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Università degli Studi di Bergamo Antologia di testi per il corso di ...

Date post: 06-Jan-2017
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Università degli Studi di Bergamo Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2013-2014 Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B a cura di Evelina Scaglia
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Università degli Studi di Bergamo

Corso di studi triennale in Scienze dell’educazione – A.A. 2013-2014

Antologia di testi per il corso di Storia della pedagogia 2B

a cura di Evelina Scaglia

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Sommario

JEAN JACQUES ROUSSEAU (1712-1778) ......................................................................................................5

IMMANUEL KANT (1724-1804) ..........................................................................................................................7

JOHANN HEINRICH PESTALOZZI (1746-1827) .............................................................................................9

ALBERTINE ADRIENNE NECKER DE SAUSSURE (1766-1841) ............................................................. 16

JOHANN FRIEDRICH HERBART (1776-1841) ............................................................................................. 18

FRIEDRICH FROEBEL (1782-1852) ............................................................................................................... 24

RAFFAELLO LAMBRUSCHINI (1788-1873) .................................................................................................. 28

FERRANTE APORTI (1791-1858) ................................................................................................................... 30

ARISTIDE GABELLI (1830-1891) .................................................................................................................... 32

GEORG KERSCHENSTEINER (1854-1932) ................................................................................................. 37

ROBERT BADEN-POWELL (1857-1941) ....................................................................................................... 40

JOHN DEWEY (1859-1952) .............................................................................................................................. 45

ROSA AGAZZI (1866-1951) ............................................................................................................................. 50

MARIA MONTESSORI (1870-1952) ................................................................................................................ 53

GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938) ............................................................................................ 56

ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960) ................................................................................................................ 62

SERGEJ HESSEN (1887-1950) ....................................................................................................................... 66

CÉLESTIN FREINET (1896-1966)................................................................................................................... 72

ALDO AGAZZI (1906-2000) .............................................................................................................................. 75

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JEAN JACQUES ROUSSEAU (1712-1778)

J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, [1762], tr. it., Mondadori, Milano 2007.

Libro II (pp. 81- 95)

«L’uomo saggio sa restare al suo posto, ma il fanciullo, che non conosce il proprio, non ne è capace.

Nella nostra società gli si offrono mille occasioni di sviarsi dalla sua condizione puerile. Spetta a quelli

che lo allevano mantenervelo e non è compito facile. Bisogna che non sia né una sorta di piccolo

animale né un adulto, ma un fanciullo; deve avvertire la propria debolezza, non soffrirne; deve

dipendere, non obbedire, deve domandare, non comandare. Egli è sottomesso unicamente a causa dei

suoi bisogni, in quanto gli altri vedono meglio di lui che cosa gli sia utile, che cosa giovi o nuoccia alla

sua conservazione. Nessuno ha il diritto, neppure il padre, di comandare al fanciullo qualcosa che non

abbia per lui alcuna utilità.

Prima che i pregiudizi e le istituzioni degli uomini abbiano alterato le nostre inclinazioni naturali, la

felicità dei fanciulli come degli uomini consiste nell’uso della libertà; ma nei primi questa libertà è

limitata dalla debolezza. Chiunque fa ciò che vuole è felice, se basta a se stesso, ed è quanto accade

all’uomo che vive nello stato di natura.

[…]

Fate che il fanciullo esperimenti soltanto la dipendenza dalle cose ed avrete seguito l’ordine naturale

nel processo della sua educazione. Ad ogni suo capriccioso atto di volontà opponete unicamente

ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni stesse e di cui si rammenti al momento opportuno;

non è necessario vietargli di agire male, basta impedirglielo. Solo l’esperienza e l’impotenza debbono

servirgli di legge. Non concedete nulla ai suoi desideri solo perché ve lo chiede, ma perché ne ha

realmente bisogno. […] Senta in egual misura la sua libertà nelle sue azioni e nelle vostre. Supplite alla

forza che gli manca, ma nell’esatta misura in cui ne ha bisogno per esser libero, non per diventar

prepotente; provi anzi una sorta di umiliazione nel ricevere i vostri servigi e aneli al momento in cui

potrà farne a meno ed aver l’onore di provvedere a se stesso.

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[…]

La natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. Se vogliamo sovvertire

quest’ordine, produrremo frutti precoci, che non avranno maturità né sapore e non tarderanno a

guastarsi; avremo sapientoni in tenera età e bambini vecchi decrepiti. L’infanzia ha modi di vedere, di

pensare, di sentire esclusivamente suoi; nulla è più stolto che pretendere di sostituirli coi nostri.

[…]

Trattate l’allievo secondo la sua età. Collocatelo innanzi tutto nella sua reale condizione e in quella

costantemente mantenetelo, finché non si senta più tentato di evaderne. Così, prima ancora di sapere

che cosa sia la saggezza, ne metterà in pratica il più importante precetto. Non comandategli mai nulla,

per nessuna ragione al mondo: assolutamente nulla.

[…]

Oserò qui esporre che cosa prescriva la più grande, la più importante, la più preziosa regola di tutta

l’educazione? Non di guadagnar tempo, ma di perderne!

[…]

La prima educazione deve essere dunque puramente negativa. Non consiste affatto nell’insegnare la

virtù o la verità, ma nel tutelare il cuore dal vizio e la mente dall’errore. Se poteste non far nulla e nulla

lasciar fare agli altri, se poteste condurre il vostro allievo sano e robusto all’età di dodici anni, senza

che sappia distinguere la mano destra dalla sinistra, fin dalle vostre prime lezioni gli occhi del suo

intelletto si schiuderebbero alla ragione; senza pregiudizi, senza abitudini, nulla vi sarebbe in lui che

possa contrastare l’effetto della vostra opera. Ben presto diverrebbe tra le vostre mani il più saggio

degli uomini e così, cominciando col non far nulla, avreste realizzato un miracolo di educazione».

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IMMANUEL KANT (1724-1804)

I. Kant, L'arte di educare, [1803], tr. it. a cura di Andrea Gentile, Armando, Roma 2001.

Trattato (piano dell'opera), pp. 109-121

«La pedagogia dell'educazione o è fisica [physisch] o pratica [praktisch]. L'educazione fisica [Die

physische Erziehung] è quella che l'uomo ha in comune con gli animali ossia l'ammaestramento.

L'educazione pratica [Die praktische Erziehung] o morale [moralische] è quella che riguarda la cultura

che insegna all'uomo a vivere come ente libero (si chiama pratico tutto ciò che si riferisce alla libertà).

Questa è l'educazione che forma la personalità, l'educazione di un essere libero che sappia essere

autonomo e responsabile e divenire un membro attivo nella società.

L'educazione consiste:

a) nella meccanica cultura scolastica che si fonda sull'apprendimento delle nozioni e delle conoscenze

fondamentali e nella didattica (metodologia scelta dall'insegnante);

b) nella cultura pragmatica che riguarda la prudenza (compito del precettore);

c) nella cultura morale che si riferisce alla moralità.

L'uomo ha bisogno della cultura scolastica o istruzione per potersi orientare nel conseguire i suoi fini.

Questa capacità soggettiva di orientamento gli attribuisce un valore fondamentale come individuo

umano. La cultura della prudenza lo prepara a formarsi come cittadino, e da essa egli acquisisce una

capacità di inserirsi in modo attivo nel contesto sociale. L'individuo così apprende progressivamente a

muoversi nella società e nei rapporti interpersonali per conseguire i propri fini e andare incontro anche

alle esigenze degli altri. In virtù della cultura morale, egli acquista un valore come persona autonoma e

responsabile.

[...]

La parte positiva [Der positive Teil] dell'educazione fisica è la cultura [Kultur]: in virtù di essa l'uomo

si distingue dall'animale. La cultura si fonda, in particolare, sull'esercizio delle attività spirituali le quali

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devono essere favorite e valorizzate nei processi educativi e formativi dell'individuo fin dai primi anni

dell'infanzia. La prima regola da seguire è fare a meno (nei limiti del possibile) di qualsiasi espediente

artificiale o strumento meccanico o formale. In particolare, è opportuno tralasciare fin dall'inizio l'uso

delle dande e del carruccio e lasciar camminare il bambino carponi, finché non impari da sé (in modo

autonomo) a stare dritto: così facendo imparerà a camminare in modo molto più sicuro. Gli strumenti

esterni, infatti, non fanno che rovinare le disposizioni naturali.

[...]

Ciò che si deve tener presente nell'educazione fisica propriamente detta, ossia quella che si prende cura

del corpo, è l'esercizio, o l'uso sia dei movimenti volontari, sia degli organi dei sensi.

Nel primo caso, la cosa essenziale è che l'individuo fin dai primi anni dell'infanzia e dell'adolescenza

sia educato e abituato ad orientarsi [sich orientieren] sempre da sé: per attuare questo processo in

completa autonomia occorre una certa abilità, agilità e sicurezza; per esempio è utile che sappia

orientarsi nella natura, passare su ponti stretti, salire su vette scoscese e così via.

[...]

Gli obiettivi formativi dell'educazione fisica sono di grande utilità per il fanciullo e l'adolescente.

Questi, in rapporto alla loro forza fisica, tendono ad avere un peso minore rispetto agli adulti e tendono

ad imparare con maggiore rapidità e facilità i movimenti e l'orientamento. I fanciulli provano

spontaneamente le loro capacità e i loro limiti: così li vedremo arrampicarsi talvolta senza un motivo o

uno scopo, ma solo per il gusto di farlo Tra le molteplici attività fisiche, ricordiamo, in particolare, la

corsa, che è un movimento sano che rinforza il fisico; il salto in alto, il sollevamento dei pesi, il tiro a

segno, la lotta, la gara di fondo: tutti questi esercizi sono utilissimi. Il ballo, pur essendo conforme alla

regola dell'arte, non è ancora adatto per i fanciulli.

L'esercizio del tiro a distanza e del tiro a segno hanno la finalità di educare i sensi, specialmente quello

della vista. Il gioco della palla è uno dei migliori giochi dell'infanzia, perché è associato anche alla

corsa che è salutare. In generale i migliori giochi sono quelli che uniscono l'educazione, l'abilità e

l'esercizio dei sensi, come ad esempio quelli che richiedono le misurazioni esatte delle distanze, delle

dimensioni e delle proporzioni; o anche quei giochi che richiedono la determinazione delle distanze tra

i luoghi, servendoci della posizione del sole o delle stelle: tutti questi giochi hanno una funzione e una

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finalità formativa ed educativa. Anche l'immaginazione locale, che consiste nella capacità di

rappresentarci le cose nel posto in cui sono state viste per la prima volta, offre grandi vantaggi

all'individuo».

JOHANN HEINRICH PESTALOZZI (1746-1827)

J.H. Pestalozzi, Richiesta a filantropi ed eventuali fautori, affinché concedano benevolo appoggio a

un'istituzione in campagna in cui dare educazione e lavoro a bambini poveri, [1775], riprodotto in J.H.

Pestalozzi, Popolo, lavoro, educazione, a cura di E. Becchi, La Nuova Italia, Firenze 1974, parte I,

L'istituto per bambini poveri di Neuhof e l'appello ai filantropi, pp. 123-128.

«Mi rivolgo ad alcuni filantropi e eventuali fautori, chiedendo loro di concedere appoggio a

un'istituzione che, oggi come oggi, con le mie forze, ormai da solo, non sono più in grado di portare

avanti.

Già da tempo mi sembrava possibile che dei bambini, anche abbastanza piccoli, lavorando in misura

limitata, purché ci fossero condizioni favorevoli, riuscissero a guadagnare da soli, ben presto, di quanto

mantenersi; bastava avere a disposizione una certa somma per quanto riguarda le spese d'istruzione e

poter scegliere un edificio poco costoso, da poter mantenere con poca spesa e da poter arredare con

poco dispendio. Una prova di questo problema, da farsi in via sperimentale, mi sembrava di estrema

importanza per l'umanità.

Io ho visto con i miei occhi, in una zona povera, la miseria dei figli dei contadini delle comunità messi

a lavorare; ho visto come la durezza disumana dell'egoismo rovinasse quasi tutti questi bimbi, sia

fisicamente che spiritualmente – e quasi, oserei dire, ne provocasse la morte –; e quanti, senza coraggio

e senza vita, indeboliti dalle malattie, privi di umanità, senza energie, non fossero in grado di crescere e

di diventare uomini adulti, utili a sé e al paese. Secondo me, la posizione delle mie terre presso

Konigsfelden era adatta per farvi alcuni tentativi circa questa impresa che mi stava molto a cuore - ché

allora le forze per sostenerla non sembravano mancarmi –. Del resto, l'esperienza stessa di più di un

anno mi ha dimostrato che queste idee e queste esperienze possono venir realizzate, purché si superino

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alcune difficoltà iniziali.

Ho potuto verificare direttamente che un'alimentazione regolare dei cibi più comuni (quasi

esclusivamente rape e patate), ma alternati con intelligenza, può esser sufficiente – anche con

pochissimo pane – per mantenere sani i bambini e farli crescere bene. Ho potuto anche sperimentare

che non è il lavoro fatto troppo presto o protratto fino a ora tarda che inibisce la crescita e lo sviluppo

di questi ragazzi poverissimi; sono invece sregolatezza nel modo di vivere, frequente mancanza di ciò

che è necessario, alternata a soddisfazione precipitosa e soverchia nelle rare occasioni in cui c'era

possibilità e soprattutto disinibizione e eccitamento degli istinti, selvatichezza e irrequietezza continua,

risentimento e depressione d'animo, ad arrestare lo sviluppo e a provocare cattiva salute – non il lavoro

continuo.

Sulla base della mia esperienza posso dire che bambini, ormai privi di qualunque forza d'animo,

indeboliti dall'ozio e dall'accattonaggio, pallidi e senza salute, erano riusciti, con un lavoro continuo e

ordinato cui non erano stati precedentemente avvezzi, a diventare sereni e allegri e a crescere, quasi

improvvisamente, in via eccezionale, sani e robusti, grazie al semplice mutamento della loro situazione

e all'eliminazione o allontanamento delle cause e degli stimoli delle loro cattive passioni.

Ho potuto verificare che essi, che avevo trovato nella più nera miseria e in una condizione di mancato

sviluppo, si sollevavano ben presto al sentimento dell'umanità, della fiducia e dell'amicizia – prova

questa, che lo spirito di umanità riesce a riscattare anche l'animo dell'uomo più abietto. Ho visto io

stesso che gli occhi del bimbo misero e abbandonato splendono di meraviglia piena di sentimento

quando, dopo anni difficili e duri, una mano umana si protende, con dolcezza, per guidarlo e ho

sperimentato pure che un sentimento, avvertito in una miseria tanto profonda, può essere della più

grande importanza per quanto riguarda la moralità e l'educazione di questi bambini.

Non ho dubbi che avrei potuto realizzare dei risultati veramente grandi e utili se le forze non mi fossero

mancate; un'educazione completa e sufficiente per manovali che hanno pochi bisogni e la salvezza dei

bimbi dimenticati degli strati più umili dell'umanità! Il ragazzo abbandonato, destinato a diventare un

vagabondo e forse anche un delinquente – la fanciulla senza aiuto e senza guida, condannata alla

miseria e a una vita fuori dalla legge, questi esseri che sono quasi affatto perduti per sé e per la patria,

questi volevo salvare, a questi volevo dare educazione per una vita attiva e utile. I vantaggi economici

dell'esistenza in campagna e altre circostanze mi sembravano favorire questa speranza. Ma, per mia

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disgrazia, io collegai a queste idee pedagogiche dei programmi commerciali e industriali ambiziosi,

mentre avrei potuto realizzare le mie aspirazioni educative con tutta sicurezza, data la loro modesta

portata. Mi trovai, ad un tratto, messo fuori strada dalla mia leggerezza e costretto a imboccare vie

difficili, prima mai percorse e, ingannato dalla mia credulità, impegnato in troppe cose in una volta

sola, fui abbandonato improvvisamente, con grave pregiudizio dei miei affari, da quei cospicui

protettori sui quali avevo creduto di poter contare per sempre con tutta sicurezza. Il disordine dei miei

affari divenne ben presto visibile; ed essendo chiaro che dovevo recedere subito da tutti i programmi

commerciali e industriali, mi ridussi – per mia buona sorte non troppo tardi – alla primitiva e ben più

semplice idea di tenere soltanto dei bambini, senza collegarvi nessuna idea di profitto. Ma anche questo

progetto non può, oggi come oggi, venir realizzato senza un qualche appoggio, e pertanto io mi

presento umilmente a dei fautori filantropi il seguente piano [...]

Prometto di istruire tutti questi bambini nel leggere e nello scrivere e nel far di conto; di istruire tutti i

ragazzi per quanto riguarda le conoscenze del lavoro giornaliero dei campi, e questo relativamente alle

mie possibilità e conoscenze, e alle circostanze. Nell'ambito di tali conoscenze, va compreso, secondo

me, l'uso dei mezzi e dei metodi più idonei per lo sfruttamento di piccoli appezzamenti di terreno in

modo che producano prodotti diversi. Mi assumo l'impegno di avviarli alla conoscenza della

coltivazione dei foraggi che non crescono spontaneamente, del modo di preparare e di aumentare con

diversi mezzi, il concime, e di insegnar loro a conoscere, attraverso esperienze continue, i diversi tipi di

terreno e le conseguenze importanti di una loro miscelazione razionale; di far fare loro le esperienze,

ancora poco definite, relative alla conseguenza di una concimazione continuata con la creta; di dar loro

anche alcune nozioni relative alla piantagione e alla cura degli alberi da frutto e forse anche di alcuni

alberi di bosco. Mi assumo l'impegno di organizzare tutto questo secondo la situazione, le condizioni e

i bisogni dei miei propri beni, in modo che gli esperimenti nascano più dai bisogni dell'istituto e del

terreno che non dalla mera necessità dell'insegnamento e in tal modo siano pochissimo costosi. E'

senz'altro questo il modo in cui i bisogni dell'istituto renderanno facile e naturale l'avvicendarsi delle

ragazze all'organizzazione delle faccende domestiche, al cucito e alla coltivazione dell'orto e del

giardino.

Uno dei lavori più importanti dell'istituto sarà la filatura del cotone. Mi impegno a dare alloggio,

nutrimento, vestiario, pernottamento sano a tutti i bambini e ho in mente di provvedere ad alcuni edifici

e ad alcune migliorie, la cui spesa è in parte già coperta.

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Prometto che la loro istruzione religiosa sarà fatta in modo molto coscienzioso, e di far tutto ciò che mi

sarà possibile per lo sviluppo e l'educazione serena e piena di sentimento del loro cuore.

Non mi resta se non osservare che la realtà cui mi richiamo sono le perfette condizioni di salute di venti

bambini, i quali abitano e lavorano presso di me. La loro serenità, che supera le mie aspettative, anche

in condizioni di lavoro, la loro allegria, la loro sensibilità veramente profonda e l'attaccamento di

alcuni, sono speranza e consolazione acciocché io mi possa dedicare in futuro soltanto a questa

impresa. [...]

Jon. H. Pestalotz

Neuenhof, distretto di Konigsfelden, 9 dicembre 1775»

J.H. Pestalozzi, Scopo e piano di un'istituzione educativa per poveri, riprodotto in J.H. Pestalozzi,

Popolo, lavoro, educazione, a cura di E. Becchi, La Nuova Italia, Firenze 1974, Parte II, Istruzione

professionale e princìpi illuminati, pp. 200-223.

«Il mio scopo è fondare un'istituzione la quale possa costituire un esempio di quanto è necessario, in

genere, per la educazione dei poveri e possa preparare e assicurare, con la massima estensione e cura, i

mezzi per rendere progressivamente partecipi di tale istituzione i poveri del contado.

La realizzazione di questo scopo comporta anzitutto la educazione di un certo numero di bambini

poveri affinché siano, in primis per se stessi, degli uomini energici, buoni, autonomi. In secondo luogo

essa serve all'utilizzazione, per uno scopo speciale, dei bambini che si distinguono da questa massa

diligente, vale a dire essa deve generalizzare l'educazione migliore del popolo, elevare a tale grado e

dare un tale orientamento ai talenti che eccellono dimostrati da questi bambini sia nel campo

intellettuale sia in quello professionale, che essi si orientino da se stessi a usare questi talenti come

maestri e maestre, vuoi in materie ordinarie di scuola, vuoi anche nella vita domestica attraverso

l'influsso privato sull'educazione degli uomini con cui vengono a contatto per la loro professione. Lo

scopo è appunto quello di costruire un seminario di bambini poveri, nel quale non ci si limiti a educarli

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bene, ma dove venga tenuta presente, con rispetto e attenzione, e usata con amore, secondo la volontà

di Dio, per il servizio di Dio e dell'umanità, anche la differenza che c'è nelle disposizioni che ha dato

loro il Creatore.

[...]

Non ci si deve illudere; l'educazione umana dei poveri e dei ricchi esige essenzialmente gli stessi

mezzi, ché la natura umana è la stessa sia nel povero che nel ricco. Per rendere il povero competente,

benevolo e giudizioso per ogni attività pratica e capace di impegno, ci vogliono gli stessi mezzi di cui

c'è bisogno per l'educazione del ricco, in vista di questo medesimo scopo.

[...]

Lo sviluppo generale delle capacità umane dev'essere quindi considerato il fondamento dell'istituzione

che noi proponiamo ed è soltanto quando questo sarà realizzato solidamente, sia in generale sia in

particolare, che potranno venir presi in considerazione gli scopi più specifici della distinzione di singoli

bambini come maestri di scuola oppure come istruttori e istruttrici in istituzioni professionali più o

meno grandi.

Lo sviluppo elementare delle capacità umane è, secondo la sua natura, triplice. Esso è fisico, morale e

intellettuale. Tutti e tre gli aspetti di questo sviluppo stanno però in intima connessione reciproca; e

anche se la formazione di una singola di queste tre capacità potrebbe sviluppare una parte delle capacità

umane, un tale sviluppo unilaterale non sarebbe affatto soddisfacente per i bisogni e lo scopo

dell'educazione dell'uomo. L'uomo viene avvicinato alla sua perfezione soltanto grazie alla formazione

armonica e complessiva di tutte le sue capacità. Egli deve venir portato, sia per quanto riguarda il fisico

che il morale che l'intellettuale, al punto che le sue disposizioni si traducano in capacità, la

consapevolezza delle quali gli assicuri, in ogni caso, fiducia in se stesso, libertà, coraggio e destrezza.

[...]

L'educazione professionale non è educazione alla miseria di una singola capacità professionale. L'idea

elevata, ma non perfezionata dell'educazione professionale del popolo non è se non un'applicazione

dell'educazione dell'umanità in generale alla materia specifica del suo sostentamento e diventa

autentica educazione professionale solo quando parte dalla fruizione completa di tutto ciò che esige di

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per sé l'educazione dell'uomo. Una formazione per un lavoro industriale è tanto poco un'educazione

professionale, quanto la formazione al servizio di chi aiuta nell'irrigazione, di un garzone di stalla o di

uno che lavora solo con l'aratro è la formazione agricola in generale. Si può senz'altro essere un

contadino miserevole e nello stesso tempo un buon garzone di stalla o un buon lavoratore dell'aratro.

Come la educazione agricola presuppone tutto ciò che esige l'agricoltura, nello stesso modo

l'educazione professionale presuppone l'intero complesso di tutto ciò su cui si basa - in maniera non

meramente accidentale e relativa alle singole materie, ma in modo generale e necessario - lo spirito e la

forza dell'industria.

[...]

Attività dell'intelletto e attività del cuore devono essere il fondamento delle capacità che vanno poste

nelle loro mani e nelle loro braccia. Il loro guadagno non dev'essere affatto il risultato di una

formazione esasperata in un settore singolo e unilaterale dell'industria. Come la capacità superiore della

educazione dell'intelletto e del cuore deriva dagli elementi eterni e può esser realizzata grazie a degli

esercizi che si susseguono in modo continuo e graduale, così anche la formazione professionale deriva

da elementi eterni e immutabili e si può attuare soltanto grazie a esercizi che si eseguono in modo

continuo e graduale. Nella sua essenza, essa non è niente altro se non un'applicazione dell'educazione

fisica a fine specifico del proprio sostentamento e deve quindi venir messa in sintonia con l'intero

complesso dell'educazione fisica e con le esigenze generali dell'educazione intellettuale e del cuore.

Senza uno sviluppo generale e armonico dell'intero complesso delle capacità fisiche non si può pensare

ad un'educazione professionale del popolo, elevata e sicura, che va necessariamente accompagnata

dallo sviluppo delle capacità dell'intelletto e del cuore».

J.H. Pestalozzi, Madre e figlio. L’educazione dei bambini, [1818], tr. it. di G. Sanna, III ediz., La

Nuova Italia, Firenze 1933, pp. 15-18.

II.

«3 ottobre 1818

Mio caro Greaves,

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Il nostro grande intento è lo sviluppo dell'anima infantile, e il nostro grande mezzo l'azione della

madre.

Da ciò nasce, sin dall'inizio delle nostre ricerche, un quesito importante: possiede la madre le facoltà

necessarie all'assolvimento dei doveri e dei compiti, che noi le assegniamo? Mi sento in obbligo di

esaminare a fondo tale questione, e dare possibilmente una risposta decisiva. La prego di fermare la sua

attenzione su quest'argomento, essendo io convinto che se le mie opinioni concordano con le sue, Ella

consentirà anche nelle conclusioni che io, fondandomi sulla mia esperienza, ne traggo.

Sì! Posso dirlo: la madre ha la capacità, ha ricevuto dal Creatore stesso la capacità di divenir l'agente

più energico dello sviluppo infantile. Già nel suo cuore è spontaneamente radicato il desiderio più

ardente del bene del figlio: e qual forza può esser più attiva, più incalzante dell'amore materno, la forza

più soave e al tempo stesso più imperterrita che si trovi in tutto l'ordine della natura? Sì, la madre è

capace, perché la Provvidenza l'ha fornita delle attitudini che si richiedono per l'assolvimento del suo

compito.

E a questo punto mi sembra di dover chiarire quale sia il compito, che io ritengo a lei particolarmente

riservato. Ciò che io richiederei da lei, non è affatto cosa, che oltrepassi la sua sfera d'azione, non è un

certo grado od ordine di conoscenze, e neppure ciò che comunemente si racchiude nel concetto di

coltura "finita"; sebbene ove per caso ella possegga tali conoscenze, verrà il giorno in cui aprirà il suo

forziere e ne sceglierà tesori per i suoi figli. Ma nel periodo, di cui ci occupiamo, le conoscenze

acquisite con la più raffinata educazione non le faciliterebbero per nulla il compito: giacché quello che

io desidererei da lei è soltanto - amore pensoso. E' naturale che io ponga come prima condizione

l'amore, che sempre comparirà spontaneamente - soltanto io lo vorrei supporre diversamente e

variamente informato. Tutto ciò io domanderei a una madre, sarebbe che ella facesse operare il suo

amore con la maggior forza possibile, e tuttavia lo regolasse con la riflessione. - E vorrei realmente

pregare una madre, in nome di tutto l'amore che ella alberga in sé per i suoi figli, di dedicare un istante

di calma riflessione alla natura dei suoi doveri. Non penso già d'introdurla in un'artificiosa disamina:

nel labirinto delle ricerche filosofiche potrebbe smarrirsi l'amor materno. Ma nel suo sentire v'è qualche

cosa, che può condurla al vero per la via più breve e mediante un processo immediato. A questo

qualche cosa io vorrei fare appello. Non le si deve celare, che i suoi doveri sono a un tempo facili e

difficili; ma io spero non esservi una madre, che in una questione simile non trovi la sua più elevata

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ricompensa appunto nel superare le difficoltà; e l'interesse dei suoi doveri le si svelerà a poco a poco, se

ella si atterrà ad un semplice e tuttavia sublime e grandioso pensiero: i miei figli sono generati per

l'eternità e affidati a me appunto perché io li educhi ad esser figli di Dio.

"Madre" vorrei dirle, "madre responsabile! Guardati intorno! Quale diversità di sforzi, quale

molteplicità di vocazioni! Gli uni si agitano nel vortice d'una vita senza tregua; gli altri cercano la

tranquillità traendosi indietro. Fra tutti i modi d'agire, che osservi intorno a te, quale ti sembra il più

solenne, il più maestoso, il più sacro?". "Senza dubbio", mi risponderai prontamente, "la vocazione

dell'uomo che dedica la propria vita a favorire spiritualmente lo sviluppo della natura umana. Come

deve esser felice colui, che si sente chiamato a guidare gli altri verso la felicità, verso la felicità

eterna!". Ottimamente! Madre felice! La sua missione è anche la tua. Non lasciarti intimorire da tal

pensiero, - non tremare di tal confronto. Non credere ch'io voglia attribuirti un ufficio superiore alla tua

attitudine, - non temere che nella mia offerta si celino conati di vanità, - ma eleva il tuo cuore grato

verso Colui, che ti ha affidato un ufficio così elevato, - cerca di mostrarti degna della fiducia che in te è

stata riposta. Non parlare di insufficienza delle tue conoscenze, - l'amore la compenserà; - di scarsità

dei tuoi mezzi, - la Provvidenza li amplierà; - di debolezza della tua volontà, - lo Spirito stesso della

forza la rinsalderà: - eleva il tuo sguardo a questo Spirito per chiedergli tutto ciò che ti manca e

specialmente le due cose più sublimi ed importanti: coraggio ed umiltà».

ALBERTINE ADRIENNE NECKER DE SAUSSURE (1766-1841)

A. A. Necker De Saussure, L’educazione progressiva, [1828-1838], tr. it., Cappelli, Bologna 1936.

[La pedagogia deve corrispondere a due esigenze diverse], pp. 24-25

«L’educazione deve corrispondere al nostro doppio destino: deve preparare l’educando per due

esistenze successive, perché in lui c’è uno spirito immortale, che soltanto attraversa questo mondo; e

c’è una fragile creatura, che in questo mondo soffre e muore.

La nostra natura è conforme a queste due vocazioni. Da una parte, l’anima ha facoltà riferentisi alla

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propria esistenza sulla terra; dall’altra, ne ha di quelle che si riferiscono all’al di là. L’educazione deve

sviluppare così le prime come le seconde. Siccome Dio non ha voluto chiamarci immediatamente a sé,

e ci ha imposto di cercarlo per il cammino dell’esistenza, così il precipuo dovere del maestro consiste

nel fornire all’educando tutto ciò che gli abbisogna per il viaggio.

Non si deve mai dimenticare che la vita è un viaggio, e che l’idea di viaggio deve caratterizzare tutti i

periodi della nostra esistenza. La qual cosa mi sembra non sufficientemente chiarita nelle varie

definizioni date dell’educazione. Parrebbe quasi che si trattasse solamente di condurre l’adolescente a

un certo stato, piuttosto che di comunicargli l’impulso sufficiente per fargli oltrepassare infinitamente

questo stato. E tuttavia, mentre il più grande sviluppo morale e intellettuale alla fine dell’infanzia è

nulla, a paragone di ciò che si può sperare nell’età matura, è cosa molto più importante dare l’impulso.

I progressi compiuti hanno sempre minor valore che la disposizione a compierne degli altri, cosicché è

bene informarsi non tanto del grado d’avanzamento di un fanciullo, quanto piuttosto della sua attitudine

a proseguirlo. Altrimenti, quanto più un discepolo si approssimasse al livello comune della società,

nella religione e nella scienza, tanto più facilmente correrebbe pericolo di convincersi che egli non ha

più bisogno di progredire in esse, e così un progresso diventerebbe causa di arresto e quindi di

mediocrità, se fosse incapace di provocare nuovi sforzi.

Ecco per qual motivo tante educazioni, apparentemente perfette, non danno che risultati insignificanti.

Ecco come si uccidono le anime. Quando non c’è movimento interiore né vita, tutto inaridisce e si

estingue. Non crescere equivale a decrescere: non avanzare equivale a indietreggiare – come nel risalire

la corrente di un fiume –; tale è la natura umana.

Se c’è in noi un principio di decadenza, l’energia è necessaria, per non andare alla deriva, e forse non

se ne condensa mai abbastanza, se non quando si tende a risalire.

Secondo il Kant, lo scopo dell’educazione sarebbe sviluppare nell’individuo tutta la perfezione di cui

egli è capace. Ma siccome quest’opera non può essere compiuta durante l’infanzia, e richiede tutta

l’esistenza, così oserei proporre un leggero mutamento a questa bella definizione: sviluppare nel

discepolo la volontà e i mezzi di raggiungere quella perfezione di cui potrà essere capace un giorno”.

[…]

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18

[Invece di inutili disquisizioni sul bambino è meglio esaminare con l’osservazione i fenomeni della sua

crescenza], pp. 74-75.

«Mi pare sorprendente che nelle scienze d’osservazione sia stata introdotta una regolarità così

meravigliosa, mentre nello studio dell’infanzia il metodo è stato spesso trascurato. Il problema più

importante di tutti è forse quello a cui si è dedicata un’attenzione meno perseverante e rigorosa. Quanta

gente armata di telescopio verifica notte e giorno le predicazioni degli astronomi! Quanti tengono

prospetto esatto del vento, della temperatura, della pioggia! Quanti infaticabili annotatori! E nel bel

numero, non c’è neanche un padre, che si sia degnato di constatare con diligenza i progressi del proprio

figlio! Perfino nell’aspetto fisico dello sviluppo, che sembra dover prestarsi di più all’osservazione

scientifica, quanta incertezza ancora!

Se entriamo nella sfera morale, tutto diventa anche più vago e più fragile; ma con un po’ di

accorgimento, quante cognizioni si potrebbero attingere dallo studio dei bambini! Quanti problemi

importanti potrebbero essere risolti o almeno chiariti, mediante osservazioni accurate! Si vedrebbe se

gli esercizi che fortificano il corpo hanno un effetto favorevole allo spirito; se l’aumento di vigore

fisico corrisponde in generale a quello dell’energia morale; quali sono le facoltà che si sviluppano o si

paralizzano reciprocamente. Quella dipendenza dai sensi, che si è voluto attribuire all’intelletto,

sarebbe confermata o messa in dubbio con fondamento. E se l’origine delle idee ci rimanesse oscura,

avremmo almeno intravveduto la prima traccia della loro nascita. Bonnet e Condillac, con ben diverso

spirito, ma con la medesima metafora, hanno tentato di spiegare il mistero dell’intelletto analizzando il

supposto animarsi di una statua. Quanto sarebbe stato meglio che avessero studiato un neonato. Quante

idee curiose sull’esistenza dell’istinto nell’uomo, sulla formazione del linguaggio: in poche parole:

sulla storia dello spirito umano, ci suggerirebbero i bambini!».

JOHANN FRIEDRICH HERBART (1776-1841)

J. F. Herbart, Pedagogia generale derivata dal fine dell'educazione, [1806], tr. it. a cura di I. Volpicelli,

La Nuova Italia, Firenze 1997.

Pedagogia generale- Libro primo, pp. 30-48

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I- Fine del governo dei fanciulli

«Il bambino viene al mondo privo di volontà: incapace quindi di ogni rapporto morale. Perciò i

genitori, (sia di loro iniziativa, sia per conformarsi alle esigenze della società) possono esercitare il

loro potere su di lui, come se si trattasse di una cosa. Certamente essi sanno bene che nella creatura che

ora trattano a loro discrezione, senza consultarla, con l'andar del tempo sorgerà una volontà, che

bisognerà aver conquistata se si vorranno evitare gli inconvenienti di un conflitto inammissibile da

entrambe le parti. Ma prima di arrivare a questo punto ce ne vuole di tempo; nel fanciullo, da prima, al

posto di una vera e propria volontà, capace di prendere una decisione, si sviluppa semplicemente una

irruenza selvaggia, che lo trascina ora in un senso ora in un altro, che è un principio di disordine, tale

da ledere le disposizioni degli adulti ed esporre la personalità futura dello stesso fanciullo a ogni sorta

di pericolo. Questa irruenza deve venire repressa; altrimenti il disordine sarebbe imputabile come una

colpa a coloro che hanno in custodia il fanciullo. La repressione si ottiene mediante l'uso della forza; e

bisogna che la forza sia sufficiente e che sia esercitata abbastanza spesso affinché riesca a conseguire

pienamente il risultato prefisso, prima che nel fanciullo si manifestino le tracce di una volontà

autentica. Questo esigono i principi basilari della filosofia pratica.

Ma i germi di questa cieca irruenza, i rozzi appetiti, permangono nel fanciullo; anzi si moltiplicano e si

rafforzano con l'andare degli anni. Affinché non diano alla volontà, che si sviluppa in mezzo a loro, un

indirizzo antisociale, è necessario tenerli costantemente soggetti ad una continua sensibile pressione.

L'adulto, giunto all'uso della ragione, assume su di sé, col tempo, il compito di autogovernarsi. Ma vi

sono anche degli uomini che non arrivano mai a questo punto: questi sono tenuti dalla società sotto una

costante tutela e vengono designati, in parte, col nome di imbecilli e di prodighi. [...]

Come si vede, il fine del governo dei fanciulli è vario: da una parte si tratta di evitare il danno, per gli

altri e per il fanciullo stesso, sia per il presente che per l'avvenire; dall'altra si tratta di evitare il

conflitto, il quale costituisce per se stesso un inconveniente; da un'altra, infine, si tratta di evitare la

collisione in cui la società, senza esserne completamente autorizzata, si vedrebbe costretta al conflitto.

Ma tutto ciò ci porta a concludere che un tale governo non mira a raggiungere alcun fine nell'animo del

fanciullo, e non ha altra pretesa che di creare ordine. Ciò nondimeno ben presto si constaterà che il

governo non può assolutamente essere indifferente nei confronti della cultura dell'anima infantile.

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[...]

II- Multilateralità dell'interesse. Forza del carattere della moralità.

1. Come può l'educatore in anticipo far propri i fini futuri, semplicemente possibili, dell'allievo?

L'aspetto oggettivo di questi fini, come cosa pertinente al semplice arbitrio, non ha alcun interesse per

l'educatore. Soltanto il volere dell'uomo futuro in sé e per sé, e quindi la somma delle esigenze che, in

questo volere e per esso, egli eleverà verso se stesso, costituisce l'oggetto della benevolenza

dell'educatore; e l'energia, la gioia primitiva, l'attività con le quali quell'uomo saprà soddisfare le

proprie esigenze, questo è ciò che costituisce per l'educatore l'oggetto di un giudizio basato sull'idea

della perfezione. In questo caso dunque ciò di fronte a cui ci troviamo non è un certo numero di fini

particolari, (che del resto non possiamo conoscere in anticipo), ma, in generale, l'attività dell'uomo che

si va sviluppando, il quantum della sua intima, immediata vitalità e vivacità. Quanto più grande è

questo quantum, quanto più intenso, esteso, ed in sé armonico, tanto più è perfetto e tanta maggior

sicurezza offre alla nostra benevolenza.

Soltanto, il fiore non deve spezzare il suo calice, la ricchezza non deve degenerare in debolezza per un

eccesso di dispersione in tutti i sensi. Da lungo tempo la società umana ha trovato necessaria la

divisione del lavoro, affinché ciascuno possa far bene ciò che fa. Ma quanto più ciò che si fa è

delimitato, quanto più il lavoro è diviso, tanto più si accresce la varietà delle cose che ciascuno riceve

da tutti gli altri. Ora, siccome la recettività spirituale si basa sulla affinità spirituale, e questa sopra

esercizi spirituali consimili: si comprende allora che nel dominio superiore dell'umanità vera e propria i

lavori non debbono essere isolati al punto da ignorarsi reciprocamente. Tutti debbono avere amore per

tutto, ciascuno deve essere virtuoso in un campo specifico. Ma la virtuosità particolare riguarda la

libera scelta; invece la ricettività molteplice e varia, che può derivare soltanto da molteplici iniziative

dovute al nostro sforzo personale, compete all'educazione. Noi, perciò, indichiamo la prima parte del

fine pedagogico con l'espressione: multilateralità dell'interesse, la quale deve essere distinta dalla sua

esagerazione, la molteplicità delle occupazioni. E poiché tra gli oggetti del volere, tra le stesse

particolari direzioni, non ve ne è alcuno che ci interessi più dell'altro, allora noi, affinché non ci

dispiaccia di vedere accanto alla forza, la debolezza, completeremo la nostra espressione, dicendo:

multilateralità ben equilibrata. In tal modo si giungerà a cogliere il senso dell'espressione corrente:

sviluppo armonico di tutte le forze; a proposito della quale ci sarebbe da chiedersi che cosa si intende

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per pluralità di forze dell'anima? E che cosa debba significare armonia di forze eterogenee?

[...]

III- Individualità dell'allievo, come punto d'incidenza

L'educatore mira al generale, ma l'allievo è un individuo particolare.

Senza fare dell'anima un miscuglio di facoltà eterogenee, e senza costruire il cervello con organi

positivamente ausiliari, che potrebbero esonerare lo spirito di una parte del suo lavoro: dobbiamo pur

riconoscere, senza contestazioni e in tutta la loro portata, le esperienze in base alle quali l'essenza

spirituale, associata a tale o ad altra forma corporea, incontra tali o tali altre difficoltà, e,

corrispondentemente, delle relative agevolazioni nelle proprie funzioni.

Ora, per quanto noi si sia indotti a mettere alla prova, attraverso tentativi, la pieghevolezza di queste

disposizioni naturali e a non scusare affatto la nostra pigrizia col pretesto della superiorità della loro

forza, pure prevediamo che anche la rappresentazione più pura e perfetta dell'umanità non potrà mai

fare a meno di riferirsi, in pari tempo, ad un uomo particolare; anzi noi avvertiamo altresì che è

necessario che l'individualità risalti affinché il semplice esemplare della specie non appaia meschino di

fronte alla specie stessa e non svanisca come cosa insignificante; noi sappiamo infine quale beneficio

traggano gli uomini dal fatto che individui diversi si preparino e si destinino a compiti differenti.

L'individualità caratteristica del giovane si va via via sempre di più palesando anche in mezzo alle cure

e agli sforzi dell'educatore; abbastanza felicemente se non si oppone loro direttamente, oppure se,

urtandovi di fianco, non provochi l'insorgere di un terzo elemento, parimenti dannoso all'allievo e

all'educatore! Cosa che accade quasi sempre a coloro che in generale non sanno trattare con gli uomini

e quindi non sanno neppure cogliere nel fanciullo l'uomo che già vi si trova.

Da tutto ciò risulta per il fine dell'educazione una regola negativa, che è altrettanto importante quanto

difficile da osservarsi; cioè questa: bisogna lasciare per quanto è possibile intatta l'individualità. A tal

uopo si esige soprattutto che l'educatore distingua bene i caratteri accidentali che gli sono propri e stia

ben attento ai casi in cui egli desidera in un modo e l'allievo agisce in un altro, senza che vi sia alcun

vantaggio essenziale da un lato o dall'altro. In questi casi l'educatore deve immediatamente recedere dal

suo desiderio; bisogna, se possibile, addirittura reprimerne la manifestazione. Cerchino pure i genitori

privi di senno di acconciare i loro figli e le loro figlie secondo il proprio gusto, stendano pure sopra il

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legno non piallato vernici d'ogni sorta; questa vernice, negli anni della raggiunta indipendenza, sarà

violentemente scrostata, e certamente non senza dolore e senza danno; il vero educatore, se non può

impedirlo, per lo meno non vi prenderà parte; egli è impegnato a costruire il suo edificio, per il quale

trova sempre nelle anime infantili un ampio spazio libero. Egli si guarderà bene dall'intraprendere cose

che non gli possano meritare alcuna gratitudine; egli lascia volentieri integro all'individualità l'unico

vanto di cui è suscettibile, ossia d'essere nettamente delineata e riconoscibile a prima vista; per sé, egli

ambisce un solo onore, che si scorga intatta nell'uomo che fu soggetto alla sua volontà l'impronta pura

della persona, della famiglia, della nascita e della nazione".

Libro secondo, pp. 69-72

4) L'istruzione

E' una follia voler abbandonare l'uomo alla natura o addirittura voler ricondurvelo ed educarlo in questo

senso: che cos'è infatti la natura dell'uomo? Per gli stoici come per gli epicurei essa fu parimenti il

comodo sostegno dei loro sistemi. La naturale disposizione dell'uomo, che sembra calcolata in funzione

di condizioni fra loro assai diverse, oscilla in una tale generalità che la determinazione prossima, il

compimento rimangono assolutamente affidati alla specie. La nave, costruita con somma maestria per

poter secondare con tutte le possibili oscillazioni le onde ed i venti, attende ora il nocchiero che le

indicherà la meta e la dirigerà nel suo viaggio secondo le circostanze.

Noi conosciamo il nostro fine. La natura fa parecchie cose che possono esserci d'aiuto, e l'umanità, sul

cammino che essa già percorse, ha accumulato molte esperienze; noi dobbiamo combinarle le une colle

altre.

I- L'istruzione come integrazione dell'esperienza e del contatto umano

L'uomo, tramite l'esperienza, perviene naturalmente alla conoscenza e, tramite il contatto umano, alla

partecipazione. L'esperienza, sebbene sia durante tutta la vita la nostra maestra, non ci dà che un

minimo frammento di un gran tutto; tempi e spazi infiniti celano a noi una possibile esperienza

infinitamente più grande. Forse il contatto con gli uomini è relativamente meno povero; i sentimenti di

quelli che noi conosciamo somigliano infatti in generale ai sentimenti di tutti gli uomini. Ma la

partecipazione risente delle più delicate distinzioni e la sua unilateralità è molto peggiore

dell'unilateralità della conoscenza. Pertanto le lacune che il contatto con gli uomini lascia sussistere

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nella piccola sfera dei sentimenti, e quelle lasciate dall'esperienza nella cerchia ben maggiore del

sapere, sono per noi pressoché equivalenti; ed in entrambi i casi occorrerà accogliere di buon grado

ogni tentativo di integrarle mediante l'istruzione.

[...]

Di fatto, chi mai potrebbe fare a meno dell'esperienza e del contatto umano nell'educazione? Sarebbe

come se ci si dovesse privare della luce del giorno, per contentarsi del lume della candela! Ricchezza,

forza, determinazione individuale per tutte le nostre rappresentazioni, pratica nell'applicare il generale,

aderenza alla realtà, al proprio paese, al proprio tempo, tolleranza verso gli uomini come essi sono:

tutto questo deve esser attinto a quelle sorgenti primigenie della vita spirituale.

[...]

Ma infine, se ci richiamiamo nuovamente al nostro scopo, cioè alla multilateralità dell'interesse, risulta

evidente come siano limitate le opportunità che dipendono dal luogo cui si è legati, e come e con

quanta ampiezza lo spirito autenticamente colto le trascenda. Anche il sito più favorevole ha dei limiti

così ristretti che nessuno potrebbe mai assumersi la responsabilità di rinchiudervi la formazione

culturale di un giovane, a meno che non vi sia costretto dalla necessità. Se il giovane ha tempo

disponibile e un insegnante, nulla allora dispensa quest'ultimo dall'estendersi nello spazio mediante

descrizioni, dall'andare a prendere dal tempo la luce del passato, e dall'aprire ai concetti il regno del

soprasensibile.

[...]

In verità, l'esperienza e il contatto umano spesso ci vengono a noia, e talvolta siamo costretti a

sopportarli. Ma bisogna che l'allievo non abbia a soffrire un simile inconveniente per opera

dell'insegnante. Esser noiosa è il peccato più grave dell'istruzione! La sua prerogativa è quella di

sorvolare steppe e paludi; se non le è sempre possibile procedere in valli amene, per compenso

s'esercita in ascensioni alpine e ricompensa con l'ampiezza dei panorami».

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FRIEDRICH FROEBEL (1782-1852)

F. Froebel, L'educazione dell'uomo e altri scritti, [1826], tr. it. a cura di A. Saloni, La Nuova Italia,

Firenze 1960.

L'educazione dell'uomo, pp. 3-11

«In tutte le cose è riposta, agisce e domina una legge eterna. Questa si rivelò e si rivela, sempre

ugualmente chiara e determinata, all'esterno, nella natura, e all'interno, nello spirito, e nella vita che

insieme li congiunge. [...] Base necessaria di questa legge dovunque imperante è necessariamente una

Unità dovunque operante, chiara a se stessa, vivente, autocosciente, e quindi eterna. Tale fatto è, a sua

volta, come l'Unità stessa, riconosciuto al medesimo modo o attraverso la fede o attraverso la

contemplazione e con uguale vivezza, profondità ed estensione [...]

Questa Unità è Dio.

Tutto si è originato dal divino, da Dio, tutto è unicamente condizionato dal divino, da Dio; in Dio è il

fondamento unico di tutte le cose.

In tutto riposa, agisce, domina il divino, Dio.

Tutto riposa, vive, sussiste nel divino, in Dio, e mediante il divino, mediante Dio.

Tutte le cose esistono, solo perché il divino opera in esse.

Il divino operante in ogni cosa ne costituisce l'essenza.

[...]

Lo stimolo, l'azione esercitata sull'uomo come essere che diviene consapevole di sé, pensante,

intelligente, verso la rappresentazione pura e incontaminata della legge interiore, del divino, con

coscienza e libertà, e l'indicargli la via e i mezzi che vi conducono, questo costituisce l'educazione

dell'uomo.

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La conoscenza, la consapevolezza di quella legge eterna, la penetrazione del suo fondamento, della sua

essenza, del complesso, della relazione e vitalità dei suoi effetti, la conoscenza dalla vita e della vita nel

suo insieme è scienza, è scienza della vita, e trasportata dall'essere cosciente, pensante, intelligente alla

rappresentazione e all'esercizio per sé e in sé, questa è la scienza della educazione.

I precetti che derivano dalla conoscenza, dalla penetrazione in essa, per l'essere pensante e intelligente,

così che acquisti consapevolezza della propria missione e attui il proprio destino, costituiscono la

dottrina dell'educazione.

L'applicazione spontaneamente attiva di questa conoscenza e di questa penetrazione, di questo sapere

per l'immediato sviluppo e perfezionamento di esseri ragionevoli, affinché raggiungano la propria

destinazione, costituisce l'arte dell'educazione.

Il fine dell'educazione è la rappresentazione di una vita fedele al suo compito, pura, incontaminata e

perciò santa.

La conoscenza e l'applicazione, la consapevolezza e la rappresentazione insieme congiunte,

unificandosi nella vita per una vita fedele al suo compito, pura e santa, sono la saggezza della vita, sono

la saggezza in sé.

Essere saggio è la più alta aspirazione dell'uomo, la realizzazione massima dell'autodeterminazione

dell'uomo.

Educare se stessi ed altri con coscienza, libertà e spontaneità, questo è il duplice compito della

saggezza. Esso ebbe il suo inizio col primo apparire dei singoli uomini sulla terra e si affermò col

primo apparire della completa autocoscienza dell'essere singolo, ed ora comincia ad esprimersi come

umana esigenza necessaria, universale, e come tale a trovare ascolto ed applicazione.

[...]

Il divino dunque che è nell'uomo, la sua essenza, deve nell'uomo stesso attraverso l'educazione venire

sviluppato, rappresentato fino alla consapevolezza, ed egli, l'uomo, deve essere elevato ad una libera,

cosciente vita ad esso conforme, alla libera rappresentazione di questo divino in lui operante.

Il divino, lo spirituale, l'eterno che è nella natura intorno all'uomo, che costituisce l'essenza della natura

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e in essa senza posa si manifesta, questo devono l'educazione, l'istruzione portare all'intuizione

dell'uomo e farglielo riconoscere, così come in vitale reciproca azione e unite all'insegnamento devono

esprimere e rappresentare l'identità delle leggi che regolano la natura e l'uomo.

L'educazione nel suo complesso, attraverso l'educazione propriamente detta, l'istruzione e

l'insegnamento, deve destare nell'uomo, e renderla attiva nella vita, la consapevolezza che l'uomo e la

natura procedono da Dio, sono da Dio condizionati, in Dio trovano il proprio riposo.

L'educazione deve guidare e condurre l'uomo alla chiarezza su di sé e in se stesso, alla pace con la

natura e all'unione con Dio. Perciò deve innalzare l'uomo alla conoscenza di se stesso e dell'uomo, alla

conoscenza di Dio e della natura e alla vita pura e santa da essa condizionata.

Ma in tutte queste esigenze l'educazione si basa sull'interno, sull'intimo e su questo riposa.

Tutto quanto è interiore viene conosciuto passando dall'interno all'esterno e per mezzo dell'esterno.

L'essenza, lo spirito, il divino delle cose e dell'uomo viene conosciuto nelle sue e nelle loro

manifestazioni. E sebbene, secondo questo, le manifestazioni dell'uomo e delle cose siano ciò a cui si

riallaccia ogni educazione, ogni istruzione, ogni insegnamento, ogni vita come testimonianza della

libertà, e partendo dall'esterno agisca sull'interno e in esso si conchiuda, non può tuttavia l'educazione,

e non deve, conchiudere assolutamente dall'esterno all'interno, la natura delle cose esige che si

conchiuda sempre, in qualsiasi rapporto, inversamente, dall'esterno all'interno e dall'interno all'esterno.

Così dalla molteplicità e dalla pluralità della natura non si deve conchiudere a una pluralità della

condizione ultima della natura stessa, non ad una pluralità degli dei, e neppure si deve dall'unità di Dio

conchiudere a una unità della natura, ma in tutti e due i casi si deve invece dalla molteplicità della

natura conchiudere all'unità del suo principio ultimo, Dio, e dall'unità di Dio alla molteplicità degli

sviluppi naturali, procedente in eterno.

Il non applicare tale verità ora enunciata, e ancora più il continuo peccare contro di essa, il conchiudere

assolutamente da certe manifestazioni esterne nella vita dei bambini e dei fanciulli al loro interno, è il

motivo più essenziale delle evidenti lotte e contraddizioni, degli errori così frequenti nella vita e

nell'educazione. In questo ha la sua certa base la conoscenza infinitamente falsa dei bambini, dei

ragazzi e dei giovanetti, da questo derivano la riuscita tanto pessima dell'educazione dei bambini, tanti

malintesi tra genitori e figli, sia da una parte che dall'altra, tanti inutili lamenti, e così pure l'orgoglio

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inopportuno e la folle speranza nei fanciulli. Perciò questa verità nella sua applicazione è tanto

importante per i genitori, gli educatori e i maestri, che essi tutti insieme dovrebbero adoperarsi per

famigliarizzarsi con tale sua applicazione fin nel minimo particolare. [...]

Perciò l'educazione, l'istruzione e l'insegnamento fin dall'inizio e nei loro primi elementi devono

necessariamente lasciar fare, assecondare (solo preservando, proteggendo) e non prescrivere,

determinare, intromettersi.

Ma l'educazione tale deve essere anche in se stessa, perché l'azione del divino è necessariamente buona

ove non sia disturbata, deve essere buona, non può essere altro che buona. Questa necessità deve

presupporre che l'uomo ancor giovane, quasi nella prima formazione, anche se ancora inconsapevole

come un prodotto della natura, tuttavia con risolutezza e sicurezza voglia il meglio in sé e per sé, ed

oltre questo in una forma a lui del tutto adatta, quale egli sente che rappresenta anche tutte le sue

disposizioni, le sue forze e le sue capacità.

[...]

Veramente di rado la natura ci mostra, specie nell'uomo, il suo stato integro, originario; ma tanto più

deve questo essere presupposto specialmente in ogni singolo uomo, fino a che il contrario non si

manifesti con certezza, se no lo stato integro originario, là dove si potrebbe trovare ancora sano,

potrebbe anche facilmente essere distrutto. Ma se dal complesso dell'uomo da educare sorge la certezza

dell'alterazione dell'elemento originario, se tale alterazione proviene sicuramente dall'interno e dal tutto

esterno, allora interviene precisamente in tutta la sua energia quella forma di educazione che determina

e pretende.

Ma non sempre si può, anzi spesso è difficile, dimostrare con certezza il corrotto manifestarsi

dell'interno, o almeno il punto, la fonte dalla quale la manifestata corruzione ebbe l'origine, il principio,

la direzione che ha preso. Per di più l'ultima pietra di paragone, infallibile per la sua natura, è posta

riguardo a ciò proprio e solo nell'uomo stesso. Perciò anche da questo punto di vista l'educazione,

l'insegnamento ed ogni istruzione devono di gran lunga tollerare, assecondare, più che determinare e

prescrivere, poiché attraverso quest'ultimo procedimento andrebbe purtroppo perduto il puro continuo

svolgimento, il sicuro e costante perfezionamento del genere umano, vale a dire la rappresentazione

con libertà e spontaneità del divino nell'uomo e mediante la vita dell'uomo, il che costituisce l'unica

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mira e la sola aspirazione di ogni educazione e di ogni vita, come pure l'unica destinazione dell'uomo.

Perciò la forma di educazione dell'uomo, la quale puramente determina, esige e prescrive, comincia

propriamente quando comincia la consapevolezza di sé, quando comincia l'unione di vita tra Dio e

l'uomo, quando ha principio la comprensione e la comunità di vita tra padre e figlio, tra giovane e

maestro, perché allora si può dedurre e riconoscere la verità dall'essenza del tutto e dalla natura del

singolo.

Prima dunque che il turbamento e la corruzione dell'originario, sano stato dell'educando sia in

particolare dimostrata nell'origine e nella direzione e riconosciuta con certezza, non rimane altro da fare

che collocare lo stesso educando in rapporti ed ambienti che lo riguardino da ogni punto di vista, dove

la sua condotta gli si rifletta da diversi lati attraverso se stessa come in uno specchio ed egli la

riconosca con facilità e rapidità nei suoi effetti e conseguenze, dove il suo vero stato possa essere

facilmente riconosciuto da lui stesso e da altri, e dove il prorompere e il manifestarsi dell'interno

turbamento della vita nuocciano il meno possibile».

RAFFAELLO LAMBRUSCHINI (1788-1873)

R. Lambruschini, Della educazione, [1849], Introduzioni e note di Mario Casotti, V edizione, La

Scuola, Brescia 1944.

Capitolo II - Uffizi dell’educatore, pp. 77-78

«[…] L'educatore esercita l'autorità della famiglia e ne adempie i doveri, verso l'uomo che nella

famiglia nasce, e per la famiglia entra nella vita esteriore dello spirito: alla vita per sé, alla vita pei

simili a sé. L'educatore porge così al fanciullo bisognoso di tutto i sussidi che il fanciullo nato per la

società deve attendere dalla società, perché un giorno possa retribuirla coi suoi servigi.

Sussidi pari a quelli che le altre sociali autorità porgeranno un giorno a lui divenuto adulto; e sussidi

tutti proprii di questa paterna e materna autorità; la quale, se a guisa che la gallina i pulcini, fa

schiudere e crescere le potenze del corpo, altresì fomenta e invigorisce e governa le spirituali potenze

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del fanciullo, e ne previene o ne risana le malattie, e predispone così e mena il fanciullo a ricevere i

soccorsi della sapienza umana e divina.

L'educazione dunque ha due grandi uffizi: 1. di dar mano allo spiegarsi, al rinvigorire, al non deviare,

all'operare regolato delle forze intrinseche della nostra natura; 2. di recare anticipatamente al fanciullo

il soccorso di quelle cognizioni, di quelle norme e di quegli aiuti, che dalla società egli deve ricevere,

per la osservanza della legge morale del suo spirito in pro suo stesso, e in pro degli uomini suoi

consorti.

Quali difficoltà si parino dinanzi nell'adempimento di questi altri uffizi; per quali disposizioni debba

l'educatore preparare se stesso a superarle; con quali modi possa e debba la sua opera essere esercitata,

noi esamineremo nei capitoli seguenti; e vedremo così a mano a mano aprirsi ai nostri occhi le parti del

difficile magistero dell'educazione; le quali come in iscorcio sono inchiuse nella generalità delle cose

da noi stabilite».

Capitolo III - Difficoltà dell’educare, disposizioni dell’educatore, pp. 79-81

L'educatore adunque è più cooperatore che operatore dell'educazione del fanciullo. Se l'opera è ben

condotta, sarà il fanciullo quello che veramente educherà se stesso. Il padre e la madre, o chi è in luogo

di loro, non mettono il bene nell'animo del fanciullo, ma ve lo fanno nascere. Il loro ufficio è spesso più

di osservare che di fare; e il fare è l'azione che prepara, che pone in condizioni propizie, che aiuta

l'operazione interiore dello spirito del fanciullo; ma non la preoccupa mai, non si scambia a lei, non la

impedisce, non la turba. E' saggezza che veglia attenta e spia il bisogno e l'opportunità di intervenire;

ma non interviene mai per proprio piacere; interviene anzi di meno che può. E' amore disinteressato che

non opera per sé, ma pel bene altrui; che rispetta la libertà e la dignità dell'uomo ancor nelle fasce, e lo

contrista il meno che può; ma pure sa contenerlo e contristarlo a salute. E' accorgimento che giunge a

far divenire pensiero e volontà dell'educato, il pensiero e la volontà dell'educatore; che sa farsi

obbedire, stimare e riamare, anco allorquando egli è costretto di dispiacere.

Insomma, i depositari dell'autorità della famiglia sono i ministri d'una Provvidenza materna, che ha

voluto far concorrere l'opera scambievole dell'uno sopra l'altro uomo, al loro intellettuale e morale

incremento, acciocché i vincoli della famiglia e della società si stringessero viemaggiormente, e si

suscitasse in loro e si mantenesse quel sentimento di fraternità, che apre l'animo all'amore del Padre che

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è in cielo.

Le difficoltà dell'educare stanno dunque, più che altrove, nell'educatore. Ecco la gran conseguenza che

scende dal giusto concetto di quel che può e di quel che deve l'educazione. Ecco in qual modo

l'educazione è difficile, grandemente difficile. Ma ecco insieme perché l'educazione è ufficio così

augusto, così utile ai medesimi educatori, e così soave di quella celeste soavità che ristora l'anima

illanguidita dalle miserie della terra.

Il senno, l'operosità e soprattutto le virtù dell'educatore, sono adunque condizione prima dell'educare. E

non sono soltanto, perché l'educatore ha da essere l'esemplare, la forma dell'educato (di che diremo

parlando de' modi co' quali l'opera educatrice si esercita), ma sono altresì condizione impreteribile, in

qualità di potenza dominatrice della volontà dei fanciulli, e la sola che invincibilmente e paternamente

la padroneggi; sono tali ancora come sostegno e conforto di chi educa, affin di reggere i pesi e soffrire

le noie dell'educazione».

FERRANTE APORTI (1791-1858)

F. Aporti, Manuale di educazione ed ammaestramento per le scuole infantili, Tipografia della Svizzera

italiana, Lugano 1846, in Id., Scritti pedagogici editi e inediti, a cura di A. Gambaro, Chiantore, Torino

1944, vol. I, pp. 22-24.

[L’educazione deve essere fisica, intellettuale e morale]

«L’uomo ha una lunga infanzia di tutte le sue facoltà, e come assai cure è necessità adoperare allo

sviluppo delle sue forze fisiche ed a renderle robuste, altrettanto almeno adoperar si deve per le sue

facoltà intellettuali e morali. Come cresce e si fa robusto nel corpo (che è strumento delle sue

operazioni intellettuali e morali), così deve accrescere e farsi robusto nell’anima, educando a verità la

mente, e il cuore a virtù. Dalle mancate o false direzioni ed istruzioni, le sue facoltà stesse rimangono

quasi ottenebrate e ottuse.

L’arte che insegna a sviluppare le facoltà del fanciullo ed a dirigerle colla maggior efficacia e sicurezza

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alla debita perfezione chiamasi educazione. E poiché le facoltà dell’uomo sono di triplice ordine,

fisiche, morali ed intellettuali, così di tre specie è pure l’educazione, cioè fisica, morale ed intellettuale.

L’arte poi che insegna a comunicare alla mente dei fanciulli cognizioni ed abilità tali da poter agire da

sé colle proprie facoltà chiamasi istruzione. Anche l’istruzione può dividersi in fisica, morale ed

intellettuale, giusta le abilità parziali che si comunicano ai sensi, o all’intelletto, od al cuore. […] L’arte

pertanto che dirige il maestro a ben educare ed istruire i fanciulli è quella che noi diciamo pedagogia.

Ove si consideri che all’istitutore dell’infanzia si consegnano da istruire fanciulli digiuni ancora d’ogni

cognizione, imperiti dell’arte di acquistarne, infermi di ragione, deboli di corpo, si scorge tosto che non

potrà egli impartire con successo l’ammaestramento, se prima non prepari convenevolmente le facoltà

del fanciullo a riceverlo. Perciò si deduce che egli abbisogna di due arti: l’una che lo diriga a

sviluppare a dovere le facoltà de’ suoi alunni, l’altra che lo guidi a fornirli delle proporzionate e

convenienti abilità intellettuali e morali».

F. Aporti, Sulle scuole di Lombardia e principalmente sulle infantili, in Id., Scritti pedagogici editi e

inediti, a cura di A. Gambaro, Chiantore, Torino 1944, vol. I, pp. 201-206.

[Motivi storici e sociali che favorirono o intralciarono il sorgere delle scuole materne]

«Distrutte o rese inefficaci presso che tutte le forze morali e d’opinione dei secoli precedenti, per le

rivoluzioni che agitarono il mondo sul declinare del XVIII secolo e il principiare del nostro, nessun

altro appoggio rimaneva all’ordine sociale (parlo della Lombardia) tranne le istruzioni e pratiche

religiose diligentemente esercitate dai parrochi ne’ dì festivi […]. Di qui derivò in gran parte nel

popolo nostro quella crassa ignoranza d’ogni verità che è fondamento e conforto alla virtù e pietà vera:

ignoranza che minacciava di precipitare nella più spaventevole degradazione il pubblico costume.

Il Governo nostro sapientemente adottò l’unico rimedio atto a sanare radicalmente le piaghe morali di

un popolo, e quindi si fece ordinatore e propagatore dell’istruzione popolare erigendo le scuole

pubbliche elementari. Nel 1821 pertanto si videro aperte a carico del R. Erario le scuole maggiori

maschili e femminili in ogni città capoluogo di provincia […]. V’ebbero nei primi anni i detrattori del

sistema di popolare istruzione; i più, perché argomentavano i pericoli per soverchio esaltamento

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dell’umana mente, e non pochi (i furbi) perché travedevano nella dissipata ignoranza del volgo scemati

i mezzi del loro turpe guadagno […]. Ma i buoni cessarono dal temere, dappoiché videro che ove nella

pubblica istruzione si faccia progredire di pari passo la cultura morale ed intellettuale della gioventù,

ove i maestri siano educatori ed istruttori insieme di fanciulli, allora le scuole popolari diventano

medicina e preservativo dalla infezione de’ vizi. Si vide poi come i fanciulli allevati nelle scuole, e

giusta i metodi prescritti, son divenuti umani, intelligenti, pii, devoti; come invece rimangono rozzi e

violenti quei che non le frequentano; e come in fine non v’abbia altro mezzo, fuor questo, onde

prevenire tutti i danni che derivano al pubblico costume, e quindi alla religione pratica, dalla ignoranza

o dalla negligenza o dalla corruzione dei genitori incapaci di essere abili educatori della prole.

Ma nel generale impulso dato allo spirito di comune religiosa e letteraria educazione, ben presto si

ravvisò che per male avvertite cagioni il frutto delle pubbliche scuole non riusciva sì ubertoso, quale

sembrava riprometterlo e la ragionevolezza dei metodi, e l’utilità somma delle materie da insegnarsi, e

lo zelo dei maestri abilissimi; si presentarono ai pubblici istituti fanciulli già guasti nelle inclinazioni e

nell’intelletto, ovvero del tutto storditi, e questi era sommamente difficile di raddrizzare e condurli al

grado di progresso possibile all’età loro. Se ne indagarono più da vicino le cagioni, e si riconobbero

evidenti nel sistema vizioso delle così dette Scuole delle Maestre, alle quali suolsi fra noi consegnare i

fanciulli appena che sappiano camminare, e più ancora in molte parti della educazione domestica».

ARISTIDE GABELLI (1830-1891)

A. Gabelli, Il metodo d'insegnamento nelle scuole elementari d’Italia, [1880], La Nuova Italia, Firenze

1992.

III, pp. 71-72

«Tutto il segreto della buona riuscita della scuola sta nel saper trar profitto dell'istruzione che

qualunque bambino ha ricevuto prima di entrarvi, nel seguitare cioè dentro di essa, in luogo di rompere,

il filo delle idee che egli raccolse fuori. Quanto minore sarà il distacco tra la scuola e la vita che il

bambino condusse fino al giorno in cui vi mise piede, quanto più l'insegnamento del maestro

somiglierà alla istruzione ch'egli ricevette dalla natura, tanto maggiore sarà il suo piacere e perciò il suo

profitto. Noi non abbiamo infatti, né potremmo avere curiosità dell'ignoto. Bisogna che una cosa ci sia

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nota a metà, perché ci venga il desiderio di conoscerla intera. In altre parole, impariamo volentieri

soltanto quando ci si lascia credere che presso a poco già sapevamo quello che ci si insegna. Allora la

compiacenza che scatta subito dall'amor proprio ravviva e tien desta la nostra attenzione, e con questo

solo si è già fatto mezzo il cammino.

Ma qual è la vita che il bambino fece prima di entrare alla scuola? Quella dei sensi, che furono, si può

dire, i soli suoi maestri. Continuiamo dunque questa prima istruzione della natura, in luogo

d'interromperla in guisa ch'egli ne resti confuso e umiliato, e insieme cerchiamo di secondare quant'è

più possibile i suoi utili istinti e le sue inclinazioni.

I fanciulli giocano dunque dei giochi che rammentino loro le cose vedute in casa, per le strade, in

campagna, che attraggano la loro curiosità, e insieme procaccino loro il piacere di far da sé qualche

cosa».

IV, pp. 79-81

«[…] Siccome poi delle cose sensibili l’idea più chiara si acquista per mezzo dei sensi, così non si

descrive soltanto, e meno ancora si definisce, ciò che può far vedere e toccare, ma si presenta agli

scolari o in natura, se è fattibile, o, se no, in plastica o in disegno, l’oggetto stesso su cui è caduto il

discorso. Si parla, suppongasi, dell'elefante. Il maestro, e il maestro campagnuolo principalmente,

volendo spiegare che cosa significhi questo nome, ha un bel sudare co' suoi contadinelli, predicando

loro che è un animale ben grande, di colore cenerognolo, grosso di testa, col dorso in arco, con quattro

gambe massicce a guisa di colonne e un lungo naso elastico penzoloni fra due enormi denti bianchi

sporgenti in fuori. Che conchiudono tutte queste parole? Che è questo strano naso? Che questi denti, ai

quali nessuno vide mai cosa simile? Malgrado questa e qualunque altra molto miglior descrizione,

entrerà, come a dire, una nuvola nella testa di quei poveri fanciulli, tanto che ognuno di essi si fingerà

quest'animale alla sua maniera e in ultimo, meno il nome, ne saprà all'incirca come prima. Fate invece

che il maestro, dopo di avere abitualmente stuzzicato la loro curiosità, tragga fuori una tavola in cui

l'elefante sia dipinto: eccovi tutti gli occhi sospesi in quella con una così bramosa curiosità, che

l'immagine va ad imprimersi profondissima nella memoria e non si cancella per tutta la vita.

Quell'immagine offerta appena è come una rivelazione, dissipa tutti gli errori, tutte le idee preconcette,

tutti i pregiudizi, è la viridica parlante, e non lascerà luogo mai più a fole, a vane meraviglie, a

esagerazioni.

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Ma il maestro ha poi finito col mettere fuori all'occasione un oggetto qualunque in plastica o dipinto

sopra un cartone e farlo vedere a’ suoi alunni? Quest'ufficio sarebbe in verità troppo semplice, e la

pedagogia non se ne accontenta. Che bell'occasione, quando la curiosità è desta, quando c'è

un'immagine precisa e netta davanti agli occhi che raccoglie tutta l'attenzione, quando tutti quei visini

stanno là attenti e silenziosi rivolti al loro maestro, che bell'occasione per lui, diciamo, di mettere delle

idee nuove in quelle menti aperte e vogliose, di fecondare quella prima impressione, di tirar dentro

storia, geografia, costumi di popoli, tutto, e rimandare a casa i suoi bimbi con ben altro bottino che

quelle regole della grammatica imparate a memoria senza capirle a forza di rimbrotti e di castighi. Ma

l'elefante! É quell'animale che Pirro condusse in Italia, quando ci venne per muover guerra ai Romani e

di cui i Romani in principio avevano tanta paura. Del resto, l'elefante c'è in molti paesi, c'è in Asia e c'è

in Africa; in Asia mansueto, in Africa invece selvaggio; selvaggio, ma non per questo inutile all'uomo.

Anche dove non lo si adopera per gli usi della vita quasi come da noi l'asino e il bue, gli si dà la caccia

per averne l'avorio, di cui si fa un commercio misterioso, per via di molte tribù intermediarie,

cogl'indigeni del centro dell'Africa ancora poco conosciuti. E qui all'uopo nuove tavole cogl'Indiani che

caricano gli elefanti, e le case, le piante. Gli aspetti dei paesi di cui si parla. Al bisogno, il maestro si

leva e disegna sulla lavagna il bacino di un fiume, una capanna, un canotto. Tutti gli occhi son lì

sospesi a quella tavola nera; che silenzio da sentir volare una mosca, che attenzione, che rispetto per

quel bravo maestro, che scuola!».

A. Gabelli, L'istruzione e l'educazione in Italia, [1891], La Nuova Italia, Firenze 1950.

XII- Sul lavoro manuale nelle scuole di Germania, pp. 201-213 (si tratta di un saggio già pubblicato da

Gabelli nella rivista «Risveglio educativo» del gennaio 1887).

I.

«Il lavoro fu senza dubbio da tempi immemorabili oggetto di insegnamento. Certamente si insegnò a

lavorare molto prima che non a leggere, poiché la vita civile non incomincia altrimenti. Ma non per

questo mi fermerò a cercarne le origini nei primordi della civiltà e neppure in Egitto, od in Babilonia.

Noterò soltanto che il lavoro s'è insegnato fra noi lungo tutto il medioevo da alcune corporazioni

religiose e da istituti di beneficienza, e s'insegna ancora oggi negli orfanotrofi, negli istituti dei ciechi e

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dei sordomuti e infine nelle scuole degli artieri e nelle industriali e professionali. Però tutto questo

lavoro, che pure fu ed è oggetto di insegnamento anche nelle scuole, non ha a che fare con quel lavoro

che chiamasi manuale e di cui si parla al presente.

Bisogna infatti distinguere il lavoro che costituisce l'oggetto speciale, o almeno il principale di una data

scuola, ch'è fine a se stesso, che mira al guadagno, da quel lavoro che in una scuola viene aggiunto alle

altre materie di studio coll'intento puramente pedagogico di sviluppare in modo armonico tutte le

attitudini umane e di rendere men incompiuta l'educazione. Soltanto di questa seconda specie di lavoro,

che non è un fine ma un mezzo, e si adopera soprattutto come correttivo di un'istruzione intellettuale,

che indebolisce il corpo e a cui si congiungono pure non pochi danni, può essere discorso qui. Ciò

segnatamente parlando della Germania, dove le istituzioni che insegnano invece quell'altro lavoro, che

avvia ad un'arte e mira direttamente alla vita, sono, oltreché molto anteriori di origine, così varie di

intento e copiose di numero, da non bastare a renderne conto anche fuggevolmente, un volume.

Per verità neppure il lavoro pedagogico, il lavoro cioè che va introducendosi nelle scuole come

contrappeso, se così si può dire, all'istruzione intellettuale, o come strumento educativo, si può

chiamare del tutto nuovo. L'idea almeno non è nuova, tanto che ne parlarono chiarissimamente, come

del mezzo più adatto a formar l'uomo tutto intero, Bacone, Montaigne, Comenius, Locke, Rousseau,

Basedow, Salzmann, Pestalozzi e più efficacemente di tutti Froebel. Ma il cammino dell'umanità non

sarebbe così faticoso e così lento, se le idee non abbisognassero di un tempo assai lungo, per passare

dall'uno ai molti e dal dominio del pensiero a quello dei fatti. Come di tante altre cose, così avvenne

anche dell'introduzione del lavoro nelle scuole. Benché da tre secoli, col risorgere degli studi classici e

dell'ammirazione per l'antichità, si sia cominciato a farne parola da alcuni solitari pensatori, benché da

allora si scorga nella storia della pedagogia una traccia non interrotta della medesima idea, quest'idea

non si vede produrre il suo effetto ed entrare in pratica se non da pochi anni.

A farla trapassare dai libri nella vita contribuì più di tutti il Froebel, in quanto guidato dal suo concetto

dell'educazione armonica e compiendo il metodo del suo maestro, il Pestalozzi, a destare la curiosità e

l'attenzione e a fornire idee chiare delle cose, infliggendole profondamente nella memoria, non credette

bastevole il vedere e il toccare. A questi fini stessi, oltreché a secondare il naturale istinto dei fanciulli,

a trar partito dalla loro alacre irrequietezza, a variare gradevolmente l'insegnamento procurando loro un

sano sollievo, a prepararli, esercitando per tempo l'occhio e la mano, alla vita, egli credette dover

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conferire sopra tutto il lavoro, o in altri termini, non già soltanto il vedere o il toccare, secondo il

metodo del Pestalozzi, ma il fare».

[...]

II.

«Esposti i fatti, vediamo se sia possibile trarne qualche conclusione non del tutto inutile per noi.

Dalla storia della pedagogia si vede chiaro, che gli sforzi di tutti i riformatori mirarono in ogni tempo a

un unico intento, a ringiovanire la scuola e riaccostarla alla vita. I mezzi da essi proposti differirono

grandemente, ma il fine fu sempre lo stesso e uno solo.

La storia dei mezzi posti innanzi a questo intento è in conchiusione la storia della pedagogia. Inutile

quindi avvertire che qui non è luogo neppur di accennarli. Dirò soltanto che il mezzo, non già proposto,

poiché, come fu avvertito, la proposta è antica, ma sperimentato più di recente, è il lavoro manuale.

Le ragioni teoriche molte e gravi, che lo raccomandano, combinano, fu già notato, colle condizioni

economiche e industriali del nostro tempo. Ma appunto perciò non si può non vedere, che sospinta

com'è dal duplice impulso delle teorie pedagogiche e delle inclinazioni del tempo, la cosa procede a

passo stentato e assai lento. In Germania, infatti, un paese tutt'altro che restio alla novità in materia di

istruzione e dove il Froebel era già corso innanzi ad aprir la via, quest'opera è incominciata da più di

venti anni e ancora oggi non vi si parla se non di prove, di esperimenti e di saggi. Le scuole in cui è

introdotto il lavoro sono assai poche in paragone alle altre, forse una o due in cento; anche in queste gli

alunni ammessi al lavoro si riducono a un piccolo numero rispetto agli iscritti alla scuola; infine il

lavoro è sempre una materia facoltativa aggiunta alle altre fuori delle ore di studio, come si potrebbe

aggiungervi la scherma o un altro esercizio, talvolta in un locale che non è neppure annesso alla scuola,

e tal altra senza legame alcuno coll'istruzione intellettuale.

[...]

Il lento procedere del lavoro manuale come materia aggiunta all'istruzione intellettuale nelle scuole

ordinarie, ha le sue grandi ragioni, perché tanto son forti le considerazioni teoretiche con cui si suole

raccomandarlo, altrettanto gravi sono le difficoltà da superare nel porlo in pratica. Il lavoro quale è

oggi, e prescindendo da espedienti che fino ad ora non furono trovati, non può essere insegnato che

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individualmente, all'incirca come si fa ai garzoni nelle officine e nelle botteghe. Ciò limita a un piccolo

numero gli alunni ammissibili contemporaneamente nelle officine, tanto più che non è facile il

mantenere, durante il moto e lo strepito del lavoro, la disciplina; donde la necessità di un considerevole

numero di locali e di un numero proporzionato di maestri, e una spesa che i governi, né per la maggior

parte i comuni, sono disposti a sostenere. Ma a ciò sono da aggiungere le discrepanze intorno al

metodo, che varia infinitamente per la qualità e l'ordine dei lavori e del quale si può quasi dire per ora

che ognuno ha il suo.

In Germania prevale un metodo eclettico venuto su in parte dal Froebel (il cartonaggio), in parte tolto

dall'esempio della Svezia (oggetti in legno di uso domestico), o inventato e in via di continuo

miglioramento (costruzione di strumenti scolastici). Ma poi chi accetta la modellatura in creta e chi no,

chi aggiunge al lavoro del legno quello dei metalli e chi l'esclude, chi considerando la scuola come uno

strumento di preparazione alla vita, vorrebbe dare al lavoro un indirizzo più usuale, più direttamente

proficuo, e un intento più industriale, chi ritenendo che la scuola debba predisporre le attitudini,

anziché farle fruttificare, preferisce una parte o l'altra del lavoro, secondo che questa o quella viene

giudicata conferir meglio al fine desiderato.

Che se usciamo dai confini della Germania, le discrepanze diventano molto maggiori. In Francia, per

esempio, è addirittura un altro modo, tanto che non mi par inutile di notare almeno fuggevolmente le

differenze principali».

GEORG KERSCHENSTEINER (1854-1932)

G. Kerschensteiner, Il concetto di scuola di lavoro, [1911], tr. it., Bemporad, Firenze 1935.

II. L’educazione professionale come primo compito, pp. 23-26

«Il primo e più importante compito della scuola pubblica (popolare, d’integrazione e secondaria)

consiste nella educazione alla professione, o almeno nella preparazione alla professione. Ma un uomo

del valore di Pestalozzi era intimamente penetrato da questa idea sebbene a lui, come a me, stesse

dinanzi agli occhi, quale scopo finale, la totale educazione dell’uomo. Pestalozzi non si stancò mai di

battere su questo primo e preponderante compito. Alla “vita libresca” della scuola egli oppose

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volentieri la “vita della professione”. […] Appunto come figlio del suo tempo egli non si libera mai dal

pensiero che la professione del suo allievo si debba svolgere nella condizione sociale in cui esso è nato.

Molte parti del suo Canto del cigno, nel quale egli raccoglie le esperienze e le intuizioni pedagogiche

della sua vita, sono piene di questa concezione del primo compito della scuola popolare. Dati i rapporti

assai più semplici del suo tempo, nessun pensiero era più naturale che quello di adattare l’intima

organizzazione della scuola primaria ai fini dell’ambiente da cui erano tratti gli allievi e in cui

naturalmente avrebbero seguitato a crescere.

Queste condizioni sono cambiate negli ultimi cent’anni. E ciò non solo perché gli stati sociali come

classi fisse della organizzazione di Stato sono sparite, ma inoltre perché le condizioni di lavoro,

specialmente quelle determinate dall’industria, fanno in linea generale apparire impossibile una

struttura a carattere puramente professionale di quella scuola primaria che deve avere dinanzi agli occhi

i fini della formazione dell’uomo.

Nondimeno rimane ancor oggi assegnato alla scuola popolare elementare il compito di preparare

l’allievo alla professione futura. L’immensa maggioranza dei cittadini di uno Stato è destinata alle

occupazioni puramente manuali; e sarà sempre così. Giacché a ogni comunità umana occorre un

numero infinitamente maggiore di lavoratori manuali che non di lavoratori intellettuali. Inoltre le

inclinazioni e le attitudini degli uomini non si volgono dapprima affatto verso i domini della pura

attività intellettuale, ma verso quelli del lavoro manuale. Dal quale, nel corso della civilizzazione, si è

poi principalmente sviluppato il lavoro spirituale. Il lavoro manuale non è soltanto la base di ogni vera

arte, ma anche la base di ogni vera scienza. Una scuola pubblica, che deve insieme preparare a

professioni intellettuali e manuali, è perciò male organizzata se non ha nessun mezzo di sviluppare le

inclinazioni e le capacità pratiche dell’allievo. Ed è tanto peggio organizzata in quanto durante lo

sviluppo del fanciullo l’evoluzione fisica e manuale precede quella spirituale, e in quanto specialmente

dai tre ai quattordici anni dominano incontrastabilmente gl’istinti e le tendenze all’attività manuale. Per

delle scuole che debbono preparare soltanto alle professioni puramente intellettuali (e questo è il caso

per un vecchio gruppo delle scuole secondarie), per degli individui che, avendo smorzato i loro istinti

di attività manuale dopo che hanno fatto il loro dovere per educare all’uso normale le membra e gli

organi sensori, stanno quasi esclusivamente sotto il dominio delle tendenze intellettuali, io non ritengo

affatto necessarie delle istituzioni volte all’educazione dell’attività manuale (eccezion fatta per gli

esercizi puramente fisici nell’interesse di un’esistenza sana). Poiché ci sono uomini di questa specie e

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vocazioni alle quali essi si dedicano spontaneamente, così io posso anche immaginare delle scuole di

lavoro bene organizzate, che non conoscano in nessun modo un’attività manuale svolta con officine

speciali qualsiasi o anche, a parte le officine speciali, con un qualsiasi esercizio didattico.

Per gli altri fanciulli, però, delle scuole che mancassero di tali istituzioni sarebbero delle scuole male

organizzate. Bisogna, in particolare, che ogni scuola primaria possieda, per le ragioni che abbiamo

indicate, dei locali per il lavoro pratico, officine, giardini, cucine, sale di cucito, laboratorî, che

permettano di sviluppare sistematicamente le tendenze all’attività manuale, abituando l’allievo a

esercitarsi nei diversi processi del lavoro in maniera sempre più accurata, più onesta, più coscienziosa,

più ponderata. È il solo mezzo per ottenere una delle basi fondamentali per l’insegnamento

professionale che sarà dato in seguito e direttamente nella scuola complementare, creando al più presto

l’abitudine a un lavoro manuale intelligente di valore esemplare, solido, onesto, in una parola,

severamente condotto. In altri termini, e per servirmi di una formula nota: bisogna che in una scuola

popolare pubblica ben organizzata l’insegnamento del lavoro costituisca anche una disciplina speciale a

parte. Questo insegnamento del lavoro come disciplina non è una “profanazione” della scuola popolare,

ma al contrario la sua maggiore fortuna. In Baviera, da più di cento anni, in un gran numero di classi

femminili venne svolto l’insegnamento del lavoro come disciplina, e in Monaco, da quasi

cinquant’anni, con una media di non meno di tre ore settimanali: e a nessuno è fino ad oggi saltato in

mente di considerare questo insegnamento, che va tranquillamente per la propria strada, come una

profanazione della scuola femminile e di cancellarlo dal programma della scuola stessa. Qui però si

obietterà forse: far la calza, cucire, accomodare biancheria e rammendarla è la professione di quasi tutte

le ragazze; ma non tutti i ragazzi scelgono la stessa professione manuale. Ciò è giusto. Ma non se ne

concluda che proprio per ciò non si deve introdurre nessun insegnamento sistematico del lavoro

nell’interno organismo della scuola; una tale conclusione sta press’a poco allo stesso livello di quella

secondo la quale, dal momento che non a tutti gli uomini conviene lo stesso nutrimento, è meglio non

dar loro nessun nutrimento».

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ROBERT BADEN-POWELL (1857-1941)

R. Baden-Powell, Scautismo per ragazzi, [1908], tr. it., X ediz., Edizioni Scout Fiordaliso, Roma 2006.

2a chiacchierata al fuoco di bivacco

Cosa fanno gli esploratori, pp. 36-43

«Le cose che seguono sono quelle che dovete conoscere per divenire buoni Esploratori.

Vita all'aperto. Il campo è la parte gioiosa della vita di uno scout. Vivere fuori, all'aperto, tra

montagne ed alberi, tra uccelli ed animali, tra mare e fiumi, in una parola vivere in mezzo alla natura di

Dio, con la propria casetta di tela, cucinando da sé ed esplorando: tutto questo reca tanta gioia e salute,

quanta mai ne potete trovare tra i muri ed il fumo della città.

Anche l'hike è una splendida avventura, quando ci si spinge innanzi ogni giorno ad esplorare nuovi

luoghi. Vi fortifica e vi indurisce in modo tale che poi non temerete più né vento né pioggia, né caldo

né freddo.

Li prenderete come verranno, provando quel senso di forma fisica che vi metterà in grado di affrontare

ogni fastidioso inconveniente con un sorriso, ben certi di vincere alla fine.

Ma, naturalmente, per godere appieno del campo come dell'hike dovrete conoscere il giusto modo di

farli.

Dovrete piantare una tenda o costruirvi una capanna; preparare ed accendere un fuoco; cucinarvi il

cibo; legare assieme tronchi e bastoni per fare un ponte o una zattera; trovare il cammino in una regione

sconosciuta, di notte come di giorno; e molte altre cose.

Sono molto pochi coloro che apprendono queste cose vivendo in luoghi civilizzati, dato che tutti hanno

comode case e soffici letti in cui dormire. C'è chi prepara loro il pranzo e quando hanno bisogno di una

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indicazione stradale si rivolgono ad un agente.

Ma quando questa gente desidera andare in campagna, esplorando, si trova completamente perduta.

Prendete anche il vostro idolo sportivo preferito e portatelo a contatto della natura, a fianco ad un tipo

allenato al campeggio, e state a vedere chi riuscirà a bastare a se stesso. I suoi grandi record sportivi

non gli serviranno gran che nell'ambiente naturale. Sarà soltanto un "piede tenero".

Scienza dei boschi. La scienza dei boschi è la conoscenza degli animali e della natura. S'imparano a

conoscere le diverse specie di animali, seguendo le loro tracce ed avvicinandosi a loro, strisciando in

modo da poterli osservare allo stato libero e studiare le loro abitudini.

Tutto il valore sportivo della caccia agli animali è nell'arte di avvicinarli senza essere visti, non

nell'ucciderli. Nessun Esploratore uccide un animale di propria volontà per il semplice piacere di

uccidere, ma soltanto quando ha necessità di cibo, o nel caso di un animale pericoloso. L'osservare

continuamente gli animali allo stato libero li fa troppo amare per poterli uccidere.

La scienza dei boschi comprende, oltre l'abilità nello scoprire le impronte ed altri piccoli segni, la

capacità di leggere il loro significato, come ad esempio l'andatura che teneva l'animale se era

spaventato o tranquillo, e così via. Essa, inoltre, mette in grado il cacciatore di trovare la strada nella

giungla o nel deserto. Gli insegna quali siano i migliori frutti selvatici e radici per cibarsene, o quali

rappresentino il cibo preferito di determinati animali, e che perciò, verosimilmente, hanno il potere di

attirali.

Allo stesso modo in luoghi abitati, si potranno leggere le tracce di uomini, cavalli, biciclette,

automobili e ricostruire da esse ciò che è accaduto. Imparerete a comprendere, da piccoli indizi - come

un uccello che si levi improvvisamente in volo - che c'è qualcuno che si muove nelle vicinanze anche

se non potete vederlo.

Osservando il contegno o gli abiti delle persone, e ricollegando questi a quello, potrete a volte intuire

che si preparano a compiere qualche cosa di brutto. Od anche sarete in grado di accorgervi quando esse

si trovano in difficoltà ed hanno bisogno di simpatia o aiuto, e così potrete compiere quello che è uno

dei principali doveri dello Scout, cioè di aiutare con ogni e qualsiasi mezzo coloro che sono in

difficoltà.

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Ricordatevi di un Esploratore che considera un'onta per sé, quando si accompagna a qualcuno, che altri

riesca a vedere qualsiasi cosa, grande o piccola, lontana o vicina, alta o bassa, prima che egli stesso

l'abbia notata.

Cavalleria. Nei tempi antichi i cavalieri erano veri Scout e le loro Regole erano molto simili alla Legge

scout che noi abbiamo ora. I cavalieri consideravano il proprio onore come il loro più sacro bene.

Non avrebbero mai compiuto un'azione disonorante, come dire una menzogna o rubare. Sarebbero

piuttosto morti. Erano sempre pronti a combattere e a farsi uccidere per difendere il loro re, la loro

religione o il loro onore.

Ogni cavaliere aveva un piccolo seguito composto da uno scudiero e da alcuni uomini d'arme, proprio

come il nostro Capo Pattuglia ha il suo secondo (o Vice) e quattro o cinque Scout.

Il codice dei cavalieri. La pattuglia del cavaliere era solidale con lui nel bello come nel brutto tempo, e

tutti condividevano l'ideale del capo, cioè:

Il loro onore era sacro.

Erano leali verso Iddio, il Re e la Patria.

Erano specialmente cortesi e gentili verso tutte le donne, i bambini e le persone deboli.

Erano pronti ad aiutare chiunque.

Erano prodighi di aiuto in denaro o cibo a chi ve ne avesse bisogno, e risparmiavano denaro a questo

scopo.

Si esercitavano all'uso delle armi per poter difendere la religione e il loro Paese dai nemici.

Si mantenevano sempre forti, attivi ed in buona salute, per poter adempiere bene a tutti questi doveri.

Voi Scout, non potrete fare di meglio che seguire l'esempio dei cavalieri.

Un punto importantissimo per loro era quello di compiere ogni giorno una Buona Azione verso

qualcuno, e questa è anche una delle nostre norme.

Quando vi alzate al mattino ricordatevi di avere una Buona Azione da compiere a vantaggio di

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qualcuno durante la giornata. Fatevi un nodo al fazzoletto per ricordarvene. Se mai vi capitasse di aver

dimenticato un giorno la Buona Azione, il giorno successivo ne dovrete fare due. Pensate che nella

Promessa scout vi siete impegnati sul vostro onore a compierla. Guardatevi bene, però, dal pensare che

gli Scout debbano fare una sola Buona Azione al giorno. Una è loro dovere, ma se saranno cinquanta,

tanto meglio.

Una Buona Azione, può essere anche minima. E' una Buona Azione anche il mettere un soldino nella

cassetta dei poveri, o aiutare una vecchia donna ad attraversare una strada o far posto a sedere a

qualcuno, o dare da bere ad un cavallo assetato, o togliere una buccia di banana dal marciapiede. Ma

una deve essere compiuta ogni giorno, ed ha valore soltanto se non avrete accettato in cambio una

ricompensa.

Salvataggi. L'uomo che salva la vita d'un fratello, come può capitare in improvvisi incidenti

spaventosi, quali ne avvengono nelle grandi città, miniere, stabilimenti, durante la vita d'ogni giorno, è

un eroe non meno del soldato che si getta nel fitto di una mischia per salvare un compagno nel bel

mezzo dell'eccitamento di una battaglia.

Migliaia di Esploratori hanno meritato medaglie al valore per salvataggi, e spero che molti altri faranno

altrettanto.

E' cosa certa che a molti di voi, un giorno o l'altro, si offrirà l'occasione di salvare una vita. Ma per

questo dovete essere preparati. Occorre che sappiate cosa fare al momento in cui accade l'incidente e

lo poniate in atto sul momento. Non è sufficiente leggere qualche cosa in un libro e credere di sapere

cosa fare. Occorre esercitarsi, ed anzi esercitarsi spesso, a fare ciò che occorrerebbe in caso di

necessità, come, per esempio, coprirvi la bocca ed il naso con un fazzoletto bagnato per poter respirare

nonostante il fumo; strappare un lenzuolo in strisce per formare una corda e salvarsi da un incendio;

aprire un chiusino per fare entrare l'aria in una fognatura piena di gas; sollevare e trasportare una

persona svenuta; salvare e rianimare una persona apparentemente asfissiata e così via.

Quando avrete imparato tutte queste cose avrete fiducia in voi stessi, e quando accadrà l'incidente, e

tutti avranno perduto la testa, non sapendo cosa fare, voi potrete farvi avanti con calma e fare ciò che

deve esser fatto.

Resistenza. Per adempiere a tutti i doveri ed a tutto il lavoro di uno Scout, occorre essere forti, pieni di

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salute ed attivi. Ogni ragazzo può diventarlo con un po’ di attenzione.

Naturalmente ciò implica un bell'allenamento, come giochi, corsa, marcia, ciclismo ecc.

Uno Scout dovrebbe dormire molto all'aperto. Un ragazzo abituato a dormire con la finestra chiusa

prenderà quasi certamente un raffreddore la prima volta che proverà a dormire fuori. Il segreto è di

dormire sempre con la finestra aperta, d'estate e d'inverno, e non prenderete mai raffreddori.

Personalmente non riesco a dormire con la finestra chiusa e le persiane abbassate, e quando mi trovo in

campagna preferisco dormire fuori della casa.

Pochi esercizi ginnastici ogni mattina ed ogni sera costituiscono un ottimo mezzo per tenervi in forma:

non tanto per formare vistosi muscoli, quanto per muovere gli organi interni e stimolare la circolazione

del sangue in ogni parte del corpo.

Ogni vero Scout fa regolarmente il bagno tutti i giorni. Se non ha la possibilità di farlo, almeno si fa

ogni giorno una buona frizione con un asciugamano ruvido bagnato.

Gli Scout respirano col naso e non con la bocca. In questo modo evitano di avere sete; non rimangono

tanto facilmente senza fiato; non ingurgitano ogni sorta di germi di malattie, che sono nell'aria, ed

infine non russano di notte.

Esercizi respiratori profondi sono di grande valore per sviluppare i polmoni e per immettere aria fresca

(ossigeno) nel sangue, purché si eseguano all'aria aperta e non si esageri. Per queste respirazioni

profonde, l'aria deve essere aspirata lentamente e profondamente col naso, e non con la bocca, fino a

che le costole siano distese al massimo. Poi, dopo qualche secondo, deve essere espirata dalla bocca

senza sforzo, lentamente e con regolarità. Ma la miglior respirazione profonda, dopo tutto, è quella che

si verifica naturalmente dopo una bella corsa.

Amore verso la Patria. La mia e la vostra Patria non sono sorte dal nulla. Sono state create da uomini

e donne con notevole duro lavoro e dure battaglie, spesso con il sacrificio delle loro vite, cioè con il

loro patriottismo pienamente sentito.

In tutto quello che fate, pensate prima di ogni altra cosa alla vostra Patria. Non impiegate tutto il vostro

tempo ed il vostro denaro soltanto per divertirvi, ma pensate prima a come rendervi utili per il bene

comune. Quando avrete fatto questo potrete onestamente e giustamente divertirvi a modo vostro.

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Forse non riuscite a capire come un semplice ragazzo ancora così giovane possa essere utile alla Patria,

ma diventando Scout e mettendo in pratica la Legge ogni ragazzo può rendersi utile.

"La mia Patria prima di me stesso" sia il vostro motto. Probabilmente, se v'interrogate lealmente,

troverete che fino a oggi avete fatto proprio l'opposto. Spero, se è così, che capovolgiate le cose fin da

questo momento e rimaniate poi sempre nel giusto. Non contentatevi, come facevano gli antichi

Romani, e qualche nazione oggi, di pagare altra gente che giochi nelle vostre squadre di calcio o

combatta per voi le vostre battaglie. Fate voi stessi qualche cosa per aiutare a tenere alta la vostra

bandiera. Se prenderete lo Scautismo con questo spirito, avrete fatto questo qualche cosa. Non

diventate Scout soltanto perché è un simpatico divertimento, ma perché diventandolo vi preparate ad

essere buoni cittadini, non soltanto della vostra Patria, ma del mondo intero.

Avrete allora in voi il più vero spirito di patriottismo, che ogni ragazzo deve avere in sé, se vale

qualche cosa. [...]».

JOHN DEWEY (1859-1952)

J. Dewey, Il mio credo pedagogico, in Id., Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti

sull’educazione, [1897], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2004, pp. 3-31.

Articolo I- Cos’è l’educazione, pp. 3-9

«Io credo che

- ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie. Questo

processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà

dell’individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i

suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge

gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare. Egli

diventa un erede del capitale consolidato della civiltà. L’educazione più formale e tecnica che esista al

mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o

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trasformarlo in qualche direzione particolare.

- La sola vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato sulle facoltà del ragazzo da parte delle

esigenze della situazione sociale nella quale esso si trova. Tali esigenze lo stimolano ad agire come

membro di un’unità, a uscire dalla sua originaria angustia di azione e di sentire, e a pensare a se stesso

dal punto di vista del benessere del gruppo del quale fa parte. Attraverso le reazioni degli altri alle sue

attività esso arriva a capire che cosa queste significano in termini sociali. Ad esse ritorna riflesso il

valore che esse hanno. Ad esempio, attraverso la risposta che si fa all’istintivo balbettare del fanciullo

questi giunge a comprendere il significato di questo balbettio. Esso si trasforma in linguaggio articolato

e in tal modo il fanciullo ha accesso alle ricchezze di idee e di emozioni che sono accumulate e

consolidate nel linguaggio.

- Il processo educativo ha due aspetti, l’uno psicologico e l’altro sociologico, e che nessuno dei due può

venire subordinato all’altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti

quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e

danno l’avvio a tutta l’educazione. Se gli sforzi dell’educatore non si riallacciano a qualche attività che

il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall’educatore stesso, l’educazione si

riduce a una pressione dall’esterno. Essa può dare dei risultati esterni, ma non può essere veracemente

chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell’individuo il

processo educativo sarà, perciò, accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll’attività del

fanciullo, ne verrà stimolato; altrimenti risulterà in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di

arresto della natura del fanciullo.

- La conoscenza delle condizioni sociali, o dello stato attuale della civiltà, è necessaria per potere

interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze, ma noi ne

ignoriamo il significato finché non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere

capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l’eredità di precedenti attività della specie.

Dobbiamo essere capaci altresì di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro

fine. Riferendoci all’esempio fatto sopra, è la capacità di scorgere nel balbettio del fanciullo la

promessa e la potenza di una futura attività di contatti e scambi sociali che permette di tenere in giusto

conto quell’istinto.

- L’aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e che l’educazione non

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può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell’uno

sull’altro. Si afferma che la definizione psicologica dell’educazione è nuda e formale, che ci dà soltanto

l’idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D’altra

parte si insiste che la definizione sociale dell’educazione come “adattamento” alla civiltà ne fa un

processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell’individuo a una situazione sociale e

politica presupposta.

- Ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato

dall’altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine, l’impiego o la

funzione, e ciò non è possibile se non si concepisce l’individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma

d’altra parte il solo possibile “adattamento” che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è

quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll’avvento della democrazia e

delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà da qui a

venti anni. È perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla

vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a

conseguire l’impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio, il suo orecchio e la sua

mano possano essere pronti strumenti di comando, che il suo giudizio possa essere capace di afferrare

le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire

economicamente ed efficientemente. È impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto

di continuo dei poteri, dei gusti, e degli interessi propri dell’individuo, cioè se l’educazione non è

costantemente convertita in termini psicologici.

Riassumendo, io credo che l’individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è

un’unione organica di individui. Se eliminiamo il fatto sociale dal fanciullo si resta solo con

un’astrazione; se eliminiamo il fatto individuale dalla società, si resta solo con una massa inerte e senza

vita. Perciò l’educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo,

dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve essere controllata ad ogni punto con riferimento a

queste stesse considerazioni. Tali facoltà, interessi e abitudini devono essere continuamente

interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro

equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale».

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J. Dewey, Democrazia e educazione, [1916], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 2000.

Cap. XXIII, L’educazione professionale, pp. 393-395

1. Il significato di professione

«Attualmente il conflitto delle teorie filosofiche è concentrato sulla discussione circa il posto e la

funzione che hanno i fattori professionali nell’educazione. L’affermazione nuda e cruda che le

differenze significative nelle concezioni filosofiche fondamentali hanno in questo argomento il loro

punto focale può risvegliare l’incredulità; sembra che vi sia una separazione troppo grande fra i termini

astratti e generali in cui sono formulate le idee filosofiche, e i dettagli pratici e concreti dell’educazione

professionale. Ma un esame mentale dei presupposti intellettuali che stanno alla base dell’opposizione

nel campo educativo fra lavoro e svago, fra la teoria e la pratica, fra il corpo e la mente, mostrerà che

essi culminano nell’antitesi fra l’educazione professionale e la culturale. Tradizionalmente, la cultura

liberale è stata congiunta con le idee di otium, di conoscenza puramente contemplativa, e di un’attività

spirituale che non implicava l’uso attivo degli organi del corpo. La cultura ha anche teso, ultimamente,

ad essere associata a un raffinamento puramente privato, la coltivazione di certi stati ed atteggiamenti

di coscienza, separati tanto dall’interesse che dalla funzione sociale. È stata un’evasione dal primo e un

conforto all’ineluttabilità del secondo.

Questi dualismi filosofici sono così profondamente intrecciati con tutto l’argomento dell’educazione

professionale, che si rende necessario definire il significato di professione in modo abbastanza

completo da poter evitare l’impressione che un’educazione che si concentri su di essa sia ristrettamente

pratica, se non puramente pecuniaria. Professione non significa altro che direzione delle attività della

vita in un senso che le renda percepibilmente significative per chi le pratica in virtù delle loro

conseguenze, ed anche utili ai suoi associati. Il contrario di attività professionale non è né l’ozio né la

cultura, ma la mancanza di scopo, il capriccio, l’assenza di acquisizioni cumulative nell’esperienza, dal

lato personale, e, dal lato sociale, il lusso vano, la dipendenza parassitaria dagli altri. Occupazione è un

termine concreto per continuità. Include tanto lo sviluppo della capacità artistica di ogni genere,

dell’abilità scientifica specializzata, dell’interesse politico attivo, quanto le professioni e gli affari, per

non parlare del lavoro meccanico o delle occupazioni lucrative.

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Dobbiamo evitare non solo che per occupazione s’intenda qualcosa di limitato alle occupazioni che

producono cose utili immediatamente tangibili, ma occorre evitare anche l’idea che le professioni siano

distribuite in modo esclusivo, di guisa che una persona non possa averne che una sola. Uno specialismo

così ristretto è impossibile; niente potrebbe essere più assurdo che cercare di educare gli individui ad un

unico genere di attività. In primo luogo, ogni individuo ha necessariamente una varietà di aspirazioni

cui può dare opera intelligente; e in secondo luogo qualsiasi occupazione perde il suo valore e diventa

una routine che asservisce a una data cosa, nella misura in cui è isolata dagli altri interessi.

1) Nessuno è solamente artista e niente altro, e quanto più uno si avvicina a questa condizione, tanto

più lo fa a detrimento della sua umanità; è una specie di mostro. In qualche periodo della sua vita egli

deve essere membro di una famiglia, deve avere amici e compagni; deve essere o finanziariamente

indipendente o dipendente da altri, e perciò occuparsi di affari. Egli è membro di qualche unità politica

organizzata, e così via. Naturalmente noi lo qualifichiamo professionalmente in base a quella delle sue

occupazioni che lo distingue, piuttosto che in base a quelle che ha in comune con tutti gli altri. Ma non

dovremmo lasciarci talmente legare dalle parole, da ignorare e virtualmente negare le altre sue

occupazioni, quando si tratta di considerare gli aspetti professionali dell’educazione.

2) Come l’attività di un artista professionista rappresenta il momento specialistico di una gamma di

attività professionali, così la validità della sua arte sul piano umano è determinata dalla sua connessione

con altri interessi. Uno deve avere esperienze, deve vivere, se la sua arte deve essere qualcosa di più di

un risultato tecnico. Egli non può trovare l’argomento della sua attività artistica nella sua arte; questa

deve essere un’espressione di quel che egli soffre e gode in altre relazioni, e questo dipende a sua volta

dalla prontezza e dalla vivezza dei suoi interessi. Ciò che è vero per un artista è vero anche per

qualsiasi altra forma speciale di attività. Senza dubbio ogni professione distintiva tende (conforme alla

legge dell’abitudine) a divenire troppo predominante, troppo esclusiva e troppo assorbente nel suo

aspetto specializzato. Il che significa che viene accentuata specialmente la prassi, l’aspetto tecnico, a

scapito del significato. Perciò compito dell’educazione non è già di incoraggiare questa tendenza, ma

piuttosto di mettere in guardia contro di essa, di modo che ricercatore scientifico non sia semplicemente

lo scienziato, maestro semplicemente il pedagogo, sacerdote chi indossa la tonaca e così via».

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ROSA AGAZZI (1866-1951)

R. Agazzi, Guida per le educatrici dell'infanzia (dalla rivista "Pro Infantia", annata 1929-1930),

[1932], II ristampa, La Scuola, Brescia 1959.

L'assistenza dei maggiori ai minori, pp. 42-43

«Quando noi mettiamo un bambino di cinque anni nella condizione di osservare un altro bambino

inferiore a lui per età e per intelligenza, e gli diciamo: vedi, egli qui in alto non può arrivare, perché è

basso di statura; vuoi tu aiutarlo? Egli non sa quello che tu sai; vuoi insegnargli qualche bella cosa?

Egli è debole e tu sei forte; vuoi tu proteggerlo?

Quando noi facciamo questo, applichiamo un principio della morale cristiana - l'amore per il prossimo -

mettiamo cioè le basi del sentimento della fratellanza. Chi non vede tutta la bellezza spirituale che in sé

racchiude l'incontro di due minuscole esistenze, di cui una prova l'impressione della propria pochezza,

l'altra la gioia nell'intuire che, avendo già superato quello stato di debolezza, si sente in grado di

insegnare ad altri a superarlo? Il maggiore dei due guidato dall'educatrice a ricordare il cammino

percorso. "E' vero", pensa: "Io pure un giorno ero piccolo di corpo e di mente, io pure ebbi chi mi aiutò

a intendere; poi appresi a fare da me solo; ora posso anche insegnare a chi non sa".

Ecco che il bambino si accorge di percorrere una via che lo conduce verso un progressivo

miglioramento della propria individualità; ogni giorno che passa egli vede dietro di sé un altro se stesso

in proporzioni ridotte. Questo fatto può risolversi per l'educando in salutare compiacimento, quando

l'educatrice sappia farlo rivivere nei rapporti di benevolenza fra il maggiore e il suo pupillo.

"Vedi? Questo lavoro che tu hai fatto, ieri non lo sapevi fare; ma oggi la tua mano, un poco meno

ignorante di ieri, ha imparato a muoversi con destrezza; gli occhi, più attenti, hanno veduto meglio; e

sei stato tu a comandare alla mano e agli occhi di essere un po’ più bravini, perché oggi anche tu hai un

pò più di giudizio di ieri... Il tuo piccolo nel vedere questo lavoretto penserà: 'Oh, guarda, il mio grande

cosa sa fare!... Lui sì, io no!...'.

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Si inizia, per tal modo, la virtù della longanimità.

Come avviene di ogni esercizio che più si ripete e più lascia traccia di sé, la frequente vicinanza del

maggiore al minore alimenta in ambedue il vincolo di una fraterna simpatia. Nulla di più bello del

vedere i bambini di tre anni intenti ad ammirare, nelle pose più varie, i loro tutori in faccende a

preparare un giocattolo proprio per loro uso. Guardano in silenzio, compresi delle azioni che vedon

succedersi nella fabbricazione del modesto oggetto, compresi anzitutto della bravura di chi lo compie.

Nulla di più grazioso di un maggiore che insegna al piccolo a innaffiare, senza bagnarsi, una

pianticella; a sollevarlo, perché possa con più agio osservare un disegno sulla lavagna; a rimboccargli

le maniche prima della lavatura; a insegnargli a pronunciare il nome di un fiore, ad allacciargli il

bavaglino, a spezzargli il pane; a vestirlo, a condurlo in guardaroba a riporre cose con ordine; a

segnargli il tempo mentre gli insegna un passo ritmico.

L'educatrice, anziché cercare di ridurre le occasioni di codesti avvicinamenti, dovrebbe proporsi di

moltiplicarle: ridurle, significa rinunciare a innumerevoli occasioni di aiutare la sensibilità affettiva de'

suoi alunni, mentre è specialmente dallo svolgersi di questa convivenza che ella dovrebbe far scaturire

il programma di una morale in azione. Con fine accorgimento ella porterebbe alla ribalta, senza darsi

l'aria di colpire, difetti e pregi della sua coorte, guidata sempre dall'intento di sottrarre i piccoli cuori

alle scorie dell'istinto, per renderli atti a intendere la gioia che ogni anima nobile prova volendo bene e

giovando al proprio simile».

Ordine, libertà e intraprendenza negli esercizi di vita pratica. (Ricordando l'asilo di Mompiano), pp.

265-268

«Quell'insigne educatore e didatta che era il Prof. Pietro Pasquali (di cui fortunatamente potei essere

discepola), lasciò scritto: "Tutti siamo convinti che l'ordine materiale influisce potentemente sull'ordine

morale, perché agisce direttamente sulla intelligenza, sull'igiene, sui costumi, sulla condotta, sul

carattere. Il disordine è causa di deplorevoli conseguenze; la vita disordinata sparge intorno miserie,

guai, dolori. Lo sappiamo tutti, ma non tutti sappiamo quali mezzi si devono mettere in opera.

Partiamo da un principio pedagogico: per far acquistare delle abitudini all'educando, bisogna farlo

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agire: per farlo agire, occorrono cose e condizioni favorevoli. Questa è norma di scuola nuova, in

sostituzione del vecchio sistema, tutto precetti e massime.

L'esercizio dell'ordine è possibile solo dove persone, cose e azioni rendono probabile il disordine.

"Quali cose dobbiamo porre intorno al bambino della scuola materna per educarlo al senso dell'ordine?

Naturalmente le cose che gli occorrono nella vita domestica, poi nella vita collettiva; sono le cose che

rispondono ai suoi bisogni; egli ha bisogno di tenersi pulito, di nutrirsi, d'imparare a vestirsi e

spogliarsi, di giocare e lavorare; ha bisogno d'apprendere il rispetto alla roba altrui; ed ecco la necessità

d'un corredo abbondante di indumenti, d'un materiale ad uso di pulizia ed arredi da refettorio, e

giocattoli e strumenti da lavoro. Quante saranno le cose? Fatene voi l'inventario, dividendole in due

categorie: cose permanenti, di cui si rende necessaria l'opera di manutenzione; e cose di consumo, che

richiedono la continua rinnovazione. Avute le cose, bisogna fissare a ciascuna il suo posto: ed ecco gli

esercizi d'ordine: uso, manutenzione, movimento, collocamento, e via"1.

Provveduto un numero considerevole di cose attinenti alla vita, stabilito nell'ambiente un ordine

inappuntabile, organizzate le azioni dei bambini a base rigorosamente logica e naturale, viene bandito

ogni convenzionalismo per far posto alla libertà di parola e d'azione, condizione indispensabile per

mettere il bambino in rapporto diretto coll'educatrice e manifestarle tutto l'essere suo.

In un ambiente educativo dove il moto è libero e la libertà è diretta dalla responsabilità personale,

l'intelligenza ha parte attivissima. Osservazioni di mezzo e di fine, di causa e di effetto, di principio e di

conseguenza, confronti, impulsi d'iniziativa nascono ad ogni momento, promuovendo nei bambini

l'azione, la riflessione, il linguaggio.

Nell'opera citata, il Prof. Pasquali dice ancora: "Si nota, ed è naturale, che i bambini sono

intraprendenti dove maggiore è la libertà che loro concede di sperimentare l'uso delle cose. Per

esempio, chi è bene esercitato ad empire, vuotare e trasportare vasche, è pure addestrato a maneggiare

tali recipienti in modo da non versare l'acqua sui piedi; e dove sarà necessario l'aiuto di forza e

destrezza, sarà quello stesso il primo ad accorrere; chi è solito tuffare e sciacquare catinelle, ha

imparato l'arte di tuffarle meglio e presto, felice quando in tale faccenda occorrerà la prontezza

1 Cfr. P. Pasquali, Il nuovo spirito dell'Asilo, ed. Vallardi, La Voce delle maestre d’asilo Unione Tipografica, Milano 1910.

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dell'opera sua. Anche nei piccoli atti il bimbo dà a scorgere le acquistate abilità; a veder con quale

accorgimento le sue manine si prestano a staccar fiori col gambo lungo, a non pungersi dove ci sono

spine, a non rovinare bottoncini, a entrare fra i cespi con grazia, si dice subito: questo bimbo è stato

esercitato, ha imparato ed è solito coglier fiori, anche da solo.

Le prime lezioni d'iniziativa e d'intraprendenza, a base di abilità, non sono pane per tutti i denti e non

s'imparano sui libri; bisogna che l'educatrice faccia a proposito uno studio speciale".

Tra gli esercizi di vita pratica che maggiormente rispondono ai suesposti concetti, hanno il primato le

lavature con arredi di mobili e la preparazione delle mense. E' veramente meraviglioso questo andare e

venire disciplinato e gaio di bambini che stanno preparando un refettorio per il pranzo e una sala per le

lavature.

Io credo che il più apatico degli individui dovrebbe sentirsi scosso davanti a quel succedersi di azioni

dove l'intelligenza, la spontaneità, la grazia, il buon senso si danno la mano nell'addestrare una società

infantile e conciliare la libertà coll'ordine.

Una educatrice che sa raggiungere questa finalità non può che avere ben chiaro il concetto della propria

missione, e se il profano che vede non è in grado di capire quanto ognuna di quelle azioni che il

bambino compie sia il risultato di intelligente ricerca e di pazienti prove da parte dell'educatrice, chi

non ignora l'arte di educare dovrebbe nonché approvare, gustare e ammirare. Talvolta invece è

accaduto che questo miracolo dell'educazione venisse da presunti educatori accolto col sorriso dello

scherno. Ma oggi chi non sa quale importanza hanno assunto nella scuola materna gli esercizi di vita

pratica? [...]».

MARIA MONTESSORI (1870-1952)

M. Montessori, L’autoeducazione nelle scuole elementari, [1916], Garzanti, Milano 1950.

[Il fenomeno della polarizzazione dell’attenzione è uno degli aspetti costanti dei fatti per la formazione

interiore], pp. 61-63

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«Il mio lavoro sperimentale sui piccoli bambini da tre a sei anni è stato appunto un contributo pratico

alla ricerca delle cure di cui ha bisogno l’anima del bambino: cure analoghe a quelle che l’igiene trovò

per il suo corpo.

Credo però necessario di far rilevare il fatto fondamentale che mi condusse a determinare questo

metodo.

Io stavo facendo le mie prime prove nell’applicare i principî e parte del materiale che mi erano serviti

molti anni prima all’educazione dei bambini deficienti, sopra i piccoli bambini normali di S. Lorenzo,

quando mi accadde di osservare una bambina di circa tre anni, che rimaneva profondamente assorta

sopra un incastro solido, sfilando e infilando i cilindretti di legno nei loro posti rispettivi. L’espressione

della bambina era di una sì intensa attenzione che mi sembrò quella una manifestazione straordinaria: i

bambini fino allora non avevano mai mostrato una tale fissità sopra un oggetto: e la mia convinzione

sulla instabilità caratteristica dell’attenzione nel piccolo bambino, che passa senza posa da cosa a cosa,

mi rendeva ancor più sensibile al fenomeno.

Io osservai intensamente la piccina senza disturbarla in principio e cominciai a contare quante volte

ripeteva l’esercizio: ma poi, vedendo che continuava molto a lungo, presi la poltroncina su cui era

seduta, e posi poltroncina e bambina sulla tavola; la piccolina raccolse in fretta il suo incastro, poi lo

posò attraverso i braccioli della poltroncina, e mettendosi in grembo i cilindretti, continuò il suo lavoro.

Allora invitai tutti i bambini a cantare: essi cantarono, ma la bambina continuò imperturbata a ripetere

il suo esercizio anche dopo che il breve canto fu cessato. Io avevo contato quarantaquattro esercizi; e

quando finalmente cessò, cessò in modo affatto indipendente dagli stimoli dell’ambiente che potevano

disturbarla: e la bambina si guardò intorno soddisfatta, quasi svegliandosi da un sonno riposante.

La mia impressione indimenticabile credo che somigliasse a quella provata da chi ha fatto una scoperta.

Quel fenomeno divenne poi comune nei bambini: esso poté dunque essere stabilito come una reazione

costante che si presenta in rapporto a certe condizioni esterne, le quali possono determinarsi. E ogni

volta che avveniva una simile polarizzazione dell’attenzione, cominciava il bambino a trasformarsi

completamente, a farsi più calmo, quasi più intelligente e più espansivo: egli mostrava qualità interiori

straordinarie, che ricordavano i fenomeni di coscienza più alti, come quelli della conversione.

Sembrava come se, in una soluzione satura, si fosse formato un punto di cristallizzazione, intorno al

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quale poi tutta la massa caotica e fluttuante andava a riunirsi in un cristallo di forma meravigliosa.

Analogamente, avvenuto il fenomeno di polarizzazione dell’attenzione, tutto quanto di disordinato e

fluttuante esisteva nella coscienza del bambino, sembrava andasse organizzandosi in una creazione

interiore, i cui caratteri sorprendenti si riproducevano in ogni individuo.

Ciò faceva pensare alla vita dell’uomo che può restare dispersa tra cosa e cosa, in uno stato inferiore di

caos, fin che una cosa speciale intensamente l’attrae, la fissa, e allora l’uomo ha la rivelazione di se

stesso, sente di cominciare a vivere.

Questo fenomeno spirituale che può coinvolgere tutta la coscienza dell’adulto, non è dunque uno degli

aspetti costanti dei fatti di “formazione interiore”. Esso si riscontra come inizio normale della vita

interiore dei bambini; e ne accompagna lo svolgimento, in modo da divenire accessibile alle ricerche,

come un fatto sperimentale.

Fu così che l’anima del bambino dette le sue rivelazioni, e, sulla guida di queste, sorse un metodo ove

libertà spirituale venne illustrata.

Il racconto di questa storia iniziale si è sparso rapidamente per tutto il mondo; e sembrò al suo primo

apparire come la storia di un miracolo. Poi a poco a poco, moltiplicandosi gli esperimenti tra le razze

più diverse, si sono venuti rischiarando i principî semplici ed evidenti di questo “trattamento”

spirituale».

M. Montessori, La mente del bambino, Garzanti, Milano 1953.

[Il fanciullo con il movimento ed il lavoro costruisce l’Uomo], pp. 26-28

«Il movimento è un’altra delle meravigliose conquiste del bambino. Neonato, egli giace tranquillo per

mesi nel suo lettino. Ma ecco che, passato qualche tempo, egli cammina, si muove nell’ambiente, fa

qualche cosa, gode, è felice. Vive giorno per giorno, e impara a muoversi ogni giorno di più; il

linguaggio, con tutta la sua complessità, entra nella sua mente, e così pure il potere di dirigere i suoi

movimenti secondo le necessità della sua vita. Ma non è tutto: molte altre cose egli impara con

sorprendente rapidità. Ogni cosa che gli è intorno, egli la fa sua: abitudini, costumi, religione si fissano

stabilmente nella sua mente.

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I movimenti che il bambino conquista non si formano a caso, ma si determinano nel senso in cui essi

vengono acquisiti in un particolare periodo dello sviluppo. Quando il bambino comincia a muoversi, la

sua mente, capace di assorbire, ha già fatto suo l’ambiente; prima che egli incominci a muoversi, in lui

ha già avuto luogo un inconscio sviluppo psichico, e quando egli inizia i primi movimenti comincia a

diventare cosciente. Se osservate un bambino di tre anni, vedrete che egli gioca sempre con qualche

cosa. Questo significa che egli va elaborando con le sue mani e immettendo nella sua coscienza quello

che la sua mente inconscia ha assorbito in precedenza. Attraverso questa esperienza dell’ambiente,

sotto forma di giuoco, egli esamina le cose e le impressioni che ha ricevute nella sua mente inconscia.

Per mezzo del lavoro diviene cosciente e costruisce l’Uomo. Il bambino è diretto da una potenza

misteriosa, meravigliosamente grande, che a poco a poco egli incarna; diventa così uomo e si fa uomo

per mezzo delle sue mani, per mezzo della sua esperienza: prima attraverso il giuoco e poi attraverso il

lavoro. Le mani sono lo strumento dell’intelligenza umana. In virtù di queste esperienze il bambino

assume una forma definita e pertanto limitata, giacché la consapevolezza è sempre più limitata

dell’incoscienza e della subcoscienza.

Egli entra nella vita e incomincia il suo misterioso lavoro; a poco a poco assume la meravigliosa

personalità adatta al suo tempo e al suo ambiente. Edifica la sua mente, finché pezzo per pezzo giunge

a costruire la memoria, la facoltà di capire, la facoltà di ragionare. Eccolo infine al suo sesto anno di

età. Allora, improvvisamente, noi educatori scopriamo che questo individuo comprende, che ha la

pazienza di ascoltare ciò che noi diciamo, mentre prima non avevamo il mezzo di giungere fino a lui.

Egli viveva su un altro piano, diverso dal nostro».

GIUSEPPE LOMBARDO RADICE (1879-1938)

G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale, [1913], XXIX ediz.,

Sandron, Firenze 1952, pp. 11-25.

«L'educando vero è quello che sente nel maestro se stesso, ciò che egli guardando dentro di sé e

scontento di sé, vuol divenire. Se non ci fosse nello scolaro la scontentezza di sé, che lo spinge a

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guardare il maestro, come al suo io migliore che vuol sorgere, ma trova difficoltà e angustie da cui gli

convien districarsi; se non ci fosse nello scolaro la lotta contro se stesso, come elemento essenziale di

vita, lo scolaro stesso non ci sarebbe se non come un quid estraneo, ciecamente, immutabilmente

ribelle, anzi sordo come questo foglio di carta, che non capisce e non capirà mai in eterno le parole che

vi sono vergate, cioè lo spirito di chi le scrive.

Ma lo scolaro come un quid estraneo al maestro non esiste, perché non esiste l'uomo estraneo all'Uomo

[...]

Si può ora definire la disciplina come un interiore conformarsi dell'alunno alla legge che sente viva e

operosa nel maestro, o meglio; la formazione di una legge di vita, che si genera nella coscienza del

maestro e dell'alunno, nell'atto della loro comunione spirituale che è l'educazione.

[...]

Ma l'alunno di tenera età, cioè l'alunno che ha quasi solo una coscienza immediata, il bambino che si

lascia vivere nel mondo delle sue sensazioni, tutto riempiendosene, ed avverte solo, con crepuscolare

coscienza, che quel suo mondo non è tutto - e cerca fuori di sé, negli adulti, la regola di cui ha

oscuramente bisogno - se non sente la coerenza dell'adulto che dovrebbe dirigerlo, si smarrisce e si

attarda nell'infantilità sua, prendendo come norma la stessa assenza di norma; amando e odiando a

seconda che il suo bisogno sia secondato o contrariato.

[...]

Il bambino non è quello che si dice imitatore, quasi ripetitore passivo degli altri; egli invece cerca negli

adulti se stesso, quel sé migliore e superiore al suo essere presente, verso il quale aspira oscuramente

(se l'aspirazione fosse chiara, pienamente cosciente, egli non avrebbe bisogno di maestro!); e quel

copiare gli altri non è che sviluppare se stesso: un cattivo maestro gli fa perdere, in parte almeno, il

dominio di sé, o meglio, non gli fa trovare la norma che egli cerca; si oblierà, perciò e sarà quello che

solo potrà essere: indisciplinato, cattivo.

Si può dunque ripetere qui quella che è la più pregnante delle sentenze didattiche: il metodo è il

maestro; la disciplina è il maestro; la sua anima che domina, nella quale gli alunni obliano il loro

piccolo mondo chiuso, individuale, dimenticando quasi di essere quello che sono, nel sentirsi quello

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che è per tutti loro il maestro.

[...]

La disciplina in genere si riduce perciò ad autoeducazione (integrazione nell'animo del discente degli

esempi e della regola; dei castighi, dei premii, etc. etc., e del concetto del dovere). Ma quando si dice

autoeducazione si intende sempre parlare dello spirito umano, non dello spirito individuale, isolato.

Giacché l'individuo è l'umanità stessa: l'insieme delle influenze che egli ha organizzato per modo da

farne la sua coscienza. Nell'autoeducazione dell'alunno c'è anche il maestro, anzi tutti i maestri che egli

ha fatto suoi, organizzandoli in un solo maestro: l'animo suo. La formula che si conviene

all'autoeducatore (all'uomo) è: discepolo di tutti, maestro di sé».

G. Lombardo Radice, Athena fanciulla. Scienza e poesia della scuola serena, [1925], Bemporad,

Firenze 1926.

I fanciulli di Alice Franchetti, pp. 44-72

«Il contadinello de La Montesca è uno scolaro che sa prendere appunti di tutto ciò che lo interessa, a

scuola e fuori. E' ristretto, perché la vita del podere tosco-umbro isola gli uomini in piccolissimi gruppi,

lontani l'uno dall'altro. Per anni ed anni si può dire, come mi scrive la Marchetti: 'la sua esistenza si

svolge fra la casa e i campi dove conduce al pascolo pecore o maiali, in mezzo alla natura, sì, ma con

occhi che senza la scuola non vedrebbero, cioè non saprebbero ammirare'.

La Montesca gli presenta ogni cosa come un miracolo gentile, che bisogna comprendere ed amare; lo

collega col mondo sociale, lo trasforma in un piccolo conversatore, in pittore del suo mondo.

Il risultato, a scuola finita, è documentato da questi passi di lettere scrittemi da varie serene

osservatrici, maestre. C'è un profondo buon senso. Scrivendo, Dio ci liberi, a un 'pedagogista' quelle

brave figliole non parlano di scuola, di esami e di promossi. Oh no, e si vede proprio da ciò che sono

maestre de La Montesca.

1. - In genere i nostri alunni rimasti a casa, dopo aver compiuto la sesta, si dimostrano attenti al loro

lavoro e pronti ad accettare di provare cose nuove. Le ragazze disimpegnano bene i lavori di massaia. -

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2. - Gli uni e gli altri acquistano un tratto gentile, che li distingue dagli altri piccoli contadini. -

3. - I ragazzi che hanno seguito la nostra scuola sono più pronti a seguire consigli (in materia agricola)

e a tentare migliorie al podere. -

4. - Quando venni qui non avevo fatto mai scuola... Rimasi commossa nel vedere questi bambini così

affettuosi e franchi. -

5. - I bambini insegnano anche a me molte cose. E' una gran gioia a sentirli discutere con me degli

esperimenti che fanno. -

6. - Dopo aver terminato il corso elementare le bambine vengono sovente a trovare le insegnanti (il

giovedì spesso vengono alla sera); fanno loro gran festa incontrandole; sono felici che la maestra visita

le loro case; ricorrono alla maestra in ogni bisogno; continuano a leggere i libri della biblioteca. I

ragazzi frequentano per diversi anni la scuola serale; se vanno soldati scrivono di tanto in tanto, e in

questo momento diversi sono quelli che ci scrivono dal fronte con gratitudine ed esprimendo nobili

sensi circa il loro dovere. -

7. - I bambini che provengono da altre scuole diventano ben presto i più entusiasti ammiratori della

scuola e della maestra, e si interessano molto al disegno, anche se, rispetto ai compagni già sveltiti,

incontrano difficoltà. Si dimostrano più espansivi. Dicono che questa è una vera scuola. -

- Le famiglie si dimostrano più deferenti di quelle i cui figli vengono nelle nostre scuole fin dall'inizio

dell'insegnamento.

Vien da ridere a pensare come tanta gente attribuisce la bontà della scuola alla ricchezza del materiale

didattico! Come se i sussidi didattici non fossero sempre in funzione dell'anima di chi li adopera! Ma

per molti anni "il giudizio fatto" era quello. Me lo conferma questa lettera di una insegnante de La

Montesca:

- Molti maestri e visitatori hanno attribuito al materiale didattico il merito delle nostre scuole e molto

leggermente hanno esclamato: Eh! Con questo materiale, sfido che si possono fare tante cose! Eh! Non

tutti possono avere scuole fornite come quella del barone Franchetti. Noi, anche volendo, non

potremmo far nulla. -

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Ma, ammettiamo che "il materiale" abbia giovato a facilitare la buona maturazione del frutto didattico;

il vantaggio era tolto da un danno: l'orario.

- A La Montesca ogni classe rimane affidata all'insegnante per tre ore; a Rovigliano da due ore a due

ore e mezzo. In quelle ore, ogni momento ha la sua occupazione e guai se l'insegnante non ha ben

chiaro nella mente quel che farà!

Insegnanti ed alunni hanno le ore contate. -

Del resto né la bella sede, né il ricco (e pressoché inutile, dico io) materiale didattico giovarono a

trattenere tutte le insegnanti: ed alcune di esse si allontanarono per accettare sedi incomparabilmente

inferiori. Perché?

Non resistevano alla fiamma di Alice Franchetti. Alice Franchetti era una santa della attività, non una

protettrice della pigrizia! Una persona autorevole mi comunicava che "dopo un anno di lavoro, si

stancarono di dover rifare la propria cultura, specialmente scientifica e si cercarono una delle solite

scuole, dove basta leggere e scrivere".

Povere creature, sperdute nella scuola, senza preparazione e vocazione! Quante, purtroppo, ve ne sono

ancora, per cui la scuola è un mezzo per campare e null'altro! Quel che importa è il senso di

responsabilità che assume il bambino con questi esercizi. Egli formula i pensieri, egli ha da dettarli ai

compagni, dopo il buon lavoro di pulitura stilistica e grammaticale, cui viene sottoposto (quasi senza

parere), nella conversazione scolastica, tutto ciò che egli dice.

Non scompare affatto l'individualità del bambino, ma è più che altro la sua logica che viene esercitata.

Tutta la carità di Alice Franchetti mira a formare questo spirito logico. Il sentimento non è soffocato

(tutt'altro), ma non trova un posto negli scritti, se non quando vien da sé, ed è contenuto entro limiti,

togliendo le parole inutili. La gran virtù del contadino è il parlar poco, quasi il rispetto della parola,

come cosa che non è da sprecare. Il bambino con questo suo pensare e dettare per i compagni e ai

compagni cerca, da sé, ciò che può essere pensiero di tutti, sentimento di tutti, in una circostanza

ipotetica, ma già verificatasi. Quindi quella obiettività del suo spirito, che si attacca alle cose precise,

controllate da tutti i compagni, accertate molte volte in comune. L'importante per lui diventa di non

dimenticar nulla di essenziale, che anche un altro bambino dovrebbe dire e di non far nulla di

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superfluo. Il suo scritto piglia sapore di "formula", ma la formula è trovata dal bambino; l'espressione

del sentimento assume il carattere "rituale", ma la ritualità è sentita davvero come la manifestazione

dell'anima di tutti, e il rito non è imparato, manierato, meccanico; ma anche esso trovato, come cosa

necessaria a tutti.

Tutto questo è veramente rurale: nobilmente rurale. E' propria del contadino dell'Italia centrale la

serietà e la sobrietà del discorrere che esso chiama sempre "ragionare". ("Si ragionava della stagione

che fa quest'anno"). E del resto il contadino, di tutti i paesi, è conciso e sentenzioso; il cittadino è

chiacchierone. Il contadino saluta e ringrazia e prega, sempre con le stesse parole, che paiono "frasi

fatte" e sono invece sentitissime, comecché rituali; il cittadino invece va cercando le parole e le varia, e

bene spesso le diluisce.

Il contadino ha uno spirito ordinativo, nonostante tutte le sue superstizioni; ha bisogno di esser munito

di qualche cosa da credere per ogni caso della vita; non ha dubbi; ma quando li ha e chiede è per lo più

credulo verso chi ne sa più di lui, mentre quando ha la sua idea, è incredulo verso chiunque lo

contraddica. Perché ha bisogno di camminare sul sodo e per sentirsi tranquillo rifugge dal rifare le sue

idee.

Ciò denota non pigrizia mentale, ma prudenza del suo intelletto. E' una certa forma mentale-morale che

si dice posatezza; e tutti intendiamo subito che cosa sia. Questa non va scombussolata, ma aiutata.

L'educazione rurale de La Montesca è perciò essenzialmente scientifico-pratica. La pietosa creatura

francescana che fu Alice Franchetti non voleva la limitatezza del contadino, ma non voleva rovinare il

valore morale che è in quella apparente limitatezza. L'educazione scientifica (osservazione personale;

osservazione continuata dello stesso oggetto della natura, per settimane e settimane; voler toccar con

mano la verità; chiarirla dimostrandola, rendersi conto dei fenomeni più comuni che ci lasciano per

solito indifferenti e incuriosi) ha la sua parte di valore come educazione estetica (lucidus ordo della

esposizione; disegno accurato che accompagna via via le osservazioni).

Esaminando questi compiti fanciulleschi, che valgono sempre come collettivi, sebbene siano

genuinamente individuali, sorprende però una certa uniformità, che a lungo andare diventa anche un

poco freddezza. Si sente che qui è il pregio massimo, ma anche il difetto de La Montesca.

La Montesca, difatti, ispirata da Alice Franchetti e tecnicamente in buona parte da Lucia Latter, mentre

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dà un grande valore alla regione, come vita agricola, non arriva a sentire il valore del dialetto, della

tradizione popolare, dei proverbi, della poesia di popolo. E lo stesso disegno è sempre da un pò troppo

regolato e riproduce, in cicli di osservazioni, presso a poco gli stessi fenomeni, di anno in anno. Non

diventa mai disegno-giuoco (scopritore della personalità del bambino), ma è sempre disegno-

composizione dello studio elementare della scienza fatto sul vero. E perciò ogni disegnatore somiglia

molto agli altri.

Arriva, specie nelle bambine, ad una sua perfezione di coloritura, ma limita la scelta. Ed è strano che

mentre il bambino d'ordinario si prova a disegnar tutto, il contadinello de La Montesca non disegna che

piante, o "particolari" illustrativi delle piante studiate. Quando sorpassa questi limiti, il disegnatore è di

carattere geometrico (la casetta, la porta, il ponte, la bandiera, ecc.) o geografico.

Lo spirito Franchetti-Latter rimane in questo un po’ troppo anglosassone. Dà risultati mirabili, ma non

ha germinazioni nuove né prosecuzioni.

E non dico che sia stato torto di alcuno, perché con quelle poche ore e con i programmi vecchi da

rispettare non c'era da fare molto di più; anzi non dico che sia stato un male, perché era bellissimo

acquisto quella stessa vigorosa limitazione della spontaneità, senza uso di artifici».

ADOLPHE FERRIÈRE (1879-1960)

A. Ferrière, La scuola attiva, [1920], tr. it., V ediz., Marzocco, Firenze 1950.

Cap. 1- Le fondamenta psicologiche su ci si edifica la scuola attiva, pp. 24-26

[…]

II

«Lo slancio vitale dello spirito sta alla radice della vita, è la sorgente di ogni attività degna di questo

nome; senza di esso trionfa il meccanismo; in lui tutto è splendore, calore, amore e luce. Vi è forse un

tesoro più prezioso in tutti gli esseri viventi? Rispettiamolo, adunque, nell’uomo! Maxima debetur

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puero reverentia! Questo impulso alla vita, questa forza che dirige la vita dello spirito è già, per noi,

non soltanto un fenomeno conosciuto e studiato, ma è ormai l’oggetto d’ogni nostra cura in educazione;

il suo sviluppo è un fine da raggiungersi e, al tempo stesso, rappresenta il solo mezzo che l’uomo

possegga per avvicinarsi sempre di più alla meta suprema: l’arricchimento delle proprie energie

spirituali, il potenziamento di se stesso. Nelle pagine seguenti noi vedremo quanto sia importante per

l’educazione conservare ed accrescere questa sorgente di vita che è in noi, ma non potremmo

accingerci a questa ricerca senza prima porci un altro problema, tentando di risolverlo: come si

manifesta questo potentissimo impulso? Per quali vie, con quali mezzi esso opera e si fa palese? In

fondo, rispondere a queste domande, posto che per noi il “progresso” è questo cammino in avanti verso

l’arricchimento delle proprie energie spirituali, non significa rispondere all’altra, quale sia la legge del

progresso? Non esaminerò, qui, il problema dal punto di vista biologico e fisiologico come ho già fatto

lungamente nell’opera già citata. Ivi il lettore troverà descritto come l’esperienza, che è, poi, il contatto

tra l’individuo ed il mondo esteriore, operi, per mezzo del piacere o del dolore che essa porta con sé,

una scelta tra le reazioni; come la reazione, incerta dapprima sulla direzione da prendere, divenga poi

appropriata, tale, cioè, da contribuire all’adattamento dell’individuo all’ambiente; in quale modo la

nostra reazione si fissi, si meccanizzi, si imprima nell’incosciente così da liberare la forza vitale

consentendole nuovi adattamenti; per che vie lo slancio vitale discerna sempre meglio e sempre meglio

impieghi a suo profitto quello che di costante si nasconde sotto l’apparente molteplicità dei fenomeni.

Fare questa conoscenza empirica, appropriarsela, arricchendosi per suo mezzo sempre di più; crearsi

delle possibilità d’azione sempre più svariate; guardarsi e difendersi sempre meglio dalle cause di

distruzione; ecco quello che si vuol significare con l’espressione legge del progresso. Essa, dunque,

vuol compendiare due elementi complementari: 1°) la divisione del lavoro che si stabilisce tra le varie

attività, siano esse di percezione, di discriminazione o d’azione; 2°) quel potere di unificazione sempre

crescente che riunisce in un sol fascio tutte le forze dell’organismo altrimenti divergenti.

Per chiarire il processo con una immagine, si può dire che la differenziazione, o divisione del lavoro, va

dal centro alla periferia, mentre la concentrazione, od unificazione, va dalla periferia al centro. Così si

forma lentamente, ma con un progresso continuo, il nostro spirito; le varie funzioni al suo servizio

formano una gerarchia che potremmo dire a piramide e così pure potremmo raffigurarci la gerarchia dei

valori nel seno stesso dello spirito. Io non posso ripetere qui tutto quello che ho già scritto; basti aver

ricordato, poiché parliamo di educazione, che la legge del progresso, vale a dire l’equilibrarsi della

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differenziazione e della concentrazione, vige anche in psicologia».

[…]

Cap. 3- L’attività manuale nella scuola attiva, pp. 96-99

«Fondamenti basilari della Scuola attiva sono dunque lo slancio vitale del fanciullo e la sua attività

spontanea; la meta a cui mira la Scuola nuova è l’infinito accrescimento di questa energia spirituale,

accrescimento non di sola quantità, ma soprattutto di qualità nel contatto sempre più stretto coi valori

universali e permanenti dello spirito. L’educazione si svolge tra quel punto di partenza e questo punto

di arrivo. Essa prende, dunque, le mosse dal fanciullo vivo, cioè non da quello concepito in abstracto, o

visto attraverso le statistiche della psicologia sperimentale. Questa non voglio negarlo, è una

ammirabile scienza ma come ogni scienza stabilisce delle leggi, ed una legge è proprio quanto si può

concepire di più lontano da una individualità concreta: la legge è sempre ed ovunque uguale o non è più

legge, mentre l’individuo è sé stesso, originale, unico; fra milioni di individui abitanti la Terra non se

ne troverebbe un altro che gli fosse identico. Ogni energia che si manifesta nell’individuo obbedisce

certamente a delle leggi, ma egli, come punto di convergenza di milioni di forze, è un “complesso” che

si modifica continuamente, si trasforma, progredisce o regredisce, progredisce in un certo campo e

regredisce in un altro, che concentra sino all’esaurimento le sue energie sotto l’egida del suo io, o che

al contrario assiste alla dissociazione, alla dissoluzione dei suoi centri d’energia. Tale è l’essere in

apparenza molto semplice ma di fatto assai complesso, che l’educatore ha innanzi a sé, l’essere ch’egli

deve conoscere, deve guidare. Sotto lo sguardo diritto, franco, semplice, gioviale del fanciullino che

giuoca al sole, si nasconde ai nostri occhi una personalità così ricca, un sistema gerarchico di forze e di

tendenza subcoscienti così complicato che nessuno può sperare di coglierne il meccanismo

sconosciuto. Trascinato talvolta da una forza interiore che gli fa compiere, con suo grande stupore,

delle prodezze di cui egli non si sarebbe mai creduto capace, oppure posto di fronte alle tendenze

distruttive, scaturite dalle profondità oscure del suo essere, che, attraverso mille lotte di cui le sorti sono

alterne, tendono a condurlo al dolore e alla disperazione, egli sarà come il capitano d’una nave che sia

soltanto di nome capo del suo naviglio e del suo equipaggio e che per poterli dirigere è costretto a

conoscerli a fondo, ad accettare l’inevitabile e, talvolta, a tendere in uno sforzo supremo tutto il suo

essere per far valere la sua volontà.

Se questo è il fanciullo, che cosa dovrà fare il maestro? Egli deve, l’ho già detto, prender le mosse dalla

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realtà, vedere l’essere che gli sta innanzi quale esso è, non quale esso potrebbe essere e, meno ancora,

quale dovrebbe essere secondo il suo giudizio; il maestro che si lamenta dell’alunno accusa se stesso.

Se il fanciullo è affetto da incoordinazione mentale, compiangetelo, non lamentatevi; osservatelo,

cercate, e quasi certamente finirete per scoprire in lui almeno un punto attorno a cui egli coordina le sue

forze per agire spontaneamente, ove un vivo interesse lo spinga. Avete scoperto questa sorgente

nascosta? Siete solo per questo sicuri della riuscita; non cercate più lontano, od almeno non cercate

altro per il momento, giacché con la sorgente avete scoperta la forza motrice che metterà in moto il

molino, a condizione che voi non le chiediate più di quanto può dare; voi avete raggiunta la possibilità

di coordinare e concentrare sempre meglio quest’attività spontanea ed altresì di arricchirla o di

differenziarla sempre più.

Riassumendo. Punto di partenza d’ogni azione educativa sia l’attività spontanea dei fanciulli: occorre

partire dalle loro attività manuali e costruttive, da quelle intellettuali, dai loro interessi, dalle loro

preferenze, dalle loro tendenze dominanti; bisogna prendere le mosse dalle loro manifestazioni morali e

sociali quali si presentano nella vita libera e naturale d’ogni giorno, secondo le circostanze, compresi

gli avvenimenti previsti o imprevisti che sopravvengono.

Educare significa rispettare la natura dell’educando per condurla (ex-ducere) a mete più alte e quindi è

necessario che l’adulto abbia una sicura conoscenza del fine a cui tende, che questa consapevolezza si

faccia gradualmente più profonda nel fanciullo stesso, perché, come abbiamo detto, l’adulto non sta

accanto al fanciullo per imporre il suo volere, per usufruire di un’arbitraria autorità, ma gli è accanto

per sostenere la buona volontà del fanciullo, in nome dei valori spirituali, amore, ragione, verità, bene.

[…]

Due sono i poli tra cui corre la Vita, lo slancio della vita spirituale e la “Ragione divina”, e due sono i

poli tra cui corre l’educazione: le attività spontanee del fanciullo e la sua preparazione alla vita, alla

vita quale è realmente ed alla vita quale potrebbe essere se tutti gli individui sapessero, potessero, e

volessero renderla socialmente e moralmente migliore.

Noi abbiamo, sino ad ora, visto le attività spontanee dei giovani sboccianti alla vita rivelarsi sotto il

triplice aspetto di attività manuali, sociali ed intellettuali. Ci occuperemo partitamente di ciascuna nelle

pagine seguenti, ma vogliamo fissare qui, alle soglie di questa trattazione, una norma generale

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d’educazione dalla quale non potremo derogare che a condizione di smarrire il senso della vita, di

turbare l’equilibrio della nostra opera. Vogliamo, cioè, affermare che la nostra azione educativa dovrà

innestare sulle attività spontanee altre che potranno e dovranno condurre l’essere all’adattamento alla

vita quale gli si presenterà. Con la parola adattamento non intendo affatto significare una passiva

sottomissione; tutt’altro. Vivere non è sinonimo di subire ma, piuttosto, di conquistare. Facciamo che la

volontà di vivere sbocchi nella volontà di meglio vivere come un fiume sbocca in un lago in cui la sua

forza energetica sarà centuplicata.

Teniamo presente che l’adattamento, per se stesso, non implica un progresso: lo si è dimostrato

all’evidenza, un essere potrà, sì, adattarsi a condizioni che gli siano meno favorevoli delle sue abituali,

ma, anziché progredire, come avverrebbe in condizioni normali di sviluppo, egli regredirà.

D’altra parte non va dimenticato che non è possibile il progresso senza l’adattamento. Essere padroni di

se stessi: che altro significa se non sottomettersi alle leggi che reggono l’organismo fisico e psichico?

Questo è, però, un adattamento che vuole sboccare nel dominio, è, cioè, un adattarsi in un primo tempo

perché queste leggi si pieghino a lor volta in un tempo ulteriore ad un più alto ideale di vita, è, infine,

un piegarsi alle leggi inevitabili, necessarie della natura vivente per vincere, con la loro alleanza, tutti

gli ostacoli superabili ch’essa ci oppone.

Nella stessa conquista del mondo fisico (che è l’opera della scienza) assistiamo ai due atti del dramma:

il conoscere che implica, dapprima, un adattamento è, poi, il mezzo d’asservimento delle forze cieche.

Nel mondo sociale altresì (sarei tentato di scrivere: nel mondo sociale soprattutto) si potranno

rintracciare facilmente le vicende d’un reciproco adattamento fra azioni e reazioni, in ogni individuo,

tendenti ad un equilibrio che è incessantemente perduto, ritrovato e ristabilito sempre meglio».

SERGEJ HESSEN (1887-1950)

S. Hessen, Fondamenti filosofici della pedagogia, [1923], tr. it., III ediz. italiana, II ristampa,

Armando, Roma 1961.

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III Le reazioni alla scuola passiva, pp. 135-139

La "scuola del lavoro"

«Espressione estrema e cosciente di questa stessa aspirazione ad un nuovo schema della totalità

scolastica, appare anche quella corrente della "scuola del lavoro" che scorge l'essenza del lavoro

scolastico nel fatto che la classe, con un proprio lavoro comune, crea un nuovo "prodotto di comune

utilità", fino allora non esistente. Giacché il lavoro, che viene chiamato a definire il concetto della

nuova scuola, nel senso più nobile della parola, (in russo trud), appunto per questo si distingue dal

lavoro come fatica (in russo robota), in quanto sviluppa la personalità di chi lavora e al tempo stesso la

collega con gli altri, cioè la socializza».

[...]

IV Essenza della scuola del lavoro, pp. 139-167

«L'essenza della scuola del lavoro consiste appunto nel porre a base della propria struttura, anziché il

principio della genericità meccanica, quello della totalità concreta. Il momento sociale e il momento

dell'individualità, affermati in maggiore o minore misura, secondo le diverse concezioni di codesta

scuola, appaiono come momenti dello stesso principio fondamentale. La totalità è il vero oggetto delle

aspirazioni e degli sforzi della pedagogia moderna, anche se in modo non sempre consapevole.

Secondo il nuovo schema di lavoro scolastico, l'insegnante non propone un modello che tutti gli alunni

debbano ripetere individualmente, ma assegna un compito che tutta la classe risolve in uno sforzo

comune. Come risultato di codesto sforzo, sorge il prodotto del lavoro comune, qualche cosa di nuovo,

che prima non esisteva.

Nel processo di tale lavoro collettivo, lo sforzo di un alunno non procede parallelo, senz'incontrarsi con

quello dell'altro; tutti gli sforzi si completano a vicenda, in modo che ogni alunno occupa, in codesto

lavoro collettivo della classe, un proprio posto determinato, e diventa insostituibile, vale a dire diventa

un membro individuale del complesso che lo contiene.

Questo schema spiega anche la particolare denominazione della nuova scuola: scuola del lavoro. Se,

infatti, esiste differenza tra il lavoro, nel senso più nobile della parola, da un qualsiasi sforzo, essa sta

proprio nel fatto che il vero lavoro ha carattere sociale, ed è capace di unire e di creare, mentre il

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semplice sforzo solo raccoglie i giovani in uno stesso luogo ed impone a ciascuno la ripetizione di una

stessa opera. In questo senso, il vero "lavoro" (quello che i russi chiamano trud) è sempre permeato, più

o meno, di una creatività che assicura la crescita della personalità del lavoratore e perciò stesso la

soddisfa. Già D. Mendelejev ha chiarito assai acutamente che il problema sociale non consiste nel

liberare l'uomo dal lavoro, ma nel compenetrare e nobilitare ogni lavoro col principio della creatività.

Liberazione nel lavoro, quindi, e non già dal lavoro, talché non esiste un "problema del lavoro" ma solo

una "questione operaia". La "scuola del lavoro" è lavorativa solo in quanto ravvisa il proprio scopo nel

sostituire il lavoro efficiente al lavoro puramente meccanico.

Attività della scuola del lavoro

Il tipico insegnante della scuola passiva è loquace, mostra tutto, si muove continuamente, mentre la

classe riceve passivamente, disunita nello stesso lavoro. Nella scuola del lavoro, al contrario, abbiamo

una classe attiva nel lavoro, unita per uno scopo comune, e un'insegnante che tranquillamente e senza

dar nell'occhio e senza rumore anima codesto lavoro collettivo della classe. La sua funzione può dirsi

passiva? Sì, ma solo se qualifichiamo per attività una confusa eloquenza; che se, invece, consideriamo

la sua indipendente creatività, allora no che non è passiva. Il maestro che, nella scuola effettivamente

passiva, mette un modello dinanzi ai suoi alunni perché lo ripetano, di necessità, poi, cerca egli stesso

un modello per il proprio lavoro; e lo trova nel manuale, o in quella esemplare lezione didattica

impartitagli da un maestro ancor più autorevole e competente di lui. Nella scuola attiva, nella scuola del

lavoro, al contrario, viene infranta la supremazia del testo, ogni classe rappresenta qualche cosa di

individuale e di originale, talché le lezioni e i compiti non vi si possono ripetere. Come accade spesso

nella vita solitaria, così anche nella scuola del lavoro, sotto l'esteriore passività del maestro si nasconde

lo sforzo di un indipendente lavoro interiore, una continua vigilanza della volontà, capace di impostare

il problema come fluisce dalle circostanze che si sono determinate, e, spesso, di venire in aiuto là dove

il lavoro ristagna, per risolvere in tempo utile le difficoltà sopravvenute.

Lavoro attivo e lavoro passivo

Ciò significa che il lavoro attivo si distingue dal lavoro passivo (che è solo fatica), e la scuola del

lavoro dalla vecchia scuola, non già per il contenuto, ma per la loro particolarità formale, ossia per la

loro struttura. Non è il materiale didattico che diversifica la scuola del lavoro dalla scuola passiva, ma il

fatto che la scuola del lavoro trasforma sostanzialmente la qualità degli alunni e dei maestri. Tutti gli

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errori di concezione della scuola del lavoro, come anche il suo effettivo sovvertimento, derivano, in

realtà, dal fatto che l'idea formale del lavoro, ingiustificatamente ristretta, ed il suo momento strutturale

o qualitativo, per cui il lavoro attivo si distingue dalla fatica, vengono sostituiti da questo o da quel

contenuto particolare di realizzazione lavorativa.

Così l'idea della scuola del lavoro, in quanto scuola di lavoro manuale, trascura il fatto che codesto

lavoro può essere impostato, e troppo spesso accade così, come lavoro passivo, unicamente come

fatica; e che, per converso, l'attività intellettuale può essere organizzata come lavoro attivo, e cioè

creativo.

[...]

In generale, è necessario liberarsi dalla contrapposizione del tutto ingiustificata, tra "parola" e "oggetto

materiale", sia per esaltare oltre misura la parola, sia, al contrario, per troppo abbassarla. Come il legno,

il ferro e l'argilla, anche la parola rappresenta un oggetto degno del lavoro umano, purché la personalità

dell'uomo riesca attiva e creativa. Il fatto fisico non è né migliore, né peggiore del fatto psichico, dal

quale in sostanza, non può nemmeno venire separato. Il lavoro fisico, in quanto attivo, si trova sempre

unito al lavoro intellettuale. D'altra parte, e troppo spesso, anche il lavoro "intellettuale" si riduce a

quello meramente fisico del meccanismo della parola e della scrittura.

La scuola del lavoro non tende già ad abbassare ogni lavoro intellettuale al livello di quello fisico,

sebbene, piuttosto, a trasformare ogni lavoro, intellettuale o fisico che sia, in fonte di totale sviluppo

della personalità umana.

Cultura generale e cultura generale "specifica". Contenuto e forma

Il concetto materiale della cultura generale, che veniva esattamente chiamata "formale", costituiva la

base della vecchia scuola, tanto professionale che d'istruzione generale. Si pensava che esistesse una

certa somma di conoscenze, uguale per tutti, che rappresentasse di per se stessa la cultura generale. La

scuola del lavoro respinge fin da principio codesto astratto concetto di cultura generale. Si può

insegnare qualsiasi materia, perfino la culinaria, in modo da renderla fonte di sviluppo generale per la

personalità dell'alunno, e d'altra parte qualsiasi materia, anche le lingue classiche, se insegnata come

aggregato di nozioni e di abitudini elaborate e isolate, può soffocare ogni aspirazione alla cultura

generale.

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Non si tratta di ciò che insegniamo, ma di come insegniamo; cioè, si tratta anzitutto del lavoro formale,

qualitativo, ossia della struttura dell'insegnamento. L'"universalità" della cultura non risiede nel preteso

"umanesimo" del suo contenuto, ma nella forma che vi assume la totalità che gli è propria. Il concetto

astratto di cultura generale, viene sostituito da un concetto concreto della cultura, cioè dal concetto di

cultura generale "specifica", le cui vie sono multiformi come è multiforme il contenuto stesso della vita

della società moderna».

S. Hessen, Pedagogia e mondo economico, tr. it., Avio, Roma 1951.

Educazione generale o cultura industriale?, pp. 75-93

«Se confrontiamo le realizzazioni dell'educazione industriale [...] con i complessi compiti educativi

posti dalla seconda rivoluzione industriale, dobbiamo proprio concludere che c'è ancora "un lungo

cammino per Tipperay". Al modo stesso che la produzione e il consumo sono molto indietro rispetto

alle possibilità che la tecnica moderna dischiude all'umanità, così il grado di educazione raggiunto non

corrisponde al vertiginoso aumento della produttività del lavoro già effettuato o da effettuare ancora, in

virtù dello stesso elevarsi degli standards educativi. In tutti i paesi, le cifre stanziate per l'educazione

necessaria per risolvere le questioni sorte dai cambiamenti subiti dall'industria sono molto inferiori a

quel che dovrebbe essere, posto che si realizzasse finalmente l'ideale della pacifica convivenza delle

nazioni, e che le grandi somme, ora stanziate per il riarmo, fossero destinate a fini culturali.

Oltre a queste difficoltà di ordine politico e sociale, che non posso discutere qui, ce ne sono altre di

ordine intimamente educativo, che rendono impari lo sviluppo dell'educazione industriale. [...] In questi

commenti finali mi limiterò piuttosto a una aporia dello sviluppo educativo moderno, che mi sembra

essere la più essenziale, e il cui esame può aiutarci a riassumere i risultati delle osservazioni precedenti.

Alludo all'antinomia tra educazione liberale o generale e educazione professionale, specialmente

industriale.

Abbiamo visto che anche là, dove, come in Inghilterra e in Russia, il contrasto tra educazione liberale

ed educazione professionale era, una volta, particolarmente marcato, i più recenti sviluppi sono

orientati verso il graduale superamento di codesta antinomia tradizionale. I pedagogisti inglesi,

esattamente come i colleghi americani, riconoscono ora che questi due fondamenti dell'educazione

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possono e debbono essere "saldati"; essi cercano persino di comporli in una vera e propria "sintesi"

organica. Nondimeno, praticamente, la composizione del dualismo appare appena come una

giustapposizione meccanica di materie generali e professionali "sotto lo stesso tetto", giustapposizione

che minaccia di disintegrare il curriculum in un "mucchio di sabbia", al modo che dice uno dei più

perspicaci critici dell'educazione americana. Essa, inoltre, si fonda sull'idea che la differenza tra

culturale "generale" e cultura "professionale" stia nelle materie d'insegnamento, per cui alcune

sarebbero di per sé stesse, per dir così, generali ed altre professionali.

Sebbene implicito nella pratica educativa, accolto com'è nella maggior parte delle scuole, questo modo

meccanico di fondere l'educazione generale e l'educazione professionale è oggi del tutto abbandonato

dalla teoria. Ho già ricordato che G. Kerschensteiner in Germania e J. Dewey in America hanno

precorso il concetto che la differenza tra generale e professionale sta nell'atteggiamento e nella qualità

dell'insegnamento e non già nella materia o nel tema. Se una disciplina (sia essa del tutto teorica, come

la grammatica greca, o eminentemente pratica, come la cucina) vale a promuovere lo sviluppo interiore

della personalità dell'educando, l'insegnamento assume valore di educazione generale o liberale. Se, al

contrario, la stessa materia è insegnata in vista di scopi prevalentemente esteriori, come mera utilità, in

rapporto alle richieste dei futuri clienti (nel caso della grammatica greca, come studio meramente

strumentale per superare l'esame di licenza e per rispondere alle domande degli esaminatori)

l'insegnamento non è liberale, ma professionale. La maggior parte dei pedagogisti moderni, in

Inghilterra come in altri paesi, concorda in questa definizione, che riferisce il superamento

dell'antinomia tra l'educazione liberale e quella professionale alla qualità e alla modalità

dell'insegnamento. Livingstone ci ha ricordato recentemente che questa fu quasi letteralmente la

definizione dell'educazione liberale (eleùtheros) secondo Aristotele, ed io aggiungerei la definizione

della vera cultura (paideia) in contrasto con l'istruzione professionale non liberale (trofé banaseus kai

aneleutheros) secondo Platone.

Questa definizione, che pone in primo piano la personalità dello scolaro, è strettamente connessa con

l'altra dell'educazione liberale, che accentua il momento dei valori spirituali. Per poter sviluppare la

personalità dello scolaro, ogni disciplina deve essere insegnata come fine a sé stessa, per il valore

obiettivo che contiene, e non come mero strumento per un fine estraneo. Posta in tale rapporto, la

materia d'insegnamento si inserisce in una più vasta totalità, fino a divenire un microcosmo che riflette

la molteplicità del mondo della natura e della cultura. Questo precisamente intendono coloro che

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chiedono che le materie professionali siano insegnate "sulla base di una più vasta prospettiva scientifica

e sociale", cioè non come serie limitate di precetti belli e fatti, ma come parti di una conoscenza

suscettibile di sviluppo illimitato. Ho già detto che questa seconda definizione dell'educazione generale

è implicata nella prima, come hanno dimostrato J. Dewey e G. Kerschensteiner. Entrambi hanno visto

giustamente in tale rapporto la spiritualizzazione della disciplina insegnata, in corrispondenza della

spiritualizzazione del mestiere in vocazione, che rappresenta, secondo G. Kerschensteiner, l'altro lato

della sua personalizzazione.

Il più profondo significato di questo nuovo rapporto e la sua connessione con il recente sviluppo

economico, apparirà chiaro se, nel fenomeno generale che chiamiamo indistintamente educazione,

distinguiamo tre piani, o piuttosto tre strati posti l'uno sull'altro, sì che l'uno è materia rispetto alla

forma sovrastante, in maniera simile alla relazione che si pone tra "forma" e "materia" nella metafisica

di Aristotele. Infatti, come l'uomo è un essere triplice che vive simultaneamente come organismo

biologico, come membro della società e come personalità che partecipa alle opere e ai valori

dell'umanità, così l'educazione è un complicato processo che si sviluppa simultaneamente sui piani

della vita biologica, sociale e spirituale [...]».

CÉLESTIN FREINET (1896-1966)

C. Freinet, Le mie tecniche, [1967], tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 11-16.

«All’origine delle mie ricerche vi è dunque la necessità in cui mi trovai di migliorare le mie condizioni

di lavoro per una possibile maggiore efficacia. E vi fu anche una insensata ostinazione a fare onore a un

mestiere che amavo e che avevo scelto.

Mi spinse fuori dei soliti sentieri anche un’altra caratteristica del mio spirito e delle mie tendenze: un

bisogno quasi fisiologico e morale di aderire a una classe sociale e più ancora alla corporazione

insegnante in cui si rispecchiavano massicciamente i dati di un ambiente del quale ero parte integrante.

Il mio problema si poneva da sé: trovare il mezzo di lavorare meglio senza isolarmi dai miei colleghi.

Quando scoprii la tipografia scolastica avrei ben potuto, come si procede volentieri oggi, far brevettare

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la mia innovazione e, in seguito, come Maria Montessori, far brevettare un materiale che sarebbe stato

alla base del nuovo metodo. Ma, ciò facendo, mi sarei allontanato fin dal principio dalla massa degli

educatori, di cui non avrei più potuto rappresentare l’espressione, altro che eccezionalmente.

Presi immediatamente un’altra direzione; invece di conservare il segreto sulla mia scoperta,

deliberatamente lo versai nel crogiolo cooperativo. Non eravamo ancora che pochi pionieri, fra i quali

Ad. Ferrière, quando già davo vita a una cooperativa con circolari, bollettino, una rassegna di testi di

ragazzi: la Gerbe, scambi di documenti, organizzazione di corrispondenze interscolastiche, prime

riunioni in occasione dei Congressi della efficiente Federazione dello Insegnamento. Avevamo già

infranto il cerchio dello sterile individualismo. Avevamo gettato le basi del nostro movimento

pedagogico cooperativo.

Ma ritorniamo agli inizi della mia vita di insegnante: bisognava dunque che mi ponessi in cerca, fuori

della routine scolastica di cui si contentavano più o meno tutti i miei colleghi di una soluzione nuova,

una tecnica di lavoro che si adeguasse alla misura delle mie ridotte facoltà.

Procedei allora come tutti i ricercatori. Adottai quello stesso procedimento per tentativo sperimentale

che in seguito diverrà il centro del nostro comportamento pedagogico e delle nostre tecniche di vita.

Lessi Montaigne e Rousseau, e più tardi Pestalozzi, al quale mi sentivo legato da una stupefacente

parentela. Ferrière orientò i miei tentativi con la sua École active e la Pratique de l’École active. Visitai

le scuole comunitarie di Altona e di Amburgo. Un viaggio nell’URSS, nel 1925, mi pose al centro di un

fermento di esperienze e di realizzazioni per qualche verso allucinante. Nel 1923 partecipai al

Congresso di Montreux, indetto dalla Lega internazionale per la nuova educazione, dove si trovavano

fianco a fianco i grandi maestri dell’epoca, da Ferrière a Pierre Bovet, da Claparède a Cousinet e a

Coué.

Ma quando mi ritrovai solo nella mia classe, nell’ottobre successivo, senza sostegno e senza l’appoggio

morale dei pensatori che ammiravo, mi sentii disperato: nessuna delle teorie lette e capite poteva venir

trasposta nella mia scuola di villaggio. […] Fui dunque costretto a ritornare bene o male agli strumenti

e alle tecniche tradizionali, fare lezioni che nessuno comprendeva, dare in lettura testi che, se anche

semplici, non avevano nessun significato per lo sviluppo educativo dei ragazzi. […]

In tale logorante atmosfera ero costretto ad arrabattarmi, come un pagliaccio privo di risorse, per

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intrattenere un momento, artificialmente, la labile attenzione dei miei scolari. […]

La stampa a scuola

Una schiarita di natura pratica e tecnica in questo disperante cielo scolastico: i maestri militanti nella

Federazione dell’Insegnamento cercavano allora, in avanguardia, di far penetrare un po’ di vita nel loro

insegnamento. Si erano sperimentate le “lezioni-passeggiate”. Vocabolo evidentemente male scelto,

infatti i genitori obbiettavano che i ragazzi non sono mandati a scuola per passeggiare, né l’Ispettore

aveva nessuna voglia di partire in battuta attraverso i campi per ritrovare il suo gregge.

La lezione-passeggiata fu la mia tavola di salvezza. Invece di sonnecchiare davanti a un cartellone di

lettura, alla ripresa della lezione nel pomeriggio, partivamo per i campi circostanti il villaggio. Lungo le

strade ci fermavamo ad ammirare il fabbro, il falegname o il tessitore, i cui gesti metodici e sicuri ci

facevano venire voglia di imitarli […]. Al ritorno in classe, scrivevamo alla lavagna il resoconto della

“passeggiata”.

Ma si trattava ancora di un angolo luminoso, scavato provvisoriamente nel muro della scolastica. La

vita si arrestava a questa prima tappa. In mancanza di nuovi strumenti e tecniche adeguate, le mie sole

risorse, per insegnare la lettura di un testo stampato, consistevano nel dire in tono rassegnato: - E ora,

prendete il vostro libro di lettura, a pagina 38: La Golosa (o qualunque altra pagina, parimente

estranea all’interesse del maestro e degli scolari). E mentre leggevamo La Golosa, avevamo ancora in

testa, vive e parlanti, le immagini della passeggiata. Le parole stesse si rivestivano in funzione dei

momenti esaltanti che avevamo vissuto. Vi era divorzio totale, e inevitabile, fra la vita e la scuola. Il

lavoro al quale eravamo così costretti perdeva quindi tutti i vantaggi del lavoro vivo, per divenire un

compito fastidioso e senza significato.

Finalmente uno strumento che cambia i dati pedagogici della lezione: la stampa.

Andavo dicendomi allora: “Se potessi, con un’attrezzatura tipografica adatta alla mia classe, tradurre il

testo vivente, espressione della ‘passeggiata’, in una pagina scolastica che sostituisse quelle del libro di

testo, saremmo in grado di riprovare, per la lettura a stampa, lo stesso interesse profondo e funzionale

che sentivamo nel preparare il testo medesimo. Nulla di più semplice e logico, tanto semplice che mi

meravigliai perfino che nessuno ci avesse pensato prima di me.

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Mi detti allora da fare per realizzare il mio sogno. Trovai per fortuna, presso un vecchio artigiano

stampatore, un piccolo materiale di tipografia, con compositoi speciali e pressa in legno che doveva

permetterci, in teoria almeno, la stampa dei nostri testi. […]

Non mi aspettavo certo, in quei frangenti, che gli alunni potessero appassionarsi un po’ durevolmente a

un lavoro di cui potevo misurare a un tempo la complessità e la minuziosità. Ero talmente abituato al

lavoro da imporre e che esige lo sforzo, che non immaginavo neanche potesse esistere effettivamente

un’altra forma di attività più leggera e più gradevole.

Mi ingannavo. Gli scolari si appassionarono alla composizione e alla stampa, faccenda, comunque, per

niente semplice col nostro materiale ancora rudimentale. Vi si appassionarono non soltanto perché

ordinare i caratteri nei compositoi poteva risultare un gioco attraente, ma perché avevamo ritrovato un

processo normale e naturale della cultura: l’osservazione, il pensiero, l’espressione naturale

diventavano un testo perfetto. Questo testo lo si era fuso nel metallo, poi stampato. E tutti gli spettatori,

cominciando dall’autore, si sentivano quasi emozionati all’apparire della pagina impressa, di fronte allo

spettacolo del testo magnificato, che ormai assumeva valore di testimonianza.

Questa fu la prima scoperta fondamentale che doveva condurci a considerare progressivamente tutto il

nostro insegnamento. Avevamo ristabilito un circuito naturale, prima ostruito dalla scolastica. Il

pensiero e la vita del fanciullo potevano ormai divenire elementi massimi della cultura».

ALDO AGAZZI (1906-2000)

A. Agazzi, Il lavoro nella pedagogia e nella scuola, La Scuola, Brescia 1940, pp. 9-11.

«L'educazione ha, simultaneamente, due finalità fondamentali nella sua azione, ordinata allo

svolgimento dell'uomo, secondo i processi medesimi dell'umano sviluppo ed i caratteri della umana

spiritualità: secondo, cioè, le note costitutive della sua natura, ossia caratteristiche della umanità della

persona, e secondo i tratti individuali della sua personalità.

Deve, cioè, presiedere alla esplicazione piena ed armonica delle funzioni e delle attività dell'individuo,

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curando la loro maturazione ed articolazione vitale secondo ordine e gerarchia di valore; e, insieme,

deve portare l'individuo a conoscere il patrimonio civile del genere umano, a prenderne coscienza

rivivendolo come esperienza propria e ripensandolo in proprio (processo della cultura), ed a diventare

capace di apportare al patrimonio storico dell'umanità il proprio personale contributo di attività e di

opere (inserimento sociale e civile dell'individuo durante e mediante il corso e il processo stesso del

suo sviluppo; "civilizzazione" della persona; elevazione dell'individuo a soggetto di cultura e di storia,

ad autore di valori civili).

L'educazione si problematizza, cioè, nel medesimo tempo, nell'articolata visione della natura umana

nella dinamica evolutiva di ogni singola persona, e in quella della funzione storico-civile della persona

stessa, la quale può nutrirsi di storia e creare nuova storia, essendo essa dotata, in proprio e per natura

sua, di germinalità sociale e civile. E così, nel rapporto con gli altri uomini del presente, del passato e

dell'avvenire, mediatori appunto l'atto e il processo educativo, la persona riceve, ed indi dà, crescendo

per un verso in se medesima ed accrescendo per l'altro la civiltà, la quale, per tal modo, risulta

progrediente.

Orbene: da ambedue questi punti di vista - di umana natura e di civiltà storica - noi ritroviamo, tanto

nell'uomo quanto nella civiltà, il lavoro: ritroviamo cioè il lavoro fra le attività proprie dell'essere

umano, in ordine alla sua vita, alla sua struttura, al suo sviluppo, al suo partecipare all'ordine sociale; e

lo ritroviamo, con la sua presenza creatrice e con i risultati delle sue opere, tra i valori e i prodotti che

costituiscono il patrimonio civile del genere umano.

Tanto come intrinseco alla persona, ai suoi bisogni, alle sue esigenze e alle sue attività elettive; quanto

come protagonista di quella civiltà a cui ogni uomo deve elevarsi e in cui deve attivamente inserirsi, il

lavoro, perciò, appartiene non solo di diritto ma di necessità all'ambito e alla problematica

dell'educazione, quindi della pedagogia (teoria e scienza dell'educazione) e della scuola (istituto che

attua l'educazione, e che dovrebbe attuarla integralmente e secondo la pedagogia).

Nel mondo contemporaneo queste considerazioni si sono fatte - o dovrebbero essersi fatte - ovvie. Il

lavoro, riscattandosi da una millenaria svalutazione di filosofia umana e sociale, è andato, infatti,

imponendo sempre più la sua dignità intrinseca; e, per le rivoluzioni tecnico-industriali proprie del

mondo moderno, ha finito con l'affermare il suo primato economico, quindi sociale, quindi politico,

ponendo problemi gravissimi ed ardenti alla vita, al pensiero ed all'axiologia umana e civile dei nostri

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giorni.

Quel che è certo è che il lavoro è riconosciuto, oggi, non più come semplice condizione elementare in

vista di assicurare la vita in ordine ai bisogni, fondamentali ma infimi, del nutrirsi, del ripararsi e del

difendersi; ma, oltre a ciò, si allinea, come protagonista di civiltà, accanto al pensiero filosofico,

matematico e scientifico, alla poesia e alla pittura, alla musica e all'architettura, al diritto e alla politica,

all'etica e alla religione, al costume e alla legislazione, e che, per le crescenti applicazioni della tecnica

scientifica e della meccanizzazione - dalle grandi energie del vapore e dell'elettricità, all'atomica, fino

all'automazione e alla cibernetica - esso ha riproposto tutti i termini umani e sociali, della preparazione

del lavoratore e dell'istruzione professionale.

Da un lato, cioè, il lavoratore è diventato uomo, pienamente uomo, persona umana (da qui il diritto suo

all'educazione sul piano di eguale dignità e di analogo sviluppo, di pari proporzione umana, nei

confronti dell'educazione di qualunque altro uomo); mentre, da un altro lato, il lavoro, entrato con ciò

stesso di diritto nel piano dell'educazione umana e civile dell'uomo, e di fatto come crescente esigenza

di istruzione professionale, è venuto a configurare all'educazione problemi pedagogico-didattici non

oltre eludibili: come quelli dei rapporti lavoro-educazione; ed educazione umana-istruzione

professionale; come quelli comportati dall'elevato livello di istruzione generale e specifica richiesto

dalle professioni lavorative, del nostro tempo, risolubili, evidentemente, soltanto attraverso la scuola».

A. Agazzi, Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla teoria della persona e dei valori, La

Scuola, Brescia 1950, pp. 12-13 e pp. 53-54.

«Educare, infatti, non è filosofare; educare non è conoscere; né arte di governo da principi e da

ministri; educare non è osservare, annotare, indagare fatti di forze, di moti, di reazioni fisiche e

chimiche; o delineare le linee del corso civile; o definire il valore e la problematica dei principi etici;

educare non è esprimere il bello; né costruire edifici o macchine; né esporre associazioni o ‘forme’

percettive o meccaniche di istinti e di emozioni: educare è ‘educare’.

Educare, cioè, è qualcosa di proprio, di caratteristico, di irriducibile, nella sua essenza, all’una o

all’altra delle altre attività dell’essere umano, o a tutte esse insieme; anche se tutte esso le implica e le

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presuppone.

Ché, anche per l’educazione, vale la legge generale in forza della quale, in ogni atto umano, per quanto

tipico e specifico, concorrono, insieme a quella che caratteristicamente lo provoca in senso proprio e

diretto, tutte le altre forme di attività dell’uomo; ché, anche per l’educazione vige il principio della

coimplicanza, in ciascuna, di tutte le attività; della compresenza di tutto l’uomo in ogni sua pur parziale

manifestazione, secondo una unitarietà e una totalità che, in ogni atto, che pur si presenti come

specifico, ci mostrano come necessarie – anche se non sufficienti – tutte le altre operazioni del suo

essere: ma questo non implica per nulla la dissoluzione dell’atto educativo nelle altre forme di umana

attività. Ed anche se, per l’educazione, la coimplicanza di tutte le umane manifestazioni è richiesta e

operante in modo tutto speciale: perché, se non c’è atto specifico di conoscenza, di volontà, di moralità,

estetico, operativo, che non implichi, per potersi attuare, il concorso di tutte le sfere, gli aspetti e i

processi dell’io (del composto umano), l’educazione è addirittura quel processo che codeste forme di

essere e di agire deve tutte aver presenti ed in atto al fine di promuoverle, armonizzarle, condurle alla

loro pienezza e alla loro perfezione, in singolarità e coralità.

Ciò pone evidentemente, in modo tutto particolare, alla pedagogia il problema delle sue non eludibili

relazioni con tutte le scienze specifiche, volte ai vari aspetti dell’essere umano, quale esso è dato nella

sua essenza costitutiva e nella sua concretezza e realtà di fatto, ma ciò non significa in modo alcuno che

la pedagogia possa identificarsi con l’una o l’altra di queste scienze, o con il loro sistema complessivo,

perché l’educazione, ripetiamo, si distingue ad evidenza da ciascuna e da tutte.

[…]

Sicché due appariscono le esigenze e le condizioni per una fondazione della pedagogia come scienza

autonoma: una ricognizione preliminare del fatto e dei fatti educativi, quali sono dati nella loro

inconfondibilità empirica e storica, allo scopo di vedere e stabilire in che cosa essi specificamente

consistano in quanto fatti educativi, e non in quanto deduzioni dottrinali da un complesso di concetti; e

una successiva individuazione dei fattori, dei soggetti, dei fini, dei mezzi e dei metodi dell’educazione,

perseguita e fornita con l’ausilio illuminante delle scienze dell’uomo, dalla filosofia all’antropologia,

dalla psicologia all’igiene, dalla sociologia alla politica, dalla economia a quella che è stata chiamata la

‘filosofia’ della tecnica.

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[…]

Nel fatto della civiltà-cultura come esistenza storica (ma anche come perpetuazione ultrastorica) l’atto

fondamentale e condizionante è l’interscambio società-persona.

Se codesto interscambio non fosse e non avvenisse, la persona non diventerebbe soggetto di civiltà né

la civiltà sorgerebbe; quando esso cessasse, le persone decadrebbero di subito a chiuse individualità

imbarbarite; e la civiltà morrebbe per inaridimento.

L’interscambio società-persona è l’essenza stessa dell’educazione, la quale, così, ha il suo centro più

alto e trascendentale – in quanto trascendente tanto l’educando quanto l’educatore e nello stesso tempo

immanente in quanto è in essi che si esplica – nelle leggi del mondo storico, implicanti come

assolutamente necessario all’esserci stesso e al durare della storia, l’inserimento in essa di chi vi nasce

inconsapevole e primitivo, per esservi fatto uomo elevato ai valori di civiltà e di cultura.

Per tale via e per tale opera tutta propria e solo ad essa propria, l’educazione dischiude la vita

dell’individualità articolandola in quella dell’umanità intesa come civitas historica della civiltà.

La trasmissione della cultura e l’innesto del ‘nuovo venuto’ nel suo mondo non implicherebbe, per sé,

nessun progresso di civiltà, se, da un lato, la nuova creatura non fosse davvero ‘creatura’, opera di

diretta creazione, ossia qualcosa che, prima, ‘non c’era’, non era dato nei termini e negli elementi del

preesistente ad essa; e se, d’altro lato, essa non fosse una persona produttiva in proprio di novità.

È proprio l’individuo nuovo, infatti, col proprio pensiero, il proprio lavoro, le proprie opere – siano

esse l’Iliade, le scoperte d’Erone d’Alessandria o un mattone del Colosseo nel mondo antico, o i

Promessi Sposi, l’energia atomica o un canale di bonifica, oggi – ad accrescere la civiltà del genere

umano.

Sicché avviene che l’umanità, come società che trasmette l’eredità storica per mezzo delle proprie

formazioni sociali, originarie o nate dalla stessa organizzazione civile – la famiglia, la chiesa, la scuola,

l’istituzione di cultura, il parlamento, il foro, la professione, la milizia – eleva l’individuo umano al

livello della società medesima in cui esso nasce, e ve lo inserisce; e l’individuo, in quanto portatore di

spiritualità, in quanto persona, procura alla società e alla storia gli apporti nuovi.

Il singolo, così, genera e crea; la società trasmette e include il generante e creatore nel proprio processo

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storico.

Il fiume è formato e accresciuto dalle sorgive personali; la società è il letto che raccoglie, tramanda e

non lascia alla dispersione i rivi individuali.

La civiltà, cioè, è un fatto sociale a origini personali.

Corrispondentemente, anche l’educazione è un fatto essenzialmente sociale, anzi da genere umano; che

opera però, che deve operare, sempre su ciascun essere umano come singolo, come persona

individuale.

Anche quando pare ‘di massa’, fatto diretto anonimamente a una scolaresca senza volti, considerata, a

guisa di pubblico da conferenza, come comunità indifferenziata, anche allora l’inserimento avviene, nel

fatto, in ciascun essere umano, di ciascun essere singolo.

L’educazione, anche se non se ne accorga e non intenda l’educatore, è sempre opera sociale in chi

educa, in quanto egli rappresenta l’umanità, la voce dei secoli, ma assolutamente personale, e ad

modum educati, nell’educando.

[…]

D’altro canto, l’uomo come puro singolo, avulso dal contesto civile, sarebbe e rimarrebbe sempre, per

costituzione sua, produttore di civiltà, in quanto i principi e le origini della civiltà sono nel singolo e

non nella società come tale; ma il suo sarebbe un perpetuo cominciare; un tornar sempre da capo, senza

progresso costante. Egli ha quindi bisogno di affluire e confluire nel moto dei processi millenari delle

civiltà.

E l’educazione, per necessaria implicanza, mostra in ogni suo aspetto le due compresenze e le due

ineliminabilità. In ogni insegnamento son ravvisabili sempre un elemento tradizionale, storico, retaggio

dei padri e dei maggiori, che si presenta come dato, come oggettivo; ed un elemento originale, nuovo,

produttivistico che viene dalle forze soggettive dello scolaro (e dello stesso maestro in quanto persona

che, mentre insegna, non solo trasmette, ma scopre e partecipa). Analogamente nel rapporto autorità-

libertà (disciplina): l’autorità è il dato, la legge, l’oggettivo; e la libertà è l’atto morale assolutamente

proprio e nuovo, personale nel più stretto senso kierkegaardiano. E in ogni caso il primo elemento è di

tradizione civile, il secondo di personalità produttiva.

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Ora è da osservare che l’educazione, e più il suo organo più tipico e qualificato, che è la scuola, data la

sua funzione di trasmettitrice della cultura, la quale, al momento dell’atto trasmissivo, si presenta come

tradizione, tende quasi per sua natura, o meglio ‘per forza di cose’, a costituirsi conservatrice,

infastidita delle novità, e ad avere in disdegno e a non assecondare i moti della persona – concreta nella

personalità dell’educando – la cui essenza di produttrice di nuovo e del nuovo la sospinge, invece,

all’insofferenza verso il tradizionale e l’antico, verso il ‘passato’, e ad aspirare e tendere al proprio ed

al progressivo.

La famiglia, nonostante molte apparenze contrarie, è generalmente, più della scuola, sensibile ai due

motivi necessari al progresso civile: il senso del valore e della necessità dell’attuale e il rispetto della

persona.

Essa avverte l’importanza e la convenienza, pei propri figli, di essere del proprio tempo, del momento

sociale e di fatto; sia perché sente più direttamente e con più ansia il problema dell’impiego terreno del

figliuolo; sia, più profondamente, perché essa è più in contatto e più in amore con la persona e la

personalità dei nati da essa.

Nella famiglia, costituita nell’amore, l’educazione è, più che altrove, e naturalmente, sentita come

servizio verso la persona del figlio ai fini del suo svolgimento e della sua parte nella vita.

Alla famiglia, però, mancano quasi sempre la coscienza e la nozione della tradizione nel tesoro

concreto delle sue opere, dei suoi documenti e dei suoi ‘monumenti’.

Onde l’ideale sarebbe di portare la famiglia (lo spirito della famiglia) nella scuola, e la scuola (lo spirito

di troppa scuola) nella famiglia; di fare, cioè, una scuola-familiare, in cui l’educazione, come si può

concepire nella contemplazione ideale del suo concetto, posta tra la tradizione e la persona, tra la storia

e l’individualità, risponda insieme e pienamente alle esigenze ed ai valori dell’una e dell’altra:

conservatrice del perpetuo, luce e progresso di nuovo nella spiritualità di ogni educando.

Senza persona, nulla di storia, dunque.

Nel momento stesso in cui questa verità dei fatti, questa realtà è constatata tanto da vicino, diventa di

preliminare necessità conoscere veramente codesta persona, nel suo intimo, anzi nella sua essenza, che

si intuisce costituita necessariamente in abissalità metafisiche.

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Quei motivi e quelle sue note, che ci sono andati apparendo quasi fugacemente, e che abbiamo via via

toccato, accennato per richiami occasionali ogni qual volta si dovevan porre nei loro termini propri i

vari problemi, son perciò da riprendere oramai e da riproporre, a questo punto, in un chiaro proposito e

in uno sforzo sistematico di individuazione e di definizione, atti a chiarirci l’essenza di quella umana

sostanza spirituale da cui si vedono sgorgare come da fonte primigenia i fonti del patrimonio di più

elevato ordine nel mondo, ossia la ‘storia civile’ delle nazioni, la civiltà del genere umano, a cui non

pare possa essere punto terminale la stessa ‘fine del mondo’».


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