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'UN SOLO DEBARÌM

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0 Rijksuniversiteit Groningen Facoltà di Lettere Lingue e culture romanze Tesi di Laurea ‘UN SOLO DEBARÌM La divulgazione attuale del giudeo-parlare livornese, il bagitto. Relatore: Dr. R. de Jonge Correlatore: Dr. Ph.G. Bossier Candidato: Cees Wagemans, s1316419 Anno accademico 2008-2009
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Rijksuniversiteit Groningen Facoltà di Lettere

Lingue e culture romanze

Tesi di Laurea

‘UN SOLO DEBARÌM

La divulgazione attuale del giudeo-parlare livornese, il bagitto. Relatore: Dr. R. de Jonge Correlatore: Dr. Ph.G. Bossier Candidato: Cees Wagemans, s1316419

Anno accademico 2008-2009

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Indice

1. Introduzione 2

2. La calorosa accoglienza degli ebrei a Livorno

e gli anni che seguirono 8

3. Il bagitto tra gli altri dialetti ebraici in Italia 16

4. Struttura ed esecuzione dell’indagine 37

5. Lo stato delle cose in questo momento 41

6. Le minacce alla continuazione del bagitto 60

Conclusioni 69

Bibliografia, ‘Googlegrafia’ 72

Supplemento 1: Questionario lessico

Supplemento 2: Chiave questionario lessico

Supplemento 3: Questionario dati personali

Supplemento 4: Etimologia questionario lessico

Supplemento 5: Etimologia parole ottenute

Supplemento 6: Articolo Renzo Ventura ‘Il giorno dello iodio’

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1. Introduzione

Esistono molte definizioni della lingua. Senza compromettere il valore scientifico e

l’erudizione dei numerosi e autorevoli studiosi che hanno definito ‘la lingua’ in modo diverso,

voglio limitarmi in questo studio alla determinazione che la lingua è una forma di

comportamento acquisito. Questa definizione è troppo ampia ed allo stesso tempo troppo

ristretta: ampia perché tante sono le forme per descrivere un comportamento e non si può

sapere quale sarà ‘la lingua’ che si confà a questo comportamento né quali sono gli elementi

innati o acquisiti; ristretto perché ‘la lingua’ intesa come fenomeno supera gli enunciati

individuali o la stessa condotta. Mi è qui sufficiente invece utilizzare la categoria di ‘forma di

comportamento acquisito’, perché nel presente lavoro voglio occuparmi della divulgazione di

un gergo ebraico che si trova soltanto nella città di Livorno. Si tratta, dunque, di parole,

espressioni e del loro valore affettivo, con le quali un gruppo limitato di persone

comunicarono e comunicano ancora oggi fra di loro per intendersi ‘con un orecchio’ solo e

per escludere dalla comunicazione gli altri:

la funzione dissimulativa e sotterranea, di linguaggio furbesco destinato ad essere impiegato parlando

dei gôjím1 in presenza dei gôjím; o anche per rispondere arditamente, con ingiurie e maledizioni da non

comprendersi, al regime di clausura e di oppressione da essi instaurato. (Levi, 1994)2.

(…)lo spirito fortemente evocativo dell’ambiente, dei costumi giudaici che risultano per lo più da modi

di dire, frasi aderenti a piccole realtà quotidiane in cui l’informatore giustamente riconosce gli

intercalali, le esclamazioni, i motteggi, lo stile sinteticamente allusivo delle propria parlata che s’avvale

dell’elemento ebraico nella creazione di metafore oscure per gli estranei. (Massariello Merzagora,

19773, p. 62).

Il contesto comunicativo e una comunità linguistica sono dunque necessari per mantenere le

parole gergali, le connotazioni del vocabolario gergale, le sfumature ed il calcolo della

situazione in cui si usa il gergo. Quando l’occasione comunicativa in questione non si verifica

(più), le parole corrono il rischio di cadere nell’oblio:

Questo4 gergo è ora quasi scomparso; un paio di generazioni addietro, era ancora ricco di qualche

centinaio di vocaboli e di locuzioni (Levi, 1994, p. 8).

1 Non-ebrei. 2 Levi, Primo, 1994, Il sistema periodico, Einaudi, Torino, p. 8-9. 3 Massariello Merzagora, Giovanna, 1977, Giudeo-Italiano, Dialetti italiani parlati dagli Ebrei d´Italia, Pacini, Ospedaletto Pisa. 4. Levi parla del gergo giudeo-piemontese, ma la nozione vale per tutti i gerghi giudei.

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Questo studio vuole dare una risposta alla domanda: che cosa è rimasto del giudeo-parlare

livornese?

Prima di tutto va sottolineato che il giudeo-livornese – il bagitto o bagito, come viene

chiamato – è un linguaggio colloquiale. In forma scritta ci è rimasto poco di esso e le prime

manifestazioni letterarie bagitte avevano oltre tutto un carattere antisemita, come vedremo nel

capitolo 3.

Il nome bagitto o bagito viene dal giudeo-spagnolo bajito, il diminutivo di bajo che significa

basso. La pronuncia di bajo avviene in modo castigliano, cioè come una fricativa

palatoalveolare, la pronuncia che i discendenti dell’espulsione del 1492 hanno portato con sé.

Il raddoppiamento della t successe secondo la pronuncia degli ebrei livornesi.5 Con la parola

bagitto si indica che il linguaggio si incontrava nei ceti più umili della popolazione ebraica

labronica.6

Se l’aforisma ‘a shprakh iz a dialekt mit an armey un flot ‘ (‘una lingua è un dialetto con un

esercito ed una flotta’)7 è vero, non esiste alcun dubbio sul fatto che il bagitto non è una

lingua. Ma anche senza utilizzare un espressione metaforica, a nessuno salterebbe in mente di

considerare il parlare giudaico-livornese una lingua ufficiale. Se non è una lingua, bisogna

quindi denominare il bagitto in modo diverso. La modalità più ovvia sarebbe definirlo un

dialetto, che però presuppone sempre una forma di subordinazione: si parla sempre di un

dialetto di …. In questo modo dobbiamo interpretare il sottotitolo dell’articolo di Massariello

Merzagora, Giudeo-Italiano, Dialetti italiani parlati dagli Ebrei d’Italia.8 In questo caso i

dialetti fanno parte del totale ‘dell’italiano’. Un dialetto dunque viene sempre considerato in

relazione ad una lingua nazionale.9 Ci si può domandare se questo modo di concepire il

dialetto renda giustizia al carattere specifico del giudeo-parlare. In primo luogo il contributo

di altre lingue nazionali, importate dai profughi o dagli invitati dai litorali stranieri (ma più

spesso profughi della seconda o terza generazione10), supera una delimitazione troppo

5 Padre e figlio Bedarida mantengono tutte e due grafie: bagitto accanto a bagito. Bedarida, Guido 1956, Ebrei di Livorno, tradizione e gergo

in 180 sonetti giudaico-livornesi, Felice le Monnier, Firenze p. XVII e Bedarida, Gabriele 2007, ‘Il giudeo-livornese (bagitto)’, in Il Giudeo-

Spagnolo (Ladino), Cultura e tradizione sefardita tra presente, passato e futuro, Belforte, Livorno, pp. 79-83. 6 Un’altra suggestione dell’etimologia è, che la parola bagitto fosse derivata da vagito, cioè il pianto dei neonati. In realtà questa opzione non mi sembra molto opportuna, perché sfugge al fatto che il gergo si basa sul principio di non essere capito (da tutti), mentre il pianto di un neonato ha un messaggio comunicativo molto chiaro. Franceschini, Fabrizio, 2007, ‘Il tema alimentare nella letteratura giudeo-livornese dei secoli XIX e XX’ in Parole da gustare, Consuetudini alimentari e saperi linguistici (a cura di Marina Castiglione e Giuliano Rizzo), pp. 125-42, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo p. 127, denota in questo contesto l’espressione andalusa ‘cantando basito’, ‘filarsela senza essere notati’, in cui l’aspetto di nascondimento è ovvio. 7 Il detto viene ascritto ad un uditore sconosciuto di un corso di Max Weinreich (1894-1969), ma poi pubblicato dal linguista yiddish. (YIVO Bletter vol. 25, nr.1 pp. 3-18). Altri padri spirituali potrebbero essere stati Antoine Meillet (1866-1936) o Louis-Hubert Lyautey (1854-1934): ‘Une langue, c’est un dialecte qui possède une armée, une marine et une aviation.’ Noam Chomsky (1928) poi si è occupato della divulgazione dell’aforisma. 8 Massariello Merzagora, 1977, op. cit. 9 Cfr. Campagnano, Anna Rosa, 2007, Judeus en Livorno, sua língua, memória e história, Humanitas, São Paolo, p. 109. 10 I quali hanno covato (in questo caso) il ricordo alla Spagna come devono covare – secondo la fede ebraica - il ricordo a Gerusalemme: la visione del futuro è sempre legato ad un doloroso ricordo al passato.

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nazionale, cioè troppo circoscritta. In secondo luogo il modo di parlare viene utilizzato dalle

persone (o venne, visto che oggi si parla poco) per non essere comprensibile ai concittadini

(italiani) e dunque si può affermare che con questo vernacolo ci si è voluti esimere da un

sistema di comunicazione generale. Per di più i ‘dialetti giudeo-italiani’ pullulano di parole

ebraiche, il che sottolinea non una subordinazione, ma una differenza rispetto alla lingua

nazionale. Massariello Merzagora parla di dialetti perché crede nel concetto di una coinè

giudaica, cioè nell’esistenza di un fattore connettente tra i diversi modi di parlare giudeo in

Italia. Ma il bagitto, il nostro oggetto di studio, si caratterizza appunto per il fatto di essere

diverso. Ne parleremo nel capitolo 3. Nel caso dell’uso di un ‘linguaggio secreto’, si

preferisce di parlare di un gergo,11 anche se Massariello Merzagora respinge l’idea di un

gergo:

Le vicende delle singole parlate sono strettamente connesse con le vicissitudini delle comunità in cui

sorgono: prima ancora va detto che la composizione demografica e l’apporto storico di particolari

elementi (per esempio di ebrei parlanti il giudeo-spagnolo a Livorno) alla formazione delle varie

comunità, determina per alcuni centri una fisionomia linguistica che lascia più o meno trasparire l’entità

di queste immissioni. (…) Il destino del giudeo-italiano conosce il declino in un momento che è comune

a tutte le comunità, a partire dalla cosiddetta emancipazione, (…) quando i motivi di segregazione e di

frattura col mondo circostante vengono meno, si sgretola la compattezza del mondo culturale in senso

lato, dei valori che le parlate esprimano. La nascita in un ambiente per così dire «segregato» non

giustifica, tuttavia, a nostro avviso, il definire «gergali» tout court tali dialetti, anche se in taluni casi

essi assumono caratteri e funzioni de gergo, nella misura però in cui, in particolari e limitate

circostanze, ciascuno di noi può piegare il proprio strumento linguistico (lingua o dialetto) alle funzione

di gergo, in presenza per esempio di individui cui non si vuol far comprendere quanto si dice.12

Un altro ‘coinè-ista’, Mancini13, sottoscrive questo modo di vedere, ‘appunto la koinè, un

dialetto non artificiale, ma (aderente) alla realtà parlata degli ebrei’.

Per quanto riguarda una forma di esprimersi soltanto per iniziati, gli autori fanno meno

generalizzazioni vedono il bagitto come un gergo. Gergale è senz’altro l’avvertimento:

‘Aina lo zé!14

11 ‘O jargão (gergo, CW) (…) é uma límgua resultante de alterações de estrutura, não raro, pela interferência de mas um idioma. É uma língua convencional, falda por determinadas classes de pessoas que desejam se comunicar entre si e, também, não se deixar compreender por estranhos. É um código lingüístco usado come defesa, mas é também uma ligação entre pessoas unidas por condições de vida comuns. Sempre que um grupo de pessoas se incontra reunido por um longo período de tempo, em um ambiente onde se desenvolve uma vida em comum (escolas, lugares de trabalho, casernas, prisões, guetos, campos de concentração), o uso lingüístico individual assume uma extensão imprevisível, no grupo, por representar, de maniera eficaz, uma situação da qual todos os componentes participam.’ (Campagnano, op. cit., p. 108-09) 12 Op. cit., pp. 71-72. 13 Mancini, Marco, 1992, ‘Sulla formazione dell’identità linguistica giudeo-romanesca fra tardo Medievo e Rinascimento’ in Roma nel Rinascimento, Roma nel Rinascimento, Roma, pp. 53-120. (p. 73).

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5

Quando il 28 maggio 1943 gli Alleati bombardarono la città di Livorno e anche la sinagoga

venne distrutta insieme al resto del quartiere, gli ebrei cantarono:

Oh iudim

Chiamate i Tarzanim:

Ci sono gli iñgarenim

Che inganeveano

Alle yeshivà.15

Tuttavia si tratta di espressioni orali, che non pretendono di avere qualche valore in più. La

situazione cambiò quando il bagitto venne fissato in lettere scritte verso la metà dell’800.

Malgrado una brutta partenza (si veda il capitolo 3) – ci si può domandare fino a che punto si

tratti di bagitto: le prime opere sono un’imitazione della pronuncia del parlar giudaico

livornese, trascritta da non-ebrei .

Il bagitto ottenne un valore estetico letterario solo quando Guido Bedarida cominciò a

pubblicare negli anni venti del secolo scorso. Bisogna rilevare che i primi componimenti

erano pezzi teatrali, un fatto che facilitò la messa in scena delle persone che parlavano il

bagitto. Anche i sonetti (una forma già colta) sono pezzi teatrali, riproduzioni della vita

quotidiana all’interno del quartiere ebraico, in cui i personaggi vengono rappresentati parlanti

il bagitto.

Progressivamente si nota anche l’aumento della stima per le produzioni sempre più

considerate letterarie. Nel 1957 Guido Bederida sottolinea la diversità tra il bagitto (‘una sorta

di gergo’) ed altre parlate regionali appunto per la mancanza di opere scritte in prosa o in versi

con un valore artistico letterario, laddove definì il bagitto:

gergo e non già dialetto né, tantomeno, lingua, ben lontano, quindi, dall’espressività ed incisività dello

yiddish, che ha raggiunto vera e propria dignità di lingua letteraria.16

Bisogna aggiungere che il paragone sembra un po’ sproporzionato, visto che il campo

linguistico dello yiddish è infinitamente più grande di quello di una città con circa 150.000

residenti tra i quali meno del 1% sa comunicare in bagitto. In questa condizione anche la

14 ‘Guarda quel uomo!’ L’espressione si fece nel negozio oppure al banco, quando si vedeva una persona sospetta, cioè un ladro (gannev) sospetto. La forma femminile zodessa venne anche usato nel ceto medio ed alto per indicare la domestica, un esempio tipico di come si trattava una cosiddetta subordinata: non aveva un nome. 15 ‘O, ebrei, chiamate la polizia: ci sono dei cristiani (non-ebrei) che rubano la scuola ebraica’. 16 Bedarida, Guido, 1957, ‘Il gergo ebraico-livornese’, in Revista di Livorno, nrr. 1-2 (pp. 77-89), citato dal figlio Bedarida, Gabriele, 1992, ‘Tradizioni folcloriche sefardite a Livorno’, in E andammo dove il a cura di Guido Natan Zazzu), Marietti, Genova, pp. 81-102.

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probabilità di incontrare uno scrittore o poeta di talento e produttivo si riduce. Lo yiddish per

altro non ha niente a che fare con i dialetti giudeo-italiani, ma è una parlata degli ashkenaziti,

dunque degli ebrei dell’Europa del Nord. Tra lo yiddish ed il bagitto esiste soltanto la

somiglianza di qualche parola: condividendo la comune origine ebraica.

Nell’Introduzione’ della sua raccolta di sonetti, il suo capolavoro,17 Guido Bedarida

contribuisce ad una rivalutazione del parlare giudaico livornese, tracciando un aspetto che lo

qualifica come qualcosa di più di un vernacolo disadorno (senza esprimere nessun giudizio di

valore del proprio lavoro):

Una speciale sintassi, almeno ora, non c’è, né credo ci sia mai stata. Esiste invece anche adesso un certo

stile nel linguaggio, stile che trova la sua origine nelle radice del popolo e negli avvenimenti che si

andarono susseguendo, attraverso i secoli. Per concludere, ci si trova fronte ad una parlata, che non è

dialetto né vernacolo e forse nemmeno gergo, ma che è particolare ai soli Ebrei livornesi.18

L’elemento di esclusività del bagitto, solo per iniziati, spinse Modena Mayer nel 1978 a definire il

bagitto un gergo:

Il giudeo-livornese si presenta allo stato attuale soprattutto come un “gergo”, cioè come un linguaggio

usato in una determinata cerchia di persone, o solo per motivi di segretezza nei confronti del mondo

circostante, o anche, e soprattutto, per la sentita esigenza di continuare una tradizione familiare.19

La stessa categoria viene poi adottata da Massariello Merzagora20 nel 1983. Nello stesso anno

Fornaciari21 introduce il concetto di ‘letterario’ riferendosi alle opere scritte in bagitto, ma non

supera ancora il limite di chiamare il giudeo-parlare livornese un vernacolo e gergo. Lo farà

solo nel 200522:

Adesso possiamo addentrarci nella specialità linguistica rappresentata da questo sistema di espressione

del popolo minuto ebraico livornese che definiremo come giudeoparlare: qualcosa di meno di una

lingua, e anche di meno di un vernacolo, però qualcosa di più di un gergo.23

17 Bedarida, Guido 1956, op. cit. 18 Ibid. p. XVIII. 19 Modena Mayer, Maria, 1978, ‘Osservazioni sul Tabù’ Linguistico in Giudeo-livornese’ in Scritti in memoria di Umberto Nahon, Fondazione S. Mayer e R. Cantoni, Gerusalemme, pp. 166-79 (il citato viene da p. 166-67). L’articolo ci fornisce una panoramica delle voce provenienti dall’ebraico, usate per evitare le parole sconvenienti o indesiderate in iataliano, le cosiddette parole tabù’. 20 Massariello Merzagora, Giovanna, 1983, ‘Elementi lessicali della parlata giudeo-fiorentina’ in: Quaderni dell’Atlante Lessicale Toscano, I, Olschki, Firenze 21 Fornaciari, Paolo Edoardo, 1983, ‘Aspetti dell’uso del «Bagitto» da parte dei Gentili’ in: Rassegna Mensile di Israel, s.III, XLIX, pp. 432-54. Tipografia Veneziano, Roma. 22 Fornaciari, Pardo, 2005, Fate onore al bel Purim, Erasmo, Livorno. 23 Ibid. p. 35.

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Qui l’autore attribuisce un valore artistico al modo di esprimersi in locuzioni tramandate tra i

membri del ceto basso della comunità, insomma al bagitto.

Franceschini24 è il più risoluto, considerando già i primi poemetti in bagitto scritti nel primo

Ottocento:

È opportuno impiegare qui il termine dialetto e non quello di gergo, che conviene riservare ad un

particolare codice linguistico (…). Si tratta in ogni caso di attestazioni scritte, e per di più di carattere

letterario.25

Con questa visione Franceschini ha stabilito il modo in cui il bagitto probabilmente sarà

studiato nell’ambito scientifico in futuro, tralasciando il fatto che il bagitto originariamente fu

un giudeo-parlare. Certo è che con la diminuzione della pratica del bagitto, cioè della lingua

parlata, le opere scritte rimangono una fonte sicura per la ricerca.

In questo lavoro userò le parole ‘gergo’ e ‘dialetto’ senza distinguo, perché – benché le voci

presentate agli intervistati provengano da un’opera letteraria (si veda capitolo 4), le risposte

che ho ottenuto provengono dal patrimonio linguistico quotidiano.

Come detto, il mio lavoro tratta della divulgazione attuale del giudeo-parlare livornese, analisi

condotta per mezzo di interviste fatte in loco. La stesura e l’elaborazione dei dati ottenuti si

trovano nei capitoli 4 e 5. Durante il mio soggiorno a Livorno mi sono reso conto delle

ragioni che stanno all’origine del calo dell’uso del bagitto, che ho sintetizzato nel capitolo 6.

Come introduzione alla mia argomentazione ho dedicato, nel capitolo 2, qualche parola alle

circostanze uniche in cui il bagitto si è potuto formare e poi sviluppare, mentre la collocazione

in una prospettiva con gli altri dialetti giudeo-italiani viene descritta nel capitolo 3.

24 Franceschini, Fabrizio, 2005, ‘Giuditta veneziana e bagitta nella Livorno del primo Ottocento’, in Sul filo della scrittura, fonti e temi per la

storia delle donne a Livorno (a cura di Lucia Frattarelli Fischer e Olimpia Vaccai), Pisa University Press, Pisa, pp. 543-79. 25 Ibid. p. 559.

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2. La calorosa accoglienza degli ebrei a Livorno e gli anni che

seguirono

Per parlare dell’arrivo degli ebrei a Livorno non è necessario andare troppo indietro, al tempo

del patriarca Abramo, che andò verso il Paese che il Signore –come dice il Vangelo - gli

indicò.26 Anche il secondo arrivo nella Terra promessa dopo la fuga dall’Egitto non ci importa

tanto. Basta ricordare il fatto che il viaggio attraverso il deserto avrebbe consegnato agli ebrei

la Torah, la Legge, la dottrina rilevata a Mosè da Dio. La Torah - chiamata anche il

Pentateuco - contiene i primi cinque libri della versione greca della Bibbia e costituisce il

fondamento della fede ebraica. Interessante per questo studio è quanto accade nel 586 avanti

Cristo, quando il primo tempio di Gerusalemme venne distrutto e gli ebrei si dispersero nella

cattività babilonese, la cosiddetta diaspora ebraica. Questa fu la prima fase della diaspora.

Una seconda fase, ancora più drastica, si verificò nel 70 dopo la distruzione del secondo

tempio da parte di Tito, il figlio dell’imperatore romano Vespasiano, e dopo la morte dell’eroe

dei rivoltosi di Massada nel 7327. Da allora in poi la storia degli ebrei diviene ‘la storia di un

popolo disperso sotto altri popoli’.

L’ebreo è considerato morto dai vivi, straniero dai cittadini, vagabondo dagli stanziali. Mendicante dai

ricchi, ricco sfruttatore dai poveri, apolide dai patrioti e odiato antagonista da tutti. (Wilhelm Marr28).

I profughi ebrei si stanziarono in Italia, in Francia, in Spagna, nel levante, nel nord e nel

centro dell’Europa e nei paesi arabi dell’Africa nord-occidentale, il Magreb. Sulle coste della

penisola Iberica troviamo gli ebrei già dopo la distruzione del primo tempio: ebrei celtiberi,

cioè che appartenevano a un’antica popolazione della Spagna. La popolazione ebraica fu

chiamata qui sefardim, perché il nome della Spagna in ebraico è Sefarad o Sefarod.29

Successivamente il concetto di sefardim venne usato per definire tutti gli ebrei che si

stabilirono nei paesi intorno al bacino del Mediterraneo. La lingua che i primi sefardim

paravano era il latino, in seguito il neolatino catalano o aragonese, la lingua della potenza

dominante del momento. Gli ebrei dell’interno della Spagna parlavano ovviamente il

castigliano. Per le cerimonie religiose ci si avvaleva naturalmente dall’ebraico, ma pian piano

26 La Bibbia di Gerusalemme 1995, Edizione Devoniane, Bologna, p. 55. 27 Josephus 1980 : The Jewish War, (traduzione e edizione di G.A.Williamson), Penguin Books, Hammondsworth, Middelsex , p.385 e segg. 28 Autoemancipazione 1882, citato in Yehoshua, Abraham B., 2004, Antisemitismo e sionismo, Una discussione, Einaudi, Torino, p. 31. Marr era il giornalista che ha coniato il termine «antisemitismo». 29 Gli ebrei dell’Europa del Nord sono gli ashkenazim, Ashkenaz è il nome della Germania in ebraico medievale.

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– grazie al fatto che l’uomo comune non sapeva l’ebraico – i rabbini tradussero la Torah in

un calco dell’ebraico, ovvero il ladino, una forma del castigliano che si parlava alla fine del

quattrocento e – anche se sempre meno - che si continua ad usare anche oggi. Il ladino, al

contrario dello yiddish, utilizza poche parole ebraiche e ne rimane anche poca letteratura.

Dal 711 in poi i Mori conquistarono l’Andalusia. La presenza degli arabi ebbe una grande

influenza sul linguaggio degli ebrei del sud della penisola, essendo l’arabo una lingua

economicamente interessante, gli ebrei assorbirono molte parole nel loro vernacolo. Si chiama

giudio o giudezmo, una lingua prevalentemente parlata. Durante quasi sette secoli le tre

religioni universali poterono esistere in una coesistenza più o meno pacifica, perché il potere

musulmano consentiva l’esistenza di altre religioni (nel caso specifico la fede cristiana e

l’ebraismo) quando era soddisfatto il dhimmi, una tassa speciale. Nel Duecento però, un

gruppo di fanatici, proveniente dalle montagne berbere del Marocco, cominciarono a

convertire con violenza cristiani ed ebrei.30 Mosè Maimonide, il famoso filosofo che stava a

Cordoba fu costretto a fuggire in Marocco e poi al Cairo, dopo aver abbracciato – solo in

apparenza - l’Islam. La repressione e l’intolleranza nel dominio della religione fecero così il

proprio ingresso nella penisola Iberica. I mozarabi, cioè i cristiani di Spagna che conservarono

la loro religione durante la dominazione araba, seguirono l’esempio degli invasori: nel 1391

furono assassinati tutti gli ebrei di Siviglia e Cordoba su incitamento dell’arcidiacono

Ferdinand Martinez. I cristiani poi ci presero gusto a prescrivere come si doveva credere in

Dio, sotto pena di essere sterminati.

Nel 1492 La Spagna fu liberata dai musulmani. In questo periodo la popolazione totale della

Spagna contava circa 7.000.000 persone, fra le quali 400.000 ebrei. I reyes catolicos, Isabella

di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, rafforzarono il potere dell’Inquisizione31 e il 31 marzo

1492 firmarono il decreto di espulsione degli ebrei di Spagna che si doveva attuare prima del

31 luglio dello stesso anno, nel caso in cui gli ebrei non si fossero converti al cristianesimo.

Non si sa quanti ebrei abbiano scelto il battesimo (le cifre più basse parlano di cinquantamila

persone) con l’obiettivo di mantenere case e beni in possesso, oppure il martirio (ventimila).

La maggior parte preferì andarsene in Portogallo (centomila) (la soluzione più semplice, ma

ad un prezzo alto per una residenza temporanea), oppure nell’Africa settentrionale

30 Una spiegazione del differente atteggiamento di musulmani e cristiani rispetto agli ebrei la fornisce Fornaciari, Pardo 2005, Fate onore al

bel Purim. Il bagitto, vernacolo degli ebrei livornesi, Erasmo, Livorno, pag. 10 e segg. Qui non conviene esporre in modo approfondito i fondamenti dell’antisemitismo. 31 Ufficialmente l’Inquisitio haereticae pravitatis (il tribunale per gli eretici) o Sant’Uffizio esisteva già, ma Ferdinando e Isabella, con il consenso dal Papa Sixto IV il 1 novembre 1478, l’hanno organizzato di nuovo non soltanto per forzare gli ebrei ed i mori per estorcere una lealtà incondizionata alla fede cattolica (perché tanti erano in gran segreto rimasti fedeli alla religione degli antenati) ed anche in una regione più ampia, ma soprattutto per minare il potere dei nobili ed il clero e per estendere l’autorità sovrana. Così l’Inquisizione divenne un’istituzione reale.

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(cinquantamila). Molti andarono in Italia o in Turchia, dove furono ben visti dal sultano

Selim, che accoglieva volentieri commercianti abili, medici eccellenti ed artigianti esperti.

Circa 160.000 ebrei sefarditi lasciarono la Spagna. In tal modo dalla fine del Quattrocento si

divulgò nel mondo il castigliano. Il capo dell’Inquisizione romana, il cardinale Carafa,

chiamato al papato nel 1555 sotto il nome di Paolo IV, divulgò la bolla Cum nimis absurdum,

dove scrisse contro alla possibilità per gli ebrei di poter abitare dappertutto nella Città Eterna

ed in cui espresse l’opinione che gli ebrei avrebbero dovuto vivere in un quartiere malsano

circondato da mura. Ecco come nacque il secondo ghetto italiano32. Per gli ebrei la

permanenza in Italia (e altrove) non fu per niente piacevole.

Anche in Portogallo il piacere della permanenza fu di breve durata. La sfera d’influenza

spagnola si fece infatti valere anche qui: il matrimonio tra il nuovo re Emanuel I (che ascese

al trono nel 1495) e la figlia di Ferdinando ed Isabella fu disciplinato con un accordo in cui

era scritto il provvedimento di battezzare gli ebrei che avevano rifiutato di convertirsi al

cristianesimo in Spagna. Nel dicembre 1496 ci fu la cosiddetta ‘cacciata’ degli ebrei: persone

radunate a Lisbona per imbarcarsi furono fatte entrare forzatamente nelle chiese, dove acqua

santa fu gettata sopra di loro33. Con questo battesimo forzato si crearono i cristãos novos34

oppure, rimasti cripto-ebrei, i marranos, cioè i maiali (un nome non molto kasher per le

persone in questione). Qui gli ebrei non potevano professare la loro religione ed erano

costretti a vivere nella paura di essere condannati al rogo dai tribunali dell’Inquisizione come

fedeli del giudaismo. Solo dopo il 1629 fu permesso loro di lasciare il Paese per stanziarsi

altrove. Così nacquero comunità di ebrei a Costantinopoli, a Smirne, a Salonicco e ad

Adrianopoli nel Levante, nel Ponente ad Amburgo, ad Amsterdam (dopo una tappa ad

Anversa)35, Londra, Bordeaux e Bayonne come comunità sefardite, non integrate con gli ebrei

già presenti nelle città o con gli altri cittadini, ma di uno statuto speciale, in forme di diritto

nazionale differenziate. I sefardim emigrati cercarono rifugio in Italia soprattutto a Venezia,

ad Ancona ed a Ferrara. I sefardim non erano i soli ebrei, altri che avevano seguito un’altra

traccia della diaspora si erano già stabiliti in tante città italiane: gli ashkenazim. Fra di loro

non si svilupparono legami stretti.

32 A Costantinopoli il primo ghetto del mondo fu fondato tre secoli prima: La Pera, un quartiere-reclusorio. Il nome ‘ghetto’ invece è di origine italiana e viene dal ‘getto’ di metallo fuso, una fonderia a Venezia (gheto), luogo che fu destinato a rinchiudere gli ebrei durante la notte, oppure dalla gettata (‘getto’ diviene ‘ghetto’) di un molo a Genova, dove gli ebrei vennero tenuti in quarantena prima di essere riscattati o venduti un’altra volta come schiavi. (cfr. Fornaciari 2005, p. 20). Il primo ghetto in Italia è stato quello veneziano (1516). 33 Galasso, Cristina, 2002, Alle origini di una comunità, Ebree ed ebrei a Livorno nel Seicento, Olschki, Firenze, p. 115 osserva furbamente che qui non si tratta di una conversione per, ma di una conversione da. 34 I loro discendenti furono discriminati lo stesso, non avendo la limpieza del sangre. 35 La grande sinagoga dei sefardim – la Snoge (dal port: esnoga) fu solennemente inaugurata nel 1675. La comunità portoghese-israelita ha meticolosamente evitato di usare l’aggettivo spagnola, avendo fatto l’inaugurazione solo poco dopo la Guerra degli Ottant’anni (con la Spagna) che finì nel 1648. Ma i sefardim erano naturalmente d’origine spagnola. Anche a Livorno si parla di una comunità ebraica di lingua portoghese. Ne parleremo nel capitolo 3.

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Nel 1590 Livorno – oppure Leghorn in inglese - non era una città, ma piuttosto un villaggio di

pescatori fortificato. Un centro commerciale vicino si trovava nella città di Pisa, dove già nel

1547 si erano stabiliti cristiani nuovi portoghesi su richiesta di Cosimo I de’Medici, il

granduca di Toscana. Il nobile volle legare a sé i ‘marrani’ per la loro capacità di mercanti

esperti con un buon senso della finanza e con buone relazioni internazionali.36 Il porto di Pisa

si interrò, ed il terzo granduca di Toscana, Ferdinando I, fu costretto a trovare un luogo

alternativo per mettere al sicuro il commercio marittimo e per invitare le persone adatte per la

costruzione di un nuovo porto per favorire le attività legate allo futuro sviluppo. Anche se il

granduca aveva rispettato il desiderio papale – è del 1569 la concessione di Papa Pio V del

conferimento del titolo di granduca – di stabilire un ghetto a Firenze (1570), a Pitigliano

(1571) ed a Siena (1573), ed aveva promesso di rispettare le misure antiebraiche, come il

Vaticano aveva prescritto, Ferdinando I, il 30 giugno 1591, promulgò le Lettere Patenti

passate alla storia come la Livornina, emanata il 10 giugno 1593:

A tutti voi Mercantili qualsivoglia nazione Levantini, Ponentini, Spagnuoli, Portoghesi, Greci,

Tedeschi ed Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani ed altri, salute.

Significhiamo per queste nostre Lettere Patenti, qualmente essendo Noi mossi da degni rispetti, e

massime dal desiderio che è in Noi per benefizio pubblico d’accrescere nell’occasione l’animo ai

forestieri di venire a frequentare i loro traffiche e mercanzie nella nostra diletta città di Pisa e Porto e

Scalo di Livorno con stare o abitare colle vostre famiglie o senza esse, sperando si abbia a risultare utile

a tutta Italia, nostri sudditi, e massime a poveri.

Però per le sopraddette e altre cause e ragioni, ci siamo mossi a darvi e concedervi, siccome Noi in

virtù delle presenti vi diamo e concediamo le grazie, privilegi, prerogative, immunità ed esenzioni

infrascritte. (Ascoli, 188637).

Seguirono a questo scritto, punto per punto i privilegi concessi da Ferdinando, di cui riporto

solo uno per esteso e gli altri riassunti:

• Vogliamo ancora che per detto tempo (cioè ‘per un tempo durante di anni venticinque’38) non si possa

esercitare alcuna inquisizione, visita, denunzia, e accusa contro di voi e vostre famiglie ancorché per il

passato siano vissute fuori del dominio nostro in abito come cristiano o avutone nome, potrete vivere,

abitare e conservare in detta nostra città di Pisa e Livorno, e trafficare negli altri luoghi del dominio

nostro liberamente, e usare in esse tutte le vostre cerimonie precetti, riti, ordini e costumi di legge

36 Il casato de’Medici no era l’unico che sfruttava le capacità dei mercanti ebrei portoghesi: gli Estensi l’invitarono i marrani a Ferrara, il governo oligarchico di Venezia per lo sviluppo del commercio con il Levante, i papi Paolo III e Giulio II a favore del porto d’Ancona. 37 Ascoli, Rafaello, 1886, Gli Ebrei venuti a Livorno, Costa, Livorno. 38 Automaticamente rinnovabili per altri venticinque anni.

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ebraica, o altre secondo il costume e piacimento vostro, purché ciascuno di voi ne faccia denuncia

all’infrascritto giudice da noi da deputarsi39.

• diritti dell’uomo nella misura in cui li godevano i mercanti cristiani di Firenze e Pisa;

• libertà di movimento entro i confini dello stato e fuori;

• libertà di vestirsi come volevano, senza il segno giallo;

• autorizzazione a portare armi difensive;

• autorizzazione ad acquistare beni immobili;

• autorizzazione a tenere carrozze e cavalli;

• autorizzazione ad abitare ed aprire botteghe in qualunque parte della città;

• autorizzazione a tenere in casa balie, serve e servi cristiani;

• ammissione agli studi universitari e alla dignità della laurea40;

• ammissione per esercitare la medicina, curando anche malati cristiani;

• ammissione a praticare qualsiasi mestiere;

• assenso del possesso di libri di ogni sorta e in qualunque lingua, compresi libri ebraici,

quindi anche il Talmud;

• autorizzazione a lasciare i beni in eredità a chiunque;

• autorizzazione di un Tribunale costituito da cinque Massari - capi eletti dalla comunità

- per giudicare le controversie fra ebrei e i loro delitti secondo il diritto ebraico e le cui

sentenze dovevano essere seguite dal Bargello, braccio esecutivo dello Stato.41

Anche delle limitazioni furono imposte agli ebrei privilegiati, malgrado il fatto che ogni

limitazione fosse un oltraggio alla dignità umana, queste non sono da paragonare alle

conquiste ottenute in questo momento:

• divieto di fare opere di proselitismo;

• divieto di avere rapporti sessuali con non ebrei;

• divieto di praticare l’usura;

• divieto di occuparsi di stracceria.

Il primo divieto proviene da un cervello cristiano, perché la cultura ebraica non si manifesta

da qualsiasi zelo di conversione. I due ultimi divieti derivano da un pregiudizio: in situazioni

39 Ascoli, 1886, op. cit. p. VIII. L’inquisizione romano non ha sempre funzionato come prescrissero i Privilegi (la versione del 1593 delle Lettere patenti). Il problema era che bisognava dichiarasi ebreo all’arrivo nella città e non tutti erano in grado di confermarlo, perché venivano dal Portogallo e lì non potevano essere ebrei! Ci sono stati un certo numero di processi contro portoghesi tornati all’ebraismo a Livorno e Pisa, accusati di apostasia. In quei casi la comunità ebraica chiedeva l’intervento del granduca, perché i termini della Livornina fossero rispettati. Significativo in questo campo è il fatto che gli ebrei provenienti dal Portogallo dovevano essere necessariamente cattolici, mentre nel resto d’Europa la parola ebreo era diventata un sinonimo di portoghese. 40 Un cancelliere dell’università, l’arcivescovo di Pisa, rifiutò di permettere la dignità della laurea agli ebrei, mentre la facoltà di medicina era affollata dai figli del popolo ebreo. 41 Per farsi un’idea di cosa significa di essere discriminati basta sostituire le parole ‘diritto, libertà, autorizzazione, ammissione ed assenso’ con un divieto.

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limitate bisogna ricorrere ad attività sopraccitate, ma non si tratta di un’occupazione

tipicamente ebraica. In questo senso si volle combattere l’antisemitismo con un’implicazione

dell’antisemitismo, comportandosi da antisemiti.

L’invito di Ferdinando fu accettato volentieri non soltanto dagli ebrei originariamente

provenienti dalla Spagna e dal Portogallo, ma anche dai francesi, dagli olandesi e dai tedeschi,

dagli inglesi, dai greci e dalla gente dell’Armenia. Ogni gruppo venne a costituire una

minoranza nel grande insieme che fu chiamato una ‘Nazione’42. La Nazione ebraica rimase in

uno stato di grazia: gli ebrei potevano abitare dappertutto, non ci fu mai un ghetto a Livorno,

benché tanti ebrei preferirono stare insieme intorno alle strade dietro il Duomo, comunemente

chiamate ‘Quattro Canti degli Ebrei’. Un’attività importante, subito dopo l’insediamento a

Livorno, fu l’industria del vetro, della seta, della lana e del battiloro. Gli ebrei furono attivi

nel mercato livornese degli schiavi che servivano come rematori per le galere, oppure per le

famiglie ricche, sia ebree che cristiane, che tenevano schiavi, detti ‘fiscalini’, anche per il

riscatto degli schiavi ebrei. Altre attività furono costituite dall’appalto del tabacco per tutto il

territorio toscano, dell’acquavite e della carta, oppure la finanza. Ma soprattutto il porto

aperto sul Mediterraneo, con importanti legami con il Magreb, con la Sublima Porta (il

governo del sultano turco di Costantinopoli) e con tutti i paesi d’Europa, contribuì alla

prosperità della nuova città. Livorno era ben conosciuta come città scalo.

L’incremento demografico di Livorno aumentò costantemente: nel 1590 si contavano 530

abitanti43, appartenenti ai ceti più umili (artigiani, nel piccolo commercio, nell’edilizia e

operai portuali), ma non ebrei. Nel 1601 c’erano 134 ebrei (marrani e levantini); nel 1622

erano 711 su una popolazione di circa 11.000 abitanti; nel 1645 erano 1260 su 12.000

(dunque l’incremento era soltanto degli ebrei) e nel 1693 il totale della popolazione era di

12.300, fra i quali 2397 ebrei (quasi il 20%44). Secondo il censimento del 1784 gli ebrei erano

4302, ovvero il 10% della popolazione.

Gli ebrei erano dunque privilegiati a Livorno: potevano tornare alla fede degli antenati senza

il rischio di finire sul rogo45. Avevano la possibilità di abitare come gli pareva,46 ed avevano

ottenuto il permesso di organizzare la propria vita secondo il rito e la cultura come era loro

prescritto dalla legge e dalla tradizione ebraica. La giurisprudenza venne assegnata ad un ente

42 Ogni Nazione aveva a propria disposizione una chiesa ed un cimitero. La Nazione ebraica ha (avuto) tre cimiteri a Livorno. A Pisa il cimitero ebraico era situato fuori dalla mura, in un angolo preso dal Campo Santo. 43 Per questo e gli altri dati demografici cfr. Fornaciari, 2005, op. cit. p. 30 e segg. e Puntoni, Gabriella 2006: La comunità ebraica di Livorno e la città, Percorsi culture e identità in un gioco di specchi attraverso quattro secoli di storia, Belforte & C., Livorno, p. 11 e segg. 44 Bedarida 1992, op. cit. p. 87, invece sostiene che gli ebrei non abbiano mai superato il 10% della popolazione 45 Il battesimo per la Chiesa cattolica è un’adesione incondizionata e irreversibile; il ritorno alla fede degli avi (in questo caso degli ebrei) significava essere bruciato vivi sul rogo. Se il peccatore si converta all’ultimo momento, veniva graziato: prima strangolato e poi bruciato. (Fornaciari 2005, op. cit. p. 28) 46Per esempio nella stessa casa con i cristiani, purché si servissero di scale diverse

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formato dalla sfera propria, un Consiglio di cinque massari, i Seniores do Maamed o

Parnassim. Dopo il 1667 il Consiglio fu affiancato da un Collegio deliberante di Dodici

Deputati, un numero che aumentò fino a sessanta membri, composto da tutti i capi famiglia di

commercianti benestanti – spesso si trattava di un impiego onorifico ed ereditario47 -

formando così un governo oligarchico. I Massari giudicavano solo gli affari tra gli ebrei,

quando si trattava di una controparte cristiana o di un reato, la causa veniva esposta ad una

corte d’appello dello Stato. Normalmente si trattava dei conflitti di natura commerciale

oppure del sistema complicato dei matrimoni, le doti, il permesso dei rabbini48, il permesso di

un divorzio e gli obblighi legati a questo, il levirato, cioè l’usanza di sposare la vedova del

fratello, e – non ultimo - le eredità. La cura sociale fu tutelata dai Massari. Esisteva quindi

un’istituzione per aiutare i poveri e i pellegrini, per assistere con cibo e cure mediche i

bisognosi ed una fondazione per provvedere al seppellimento dei morti. C’era una ‘Cassa per

il riscatto degli schiavi (ebraici)’. Una creazione speciale era il Mohar Ha-betulot/Hebrà para

Cazar Orfas e Donzelas (in italiano ‘Confraternita per maritare orfane e donzelle’) per

fornire una dote alle fanciulle povere così da dar loro la possibilità concreta di sposarsi.

Un potere molto influente era quello del diritto di ballottazione, cioè quel diritto che

consentiva di misurare quanto e se le persone erano adeguate per essere inserite nella

comunità. In questo modo tanti ashkenazim rimasero persone di seconda categoria nella città

labronica49. La ballottazione serví per conservare il carattere spagnolo della maggioranza dei

soci della Nazione ebraica. La sentenza poteva essere tassativa. Si poteva fare un appello

presso un collegio giudicante interno oppure ricorso al granduca. La pena massima era la

scomunica50 o l’esilio.

La storia di successo degli ebrei livornesi è all’inizio soprattutto la storia dei marrani

portoghesi. Furono loro a fondare nel 1664 una scuola, un’istituzione scolastica della

Nazione, il Talmud Torà, con l’obbligo per tutti i giovani di frequentarla, essendo la scuola

‘uno dei principali fondamenti della nostra conservazione’. Non c’erano maschi analfabeti

ebrei nati a Livorno. Nel 1728 si dette inizio alla scuola con l’insegnamento regolare della

lingua volgare, cioè dello spagnolo o del portoghese. Queste due lingue rimasero dominanti

nella comunità fino al 1787, quando il granduca ordinò che gli atti e le sentenze del Tribunale

47 Qui si trova la genesi dell`esistenza di due ceti nella Nazione: un ceto medio ed un ceto basso, perché non soltanto gli ashkenazim furono esclusi, ma anche i piccoli commercianti, dipendenti ed indigenti. 48 Qui si rivela l’influsso dei massari, il cui ambiente era sempre sefardita. I sefarditi, che volevano salvaguardare l´unità e l’identità sefardita della comunità non videro di buon occhio i matrimoni tra sefardim e ashkenazim. 49 Questo può spiegare perché soprattutto uomini di origine italiano-ashkenazita hanno abbandonato la fede ebraica per quella cattolica (nel periodo tra il 1614 ed il 1730 si tratta di 46 uomini ashkenaziti e 20 donne, mentre i sefardim segnano 19 uomini ed 8 donne). 50 I sefarditi livornesi non sono stati unici in rigidità in materia di conversazione della propria identità. Ad Amsterdam i sefarditi scomunicarono il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677) perché pur essendo un sefardito aveva comprato la carne (kasher, questa sicuramente) da un macellaio ashkenazito.

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dei Massari, che fino al quel momento erano scritti in portoghese – la lingua della

giurisprudenza per i marrani – dovevano essere scritti ‘da qui in avanti (…) in idioma

italiano’51. Un altro cambiamento – non per la lingua, ma per lo stato sociale – venne con

l’occupazione dei francesi, comandati dal Bonaparte. Non tutti gli ebrei erano entusiasti delle

idee libertarie francesi, ma tutto sommato, i rapporti tra la comunità ebraica e gli occupanti

furono soddisfacenti. Soltanto l’istituzione del matrimonio civile – un affare che toccava

l’amministrazione comunale – causò una diminuzione della nuzialità. Il diritto di organizzare

la propria vita – ma sempre prescritto da un ceto culturalmente alto – fu sempre più limitato.

Dopo la partenza dei francesi ed il restauro del potere di Ferdinando di Lorena (la famiglia

che si fece carico della potestà dei Medici nel 1737), tutti i diritti e gli antichi privilegi furono

ripristinati per la comunità. Solo la giurisprudenza rimase nelle mani del governo, che dovette

constatare le troppe lamentele che c’erano state nel passato.

L’esistenza della Nazione ebrea come un corpus separatum finì con la fondazione del Regno

d’Italia nel 1861. Non valsero più i diritti esclusivi per il gruppo privilegiato52. Tutti gli

italiani, infatti, ebbero un’unica legislazione. Anche per le lingue spagnola e portoghese fino a

quel momento ancora parlate nella comunità, il Risorgimento causò un indebolimento

assoluto: in quel momento non conveniva più utilizzare una lingua straniera, e infatti si

comunicava in italiano53. Quello che rimase però fu il bagitto, già adoperato nel ceto basso,

dai piccoli commercianti ed operai.

E così finì anche il periodo in cui gli ebrei di Livorno godettero di una vita relativamente

tranquilla, anzi, un po’ più da privilegiati che nelle altre Nazioni. Ciò non vuole dire che gli

ebrei non si siano dovuti confrontare con manifestazioni d’antisemitismo che si verificarono

dappertutto nel mondo di allora e continuano a verificarsi ancora oggi. Ci sono stati cinque

casi di antisemitismo: il primo nel 1751 e l’ultimo nel 1799, anche se la gravità e la

pesantezza di questi non si può paragonare con ciò che accadde al tempo dell’occupazione

tedesca. Di questo ne scrivo nel capitolo 6.

51 Cfr. Toaff, Renzo, 1992, ‘La nazione ebrea di Livorno’ in Itinerari di vita, Graphis Arte, Livorno, p. 23. 52 Un’apoftegma disse che era meno pericoloso toccare il granduca che toccare gli ebrei. 53 Per quanto si parlava l’italiano, perché il 90% della popolazione parlava in un dialetto. L’italiano era riservato all’alta società. Mazzini, Cavour ed il Re Vittorio Emanuele II, normalmente parlavano in francese e l’ultimo quando comunicava con i suoi soldati si serviva dal dialetto piemontese.

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3. Il bagitto tra gli altri dialetti ebraici in Italia Il bagitto non è l’unico gergo ebraico esistente in Italia. Molto prima dello stabilirsi dei

rifugiati sefarditi nella città labronica, la Penisola conosceva già tanti nuclei di ebrei.

Nonostante il fatto che il giudeo-parlare livornese si distingua notevolmente da tutti gli altri

dialetti ebraici italiani e che non sia possibile tracciarne uno sviluppo uniforme tra i diversi

dialetti distinti54, voglio accennare brevemente allo sfondo sul quale il bagitto, alla fine, ha

trovato il suo posto. Naturalmente non è il caso di affrontare qui tutte le particolarità di ogni

dialetto, né di trattare le differenze qualitative, in quanto il mio lavoro si è limitato ad un

calcolo quantitativo.

I dialetti giudeo-italiani hanno in comune l’uso dell’ebraico per la celebrazione della liturgia,

e qualche volta presentano una importazione ed esportazione lessicale dovuta alla mobilità dei

rabbini e di altre persone da una comunità all’altra. Nessuna di queste parlate ha lasciato le

sue tracce nel campo letterario nazionale, e quando parliamo di un’opera letteraria, bisogna

considerarla come un prodotto d’importanza locale, da capire soltanto nella cerchia degli

iniziati.

In pratica i vari parlari giudeo-italiani, una volta fissati a una certa città (o rione) non sono stati lo

specchio di una civiltà completamente articolata, ma soltanto la faccia familiare e tradizionale d’una

vita orientata per il resto sui dialetti italiani circostanti, sui rapporti economici e culturali con i goìm e

non è nemmeno sussistita una fitta circolazione tra i centri ebraici tale da ricostruire su vasta scala ciò

che non poteva svilupparsi su scala locale. (Segre 195555, p. 506).

Il periodo più importante, più vivace, per i dialetti ebraici, si incontra tra l`800 ed il`900.

Tutte le parlate ghettaiole persero importanza ed influenza a partire dall’emancipazione, cioè

dal momento in cui i ghetti furono sciolti e tutti gli italiani entrarono a far parte del corpus

della nazione: «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», come ha

predicato Manzoni.56 Una condizione per mantenere il dialetto giudaico57 si perse in quella

maniera.

In ordine cronologico vengono menzionate alcune parlate.

54 Qualche tentativo è stato fatto, p.e. da Max Berenblut, 1949, A Comparative Study of Judeo-Italian Translatons of Isaiah. Si veda anche la recensione di B. Terracini, Recensione a M. Berenblut , in Romance Philology, X, 1956-57. pp. 243-58. 55 Segre, Cesare, 1955, ‘Benvenuto Tertacini, linguista e le parlate giudeo-italiane’ in Rassegna mensile d’Israel, 1955, pp. 499-506 56 Alessando Manzoni Marzo 1821, citato da Fornaciari 1983 op. cit. p. 435. 57 Paul Wexler, ‘Jewish Interlinguistics: Facts and Conceptual Framework’, in Language, 57 (1981) pp. 99-149. (La citazione è presa da Mancini 1992, p. 64): ‘three reasons have commonly be proposed for the development of a Jewish language: (a) segregation: Jews are allegedly unable to acuire the norms of the co-territoral non-Jewish dialects because of the limited exposure to non-Jewish society (…); (b) religious separatism: Judaism encourages opening of Jewish speech toward Hebrew-Aramic enrichment (…); (c) migrations: persecution and expulsions increase the likehood that Jews will be more broadly exposed to heterogeneous dialects and foreign languages than the relatively more sedentari non-Jewish populations.’

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La comunità più antica si trovava a Roma, esuli della seconda onda della diaspora (nel`70)

durante il periodo dell’Impero, in permanenza continua ma in circostanze variabili. Il rapporto

con la Chiesa cattolica, dal 380 religione di Stato, si è sempre manifestato in modo ambiguo,

rispondendo all’atteggiamento che in quel momento il Papa assumeva: una volta gli ebrei

vennero visti come gli assassini del Redentore Gesù Cristo e dovettero subire delle

persecuzioni e delle angherie; un’altra, il pontefice si mostrò interessato alle qualità

intellettuali e commerciali degli ebrei - tanti medici d’origine giudaica hanno lavorato alla

corte papale. Il periodo più favorevole per gli ebrei fu quello del Rinascimento. Un

peggioramento brusco si ebbe con la Controriforma (il Concilio di Trento, dal 1545 al 1563),

periodo in cui fu fondato il ghetto (1555). Gli ebrei furono costretti di portare un segno di

riconoscimento e a sopportare delle vessazioni severe. La permanenza nel quartiere separato e

recintato sulla riva del Tevere durerà – con un’interruzione dal 1798 fino al 1814 durante la

dominazione francese – fino al 1870, anno in cui un regio decreto vieterà ogni

discriminazione religiosa. Nonostante le avversità subite, la popolazione ebraica di Roma

crebbe durante i 315 anni di reclusione: da 1750 a 5000 persone. La permanenza nel ghetto

significò un cambiamento nel carattere delle attività quotidiane: la sartoria ed il commercio

dei vestiti usati erano i lavori per la maggior parte degli abitanti della zona recintata. Oggi ci

sono più di 15.000 persone di origine ebraica nella Città Eterna, dove si trovano anche dieci

sinagoghe.

La permanenza in un ghetto, con le relative scarse possibilità di comunicare con il mondo

esterno, ebbe un effetto considerevole per il consolidamento di un linguaggio dei residenti.

Mentre lo sviluppo linguistico dei cittadini romani seguì il suo corso naturale, cioè subì

l’influsso della cultura toscana (e così si formò il dialetto romanesco), gli ebrei conservarono

il carattere antico, anche se con qualche influenza del modo di parlare dei nuovi arrivati dalla

Spagna (1492), dalla Sicilia e dal Napoletano (e così ebbe origine il giudeo-romanesco):

il dialetto giudeo-romanesco non (è) altro in sostanza che l’antico dialetto romanesco conservatosi, con

poche modificazioni, entro la cerchia del quartiere giudaico (Del Monte 1976, citato da Massarillo

Merzagora 197758)

Nel complesso il quadro storico che è possibile ricostruire sulla base dei testi giudeo-romaneschi

postcinquecenteschi è quello di una varietà formalmente ben distinta dal romanesco di ‘seconda fase’,

tendenzialmente conservativa, la cui struttura risulta molto simile a quella del romanesco ‘basso’ dei

58 Massariello Merzagora, 1977, op cit. p. 64.

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primi del Cinquecento, una struttura lontana da quell’adeguamento alla norma toscana che avrebbe

condotta il romanesco ‘medio’ cristiano a evolversi nel dialetto attuale. (Mancini 199259).

Gli stessi fatti storici (Controriforma) che hanno dato luogo al ghetto e alle sue costrizioni, causano

anche notevoli difficoltà sia al contatto con l’italiano, sia allo studio della lingua ebraica che,

continuamente presente nella vita religiosa, è però sempre meno conosciuta e capita. Tutto ciò favorisce

(…) «il ripiegamento su se stesse» delle parlate, in cui gli elementi essenziali diventano il dialetto del

luogo, che a volte tende verso un italiano le cui regole sono orecchiate ma non note (di qui i frequenti

ipercorrettismi e, ad esempio, i metaplasmi) e la «lingua sacra». (Modena Mayer 199760).

La lingua sacra non comprende soltanto l’ebraico per i servigi nella sinagoga e per le

preghiere, ma anche l’armaico, con il quale il Talmud è scritto per buona parte. Gli influssi

della lingua sacra si possono osservare in tutti i dialetti ebraici in Italia. Per questa ragione

qualcuno preferisce parlare di una koinè meridionale.61 In ogni caso va sottolineato che il

ghetto ha causato il fatto che il giudeo-italiano mostra ‘una fase più antica dello sviluppo della

lingua entro la quale la parlata si andava formando e viveva’.62 Non solo a Roma, ma in tutte

le città dove c’erano i ghetti e dove venivano parlati i dialetti ebraici.

Il giudeo-romanesco mostra un movimento contrario alla normalità, mentre le diverse parlate

giudeo-italiane mettono una desinenza italiana ad una parola ebraica. A Roma si usano parole

di origine romanesca o italiana con desinenze ebraiche: callaccia diviene challasciude (ebr. f.

plurale è –uth), mattita diviene mattitodde, schifata si trasforma in schiftitodde.63

Un documento del 1088 riferisce della presenza di un gruppo di ebrei a Ferrara,

probabilmente provenienti da Roma e dall’Italia centro settentrionale. Nonostante le misure

promulgate dall’Inquisizione, la vita per questi ebrei non fu pessima grazie alla protezione dei

duchi D’Este. Infatti, il duca Ercole I (1433 – 1505) invitò tanti ebrei cacciati dalla Spagna nel

1492 per la loro capacità nel commercio e nella medicina. La comunità ebraica fu completata

poi con l’arrivo dei profughi dalla Boemia grazie al permesso di Ercole II (1508 – 1559). A

Ferrara erano dunque presenti tre gruppi ebrei distinti: ‘italiani’, sefarditi ed ashkenaziti.

59 Mancini, 1992, op. cit. p. 61. 60 Modena Mayer, Maria 1997: ‘Le parlate giudeo-italiane’ in: Gli Ebrei in Italia, v.2 Storia d’Italia, Annali II, Einaudi, Torino, pp. 939-1043, p. 943. 61 Cfr. Massariello Merzagora, 1977, op. cit. p. 9: La presenza cospicua di elementi da Roma nel formarsi anche di comunità nel Nord, avrebbe contribuito alla diffusione della coinè giudaica a fondo romanesco net territori toscani, gallo-italici e veneziani formando la base delle parlate giudaiche delle singole comunità, modificandosi poi più o meno rapidamente sotto l’influsso dei dialetti locali. Mancini 1992, op. cit. p. 71 e Modena Mayer 1997, op. cit. p. 946. 62 Fortis, Umberto 2006: La parlata degli ebrei di Venezia e le parlate giudeo-italiane, Giuntina, Firenze. p. 63. 63 Cfr. Massariello Merzagora, 1977, op. cit. p. 70.

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La situazione per i giudei peggiorò sensibilmente a partire dal 1598 in poi, con la devoluzione

dello Stato Estense alla Chiesa. Il ghetto fu decreto nel 1624 ed aperto nel 1627 e gli ebrei

furono costretti a portare il segno di riconoscimento. Ferrara non era l’unico posto

dell’Emilia-Romagna dove il pugno di ferro del Vaticano si faceva sentire, in quel periodo si

assistette ad un andirivieni di rifugiati tra Ferrara, Bologna, Modena e posti più modesti come

Lugo. La permanenza nel ghetto ferrarese, con una breve sospensione durante l’occupazione

dei francesi, durò fino al 1860. Nell’800 la comunità contava circa 2000 membri. Nel 1931,

822 membri; nel 194364, 183 ebrei su 400 furono deportati, fra questi solo cinque persone

riuscirono a tornare. Oggi la comunità conta solo 70 membri.

Nell’interbellum si nota già una differenza non presente un secolo fa nel registro linguistico:

la classe media parlava l’italiano, il ceto più umile s’avvicinava al dialetto ferrarese. La

parlata del ghetto si poteva distinguere da una particolare intonazione, qualche volta rotta e

febbrile, qualche volta stracciata, e dall’uso di parole ebraiche.

Quantunque religiosissimo e praticante (…), pure, in casa non parlava mai di religione, né della propria

né dell’altrui. Si limitava a esprimersi nel particolare dialetto, simile a quello ferrarese, ma pieno di

parole ebraiche, d’uso normale dalle parti di via Mazzini: ed era tutto. Fatto si è che in bocca sua

nemmeno le parole ebraiche avevano niente di misterioso, di strano (Bassani, 198065).

Il giudeo-ferrarese dunque è la combinazione di parole ebraiche, più o meno italianizzate, e di

elementi del dialetto locale, come ad esempio nell’assimilazione consonantica (vener <

vendere, grana < grande, kanela < candela).

Il potere degli Este si estese anche a Modena già popolata nel 1393 da un nucleo di famiglie

d’ebrei che possedevano un ‘banco’. Il clima di tolleranza attirò altri ebrei dalla Romagna e

dal Veneto e dopo l’espulsione dalla Spagna e dal Portogallo anche i profughi sefarditi si

stabilirono nella città. Dopo il 1598, quando Ferrara venne messa sotto l’autorità papale,

anche i Ferraresi cercarono rifugio a Modena. Il ghetto fu stabilito nel 1638. In seguito la

laboriosità degli ebrei fu rafforzata dai nuovi arrivati dalla Germania e dall’Olanda. Il

contesto ebraico era dunque composto da elementi ‘italiani’, ‘sefarditi’ e ‘ashkenaziti’. Lo

svolgimento storico a Modena era come tutte le altre comunità settentrionali. Attualmente la

comunità conta circa 70 membri. Al contrario di altre città non esiste un’evidente divisione a

Modena tra i due ceti nel parlare il giudeo-modenese. La differenza principale tra il giudeo-

modenese e l’italiano ed il gergo modenese sembrerebbe essere un’opposizione fonetica. Per

64 Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p. 41. 65 Bassani, Giorgio, 1980, Dentro le mura, Mondatori, Milano, p. 81.

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il resto è impossibile indicare un dialetto giudeo-modenese strettamente definito, visto il

movimento dinamico tra Modena e le altre città durante gli ultimi quattro secoli. La situazione

linguistica non poteva essere di conseguenza per niente stabile.

La presenza ebraica a Venezia risale già al medioevo: i censimenti del 1152 e del 1190

testimoniano l’esistenza dell’isola della Giudecca, dove i primi ebrei si erano stanziati.

Quest’isola non funzionò come un ghetto, perché il ghetto – il primo in Italia - si fondò solo

nel 1516 sull’isola di Cannaregio. L’economia dinamica della Serenissima aveva attirato a sé

tanti commercianti ebraici dall’Oriente, dai paesi d’Oltralpe (Germania e Polonia in

particolare) e dall’Italia meridionale e da Roma. Così si formarono tre gruppi distinti,

rispettivamente i ‘levantini’, i ‘todeschi’ oppure gli ‘askenazati’ e gli ‘italiani’66. Ogni gruppo

aveva il suo rito diverso e conseguentemente la propria sinagoga . Gli ‘italiani’ si sono uniti

alla lunga ai ‘todeschi’, che furono in maggioranza dei poveri profughi. Già nel XIV secolo

gli ebrei furono costretti a portare un contrassegno: un cerchio giallo ed un capello giallo, il

colore per il cappello fu in seguito sostituito dal colore rosso. Dopo l’espulsione dalla Spagna

(1492) e dal Portogallo (1497) si aggiunsero i cosiddetti ‘ponentini’ o ‘sefarditi’. Così

rimasero tre ‘nazioni’ dell’università degli ebrei, ben distinti anche nelle parlate. Da qui la

formazione di un gergo uniforme, il giudeo-veneziano, si concretizzò solo lentamente. I

componenti che l’hanno costituito sono le voci ebraiche, le nozioni dialettali locali, l’italiano,

il giudeo-italiano (o la koinè giudaica, come si vuole), lo spagnolo e lo yiddish. Il risultato

rivela anche una certa integrazione tra il linguaggio degli ebrei con quello dei cristiani

veneziani. La popolazione ‘ghettaiola’ ammontò a circa 5.000 persone.

Il ghetto fu abolito dal 1797 al 1814, anno in cui gli austriaci, ripresi i propri diritti sulla

Serenissima, ritolsero i diritti agli ebrei . Questo periodo di disuguaglianza finì nel 1866 dopo

‘la guerra di sette settimane’, quando Venezia entrò nel Regno d’Italia.

La shoah colpì anche la comunità ebraica veneziana: 200 ebrei veneziani – di una totalità di

8.000 ebrei italiani –furono deportati nei campi tedeschi. La comunità conta oggi circa 500

membri, sparsi tra Venezia e Mestre.

Il giudeo-veneziano non è mai stato un dialetto solo per gli iniziati, né un linguaggio secreto.

Un’analisi linguistica del ‘«linguazzo» misto di elementi dialettali locali e di termini ebraici’,

fatta da Massariello Mezzagora67, rivela un certo livello di integrazione tra la parlata degli

ebrei e quella dei cristiani, con i quali l’elemento importante dell’esistenza di un gergo, cioè il

66 Cfr. Fortis, 2006, op. cit., p. 69. 67 Cfr. Massariello Mezzagora, 1977, op. cit., p. 34.

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non farsi capire dagli estranei, viene meno. Si può dunque concludere che ‘la parlata giudeo-

veneziana non abbia mai avuto un suo distinto sistema fonetico, morfologico e sintattico

capace di resistere all’influsso del dialetto dominante.’68 Quello che consideriamo come la

parlata giudeo-veneziana è soprattutto un complesso di espressioni, locuzioni, proverbi e modi

di dire di origine ebraica.69 In buona sostanza utilizzo una definizione che vale per quasi tutte

le parlate giudaico-italiane.

I primi ebrei rintracciati a Trieste risalgono al 1492. Qui poterono vivere in un clima di

tolleranza moderata – nonostante il ghetto (dal 1696 al 1784) -, dunque con le condizioni

sufficienti per lo sviluppo di un dialetto giudeo-triestino. Il gergo non si manifesta qui

diversamente da quello di Venezia, con aspetti antichi e con forme particolari che vengono

dall’Istria. Nel 1939 il totale degli ebrei raggiungeva quasi le 7.000 persone, non tutti di

nazionalità italiana. Oggi la comunità conta 700 membri.

A Mantova si trovano le prime tracce di un insediamento ebraico fin dall’inizio del`400.

Sotto il ducato di Gonzaga (1530–1708) la comunità ebraica crebbe molto – e arrivando a

contare più di 3000 persone, il 7 % dell’intera popolazione - , nonostante qualche moto

antiebraico, come uccisioni e confische dei beni. Il ghetto fu installato nel 1612, ma anche una

calamità come l’epidemia di peste dal 1620 al 1630 significò un attacco al benessere degli

ebrei: pur non avendo subito perdite nella propria sfera, vennero accusati di essere gli untori.

Il massimo della persecuzione in quel periodo fu il sacco delle truppe tedesche negli anni

1629-30 e il bando dalla città. In seguito ritornarono. Nel 1708 la casata d’Asburgo d’Austria

assunse la dominazione di Mantova. In quel periodo esistevano tre sinagoghe per il rito

tedesco e due per il rito italiano. Il ghetto fu abolito nel 1797 quando i francesi ebbero la

possibilità di mettere in pratica le loro idee di libertà, uguaglianza e fratellanza.

Gli ebrei di Mantova furono attivi nella guerra risorgimentale e conseguentemente scapparono

dalla città. Gran parte di loro si stabilì a Milano, la città che fino all’inizio dell’Ottocento non

aveva mai avuto un nucleo di ebrei, dato che durante i ducati dei Visconti e poi degli Sforza

non venne loro permesso di fermarsi per più di tre giorni consecutivi.70 Il primo nucleo di

ebrei a Milano fu dunque un gruppo proveniente da Mantova come ‘sezione’ di quella città.

Per la parlata degli israeliti milanesi bisogna dunque osservare il giudeo-mantovano. Milano,

infatti, non ha mai avuto un ghetto e quindi neanche una prima condizione per dar vita ad un

68 Fortis 2006, op. cit., p. 74. 69 Ibid. p.74. 70 Per questo motivo si trova fino all’800 nei paesi intorno a Milano l’alloggio di tante famiglie di commercianti ebraici, che potevano tornare ogni sera a casa dopo il loro lavoro nella città.

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dialetto o gergo che nel contesto ebraico nasce da questo vincolo sociale imposto. Nel 1866 la

comunità ebraica di Milano diventa più grande di quella di Mantova di cui faceva parte

ottenendo l’autonomia. Le leggi razziali e le persecuzioni dai nazisti non passarono senza

implicazioni per le due comunità: le deportazioni nei campi di sterminio diminuirono il

numero dei residenti ebraici, dei quali molti fuggirono in Svizzera, in Palestina e negli Stati

Uniti71. Oggi la comunità di Mantova conta 79 membri e quella di Milano 7.500.

Per quanto riguarda il giudeo-mantovano si nota la mancanza di parole originalmente

provenienti dalla Spagna o dal Portogallo. Le differenze tra il giudeo-mantovano e il

mantovano constano soprattutto di una differenza fonologica: o e u di contro a ö e ü, (cor,fiol,

dur e cör, fiöl, dür)72; una differenza nella coniugazione dei verbi73 e la conservazione delle

protoniche. Ci sono inoltre influenze del dialetto toscano e romano.

La storia della presenza degli ebrei a Firenze non risale ad un passato molto lontano. Esiste un

invito del 1437 di Cosimo il Vecchio de’Medici a stabilirsi nella città per aprire banchi di

pegno. Il carattere dei loro affari ed il successo riscosso nel benessere materiale evocò subito

sentimenti d’antisemitismo nella popolazione locale dato che ai cristiani non era permesso di

trarre beneficio dal prestito del denaro. Firenze, la culla del Rinascimento e dell’Umanesimo,

approfittò intanto in modo considerevole, sia commercialmente che culturalmente, della

presenza degli ebrei durante un interno secolo. Le cose si aggravarono nel 1571, quando il

ghetto fu installato e i giudei furono costretti a portare un segno di riconoscimento, entrambi

provvedimenti emanati da Cosimo I come un gesto favorevole al Papa Pio V, che gli aveva

concesso il titolo di Granduca. Il cancello principale del ghetto portava lo stemma mediceo e

la scritta:

Cosimo dei Medici, Granduca di Toscana, e suo Figlio il Serenissimo Principe Francesco, animato

verso tutti da grandissima pietà, vollero che gli ebrei fossero racchiusi in questo luogo, separati dai

cristiani ma non espulsi, affinché potessero, per mezzo dell'esempio dei buoni, sottoporre le durissime

cervici al leggerissimo giogo di Cristo, Anno 1571.

La scritta è a maggior ragione particolare, perché sta in stridente contrasto con il trattamento

dello stesso duca verso gli ebrei a Livorno. Le poche libertà rimaste furono ritirate da Cosimo

71 Scapparono 5.000 delle 12.000 persone che in quel momento erano presenti a Milano, 896 è il numero delle persone che furono deportate. 72 Cfr.Massariello Mezagora, 1977, op. cit., p. 26. 73 L’esempio del verbo ‘piangere’ che riporta Massareillo Merzagora ,1977, op. cit., p. 28 è troppo bello per non citare qui: (gm): mi piánši, ti piánšet, lu piánša, nu pianšém, vu pianší, lor piánšen di contro a (m) mi a pianši, ti at pianši, lu al pianś, lé al pianš, nüaltar a pianšéma, vüalter a pianši, lor i pianši, lor le pianš. La somiglianza della coniugazione del giudeo-mantovano con la coniugazione del verbo modale tedesco (willen, können, ecc.) è notevole e indicherebbe il contributo ashkenazito.

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III, ‘uno dei regnanti più bigotti dell’Europa di allora’,74 che pure ampliò il ghetto (1704).

Solo quando la famiglia Lorena successe alla famiglia de’Medici la situazione migliorò. Dal

1755 in poi il ghetto continuava ad esistere, ma le sue porte rimanevano aperte durante la

notte e dal 1779 gli ebrei poterono acquistare le loro case, cosa che era stata impossibile per

secoli. L’arrivo dei francesi significò la prima ripresa di parità di diritti per gli ebrei che anche

con il ritorno dei Lorena non videro revocare loro tutte le libertà acquisite fino a quel

momento. Nel 1848 i cancelli del ghetto furono demoliti definitivamente. Il ghetto fu

evacuato nel 1885. Firenze è stata a lungo il centro della cultura ebraica in Italia, un ruolo che

oggi spetta a Roma. Nel 1931 c’erano 2730 membri della comunità fiorentina75, oggi – a

causa delle persecuzioni naziste e al normale iter demografico – il numero dei membri consta

di circa 1.000 unità.

Il giudaico-fiorentino è soprattutto – come per quasi tutti dialetti attribuiti agli ebrei in Italia -

un dialetto parlato e ascritto agli strati socialmente inferiori76 e può essere caratterizzato da

vocaboli ricavati da termini ebraici e dalle forme dialettali di Firenze e della Toscana (i

meriodionalismi). Nella pronuncia si incontra la gorgia, un fenomeno molto comune nel

fiorentino. A parte l’assenza in gran parte di parole d’origine sefardita, il dialetto giudaico-

fiorentino assimila in modo considerevole il dialetto giudeo-livornese. Come prova di questo

fatto ho aggiunto a questo lavoro un articolo di Renzo Ventura77 dalla rivista Firenze Ebraica

Anno 21 – n. 2-3, Marzo/Giugno 2008 –Shevat/Sivan 5768, come Supplemento 6. Gli ebrei

livornesi che ho incontrato l’hanno letto con riconoscimento e con piacere.

Nel 1394 la Francia espulse gli ebrei dal suo territorio, gran parte di loro si stabilirono nel

piemontese a Savigliano. Nel 1424 furono ammessi a Torino per aprire i banchi di prestito e

nel 1430 il duca sabaudo Amadeo VIII formalizzò la permanenza degli ebrei a Torino con Gli

Statuta Sabaudiae, in cui prescrisse una rigida separazione tra i cristiani e gli ebrei, i quali

furono costretti a portare un segno di riconoscimento giallo. La comunità ebraica crebbe con

l’arrivo dei profughi dalla Spagna dopo il 1492. Anche gli ebrei provenienti dalla Germania

cercarono rifugio a Torino, cosicché la comunità era composta da ashkenaziti e sefarditi,

alcuni in buone condizioni economiche, altri nell’indigenza. Con la Controriforma il clima di

74 http://www.firenzebraica.net/firenzebraica/italiano/dettagli. 75 Cfr. Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p. 50. 76 Esiste una fonte scritta: la commedia ‘La Gnora Luna, scene di vita ebraica fiorentina’, scritta da Benè Kedem (Umberto Cassuto) nel 1931-32, ma in dialetto giudaico-fiorentino del 1850. Il linguaggio era già – secondo l’autore nella premessa - morto, ma la commedia venne apprezzata moltissimo dalla gente di piccola e media borghese all’epoca (Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p. 53). Da questi dati si può concludere che il dialetto in questione venne in disuso dopo l’abolizione del ghetto e – ovviamente – che lo status sociale del popolo ebraico migliorò, probabilmente anche grazie al primo fatto. Nella commedia si fa sentire la canzone della Gnora Luna, che si è creata fuori dal ghetto, anzi, che ha un carattere antiebraico. 77 Ventura, Renzo 2008: ‘Il giorno dello iodio’ in: Firenze Ebraica Anno 21- n. 2-3, Comunità ebraica di Firenze, Firenze, pp. 52-4.

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vita per tutti i membri della comunità peggiorò. Anche a Torino fu istituito un ghetto, anche

se un secolo dopo rispetto ad altre città: nel 1682. Nonostante questo la situazione per gli

ebrei non era drammatica in confronto a quella delle altre città italiane. L’occupazione

francese nel 1798 significò l’inizio della liberazione degli ebrei da una vita troppo ristretta.

Dopo un breve intervallo di ritorno – ma traumatico lo stesso - nel ghetto (dal 1814 fino al

1848)78 gli ideali del Risorgimento, i diritti di uguaglianza, valsero per qualsiasi persona

indipendentemente dalla fede o dalla razza. (Statuto Albertino). Tanti ebrei torinesi

parteciparono attivamente al Risorgimento. Camillo Benso Conte di Cavour ad esempio era

affezionato ai figli del popolo vecchio. La liberazione dalle limitazioni sociali significò allo

stesso tempo una distanza dalla tradizione della fede e dei riti.

Nel censimento del 1931 c’erano 4040 ebrei a Torino79. Ora la comunità conta circa 1.000

membri.

Come già menzionato il contesto linguistico della popolazione ebraica a Torino è in gran parte

francese e iberico e ciò è causa della creazione di un dialetto specifico. Questo significa che il

dialetto si manifesta con termini ebraici e con adattamenti all’italiano e ai dialetti locali.

Poiché Torino è stata il punto d’arrivo di tanti stanziamenti precedenti nella regione, non si

può distinguere un dialetto ben preciso di una città sola. In questo caso non si parla di un

‘giudeo-torinese’, ma di un ‘giudeo-piemontese’80, che non era parlato da un gruppo

socialmente minacciato – e che usava il gergo per motivi di autodifesa - , ma da tutta la

popolazione ebraica senza distinguo sociale. Il gergo potrebbe essere definito come un

impasto di parole piemontesi, monferrine, italiane e ebraiche. Qualche esempio del giudeo-

piemontese si presenta nella formazione del femminile da parole maschili ebraiche con il

suffisso ‘-eussa’ (che viene dal dialetto piemontese) {meleh>melahheussa (re>regina)} o ‘-tà’

(che viene dall’aramaico, ma che esiste anche nell’italiano) [mamzer>mamzertà {un uomo

abietto>una donna ignobile (originariamente ebraico mamzer: figlio proveniente da un rapporto

illecito)}] o ‘-à’ (secondo la forma italiana) {iaf>iafà (bello>bella)}, {tov>tovà (buono>buona)}. Il

verbo formato da una voce ebraica ottiene nell’infinito il torinese ‘é’: {hharé (perdere)}.81

78 L’anno non è molto univoco, cfr.:

‘Ricordo i frammenti uditi dalla storia delle famiglie da cui la mia è nata. L’oscuro destino entro cui si sono sempre dibattute. Da appena due generazioni i Sonnino e i Dilani hanno potuto essere liberati dall’umiliazione del ghetto di Roma entro cui i padri dei padri erano nati e cresciuti. Le mura del ghetto caddero nel 1870 e da quell’anno i miei avi furono liberi. Ma portavano in sé il ricordo di ciò che avevano subito, delle notti d’angoscia in cui gruppi di fanatici penetravano nel ghetto per rapire i loro figli e consacrarli col battesimo a un’altra religione, delle sofferenze della segregazione, dell’abiezione verso cui erano sospinti’. (Sonnino, Piera, 2006, Questo è stato, Una famiglia italiana nei lager, Saggiatore, Milano, p. 72).

79 Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p.13. 80 Molti dati li dobbiamo a Roberto Bachi che nel ‘Saggio sul gergo di origine ebraica in uso presso gli ebrei torinesi verso la fine del sec. XIX’, in Rassegna mensile d’Israel 1929, pp. 21-35 ha raccolto tante voci, proverbi e detti della parlata giudeo-piemontese dalla fine del ‘800, e a B. Terracini, che ha pubblicato due testi del secolo XIX in ‘L’emancipazione degli ebrei piemontesi’ in Rassegna mensile d’Israel 1949, pp. 62-77. 81 Gli esempi vengono da Massariello Merzagora, 1977, op. cit., pp. 15-6.

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In generale il dialetto giudeo-piemontese è difficile da distinguere nettamente, perché la diversità dei

dialetti che l’hanno influenzato non ci dà una forma con una struttura fono-morfologica univoca. Per

quel che riguarda l’elemento ebraico si può concludere che non si tratta soltanto di un gergo utilizzato

per escludere un mondo più o meno ostile, ma piuttosto per creare «frasi ricche di quel contenuto

affettivo che volentieri si esprime nell’immediatezza di una tradizione essenzialmente famigliare»82.

In un schema:

inizio

ghetto

abolizione

ghetto

ebraico ashkena-

zito83

spagnolo portoghese84

dialetto

Roma 1555 1870 X - X - romanesco85

napoletano

siciliano

Ferrara 1627 1860 X X X - ferrarese

Modena 1638 1860 X X X - modenese

Venezia 1516 1866 X X X86 - veneziano

Trieste 1696 1784 X X X - variante

veneziano

Mantova 1612 1797 X - X - mantovano

Firenze 1571 1885 X - X - toscano

Torino 1682 1848 X - X - piemontese

Figura 1: I dialetti ebraici in Italia minus il bagitto.

La figura mostra che i dialetti hanno un grande conformità per quanto riguarda la presenza di

parole ebraiche, ma anche di parole spagnole. La differenza fra questi si rivela nell’elemento

del dialetto locale, ma anche lo scambio fra di loro ha lasciato ha le sue tracce. L’esistenza di

un ghetto viene visto come una condizione per lo sviluppo e la conservazione del dialetto

ebraico. Siccome ci sono delle divergenze di durevolezza tra i ghetti reciproci sarebbe

interessante sapere se queste divergenze abbiano causato anche una differenza nellea

conservazione del dialetto in questione. La letteratura specialistica non fornisce una risposta

definitiva in merito.

82 Terracini, ‘Due composizioni in versi giudeo-piemontesi del secolo XIX’ in Rassegna mensile d’Israel 1937, pp. 179-80, citato da Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p.24 (da cui la citazione). 83 Ashkenazito qui è inteso non è come una indicazione geografica, ma linguistico: lo yiddish o ‘todesco’ (Venezia). 84 Molte volte la differenza tra le parole spagnole e le parole portoghesi è difficile da distinguere, quello che conta è il luogo di provenienza dei parlanti. 85 Anche visto come koinè. 86 ‘Ponenti’e ‘levantini’: la lingua in tutti e due i casi è lo spagnolo, ma fra di loro c’è una differenza in tempo. I ‘levantini’sono arrivati prima e con una deviazione, una permanenza temporanea nell’Europa dell’est e nel Medio Oriente.

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La storia del bagitto, il dialetto che gli ebrei hanno parlato e parlano ancora oggi nella città

labronica, è ben diversa agli altri dialetti ebraici in Italia. L’arrivo dei profughi dalla Spagna

nel 1492 e poco dopo nel 1496 dal Portogallo dette impulso all’uso dello spagnolo nei dialetti

ebraici già esistenti. Quando una seconda onda di esiliati provenienti dal Portogallo, dal 1537

in poi dopo l’introduzione dell’Inquisizione, sommerse l’Italia, gli ebrei cercarono i loro

correligionari arrivati anteriormente. Questi si erano assimilati con gli ebrei già esistenti e

caratterizzati dal loro contributo linguistico spagnolo. Così i cristãos novos trovarono un

clima già stabilito con un linguaggio già consolidato. Non fu difficile per i nuovi arrivati

imparare il dialetto e cancellare il portoghese, perché le due lingue assomigliavano parecchio

ed anche la loro origine spagnola era in comune. Il portoghese non ebbe alcuna influenza nei

dialetti ebraici italiani. C’era lo spagnolo, ma uno spagnolo del tempo dell’espulsione, dunque

già al tempo un po’ obsoleto87.

Diversa era la situazione a Livorno, dove non si trovava un nucleo spagnolo già esistente. I

‘marani’ poterono creare la loro comunità senza alcuna zavorra rispetto al passato. Anche nel

linguaggio erano lasciati liberi, ottenendo ‘un’autonomia linguistica’88. Così si sviluppò in un

primo momento una situazione di bilinguismo: lo spagnolo89 accanto al portoghese90 senza

prevalenza dell’uno o dell’altro, ma ognuno riservato a settori diversi della vita sociale. Il

portoghese divenne la lingua della giurisprudenza, perché parlato dalla maggioranza della

popolazione. Così tutte le leggi, gli atti ufficiali e i regolamenti – fino al 1787, quando

l’italiano prescritto dal Granduca divenne obbligatorio –venivano scritti in portoghese. Lo

spagnolo invece, era diventato la lingua della vita culturale, della letteratura sacra91 e profana.

Probabilmente lo spagnolo ottenne tale applicazione grazie al fatto che nelle altre città

italiane, dove già era presente una produzione letteraria ebraica, ci si servì dallo spagnolo, in

questa maniera lo spagnolo aveva già acquisto prestigio come lingua adatta a questa forma di

cultura92. Nella cerchia familiare si parlava naturalmente la lingua originaria: lo spagnolo per

gli ebrei che si erano stanziati nella città dopo una permanenza nel Levante – i primi esili

87 Per essere più preciso: il castigliano della fine del Quattrocento, cfr. Fornaciari, 2005, op. cit., p. 19. 88 Ugualmente a Amsterdam. Cfr. Tafani, 1959, p. 66. 89 Cfr. nota 51. Incluso il ladino, un particolare giudeo-spagnolo funzionante come lingua-calco con aspetti sintattico-testuali di tipo semitico. Cfr. Franceschini, 2007, op. cit., p. 127. Girò anche una parlata, usata nei porti mediterranei, una ‘lingua degli scali del Levante’ o una ‘lingua franca’, con una grammatica rudimentale ed un lessico magro, una lingua pedgin che ha assorbito parole di provenienza eterogenea, ‘con i verbi all’infinitivo e vocaboli storpiati secondo la pronunzia degli orientali’. (Bedarida, 1992, op. cit., p. 87) Nella letteratura bagitta si trova qualche esempio di questa ‘lingua franca’, per esempio da Rafaello Ascoli 1886, op. cit. e da Guido Bedarida 1928: ‘Cantiga a la moscia’ in Un intermezzo di canzoni antiche da recitarsi quand’è Purim (citato in Bedarida 1992, op. cit., p. 87-9), ma sono dei giacimenti rari. 90 O il giudeo-portoghese. 91 Non soltanto nella letteratura, anche le iscrizioni sulle lapidi nel cimitero ebraico di Livorno sono – ad eccezione di tre sulle 339 casi – scritte in spagnolo. Il cimitero è appunto un luogo sacro. Una spiegazione in più potrebbe essere il fatto che più volte sulla lapide è aggiunto qualche verso di una poesia o qualche brano di prosa letteraria, dunque per rimanere in tono ci vuole lo spagnolo, la lingua impiegata per le lettere. 92 Per stanziare questo fatto: non si trova nessuna pubblicazione letteraria in lingua portoghese stampata a Livorno. I tipografici livornesi del resto non erano d’origine portoghese.

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dall’espulsione del 1492 -, il portoghese per il gruppo che era arrivato direttamente dal

Portogallo. Nella sinagoga la liturgia si svolgeva in ebraico, come si faceva nelle altre città, e

si cantavano le canzoni e i cantari in ebraico, castigliano, portoghese e ladino. All’inizio non

c’era un dialetto giudeo-livornese.

Una seconda differenza con la situazione nazionale si manifesta nel fatto che non c’è mai

stato un ghetto a Livorno, con cui un argomento di Wexler93 venne annullato per sviluppare

un linguaggio per iniziati. Non si tratta qui di un Sprachinsel94, e così la toscanizzazione ha

potuto compiersi senza ostacoli esterni. La gestazione del bagitto potrebbe aver avuto luogo

nel secolo XVIII. L’arrivo di tanti correligionari nordafricani e levantini ridusse l’egemonia

della componente sefardita e il portoghese perse l’influenza come la lingua della

giurisprudenza. Il giudeo-parlare livornese cominciò dunque – una terza differenza – nella

maggioranza dei casi un secolo più tardi rispetto agli altri dialetti ebraici, come rivela la figura

1. Il risultato finale è un dialetto composto dallo spagnolo, dal portoghese95, dall’ebraico,

dall’aramaico e dall’italiano, elementi che si sono influenzati l’un l’altro, una forma ibrida

con ‘elementi fonetici, lessicali, fraseologici e, in misura minore, morfologici e sintattici’96 di

origini diversa. La prima recessione del bagitto comincia con il Risorgimento, questo lo

approfondirò nel capitolo 6.

Alcune caratteristiche del bagitto – a parte la presenza di parole italianizzate che vengono

dall’ebraico97 e dalle lingue iberiche98 - sono:

- l’intonazione: una caratteristica che l’ebreo distingue da altre parlate sta

nell’inflessione nasalizzata e cantilenata, che a Livorno ancora si rafforza con un

rallentamento nel modo di parlare tipicamente toscano che pone enfasi sulle

consonanti, e gli conferisce una cadenza specifica (che non vige sempre nel bagitto: le

interconsonanti si raddoppiano nel toscano, nel bagitto il fenomeno non si manifesta in

93 Cfr. nota 57. 94 Cfr. Mancini 1992, op. cit., p. 62. 95 ‘La sovrabbondanza infatti di elementi iberici (anche voci ebr. e aramaiche giungono al bagito spagnolizzate) rappresenta infatti la caratteristica del giudeo-livornese che acquista una certa consistenza verso il sec. XVIII. Alla formazione di tale parlata concorsero l’eredità di vocaboli spagnoli e portoghesi di cui sopra, i termini ebraici nella veste data dai ‘marrani’, naturalmente il livornese e infine per alcuni aspetti il pisano. (A parte le connessioni interne tra i due dialetti e la dipendenza originaria del livornese dal pisano, resta la realtà storica che i primi membri della comunità di Livorno provenivano da Pisa)’. (Massariello Merzagora 1983, op. cit., p. 78). 96 Tavani, Giuseppe 1959: ‘Appunti sel giudeo-portoghese di Livorno’in; Annali dell’Istituto Universitario Orientale, sezione Romanza, v. 1, fasc. 2, IUO, Napoli, pp. 61-100, la citazione p. 69. 97 Non soltanto e sempre con un suffiso, cfr. smazàl<ebr. mazzal: fortuna, che viene negato dal prefisso (della negazione) s-. 98 Qualche volta c’è la combinazione di ebreo e di spagnolo, p.e. dall’ebr. gannow, giudeo-spagnolo gannaw (ladro) si costruisce un verbo in modo spagnolo con il suffisso –ear: ganavear (rubare) che poi viene italianizzato con il suffisso -e: ganaveare (rubare).

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maniera tale: ad esempio ‘e nnon a mme’ versus ‘e non a me’.99 L’accento ha mostrato

di essere un carattere distintivo traditore durante la seconda guerra mondiale.

- il modo di esprimersi: un elemento distintivo si verifica nel ‘parlare per immagini e

allusioni, per allegorie e antifrasi’100. Sono gli aspetti folcloristici, evocati dalla

‘vivacità ebraica, combinata con l’arguzia toscana e la causticità livornese’101. Un

classico esempio in questo campo è l’imprecazione:

che ti venga una maccà

da qui fino a Ḥanukkà,

e da Ḥanukkà a Purim

che ti vengano i ḥolaím 102

.

Sapienza di vita che viene registrata nei proverbi e aneddoti che fanno parte della

coscienza collettiva della popolazione ebraica:

chi di ña’rel si fida, chazir mangia 103

chi di meglio non ha, con la su’ negra moglie scioḥei 104

rimanere come il chazan d’Olanda 105

Il dialetto livornese è caratterizzato peraltro spesso da detti che esprimono il contrario.

L’origine di questa forma di linguaggio metaforico è difficile da recuperare, ma non si

esclude un contributo proveniente dalla parte della comunità ebraica.106.

99 L’esempio viene da Fornaciari, 2005, op. cit., p. 38. 100Ibid., p. 41. 101 Bedarida 1992,op. cit., p. 96. 102 Maccà <ebr. makko: ferita, flagello, colpo; Ḥanukkà<ebr. chanuko: inaugurazione (del Tempio), una festa di otto giorni nel mese dicembre; Purim<ebr. Purim pl. di pur: festa nel 14° giorno del mese ader , quando si ricorda la liberazione degli ebrei in Persia ad opera di Ester (la mascherata) . La festa viene celebrata come un carnevale ebraico nel periodo marzo-aprile. Ḥolaím<ebr. cholé: malato, (begoulesj<yiddish: affetto ad una malattia venerea). L’imprecazione potrebbe essere sufficiente con i due primi versi, gli altri due versi potrebbero servire come un rafforzamento del precedente, almeno per allungare il periodo di malessere. Io ho sentito gli ultimi due versi solo come una risposta dalla persona a cui i primi versi erano stati rivolti. 103 Chi si fida di un goi, mangia alla fine carne di maiale, dunque molto tarèf (impuro) 104 Scioḥeare<ebr.: dormire. Il proverbio mostra una somiglianza allo spagnolo «Quien mas non puede con su mujer se acuesta». Scioḥei è – grammaticalmente giusto - la declinazione terza persona singolare congiuntivo presente, per la rima si vede anche l’indicativo scioḥea. 105 Rimanere da solo all’improvviso, basito. 106 ‘Nessun dubbio che il modo di esprimersi di un semita trovi origine, come fu detto, nella sua mentalità: quella di un veggente che afferma di essersi avvicinato alla Divinità, o di essere stato da Questa avvicinato – e deve, perché gli altri lo credano, affermarlo recisamente. Linguaggio quindi il suo vivace, netto, preciso, anche se ciò che si afferma, talora non è esatto; ampio pure per le cose più grette; linguaggio colorito, come le sue vesti, o drogato come i suoi cibi. E nel caso del parlar giudaico-livornese, caratteristiche, diciamo così, lo stile biblico mescolato all’ampollosità spagnolo e alle giocondità toscana; anzi, starei per dire ebraico e spagnolo «salati» dal toscano (Pisani e Livornesi non la credono ai Fiorentini in arguzia e per prontezza e acutezza di risposte); e certe rigidezza primitive smussate dall’umanità degli ultimi ospitanti, i Toscani. Ma l’uso (e l’abuso) dell’immagine, del proverbio, del detto sentenzioso, è sempre Oriente; è la parabola che costituisce esempio e insegnamento ai viventi, e ricordo della saggezza avita.’ (Bedarida 1956, op. cit., p. XIX).

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- alcuni elementi fonetici: il bagitto ha semplificato la diversità degli articoli

determinativi. Ne esistono solo tre tipi: maschile singolare lo, femminile singolare la e

per i due generi il plurale li. Conseguentemente i sostantivi e gli aggettivi femminili al

plurale hanno la desinenza maschile –i.

Nei pronomi personali mi/ti/ci/vi il –i cambia in –e: me/te/ce/ve, come la proposizione

di che diviene de e la particella si che si presenta come se.107

La perdita della doppia consonantie balare <ballare, polo<pollo, fẹro<ferro,

stọfa<stoffa, ma qualche volta invece accade anche il contrario: il raddoppiamento di

una consonante: robba<roba.

Il cambiamento della laterale alveolare l nella liquida vibrante r (tra l’altro molto

comune nel linguaggio toscano): che cardo!, quarcuno, i sordi non bastano mai!,

l’aglio non fu mai dorce.

Quando la laterale alveolare l si avvera doppia, la pronuncia è palatale λ:

capegli<capelli.

La fricativa dentale intervocale sorda s è diventata sonora ∫: ca∫a<casa108, l’affricata

palatale sorde c avanti a e e i diveniva sonora g: bagio<bacio, l’occlusiva bilabiale p

viene realizzata aspirata come la fricativa labiodentale sorda f: fetto<petto,

foeta<poeta.

La fricativa labiodentale sonora v cambia in una occlusiva labiale sonora b109: bia<via,

benire<venire, caballo<cavallo,

«Chi è lei? disse Oloferne. Io son bagitta – l’altra risponde, e serba a tuoi boleri.»110

Quanto al vocalismo si può constatare una certa monottongazione di uo in u:

vol<vuole, tono<tuono, pol<può, l’uso di e tonica: semo<siamo, sete<siete accanto

una dittongazione vienuto<venuto ed il cambiamento di o in u: nun<non,

Uluferne<Oloferne, murione<morione.111

Inutile dire che si tratta qui soprattutto di una parlata, dunque ogni osservazione deve essere

considerata più o meno relativa, rispetto alla pronuncia che dipendeva della classe sociale e

dell’epoca in cui il bagitto veniva a costituirsi. Anche nel bagitto si osserva l’avanzamento del

107 Anche nell’esclamazione ‘Sèèè’, nel significato di ‘Macché!’, molto usata a Livorno, la –i (sì!) è stata cambiata in –è per esprimere, attraverso il tono di incredulità, una negazione. 108 Ora è comune in italiano, in toscano la s è rimasta sorda. 109 Il fenomeno si vede anche nel casigliano. 110 Anonimo. La betulla liberata, in dialetto ebraico con una protesta in gergo veneziano, Bastia, 1932, Massariello Merzagora, 1977, op. cit., p. 55 n. 128 (da cui la citazione). 111 Cfr. Franceschini, 2005, op. cit., p. 559.

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tempo, il parlar giudaico-livornese si modernizzò, cioè italianizzò sempre di più. La grafia si

manifesta solo approssimativamente.112

Non si può concludere questo capitolo senza dedicare qualche parola alle espressioni scritte,

ad esempio la scrittura letteraria del bagitto. Ad onor del vero bisogna notare che la

produzione letteraria in bagitto, al contrario di quella in yiddish, è rimasta – da un punto di

vista quantitativo – povera, e questo vale non soltanto per il bagitto, ma anche per tutti i

dialetti ebraici in Italia. Le prime opere in bagitto sono state scritte da non-ebrei e sono

parodistiche nell’uso dei fenomeni fonetici tipici per la popolazione ebraica livornese. La

prima opera è un poemetto in sestine Le bravure dei Veneziani ossia la riaprizione di

Sant’Anna, attribuita a Natale Falcini (oppure Falce Sirone o Cinifal l’Egiziano) (1759-

1835)113 e ci narra la rivalsa dei cristiani del quartiere Venezia (nuova) sugli ebrei, per la

ruberia presunta degli arredi della chiesa di S. Anna. L’opera – uscita verso la fine del secolo

non è per niente più di un’imitazione della parlata in vernacolo, ma è comunque antisemitica.

Falcini è l’autore della composizione in livornese ‘veneziano’ La Molte d’Uluferne ossia la

Britulica Liberata (Genova (ma Livorno), 1805), famosissima, molte volte ristampata, ma

anche questo poemetto non è più che una simulazione della pronuncia della popolazione

ebraica. L’elemento bagitto invece viene fornito abbondantemente da Luigi Duclou (anonimo

sul frontespizio) nel poemetto La Betulla liberata in dialetto ebraico (Bastia, 1832)114.

Troviamo qui dei termini ebraici, spagnoli e lo scambio di v in b, di p in f. Il racconto biblico

viene riprodotto cronologicamente con qualche puntata contemporanea senza nessuna

intenzione parodistica.

Caricaturale invece è l’opera del garibaldino Giovanni Guarducci (1814-1896), ‘che, all’uso

del bagito, sia pure annacquato, unisce una feroce satira degli ebrei livornesi, dei loro costumi

e di quella che egli considera la loro mentalità, facendo, come ogni buon antisemita, di ogni

erba un fascio’.115 Al posto della voce ‘antisemita’, Fornaciari116 usa la parola ‘antiebraico’,

un atteggiamento caratteristico di Guarducci che si manifestò come un ‘antitutto’

112 Beccani, Angelo, 1942: ‘Saggio storico-linguistico sugli ebrei a Livorno’ in: Bollettino Storico Livornese, Anno V, nr.4, Stabilmente Poligrafico Toscano, Livorno, pp. 3-11 si mostra invece più convinto: ‘per quanto un popolo si sovrapponga ad un altro ed imprima su questo il suggello della propria lingua e della proprio civiltà, tuttavia non riuscirà mai a cancellare alcune caratteristiche fonetiche, perché queste sono fisse nella glottide e stanno a dimostrare attraverso i secoli, anche nella fase attuale di un dialetto, il persistere d i una tradizione e di una razza. Per questo appunto noi teniamo per certo che dove la «A’» dei latini si è ridotta ad «e» là stavano anticamente i Celti, dove la «-L-» intervocalica si è rotacizzata là stavano i Liguri; dove il «-K-» intervocalico si è aspirato o addirittura dileguato là stavano gli Etruschi, dove infine i nessi consonantici «-N D-» ed «M B-» si sono assimilati rispettivamente in «-n n-» ed «-m m-», dove «B» è passato a «v» là stavano Umbri, Osci, Sabelli; e così via,’(p. 3-4). 113 Sirone, Falce Betulla liberata in dialetto livornese: http://dante.di.unipi.it/ricerca/html/betulia_livornese.html 114 (Duclou, Luigi) La betulla liberata in dialetto ebraico con una protesta in gergo veneziano:

http://dante.di.unipi.it/ricerca/html/betulia_ebraico.html 115 Bedarida, 1992, op. cit., p. 89. 116 Fornacciari, Paolo Edoardo 1984: ‘I rapporti di Guerrazzi con gli Ebrei e l’ebraismo’in: Rassegna Mensile di Israel, s.L, pp.785-802 Tipografia Venezia, Roma, p. 786.

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(anticlericale, antifemminista, antiplebeo, antiborghese, antisocialista e poi antiebraico). Per

quello che riguarda le sue concezioni degli ebrei nella sua città, la sua più grande obiezione

tratta la posizione privilegiata che venne concessa ai Massari della Nazione Ebrea

dall’autorità granducale, la quale evocava risentimenti tra le classi più umili dei non-ebrei.

Essendo un uomo politico Guarducci volle denunciare la condizione legislativa particolare

nelle sue poesie e nelle sue opere Pensieri e mosse di un eroe della Nazione e Leon Cesana o

un passo abanti della Nazione, Statuti del Teatro Rossini. Secondo Guarducci non è corretto

fare distinzione tra la gente della nuova Unità d’Italia ed esprime ciò con un esempio tanto

plastico quanto volgare:

Di ripetere , o gioja! mi sia concesso

Cosa che detta fù già tempo fa.

Cioè che Ebreo e Cristiano fa lo stesso;

Siam tutti eguali, tutti Baccalà117;

Un inciampo ci resta, un solo incaglio

D’avere al coso quel futtuto taglio.

Cosa Seria per Dio! ma penseremo

A far in isoletta una seduta,

Ove con ghigna seria sosterremo

E con maschia eloquenza, e vivo e acuta

Cosa tal da convincere col fatto

Che il pinco è meglio lasciarlo intatto.118

Il parlar bagitto appartiene all’inopportuna modalità di distinguersi degli ebrei e per questo –

secondo Guarducci - deve essere ridicolizzato119. Così Guarducci evocò un mondo decorato

da ebrei livornesi della metà dell’800, che fa tenerezza e dolore al tempo stesso.

Il primo autore ebraico che pubblicò un libretto, anche se solo in venti esemplari120, è Rafaello

Ascoli. Il suo Gli ebrei venuti a Livorno (1885) contiene un numero abbondante di proverbi in

bagitto accanto ad una descrizione della vita nella comunità e delle persone che hanno potuto

vivere la propria vita in questa città così loro favorevole. Il volume ci offre una panoramica

117 Nomignolo. 118 Giovanni Guarducci ‘Leon Cesana o un passo abanti della Nazione’ (in: Raccolta 1889), citato da Fornaciari, 1983, op. cit., p. 442-44. 119 Una cosa ambigua: il bagitto è il gergo per il ceto basso, per cui Guarducci volle prendere le difese contro i ceti più elevati che non erano molto contenti con il giudeo-livornese e che approfittarono della loro posizione eccezionale. Per fare combutta con il ceto alto, tramite l’accentuazione della presunta ridicolezza del bagitto, Guarducci provò a sradicare questo gruppo, per farlo distanziare della totalità del gruppo ebraico e – conseguentemente dai privilegi acquisiti. Guarducci si mostra qui una gattamorta per il ceto alto e nello stesso tempo un disertore della buona causa. 120 Sembrava che il poemetto fosse perduto, ma Fornaciari ha potuto avere fra le mani un esemplare grazie all’aiuto di uno suoi allievi, e poi generosamente l’ha prestato a tutti gli interessati in questo campo.

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delle famiglie ebraiche che si sono stanziate a Livorno, in due ‘parti’: ‘Gli Spagnuoli’ e ‘Gli

Altri’:

Quell’io che della Spagna gli esiliati

Miseri Israeliti già cantai,

In morte di un di lor fra i più stimati,

Oggi mi accingo a far splendere i rai

Degli altri ebrei che vennero a Livorno

Fin da quand’era quattro case e un forno.

Poiché la tolleranza consacrata

Dalle leggi dei Medici in Toscana,

Ovunque fu saputo e promulgata,

Ogni ebreo maltrattato, a render vana

La persecuzion, lascio il suo nido

E approda all’ospitale nostro lido. (Ascoli 1886121).

Come si vede, il testo non è scritto in bagitto, solo in nota le spiegazioni sull’origine dei detti

lo sono, ma – come osserva Fornaciari – Ascoli ‘pensa in bagitto, cioè in modo ellittico,

allusivo, allegorico.’122

Il contributo più importante al bagitto viene da Guido Bedarida (1900–1962). Bedarida aveva

quindici anni quando si trasferì da Ancona a Livorno, dove cominciò ad interessarsi – accanto

allo studio di giurisprudenza all’università di Pisa – alla parlata locale, ‘è stato l’autore ebreo

che meglio ha compreso l’importanza del lascito che andava smarrendosi’123, e ‘si mise

d’impegno a cercare di salvarne la memoria.’124 Bedarida ha raccolto delle espressioni e delle

parole (‘delle sbagittate’) che poi ha fissato in scenette giudaico- livornesi (p.e. Un intermezzo

di canzoni antiche, Vigilia di Sabato (1934), Il siclo d’argento (1935). Dopo un periodo di

latitanza prima in Francia (1938-1943) e poi di clandestinità nella Maremma spesso con lo

pseudonimo Eliezer ben David scrive Alla “banca di Memo” e Il lascito del sor Barocas

(1950).125 Il suo capolavoro – il volume che è alla base di questa indagine – si presenta negli

Ebrei di Livorno – 180 sonetti giudaico-livornesi (1956). La raccolta abbraccia il periodo

dello stanziamento degli ebrei a Livorno fino alla partenza di alcuni di loro per il nuovo stato

di Israele nel 1948. Trascrivo due sonetti: il primo e uno degli ultimi, non soltanto perché ci

danno un’idea del rispettivo tempo, ma anche per mostrare come Bedarida ci abbia fornito di

un eccellente compendio di note.

121 Ascoli, 1886, op. cit., p. 59. 122 Fornaciari, 2005, op. cit., p. 109. 123 Ibid., p. 44-5. 124 Bedarida, 2005, op. cit., p. 82. Si può anche concludere che Bedarida abbia favorito la sopravvivenza del bagitto in una fase già critica. 125 Appunto: figlio di Davide Fortunata Ottolenghi. In quel periodo un ebreo ereditò il nome della mamma.

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1 – CONTRASTO DI UN FRATE INQUISITORE

E DI UN «MARRANO» LIVORNESE¹

(Secolo XVI)

Frate

E sie’ venuto di Lisbona?… Porto?

Lopes

Vossa Excellencia não ha de saber nada

Frate

Se ti rimando in quella tu’ contrada…?

Lopes

Negro de min! então sou homen morto!

Frate

Confessione perfetta….

Senti qua:

Dove anderai? Gesù per tutto regna….

Lopes

Sabía disso quand’era Lopes Penha;

Chamo-me hoje Binjamin Jehudà.

Frate

Siei carne o pesce?

Lopes

Sim, Vossa Excellencia,

Vim em Liorne p’ra sahir do covo:

Aqui esnoga, casa e independencia….

Serei Toscano ou serei Portuguéz?

Judeo de judiaria ou Cristão novo?

Quem sabe? agora basta Livornéz.

¹ Lopes Penha, fuggito dal Portogallo, ha cercato ospitale rifugio – al tempo della promulgazione della famosa Costituzione Livornina (1593) - in Livorno. L’autorità ecclesiastica indaga sul suo conto, poiché egli si era già convertito al Cattolicesimo in Portogallo, e lo minaccia. Ecco la traduzione di quanto dice Lopes nella sua lingua natìa: «Vostra Eccellenza non ha da saper nulla. – Povero me! allora sono un uomo morto! – Lo sapevo quand’ero Lopes Pegna [cioè, quando ero un Cristiano, in Portogallo], oggi mi chiamo Binjamin Jehudà [perché son tornato al Giudaismo]. – Sì, Vostra Eccellenza. Venni a Livorno per scappare dal pollaio: qui ci sono sinagoga, casa e libertà…. Sarò Toscano o sarò Portoghese? Ebrei di Ghetto o “Cristiano Nuovo”? [Ebreo di recente convertitosi al Cattolicesimo]. Chi lo sa? ora è sufficiente esser Livornese».126

149. – L’EX – DEPORTATA Vai, co’ la razza e’ ci hanno sistemato:

126 Bedarida, 1956, op. cit., p. 2.

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Noo, la mi’ roba, noo per e quadroni!

Morti, mesciummadìm, ¹ Tempio spianato….²

Quanti siemo rimasti? dé! poìni.³

Chi li sente, ci ha ‘orpa l’Alleato4

- Bono, vorrè’ acceàre, Mussolini! -

O vènghino da me, che ci ho lassàto

Ad Ausvìzze er mi’ babbo e du’ ‘ugìni!

…. Chìtler vivo?! vedrà, ci si ritrova

Co’ la razza! chi sa cosa si ‘óva,5

Cassine d’oro6 ‘ndove si ritrova!

….Nun istò zitta, no, ch’io son tornata

Scarza ‘gnuda e – m’ha visto? – tattuata….7

Maledetto lui e quanti ne rifiata!8

¹ Ebr. : «rinnegati». Al singolare: mesciummàd, dall’ebr. hishshammèd, «essere cancellato», «essere escluso» e shammèd, «convertire». È usato anche in jiddish (gergo degli Ebrei tedeschi e polacchi). (cioè mesjommet, CW). ² Il grandioso Tempio di Livorno – tra i più belli del mondo – andato distrutto durante la seconda guerra mondiale. ³ Uso livornese: «pocchini». 4 La Germania 5 Si (c)ova. Gergo giudaico-livornese: «sta preparando». 6 Gergo giudaico-livornese: augurio scherzoso, quando si ritiene più vantaggiosa sia a chi si augura, sia al suo prossimo, la morte invece che la continuazione della vita. 7 Tattuata. I Tedeschi tatuavano un numero di matricola sul braccio degli Ebrei internati nei campi di concentramento, tra i quali tristemente famoso il campo di Auschwitz. 8 Uso livornese: «quanti come lui»127.

Oltre alla sua attività letteraria, Bedarida redasse anche il periodico ‘La Rassegna Mensile

d’Israele’, dal 1924 fino al 1938, quando dovette rifugiarsi all’estero per le leggi razziali.

Solo pochi versi di Cesarino Rossi (1903-1963) sono stati tramandati, poesie isolate per

l’occasione: il compleanno di un’amica, o una situazione ilare come un matrimonio, Le nozze

(1929), visto dagli occhi di due pettegole della comunità:

(…)

Arivedelli, arivedelli!…Hai visto?

lo sposo m’è sembrato un po’ negretto;

sano sarà, e poi, meglio che misto….

Ho preso tre biscotti e un amaretto.

Cosa un’ha messo in quel sacchetto nero

la Levi! Io, cosa voi?…Senza pezzòla.

127 Ibid. p. 163.

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Oh! sor Argia, che belle nozze è vero?

O’,migliorate de la su’ figliola…..128

O ancora il commento degli astanti su un neonato al raduno de La MILA’ (la circoncisione)

(24 dicembre 1938)129, sempre con mitezza e bonomia:

(…)

-Gnamo, fammi vedere questa creatura:

Di qui in su, tutto su’ madre: un vede?

La bocca è d’Angiolino addirittura!

Ben messo in corno: al ñain chi è ch’un ci crede?130

Nel 1990 uscì una raccolta di poesie di Meir Migdali (Mario Della Torre), intitolata Trenta

sonetti giudaico-livornesi, (1990) a Natania (Israele). Nell’introduzione l’autore scrive:

Ho lasciato Livorno da 44 anni e ancora non mi è riuscito di liberarmi dalla nostalgia per la mia città

natale e per la mia Keillá.131 (…) Come ogni toscano che si rispetti, ho sempre amato il sonetto, e

durante la mia vita ne ho scritto delle centinaia, in ogni sorta di occasioni e su ogni sorta di argomenti.

Fra questi ho scelto quelli che hanno attinenza con la Keillá e la sua vita: vecchie storielle, modi di dire

caratteristici, proverbi, macchiette, personaggi patetici o grotteschi, il tutto in quella atmosfera

particolare che si accentrava su due poli: l’edificio delle Scuole elementari israelitiche, che era anche

sede famoso ‘Collegio Rabbinico’, e nelle cui sale si svolgeva tutta l’attività culturale della Comunità a

partire dal 1925: festicciole in occasione delle ricorrenze ebraiche, commedie in gergo giudaico-

livornese, svene di argomento biblico ecc. L’altro polo era il Tempio, il grandioso e imponente edificio

che era davvero il più grande e il più bello dei Tempi italiani, e naturale centro e punto d’incontro per

tutti gli appartenenti alla Keillá. (Migali, 1990132).

Il frammento è importante, perché ci dipinge l’ambiente in cui il bagitto prosperò, il tempo in

cui Guido Bedarida e Cesarino Rossi erano prolifici e la minaccia di un guerra era ancora

inconcepibile. Non solo la guerra costituisce una minaccia per il clima sociale, ma anche altri

aspetti che nascono dall’interno:

20 – I “CAVALLI”

Dopo l’Etiopia e dopo le sanzioni¹

cominciò il manzerud² contro i sionisti.

Salataron fuori allora i “bandieristi”³

128 Edizione familiare, ma anche in Fornaciari, 2005, op. cit., p.132. 129 si nota che in questo situazione – 1938 – la gente agì ancora abbastanza ingenuamente: le leggi razziale erano già promulgate nell’estate dello stesso anno. La circoncisione fece parte della prova di essere un ebreo, il metodo di scoperta usato dai tedeschi. 130 Ibid., Fornaciari, 2005, op. cit., p. 135. 131 La comunità ebraica. 132 Migdali, Meir (Mario della Torra) 1990: Trenta sonetti giudaico-livornese, Edizione dell’autore, Natania, p. 2-3.

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(negri4 ebrei ma ferventi fascionisti)

e disser: “Dentro o fuori: non c’è Cristi!”

Quell’anno stesso vinser le elezioni

in Maˆamad5. Tutto andò a rotoloni,

dagli sciandati6 ai matrimoni misti.

Disse un vecchio, parlando degli inetti

capi della Keillá7: “Questa carretta

‘un si move: i cavalli ‘un tiran niente …”

E da quel giorno stesso furon detti

“Cavalli” quei iudim che avevan fretta

di assimilarsi, e un pahad8 indecente.

¹ In seguito all’aggressione dell’Italia contro l’Etiopia (1935) la Società delle Nazione (oggi le Nazioni Unite) decretò sanzioni economiche contro l’Italia. ² Da ebr. mamzer, bastardo. Lett. malvagità (nel gergo) e poi in generale antisemitismo. ³ Ebrei che anteponevano il fascismo all’ebraismo, così chiamati dal loro giornale “La nostra bandiera”. 4 Ancora un significato della famosa parola “negro”. Bisogna fare un esempio: un negro ebreo è un ebreo che riesce in tutto nella vita ma che trascura la tradizione e le mizvot (precetti). Un ebreo negro è un ebreo ottimo dal punto di vista religioso, ma nella vita pratica non è buona a nulla. 5 Ebr. lett. classe sociale. Poi i dirigenti della Comunità, e infine, la sede del consiglio della Comunità, gli uffici dell’amministrazione. 6 Da ebr. Mesciumad, convertito. Rad. Sciamed=distruggere, sterminare’ 7 Ebr. Comunità. 8 Ebr. paura.133

La paḥad di cui si parla nel sonetto di Migdali si verificò successivamente. Ora la comunità

conta circa 700 membri.

133 Migali, 1990, op. cit., p. 28.

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4. Struttura ed esecuzione dell’indagine

Come già menzionato nell’introduzione, questa tesi ha per oggetto la descrizione della

divulgazione del giudeo-parlare livornese – il bagitto – nella popolazione ebrea e non ebrea

della città labronica. Per poter conoscere quali e quanti parole ‘bagitte’ si utilizzano ancora

oggi, – o meglio detto: quali e quanti termini di quel linguaggio specifico appartengono

ancora oggi al vocabolario attivo e passivo dei livornesi - , è stato necessario fare un’indagine

in loco. Il metodo che ho utilizzato nella mia ricerca di campo si è basato sulla raccolta di

interviste elaborate su uno schema uniforme di domande, standardizzato, che mi ha permesso

di confrontare i dati ottenuti.

A partire dal libro Ebrei di Livorno (1962) di Guido Bedarida ho scelto le prime

centocinquanta parole indicate dall’autore come ger., cioè del gergo giudaico-livornese. Su

queste parole ho conservato con tre persone, due membri della comunità ebraica livornese e

con uno studente che in quel momento stava scrivendo la sua tesi di laurea proprio sulla

formazione del bagitto134. Grazie a quelle conversazioni ho potuto identificare le parole

bagitte che si usano ancora ed eliminare quelle cadute troppo in disuso ed i termini italiani

puri. Infine ho potuto annotare qualche vocabolo emerse nelle nostre chiacchierate. Con

questi risultati ho composto una lista definitiva con cinquanta parole o espressioni

sistemandole in due colonne: una colonna con i termini, l’altra vuota con lo spazio sufficiente

per poter scrivere il significato (Supplemento 1). Alla fine della lista ho lasciato ulteriore

spazio per inserire cinque (o più) parole che – secondo gli intervistati – dovevano esserci, in

quanto parte del linguaggio quotidiano e troppo importanti per essere omesse. In seguito ho

composto un’altra lista un’altra volta con le parole ed i relativi significati secondo Bedarida.

Quest’ultimo schema ho utilizzato come una chiave per confrontare le risposte fornite dai

miei interlocutori (Supplemento 2). Per ottenere qualche informazione sugli intervistati ho

composto una carte con domande relative ai dati personali. Mi avevano avvertito di tentare di

essere discreto con quelle domande, dato che per tanti ebrei il passato è ancora un nervo

aperto. Nonostante ciò ho perseverato con la mia curiosità per capire le connessioni tra i

contesti in cui si parla il bagitto e le situazioni personali. Una delle considerazioni di partenza

è stata che dagli anni Trenta del secolo scorso in poi il bagitto fu praticato sempre di meno.

Sarebbe stato interessante sapere se gli avi degli intervistati fossero utenti attivi del vernacolo

134 Una coincidenza inaspettata. Dal 2006 in poi Fabrizio Franceschini, professore all’università di Pisa, presta attenzione alla storia della lingua con particolare riferimento alle varietà giudaico-italiane. Uno dei suoi studenti, Alessandro Orfano, livornese ma non ebreo– e prima neanche consapevole dell’esistenza di un gergo ebraico nella sua città natale – ha deciso di approfondire questo argomento per la sua tesi di laurea ponendo l’accento sullo sviluppo della pronuncia, una specializzazione totalmente inadeguata per un orecchio straniero come il mio, e registrando dalla viva le conversazioni con alcuni ebrei livornesi anziani in un archivio sonoro.

Page 39: 'UN SOLO DEBARÌM

38

cittadino. Per evitare difficoltà non ho mai passato la lista all’intervistato, ma ho sempre

scritto le risposte da me (Supplemento 3).

Armato con queste tre liste e con tre indirizzi di persone alle quale potevo rivolgermi, ho

cominciato la vera e propria ricerca di campo. Avevo la speranza di ottenere dai primi

intervistati gli indirizzi di altre persone da intervistare (così come insegna il metodo della

palla di neve), ed effettivamente i risultati hanno superato le mie aspettative, riuscendo ad

ottenere i dati di 96 persone. Questo metodo ha mostrato un pericolo, dato che gentile persone

cercavano di contattare altre persone che sapevano avere una buona padronanza del bagitto. Il

sistema non è stato per niente random. La disponibilità delle persone a cooperare alla mia

indagine è stata grande. Il numero dei non ebrei è rimasto limitato, perché un numero più alto

non avrebbe cambiato i risultati. I non ebrei sono stati incontri fortuiti, al contrario degli ebrei

che sono sempre stati raccomandati da qualcuno precedentemente intervistato. A questo punto

si è palesata una bipartizione rigida all’interno della comunità ebraica livornese: una divisione

tra un ceto di commercianti ed operai ed un ceto medio. (In tal senso non c’è da stupirsi tanto,

visto che il bagitto era già definito per la classe bassa come dice la parola stessa). Tutti e due i

ceti si sono serviti del bagitto, anche se che il ceto basso in generale mi ha dato un miglior

risultato alla lista delle parole. Tutte le interviste nel ceto basso si sono svolte in luoghi

pubblici, ovvero nei negozi, oppure intorno ai banchi del mercato di Via Buontalenti. Per

intervistare le persone dell’altro ceto ho dovuto prendere degli appuntamenti per visitarle a

casa. In tre casi l’incontro si è svolto nell’ufficio della Sinagoga.

Una categoria speciale si è rivelata il gruppo ‘uniti agli ebrei’. Ho voluto distinguere questo

gruppo perché non sono ebrei, ma sono più o meno condizionati dai contatti frequenti con

ebrei, attraversio legami matrimoniali, o da un’esistenza vicino agli ebrei come colleghi o

commesse. In tre casi è trattato di un’amicizia giovanile, come per Pardo Fornaciari che per

esempio è uno dei ricercatori sul bagitto che deve il suo interesse per il giudeo-parlare

livornese all’amicizia che ha legato con uno dei figli di Guido Bedarida, conosciuto sui banchi

di scuola. Tutti e tre ‘estranei’ (nel senso che non hanno la stessa convinzione religiosa) fanno

vedere un risultato notevole nella conoscenza delle parole bagitte in confronto agli altri del

segmento. Una panoramica dell’identità degli intervistati si rivela nella figura 2.

Page 40: 'UN SOLO DEBARÌM

39

ebrei

34%

ebree

32%

uniti agli ebrei

16%

senza legami

18%

Figura 2: Identità degli intervistati.

Uno dei problemi che si è verificato subito nella pratica dell’intervistare è stato quello della

rappresentazione grafica delle parole nella lista 1 e della loro pronuncia. Non c’era l’ h �, il

simbolo dello spirante uvulare [χ]. C’era h.135 Anche se ci fosse stata l’ h �, sarebbe stato una

meraviglia se gli intervistati avessero saputo come pronunciare correttamente. Si tratta di una

annotazione abbastanza arbitraria per non iniziati. Per questo è stato necessario far capire

quello che si intendeva esprimere nella grafia. Il ruolo dell’intervistatore si è rivelato così più

attivo del previsto. Lo stesso problema si è verificato con il segno ‘, da pronunziarsi con un

suono nasale. Si tratta di un suono tipicamente livornese che più o meno si avvicina al

fricativo palatale [ɲ]. Il caso si manifesta per esempio nella parola (2): ‘Ainare (guardare) e

intervocalico nella parola (17): Ma`oi (denari). Soprattutto la pronuncia dell’ultima parola ha

causato tanti problemi: tutti sapevano il concetto ‘denari’, ma la diversità della pronuncia in

bagitto era grande. La grafia non era per niente conforme all’idea per dare voce alla parola

perfettamente. Solo alla fine dell’indagine ho seguito l’articolazione ebraica [mɑnχòi]136, che

poi è rimasta chiara e senza malintesi. In alcuni casi si vede l’articolazione scritta come [ñ], e

anzi nella scuola ebraica è stato insegnato proprio così, ma Bedarida non l’ha mai usato.

Dopo la ripassata della chiave, i.e. la lista con le traduzioni, agli intervistati è rimasto in

generale un clima di buoni sentimenti, bei ricordi e, il riconoscimento di un passato piacevole.

Questo fortunatamente, perché, per usare un’eufemismo, il passato non è stato sempre senza

135 Nel supplemento 1 ho cancellato quella omissione grafica, perché ora l’ ḥ, l’ho trovato. Dunque le parole (5), (9), (10), (12), (15), (18), (19), (25), (28), (33), (36), (37), (41), (44) e (47) hanno l’annotazione conforma il fonte, i sonetti di Bedarida (1962). 136 La parola ebraica è ma’oth. Nel bagitto si vede anche manoi, maòth e mañod.

Page 41: 'UN SOLO DEBARÌM

40

nuvole. Tante volte ho sentito dire: “mia nonna diceva sempre …”. Stranamente si menziona

spesso una seconda generazione, e più raramente i propri genitori.

Durante l’indagine è stato chiaro che una gran parte della conoscenza delle parole dipendeva

dalla conoscenza dell’ebraico. Nella scuola elementare ebraica si è prestata molta attenzione

alla lingua dei padri, per prepararsi al bar mitswah per i ragazzi ed al bat mitswah per le

ragazze. La scuola non esiste più ed ora si è perso più o meno automaticamente la possibilità

di venire a conoscenza dell’ebraico e dunque anche di un aspetto importante del bagitto. È

stato necessario chiedere agli intervistati se il riconoscimento delle parole bagitte fosse

dovuto alle lezioni d’ebraico fatte a scuola. Anche all’inizio di questo mio studio ho provato

un certo pessimismo e un senso di rassegnazione riguardo alla sopravvivenza del bagitto,

soprattutto nel ceto medio. Per trovare una conferma di quell’impressione ho voluto porre una

domanda esplicita. Dato che una lingua si tiene viva parlandolo, ho voluto sapere se i genitori

intervistati parlassero ai figli nel dialetto che hanno imparato dai loro avi. Le ultime tre

domande del questionario per i dati personali sono state aggiunte dopo le prime interviste che

ho fatto. In quello stadio della ricerca era ancora possibile ricostruire le risposte alle domande

non fatte nei questionari già ritirati. E per inciso ho potuto in seguito avere la conferma di

quello che mi immaginavo.

La lista delle parole da me redatta non ha generato sensazioni di disagio, salvo una

eccezione.137 Al contrario, dopo aver sottolineato l’anonimità dell’indagine ho sempre sentito

dire: “Nessun problema”. Per fortuna, non hanno potuto distruggere l’orgogliosa

autocoscienza del popolo ebraico livornese.

Ho elaborato le domande ottenute dagli intervistati in codici che si trovano con il cifrario su

un CDRom.

137 In questo caso però la persona in questione ha reagito dopo in modo molto discreto: “Non è che non mi fidi di Lei, ma non so cosa capiterà coi dati che ha raccolto.” E questa frase non fu detta in pubblico.

Page 42: 'UN SOLO DEBARÌM

41

5. Lo stato delle cose in questo momento La spina dorsale di questa mia indagine è costituita da un questionario con cinquanta parole

bagitte insieme alla richiesta di fornire una traduzione in italiano. I risultati si trovano nella

figura 3:

-100 -80 -60 -40 -20 0 20 40 60 80 100

Scioheare

Sbasire

Sciagattare

Higadearsi

Néncico

Una persiana

Hanino, hanoso

La spetezza

Sfongato

Hastrapugliare

Non posso tragarlo

Scioté

Ganaveare

Roheare

Baheare

Sceraloso

Daberare

Inhatignarsi

L'ho vista bigia

I tipitì

Il sor Davàr

In bon'ora

Intrahanarsi

Il tafùsse

Il pipilotto

Andare a harafòth

Bobo

La zodessa

Scapacitare

Un garè

Che mazzolata!

Hagadearsi, hagahearsi

Ahlare

Ma'oi

La negrigura

S'è lehtito

Gadollo

Essere alle bone mosse

Far bahézzi

Negro

Inhemerato

Fare il hìghedo

Un ciocchettone

Una roschetta

Che garòn

La haccaranza

Un zé

Sciuriato

`Ainare

Il gannàv

giusto quasi giusto sbagliato senza risposta alternativo

Figura 3: La frequenza delle parole.

Dalla grafica si può costatare che cinque parole hanno ottenuto un risultato alto: (7) una

roschetta (85%), (20) che mazzolata! (78%), (24) bobo (78%), (39) scioté (75%) e (48)

Page 43: 'UN SOLO DEBARÌM

42

sciaguattare (85%).138 Questo significa che anche qualche persona non ebrea conosce quei

vocaboli. Solo bobo e scioté non riscuotono suasivamente: per la prima voce il 65% dei non

ebrei non hanno risposto; per l’altra voce la percentuale era dell’82%. Le parole roschetta139

e bobo provengono originalmente dallo spagnolo (rosquetes, rosquillas, bobos) e si usano

soltanto nel giudeo-parlare livornese e non nella koinè giudaica italiana. Mazzolata è una

parola conosciuta in generale, e significa un colpo dato con un martellino o in senso figurativo

un duro colpo economico. Nell’espressione che mazzolata usata nel bagitto esprime un colpo

decisivo. Non è stato difficile dedurre questo ampliamento testuale. Scioté viene dall’ebreo

scioteùd (pazzia) e šoteh (pazzo). Non ho trovato una spiegazione per la divulgazione di

questa voce. Sciaguattare ha un’etimologia bellissima: la voce viene da sciaḥat (ebraico), vale

a dire scannare, che poi diviene il romanzo medievale sagatari, cioè macellare gli animali

secondo il rito ebraico, con un taglio nella gola per far uscire il sangue. La voce poi è stata

italianizzata con una desinenza verbale. Si tratta inoltre di una parola che non è

esclusivamente riservata a Livorno, in altri luoghi ne esistono infatti varianti dialettali.

Un risultato alto, in senso negativo, l’hanno ottenuto le seguenti voci o espressioni: (6) che

garòn (83%), (10) inḥemerato (92%), (19) ḥagadearsi, ḥagaḥearsi (75%), (22) scapacitare

(81%), (25) andare a ḥarafòth (90%), (31) i tipitì (95%), (33) inḥatignarsi (76%), (35)

sceraloso (80%), (40) non posso tragarlo (77%), (42) sfongato (86%), (44) ḥanino, ḥanoso

(80%), (46) nèncico (94%) e (49) sbasire (85%). Questo significa che più di un quarto delle

voci selezionate per l’indagine godono di poca notorietà, pur non essendo parole che

indichino cose estranee al mondo, in quanto fanno parte di un linguaggio quotidiano. La

scarsità della conoscenza di queste parole non è da attribuire alla loro etimologia, perché non

risulta in stridente contrasto con l’etimologia della lista completa. 140 (figura 4). Il

138 Per il significato delle parole o espressioni basta fare riferimento al supplemento 2: la chiave: la lista con le traduzioni. 139 Ciambelline crocanti, che sono una specialità degli ebrei livornesi, ma poi anche apprezzate dai goìm. Le ciambelle si trovano ora in tutt’Italia, ma a Livorno si chiamano appunto le roschette. 140 Per le voci poco conosciute le percentuali sono: ebraico, 46%, spagnolo/portoghese, 23%, aramaico, 8% e più o meno italiano, 23%.

Page 44: 'UN SOLO DEBARÌM

43

supplemento 4 fornisce la giustificazione dell’etimologia.

ebraico

50%

spagnolo

22%

portoghese/spagnolo

10%

incerto

14%

aramaico

4%

Figura 4: Etimologia delle parole. .

Il resto delle voci si incontrano in un gruppo di mezzo tra queste due estremità. Una persiana

(45) ha tre significati: 1. un’imposta esterna delle finestre formata da stecche orizzontale e da

un telaio scorrevole incernierato lateralmente, 2. (bagitto) una fetta di pan di Spagna glassata

che si mangia a Pesach e 3. un liquore tipicamente livornese, come il ponce livornese,

contenente alcool e crema di menta che viene bevuto nella mattinata. L’accezione 1 è

raramente conosciuta; ho voluto misurare l’accezione del significato 2, ma il senso 3 è stato

rammentato nel 51% dei casi. Il significato alternativo non ha permesso di pensare ad altre

soluzioni. Il risultato negativo per il significato 2 non è da attribuire totalmente ad una

mancanza di vocabolario o di essere iniziati.141

La voce negro (11) merita di essere esaminata più attentamente. La parola viene dallo

spagnolo e dal portoghese e significa: nero, scuro, tetro. Originariamente non aveva niente a

che fare con una persona appartenente a una delle etnie provenienti dell’Africa, caratterizzate

dalle pigmentazione scura della pelle, infatti queste persone all’epoca semplicemente non

erano conosciute. La parola è stata portata dai sefarditi in Italia. Il significato ha subito diversi

cambiamenti, ma sempre in senso dispregiativo. A Livorno ha avuto l’accezione di brutto o –

dipendentemente dal contesto in cui troviamo la parola – qualificazioni del genere.142

Un’imprecazione di autocommiserazione, tipicamente livornese, dunque bagitta è negro di

141 L’onestà prescrive di menzionare che anche dopo aver letto la chiave delle parole, soltanto poche persone hanno avuto un déjà vu. 142 Per esempio: malato, antipatico, di poco valore, inetto.

Page 45: 'UN SOLO DEBARÌM

44

me, che significa povero me!143 È una voce esclusiva degli ebrei, solo un non ebreo ha dato la

risposta giusta, ma l’alternativa – una significato più moderno – era ovvia. Un proverbio

ebraico-livornese ha conservato il significato brutto dalla voce negro: ‘Chi di meglio non ha,

con la su’ negra moglie sciochei’.144

La voce un garè (21) – a parte la difficoltà di un’annotazione varia145 – ha fruttato più di una

volta la traduzione cattolico. La non circoncisione non è un privilegio per i cristiani, ma

nell’ambito dei giudei livornesi ho pensato di approvare anche quella soluzione.

Una volta la voce roḥeare (37) ha causato il contrario dell’effetto che voleva dare. Nella

parlata giudaico-livornese si provava ad usare termini ebraici per evitare di utilizzare le parole

che rappresentano un ‘tabù sociale’ o ‘tabù di decenza’.146 Roḥeare – un’onomatopea efficace

– è una derivata dall’ebraico roḥa ‘peto’, dunque il verbo significa ‘scoreggiare’. Per una

donna non ebrea l’espressione è stata causa di imbarazzo e di non saper cosa dire. In altri casi

ci sono state espressioni alternative: ‘far aria’, ‘metabolismo’ e ‘bisbigliare dal sedere’.

Dalla figura 4 si può dedurre che l’influsso del portoghese è rimasto limitato. Come già

menzionato nel capitolo 3, il portoghese si manifesta quasi esclusivamente negli atti ufficiali

della ‘Nazione Ebrea’, ed è rimasto soprattutto nel linguaggio giuridico nella comunità

ebraica livornese.

Esiste la concezione che la conoscenza del bagitto diminuisca sempre di più nel tempo. I fatti

non contraddicono quest’idea. La figura 5 mostra la percentuale della cognizione delle voci

bagitte dei non ebrei. Sebbene i numeri siano rimasti limitati, la tendenza si rivela in modo

lampante. Il calo dal 32,3% al 19,8%, cioè 41,9% del totale, è da spiegare con il periodo della

7

15

9

21 19,8

32,2

0

5

10

15

20

25

30

35

<30 31-40 41-50 51-60 61-70 >70

Figura 5: Conoscenza delle parole in tassi % dei non ebrei per fascia d’età.

143 E – con qualche empatia – negro di te! 144 Cfr. nota 104. 145 Si vede spesso anche (ebr) ‘arel: un non circonciso, dunque non ebreo. Questa diversità della grafia è sempre stata una fonte di malintesi. 146 Cfr. Maria Modena Mayer, 1978, op. cit., p. 172.

Page 46: 'UN SOLO DEBARÌM

45

guerra, l’emanazione delle leggi razziali e la fuga di tanti concittadini ebrei. Questa

involuzione non si ristabilirà più nel tempo. Un altro calo, uguale a quello che vediamo nel

gruppo degli ebrei, si verifica con la popolazione tra i 41 e 50 anni. È possibile che esista una

connessione tra questi due fatti. La lieve ripresa nella generazione dai 31 ai 40 anni, si

potrebbe ascrivere ad una normalizzazione dei rapporti tra le due comunità. Se è vero che la

generazione più giovane (dai 21 ai 30 anni) – ma bisogna considerare questa nozione cum

grano salis, perché si tratta soltanto di una persona su tutto il campione, e poi una con legami

con la popolazione ebrea –conosce soltanto il 7% delle voci della nostra lista, significa che la

regressione della conoscenza del bagitto è del 78% in confronto alla generazione dei maggiori

di settant’anni: un calo rilevante.

Il confronto tra le generazioni ebree rischia di attribuire troppo valore alle cifre assolute,

perché le vecchie generazioni non sempre hanno provato simpatia per il parlar giudaico-

livornese. Nonostante questa restrizione esistono delle tendenze notevoli da dedurre dalla

figura 6.

28 27,5

42 41,6

53,6

40,645,3

43,4

0

10

20

30

40

50

60

<20 21-30 31-40 41-50 51-60 61-70 71-80 >81

Figura 6: Conoscenza delle parole in tassi % degli ebrei per fascia d’età.

Nel calcolo nel programma SPSS (Statistic Package for the Social Sciences)147 che mostra una

connessione tra le variabili, troviamo la conferma della conclusione (figura 7):

147 Il programma conferma la correlazione tra due variabili e non si basa su nessuna coincidenza. Quanto ridotto il valore Sig, tanto solida è la correlazione.

Page 47: 'UN SOLO DEBARÌM

46

Età Tutti

(N=96)

Ebrei

(N=56)

Non ebrei

(N=31)

Senza risposta - .37** - .13 - .35

Corretto .32** .02 .34

All’incirca .23* .14 .35

Sbagliato .26* .29* .03

alternativo - .08 - .05 .09

** Il rapporto è significante al livello 0.01(bilaterale) * Il rapporto è significante al livello 0.05 (bilaterale) Figura 7: La conoscenza delle parole in connessione con l’età.

La categoria ‘senza risposta’ mostra una connessione negativa, che sta a significare che

quanto più in là con l’età si trova una persona, tanto più ha dato una risposta (il che non vuole

dire che la risposta sia stata corretta). Questo risultato viene letto soprattutto tra i non ebrei.

Esiste invece una connessione positiva tra le risposte corrette e l’età: la curva sale, il che

significa che col progredire degli anni aumenta il numero delle risposte corrette. I più giovani

non hanno voluto dare una risposta, quando la parole non era rimasta sconosciuta. Un’altra

cosa rimarchevole è il fatto che gli ebrei più anziani hanno dato una risposta sbagliata in

confronto alle generazioni più giovani. Tutti i risultati per i non ebrei sembrano essere

rilevanti, ma questo concetto potrebbe essere un po’ alterato dal numero limitato degli

intervistati.

Il problema di una schematizzazione come nella figura 6, è che questa sempre ci riporta ad

una media. La pratica mostra qualcosa di diverso: tra l’8% ed l’84%, già nello stesso

raggruppamento di persone, in questo caso la fascia dei 31-40 anni.

Un colonna spicca considerevolmente, quella della fascia dei 51-60 anni. Queste sono le

persone nate tra 1948 e 1957148, la prima generazione dopo la guerra. In quel periodo si

verificò poco a poco un ripristino della vita culturale della comunità ebraica. La sinagoga era

distrutta, i legami mutui si erano incrinati dopo un distacco forzato e l’ambiente sociale, –

costituito dai concittadini livornesi non ebrei, – era, se non ostile, comunque inaffidabile. In

una situazione del genere è comprensibile che il cerchio si chiuda, che si ricerchi quello che

unisce e non divide. Una coesione interna viene espressa anche in un linguaggio comune che

esclude il maligno mondo esterno. Così cresce una generazione che in quel momento ottiene

un risultato alto nella familiarità delle parole bagitte. Nel 1956 Guido Bedarida pubblica i suoi

148 Il calcolo vale anche per gli esempi seguenti: dalla nascita fino ai dodici anni (l’età critica) che considero il periodo più sensibile per l’apprendimento della lingua.

Page 48: 'UN SOLO DEBARÌM

47

Ebrei di Livorno,149

che – come un’aggiunta di un’opera letteraria – ci fornisce l’andamento

dello sviluppo cronologico del giudeo-parlare livornese. Si deve sottolineare il valore di

questo libro, che dimostra come il bagitto fosse un mezzo di comunicazione letteraria e non

soltanto un gergo (per cui qualcuno pensa di torcerci il naso). L’accettazione del linguaggio

comune fu un bene per ristabilire un’autocoscienza ammaccata.

La generazione precedente ha subito negli anni della giovinezza l’incubo della persecuzione,

la latitanza, ed è stata carente di casa e famiglia. In qualche caso in famiglia si è tentato di

cancellare tutte le tracce di uno sfondo ebraico: non soltanto il nome veniva cambiato (cosa

può essere più crudele di togliere la propria identità?), ma anche il modo di parlare – il

linguaggio, e pure la cantilena nasale tipica del bagitto – fu stroncata sul nascere. A volte i

figli venivano costretti a partecipare al culto cattolico. Così un’intera generazione si perdette.

Almeno in questo senso vorrei interpretare la percentuale già molto bassa per i sessantenni.

Dopo la guerra ci fu la fase di ricostruzione. La scuola ebraica fu riaperta. La sinagoga fu

riedificata. Pian piano la vita quotidiana riprese il suo andamento normale. Anche il livello

dell’uso del bagitto tornò allo standard di prima. Nel 1983 la scuola ebraica venne chiusa per

mancanza di allievi e così un nucleo di attività, occasioni per riunirsi, venne a scadere. Per

l’utilizzo del giudaico-livornese questo evento ebbe un effetto notevole, che si svela nella

colonna dei trentenni: una ricaduta del 15% (e – fondandosi dalla situazione anteriore, un

regresso del 35%).

Un argomento che viene spesso riportato è che i matrimoni misti hanno causato il declino del

bagitto. Dalla componente del gruppo degli intervistati che si qualifica come ebreo (64) si

evince che 19 persone (il 40%) provengono da un matrimonio misto. In questo gruppo 15

persone (il 79%) hanno di nuovo sposato un non ebreo. Ho considerato la competenza delle

voci delle persone che sono nate a partire dal 1940 in poi in uno schema (figura 8):

persone nate

dal 1940 in poi

provenienti da

un matrimonio

non misto

provenienti da un

matrimonio misto

entrate in un

matrimonio

misto

Il partner

non ebreo

numero di

parole in

media

24,2

(48%)

18,8

(38%)

20,6

(41%)

13,1

(26%)

Figura 8: La conoscenza delle parole sotto l’influsso del legame matrimoniale.

149 Bedarida, 1956, op. cit.

Page 49: 'UN SOLO DEBARÌM

48

Il timore risulta giustificato: di per sé contrarre il matrimonio con una persona non ebrea

implica una perdita dell’uso delle parole bagitte. Un aspetto curioso si manifesta nel fatto che

i figli di un matrimonio del genere si considerano come ebrei puri, anche quando il contributo

della discendenza ebraica si rivela attraverso il padre, e dunque, secondo la legge ortodossa,

non vale più. Ne dedichiamo qualche parola nel capitolo seguente.

Un’altra causa del declino si trova già nel periodo del Fascismo. Abbiamo già accennato al

fatto che la comunità ebraica era divisa in due ceti. Il ceto medio non si è mostrato un

difensore fervente dell’uso del bagitto. Infatti, la conoscenza delle parole in media per il ceto

basso è del 24,8%, mentre per il ceto medio del 21,7%, per i figli di un matrimonio non misto

e per i figli di un matrimonio misto rispettivamente il 22,8% ed il 15,4%. Nella figura 9 si

vede la differenza tra il ceto basso ed il ceto medio divisa in fasce di età.

Figura 9: La differenza tra ceto basso e ceto medio nella conoscenza delle voci150.

È da costatare che lo sviluppo della conoscenza delle voci nel ceto basso mostra una dinamica

più bizzarra in confronto al ceto medio. In tutti e due gruppi di matrimoni il ceto basso

presenta un risultato più alto. La costanza nel rispondere nel gruppo del ceto medio dei

matrimoni ‘puri’ per le tre generazioni più giovani è notevole, tra venti e cinquant’anni, 19

voci, in tutta la linea c’è poco declino (tra 22 e 18,4 parole in media). Il ceto medio nella

categoria matrimoni misti mostra il livello più basso dei quattro gruppi distinti, ma il numero

di coloro che hanno risposto è talmente limitato per considerare questo fatto come

rappresentativo. Un altra considerazione potrebbe essere che questo fatto mostra che i

matrimoni misti non si verificarono con frequenza nel ceto medio fino agli anni Sessanta.

150 L’istogramma va letto da destra a sinistra per seguire meglio l’andamento dello sviluppo della conoscenza delle voci, una direzione adatta per studiare un vernacolo ebraico.

0

5

10

15

20

25

30

35

<20 21-30 31-40 41-50 51-60 61-70 71-80 >81

misto medio misto basso non misto medio non misto basso

Page 50: 'UN SOLO DEBARÌM

49

L’uso del bagitto non sembra differente rispetto al genere: cioè non esistono parole

tipicamente utilizzate dalle donne o dagli gli uomini, come rivela figura 10, il calcolo nel

programma SPSS.

Sesso (0=maschile) Tutti

(N=96)

Ebrei

(N=56)

Non ebrei

(N=31)

Senza risposta - .10 - .16 - .09

Corretto .10 .16 .11

All’incirca .03 - .01 .08

Sbagliato .07 .07 .01

alternativo - .15 - .00 - .50**

** Il rapporto è significante al livello 0,01 (bilaterale)

Figura 10: La conoscenza delle parole in connessione con il sesso.

Come rivela la figura 10, non esiste una correlazione tra sesso degli intervistati e l’esattezza

delle risposte che questi hanno dato alla lista delle parole. La correlazione negativa tra il sesso

e la risposta ‘alternativo’ ( - ,50) significa che le donne non ebree raggiungono un risultato

negativo nel dare un significato alternativo, oppure che gli uomini sono più audaci

nell’indovinare il significato di una parola sconosciuta.

Anche guardando le risposte alle domande aperte non sembra esista una grande diversità tra i

due generi.

La lista con le parole ‘che non possono mancare in un’indagine sul bagitto’, e per la quale era

riservato un po’ di spazio alla fine del questionario, è stata aggiunta come supplemento 5.

Giacché le parole sono quelle espresse spontaneamente dalle persone intervistate, sarebbe

interessante controllare se le voci ottenute convalidano la constatazione di Bedarida151 e cioè

che lo spagnolo e l’ebraismo abbiano formato il linguaggio quotidiano degli ebrei livornesi.

151 Bedarida, 1956, op. cit., p.XIII

Page 51: 'UN SOLO DEBARÌM

50

incerto

1%

italiano

3%

aramaico/greco

4%

spagnolo/portoghese

14%

ebraico

78%

Figura 11: Etimologia delle parole ottenute durante l’indagine

Come la figura 11 mostra, la quota delle voci ebraiche è cresciuta di numero in modo

notevole: il 78% contro il 50% della lista che ha costituito la base dell’indagine, mentre è

rimasta una parola sola che rinvia ad un’origine portoghese (‘ñamoratello’), insieme ad una

diminuzione delle voci spagnole (il 14% contro il 32%). Guido Bedarida, che è stato la fonte

primaria per la scelta delle parole della nostra lista, ha provato a ricostruire un mondo del

passato con le voci ed espressioni dall’epoca. Al contrario, in questo studio, le parole che ho

ottenuto durante l’indagine sono più attuali, nella misura in cui si può considerare un

linguaggio che viene già visto un po’ obsoleto come ‘attuale’. L’alta percentuale delle parole

ebraiche è da spiegare con il fatto che le lezioni dell’ebraismo si sono manifestate fino a poco

fa e le associazioni con le voci già conosciute rafforzano la memoria e l’uso delle parole nel

linguaggio quotidiano. Per le parole iberiche suppongo che inizialmente siano state utilizzate

frequentemente, almeno fino all’epoca della Restaurazione, e che in seguito si siano stabilite

nel bagitto per conservare il modo di esprimersi furbesco e pittoresco, tipico per gli ebrei

labronici. Successivamente diminuendo il linguaggio specifico, soltanto le parole con un

suono distinto di riconoscimento si manifesteranno più resistenti.

Solo l’ 8% degli intervistati non ha mai sentito parlare dell’esistenza del bagitto, un vernacolo

che alcuni concittadini usano. Il 16% non ha mai sentito il linguaggio parlato. Quattro non

ebrei senza legami hanno sentito il bagitto parlato152, due ebrei hanno risposto di essere a

conoscenza dell’esistenza del bagitto, ma di non averlo mai sentito. Una di queste è una

studentessa, che ha ottenuto un risultato di 19 parole conosciute, e che nonostante il fatto che

152 Per due persone un po’ comprensibile, dato che erano coinquilini di Alessandro Orfano, lo studente che ha fatto tante registrazioni del bagitto.

Page 52: 'UN SOLO DEBARÌM

51

nessuno avesse mai parlato il bagitto con lei, ha imparato le parole dai libri. La studentessa ha

dunque avuto una conoscenza del bagitto come se questo fosse una lingua morta o artificiale.

Un’altra persona, nata nel 1961, nipote di Cesarino Rossi, un autore notevole del bagitto, (ma

morto nel 1963), ha una conoscenza di 14,5 parole bagitte, mentre suo fratello, nato nel 1965,

dichiara di aver sentito il bagitto e non supera le cinque parole. Le persone hanno qualche

volta un universo mentale diverso. Una giovane ha sentito parlare il bagitto nella famiglia del

fidanzato, ma non sapeva che si trattasse di una lingua speciale. Adesso i suoni hanno per lei

un’identità precisa.

Le percentuali si manifestano in modo diverso nelle risposte alla domanda sull’aver o meno

visto il bagitto scritto: il 54% dice di si; il 46% lo nega. Queste cifre valgono per il file totale,

ma quando tralasciamo i non ebrei senza legami, la percentuale delle persone che hanno visto

il bagitto scritto è del 61%. Se osserviamo più attentamente gli ebrei, il risultato è del 64%

contro il 36%. Gli intervistati che hanno entrambi i genitori ebrei mostrano una percentuale

del 78%. Per i figli di un matrimonio misto vale la percentuale del 32% contro il 68% che dice

di non aver mai visto il vernacolo stampato. Sembra che i matrimoni misti significhino di

fatto una perdita, se non tanto nel parlare, quanto piuttosto nell’aspetto più materialista di una

lingua: lo scritto. Sia nel ceto basso che nel ceto medio una maggioranza mostra di non aver

mai visto il bagitto scritto. I risultati sono rappresentati nella figura 12:

con

legami

ceto basso

matrimoni

non misti

ceto medio

matrimoni

non misti

ceto basso

matrimoni

misti

ceto medio

matrimoni

misti

si 9 (56%) 12 (67%) 23 (85%) 3 (25%) 3 (43%)

no 7 (44%) 6 (33%) 4 (15%) 9 (75%) 4 (57%)

Figura 12: Le risposte alla domanda 80: “Ha mai visto il bagitto scritto?”.

Il ceto basso di entrambi i gruppi distinti mostra un’arretratezza in materia di letteralità del

bagitto. Non c’è molto da meravigliarsi, il possesso dei libri viene visto come un prodotto di

agiatezza. Per di più bisogna realizzare che il bagitto in fondo è una lingua parlata, lo

indichiamo infatti come il giudeo-parlare livornese o il parlar giudaico (corsivi miei, CW).

Page 53: 'UN SOLO DEBARÌM

52

Quando osserviamo la capacità di esprimersi nel bagitto scritto153, per tutte le categorie vale

che la maggioranza si considera incapace di scrivere nel bagitto (figura 13). Ed anche qui i

con legami ceto basso

matrimoni

non misti

ceto medio

matrimoni

non misti

ceto basso

matrimoni

misti

ceto medio

matrimoni

misti

si 2 (13%) 8 (44%) 9 (33%) 2 (17%) 1 (14%)

no 14 (88%) 10 (56%) 18 (67%) 10 (83%) 6 (86%)

Figura 13: Le risposte alla domanda 81: “Sa scrivere il bagitto?”.

matrimoni misti hanno un punteggio più basso rispetto ai matrimoni contratti tra due ebrei. Ci

sono due figure ‘con legami’ che sanno scrivere il bagitto. Una è la moglie di un

commerciante, che si è mostrata ‘più rabbinica che il rabbino’154 – in senso positivo - , dato

che pur non avendo in gioventù mai imparato il bagitto o l’ebraico nel test sulla conoscenza

delle voci ha ottenuto un risultato del 78%. L’altro è uno studioso che ha già pubblicato sul

bagitto.155

In totale soltanto il 24% degli intervistati sa scrivere il bagitto, per gli ebrei il tasso è del 31%.

Quando confrontiamo questi tassi con i risultati sulla capacità di parlare il bagitto, è evidente

che nessuno dei non ebrei senza legami ha competenza in alcuna parola bagitta, ma il 19%

sostiene di capire qualche parola. Il 19% dei non ebrei con legami con ebrei dice di essere

capace di parlare senza difficoltà, il 63% conosce e sa utilizzare qualche parola ed il 19% ha

risposto negativamente. Sulla comprensione del bagitto questo gruppo risponde per 31% di si,

il 50% che comprende qualche parola ed il 19% nessuna. La maggioranza dei non ebrei con

legami non ha ragioni di sentirsi escluso totalmente nell’ambiente che si serve del parlar

giudaico livornese. Gli ebrei provenienti da un matrimonio misto indicano il regresso nella

conservazione del vernacolo: soltanto il 21% sostiene di parlare il bagitto differentemente

dagli ebrei di un matrimonio non misto che raggiungono il 49%. Ma anche questi ultimi

hanno le proprie riserve sulla capacità di parlare senza limiti: il 44% parla soltanto qualche

parola, mentre il 7% non usa parole bagitte. Per le discendenze da un matrimonio misto i

153 È da notare che ovviamente esiste una differenza tra bagitto parlato e bagitto scritto. Sottolinea il fatto che l’aggiunta scritto indica un’altra cosa che la denotazione spoglia del vernacolo. Con una lingua, p.e. l’italiano o l’olandese non è necessario spiegare sempre così nello specifico. Bedarida aggira il problema per scrivere: 180 sonetti Giudaico-livornesi. (Bedarida, 1956, op.cit.) 154 Una traduzione pericolosa di un’espressione francese, perché in questo caso il rabbino non sa assolutamente niente del bagitto e si giustifica di non intendersene perché è rabbino. La donna in questione non si è mai convertita alla religione ebraica. 155 Benché l’indagine fosse anonima, non si scampa al fatto che qualcuno ha lasciato chiaramente il suo biglietto di visita.

Page 54: 'UN SOLO DEBARÌM

53

risultati sono il 74% ed il 5%. Il capire segue la tendenza tra i due gruppi distinti: il 62% degli

intervistati da un matrimonio ‘puro’ capisce il giudaico livornese, il 33% solo qualche parole.

Due intervistati (il 4%) sono dell’idea di non conoscere il bagitto per niente. I figli di un

matrimonio misto capiscono per il 21% le voci bagitte. Il 79% indica di comprendere solo

qualche parola. Confrontiamo lo scrivere, il parlare ed il capire tra i gruppi distinti nella figura

14. Quello che è notevole è il fatto che le percentuali per scrivere e per capire risultano

Figura 14: La percentuale di capacità di scrivere, parlare e capire il bagitto per gruppi distinti. uguali per i matrimoni non misti, mentre la percentuale per il parlare non arriva al loro stesso

livello. Probabilmente il bagitto è già diventato una lingua fossilizzata, un oggetto per lo

studio, invece che un mezzo di comunicazione tra le persone sulla strada. Questo dato mostra

che il bagitto si sta perdendo: la capacità c’è ancora, ma manca la pratica. Un cattivo segno,

dal punto di vista linguistico156. Un’altra cosa che colpisce è il fatto che nel parlare i non

ebrei, anche se in un modo o nell’altro sono legati al giudaismo, e gli ebrei provenienti da un

matrimonio misto, raggiungono un risulto quasi uguale. Sembra che si tratti qui di una forma

di assimilazione, di equiparazione. I non ebrei con legami capiscono il bagitto meglio dei figli

di un matrimonio misto. Questa cifra potrebbe essere spiegata perché tra i non ebrei si

rivelano anche i partner matrimoniali degli ebrei. I figli di un’unione del genere mostrano una

comprensione meno alta. I non ebrei senza legami almeno capiscono qualche parola bagitta.

156 Si tratta di un modo di dire e non di una notizia scientifica: ogni cambiamento in una lingua è un processo naturale, dunque anche la perdita va vista come un dato naturale.

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

no

n e

bre

i

co

n

leg

am

i

ma

trim

on

i

mis

ti

ma

trim

on

i

no

n m

isti

no

n e

bre

i

co

n

leg

am

i

ma

trim

on

i

mis

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ma

trim

on

i

no

n m

isti

no

n e

bre

i

co

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leg

am

i

ma

trim

on

i

mis

ti

ma

trim

on

i

no

n m

isti

Scrivere Parlare Capire

no

qualche parola

si

Page 55: 'UN SOLO DEBARÌM

54

Ovviamente non trattandosi di un linguaggio segreto e assoluto, in un ambiente linguistico è

difficile escludere la gente, visto che la caratteristica di una lingua è di essere comunicativa.

La trasmissione di una lingua avviene normalmente per sentito dire. Una lingua si manifesta

con degli atti linguistici (o degli enunciati). È necessario per lo meno un ambiente adatto per

premere il grilletto linguistico. Di solito questo avviene in seno alla propria famiglia, ma

anche altri contesti possono servire per l’apprendimento della lingua. Per il bagitto non ha

funzionato diversamente. Solo il 18% delle persone interrogate ha risposto che nessuno ha

mai parlato il bagitto con loro, una percentuale che corrisponde al numero dei non ebrei. Il

71% ha sentito il bagitto parlato rivolto a loro più o meno regolarmente ed il 9% solo

raramente. I mittenti erano per il 6% solo i genitori, per il 15% i parenti, per il 14% i genitori

ed i parenti, per il 6% i colleghi, per l’ 11% gli amici, per solo l’1% un vicino, per il 4% un

conoscente e per il 35% un po’ tutte queste categorie. Per l’ 8% non sono stati i genitori che

hanno parlato il bagitto agli intervistati, ma il resto. Il vincolo del sangue è stato per il 35%

l’unica fonte per imparare il linguaggio, ma la famiglia ha anche partecipato nel 35% di quel

po’ di tutto. Nel 70% dei casi, la base dell’apprendimento del bagitto avviene all’interno dei

legami parentali.

Abbiamo chiesto agli intervistati nei confronti di chi si sentivano debitori rispetto all’aver

imparato il giudeo-livornese. È risultato per il 28 % che la famiglia è stata la maestra più

importante; la combinazione di famiglia e genitori ha contribuito per il 21%, ed i genitori da

soli per il 16%. In totale, dunque, il 65% dell’ambiente formativo viene costituito dalla

parentela. Gli amici hanno partecipato all’apprendimento per il 14%, i colleghi ed i vicini per

il 11%. Tuttavia non è sempre possibile suddividere il mondo sociale in modo categorico e in

registri differenti: il 10% è infatti consapevole di aver imparato il linguaggio un po’

dappertutto. Ma un ambiente ebraico – non c’è da stupirsi - si configura come molto

favorevole per imparare il bagitto.

Soltanto il 67% ha dichiarato di avere la capacità di esprimersi in bagitto. Il luogo dove si usa

questo giudeo-parlare livornese è rappresentato nella figura 12. Naturalmente i luoghi si

sovrappongono, quando si parla il bagitto nella famiglia, è ovvio che si parla il bagitto anche

con gli amici della scuola ebraica. Una persona ha voluto appuntare esplicitamente che il

piazzale della scuola è stato il luogo per eccellenza per comunicare nel suo dialetto locale.

Dalla figura 15 si può dedurre che la cerchia familiare rimane il luogo principale per praticare

il bagitto, e che i registri del lavoro e degli amici non si equiparano. Solo una persona ha

dichiarato di non parlare il bagitto, nonostante avesse una conoscenza alta (il 40%) e la sua

Page 56: 'UN SOLO DEBARÌM

55

27%

23%2%

48%

con gli amici sul lavoro in nessuno luogo in famiglia

Figura 15: Il luogo dove gli intervistati usano il bagitto.

età (26 anni). Si è laureato all’università e poi è tornato al grembo della commercia. Potrebbe

essere stato un modo per distinguersi. Quando osserviamo più attentamente tra quelli che

hanno risposto - prescindendo dalle osservazioni sui non ebrei con legami, ma non sposati con

gli ebrei, che sono quasi tutti commercianti di un banco e usano soltanto il registro del

mercato – si nota che la famiglia è la categoria più importante per quasi tutti i parlanti bagitto,

ad eccezione del ceto medio delle persone provenienti da un matrimonio misto (figura 16). Il

ceto basso di questa categoria parla il bagitto in ugual misura sia sul lavoro, che con gli amici

e in famiglia157. Il fatto che il ceto medio non usa volentieri il bagitto lo abbiamo già potuto

constatare quando mettemmo lo scrivere sul tappeto. Vuoi per gli ebrei nati da un

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

tutti

ceto

medio

ceto

basso

sposato

con u

n

goi tutti

ceto

medio

ceto

basso

sposato

con u

n

goi

ebreo figlio di un matrimonio misto goi

sposato

ebraico

in famiglia con gli amici sul lavoro non si parla

Figura 16: Il luogo dove si parla il bagitto per categoria.

157 Ovviamente le componenti si sovrappongono. Qui si manifesta senz’altro il miracolo aritmetico poiché il totale risulta più che la somma delle parti per quel che riguarda l’uso del bagitto.

Page 57: 'UN SOLO DEBARÌM

56

matrimonio non misto, vuoi per gli ebrei discendenti da un matrimonio misto, si stima che la

percentuale ‘non si parla’ si riscontri più alta in confronto con le altre categorie dei gruppi

rispettivi (il 32% ed il 43%). Nel ceto medio del primo gruppo la percentuale ‘sul lavoro’ è

notevolmente esigua (il 6%), il che significa che il ceto medio raggiunge un altro segmento

del mercato e che il ceto basso si limita – per quanto le nostre indagini ci permettono di

concludere – al mercato dei banchi e dei negozi intorno. Tutti gli ebrei del ceto basso parlano

entro certi limiti il bagitto. Gli ebrei sposati con un partner non ebreo parlano il bagitto in

famiglia frequentemente (il 62%), il che vuole dire che il bagitto viene visto da loro come un

mezzo di comunicazione nella vita privata. I non ebrei sposati con un partner ebraico

rispondono di farlo per il 43%, ed i discendenti di un matrimonio misto del ceto medio che

hanno risposto di non parlare il bagitto per niente, arrivano ad una percentuale del 53%. Un

figlio di un legame del genere parla il bagitto in media per il 35% in famiglia. Una persona

non ebrea che si è legata in matrimonio con un figlio di un matrimonio misto fa notare di

avere meno amici per parlare il giudeo-livornese poiché con il suo partner ed anche sul lavoro

ci sono poche occasioni per parlare il bagitto. Non c’è da stupirsi troppo, perché questa

persona viene da un altro contesto.

All’enunciato ‘Ho parlato il bagitto ai miei figli’ il 31% non ha potuto rispondere perché gli

intervistati o non erano capaci loro stessi di parlare il dialetto in esame o non avevano ancora

avuto prole. Dalle persone senza legami con la popolazione ebraica nessuno ha usato parole

bagitte con i figli e anche la gente con legami, ma senza essere sposata con un ebreo, si è

astenuta dal vernacolo ebraico livornese, ad eccezione di due uomini che riportano di aver

detto qualche parola bagitta ai figli. Nel gruppo di ceto medio dei matrimoni misti nessuno ha

mai parlato il bagitto ai figli, mentre il ceto basso è stato il più leale con il suo linguaggio nei

riguardi dei figli: il 60% ha parlato il bagitto, il 30% ha usato qualche parola e soltanto il 10%

non ha mai parlato una parola bagitta ai figli. Anche nella categoria degli ebrei praticanti la

dottrina religiosa, il ceto basso si è mostrato più fedele al suo linguaggio popolare: solo il 6%

non ho usato il bagitto con i figli, mentre il 44% solo qualche parola ed il 50% senza

restrizioni. Per il ceto medio valgono le percentuali del 41% (nessuna parola), del 32%

(qualche parola) e del 27% (un’affermazione franca) all’assunto: ‘ho parlato il bagitto ai miei

figli’. Nei matrimoni misti attualmente il 43% parla il bagitto con i figli, il 33% qualche

parola, ed il 23% non usa neanche una parola bagitta con i figli. Queste ultime percentuali

sono rappresentate nella figura 17, ma con qualche reticenza perché i numeri assoluti sono

limitati e le conclusioni sono di conseguenza poco rappresentative. Tuttavia si conferma

Page 58: 'UN SOLO DEBARÌM

57

quello che abbiamo già constatato dai risultati del parlare bagitto in generale, e cioè che gli

ebrei conservano meglio il bagitto nel parlare in confronto ai discendenti di un matrimonio

misto ed anche ai non ebrei con legami158. Il parlare ai figli mostra già un degrado, che si

ebreo

ceto

medio

ebreo

ceto

basso

ebreo sposato

con non ebreo

matrimonio

misto

ceto medio

matrimonio

misto ceto

basso

non ebreo

sposato

con ebreo

si 27 50 30 - 60 43

qualche

parola

32 44 33 - 30 33

no 41 6 23 100 29 23

Figura 17: ‘Ho parlato il bagitto ai miei figli’ in percentuale.

vede più chiaramente quando guardiamo alle categorie non suddivise. Per gli ebrei risulta: si

= il 37%, qualche parola = il 37% e no = 26%; per i matrimoni misti: si = il 50%, qualche

parola = il 25% e no = il 25%. Queste cifre valgono per tutti colori che hanno risposto, ma

siccome si disponeva di un file abbastanza vecchio ho estratto tutti gli intervistati nati dopo

1940, la generazione che ha potuto riprendere la vita normale dopo le crudeltà

dell’occupazione dei nazisti e le azioni preparatorie dei fascisti: questa gente è infatti potuta

andare alla scuola ebraica, ha potuto parlare francamente, senza avere paura di essere

smascherata e considerata come gente ‘indegna’. Ma il danno era già stato provocato e al

tempo stesso si nota un proseguimento di una tendenza già in atto. Per questi casi le

percentuali sono: si = il 30%, qualche parola = il 55% e no = il 15%. Il fenomeno è indicativo

di ciò che sta succedendo e si manifesta nell’alta percentuale della categoria ‘qualche parola’.

Si può interpretare che il bagitto non sia più un mezzo di comunicazione intero per tutti, ma

un’aggiunta ad un’altra lingua e serva per esprimere un affetto che mette l’accento sul

rapporto particolare dei due partecipanti del processo comunicativo.

Al tempo stesso il bagitto non serve più come un linguaggio segreto, un linguaggio comune,

come ha funzionato nel passato, perché le circostanze in cui ci si servì del parlar giudaico-

158 Le risposte alla domanda ‘Sa parlare il bagitto?’sono (in percentuale): ebrei matr. misti ‘ legamisti’ si 49 21 19 qualche parole 44 74 63 no 7 5 19

Page 59: 'UN SOLO DEBARÌM

58

livornese sono cambiate. Il mercato su suolo pubblico non è più l’area bagitta grazie al fatto

che l’egemonia ebraica non esiste più. Il banco del vicino non necessariamente è occupato da

un correligionario e così la lingua parlata si è indebolita. Il sentimento di fratellanza è rimasto

vivo, visto il fatto che il 61% degli intervistati ha risposto di parlare il bagitto soltanto quando

sa che l’interlocutore lo comprende, il 30% non tiene conto di questo fatto, ed il 9% lo uso

con il buon intenditore e con l’ignorante ugualmente. Il 77% parla il bagitto per non farsi

capire da un estraneo mentre il 17% non lo usa come un codice segreto. La conferma di

questo impiego del linguaggio è sempre accompagnato da un gran sorriso che interpreto come

se ci fosse ancora un sentimento favorevole nei confronti della sopravvivenza del gergo

vernacolare ebraico livornese. In generale non si nasconde di far parte della stessa comunità

linguistica, solo il 17% dice di aver fatto finta di non capire il bagitto, il resto rivela di

appartenere alla cerchia degli iniziati.

Il linguaggio è visto come una cerchia del genere. Alla tesi che l’uso del bagitto sottolinei un

sentimento di solidarietà, il 78% degli intervistatori dà una risposta affermativa, che considero

importante, perché coloro che non parlano il bagitto giudicano positivamente una materia

sconosciuta. Di una lingua si intendono tutti e per collegare una lingua ed un sentimento di

solidarietà basterebbe leggere il dépliant di un corso d’inserimento. Qui si impone dall’altro

lato la questione se il regresso del bagitto, che si è dimostrato nelle figure precedenti, possa

significare la scomparsa di qualcosa dentro la comunità ebraica.

Nonostante l’indebolimento costante, la maggior parte degli intervistati non crede che il

bagitto possa sparire completamente nei prossimi vent’anni: il 51% pensa al futuro con

ottimismo, mentre il 41% ha perso la speranza con una certa rassegnazione. L’8% non ha

un’idea. I pessimisti (o realisti, come preferiscono considerarsi) si rivelano in tutte le

categorie del campione, ma gli ebrei del ceto medio superanno tutti gli altri (il 52% del

sottotipo) in confronto con il ceto basso (il 39%), i figli di un matrimonio misto (il 14% per il

ceto medio, il 25% per il ceto basso). I non ebrei ma sposati con un ebreo raggiungono il 44%

nel pensare prossima la scomparsa del parlar giudaico-livornese. Non si può tener in vita una

lingua artificialmente, ma un’aspettativa negativa non aiuta la sua conservazione.

Un grande consenso invece esiste nel giudizio del dissolvimento completo del bagitto. Il 98%

di tutti gli intervistati lo considera un peccato ed il 55% vorrebbe imparare il bagitto se ci

fosse la possibilità. Tra le persone che hanno risposto di non voler imparare l’idioma in

questione (il 20%) ci sono nove non ebrei, ed il 2% non lo sa, il che vuole dire che anche i

non ebrei (e senza legami) sono interessati ad un’offerta di lezioni in bagitto. Gli ebrei che

sono rimasti indifferenti alla possibilità d’imparare il bagitto sono già in età più o meno

Page 60: 'UN SOLO DEBARÌM

59

avanzata oppure dell’opinione di essere già competenti. La scuola ebraica non esiste più, le

lezioni di bagitto non ci sono. Ecco la situazione.

Page 61: 'UN SOLO DEBARÌM

60

6. Le minacce alla continuazione del bagitto Le conclusioni della presente indagine non si limitano a rilevare lo stato delle cose in questo

momento. Il mio lavoro, condotto dal maggio al giugno 2008, non è stato solo una ricerca

sulla conoscenza delle parole bagitte, ma è diventato anche un mezzo per ascoltare tutte le

storie che durante il mio giro a Livorno mi sono state raccontate. In questo modo ho potuto da

una parte scoprire un legame tra gli eventi storici e le altre minacce e dall’altra misurare l’uso

del parlare giudaico-livornese al giorno d’oggi.

Una cosa cero è stata evidente: il bagitto è sotto torchio. Si potrebbe fare spallucce per questo

fatto, condividere il pensiero che si tratta di un processo naturale, o essere dell’idea che un

dialetto in un mondo sempre più globalizzato è oramai passato di moda e pensare che sarebbe

più intelligente affrontare altri problemi più importanti. Al contrario ho sempre incontrato

negli interlocutori espressioni di nostalgia, un sorriso per un bel ricordo, una luce di felicità

negli occhi mentre parlavamo del passato e – su richiesta – il desiderio di preservare quello

che ancora rimane oggi di quel linguaggio degli antenati e della propria giovinezza. Perché il

bagitto è potuto arrivare a scomparire a tal punto? Vediamo cronologicamente le diverse

ragioni che hanno causato la decadenza del vernacolo giudaico livornese.

• Un primo impulso ad allontanarsi intenzionalmente dalle parlate giudeo-italiane – e

dunque dal bagitto159 – è da datare intorno al 1861, quando il Risorgimento portò alla

proclamazione dell’Unità d’Italia. La nuova forma di governo impedì l’esistenza dei

ghetti (il ghetto di Roma fu chiuso nel 1848) e questo fatto fu per una fetta della

popolazione ebraica un sollievo: ‘basta il ghetto, basta il dialetto che rinvia al ghetto’.

Questo sospiro di sollievo fu tirato perché la reclusione durante secoli aveva

ostacolato un’assimilazione o almeno un’integrazione con il popolo italiano. Si può

obiettare che a Livorno non vi fu un ghetto in senso stretto, quanto piuttosto la

convivenza volontaria in un quartiere fra di loro, tuttavia le restrizioni nel contatto con

i concittadini non ebrei – per esempio il divieto di dividere la porta d’ingresso della

casa o le scale – fu sentito – ed a buon diritto – comunque come una discriminazione.

Fu soprattutto il ceto medio – ne abbiamo trattato nel capitolo 2 – che volle mescolarsi

con la popolazione non ebrea, e che si sentì in primo luogo ‘italiano’ e poi ‘ebreo’. È

stato nello stesso ceto che una certa quantità di persone – approssimativamente –

abbracciò il Fascismo, quando questo movimento ambiva ad un’Italia unita per

159 Il rabbino di Livorno Eliah Benamozegh (1823-1900), una tra le maggiori figure dell’ebraismo italiano dell’Ottocento, ha spronato i suoi correligionari a partecipare al movimento del Risorgimento, essendo un’occasione d’oro per l’emancipazione degli ebrei italiani.

Page 62: 'UN SOLO DEBARÌM

61

condizionare la propria situazione politica nazionale. Una possibilità scelta per mettere

in pratica la voglia di integrare fino a quando le legge razziali furono emesse. In un

primo momento il movimento ottocentesco nazionalista costituì un primo passo per

distaccarsi dal bagitto. Parlando con i nipoti di quei primi ‘integrazionisti’ ho

constatato che questi conoscono davvero poche parole bagitte.

• Insieme all’elemento precedente c’era l’esigenza del ceto medio di distinguersi del

ceto basso. I due ceti erano ben divisi. Solo alla scuola ebraica i ragazzi avevano la

possibilità di entrare in contatto fra di loro, ma una volta adulti diventavano tutti

livornesi, anche se comunque di mondi diversi. I ragazzi di origine più socialmente

elevata erano costretti ad arrivare in alto nella scala sociale ed il linguaggio in tal

senso non doveva essere un ostacolo per il raggiungimento di quell’obiettivo. Come

esprime Bedarida nell’Introduzione di Ebrei di Livorno:

Non esiste dunque un linguaggio volgare o fine, ma il parlare della gente volgare, che è quello

che è e non può essere diverso, senza il rischio di cadere nel ridicolo; e il parlar delle persone

colte, le quali, se si esprimono in modo volgare, diventano allora volgari. (Bedarida, 1956, op.

cit., p. XXI).

Per evitare di essere considerati di umili origini era necessario parlare una lingua

appropriata: un altro tentativo di eliminare nel linguaggio personale il dialetto locale.

Inoltre questo doveva essere utile per integrarsi meglio nell’Unità d’Italia. Così

l’italiano funzionò per ribellarsi alla povertà del ceto operaio ebraico e – di

conseguenza – al ceto stesso con suo linguaggio.

• Nonostante il fatto che gli ebrei avessero trovato un posto più o meno favorevole a

Livorno in confronto a quasi tutto il resto del mondo, il luogo non era (e non è)

completamente al riparo dall’antisemitismo. Abbiamo già ricordato gli scritti di

Giovanni Guarducci e Luigi Duclou che non sono stati molto rispettosi nei confronti

del parlare giudaico-livornese e per gli utenti di quel vernacolo. Anche nel

comportamento dei concittadini ci furono degli scoppi di rabbia verso gli ebrei. Il

quartiere di Venezia Nuova – pieno di giudeofobia – si contraddistinse negativamente

per manifestazioni antiebraiche. Senza entrare troppo nei dettagli160 - si trattò di una

160 Per maggiori particolari cfr. Toaff, 1992, op. cit., p. 25-8

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manifestazione d’invidia da parte dei non ebrei per la posizione d’eccezione degli

ebrei, appoggiati dalla benevolenza granducale ed in seguito dal benvolere francese –

il tenore di prudenza per la propria vita forzava gli ebrei a non mettersi troppo in

mostra. L’uso di un linguaggio particolare avrebbe potuto essere ingannevole e

conveniva abbandonarlo. Dall’altro lato si comprende perché gli ebrei abbiano voluto

vedere il loro giudeo-parlare livornese come un linguaggio segreto. Non essere capito

vuole dire non essere ‘beccato’. Ma in un ambito del genere bisogna considerarlo

anche come una politica dello struzzo.

• Già prima del periodo buio della Seconda guerra mondiale si celebravano i matrimoni

misti, un fenomeno che si è continuato a verificare fino ad oggi. Abbiamo già mostrato

come in quasi ogni legame del genere si trovi una perdita dell’uso del bagitto. Nei ceti

medi in cui il marito è ebreo e la moglie una cattolica, si vede con qualche regolarità

che la moglie si converte all’ebraismo (non ho mai visto l’inverso ovvero che il marito

si sia convertito all’ebraismo161), ma questo gesto generoso non compensa la

mancanza di un’educazione imbevuta nel bagitto. Concretamente un matrimonio misto

significa una perdita del 28% nel parlare bagitto, il partner non ebreo parla il 30% in

meno il vernacolo rispetto alla sua metà. Il clima linguistico cambia notevolmente.

Solo questo non basta però per spiegare la decadenza del parlar giudaico-livornese.

Soprattutto non c’è niente da fare contro la tendenza che continua sempre di più a

sposare un non ebreo. Il matrimonio combinato è oramai passato di moda, non soltanto

perché non ci si lascia più imporre un legame così personale, ma per giunta l’offerta

dei pretendenti è diventata magra. Inoltre le proprie passioni fisiche non si lasciano

mai domare.

• Una minaccia fondamentale – sia per il bagitto sia per le persone che lo parlavano –

sono state le leggi razziali, promulgate all’improvviso nell’estate del 1938. Il governo

fascista aveva dichiarato poco tempo prima che in Italia non esisteva la ‘questione

ebraica’. Per gli ebrei livornesi l’applicazione delle leggi razziali si presentò come un

fulmine a ciel sereno, soprattutto per coloro che avevano sostenuto il fascismo. Da un

‘Libro d’Oro’, un quaderno di 70x50 centimetri e copertina rigida, in cui un autore, un

161 Per la legge ebraica non vale neanche la pena che l’uomo diventi ebreo, perché solo la madre può trasmettere l’identità ebraica ai figli. Interessante in questi casi è che la conversione della donna avvenne dopo la nascita dei figli. I figli diventeranno ebrei con valore retroattivo? Oppure erano già ebrei grazie al fatto che la legge fu interpretata a Livorno in modo più tollerante nel passato? E le donne si convertono perché il regime ebraico è diventato più ortodosso?

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pater familias ebreo ha voluto esporre gli affari concernenti la famiglia e – come

un’aggiunta - la vita politica italiana, riportiamo poche righe sulla descrizione

dell’accoglienza festosa del Duce a Livorno:

Il giorno 15 luglio 1938 con un comunicato dal titolo: Diversità di razze, apparso sui principali

giornali d’Italia, firmato da un gruppo di studiosi fascisti si inizia il Razzismo in Italia. Avrei

desiderato riportare su questo libro tutte le leggi e disposizioni impartite dal R. Governo e tutto

quanto poteva esserci di interessante riguardo questo movimento, ma troppe pagine sarebbero

state necessarie per adempiere a questo scopo. Perciò piuttosto che fare appena incompleta

preferisco rimandare coloro (ai quali interessano queste notizie) a leggere altrove, essendo il

vero scopo di questo Libro, più che altro, quello di ricordare i più importanti avvenimenti della

mia Famiglia.162

La pagina seguente racconta la dipartita del Papa Pio XI e l’elezione dal successore

Pio XII, un avvenimento davvero importante per una famiglia ebrea! Si aveva – ma in

tutta innocenza – puntato sul cavallo perdente ed ora la situazione era totalmente

cambiata:

Fu nel pomeriggio del 7 luglio (1944) che avemmo l’immensa gioia di veder passare in alto

sulla collina accanto a quella ove eravamo noi, dei soldati in fila indiana, che guardati col

cannocchiali ci pareva che dovessero americani. Immaginarsi la nostra esultanza, era per noi la

liberazione come italiani e come ebrei, pronti anche a morire se la battaglia continuava, ma

almeno non morire di fame e con la gioia di avvicinarsi il trionfo degli alleati, che era il nostro

stesso trionfo! (corsivi miei, CW).163

Nell’ambiente ebraico il fascismo si è diffuso prevalentemente nel ceto medio, ma

certamente non per tutti i membri di questo il fascismo è stato un ideale politico.

Attualmente non si esprime più facilmente quel che si pensa della situazione politica,

ma il ceto medio non si aspetta molto dalla sinistra italiana. Invece si verifica un altro

fenomeno da considerare: il sentimento nazionale viene proiettato sulla seconda patria,

Israele. Ogni voto per l’elezione nazionale ha poco a che fare con la politica italiana

interna, ma tutto come un partito valuta la politica israelita. Un atteggiamento critico

in questo campo viene facilmente visto come un atto d’antisemitismo.

Le leggi razziali erano in ogni caso un intervento quasi chirurgico nell’esistenza della

comunità ebraica, la Nazione Ebrea. In primo luogo hanno causato una concentrazione

162 (Daniele) Ugo Castelli – Libro d’Oro. Inedito. Citato con permesso dalla famiglia. 163 Ibid.

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del popolo ebraico e in un secondo momento anche una disgregazione. I professori

ebrei delle scuole pubbliche furono buttati in mezzo alla strada e agli allievi fu vietato

l’ingresso alle scuole medie e superiori. Per la scuola elementare non ci furono

problemi, dato che esisteva già la scuola ebraica. Per l’insegnamento nella media

inferiore e superiore non esisteva in quel momento una scuola ebraica, ma per

garantire il progresso dell’educazione si misero insieme gli insegnanti costretti nella

disoccupazione e gli alunni rimasti senza scuola. Ci limitiamo qui a parlare

dell’insegnamento, essendo questo una sorgente d’apprendimento della lingua, ma

anche negli altri settori della vita pubblica gli ebrei furono forzati a cercare sostegno

fra di loro, scacciati dalla società fascista italiana, dove si ricorda ad esempio che

l’ingresso dei luoghi pubblici era “vietato ai cani e agli ebrei”. Grazie all’indifferenza,

più che alla solidarietà dei livornesi, gli ebrei livornesi hanno potuto continuare la

propria vita in città, seppur con grandi problemi pratici. Dopo l’8 settembre del 1943,

quando la caccia agli ebrei cominciò, quelli che non erano ancora catturati furono

costretti a vivere nella clandestinità. Le scuole ebraiche furono chiuse. Con ciò venne

meno la vita comune, il nucleo linguistico del parlar giudaico-livornese e il

condizionamento reciproco. Escludere la possibilità di comunicare nella lingua

comune significava una perdita del vernacolo, perché un linguaggio va mantenuto.

Sentir parlare una lingua offre una modalità di sopravvivenza della stessa.

• Per i giovani la vita in clandestinità era ancora più disastrosa. Non solo erano costretti

a vivere in circostanze particolari – in tanti casi non si può parlare neanche di una vita

familiare –, ma neanche lo sfondo culturale esisteva più. Qualcuno fu mandato alla

chiesa cattolica e forzato ad imparare tutte le canzoni di una fede che non era la

propria. Ma soprattutto i giovani furono così privati dell’acquisto della loro lingua

autentica, le parole bagitte, le sue sfumature, il parlare per immagini e allusioni, le sue

antifrasi ed allegorie, ma anche la pronuncia e in particolare il famoso parlare con

l’accento cantilenato fu visto come una dimostrazione di essere ebreo e di

conseguenza una minaccia per se stessi in un mondo ostile. Una volta tornato nella

città bombardata e poi liberata e con una sinagoga distrutta qualcuno si è sentito

spaesato. La comunità ebraica non è sempre stata in grado di dare una mano agli

sradicati morali. I risultati di questi presupposti si manifestano anche con la ridotta

consapevolezza delle parole bagitte. E – una conclusione triste – con l’incapacità di

comunicare con proprietà di linguaggio.

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• Dopo la guerra si assiste ad una rifioritura del bagitto, ma questo va considerato come

il racimolare i frammenti di una esistenza perduta, la voglia di riprendere la vita

domestica interrotta. La scuola elementare ebraica viene riaperta, i commercianti

riprendono i lori posti ai loro barrocci, si fanno disegni per una nuova sinagoga. È

questo il conflitto interiore nella comunità che da un lato mostra la tendenza a

guardare al passato e dell’altro la voglia di affrontare il futuro. Esiste ad esempio

qualche poesia164 che ha come argomento il passato – gli orrori della guerra - ma il

futuro è centrale, come in tutti i paesi postbellici che si concentravano nella

ricostruzione della città, dell’economia, della vita. In un clima del genere un vernacolo

era troppo incastrante, ci voleva una vista lunga, più internazionale. Per di più il

bagitto ricordava – l’histoire se répète, il periodo ottocentesco - la discriminazione

che condusse alla persecuzione recente. Meglio non parlarne.

• La nascita dello Stato d’Israele ha avuto come effetto che tanti ebrei sono diventati più

consapevoli del loro essere ebrei. Il legame con le radici ebraiche si è rinnovato per

tanti ebrei in tutto il mondo, Livorno compresa. Tanti hanno voluto partecipare alla

costruzione della Terra promessa, finalmente conquistata dopo tante privazioni, e tanti

sono partiti per unirsi ai pionieri della prima ora. Questo fu il primo esodo volontario

dalla città labronica. E con loro sparì il primo gruppo di parlanti del bagitto.

La ricostruzione dell’esistenza postbellica incluse anche una più facile accessibilità ad

un insegnamento migliore. Così tanti giovani si poterono laureare, ma non trovarono

una sfera di lavoro adeguata. Questo causò un secondo esodo locale: un ceto alto

intellettuale si vide costretto a cercare un lavoro a Roma, a Milano o a Gerusalemme

(per nominare i luoghi più prediletti), perché Livorno non glielo poté offrire. Rimasero

a Livorno i loro genitori e i meno privilegiati nel campo della formazione. La partenza

di un segmento della popolazione in tal senso significò una certa perdita della cultura

ebraica e dunque del bagitto.

• Un’altra ragione del degrado del bagitto si può trovare nella ridotta quota di

partecipazione nel mercato locale. Fino al 1965 il mercato si trovava in via Cardinale,

contava circa 30 barrocci ed il 90% degli occupanti era ebreo. Per questo motivo il

164 Si veda Bedarida, 1956, op, cit., e anche Rossi, s.a., op. cit. e Migali 1990, op. cit.

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mercato venne chiamato ‘il mercato degli ebrei’. Nel 1967 un edificio dirimpetto al

Nuovo Mercato delle vettovaglie165 in via Buontalenti – già diventato una rovina dopo

il bombardamento degli alleati nel maggio del 1943 – fu demolito per dare spazio ad

un ingrandimento dello stesso. Così fu creato posto per 102 barrocci. La quota di

mercato per gli ebrei diminuì del 40%. Dopo il 1973 i barrocci furono sostituiti da

banchi, cioè i barrocci mantenevano le ruote, ma i banchi rimanevano a loro posto

giorno e notte e subirono delle estensioni provvisorie che vennero demolite dopo la

chiusura. Nel 1975 la quantità dei commercianti ebrei nel mercato era il 30% del totale

dei 102 banchi. Al 23 giugno 2008 la quantità è diminuita fino al 13% per gli ebrei, ed

al 24% si includono i commercianti legati alle famiglie ebree. I banchi attualmente

vengono venduti soprattutto ai cinesi. L’ambiente linguistico del bagitto si è per lo più

infiacchito. Un linguaggio è come un rapporto, bisogna intrattenerlo.

• Una minaccia per il gergo vernacolare ebraico livornese si concretizza anche con un

cambiamento della composizione della famiglia. Prima della Seconda guerra mondiale

le famiglie erano composte di tre o quattro generazioni che vivevano insieme in una

casa. Un commento che ho sentito spesso è stato: “Mia nonna mi disse sempre …”.

Questo commento sottolinea che il linguaggio è stato trasmesso da una totalità di

membri di famiglia, cioè che il bagitto fece parte della vita familiare. Dalla risposta

alla mia domanda ‘Da chi ha imparato il bagitto?’ è risultato che l’11% ha imparato il

bagitto dai genitori, mentre il 21% indica i parenti come i maestri. Il 16% denomina la

combinazione di genitori e parenti. Dopo la guerra, soprattutto negli ultimi venti anni,

si nota che le giovani generazioni escono dalla casa della famiglia di origine e vanno a

vivere da soli. I loro figli quindi non vivono insieme con i nonni. Trasmettere una

lingua significa esprimere dei sentimenti in un vernacolo che sta vicino al cuore,

enunciare vezzeggiativi o esternare lezioni della vita, come si fa in una cultura tra i

membri della famiglia. In questo caso la distanza è diventata grande e la possibilità di

comunicare più difficile.

L’indipendenza del domicilio è almeno per quel che ci interessa un inaridimento

dell’ambiente linguistico.

165 Un maestoso edificio, disegnato dall’ingegnere Badaloni, fu inauguratoli lì nel marzo 1894. Danneggiato gravemente durante la guerra ma ricostruito subito dopo la liberazione, l’edificio aveva posto per 44 botteghe e 252 banchi. I commercianti non erano ebrei, i quali invece si trovarono fuori, all’aria aperta. Attualmente è entrato nel mercato coperto un primo ebreo che vende scarpe.

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• Nel 1956 c’è stata la crisi di Suez e del deserto del Sinai. Tanti ebrei furono buttati

fuori dall’Egitto, da qui una parte considerevole arrivò a Livorno e nel 1967 dopo la

guerra dei Paesi Arabi e l’Israele (‘la Guerra dei Sei Giorni’) un alto numero di ebrei

fu costretto a lasciare la Libia per stabilirsi nella città labronica. Bisogna concludere

che invece di un’emigrazione che si avverava già, anche un’immigrazione di persone

con uno sfondo diverso a medio termine (perché anche loro sono originalmente

rifugiati iberici) ha causato un indebolimento del bagitto.

• La cessazione della scuola elementare ebraica nel 1983 a causa della mancanza di

persone probabilmente è stata l’attentato più severo all’apprendimento del bagitto. Il

luogo d’incontro della gioventù, sia del ceto basso e del ceto medio, è sempre stato

una terra fertile per imparare una lingua comune e per integrare due popolazioni

diverse. Gli allievi sono stati dispersi in altre scuole della città e soltanto il nome della

strada166 ricorda i tempi in cui lì fu insegnato – oltre alle materie obbligatorie –

l’ebraico e – mai ufficialmente – il bagitto. (L’edificio è stato abbattuto e sostituito da

un palazzo di sei piani, proprietà della comunità, e quasi tutti i montanti nel

pianerottolo portano una mezuzah, l’astuccino al montante).

• L’atteggiamento dei rabbini locali verso il giudeo-parlare livornese non è sempre stato

molto stimolante. Si può obiettare che non è proprio incarico della direzione spirituale

quello di incoraggiare l’uso di un linguaggio che non ha niente a che fare con i doveri

religiosi, un linguaggio che si usa fuori della sinagoga, un linguaggio che ha a che fare

con il commercio e non con il culto. Ci sono stati dei rabbini dopo la guerra che hanno

avuto simpatia per il registro dei propri correligionari, ma non molti. L’attuale rabbino

non sapeva neanche l’esistenza di un gergo vernacolare ebraico livornese, anche se il

suo studio si trova attiguo alla stanza dell’intenditore del bagitto per antonomasia –

Gabriele Bedarida - nell’ufficio della comunità ebraica. Questa mancanza non è

completamente da imputare al suo disinteresse, perché il rabbino è giovane, è stato

nominato tre anni fa dopo essersi appena laureato ad un seminario rabbinico israeliano

e prima di tutto ha dovuto imparare l’italiano. Il suo dovere poi è stato quello di

reintrodurre la fede ortodossa in un clima che era diventato troppo tollerante. Non con

soddisfazione generale, per il clima tollerante e per la reintroduzione dell’applicazione 166 Via dei Fanciulli – da via Cairoli a via Eugenio Sansoni - fu senza nome fino al 1860, anno in cui venne così denominata. Il nome si

riferisce alla vicina scuola israelita alla quale conduceva questa via. La scuola scomparve verso la fine del secolo. La strada era conosciuta

per via Traverse. (Beppe, Leonardini e Corrado Noverino 1986: Strada Storico di Livorno, Nuova Fortezza, Livorno).

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della legge ebraica. Soprattutto per i matrimoni misti la nuova – o meglio recuperata -

interpretazione della legge ha avuto conseguenze sulle modalità di considerare i figli

di famiglia ebrea come ebrei o meno. Per le questioni da risolvere nell’ufficio della

comunità dunque non si utilizza un mezzo di comunicazione del passato, ma ci si

preoccupa come comunicare propriamente con i correligionari. L’esistenza di un gergo

livornese – anche se ebraico – è in confronto ai problemi di razza e di fede, una

questione di interesse secondario167. D’altra parte ci si può domandare se il bagitto non

facesse parte del patrimonio culturale della comunità ebraica e di conseguenza non

fosse in realtà una cosa da tener cara anche da parte dei responsabili della Nazione

Ebrea.

167 Mentre in passato durante le feste di nozze il bagitto fu usato nelle commedie per aumentare la baldoria. Il bagitto servì per sottolineare lo spirito comunitario

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Conclusioni

Il bagitto in questo momento ha un posto di rilievo. Da un lato viene visto come il parlar

giudaico livornese, cioè un mezzo di comunicazione soprattutto tra i commercianti del

mercato, dall’altro, grazie alle pubblicazioni di Bedarida, Rossi e Della Torre, è anche

diventato una lingua letteraria. Questo stato di cose rende difficile l’approccio al fenomeno

del bagitto. Tutti credono che se il bagitto sparisse completamente, sarebbe una grande

perdita. Ma a cosa si riferiscono le persone esprimendo questa preoccupazione, alla lingua

popolare o a quella più aulica? Il bagitto si sta perdendo, ma per cambiare la corrente non

esiste una soluzione su misura. Si può semplicemente proporre di ricominciare a parlare il

bagitto, ma per farsi capire ci vuole almeno un interlocutore che s’intenda anche lui del parlar

giudaico-livornese e questo non è ciò che si verifica di solito. Lo stato della popolazione del

mercato è diventato diverso. Come parlata commerciale il bagitto ha poche prospettive. Come

lingua letteraria avrebbe una possibilità, ma negli ultimi tempi non si è presentata ancora una

vena poetica. D’altra parte non è per niente chiaro dove e in quale occasione una letteratura

bagitta potrebbe essere presentata. Anche se a Livorno esiste una casa editrice ebraica,

un’edizione in bagitto non sarebbe redditizia a causa dei pochi potenziali acquirenti, salvo nel

caso in cui si provveda ad un sovvenzionamento generoso.

Nella comunità ebraica c’è sempre stata una divisione tra il ceto basso ed il ceto

medio. Questa dicotomia esiste ancora. Dei tentativi per riunire i due ceti – per esempio con

l’organizzazione della fiera di beneficenza del Women’s International Zionist’s Organization

(WIZO), sono stati fatti, ma il ceto basso, a parte contribuire in modo magnanime alla vendita

delle merce, per il resto non si fa vedere. Il bagitto si trova tra l’incudine ed il martello, perché

se originariamente era la lingua del ceto basso, oggi si manifesta come una lingua scritta

elitaria, specialmente nella forma dei sonetti (come hanno scritto Bedarida e Delle Torre).

Non è opportuno concludere che il bagitto sia stato confiscato dal ceto medio, ma nella forma

scritta –la forma più adeguata per lo studio, non dipendente del luogo e tempo168 - è almeno

molto vicino alle persone colte169.

Durante l’indagine ho riscontrato che persone appartenenti al ceto basso alzavano sempre lo

sguardo verso persone del ceto medio, come se questi fossero più competenti per dare un

giudizio finale sul bagitto. In parte si capisce, perché il figlio di Guido Bedarida, Gabriele

Bedarida, appartenente al ceto medio ed ancora oggi energico ed attivo nella comunità, viene

168 Lo studio di Alessandro Orfano costituisce un’eccezione: egli si è limitato a fare delle registrazioni e così i suoi intervistati si sono incontrati soprattutto nel ceto basso. 169 Per quanto si può sostenere che la guerra e la clandestinità abbiano guastato l’educazione di una generazione intera.

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considerato come l’autorità per eccellenza nella competenza del bagitto: ha pubblicato

articoli, ha tenuto conferenze ed è la persona più accessibile a tutti coloro che vogliono

immergersi nel bagitto. In questo ruolo l’ho trovato molto disponibile ed un portavoce

dignitoso ed esperto. Solo che, purtroppo, ha già ‘dato l’ordine di comporre un requiem’ per il

bagitto, non dichiarandosi molto ottimista per la possibilità di sopravvivenza del gergo

vernacolare ebraico livornese. Soprattutto i matrimoni misti hanno - secondo lui -

‘indubbiamente’ peggiorato la divulgazione del bagitto. Con un atteggiamento del genere non

ci si può aspettare un contributo attivo alla salvezza del parlar giudaico-livornese. Non è mia

intenzione criticarlo – al contrario, lo stimo moltissimo - penso solo che l’angelo custode dà

prova di una forma di rassegnazione e che questa non costituisca un incentivo per iniziative

nel dominio del giudeo livornese. Al ceto basso, che usa ancora sufficientemente il gergo

vernacolare, manca la capacità di esprimersi in forme complicate (per esempio il sonetto),

mentre il ceto medio ha una padronanza insufficiente del bagitto e si accontenta di un

consumo passivo.

Abbiamo accennato a tredici cause possibili per spiegare la decadenza del bagitto, una più

forte dell’altra. È un dato acquisito dunque che il bagitto si sta perdendo, ma non è possibile

calcolare con una certezza matematica quando il giudeo-parlare livornese non esisterà più.

L’esistenza di una lingua non è un problema di aritmetica. Per gli studiosi rimarranno i testi

scritti da esaminare, anche ‘una lingua morta’ può dar vita ad una ricerca per andare avanti.

Nel linguaggio quotidiano dei livornesi qualche parola bagitta si è già consolidata, e – anche

senza la conoscenza dell’etimologia – fa parte della cultura locale.

Realmente non credo che la situazione sia così drammatica. Un segno che dà speranza è il

fatto che non meno del 55% degli intervistati vorrebbe imparare il bagitto se ci fosse la

possibilità. La soluzione è ovvia: ci sono ancora delle persone che hanno conoscenza e

capacità per insegnare il giudeo livornese. Ma la conoscenza delle parole bagitte non implica

un clima linguistico dinamico: è infatti necessario usare le parole per comunicare. Per questo

ci vuole un’ambientazione. Per tutte e due le condizioni, le lezioni e l’ambientazione, si resta

a Livorno dipendenti dalla comunità ebraica, sia in senso materiale (per l’aula,

l’organizzazione, il materiale didattico) sia nel dare l’occasione, (come per esempio, una

serata dedicata ai sonetti di Guido Bedarida, uno sketch durante la festa di un matrimonio

come ai vecchi tempi, un concorso di poesie, una gara di vendita tra commercianti, un ordine

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per mettere in musica una poesia170, una rubrica per lettere alla redazione nel periodico per

registrare le parole ancora conosciute, oppure contributi in forma di articoli171, o la

pubblicazione di un libro di testo, di un vocabolario). Per questo ci vuole la cooperazione di

tutti coloro che in un modo o in un altro si sentono coinvolti nella comunità e nella vita del

bagitto (ma hanno già dimostrato di essere interessati) oltre ad un atteggiamento favorevole

dal canto del rabbinato. Per mettere insieme tutti gli interessati ci vuole più di una dottrina

sola.

Un altro aspetto importante, che fonda speranza, è che attualmente esiste una tendenza

mondiale alla rivalutazione dei dialetti, forse scaturita da una forma di nostalgia e di interesse

per il linguaggio degli antenati. Non credo che tale interesse si limiterà ai dettagli locali, ma

credo che la rivalutazione potrà valere per tutti i dialetti giudeo-italiani. Probabilmente gli

studiosi cercheranno un fattore congiungente e le parole, usate un po’ dappertutto, avranno

qualche probabilità di tornare nel linguaggio quotidiano, o, almeno, nei testi letterari. Questo

implica naturalmente la possibilità di fruire di testi letterari moderni, che incontreranno il

gusto di una certa quantità di lettori. A mio avviso si cercherà il massimo comune

denominatore tra tutti i differenti dialetti e saranno soprattutto le parole con radici ebraiche, ed

in misura minore spagnole e portoghesi, che costituiscono i tratti caratteristici della lingua

sefardita, che verranno rimesse in circolazione. Per il bagitto significherà senz’altro una

perdita, ma dall’altra parte ci sarà la possibilità per alcune parole bagitte di ottenere una

divulgazione più ampia.

Ho dato al resoconto di questo mio lavoro il titolo ’ Un solo debarìm’, (Non solo parole),

perché durante i miei itinerari a Livorno non ho trovato solo risposte alle mie domande, che in

principio sono state domande sulla lingua popolare sviluppatasi nella Livorno vecchia, ma

anche dei sentimenti che esse hanno saputo risvegliare: ricordi di un mondo non ancora

perduto, un mondo in cui, a parte di un periodo brutto della persecuzione, si stava bene.

Evidentemente, chi ha parlato con me teneva molto ad un tale mondo.

170 Miriam Meghnagi, una cantante nata a Tripoli da antica famiglia ebraica, ha registrato un album Songs of Exile (1997), nel quale si basa sui vecchie testi dialettali ebraici, tra cui anche il bagitto. 171 Si veda l’articolo di Renzo Ventura Il giorno dello iodio, nel mensile della comunità ebraica di Firenze, che mostra una somiglianza con il bagitto (Supplemento 6) e che è piaciuto a tanti livornesi con familiarità con il vernacolo giudeo livornese.

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Page 77: 'UN SOLO DEBARÌM

76

Supplemento 1: Questionario lessico

lessico

BAGITTO

traduzione

1 Il gannàv 2 ‘Ainare 3 Sciuriato 4 Un zé 5 La haccaranza 6 Che garòn 7 Una roschetta 8 Un ciocchettone 9 Fare il hìghedo 10 Inhemerato 11 Negro 12 Far bahézzi 13 Essere alle bone mosse 14 Gadollo 15 S’è lehtito 16 La negrigura 17 Ma’oi 18 Ah lare 19 Ḥagadearsi, hagah earsi 20 Che mazzolata! 21 Un garè 22 Scapacitare 23 La zodessa 24 Bobo 25 Andare a harafòth 26 Il pipilotto 27 Il tafùsse 28 Intrahanarsi

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29 In bon’ora

30 Il sor Davàr 31 I tipitì 32 L’ho vista bigia 33 Inh atignarsi 34 Daberare 35 Sceraloso 36 Bah eare 37 Roh eare 38 Ganaveare 39 Scioté 40 Non posso tragarlo 41 Ḥastrapugliare 42 Sfongato 43 La spetezza 44 Ḥanino, hanoso 45 Una persiana 46 Néncico 47 Ḥigadiarsi 48 Sciagattare 49 Sbasire 50 Scioh eare 51 52 53 54 55

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Supplemento 2: Chiave questionario lessico

lessico

BAGITTO traduzione

1 Il gannàv Il ladro 2 ‘Ainare Guardare 3 Sciuriato Ubriaco 4 Un zé Un tale 5 La ḥaccaranza La stretta amicizia, troppa amicizia 6 Che garòn Che voce !/che pettegolo! 7 Una roschetta Un tarallo 8 Un ciocchettone Un forte colpo con la mano 9 Fare il ḥìghedo Essere una persona meticolosa e noiosa 10 Inḥemerato Col veleno nel corpo, (scomunicato) 11 Negro Brutto o di poco valore 12 Far baḥézzi Fare a metà 13 Essere alle bone mosse Essere prossimi a far qualcosa 14 Gadollo Pingue, pieno 15 S’è leḥtito Se n’è andato 16 La negrigura L’insipienza 17 Ma’oi I dinari 18 Aḥlare Mangiare 19 Ḥagadearsi, ḥagahearsi Annoiarsi 20 Che mazzolata! Che colpo decisivo! 21 Un garè Un goi, un incirconciso 22 Scapacitare Impazientire 23 La zodessa Questa, essa, (colei) 24 Bobo Scemo 25 Andare a ḥarafòth Andare al diavolo 26 Il pipilotto Il buffetto 27 Il tafùsse La prigione 28 Intraḥanarsi Ficcarsi, introdursi, penetrarsi 29 In bon’ora In pace 30 Il sor Davàr Nessuno, niente 31 I tipitì Le discussioni familiari 32 L’ho vista bigia L’ho vista brutta 33 Inḥatignarsi Prendere una cotta di qualcuno 34 Daberare Parlare 35 Sceraloso Chi fa troppe storie, troppe scenate 36 Baḥeare Piangere 37 Roḥeare Fare aria dal sedere, scoreggiare 38 Ganaveare Rubare 39 Scioté Scemo 40 Non posso tragarlo Non posso deglutirlo 41 Ḥastrapugliare Sciuparsi, rovinarsi, far cose poco chiare 42 Sfongato Frittata molto alta, ripiena di carne

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43 La spetezza Femmina pettegola ed irrequieta 44 Ḥanino, ḥanoso Grazioso 45 Una persiana Una fetta di pan di Spagna glassata 46 Néncico Ignorante, scemotto 47 Ḥigadiarsi Tormentarsi 48 Sciagattare Ammazzare di botte 49 Sbasire Mandare via, allontanare 50 Scioḥeare dormire

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Supplemento 3: Questionario dati personali

Dati personali Anno di nascita:……………… Livornese originario//livornese ‘importato/a’//livornese nativo/a ma ora in un altro posto Ebreo//ebrea/non-ebreo//non-ebrea //ebreo parziale//ebrea parziale (Ex-)lavoro …………………………………………… che studi ha fatto ? …………………………………………………. Nonno paterno: Livornese//ebreo //ebreo parziale//anno di nascita: …….. //lavoro: …………………….. Nonna paterna: Livornese//ebrea //ebrea parziale//anno di nascita: …….. //lavoro: …………………….. Nonno materno: Livornese//ebreo //ebreo parziale //anno di nascita: ……. //lavoro: …………………….. Nonna materna: Livornese//ebrea //ebrea parziale//anno di nascita: …….. //lavoro: ……………………... Padre: Livornese//ebreo //ebreo parziale//anno di nascita: …….. //lavoro: ………………………... Madre: Livornese//ebrea //ebrea parziale//anno di nascita: ……. //lavoro: ………………………... Consorte/partner: Livornese//ebreo/a //ebreo/a parziale// anno di nascita: …… //lavoro:……………………….. Conosce l’esistenza del bagitto? si/no Ha mai sentito parlare il bagitto ? si/no

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Ha mai visto il bagitto scritto ? si/no Sa scrivere il bagitto ? si/no Sa parlare il bagitto ? si/qualche parola/no Sa capire il bagitto ? si/qualche parola/no Qualcuno ha mai parlato il bagitto con Lei ? si/qualche volta/raramente/non

saprei/mai Chi era che ha parlato il bagitto con Lei ? genitore/parente/collega/amico /conoscente/vicino/………….. Da chi ha imparato il bagitto ? genitori/famiglia/colleghi/amici/ vicini/…………………………….. Parla il bagitto in circostanze specifiche ? nel lavoro/in famiglia/in

compagnia specifica/…………… …………………………………. Parlo soltanto il bagitto quando so che l’interlocutore comprende il bagitto si/no/non lo so Parlo il bagitto per non farmi capire da un estraneo si/no/qualche volta/non lo so Ci sono delle circostanze in cui faccio finta di non capire il bagitto si/no/non lo so L’uso del bagitto sottolinea un sentimento di solidarietà si/no/qualche volta/non lo so L’uso del bagitto non è conveniente in circostanze speciali si/no/non lo so Sarebbe un peccato se il bagitto sparisse completamente si/no/non lo so Vorrei imparare il bagitto se ci fosse la possibilità si/no/non lo so Temo che il bagitto sparisse entro vent’anni si/no/non saprei Ho parlato il bagitto ai miei figli si/no/qualche parola/non pertinente Ho imparato l’ebraico si/no

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Supplemento 4: etimologia questionario lessico

lessico

BAGITTO

traduzione

1 Il gannàv ebr. gannàv

2 ‘Ainare ebr. ‘ájin (occhio) 3 Sciuriato Sciuriare (bere) da ebr. šikkor con suffiso

deverbale italiano 4 Un zé ebr. zé (questo) 5 La h accaranza sp. jacara

6 Che garòn ebr. gar, gargar

7 Una roschetta sp./port. rosquetes, rosquillas

8 Un ciocchettone sp. chocar (colpire, urtare) 9 Fare il h ìghedo sp. higado (fegato, coraggio) 10 Inhemerato ebr. ḥerem (scomunica) 11 Negro sp./port. (brutto) 12 Far bah ézzi ebr. ba-ḥetzì (metà) 13 Essere alle bone mosse it. part. pass. 14 Gadollo ebr. gadol

15 S’è leh tito ebr. alàḥ (andare) 16 La negrigura sp./port negrura, negregura

17 Ma’oi ebr. ma’oth 18 Ah lare ebr. aḥal (mangiare) 19 Ḥagadearsi, h agah earsi aram. ḥad-gadià (capretto, ma qui un

riferimento ad una cantilena pasquale 20 Che mazzolata! it. da mazza (lat. volg. matĕa(m))

21 Un garè ebr. arèl

22 Scapacitare ant. it. Scappare, scapeggiare

23 La zodessa ebr. zo/zoth (questa) + it. -essa 24 Bobo sp. bobos

25 Andare a h arafòth ebr. ḥaràv (schernire) 26 Il pipilotto port. piparote sp. papirote 27 Il tafùsse ebr. tafùs

28 Intrah anarsi port./sp. entranhar-se/trajnar

29 In bon’ora sp. enhorrabuena, norabuena

30 Il sor Davàr ebr. davàr (cosa, parola) 31 I tipitì uso tosano tipizzarsi

32 L’ho vista bigia sp. (malaventurado) 33 Inh atignarsi ebr. ḥet o ḥatàa (peccato) spagnolizzato 34 Daberare ebr. davàr (parola) 35 Sceraloso ebr. sceraloth (scenate, storie) 36 Bah eare aram. beḥajeḥòn, da una preghiera, anche ebr.

baḥo (piangere) 37 Roh eare ebr. roḥà (peto) 38 Ganaveare ebr. gan[n]avím

39 Scioté ebr. scioteùd (pazzia)

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40 Non posso tragarlo sp. tragar 41 Ḥastrapugliare lad. (sp.) ḥastro (sudicio) 42 Sfongato sp. esponjado

43 La spetezza uso livornese: pettegola 44 Ḥanino, h anoso ebr. ḥen (grazia) 45 Una persiana uso livornese, origine sconosciuta 46 Néncico sp./port. necio

47 Ḥigadiarsi sp. higado 48 Sciagattare ebr. sciaḥat (scannare) 49 Sbasire origine sconosciuta 50 Scioh eare Ebr. sciaḥav (coricarsi, piacere)

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Supplemento 5: Etimologia parole ottenute 1 acleggio il cibo, dalla radice ebr. ‘okhel’(cibare) con italianizzazione 2 ‘anì povero, ebr. ‘anì

3 ammozzi pezzetto, etimologia incerta 4 baḥaiò ebr. baḥalòm nemmeno per sogno 5 bangadesso ebr. ba’al- (?) fidanzato 6 berakà cantando (fare - -) ebr. beraga (zegen) morire 7 bet-ḥayim (bakhea a -) ebr. cimetero (va a piangere al -) 8 bughedo ebr. bochoer sposo 9 ca’amessa sapientona 10 cafot (fare a -) ebr. (girare intorno) 11 camé saggio 12 chafasciaoi uso livornese (disinvolto, spregiudicato) viene da pisano

Caffaggiaio, magistrato addetto alla repressione dei comportamenti divergenti

13 cirici sp. chirigota (scherzo) tanti discorsi 14 debarista ebr. devarim (parole) parolaio 15 devarim (fare -) ebr. devarim fare silenzio (?) 16 gabatòh ebr. ḥazir (maiale) porcheria 17 gadolia ebr. gheviraḥ (madre del garoḥ) la madonna 18 (s)ganzuiare, ingazuire fare l’amore 19 garoḥ ebr. ger (straniero) jesu 20 ghezzerà ebr. sentenza 21 ghibor ebr. forte 22 gordo sp. gordo grasso 23 ḥaḥam ebr. ḥakham il saggio 24 ḥa’amessa ebr. ḥakhmanit (donna furba) la sapientona 25 ḥabatà ebr. colpo, fregatura 26 ḥalona ebr. ḥalon (raam) una donna curiosa 27 ḥalto aram. ḥaltà religioso 28 ḥaltume sp? caldear (dar calor) idolatria (ḥaltare = spingere un

ebreo a convertirsi al cristianesimo) 29 ḥamin aram. ḥam (caldo) lo stufato nel camino 30 ḥamorearsi ebr. ḥamor (asino) giudeo spagnolo ḥamorear con flessione

del verbo all’italiana ḥamorearsi = guastarsi 31 ḥamor(-m) ebr. ḥamor asino 32 ḥamortà ebr. asina a scuola 33 ḥaratà (fare -) ebr. pentirsi 34 ḥarbato ebr. ḥarob (distrutto) pieno di cibo, nauseato 35 ḥarpearsi ebr. ḥerpah (vergogna) giudeo spagnole ḥapear con

flessione del verbo all’italiana ḥapearsi 36 ḥavertà ebr. ḥaver (amico, compagno) la donna di servizio 37 inḥalmare ebr. ḥalom (sogno) imbrogliare 38 iudìo ebr. yehudi ebreo 39 jafè ebr. yapeh bella, buona 40 kabalut forse dall’italiano in modo ebraico = cavolate 41 ḥazir ebr. maiale, non kasher

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42 ḥazzerut ebr. ḥazirut porcheria, roba di poco valore 43 leḥem ebr. pane 44 maccà ebr. piaga (ti venisse una maccà da qui fino a ḥanukà) 45 mamasciù ebr. (constanza, consistenza) gioielli (oro) 46 mammasciud ebr. l’insieme dei beni 47 mamoessa ebr. mammašut (prezzo, valore) con suffisso derivazionale

italiano = la cacca 48 mamzer ebr. bastardo, poi cattivo 49 meltare greco: melitao pregare cantando 50 milà, mamò ebr. mamon cazzo, genitale maschile 51 ñamoratello innamorato senza speranza 52 ñavon ebr. ‘awo(w)n (spreco) il peccato 53 ñivri ebr. ‘ivrì ebraico 54 paḥad ebr. paura 55 pichegno sp. pequeño piccolo 56 reaḥ ebr. ruaḥ puzzo 57 rebako ebr. revaḥ guadagno 58 resḥut (fare -) ebr. andarsene 59 scarfè ebr. fare l’amore 60 sciocearsi sp. chocear (coccolare) partecipare con entusiasmo 61 scioccato sp. (?) contento 62 scola sp. escuela (scuola) sinagoga 63 semanim, negri - ebr. simanim brutti segni 64 stampita sp. estampida (fuga scatenanta) camminata lunga e faticosa 65 shamir ebr. shamir (finocchio) omosessuale 66 shamilà ebr. lesbica 67 sghiattare sp. (?) trangugiare 68 tartire ebr. tachat (sotto)con italianizzazione: defecare 69 tarzanim ebr. tafšanim polizia 70 teinàḥ ebr. te’ena topa, genitale femminile 71 tignù (con il suo - ) sp. tiña (malattia contagiosa, p.e. la rogna) con la sua falsa

presenza 72 tou vabou (tubabò) ebr. tohu wabohu confusione, caos, operazione di polizia 73 zipor ebr. zippor (uccello) sesso maschile 74 zonà ebr. zonot puttane 75 zekenò ebr. zaqen vecchie 76 zonot ebr. puttane 77 zuba giudeo-arabo sesso maschile 78 taḥad ebr. taḥat sedere

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Supplemento 6

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Vocabolario aggiunto all’articolo Il giorno dello iodio Aclare, mangiare Bàal abbàit, padrone di casa Bachalon, sogno Bacheare, piangere Bachurod, giovanotti Banavonod, purtroppo Bechol dor vador, Berachaim, casa della vita, ma nell’espressione andare al ber hahaim cantando: cimitero (per una morte desiderata da chi resta) Berescid, in principio (la prima parola del testo biblico) Bezzim, vezzi Buchon, Jean Alexandre, (1791-1849) studioso francese Caccaranza, stretta amicizia Capparà, pazienza Cascerato, kasher, preparato secondo il rito Cascerud, ibid. Cavanà, zelo Cavod, onore (per partecipare al rito nella sinagoga) Cazzahbaruch, sia forte e benedetto Chabatà, imbroglio Chacham, sapiente, rabbino

Chalumòt, sogni, visioni, cose vane Chanefud, adulazione Channina, graziosa

Chanukkiot, eleganti Charàn, località della Mesapotamia, da dove Abramo si mosse per migrare in Palestina, un posto lontano Charatà, cambiamento d’opinione Chas vechalìla, Dio previene Chaver, commesso Chavertà, donna di servizio Chazir, maiale Chazirud, sporcizia Cheillà, comunità

Chen, garbo, grazia Chìghedo, scrupoloso, meticoloso Dabberare, parlare Devarim, parole Galud, esilio

Gannaviare, rubare Ghenizzà, archivo, ripostiglio Ghezirà, disgrazia Ghezzera, decreto crudele, disgrazia Ghibben, gobba Goim, non ebrei Impachadito, timoroso

Inchamorrarsi, cambiarsi in peggio Iafà, bella In bonora, in pace

Iodío, ebreo Lechtirsi, andarsene Maccà, percossa,ferita, punizione, disgrazia Mammasciùd, consistenza Mamzer, bastardo, sporcaccione Manod, soldi Mattanod, dono Meghillà, racconto che non finisce mai Meltare, studiare i testi sacri, pregare in ebraico

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Mignan, dieci, il numero dei maschi, occorrente per il servizio Passare da mignan: maturare, aver fatto il barmitzvà Minhag, usanza, costume, abitudine Minianisti, anziani indigenti Mizvà, opera buona Modim, brano nella preghiera in cui si fa un inchino, qui: l’inchino Nainaràm, guardone (?) Nainare, guardare Narelim, dissennati Narvid, sera Nearini, ragazzi Negro, brutto, povero Niagghever, compagnia ripudiata (?) Nolam, mondo Pachad, timore Pachadoso, pauroso

Ponel, (probabilmente posel, uomo inabile) Purim, giorno di festa in cui si ricorda il riscatto ad opera di Ester Rinnegrire, diventare brutto Rinzechenito, lesinato Riscionà, malignità Rochà, scoreggia Scefoch, elogio (?) Scabbad, sabato

Sciacrid, alba, aurora Scamir, gay Scialom, pace Sciccorìm, ubriachi Scioté, scemo Sciuriare, bere Séchel, cervello Sefer, libro (il Pentateuco) Shactare, ammazzare secondo il rito Simchà, gioia Spantachaiato, stravaccato Tafus, galera Talled, manto di lana o seta per gli ebrei durante il servizio religioso Mettere una donna sotto talled (sotto la chuppà): sposare Tish’à be-av, giorno di digiuno, beccamorti Zachen, vecchio Zarà, angustia, pena Zazzel, locale, bar Zechenim, priviligiati Zedaccà, elemosina

Zod, questo Zona, puttana

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