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una riflessione pedagogica condotta dall'equipe dell ... · 01.01.11 pag. 8 2. I riferimenti...

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01.01.11 01.01.11 01.01.11 ETM servizi sociali IV circoscrizione una riflessione pedagogica condotta dall'equipe dell'Educativa Territoriale Minori della cooperativa Stranaidea a cura di Norma Perotto e Federico Impiombato
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servizi sociali IV circoscrizione

una riflessione pedagogica condotta dall'equipe dell'Educativa Territoriale Minori della cooperativa Stranaidea

a cura di Norma Perotto e Federico Impiombato

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IL SERVIZIO DI EDUCATIVA TERRITORIALE MINORIUN DOCUMENTO PEDAGOGICO

A cura di:Norma Perotto

Federico Impiombato

1) Il lavoro educativo: produrre esperienza, scienza e conoscenza2) I riferimenti teorici3) Le teorie implicite e il lavoro educativo4) Gli obiettivi del percorso di formazione5) La prima tappa: la lettura delle nuove vulnerabilità6) Le caratteristiche del lavoro territoriale 7) La dimensione pedagogica delle azioni professionali: il setting e l’ambiente

Gli elementi qualificanti il lavoro educativo8) L’osservazione9) L’ascolto10) La qualità della relazione11) La costruzione della fiducia 12) La condivisione del lavoro in equipe 13) Il lavoro di rete14) L’apprendimento dall’errore15) La gestione delle emergenze e degli imprevisti 16) La cura di trame narrative e progettuali17) La pedagogia della quotidianità18) La funzione di specchio19) La responsabilità educativa

Gli spunti per il futuroConclusioniAllegati

Ringraziamenti:Quando abbiamo iniziato a pensare a questo lavoro di ridefinizione del modello pedagogico del servizio di Educativa

Territoriale Minori credevamo di poter realizzare una scrittura collettiva. Dopo aver valutato le possibili conseguenze

del mettere una penna in mano a una decina di persone chiedendo loro di convergere su di un testo, abbiamo

rapidamente abbandonato l’idea e ci siamo rivolti a qualcuno che fosse disposto e capace ad ascoltare per poi

organizzare le parole di un’equipe in un discorso scritto. Operazione non banale. Per questo ci sembra importante

ringraziare Norma Perotto e Federico Impiombato.

Un grazie va poi a chi quelle parole le ha messe a disposizione insieme alla sua esperienza professionale, quindi

all’equipe dell’Educativa Territoriale Minori.

Infine, un grazie va a Stefania Guido (R.A.S. dei Servizi Sociali della IV Circoscrizione del Comune di Torino) che, con

competenza, ci ha spinti a interrogarci e ridiscutere i nostri modi di operare..

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A volte bisogna avere fiducia nei cambiamenti. “Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare fino a quando

arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa”, diceva Albert Einstein che a quanto pare riponeva una certa fiducia

nell’ignoranza, oltre che nella logica.

Meno male perché a volte c’è bisogno di una frase celebre a cui aggrapparsi per affrontare il quotidiano, può suonare

ridicolo ma succede.

Così come succede di aggrapparsi a qualche piccola certezza o a un'idea appena abbozzata, tutte cose con un valore

molto parziale. Il punto è che le mappe che disegnano i territori del sociale negli ultimi anni si sono fatte via via più

sbiadite, incerte e in qualche modo inefficaci. Non perché i cartografi che le avevano tracciate con perizia non avessero

fatto un buon lavoro ma perché, nostro malgrado, si è scoperto che il territorio che descrivevano non era così stabile

come lo si sarebbe voluto. Quello che sembrava un solido terreno da misurare e definire, oggi ha l’aria di essere un

mare in continuo movimento.

Così è successo che quella del cambiamento è diventata una dimensione con la quale fare i conti costantemente, con

tutto quello che implica. La buona notizia è che da operatori “del settore” l’argomento non ci è del tutto estraneo: come

professionisti siamo chiamati continuamente in causa ad allestire, predisporre, promuovere, sostenere cambiamenti.

Come soggetti uniti in un’organizzazione (la cooperativa sociale appunto) siamo poi, anche noi, ancorati a un movimento

del reale che ci chiede a nostra volta di cambiare.

La parola che usiamo nell’uno e nell’altro caso per definire quest’attitudine a muoversi e adattarsi è una parola con

un suono lieve e aperto: resilienza.

E sì, perché in fondo di questo si tratta: partire dall’esperienza -a volte difficile- del quotidiano per reinventarsi, senza

perdere il legame con quello che si è stati. Senza perdere poi, si spera, quella capacità d’influenzare il corso delle

cose che è il nostro lavoro.

Ripartire dalle cose d’ogni giorno: questo abbiamo fatto, in mezzo a tanti cambiamenti, provando a scoprire la

quotidianità come opportunità di ricerca e apprendimento. Francesco Bacone diceva che “l’esperienza se viene incontro

spontaneamente si chiama caso, se appositamente cercata si chiama esperimento”. Diciamo che quello che

presentiamo in queste pagine è un esperimento: abbiamo provato a cercare nel nostro fare gli strumenti indispensabili

per tracciare altre rotte, traiettorie, percorsi in divenire.

A tutti, ma proprio tutti, buon viaggio.

Il documento pedagogico che l’équipe del servizio di educativa territoriale per minori della Cooperativa Stranaidea

presenta in queste pagine non è soltanto l’esito di un percorso di formazione. Esso ci documenta un processo di

elaborazione e di ri-elaborazione, voluto, promosso e sostenuto dal Servizio sociale della circoscrizione IV.

Fin dalle prime pagine viene in luce quale scommessa fosse in gioco in tale percorso: il riuscire a trarre dall’esperienza

degli interventi educativi alcune coordinate teoriche che consentissero la comunicabilità e, perciò, anche la

trasmissibilità di un sapere di cui, diversamente, andrebbero disperse le tracce.

Ma, scorrendo il documento nella sua progressiva articolazione, si coglie, in filigrana, molto di più. E cioè, come la

scommessa non punti solamente ad una meta di tipo formale, quanto piuttosto ad una ricerca che è interrogazione e,

al tempo stesso, riflessione sul proprio agire.

E’ stato osservato da alcuni studiosi che la dimensione educativa, per propria intrinseca natura, sia connotabile con

una epistemologia debole. L’attributo debole tuttavia non va confuso con trasparente, indefinito, evanescente …

Debole, piuttosto, come è illustrato in queste pagine, va inteso in quanto sforzo continuo di ricerca per elaborare teoria

a partire da ogni singola situazione, lasciandosene interrogare e sostenendo la tensione che ne deriva, provando,

ciascuna volta, a sviluppare un pensiero che si genera e si ri-genera nell’incontro con l’altro, anziché far ricorso a

costruzioni di pensiero a-prioristiche. Certo, più rassicuranti, ma a rischio di cristallizzazione.

COOPERATIVA STRANAIDEA

La PresidenteCinzia Policastro

SERVIZIO SOCIALE CIRC. IVR.A.S. AREA MINORI

Dott.ssaStefania Guido

Il coordinatore del Servizio di E.T.M.Diego Barberis

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1. Il lavoro educativo: produrre esperienza, scienza e conoscenza.

Se guardiamo con attenzione al mondo dei servizi educativi e sociali, non solo come professionisti, maanche come fruitori e come semplici cittadini, possiamo notare due diverse dimensioni: una visibile,tangibile, fatta di incontri quotidiani, di lavoro a contatto con le persone, di relazioni; una secondadimensione che è meno visibile della prima, fatta di teorie, modelli, culture; da un lato c’è l’azione,svolta da chi è ogni giorno in prima linea nei servizi; dall’altro lato sembra esserci il pensiero, la ricerca,la scienza, portati avanti dai docenti, dai ricercatori nelle aule, nei convegni, nella pagine dei libri.Entrambi gli approcci sono volti a migliorare l’offerta dei servizi educativi, a progettarne di nuovi, aimmaginare una strada per rendere migliore la vita delle persone in difficoltà: ma raramente chiproduce esperienza e chi produce scienza, pur per la stessa causa comune, si incontrano.Riteniamo che per la buona riuscita del lavoro educativo sia necessario fare dialogare ricerca e pratica,integrare la teoria con la prassi, valorizzare l’azione. E’ necessario che l’agire quotidiano diventiesperienza, “ricordo e racconto”, e soprattutto si trasformi in un’occasione di apprendimento e quindipossa diventare conoscenza. Il rischio, infatti, è che i ricercatori siano sempre più autoreferenziali elontani dalla realtà, e nello stesso tempo gli educatori svalutino gli apprendimenti teorici,sbilanciandosi solo sul fare e poco sul pensare. Vorremo individuare una possibilità di lavoro educativoche tenga insieme tanto la teoria che la prassi, per fare in modo che i progressi, le scoperte e leriflessioni che appartengono ad entrambi gli ambiti diventino patrimonio comune, ed evitare che laricerca pedagogica sia“troppo lontana dalla vita vera, dai problemi che si presentano sul campo, dalleesperienze reali di attori in carne e ossa, ma anche che la pratica educativa sia schiacciata sul fare,cieca e sorda, incapace di riflettere sul senso di ciò che fa”.2

La scommessa, con questo lavoro di formazione è di costruire un’occasione in cui favorire lo sviluppodi pensiero intorno al servizio educativo territoriale, e stimolare la capacità di produrre conoscenzaintorno al proprio lavoro, per dimostrare che si può agire pensando l’azione. Crediamo occorra unaconoscenza da vicino, che nasce dalle pratiche di chi lavora ogni giorno con i bambini in difficoltà econ le loro famiglie.La lettura prossimale, in situazione, non è una conoscenza minore, e non è meno dignitosa dei saperimanualistici: si muove nelle situazioni, cercando soluzioni e strategie dal di «dentro» delle relazionieducative. D’altra parte, le stesse relazioni educative che si realizzano all’interno di contesti diversi(scuola, tempo libero, famiglia) sembrano in crisi e in necessità di un confronto tra pari, non solo diletture specialistiche accademiche e «tecniche».In particolare, nel lavoro scientifico si ricorre sempre più spesso a letture di scenario, che fotografanol’esistente, offrono dati quantitativi e statistici, ma finiscono con produrre letture immobili della realtà,molto lontane dalla concretezza del quotidiano, dalla fatica e dall’incertezza dell’agire.

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Per gli umani l’ossigeno che garantisce la non-morte è dato dall’accadere di esperienze.

Tanto tempo fa, Benjamin, insegnò che fare esperienza è una possibilità che può anche venire a mancare.

Non è dato automaticamente, nel corredo della vita biologica.

L’esperienza è un passaggio forte della vita quotidiana.

Un luogo in cui la percezione del reale si raggruma in una pietra miliare, ricordo, e racconto.

E’ il momento in cui l’essere umano prende possesso del suo reame, più degli altri esseri viventi,

animali e vegetali.

Per un attimo ne è padrone, e non servo.

Fare esperienza di qualcosa significa salvarsi.1

2 A cura di F. Mazzucchelli, Il mestiere dell’educatore, Maggioli, 2010, p.211 A.Baricco, I barbari, Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2006, p.95

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2. I riferimenti teorici.

Il primo strumento conoscitivo è stato l’epistemologia operativa, di Munari e Fabbri, che corrispondea una strategia di intervento che si elabora in rapporto a ciò che siamo e a come conosciamo nelmomento preciso in cui costruiamo il nostro rapporto con ciò che ci circonda , il nostro rapporto con ilsapere.4 In modo particolare, è utile il principio da loro elaborato che concerne l’hic et nuncdell’intervento, il momento e il luogo in cui intervenire. L’interesse dell’epistemologia operativa, infatti, non è tanto concentrato sui risultati, ma pone il suointeresse sui processi, su come si arriva ai risultati, cioè “sull’evoluzione dei comportamenti, suicambiamenti di azione, sull’elaborazione di strategie, sui mutamenti di attitudine, sulle sostituzionidi paradigmi, sulle riformulazioni teoriche”5 che costituiscono il nostro modo di imparare e il nostromodo di lavorare.Abbiamo scelto questa impostazione, perché ci sembra contenga in sé la difficile integrazione tra teoriae azione, collocandosi negli spazi dell’operare concreto e non a lato, perché al tempo stesso istruisceed è istruita dall’azione, che consideriamo come il luogo privilegiato in cui si fa, ma anche si elabora,si pensa, si impara, dalle proprie azioni, da quelle dei colleghi, e dalle persone per cui lavoriamo. Per noi è importante non separare la teoria dalla pratica, perché non può esserci azione senza strategia,cioè senza un pensiero che l’accompagna e l’istruisce e per elaborare una teorizzazione strutturata ecoerente della prassi educativa è necessario porsi intenzionalmente in una postura dalla quale potereosservare non tanto la prassi da un lato, e il pensiero dall’altro, ma la relazione tra l’una e l’altra:azione e teorizzazione non sono due istanze o due luoghi diversi, perché sono la manifestazione di ununico processo, il procedere della conoscenza. Il lavoro prodotto con gli educatori del servizio territoriale ha la finalità trasversale di diventaremorfogenetico, cioè produttore di nuove forme di pensiero e di azione. E per quanto riguarda il lavoroeducativo, ciò che pensiamo e agiamo quotidianamente come professionisti contiene già dei valorispecifici, validi e riconoscibili, se esplorati e analizzati, che diventano vere e proprie teorie locali.Il secondo riferimento teorico è relativo alla proposta della conoscenza-azione di Franca OlivettiManoukian che sostiene la necessità di avere una conoscenza ravvicinata, dal di dentro, per capirecome le persone vivono i loro problemi e cosa è possibile fare per il loro benessere; questa conoscenzasi ottiene agendo, cioè prendendo iniziative che ci consentono di raccogliere elementi per avereconoscenze attendibili, su cui contare per individuare i problemi e sviluppare ipotesi di intervento. Inquesti termini è possibile riattivare il circolo virtuoso con cui si alimentano reciprocamente teoria eprassi, una conoscenza volta a formulare azioni che nel loro attuarsi, producono conoscenze.

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Eppure, il confronto diretto con l’azione concreta è il modo migliore per consentire alla scienza diprogredire, tanto più alla scienza dell’educazione che ha come oggetto il miglioramento della qualitàdella vita delle persone, perché è nell’agire che costruiamo noi stessi, il mondo nel quale viviamo e glistrumenti per conoscerlo e migliorarlo. Nella scienza, “ il metodo è qualcosa che nasce dalla vita e conquesta continuamente si commisura, in quanto tale è destinato a rinascere continuamente, perchécontinuamente dalla vita si generano nuove forme di esperienza”.3

Ed è per questo motivo che abbiamo individuato una metodologia di lavoro con il gruppo di educatoridell’educativa territoriale della Cooperativa Stranaidea che ci consentisse di partire propriodall’esperienza, non limitandoci a leggerla, ma interpretandola, per ricavarne i presupposti teoricipedagogici, spesso impliciti e dati per scontati, e quindi scoprire la scienza dell’agire. Può sembrare originale associare il termine scienza al lavoro educativo, perché spesso si tende aconsiderare la scienza con sospetto, come aliena dalle esperienze quotidiane, artificiosa e fredda;d’altra parte il lavoro educativo è spesso rappresentato come affettivo, basato sulla relazione, caldoe difficilmente riconducibile a modelli e teorizzazioni. A dispetto di questa opinione, siamo convinti che il lavoro educativo sia di per sé scientifico, cioèsia in grado di produrre scienza e conoscenza rispetto a ciò che si fa, alle scelte che si prendono, alproprio agire professionale. E per trovare la scienza nella realtà e nell’azione quotidiana ci siamo fattiaiutare da alcuni strumenti conoscitivi, che ci aiutassero a non perderci nel “mare del fare”, che spessocaratterizza il lavoro sociale, e che ci permettessero di orientarci nella costruzione di un modello diintervento educativo. Ma proprio per rispettare i criteri della ricerca scientifica è importante esplicitarequali sono stati i nostri riferimenti culturali e teorici, i pensieri, le parole, gli studi che ci hannoaccompagnato in questo percorso.

3 L.Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca, Liguori, Napoli, 2006, p.22

4 D. Fabbri, La memoria della regina, Guerini e associati, 1990, p.445 D. Fabbri, A. Munari, Strategie del sapere. Verso una psicologia culturale, Dedalo, Bari, 1984, p.95

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3. Le teorie implicite e il lavoro educativo.

Se non amate la teoria e volete solo azione pratica, è un peccato. Tutto quello che si fa, si basa su una teoria di qualunque genere, e lasciarla perdere vuol diresemplicemente permettere che le vostre decisioni siano mal orientate da una cattiva teoria,

che voi per giunta non conoscete.6

La proposta prende avvio dalle considerazioni relative ai cambiamenti organizzativi, di risorse e disignificato dell’intervento educativo territoriale che negli ultimi anni sta toccando molte realtà italiane.La finalità del percorso di formazione è favorire una riflessione intorno ai temi delle prassi educativee del ruolo dell’educatore nel servizio territoriale, per elaborare una cornice pedagogica, concertatae esplicitata, da parte del gruppo di lavoro. Come abbiamo detto, il lavoro di formazione è stato realizzato a partire da situazioni concrete edall’esperienza dei partecipanti, quale via più efficace per ricercare insieme modalità di esplicitazionedei modelli educativi e professionali di riferimento, per consentire una maggior attribuzione disignificati condivisi all’azione e alla progettazione educativa. Nelle azioni quotidiane possiamo trovarepratiche educative diverse, ma dentro ogni azione c’è una teoria e il nostro obiettivo è andare a cercarla;abbiamo detto dentro e non dietro alle azioni, proprio perché siamo convinti che il fare, lo stare con, instrada, a casa del bambino abbia un suo senso profondo e interiore e la costruzione del modello ciaiuta a riscoprirlo, come alla ricerca dei minerali nascosti e preziosi.La pratica agisce una teoria implicita di “che cos’è un bambino, che cos’è un adulto, che cos’èl’educare, che cosa significa crescere…questi concetti non sono per niente scontati; esistono infattitante scuole di pensiero, tante teste: ogni persona, ogni azione è portatrice di una teoria. E i linguaggi,le parole chiave che utilizziamo possono essere molto diversi e intendere significati differenti:l’etnografia dell’educazione è utile per interrogarci sulla pratiche e sulle teorie implicite in esse”.7

Lo sforzo di riflessione prodotto collettivamente è proprio di ricercare come in un’etnografia le praticheeducative più pregnanti (per ricorsività o per valore) e rielaborarle, integrando alcune parole chiavetradizionali del lavoro educativo, con altre, più attuali, che tengano conto sia dei cambiamenti socialiche della declinazione che ne ha fatto l’equipe territoriale.Si tratta di rendere esplicito l’implicito, di comprendere quali sono i presupposti pedagogici che fannoda cornice comune al lavoro dei diversi educatori: non parleremo solo di buone prassi (anche perchésono numerose le prassi considerate a torto o a ragione buone), ma piuttosto di buone ipotesi e buoneteorie, quindi dei pensieri che devono stare prima e intorno alle prassi, e non in alternativa ad esse. L’esperienza da sola non basta, occorre interrogarla per ricercare i nessi tra le teorie e il ruolo chehanno nella relazione educativa. Quello che serve, quindi, sono soprattutto “ipotesi per poter agire (…), che

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E quindi, contribuire a sviluppare strategie di riflessione sull’azione e di riflessione nel corso dell’azione,per modificare e migliorare le proprie pratiche professionali.Infine, un riferimento meno metodologico, ma più relativo all’approccio con l’infanzia è quello dellapedagogia della relazione, che tiene conto delle relazioni vitali tra adulti e bambini, tra bambini e iloro pari, e che valorizzando gli scambi sociali come strumento di crescita, attiva un contenitore affettivoche offre sicurezze e fiducia al bambino e che lo sostiene nel percorso di crescita.Questa indicazione, rivolta a una valorizzazione del lavoro educativo, considera come cruciali per lacrescita del bambino tutte le relazioni, e valorizza l’apporto della responsabilità educativa diffusa,cioè della consapevolezza dell’apporto anche di figure educative extrafamigliari positive, a maggioreragione per i bambini in difficoltà e in situazione di sofferenza esplicita. In particolare, nel lavoro educativo territoriale questo approccio pedagogico si sostanzia nell’interventoe nel coinvolgimento con i nuclei familiari dei minori e con la loro rete sociale di riferimento.

6 E. Jacques, L’organizzazione indispensabile, Guerini e associati, Milano, 1991.7 Laura Formenti, in Interventi educativi a casa e a scuola, Franco Angeli, 2008, p.22

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4. Gli obiettivi del percorso di formazione.

Abbiamo visto che la finalità generale di questo lavoro formativo è produrre conoscenza per migliorarela propria prassi e il proprio modo di lavorare. E nello stesso tempo il documento educativo, e il lavorometodologico svolto per costruirlo, raccontano qualcosa di significativo sulle persone che ci lavorano,perché non è solo una documentazione scritta, ma è diventata un’occasione per ripensare a se stessi,come organizzazione e come professionisti.Per rispecchiare questa complessità, è stato, quindi, necessario formulare e declinare nello specificoalcuni obiettivi, che sono stati portati avanti e raggiunti nei mesi di lavoro:

l individuazione delle azioni professionali e dei relativi saperi professionali che il gruppo possiede eche implicitamente guidano l’operatività quotidiana dei singoli (azioni/competenze/saperi )

l esplicitazione del proprio intervento rispetto ai colleghi e alle organizzazioni di riferimento, ilcommittente pubblico e la cooperativa sociale

l individuazione ed esplicitazione dei riferimenti educativi che indirizzano il modo di pensare ilmandato, di interpretare i problemi e le domande poste dai diversi contesti e le risposte da dare

l elaborazione di un documento scritto, dimensione rilevante e strategica nel lavoro socio-educativo,che consenta di ragionare sui significati e sui risultati del proprio lavoro, dando visibilità alle azionie agli interventi professionali

l individuazione di spunti per progettualità future

Siamo partiti dall’idea che non esista una sola cornice pedagogica assoluta e statica di riferimento,assunta e data per scontata, immodificabile, ma uno strumento che testimonia i passaggi e le criticitàche il gruppo di educatori ha incontrato nel corso del lavoro e che verranno rappresentati e elaboratinel corso del documento, utilizzando come strumenti di lavoro alcune tracce di domande e spunti diriflessione (allegati).Al termine del lavoro ci sembra di poter dire che agli obiettivi segnalati e raggiunti, si sia aggiunto,strada facendo, una narrazione a più voci sull’infanzia in difficoltà.Il lavoro formativo ha, infatti, restituito qualcosa di importante delle vite e delle storie dei bambiniincontrati, ma tradotto con le parole e le riflessioni degli educatori, del modo in cui ci si relaziona conloro, cioè di quello che abbiamo capito essere importante per lavorare bene con i bambini, sempre piùfragili e soli. (Dalle parole di un’educatrice durante uno degli incontri)

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hanno bisogno dell’operatività, dell’impatto sulla realtà, per valutare, valorizzare, rivedere, ripensare,ed è implicito nel fatto che sto ragionando per ipotesi. La premessa è che le conoscenze di cui dispongoin partenza non possono che essere conoscenze provvisorie, da aggiornare. Il rischio, altrimenti è diusare un pensiero che non lega la realtà al nostro sguardo.”8

Nei testi relativi all’educazione extrascolastica la prima parte del libro ha una ampia introduzioneteorica, scritta da accademici, studiosi e ricercatori, spesso distante e separato dalla pratica, in cuigli educatori non riescono a riconoscersi; e nei capitoli successivi si trovano le narrazioni delleesperienza concrete fatte in prima linea dagli operatori. La nostra intenzione, invece, è di partire proprio dall’esperienza e riconoscere i riferimentipedagogici impliciti, che spesso non sono evidenti e rimangono sottesi alle azioni, avendo chiarol’ancoraggio profondo alle pratiche quotidiane: ricostruiamo e individuiamo i modelli di riferimento,per tornare alle teorie e non viceversa. Riteniamo che non esistano teorie più corrette di altre o piùscientifiche, e non è detto che i ricercatori abbiano teorie più corrette di quelle che l’educatore formulacostantemente nel suo lavoro, ma le teorie accreditate hanno il vantaggio di essere consapevoli,costruite con metodo, e quindi anche criticabili, valutabili e rivedibili. Gli educatori, nel proprio intervento quotidiano costruiscono e soprattutto agiscono continuamenteteorie, ma spesso senza sapere di farlo, e per scarsità di tempo, risorse, e anche occasioni, questeteorie non vengono né condivise né comunicate, e quindi non sono occasioni di apprendimento. La trasparenza e l’etica dell’agire professionale ci richiedono di essere chiari, di fare comprendere chisiamo, cosa facciamo e perché: esplicitare teorie e modelli a cui facciamo riferimento è quindi unlavoro di valore professionale e sociale.Darsi un approccio di riferimento permette di cambiarlo, valutarlo, capire se funzioni o meno,modificarlo, ma anche riconoscersi come organizzazione e come professionisti. Quindi, riflettere sulle teorie implicite è azione sia cognitiva che sociale e crea la base per il progettoindividuale e d’equipe, e diventa una preziosa occasione di trasparenza e di professionalità. Per realizzarlo siamo partiti dalla pratica, reinterpretandola attraverso la teoria, nelle dimensioniche qualificano il lavoro quotidiano come pedagogico, e quindi siamo tornati alla prassi,individuando le strategie d’eccellenza che permettono di realizzare concretamente i principipedagogici.

8 B. Di Tommaso, Continuità e cambiamento, Comunità del Giambellino, 2006, p.59

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5. La prima tappa: la lettura delle nuove vulnerabilità

La partenza del lavoro è stata segnata dalla distribuzione, compilazione e lettura di un questionario(allegato1) che a partire dall’esperienza quotidiana degli educatori, ha messo in risalto sia le situazioniche più frequentemente si incontrano nel lavoro con i bambini, sia le competenze che emergono e cheriguardano le diverse azioni. L’equipe è stata suddivisa in due gruppi di lavoro comuni a tutti gliincontri, che si sono poi riuniti in plenaria nell’incontro finale e nel momento di restituzione alla finedel percorso.Il questionario e le domande aperte in esso contenute hanno consentito una multipla dimensione dilavoro:l la prima dimensione riguarda l’osservazione delle diverse forme di disagio incontrato l la seconda dimensione riguarda il racconto, la descrizione, la condivisione delle azioni svolte in

relazione al disagiol la terza dimensione è relativa alle competenze necessarie per affrontare il disagio e per

rispondere nel modo più adeguato alle domande esplicite ed implicite portate dai bambini e dainuclei famigliari

Rispetto al disagio infantile incontrato dagli educatori nel corso del loro lavoro, è emersa una primaconstatazione, soprattutto da chi lavora da più anni nei servizi educativi: sembra sia molto più difficiledi un tempo quantificare e qualificare il malessere infantile, perché diminuisce il confine tra agio edisagio nella stessa società degli adulti. Sembra quindi sempre più ampia la zona «grigia» di incertezzatra agio e disagio conclamato per i minori come per gli adulti. Quanto affermato riflette, probabilmente,la situazione di maggiore fragilità e vulnerabilità sociale e che ha comportato l’avvicinamento del cetomedio e popolare alla soglia di povertà e di marginalità. Di fatto, sempre più cittadini, e con bisognidifferenziati e complessi, si rivolgono ai servizi sociali, sanitari, ed educativi; gli operatori,”fino aqualche anno fa avevano a disposizione criteri di decodifica dei problemi delle persone abbastanzaconsolidati e corrispondenti alla larga maggioranza delle sofferenze che si manifestavano. Iltossicodipendente in piazza, il minore in riformatorio, il disabile congenito nella struttura protetta…rappresentavano la connessione dei disagi classificabili in base a criteri collaudati e luoghi visibili.”9

Tale cambiamento di scenario,connotato da precarietà, e dalla diminuzione di diritti esigibili in ambitosanitario, sociale, lavorativo ha implicato una gamma molto più ampia di un tempo di destinatari deiservizi sociali e di relative nuove richieste di prestazioni; in particolare, per quanto riguarda l’educativaterritoriale, si ha come target di destinatari un’utenza caratterizzata da multiproblematicità e maggiorcomplessità di un tempo, tanto da fare fatica a immaginare un profilo standard del “nucleo famigliaretipo”. I bisogni dei nuclei familiari sono collocabili nell’area del disagio e della povertà,non solo di

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reddito, intesa come fenomeno multidimensionale (economico-reddituale, relazionale, valoriale edaffettivo, culturale e cognitivo), dove ogni fattore di deprivazione risulta essere tanto causa che effettodegli altri e inserito in una spirale di impoverimento e isolamento da cui è difficile uscire. Il disagiosociale e psico-sociale tende a non avere delimitazioni, “a invadere le condizioni economiche, l’equilibriopsichico, la salute fisica, i rapporti interpersonali e sociali: porta angoscia crescente a chi ne patiscepiù direttamente e a chi ne entra in contatto. Da chi vive in condizioni di disagio nascono domandeche sono troppo ampie, o troppo esigue, indefinite o semplificate: non possono essere immediatamentesoddisfatte e saturate, ma vanno lette per individuare se e come possa essere avviato un intervento”10.Gli educatori hanno rilevato differenti gradazioni di disagio che vanno da un polo di difficoltà socialee relazionale ( si tratta di condizioni di fragilità, e vulnerabilità, con capacità di utilizzare parzialmentele risorse sociali ed economiche, le competenze personali e famigliari, soprattutto in nucleimonoparentali,o nuclei in cui uno o entrambi i genitori hanno perso il lavoro, o con compiti diaccudimento di famigliari anziani, malati, o di situazioni altamente conflittuali fra genitori) a situazionidi rischio educativo, che potrebbe sfociare in pregiudizio. Questi ultimi sono comportamenti che purnon essendo maltrattanti o abbandonici, risultano di pregiudizio per un normale sviluppo del bambinoin quanto riconducibili ad una condizione familiare di sostanziale isolamento ed esclusione(deprivazione, anche grave, materiale, culturale, relazionale, valoriale, di abilità sociali e diorganizzazione della vita quotidiana) che rendono necessari interventi di sostegno.

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9 G. Mazzoli, In precario equilibrio.Vulnerabilità sociali e rischio povertà, Caritas diocesana, EGA, 2009, p.54 9 10 F. Olivetti Manoukian, G.Mazzoli, F.d’Angella, Cosa (mai )viste, Carocci, Roma, 2003, p.29.

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6. Le caratteristiche del lavoro territoriale.

Dal questionario sono emerse alcune caratteristiche trasversali al lavoro territoriale, comuni a tutti gliinterventi educativi narrati dagli educatori, che rimandano ad altrettante competenze; le competenze,come vedremo, sono in parte “comuni” al patrimonio formativo e professionale dell’educatoreextrascolastico, e in parte attualizzate e contestualizzate nel contesto sociale e storico attuale, conparticolare riferimento all’intervento di educativa territoriale.Una prima caratteristica del lavoro educativo che viene utilizzata nel servizio di educativa territorialeè la pluralità: l’operatore è inserito in un flusso comunicativo ampio, che comprende il minore, il suonucleo famigliare, le reti sociali, i servizi formali ed informali di riferimento, la propria organizzazione,la committenza. La competenza relativa è la capacità di dialogare in modo costruttivo con attori diversi,e in particolare di comunicare in modo adeguato con gli interlocutori coinvolti, ciascuno con linguaggi,alfabeti professionali e culture organizzative molto eterogenee, avendo chiaro il proprio mandato e ilproprio ruolo. La frammentazione tipica dell’attuale contesto sociale rischia altrimenti di personalizzare troppol’intervento educativo, lasciando all’interpretazione personale del singolo educatore il compito diintegrare e ricomporre le diverse istanze, con il rischio dell’isolamento e dell’autoreferenzialità.Il cambiamento del malessere sociale, nel senso di una maggiore complessità e indefinitezza comportadal punto di vista dell’educatore di territorio una competenza di maggiore lettura, decodifica einterpretazione del disagio, ma anche una nuova competenza relazionale adeguata a cogliere lesfumature, le differenze delle famiglie in difficoltà. Una particolare caratteristica del lavoro educativo di territorio è la globalità: le domande e i bisognia cui rispondere sono complessi e agli operatori è richiesta una forte competenza di ricomposizione euna lettura sistemica, anche multigenerazionale, che non si esaurisca nella relazione con il minore,ma abbia presente il contesto familiare allargato e il contesto sociale. Il lavoro educativo è anchesociale perché è di tutti, perché l’interesse comune è prendersi cura e carico delle difficoltà dellacittadinanza, a partire dai bambini: attribuendo maggiore dignità e forza all’intervento educativo, sipuò contribuire ad attivare un circolo virtuoso di partecipazione e democrazia, e a valorizzare il capitalesociale presente nel territorio in cui agisce. E’ importante che l’educatore sia consapevole che non èsolo, che il suo lavoro non si esaurisce nella relazione individuale con la persona in difficoltà, ma faparte ed ha conseguenze anche indirette rispetto ad una rete complessa che comprende i cittadini, lacomunità locale, le istituzioni, gli amministratori.

Nelle parole degli operatori risulta utile avere come finalità di intervento, più di un tempo, oltre allatutela dei bambini, anche il benessere del nucleo familiare, perché per avere un cambiamento nella

qualità della vita dei minori è necessario intervenire anche nella relazione tra adulti ebambini.

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Il punto critico è trovare un equilibrio, che eviti l’ottica adultocentrica (allineandosi in modo collusivocon le richieste dei genitori, dimenticando l’interesse prioritario e i diritti dei bambini), e sia in gradodi creare un’alleanza educativa con il nucleo famigliare. Si tratta, quindi, di favorire e arricchire lagenitorialità come processo integrato, come risposta del mondo adulto alle difficoltà che lavulnerabilità sociale sembra esaltare. Questa competenza, naturalmente, rientra nelle sfere dellaprevenzione a forme di maltrattamento, incuria, trascuratezza che potrebbero sfociarenell’allontanamento del minore dal nucleo famigliare.

Una ulteriore caratteristica del lavoro di educativa territoriale è l’unicità: più che in altri servizi èdifficile individuare un profilo standard di disagio e di relativi bisogni a cui rispondere, quindi ènecessario individuare una competenza che tenga insieme la lettura non standardizzata del bisognoe della domanda, con la necessità di offrire un intervento professionale coerente.In particolare gli educatori di territorio individuano una competenza relativa alla multiproblematicitàdei nuclei famigliari incontrati; più di un tempo ci si trova di fronte a nuclei in cui le difficoltà(economiche, sociali, sanitarie) non solo si sommano, ma si moltiplicano in modo esponenziale, e incui l’isolamento, la mancanza di una rete famigliare e amicale di supporto, incide in termini moltonegativi; sono le situazioni in cui i più fragili ed esposti al rischio sono proprio i bambini, che appaionoin contesti di confine, in cui è possibile che il disagio si trasformi improvvisamente in una situazionedi pregiudizio.

Rispetto a questa tipologia di difficoltà una della questioni cruciali è il mantenimento di un rapportodi fiducia costruttivo tra operatori e famigliari, perché soltanto se si riesce ad agganciare e attivarei componenti del nucleo, si può pensare di agire in un’ottica non punitiva (se non migliori le tuecondizioni, allontaniamo il bambino), e neanche di assistenzialismo (io operatore mi sostituisco a tenelle competenze genitoriali fondamentali), ma piuttosto di decodifica della complessità dei problemi,condivisione e attivazione concertata dei diversi servizi coinvolti, fino all’ accompagnamentoall’autonomia. In questi termini, l’educatore di territorio, in concerto con i servizi sociali, potrebbeessere una risorsa utile da rilanciare, anche perché può contare sulla relazione di conoscenza e fiduciacon il nucleo famigliare, che nel frattempo, non solo materialmente, ha “aperto le porte di casa”,accettando l’aiuto e il sostegno.

Un’ultima caratteristica del lavoro educativo territoriale è la flessibilità che rimanda alla capacitàindividuale e organizzativa di affrontare gli imprevisti, le situazioni che si modificano in corso d’opera,le risorse e i limiti che possono presentarsi, soprattutto nelle occasioni in cui l’educatore si trova dasolo con il minore, e in cui è necessario sapere “agire in situazione” tempestivamente e adottarestrategie anche creative e di problem solving in tempo reale.

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7. La dimensione pedagogica delle azioni professionali.

Dopo avere somministrato il questionario, il secondo passaggio, a partire dalle risposte emerse, è statoapprofondire in dettaglio due casi scelti dagli educatori, uno considerato di successo, e uno consideratodi insuccesso; la scelta dei due casi è avvenuta non solo e non tanto a partire dall’esito finaledell’intervento e dal raggiungimento degli obiettivi educativi, quanto dalla modalità di lavoro realizzate,dagli aspetti positivi e dalle criticità emerse nel proprio intervento. Infatti, è cruciale il modo di posizionarsi all’interno della relazione: non è soltanto importante il “cosa”,ciò che si fa, cioè le semplici azioni messe in atto dagli educatori, i contenuti e gli esiti, ma piuttostoil “come”, il processo educativo che avviene nella comunicazione e nella relazione.La consapevolezza dello stile educativo, “come faccio?” E delle sue pre-comprensioni, “perché facciocosì”, crea i presupposti per modulare l’azione professionale, variarla, passando da una situazione diapparente staticità, alla possibilità e alla praticabilità del cambiamento, e quindi alla dimensionepropriamente pedagogica.In particolare, abbiamo sviluppato e analizzato le tappe cronologiche e logiche del lavoro (la presa incarico, l’osservazione, l’intervento con il minore e con la famiglia, il lavoro con i servizi formali edinformali, la valutazione, le dimissioni); alla luce di questi passaggi abbiamo riletto l’interventoeducativo, a partire dai casi concreti portati nei gruppi dagli educatori.La lettura delle azioni ci ha permesso di definire il setting e l’ambiente entro i quali si muovel’intervento e di cercare le caratteristiche che ci permettessero di individuarli come propriamentepedagogici. Ci sembra importante sottolineare la rilevanza della dimensione pedagogica intesa comeprospettiva attraverso cui osservare, interpretare, tradurre, agire l’intervento, a maggior ragione nelservizio territoriale che ha le caratteristiche di flessibilità e unicità di cui dicevamo in precedenza.Abbiamo quindi individuato due definizioni di setting e di ambiente che possono aiutarci a capire qualisono gli elementi che costituiscono la cifra educativa del servizio di educativa territoriale.

Il setting pedagogicoLa relazione educativa è complessa da definire con precisione e chiarezza, perché muta a secondadegli interlocutori in gioco, dei loro ruoli, degli obiettivi dati, del contesto in cui si situa e da comeviene interpretata. Poiché non è scontato dare una definizione di ciò che faccia di un interventoun’azione davvero educativa, e per distinguerlo da interventi non professionali, o animativi, oassistenziali, abbiamo utilizzato due parole chiave, setting e ambiente, per aiutarci a dare unadefinizione completa e articolata, e nello stesso tempo fedele alla molteplicità dell’intervento territoriale.Ci sembra utile la riflessione di Salomone che individua nel setting pedagogico la precondizionefondamentale per caratterizzare e tutelare la relazione, per definirla davvero pedagogica e professionale.

L’immagine tradizionale e più diffusa intende il setting come il contesto entro cui avvieneun evento sociale, che si costruisce attraverso una componente fisica (le caratteristichespazio-temporali); i comportamenti, (componente sociale e relazionale) messi in atto al

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proprio interno; un programma costituito dall’insieme delle attività e dagli scambi tra le persone e glioggetti presenti in quel contesto; dalla regolamentazione di norme e regole condivise. Oltre a questielementi, che sono sicuramente presenti nel servizio territoriale, abbiamo individuato la presenza delsetting pedagogico, cioè di un sistema di relazione che produce significati: è cioè uno spazio simbolicoche istituisce l’azione educativa rendendola possibile come luogo di produzione di significati. “Dalleregole da rispettare o ripudiare, le relazioni vincolate dai processi di setting compiono un saltointroducendoci in luoghi dove le regole servono a produrre regole11 e soprattutto relazione”. La sola presenza di educatori professionali e di un progetto dell’intervento, infatti, non necessariamenteimplica che il contesto entro cui si muovono sia pedagogico: riprendendo Demetrio, per definire unambiente pedagogico, cioè un tempo/spazio pensato e sensato, in cui ci sia tanto la presenza di unadulto che di un minore, è necessario che si sviluppino almeno quattro condizioni:

l comunicazione normatival comunicazione culturalel empatia/relazione di aiutol elaborazione progettuale

Utilizzeremo questi quattro punti cardinali, per orientarci nella complessità educativa, e li elaboreremoalla luce delle azioni messe in campo quotidianamente dagli educatori, per fare emergere la qualità ela cifra educativa delle loro prassi.Si intende qui per comunicazione normativa la dimensione rappresentativa di un mondo di valori e dinorme etiche e comportamentali. Ad esempio, nel progetto di educativa territoriale, il minore impara adarsi regole di convivenza e sociali, in particolare grazie al lavoro nei piccoli gruppi, in cui si sperimenta(spesso per la prima volta per alcuni minori), la possibilità di entrare in relazione con altri coetaneicon modalità costruttive. L’obiettivo generale del gruppo, infatti, è la promozione delle risorse e dellecompetenze individuali e di gruppo: la socializzazione, la creatività e la capacità di apprendimento.Le attività hanno la finalità di stimolare non solo lo sviluppo di un pensiero creativo nella realizzazionedei compiti assegnati, ma soprattutto di sostenere e favorire dinamiche relazionali di cooperazione ecollaborazione reciproca centrate sulla messa in atto di un obiettivo comune (es costruzione di giochi).Il significato dei gruppi è quello di aiutare i minori a sperimentare una relazione in modo da uscire poida questa “incubatrice”, luogo protetto, sicuri e pronti a riprendersi la loro socialità; il maggior disagiodi un minore, che si può estendere anche agli adulti, è quello di non vivere la relazione con l’altro,quindi di vivere la solitudine e l’ inadeguatezza al mondo esterno.Le attività sono orientate a stimolare nei ragazzi una riflessione sul loro modo di stare in gruppo esulla capacità del gruppo di raggiungere gli obiettivi. I temi importanti che emergono sono stimolatidalla presenza dell’educatore e sono relativi alla cooperazione, al metodo di comunicazione

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11 I.Salomone, Il setting pedagogico, NIS ROMA, 1997, P.92.

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con i pari e con gli adulti, all’efficacia dei comportamenti, all’utilità e alla costruzione condivisa diregole. In questo senso, soprattutto nel gruppo dei ragazzi più grandi e nell’educativa di strada, sonoaffrontati con gli educatori i temi della legalità, della conoscenza e del rispetto delle norme, dellepossibili conseguenze rispetto ad atti devianti; questi ultimi, spesso vengono considerati dai ragazziazioni semplicemente trasgressive e non punibili, rendendo quindi rischiose e incomprensibili lelegittime reazioni dell’autorità.Per quanto riguarda la comunicazione culturale, consente al minore di comprendere che lo spazioeducativo è anche un luogo di apprendimento, di scoperta, di ricerca e di crescita determinatadall’azione; in questo caso il ruolo dell’educatore è costruire spazi per l’incontro ed il dialogo, chetengano conto del rapporto con le differenze (di genere, generazione, provenienza culturale), perpermettere al minore di sperimentare nuove modalità comunicative.La relazione tra educatore e minore deve essere giocata su un delicato equilibrio tra accoglienzaincondizionata (modalità relazionale materna) e l’accoglienza richiedente, cioè condizionatadall’effettuazione di alcune prestazioni da parte del minore (modalità relazionale paterna).In altre parole, l’educatore deve fare sentire al minore tanto la possibilità di essere accolto eapprezzato così come è, quanto l’importanza del suo impegno nell’affrontare dei cambiamenti. Perquesto gli interventi messi in atto hanno l’obiettivo di promuovere le risorse e le competenzepersonali dei minori. Risorse e competenze le cui possibilità di sviluppo e di espressione si ritienedebbano essere sostenute tanto nella dimensione individuale, quanto nei momenti in cui queste sideclinano nell’ambito delle relazioni di gruppo. Per quanto riguarda l’empatia, cioè la capacità di comprendere e sentire il mondo dell’altro come sefosse il nostro, senza mai perdere la qualità del “come se” e la disponibilità alla risonanza emotivacon il minore, il servizio include molte occasioni di confronto e di sostegno, che si realizzano nellaforma di relazione individuale, e che sono accompagnati dall’intenzionalità, dalla vicinanza e dallaquotidianità del rapporto, ma anche dalla presenza di oggetti mediatori (gite, uscite, attivitàlaboratoriali, sostegno ai compiti): attraverso queste attività il minore percepisce che l’educatore,come anche l’ambiente predisposto ad hoc, si occupano della sua tutela, del suo benessere fisico,emotivo, psichico. Altra caratteristica importante è l’intenzionalità intesa non tanto come la capacità singola e qualitàpsicologica del bravo educatore, ma come struttura portante dell’interazione educativa che si sostanziaentro un contesto pedagogico caratterizzato da un’esperienza orientata: vuol dire elaborare i saperiche attorno ad essa si sono sviluppati, rapportandoli al sapere che ognuno possiede. E’intenzionale ilrapporto che gli educatori istituiscono con l’esperienza che condividono con i minori , che sia l’attivitàdei compiti, che sia la chiacchierata o l’ascolto dello sfogo di un ragazzo.Per quanto riguarda l’elaborazione progettuale, sono state individuate diverse occasioni, in cui gli

adolescenti sono aiutati a trovare nell’ambiente, e nel proprio quartiere in particolare, lerisorse, gli stimoli, le proposte, le occasioni per progettare il proprio futuro. Ad esempio,si propongono ai ragazzi esperienze in cui potere vivere il proprio tempo libero in modo

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positivo, cercando di essere protagonisti in ciò che desiderano e richiedono, mettendo a loro disposizionestrumenti utili per organizzarsi, e per diventare più autonomi e protagonisti del proprio tempo libero,fino all’idea di costruire insieme a loro un prodotto video condiviso per raccontare la propria storia.Le attività hanno l’obiettivo di consentire una maggiore conoscenza dei contesti di vita dei ragazzi: ilquartiere, la città, e i temi trattati con loro sono la storia e cultura dei loro luoghi di vita, le risorse aloro disposizione, la capacità di attingere a quello che la città mette a disposizione.In questo senso vanno intese le attività di prevenzione primaria dei comportamenti devianti oproblematiche di vario genere (bullismo, discriminazione di sesso e di etnia, uso di sostanze, abbandonoscolastico); di prevenzione secondaria tesa ad impedire l’aggravarsi di comportamenti devianti e aprevenire processi di stigmatizzazione ed emarginazione sociale.

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8. L’osservazione.

Il primo elemento cruciale per la lettura e l’analisi dei bisogni dei bambini e delle loro famiglie èl’osservazione. Questa presuppone sia una competenza professionale tecnica specifica (relativa allasospensione del giudizio iniziale, alla lettura della comunicazione verbale, non verbale, alla capacitàdi documentare l’osservazione attraverso evidenze documentali, alla capacità di condividere le ipotesidi intervento in equipe), sia alla individuazione della metodologia dell’osservazione partecipata; questaè strettamente collegata alla scelta del setting predisposto di volta in volta per l’osservazione; adesempio, nel primo periodo di osservazione vengono proposte al minore sia attività in piccolo gruppodi pari (in luoghi informali per i più grandi, sul territorio per l’educativa di strada ), sia momentiindividuali, sia a domicilio che all’esterno. Questi consentono all’educatore di osservare il minore conmodalità differenti e in contesti eterogenei, e quindi di fare discendere dall’osservazione un’analisidei bisogni personalizzata e non standard.Attribuire agli educatori di territorio la gestione dei luoghi neutri valorizza una dimensione del compitoosservativo, in cui deve essere presente un livello molto alto di professionalità e di responsabilità.Inoltre, nel caso del diritto di visita, il compito dell’educatore è più tradizionalmente quello di garantireil diritto alla relazione tra minori e genitore e/o parente non affidatario, e contemporaneamente diavvicinare i minori agli adulti, sostenendo, mediando e accompagnando la relazione. L’educatore inquesto caso può quindi avere un ruolo attivo, incoraggiante, stimolante per permettere la relazionetra adulti e bambini e renderla infine autonoma.

Le strategie di eccellenza:l Osservazione della comunicazione verbale l Osservazione della comunicazione non verbalel Restituzione dell’osservazione ai colleghil Utilizzo dell’osservazione per elaborare ipotesil Formalizzazione dell’osservazione attraverso strumenti condivisil Documentazione dell’osservazione nel diario e nella scheda di osservazione

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Gli elementi qualificanti il lavoro educativo.

Dopo avere esaminato il setting e l’ambiente, il lavoro nei due gruppi è proseguito, analizzando alcunipassaggi tra quelli che ci sembrano più significativi nel lavoro territoriale: la verifica e la valutazione,il lavoro di rete, la ricomposizione dei valori di riferimento. Per svilupparli in un’ottica di rilettura e di interpretazione pedagogica, coerenti con la metodologiache abbiamo esplicitato, abbiamo deciso di integrare i saperi con le azioni, le buone teorie con lebuone prassi: abbiamo così abbinato agli elementi pregnanti del lavoro educativo territoriale, le relativestrategie di eccellenza, riconosciute dagli educatori come fondamentali per un lavoro efficace e diqualità.

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10. La qualità della relazione.

Il terzo elemento qualificante è la qualità della relazione che prende forma e si articola attraversodue livelli differenti. Il primo livello di lavoro ad alta intensità relazionale è con il nucleo famigliare attraverso sial’accompagnamento all’autonomia intesa come orientamento del nucleo a risorse territoriali, a servizidi sostegno o a percorsi formativi e ricreativi per sé e per il minore, sia attraverso il sostegno allagenitorialità (inteso come capacità di ascolto dei figli, di mantenere le regole, i limiti e gli impegniassunti, sostegno alla relazione genitore-figlio/i per favorire comprensione e accoglienza dei bisognidei minori e l’attivazione di modalità di comunicazione più adeguate). Rispetto alla relazione individualetra educatore e famiglia, si mettono in campo azioni per costruire un rapporto di vicinanza, intesacome presentazione chiara dell’intervento e della presenza educativa, come disponibilità all’ascolto eal contenimento delle ansie arrivando ad un graduale coinvolgimento nel confronto e nella condivisionedelle modalità educative. In particolare, si progettano percorsi strutturati di attività genitore-bambinoper la sperimentazione di contesti, stimoli e modalità relazionali diverse da quelle abituali. Sono inoltreprevisti incontri di restituzione alla famiglia dell’evoluzione dell’intervento e degli elementi osservati,da parte di educatore e assistente sociale referenti.A questo proposito il “piano di lavoro” e “la scheda monitoraggio nucleo” (allegati 2 e 3)sono strumentiin uso presso l’Educativa Territoriale Minori e svolgono un ruolo fondamentale nella condivisione deiprogetti educativi con i Servizi Sociali. La loro funzione è quella di permettere una progettazionestrutturata su una sequenza di azioni che toccano problemi e oggetti concreti, definendo obiettivicondivisibili fra operatori e destinatari degli interventi.

Il secondo livello di intervento è relativo al minore. Ad esempio, le attività che vengono individuateattraverso la competenza degli educatori nel sapere individuare e coltivare gli interessi dei minori,come quando si organizzano attività orientate a permettere l’elaborazione comune di temi salienti dalpunto di vista evolutivo o della propria collocazione sociale e i temi proposti sono la sessualità, laviolenza, l’intercultura.Per i minori è cruciale la possibilità di incontrare figure adulte autorevoli, competenti, capaci di vederee accogliere le crisi della crescita, di riconoscere i loro bisogni e i loro disagi; ma gli educatori devonoanche essere in grado di sostenere la “genitorialità adulta” fin dove è possibile: laddove le competenzegenitoriali vengono meno, e costituiscono un pregiudizio per i minori, devono essere in grado disegnalare in modo chiaro e tempestivo la situazione di rischio.Là dove si costruiscono un legame e uno scambio positivamente significativi si danno le condizionimigliori perché le persone possano acquisire fiducia, apprendere senza troppa paura, aprirsi al mondocon atteggiamento costruttivo. La relazione perchè diventi personalizzante ha bisogno dicontinuità, di atti concreti, di ritualità, di condivisione di affetti, esperienze, significati. Per i bambini ciò che fa la differenza, oltre alle risorse personali e alla resilienza

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9. L’ascolto

Un secondo elemento centrale è l’ascolto, inteso come capacità di fare emergere gli elementi cheportano al cambiamento; l’ascolto non è il fine, ma il grande mezzo per accompagnare il percorso dicambiamento: l’ascolto non è solo una qualità o una competenza individuale, ma una qualità dellarelazione, del processo nel quale avviene l’intervento. “L’ascolto non nasce, come potrebbe crederequalcuno illusoriamente, da un’operatività spontanea, ma dalla costruzione paziente e coerente direlazioni specifiche, concrete, nelle quali mettiamo alla prova e raffiniamo le nostre conoscenze ecompetenze esistenziali, prima ancora che professionali e sociali”.12

Per gli educatori di territorio l’ascolto è sia un’occasione di relazione intenzionale, cosiddetto ascoltoguidato, attraverso domande aperte, mirate, chiare, non inquisitorie per comprendere meglio lasituazione del minore e i suoi sentimenti, sia come ascolto non guidato, come occasione di accoglienza,nei momenti informali che possono rivelarsi come i più opportuni per consentire al minore di aprirsi.L’elemento più importante è la restituzione che avviene in due momenti, in un primo momentol’educatore restituisce quanto ascoltato immediatamente, per fare percepire al minore che l’educatoreè presente, ed è pronto a rispondere ai dubbi e ai disagi del minore; la seconda modalità avviene in unmomento successivo, quando l’educatore ha elaborato una strategia, condivisa con i colleghi, cercandodi ipotizzare quali situazioni e quali domande il minore possa portare, agendo d’anticipo.

Le strategie di eccellenzal Utilizzo degli spazi e tempi informali (viaggio in auto, nei contesti informali)l Predisposizione di luoghi, tempi, contesti ad hocl Utilizzo dell’ascolto per elaborare ipotesil Rispetto del tempo della narrazione del minore

12 L Formenti, L’ascolto che cura, in AA.VV., Il prisma autobiografico, a cura di I.Gamelli, Unicopli, Milano,2003, p.257.

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11. La costruzione della fiducia.

Il successivo elemento qualificante l’azione educativa è la costruzione della fiducia: questa è da intendersisu due dimensioni differenti. La creazione di una relazione di fiducia con il bambino e con gli stessi famigliariè il primo passaggio necessario per raggiungere gli obiettivi del progetto: è legata tanto al soddisfacimentodei bisogni dei bambini che del nucleo famigliare, che alla capacità dell’educatore di creare un clima dirispetto, di chiarezza e trasparenza (come dicevamo gli obiettivi e le ipotesi di lavoro vengono, infatti, sindall’inizio esplicitati e chiariti tanto con il bambino che con il nucleo).Per i bambini ricevere fiducia significa riconoscere il bisogno di essere accolti e accettati, fidandosidell’adulto, ma anche di se stessi, come se la relazione educativa lasciasse sempre un vuoto da colmare,relativo alla possibilità di cambiare e migliorare. Come conseguenza del bisogno di fiducia, nei bambiniemerge il bisogno di essere riconosciuti anche negli aspetti positivi, quindi nelle loro potenzialità, comeindividui competenti, capaci. Ma fidarsi delle loro capacità, credere che possano cavarsela da soli significadare loro libertà e autonomia (ovviamente in modo ragionevole, a seconda dell’età). D’altra parte significaanche riconoscere che siamo stati buoni adulti educanti e che ai bambini abbiamo saputo trasmetterequanto è necessario per diventare grandi. Cioè, significa riconoscere soprattutto la relazione tra l’adultoe il bambino come capace di attivare cambiamento, conquiste, possibilità per entrambi.In secondo luogo, una delle attenzioni degli educatori è volta alla ri-costruzione del patto di fiducia tracittadini e istituzioni, che spesso è venuta a mancare proprio laddove sarebbe più preziosa, cioè nellarelazione tra famiglie in difficoltà e servizi che operano con funzione di tutela educativa nei confronti deiminori (quindi i Servizi Sociali ma anche la scuola e le diverse agenzie territoriali). In questo sensol’educatore rappresenta la connessione istituzionale tra l’erogazione di un servizio e il fruitore, e lapossibilità per i nuclei di praticare la cittadinanza, con i suoi diritti e i suoi doveri, ricollocandosi in uncontesto relazionale (sociale) la cui intenzionalità è indirizzata a garantire adeguate opportunità di crescitaai minori in favore dei quali si sviluppano gli interventi. Questo sembra essere un elemento strategico essenziale nell’aiuto di minori, le cui famiglie in difficoltà,come abbiamo visto, sono spesso segnate dall’isolamento e dalla solitudine sociale, dalla visione delmondo esterno come ostile e estraneo. Quindi, per i servizi educativi, diventa fondamentale investire sullasocialità del proprio intervento per insegnare strategie, per sapere di non essere soli, per poter vedere glialtri come risorsa e non come minaccia.

Le strategie di eccellenzal Sospendere il giudiziol Creare un clima accogliente l Valorizzare gli aspetti positivi del nucleo e del minorel Alimentare la speranza l Individuare possibilità di cambiamentol Sviluppare strategie di resilienza

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individuale, è la possibilità di incontrare nel corso della propria vita figure adulte autorevoli, come glieducatori territoriali, capaci di vedere e accogliere le crisi della crescita, di riconoscere i bisogni e didare fiducia. Per mettere in piedi uno scambio di fiducia tanto con i bambini che con le loro famiglieè necessario un contesto sociale in grado di costruire un patto sociale con le istituzioni e con il territorio,che legittimi la fiducia nell’altro, come collante fondamentale della democrazia e della cittadinanza.

Le strategie di eccellenza:l Individuare la giusta distanza con il nucleol Leggere i bisogni e le difficoltà non espressel Aiutare le famiglia a riconoscere le proprie difficoltàl Porsi in una posizione costruttiva, non di critica distruttiva nei confronti del nucleol Individuare le risorse del nucleo e del bambinol Orientamento e accompagnamento alla costruzione delle competenze genitorialil Organizzazione incontri con i genitori per aiutarli a gestire la relazione con i figli, le regole l Stimolare la condivisione dei risultati, la collaborazione e la partecipazionel Mediare la relazione genitori/figli

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13. Il lavoro di rete.

Strettamente collegato al lavoro in equipe è il lavoro di rete.All’interno di questa definizione di fatto si possono incontrare posizioni diverse, una delle qualiprevede la presa in carico tradizionale in cui il singolo che presenta una situazione di disagio èal centro di un sistema di servizi assistenziali che lo vede destinatario di interventi decisi daaltri, operatori sociali e volontari impegnati a vario titolo nel progetto per il nucleo e per il minore.In questo caso, per lavoro in rete si intende la collaborazione tra diversi professionisti per unobiettivo comune, accettando di condividere una parte del “sapere professionale relativo al nucleo”con altri professionisti. Il lavoro di rete che si svolge sul territorio, la collaborazione e lacoprogettazione tra attori sociali diversi, risulta determinante per migliorare l’efficacia degliinterventi sociali, per orientare nella loro realizzazione e per consentire una verifica adeguata.Il lavoro di rete che si cerca di realizzare sul territorio è un lavoro indirizzato anche verso la retenaturale e potenziale di ogni soggetto, per consentirle di lavorare al meglio verso un obiettivo, el’idea di fondo è il riconoscimento del valore riabilitativo, di cura e di prevenzione della rete socialeche ruota intorno all’individuo. Si tratta dell’attività di uno o più operatori che non accentrano sudi sé le definizione e la risoluzione del problema, ma lo diffondono su altri soggetti e agenzie avario titolo interessati, mantenendo i collegamenti, monitorando e supervisionando le attività.All’interno di questa dimensione di lavoro di rete centrato sull’individuo come soggetto attivo enon oggetto destinatario di interventi, possiamo distinguere tra un primo livello di lavoro di retesvolto solo da professionisti e un secondo livello centrato sulla collaborazione tra agenzie formalie informali. La prima caratteristica del lavoro di rete è la compresenza di attori eterogenei (per natura sociale,giuridica, per logiche e culture organizzative) in dialogo tra loro: enti pubblici, il mondo della terzosettore (Cooperative sociali, Associazioni di volontariato), imprese profit, gruppi di cittadini“stakeholder” accomunati da interessi e bisogni. La diversità degli attori riguarda in primo luogoil versante formale, perché prevede operatori con paradigmi e alfabeti professionali di riferimentodiversi, competenze, metodologie di lavoro, e pluralità di organizzazioni pubbliche e private. La cultura della collaborazione e della progettazione partecipata tra operatori professionali negliultimi anni si è andata sviluppando anche tra operatori appartenenti a culture organizzative emodelli teorici differenti. La collaborazione di professionalità diverse, consente metodologie emodelli teorico-operativi partecipati, pur nel rispetto dei ruoli e delle competenze professionali esi sta consolidando come elemento di ricchezza e risorsa per tutte le professionalità. Infatti,l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che l’intervento sociale ed educativo rivolto ad unsingolo e alla sua famiglia ha probabilità di successo solo nel caso in cui i destinatari sianoconsapevoli di far parte di un preciso disegno pedagogico condiviso da più professionistie non lasciato all’estemporaneità e all’improvvisazione. La convinzione degli educatoriè che si possano costruire percorsi di benessere per il cittadino soprattutto laddove

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12. La condivisione del lavoro d’equipe.

Altro elemento qualificante è la condivisione del lavoro in equipe educativa sia alla presenza delcoordinatore educativo di Cooperativa, che con i servizi sociali di riferimento: in equipe vengonocondivise strategie e metodologie, costruite le ipotesi di lavoro, verificati e aggiornati i progetti; nelservizio territoriale il rischio di solitudine e frammentazione dell’intervento educativo (e quindi anchedi eccessiva personalizzazione) è molto forte; quindi per l’educatore che lavora da solo con il minore eil nucleo, è necessaria la consapevolezza di appartenere ad un gruppo di lavoro con linee di pensieroe strategie condivise, concordate e coerenti; questa condivisione permette sia la gestione delleemergenze e degli imprevisti, sia l’apprendimento dall’errore, e in un momento successivo, larielaborazione e la valutazione degli eventi nel gruppo. Gli strumenti individuati in collaborazione coni Servizi Sociali allo scopo di definire e leggere i diversi momenti dell’intervento educativo sono il “pianodi lavoro” e la “scheda monitoraggio nucleo”. L’uso di questi strumenti condivisi fornisce all’equipe dieducatori la possibilità di garantire coerenza all’intervento educativo facilitando la comunicazione fraServizi Sociali e Educativa Territoriale Minori, attraverso una struttura dell’intervento che permette unadefinizione chiara di obiettivi, azioni, attori coinvolti, tempi e risultati attesi.

La condivisione in equipe consente all’educazione di diventare una pratica autoriflessiva, e nonindividuale e autoreferenziale in cui emerge la professionalità degli operatori, volta tanto allaprogettazione che alla valutazione delle proprie azioni.

Le strategie di eccellenzal Usare lo spazio d’equipe come luogo di riflessione e pensierol Comunicazione costante e aggiornata con il coordinatorel Condivisione costante in equipe: tempi, passaggi e modalitàl Valutazione e rappresentazione dei risultati l Definizione condivisa di obiettivi, azioni, risultati attesi

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14. L’apprendimento dall’errore.

Nelle occasioni di lavoro in gruppo emerge una dimensione cruciale per l’esito del lavoro educativo:l’apprendimento dall’errore.La capacità di imparare dai propri errori e da quelli dei colleghi, se opportunamente rilevati,rappresenta una occasione di crescita professionale dell’intera equipe, e una modalità di lavoro perriflettere e imparare dall’esperienza. Le verifiche programmate e gli aggiornamenti con i servizi socialidi riferimento sono continui, in modo da pianificare strategie condivise e efficaci, e verificare i percorsiin atto con continuità e immediatezza. E proprio questa sensibilità alla verifica continua permette dirilevare le criticità e di porvi rimedio, quindi di migliorare la propria offerta educativa. Come ricordaSalomone, il lavoro educativo si fonda su due diverse ma non contrapposte dimensioni; la prima è lastrutturazione dell’esperienza che ha il compito di progettarla e condurla verso obiettivi condivisi,all’interno dei vincoli esistenti; dall’altra l’elaborazione di quello che comunque accade, anche aldilàdel previsto.”Ciò che infatti è negativo, sbagliato, ingiusto sul piano del vissuto immediato, puòtrasformarsi in un qualche significato per gli attori sulla scena. E i significati sono sempre positivi sulpiano educativo, perché permettono di sviluppare la complessità del proprio patrimonio simbolico edi conseguenza la propria capacità di apprendimento. Inoltre, cogliere i significati di un’esperienzanegativa implica comprendere il senso dei vincoli che l’hanno prodotta, e dunque la possibilità di agiresu di essi per modificarli o per trasformarne gli effetti”13.Questo significa considerare gli insuccessi non come fallimenti ma come momenti di apprendimentoper costruire obiettivi e interventi efficaci. Come sostiene Sicora per trovare una strada adeguata allanecessità di chi chiede aiuto spesso serve errare nel senso di spostarsi senza direzione e meta certaabbandonando le facili sicurezze date da un sapere teorico troppo spesso insufficiente ad affrontareproblemi non di routine, ma propri delle situazioni complesse che gli operatori incontranoquotidianamente. “Un bravo operatore non è un operatore infallibile, anzi. Ma è un operatore che sagestire l’errore di cui è in grado di cogliere l’impareggiabile valore epistemologico, cioè generatore diconoscenza”.14

Le strategie di eccellenzal Riflettere sulle azioni e rielaborarlel Riconoscere i limiti e le inadeguatezze degli interventil Essere disponibili a valutare le proprie azionil Accettare il confronto e lo scambio con professionisti diversi

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le diverse agenzie educative e sociali cooperano in modo tale da dar vita a forme di servizio socialepartecipate, democratiche, aperte al cambiamento e in grado di apprendere dalle diverseesperienze.

Le strategie di eccellenzal Comunicazione costante e aggiornata con i servizi socialil Monitoraggio costante delle prese in caricol Documentazione aggiornata e precisal Collaborazione con gli insegnanti di riferimento dei minoril Valutazione e rappresentazione dei risultati l Attivazione di collaborazioni, convenzioni e protocolli di intesal Curare l’ampliamento e la manutenzione della rete

13 I. Salomone, op.cit. p.12414 A.Sicora, Il valore conoscitivo delle cose andate storte, in Animazione Sociale, 1, 2008, p.89.

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16. La cura di trame narrative e progettuali.

Avere a cuore la progettualità di ogni bambino e di ogni nucleo preso in carico, significa avere chiaroche ogni gesto, ogni attività e ogni proposta rientra all’interno di un disegno complesso, condiviso coni servizi sociali di riferimento, con il nucleo famigliare, con i servizi formali ed informali del territorio,e deve avere come sfondo un’intenzionalità educativa attenta agli obiettivi e alle finalità dell’intervento.Tessere il filo della narrazione della vita dei bambini è un compito altamente educativo, è il cuore diogni intervento pedagogico, perché impegna adulti e bambini nella produzione di significato e di senso.Spiegare con parole semplici e chiare perché il bambino è seguito dall’educatore, perché i suoi genitorihanno delle difficoltà, senza colpevolizzarlo, senza stigmatizzando le criticità e le mancanze, maesplicitandole, significa ricostruire con lui la propria storia. Il progetto non è uno strumento tecnico,freddo, ma una possibilità concreta e viva, un racconto che concretizza una narrazione a più voci, daparte dei minori, delle famiglie, dei servizi coinvolti. Educare, in questo senso, implica la possibilitàdi avere un progetto (Che futuro può avere questo bambino? Vista la sua storia, qual è la cosa miglioreper lui?) e di condividerlo (non facciamo un progetto su di lui, ma con e per lui). Il progetto presupponeun futuro verso cui tendere, con obiettivi, verifiche intermedie e riaggiustamenti, ed è da intendersi insenso dinamico, non come una mera procedura amministrativa e burocratica che fotografa la realtàattuale: per educare, l’educatore deve avere chiaro tanto la storia del bambino, il suo passato, che lapossibilità di rielaborarla con lui, e di migliorarla nella concretezza quotidiana. Per educare è necessarioporre attenzione a tutti quei fattori che promuovano nelle famiglie la capacità di essere soggetti attivi,generatori e custodi di percorsi evolutivi che traggano origine dall’ascolto dei bisogni dei minori e chesiano orientati allo sviluppo della loro autonomia e del loro benessere.

Le strategie di eccellenzal Individuazione di spazi e attività finalizzate e personalizzate in base ai bisogni e alle caratteristiche

dei minoril Metodologia educativa condivisa l Continuità nella presa in caricol Progettazione condivisa con tutti i servizi e con la famiglia

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15. La gestione delle emergenze e degli imprevisti.

In un servizio territoriale la gestione degli eventi imprevisti può diventare un fattore critico perchél’educatore è spesso solo nel condurre il suo intervento. È decisivo in questi casi avere una prassiconsolidata di riferimento, che permette ad ogni educatore di sapere rapidamente quali passaggi fare,a chi e come segnalare la criticità, come coinvolgere il coordinatore e i servizi sociali: avere unaprocedura interna condivisa ed efficace consente di“trattare” le emergenze nell’immediato, e in unsecondo momento di non dimenticarle, ma usarle come spunto di riflessione. La gestione delle difficoltàimpreviste è essa stessa un’occasione di apprendimento, perché offre uno sguardo nuovo e spessocreativo rispetto al progetto del minore e alla sua relazione con gli eventi critici.

Le strategie di eccellenzal Usare lo spazio d’equipe come luogo di riflessione e pensierol Condividere l’emergenza e cercare la collaborazionel Avere strumenti per gestire l’incertezza (formazione, supervisione)l Soffermarsi sugli obiettivi, ma rendere flessibili le strategiel Individuare spazi di confronto tempestivi

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Le strategie di eccellenzal Declinare il lavoro educativo nei tempi e negli spazi della quotidianitàl Declinare il lavoro educativo nei tempi e negli spazi nel territoriol Ricordare che il percorso educativo abita nell’ordinario più che nello straordinario

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17. La pedagogia della quotidianità.

La specifica attenzione qualificante il lavoro educativo è proprio la pedagogia del quotidiano, perchéil ruolo educativo richiede la capacità di stare, di esserci, di condividere alcune routine, in una sortedi pedagogia delle piccole cose, lontano dai clamori dei grandi principi, ma continuativa nel tempo enello spazio. Lo sguardo pedagogico è lo sguardo che sa valorizzare il reale, il qui ed ora, la quotidianità,e che sa contemporaneamente rinnovare questo reale, progettando il cambiamento, costruendosignificati e ricerca, in perenne tensione tra riconoscimento dell’altro e possibilità di crescita,cambiamento, e autonomia.La centralità della quotidianità nelle relazioni educative è paragonabile all’uso della parola in unaterapia analitica. “Senza parole non c’è storia, nel senso che non c’è quel contesto minimo, quel settingadeguato e quegli strumenti indispensabili a favorire l’incontro ed il raggiungimento degli obiettivicondivisi. Non è facile avere a che fare con la quotidianità, perché tutto tende a svilirsi, ad esserebanale e ripetitivo, a non essere valorizzato,ad essere dato per scontato. L’unico rimedio è renderesignificativo e speciale l’evento ordinario.”15

Ci sembra utile proprio la consapevolezza che la funzione degli educatori a fianco dei minori è (ri)tessereun tessuto di quotidianità. Con quel che la quotidianità comporta di relazioni ed emozioni, azioni esignificati, incontri e scambi. E’ fondamentale la consapevolezza dell’importanza del ricostruire spazidi vita quotidiana sia nella relazione con i bambini più piccoli (nei loro rapporti con i pari, con gliinsegnanti), sia nella relazione con gli adolescenti, nel riappropriarsi del proprio tempo, senza svilirloe senza perderlo, e del proprio territorio, imparando a conoscerlo e ad ampliarlo.Anche l’educativa territoriale, soprattutto con i bambini più in difficoltà, è “un luogo di sviluppo dimolteplici relazioni, qualificate tutte dal fatto di inscriversi nell’arte di inventare la vita di ogni giorno.Fermo restando che il quotidiano è per eccellenza il luogo generatore del senso stesso della vita. Certo,ad alcune condizioni, visto che per i ragazzi più in difficoltà il quotidiano è stato luogo distruttore delsenso. Proprio per questo oggi sta lievitando nei diversi ambiti disciplinari e professionali laconsapevolezza che i ragazzi in difficoltà hanno estremo bisogno di una “terapia del quotidiano”, primache di una “terapia nel quotidiano”. In questo diventa decisivo il ruolo dell’educatore, a patto cheaccetti e dia valore, appunto, al lavorare per tessere tessuto di quotidianità. Fino che gli educatori non riescono a dare un senso a tutto questo e non accettano di vivereconsapevolmente il quotidiano con i bambini come luogo di apprendimenti e cambiamenti decisivi peril loro futuro, il rischio è che gli stessi educatori banalizzino il loro lavoro e tendano a rifugiarsi in uniper-coinvolgimento emotivo, oppure in un disbrigo di compiti di accudimento a cui non si riesce adare significato, finendo per burocratizzarsi e rendersi assenti sul piano delle relazioni”16.

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15 G. Macario, L’arte di educarsi, Meltemi Roma, 1999, p.7916 Intervista a L.Della Rosa, in Animazione Sociale, 2010

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19. La responsabilità educativa

Gli educatori di territorio riconoscono la responsabilità educativa nei confronti dei minori e dei nuclei nelsenso di prendersi cura tanto del presente che delle possibilità del futuro: se agire moralmente nei riguardidel minore comporta farsi carico responsabilmente del suo presente” agire pedagogicamente rispetto alsoggetto educativo significa si assumersi il suo presente, ma anche con lui e per lui, la responsabilità delsuo futuro,”18 cioè creare le condizioni perché il minore possa assumere la propria autonomia e la capacitàdi assumere decisioni libere e responsabili. Nel creare le condizioni perché il ragazzo possa arricchire lagamma delle scelte e delle possibilità per il proprio futuro, torna, come per le altre qualità educative, anchela capacità di lavorare con gli altri attori formali ed informali: il rischio che si corre, altrimenti, è che larelazione possa essere sottoposta a riduzionismi individualistici, come accade quando il rapporto educativosi concentra solo su se stesso e sulle proprie dinamiche, perdendo di vista lo scopo e l’oggetto del relazionarsi.Questo riduzionismo il più delle volte inconsapevole si manifesta, “quando una persona che esercita unaresponsabilità educativa definisce il proprio porsi in relazione con l’educando come il metodo per eccellenza,senza saper precisare, però, attorno a quali aspetti, oggetti, quali orizzonti essa si costruisce e definisce ipropri caratteri specifici. Si manifesta quando la relazione è attuata in modo acritico senza prendere inconsiderazione il fatto che essa può assumere strade diverse e soprattutto che essa, come ogni aspetto dellavita umana, è sottoposta all’ambiguità”.19 La responsabilità educativa, soprattutto nei confronti dei ragazziadolescenti e all’interno del progetto dell’educativa di strada, deve essere rivolta all’autonomia, alla possibilitàdi sgancio, e infine, “perchè l’esperienza educativa deve generare autonomia da se stessa, operaretendenzialmente per la propria estinzione, per la propria inutilità, per l’autonomia del soggetto dal processoche ha stimolato e attivato forme di cambiamento”.20 L’indipendenza del soggetto dall’esperienza puòassumere le forme del vero e proprio distacco dall’insieme del servizio e dagli operatori che locompongono,attraverso le dimissioni del singolo utente, ma anche attraverso passaggi graduali cheriguardano l’autonomia del nucleo famigliare dai servizi, soprattutto laddove si sia lavorato per incrementarela rete di sostegno e di supporto, e la possibilità per i nuclei di accedere al capitale sociale presente sulterritorio. L’esperienza educativa è un luogo di sperimentazione delle tante possibilità che si offrono e che sipossono andare a cercare, destinato ad arricchire il bagaglio individuale e del nucleo famigliare, che saràtanto più utile e significativo quanto sarà spendibile altrove in futuro, senza gli educatori al fianco.

Le strategie di eccellenzaColtivare il senso del limite e delle misuraRispettare i tempi e le potenzialità di ogni bambinoFare emergere e rispettare i desideri dei bambiniSapere riconoscere quando è arrivato il momento di “chiudere” l’intervento

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18. La funzione di specchio.

Anche in questo caso, la funzione positiva di modello e di specchio è rivolta tanto ai minori che ainuclei famigliari. I bambini hanno bisogno di poter disporre di riferimenti adulti, nel vero senso dellaparola, cioè di adulti che abbiano la capacità di accogliere, di decentrarsi, di prendersi cura di loro.Secondo il vocabolario della lingua italiana, un adulto può essere definito capace quando è atto a«contenere» molte cose o persone, cioè quando sa prendere, comprendere, capire. L’educatore si collocain una posizione mediana tra il riconoscimento di quello che il minore è e sta diventando e “lo stimoloappassionato ad aiutarlo ad espandersi nonostante eventuali limiti personali ed ambientali. Incoraggiaall’autonomia, ma è consapevole di rappresentare agli occhi dell’educando un modello di umanità,non ne approfitta, non ne fa uno strumento di potere, ma non si sottrae. Consapevole dei propri limiti,vigilante sulla qualità della relazione d’aiuto, si è esercitato a tollerare di essere guardato e persinoimitato dai giovani”.17

La funzione di specchio, che riflette e fa riflettere su di sé, le proprie risorse e i propri limiti, èfondamentale tanto con i ragazzi, che con il nucleo famigliare, quando, come abbiamo visto, l’educatoreha una prima funzione in cui rende riconoscibili i comportamenti disfunzionali, “ti aiuto a vederti nellatua relazione con i figli”, ad esempio nelle difficoltà di mantenere gli accordi, di fare rispettare gliimpegni e gli orari, oppure di riconoscere le emozioni e i sentimenti dei bambini più piccoli, e in unmomento successivo “ti propongo una modalità diversa per “relazionarsi con loro, per accogliere lecrisi, i conflitti, le difficoltà della crescita.

Le strategie di eccellenzal Rielaborare l’esperienza insieme al minore e al nucleol Attribuire senso e significato agli avvenimenti quotidiani insieme al minorel Riuscire a distinguere sé dal minore, non cogliere gli attacchi del minore come rivolti a sé macome strategie per comunicare un disagio/malessere

l Essere consapevoli di costituire un modello e “usare” strategicamente il proprio ruolo

17 F. Mazzucchelli, Il mestiere dell’educatore, op.cit., pag. 11

18 G. Milan, Disagio, lavoro di cura e relazione d’aiuto, CLEUP Padova, 200, p.72.19 P. Triani, in La quotidiana relazione con i bambini in difficoltà, Animazione Sociale, 2009, P.103.20 S. Tramma, L’educatore imperfetto, Carocci, Roma, 2006, p.58.

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Gli spunti per il futuro.

I volti della vulnerabilità infantile, come abbiamo visto dallo sguardo degli educatori di territorio sisovrappongono e si confondono con il disagio degli adulti e delle famiglie. Spetta a noi non perderlo divista, ricomporre le dimensioni del malessere del bambino, fragile tra i fragili. Le piste di lavoro emerse nel confronto con gli operatori indicano come cruciale la qualitàdell’integrazione: tra servizi educativi, con la scuola, con le altre agenzie educative formali e informali,tra servizi per la famiglia e servizi per l’infanzia. Possiamo evidenziare tre livelli diversi di interventi a favore dei bambini e dei nuclei famigliari:

l Il primo mette in evidenza la necessità di non esaurire l’intervento educativo nella relazioneindividuale con il bambino, ma di allargare l’azione e il coinvolgimento all’intero nucleo familiare;

l Il secondo indica la strada da percorrere per migliorare e mettere in rete il lavoro tra professionistidi culture organizzative diverse: sociali, sanitarie, educative. Il lavoro di rete interprofessionale nonè soltanto una delle innumerevoli tecniche e uno dei tanti modi possibili per organizzare il lavorosociale, ma una strategia di sopravvivenza e resistenza ai processi di solitudine, diindividualizzazione e di frammentazione sociale a cui assistiamo ogni giorno, come cittadini e comeprofessionisti. E le minacce di solitudine e di isolamento possono essere affrontate ribadendo lanecessità di legami, non solo tra professionisti diversi, appartenenti a culture professionali edorganizzazioni differenti, ma soprattutto con i cittadini, con la comunità locale a cui apparteniamoe con cui dobbiamo condividere il nostro lavoro, perché sia davvero sociale;

l Il terzo livello apre al territorio inteso come possibile comunità educante. Si rivolge, cioè, a tutti icittadini, non solo ai professionisti e coinvolge un numero allargato di protagonisti del benessereinfantile.

Ci sembra che la scommessa, per il futuro dell’educativa territoriale, sia integrare le tre diversedimensioni, e connettere il micro con il macro: integrare cioè l’intervento individuale con il bambinoe con il suo nucleo familiare con la dimensione della comunità locale, il territorio, il contesto socialepiù allargato. I servizi che si muoveranno in questa direzione saranno in futuro quelli più rispondenti ai bisogni deibambini.Inoltre, questa direzione permetterebbe di lavorare maggiormente sul piano della prevenzione, percostruire modalità di intervento di supporto alle famiglie per prevenire l’allontanamento, tramite un

lavoro dei servizi sempre più precoce e sempre più competente nella diagnosi del disagioinfantile, anche grazie al coinvolgimento di reti famigliari a supporto delle famiglie,potenziando esperienze di prossimità e vicinato.

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In contemporanea, è necessario incrementare la dimensione della partecipazione dei bambini, deiragazzi e dei nuclei famigliari nella progettazione e nella realizzazione delle esperienze, evitando diconsiderarli meri fruitori/destinatari degli interventi.Infine, tra le proposte emerse per migliorare l’efficacia degli interventi educativi è cruciale rilanciarela formazione e l’aggiornamento continuo, la supervisione inter-professionale non come meratrasmissione di tecniche, ma come confronto aperto, come occasione di scambio e ricerca di nuoveipotesi, di strade e di progettualità innovative, a partire dalla esperienza e dalla conoscenza diretta dichi lavora sul campo.

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Conclusioni

Una notte un uomo venne svegliato da un gran rumore proveniente dallo stagno vicino casa sua.Precipitandosi fuori, guidato solo dal rumore, prese a correre nel buio, su e giù intorno allo stagno.

Inciampò mille volte, e mille volte si risollevò sino a quando non capì che la causa del rumore era larottura dell’argine dello stagno e che dalla falla uscivano acqua e pesci. Si mise subito al lavoro per

tapparla e solo quando ebbe finito, stanco ma contento, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi dalla finestra più alta della sua casa, vide con sorpresa che le orme

dei suoi passi disegnavano una cicogna: il suo arrancare affannato e scomposto nel buioera il disegno di quella cicogna. 21

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21 K.Blixen, La mia Africa, Feltrinelli, Milano, 2003.

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ALLEGATO 1Luglio 2010QUESTIONARIO

Questionario finalizzato alla riflessione intorno ai temi delle prassi educative e del ruolo dell’educatorenel servizio territoriale, per elaborare un modello e una cornice teorica culturale, concertata eesplicitata, da parte del gruppo di lavoro.

L’educatore incontra il minore con evidenti segni di maltrattamento; con chi ne parlate e come agiteal momento?

Se il bambino racconta di un disagio che vive a casa, come intervenite? Con chi ne parlate e comeagite al momento?

Minore parla dei problemi legati alla estrema povertà in cui vive la sua famiglia; con chi ne parlate ecome agite al momento?

Il minore dichiara di far uso di sostanze stupefacenti o alcool, oppure si presenta e vi accorgete delsuo stato alterato; con chi ne parlate e come intervenite al momento?

Vi è capitato di lavorare con minori immigrati di seconda o terza generazione? Quali problematiche equali difficoltà concrete?

Nel gruppo dei minori è presente un minore ostile e violento con i coetanei, che crea disagio tra i pari;con chi ne parlate e come intervenite?

Se fate osservazione ad un incontro in luogo neutro, usate delle competenze educative? Se si quali?Se no, perché?

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Per concludere l’intero percorso di formazione, ci sembra che la storia della cicogna, ricca disuggestioni, rappresenti bene la strada percorsa con gli educatori:la metafora ci racconta che èpossibile dare senso e significato alle azioni quotidiane, vedere il disegno, solo se si assume una nuovaposizione: la consapevolezza di avere un modello aiuta a riconoscere una finalità comune nel proprioincessante lavoro quotidiano, svolto spesso in solitudine e nell’incertezza dell’oscurità.Il documento finale ha avuto l’obiettivo di ricomporre la frammentazione dell’intervento educativoterritoriale e di dare “forma e disegno”alla prassi educativa, restituendo la complessità del lavoroeducativo e valorizzando l’intervento professionale con i minori in difficoltà e le loro famiglie.Crediamo che la pratica riflessiva sia un antidoto contro alcuni rischi frequenti nel lavoro educativo:in particolare contro l’irrigidimento in tecniche professionali specifiche, e soprattutto contro labanalizzazione delle azioni, che se non pensate e ripensate, diventano mere routine, azioni senza sensoe senza significato. Crediamo che questo lavoro, tanto più in un momento di crisi e difficoltà comuneai servizi educativi e sociali, abbia portato un contributo importante, legato in primo luogo alla modalitàcon cui è stato effettuato, che ha costretto gli educatori a “fermarsi”, in un tempo e uno spazio comune,a riflettere con i colleghi. E’ stato creare un’area di sosta, che senza sospendere il lavoro quotidianoconsentisse all’equipe di fermare l’azione, di vedersi da fuori, consentendo al pensiero di ripercorrerei propri interventi.La modalità di lavoro in gruppo non è stata banale, tanto più in un servizio la cui caratteristica è ilcontinuo movimento, la flessibilità, lo spostarsi anche fisicamente, da un luogo all’altro, dalla casa diun bambino, alla scuola, ai giardini, spesso in relazione individuale.Il secondo valore aggiunto è stato l’individuazione di un linguaggio collettivo, che senza omogeneizzaree appiattire i pensieri degli educatori, fosse in grado di cogliere gli elementi comuni, a partire dalladefinizione della proprie azione, attribuendo un nome a ciò che si compie, con una attenta riflessioneintorno all’uso e alla scelta delle parole.E proprio la scelta della parole, dei termini è cruciale, perché sono le parole che costruiscono la realtà,restituiscono significato e senso alle nostre azioni, e le parole diventano lo strumento attraverso ilquale scopriamo l’oggetto (il nostro lavoro, il nostro stile) nominandolo.In particolare nel lavoro educativo, una cosa esiste solo quando l’abbiamo raccontata, nominata,scritta. E le parole, cariche di significato e dunque di forza, “nascondono in sé un potere diverso esuperiore rispetto a quello di comunicare, trasmettere messaggi, raccontare storie. Le parole hanno ilpotere di produrre trasformazioni, che possono essere, letteralmente, lo strumento per cambiare ilmondo.Possono darci una nuova comprensione della nostra esperienza: possono dare un senso al nostropassato, al presente, al futuro, a quello che sappiamo, che crediamo e che vorremmo. Come singoli ecome collettività solidali.”22

22 G.Carofiglio, La manomissione della parole, Rizzoli, Milano, 2010, p.15, 16.

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Si prevede di lavorare per il raggiungimento dei seguenti obiettivi:Obiettivi a medio termine (6 mesi)

Obiettivi a lungo termine (12 mesi)

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ALLEGATO 2Piano di Lavoro

Data________________________________________

Nome e Cognome del minore:

_____________________________________________________________

Educatore referente:

____________________________________________________________

Assistente sociale: ___________________________________________________________

L’osservazione educativa ha rilevato le seguenti problematiche e/o bisogni:

Bisogni non soddisfatti:

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Data_____________________

Data presunta prossima verifica:_________________________

Educatrice referente:

__________________________________________________________________

Assistente sociale:

___________________________________________________________________

RAS:

__________________________________________________________________

Coordinatore ETM:

___________________________________________________________________

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OBIETTIVI AZIONI ATTORI COINVOLTI TEMPI PREVISTI RISULTATI ATTESI

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ALLEGATO 3Scheda Monitoraggio Nucleo

NOME E COGNOME:

________________________________________________________________

EDUCATORE REFERENTE

___________________________________________________________

OSSERVAZIONICOMPETENZE

FRAGILITA’

RISORSE

DATA DATA DATA DATA


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