale di sviluppo insito nella creazione di un mercato unico per capitali e imprese sociali, ovvero in una rete estesa di piattaforme/borse che accresca le opportunità di investimento e i volumi di scambio.

È quanto studiato nell’ambito del progetto GSIX – Global Social Investment Exchange – promosso dal Greater Good South Africa Trust e sostenuto dall Fondazione Rockfeller, in cui Avanzi è coinvolta. Il progetto è finalizzato appunto alla definizione di un mercato unitario che rafforzi le iniziative locali e rappresenti un soggetto istituzionale di riferimento.

Il quadro di riferimento è dunque molto interessante e dinamico: almeno da un punto di vista “macro” esistono tutti i presupposti per dare piena operatività al mercato italiano ancorandolo ad altri sistemi di scambio.

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Appendici

Scheda di valutazione del sistema di gestione dell’IFS

Ambito Criterio Indicatore Quesiti Punteggi 1.1 Natura giuridica Tipo di impresa

- La natura giuridica dell’impresa? - L’oggetto sociale e il settore di attività? - Esiste qualche forma di remunerazione del capitale proprio (dividendi, interessi, altro)?

1.2 Assetto societario (shareholder)

Numero di soci - Com’è definita la proprietà? - Quanti sono i soci e di che tipologia (persone fisiche o giuridiche)? - Quale andamento (entrate uscite di soci) negli ultimi anni? - Quanti soci prestano lavoro?

1. Profilo di impresa Descrivere la tipologia di impresa, l’assetto proprietario, i principali connotati organizzativi e operativi.

1.3 Organi di governo Amministratori

- Previsioni statutarie e deleghe agli amministratori? - Sono presenti organi di controllo? - La remunerazione degli amministratori è legata a obiettivi di efficienza ed efficacia sociale?

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Stakeholder - Esiste una mappatura dei portatori di interesse? - Esistono forme di consultazione /ascolto degli stakeholder e di integrazione delle loro opinioni nella definizione delle strategie?

1.4 Fonti di finanziamento Importi - Quali sono le principali fonti di finanziamento? - Quali sono i limiti al finanziamento privato?

2. Risorse umane Gestire le risorse umane in modo responsabile, promuovendo le pari opportunità e la crescita professionale e umana. Evitare discriminazioni di ogni genere. 10 criteri

2.1 Non discriminazione/Pari opportunità

Politiche di selezione del personale

- Le politiche di selezione del personale promuovono le pari opportunità? *genere *razza, nazionalità *religione *disabilità

100 – L’impresa segue delle linee guida scritte e comunicate a tutta la struttura in cui si fa esplicito riferimento alla prevenzione delle diverse forme di discriminazione nella selezione del personale 65 – Linee guida generali su non discriminazione non riferite alla selezione 30 – Consuetudine 0 – Niente di tutto ciò

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Strumenti per ridurre i rischi di discriminazione

- Quali strumenti esistono per ridurre i rischi di discriminazione? *formazione delle persone su temi legati alla discriminazione *forme di flessibilità dell’orario per facilitare le cure parentali e le esigenze familiari in generale * servizi di assistenza per la cura dei bambini *procedure e controlli per garantire che il personale non sia discriminato nelle: opportunità di carriera, remunerazione, ... *canali dedicati tramite cui il personale che ha subito molestie o discriminazioni può riferire e procedure per verificare la sussistenza di tali comportamenti e punire i colpevoli

100 – 4 /5 strumenti 65 – 3 strumenti 30 – 1/2 strumenti 0 – nessuno

Numero e tipo di cariche ricoperte dalle donne

- Com’è ripartito il personale uomo/donna? - Segmentazione qualifiche e cariche per sesso

100 – Donne/uomini >50% 65 – Donne/uomini>40% 30 – Donne/uomini >20% 0 – <10%

2.2 Formazione Corsi di aggiornamento e - L’impresa organizza 100 – L’impresa organizza

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formazione iniziative di formazione interna? - I programmi di formazione hanno il solo scopo di rendere i lavoratori idonei al lavoro da svolgere o sono volti al miglioramento delle capacità e allo sviluppo personale?

iniziative di formazione che hanno il doppio scopo (formazione per il lavoro da svolgere e sviluppo competenze) 65 – L’impresa organizza iniziative di formazione per il lavoro e, a richiesta del dipendente, offre qualcosa nel senso dello sviluppo del personale 30 – L’impresa organizza iniziative di formazione per il lavoro 0 – nulla

Quota di personale coinvolto

- Qual è la percentuale di personale che può partecipare a corsi di aggiornamento?

100 – 100% del personale 65 – >75% del personale 30 – solo alcuni, tipicamente i responsabili 0 – nessuna formazione viene elargita

2.3 Gestione partecipata Forme di gestione partecipata

- Ci sono momenti di discussione collettiva o meccanismi partecipativi su temi legati alla gestione e all’organizzazione del lavoro?

100 – Si e si tengono con regolarità 65 – Si ma solo su richiesta del personale

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30 – Si ma solo su richiesta del management 0 – No

Contratti atipici - Vengono applicati e rispettati i contratti di riferimento? - Che tipologie di contratto offrite al personale? Indicare, sul totale dei contratti, il: - n° di collaborazioni coord e continuative (o simili) - n° di contratti a tempo determinato - n° di contratti interinali - n° di contratti part-time - n° di contratti a tempo indeterminato - Quanti degli interinali /contratti a tempo determinato /collaborazioni co.co.co sono stati trasformati in tempo indeterminato negli ultimi 3 anni?

Il punteggio fa riferimento alla % di interinali / tempo determinato sul totale e alla crescita / decrescita dei contratti a tempo indeterminato.

2.4 Condizioni di lavoro

Valutazione del personale - Quali procedure esistono per valutare la qualità del lavoro svolto durante l’anno dal personale?

100 – Definizione chiara e trasparente dei ‘ruoli’ e dei compiti legati a ciascun ruolo. Valutazione annuale delle performance del lavoratore

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rispetto al ruolo assegnato. Definizione chiara e trasparente dei criteri utilizzati nella valutazione 65 – Assenza di formalizzazione nella definizione dei ruoli ma valutazioni annuali condotte sulla base di criteri definiti e trasparenti 30 – Valutazioni più o meno regolari e non formalizzate 0 – Assenza di valutazioni

Meccanismi di compensazione

- In caso di orari atipici, quali meccanismi di compensazione vengono applicati ? * minimo per legge * voluntary flex-time schemes * additional paternity / family care leaves

100 – Meccanismi ulteriori rispetto a quelli previsti per legge 0 – Quanto previsto per legge

Politica di prevenzione - Politica o linee guida interne in tema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali?

100 – obiettivi quantitativi 65 – obiettivi qualitativi, politica completa 30 – politica generica 0 – nulla

2.5 Salute e sicurezza

Sistema di risk assessment - Esiste un sistema interno di risk assessment, monitoring and training ?

100 – si, esiste uno studio di valutazione dei rischi, procedure per prevenire e gestire eventuali

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emergenze, formazione del personale e monitoraggio 65 – formazione /informazione del personale sui rischi e sulla prevenzione, monitoraggio 30 – monitoraggio 0 – nulla

Infortuni e contenziosi - Ci sono stati infortuni e contenziosi in merito a salute e sicurezza ? Chiedere all’azienda di indicare per gli ultimi 3 anni: *n° di infortuni ultimi 3 anni e cosa è stato fatto a seguito di questi per evitarne altri * n° di giorni di assenza per malattie professionali (di durata superiore a qualche tot..) * livello di assenteismo

In base al trend (in miglioramento o peggioramento viene attribuito un punteggio)

2.6 Qualità del sistema di remunerazione

Criteri remunerativi - Quali sono i criteri adottati per la definizione della remunerazione del personale?

100 – Definizione di criteri oggettivi e trasparenti 0 – Assenza

3. Ambiente Definire chiari obiettivi e misure appropriate per la gestione degli impatti

3.1 Gestione ambientale Sistema di gestione ambientale

- L’impresa ha una politica ambientale dichiarata? - Esiste una strategia per la gestione ambientale?

100 – L’impresa ha una politica e una strategia di gestione ambientale cui sono state assegnate delle risorse

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- Sono state allocate risorse per la gestione e la sensibilizzazione interna? - Vengono fatti Acquisti verdi?

65 – L’impresa ha un generico impegno verso l’ambiente ma è priva di una strategia e misure specifiche 30 – L’impresa effettua solo acquisti verdi 0 – Nessun impegno

3.2 Trasporti sostenibili Consumo di benzina/gasolio

- Sono state adottate misure per ridurre l’inquinamento dei mezzi privati di trasporto?

100 - L’impresa ha adottato misure indirizzate alla promozione del trasporto sostenibile ovvero alla riduzione delle emissioni da mezzi privati: sostituzione auto a metano (gpl), mobilità lenta, etc. 65 – L’impresa fa un uso sostenibile dei mezzi di trasporto, limitando lo spostamento di persone e merci 30 – Il personale usa di regola la bicicletta e i mezzi di trasporto pubblico per propria scelta 0 – Nessuna misura

ambientali derivanti dalla produzione di beni e servizi 4 criteri

3.3 Gestione rifiuti Rifiuti prodotti

- Viene fatta la raccolta differenziata? - Si promuove il riuso e il riciclo tramite acquisto di prodotti riciclati?

100 – L’impresa è impegnata alla riduzione dei rifiuti, effettua raccolta differenziata, promuove il riuso e riciclo.

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65 – L’impresa effettua raccolta differenziata e smaltisce correttamente rifiuti speciali (pc, elettronica, altro) 30 – L’impresa acquista prodotti riciclati (carta, toner, etc.) 0 – Nessuna misura

3.4 Consumo di energia Energia consumata da fonti non rinnovabili

- Vengono misurati i consumi di energia? - Sono state adottate misure e tecnologie per l’efficientamento energetico e la riduzione dei consumi? - Si produce e consuma energia da fonti rinnovabili?

100 – L’impresa controlla il consumo di energia e/o produce energia rinnovabili, adotta tecnologie per l’efficienza energetica 65 – L’impresa adotta almeno una delle due precedenti misure 30 – L’impresa fa informazione interna e esterna sul risparmio energetico 0 – Nessuna attenzione al tema

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4. Clienti e Qualità Offrire beni e servizi di qualità che soddisfino i clienti; mantenere buone e stabili relazioni con clienti e fornitori 7 criteri

4.1 Codice etico

Codice etico - Esiste una politica per la prevenzione dei casi di corruzione? Quali dei seguenti temi vengono considerati in questa politica: 1. corruzione/concussione 2. omaggi e regalie 3. conflitto di interessi 4. frode 5. appropriazione indebita 6. uso dei beni aziendali - Quali dei seguenti strumenti la società ha adottato per prevenire casi di corruzione: 1. segnalazione non anonima di sospette violazioni della politica 2. segnalazione anonima (casella di posta dedicata, etc.) di sospette violazione della politica 3. controlli interni 4. procedure di approvazioni per doni e regali

100 – L’impresa ha una politica sulla prevenzione dei casi di corruzione e tale politica considera tutti gli aspetti rilevanti; ha adottato strumenti idonei 65 – L’impresa ha una politica sulla prevenzione dei casi di corruzione e tale politica considera la maggior parte degli aspetti rilevanti ma non ha adottato strumenti 30 – L’impresa esprime un generico impegno a prevenire casi di corruzione 0 – L’impresa non ha una politica sulla prevenzione dei casi di corruzione

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Violazioni del codice etico - Avete avuto o ancora sussistono cause legali?

100 – L’impresa non ha avuto e/o non ha contenziosi legali in corso 65 – L’impresa ha avuto causa/contenziosi risolti positivamente 30 – L’impresa è o è stata coinvolta in alcune causa legale poco significativa 0 – L’impresa è o è stata coinvolta in una causa legale significativa o in diversi cause legali poco significative.

4.2 Qualità di prodotti e servizi

Customer satisfaction - E’ attivo un sistemi di verifica del grado di soddisfazione della clientela?

100 – Si 0 – No

4.3 Gestione reclami Sistema di gestione reclami - C’è un sistema semplice e accessibile per i reclami? - Quali procedure sono state adottate per la gestione dei reclami? - La società partecipa a tavoli di confronto, gruppi di lavoro con le associazioni dei consumatori per migliorare e rendere più trasparente la relazione con la clientela?

100 – L’impresa ha un sistema di gestione dei reclami chiaro e trasparente. Inoltre partecipa a tavoli di confronto con le associazioni dei consumatori per rendere più trasparente e chiara la propria offerta di prodotti e/o servizi 65 – L’impresa ha un sistema di gestione dei reclami chiaro e trasparente

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30 – L’impresa ha un sistema informale di gestione dei reclami 0 – L’impresa non ha adottato alcun sistema di gestione dei reclami.

Contenziosi legali - Ci sono stati contenziosi con associazioni di tutela consumatori o simili?

100 – L’impresa non ha contenziosi legali con le associazioni a tutela dei consumatori. Inoltre partecipa a tavoli di confronto con le associazioni dei consumatori 65 – L’impresa non ha contenziosi legali con le associazioni a tutela dei consumatori 30 – L’impresa ha un minore contenzioso legale con le associazioni a tutela dei consumatori 0 – L’impresa ha diversi minori contenziosi legali (o un grave contenzioso legale) con le associazioni a tutela dei consumatori.

4.4 Selezione e rapporti con i fornitori/partner

Sistema di selezione fornitori

- Sono state adottate delle Linee guida per la selezione dei fornitori?

100 – L’impresa ha adottato una politica di selezione dei fornitori che prende in considerazione sia

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- Tale Linee guida prevedono la selezione dei fornitori anche in base a criteri ambientali e sociali? - Quali strumenti sono stati adottati per includere criteri sociali e ambientali nella selezione dei fornitori?: 1. questionari di auto-valutazione dei fornitori 2. audit dei fornitori 3. clausole contrattuali inserite nei contratti di fornitura 4. formazione dei dipendenti preposti alla selezione

criteri sociali che criteri ambientali, con relativi strumenti di selezione 65 – L’impresa ha adottato una politica di selezione dei fornitori che prende in considerazione criteri sociali o ambientali (senza strumenti) 30 – L’impresa ha adottato una politica di selezione dei fornitori che fa un generale riferimento all’adozione di criteri socio-ambientali e non ha strumenti 0 – L’impresa non ha adottato una politica di selezione dei fornitori

Numero di fornitori/partner con rapporti di durata superiore ai 2 anni (long-term partnership)

- Quante partnership o rapporti di fornitura essitono da più di due anni? - Quali strumenti la società ha adottato per garantire relazioni stabili con i fornitori?

100 – 100% dei fornitori/partnership da più di due anni 65 – >50% dei fornitori 30 – >30% dei fornitori 0 – <10%

5. Trasparenza Svolgere attività di comunicazione, promozione e marketing responsabili

5.1 Rapporti con i mezzi di comunicazione/marketing responsabile/fund raising

Risorse impiegate - Quali attività svolte per la raccolta fondi? - L’impresa effettua comunicati stampa?

100 – L’impresa tramite un responsabile svolge attività ordinaria di marketing/comunicazione/raccolta

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- Si acquistano spazi pubblicitari? - Vengono impiegate risorse per attività di marketing responsabile? - Avete personale dedicato?

fondi 65 – L’imprese ha solo un responsabile per la comunicazione 30 – Attività solo straordinaria di comunicazione (eventi particolari, altro) 0 – Nessuna attività

3 criteri

5.2 Comunicazione istituzionale

Bilancio socio-ambientale - Esiste un sistema di rendicontazione socio-ambientale? - Viene pubblicato un Bilancio Sociale e/o una relazione di missione?

100 – L’impresa pubblica il bilancio socio-ambientale come previsto dal decreto 155/2006 (se impresa sociale) o secondo gli standard del GRI e simili (se impresa profit) 65 – L’impresa pubblica un bilancio socio-ambientale non riferito a standard o linee guida 30 – L’impresa rendiconta sulle proprie performance socio-ambientali ma non in modo significativo 0 – L’impresa non pubblica un bilancio socio-ambientale né fornisce informazioni rilevanti sulle proprie performance socio-ambientali

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5.3 Informazione ai clienti Strumenti di informazione - Esistono modalità strutturate di informazione rivolta ai clienti su servizi e prodotti offerti? - Esiste un sito web aggiornato o altre forme di comunicazione?

100 – Si, diverse e strutturare 65 – Si, ma non strutturate 30 – Solo il sito web 0 – No

6.1 Ricavi e costi Ricavi e costi da gestione caratteristica

- Quale andamento di ricavi e costi negli ultimi tre anni?

Trend 3 anni

6.2 Attività e passività Capitale investito e fonti di finanziamento

- Com’è la composizione dello Stato Patrimoniale? - Qual è il patrimonio netto/capitale di rischio dell’imprenditore?

6.3 Indici di liquidità Current ratio (Attivo circolante/debito a breve)

6.4 Indici di redditività ROE – Return on equity (utile/mezzi propri) ROI – Return on investiment (risultato operativo/capitale investito)

6.5 Indici di indebitamento Debito/fonti di finanziamento Autofinanziamento (utile nd.+ ammortamento)

6. Performance economica Gestire in modo efficiente l’impresa in modo da garantire la continuità dell’attività svolta nel lungo periodo

6.6 Indice di efficienza Turnover (Fatturato/capitale investito)

Trend 3 anni

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Ambiti e Criteri generali per la valutazione del Sistema di Gestione 1. Profilo impresa/imprenditore - natura giuridica

- assetto societario - organi di governo - fonti di finanziamento

2. Risorse Umane - pari opportunità - formazione - gestione partecipata - condizioni di lavoro - salute e sicurezza - qualità sistema remunerazione

3. Ambiente - gestione ambientale - trasporti sostenibili - gestione dei rifiuti - consumo di energia

4. Clienti e qualità - codice etico - qualità di prodotti e servizi - gestione reclami - rapporti con fornitori

5. Trasparenza - relazioni esterne - bilancio sociale - informazione ai clienti

6. Performance economica

-ricavi/ costi -attività/passività -liquidità -redditività -indebitamento -efficienza


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