UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISAUNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA
FACOLTA' DI MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di Specializzazione in Geriatria
TESI DI SPECIALIZZAZIONE
PAZIENTI DI TIPO GERIATRICO RICOVERATI IN UN REPARTO DI MEDICINA D'URGENZA: UNO STUDIO
OSSERVAZIONALE
Candidato: Relatore:
Dr. Alessia Bemi Prof. Franco Carmassi
Anno Accademico: 2010-2011
1
Muoio grazie all'aiuto di troppi dottori
Alessandro Magno
La maggior parte di noi nasce con l'aiuto del medico e muore allo stesso modo
G.B. Shaw
Il miglior modo per uscirne fuori è passarci in mezzo.
Robert Frost
2
INDICE
RIASSUNTO.....................................................................................................pag. 5
L’ANZIANO FRAGILE …...........................................................................pag. 10
• Demografia dell’anziano
• Il concetto di fragilità
• Epidemiologia della fragilità
• Indici di fragilità ed outcome clinico
DEFICIT COGNITIVI E FUNZIONALI NELL’ANZIANO................... pag. 17
• Mild Cognitive Impairment
• Delirium
• Disabilità
ANZIANO FRAGILE E OSPEDALIZZAZIONE..................................... pag. 27
L’ANZIANO IN PRONTO SOCCORSO................................................... pag. 32
•• L’anziano verso il PS
•• L’anziano in PS
•• Fattori prognostici negativi per l’anziano in PS
•• PS a misura d’anziano: nuove proposte
SCOPO DELLO STUDIO............................................................................ pag. 45
MATERIALI E METODI …........................................................................pag. 45
• Pazienti e metodi
3
• Metodi di dosaggio
• Analisi statistica
RISULTATI.....................................................................................................pag.47
• Parametri demografici, clinici, bioumorali e deficit cognitivo
• Degenza e compromissione cognitiva
• Deficit cognitivo e mortalità
DISCUSSIONE...............................................................................................pag. 50
BIBLIOGRAFIA............................................................................................pag. 55
LEGENDA FIGURE.......................................................................................pag.79
FIGURE E TABELLE...................................................................................pag. 82
4
RIASSUNTO
L' invecchiamento dei baby-boomers farà affollare in maniera senza
precedenti i Dipartimenti di Emergenza di un numero sempre crescente di
pazienti geriatrici nei prossimi trenta anni a venire. Gli odierni protocolli
operativi di emergenza sono spesso scarsamente dotati di strumenti per
riconoscere e trattare la vasta galassia dell'insieme di sindromi pato-
fisiologiche chiamate sindromi geriatriche.
La disfunzione cognitiva è una di queste e racchiude in sé il lieve deficit
cognitivo, il delirium e la demenza. Molti trials clinici hanno ampiamente
dimostrato come i sanitari di PS non riconoscano le disfunzioni cognitive;
peraltro, in più del 70% dei pazienti di PS con disfunzione cognitiva, non c'è
diagnosi precedente di demenza. (ann emerg med 2011 carpenter).
Nei paesi industrializzati, e in particolare in Italia, il miglioramento delle
condizioni socio-economiche e sanitarie e la riduzione del tasso di natalità
hanno determinato una trasformazione demografica di notevole entità, che
porterà ad un’inversione della piramide demografica per la metà di questo
secolo.
La dinamica demografica pone il nostro fra i Paesi con la più alta percentuale
di anziani: oltre il 20%, ossia quasi 12 milioni di persone, hanno un’età
superiore a 65 anni e circa l’11% superiore ad 80 anni.
Per la persona anziana il concetto di salute è espresso, principalmente, in
termini di autonomia funzionale anche in presenza di malattia; per tale motivo
grande rilevanza assumono le problematiche cognitive, dalle forme più gravi
5
di demenza (Alzheimer, Lewy) ai disordini apparentemente minori. Gli
anziani con plurime patologie e fragili hanno minore capacità di adattamento
e quindi una maggiore probabilità di andare incontro ad eventi avversi acuti o
riacutizzazione di una o più patologie, con conseguente ospedalizzazione. Le
persone in età geriatrica necessitano, in media, di visite più urgenti e di più
frequenti ricoveri con tempi di degenza solitamente più prolungati rispetto
agli adulti non anziani.
L’attuale organizzazione dei dipartimenti d’emergenza-urgenza (DEA) non
sempre tiene conto della necessità del paziente anziano di permanere il meno
possibile nel DEA e dei suoi bisogni, determinati non solo dalle numerose
patologie, ma anche da problemi sociali ed esistenziali, dalla disabilità e dalla
precaria performance cognitiva ed affettiva. Malgrado crescenti evidenze
scientifiche suggeriscano l’importanza di una completa valutazione
funzionale e cognitiva nell’assessment del paziente anziano con patologia
acuta, in quanto importante fattore prognostico negativo, raramente questa
viene eseguita al momento del ricovero.
SCOPO DELLO STUDIO
Lo scopo del presente studio è: 1) verificare la prevalenza ed il grado di
deficit cognitivo nei pazienti ultrasettantenni afferenti al DEA della AUOP e
ricoverati nella U.O. Medicina di Urgenza (non UTI); 2) valutare la possibile
correlazione tra lo stato funzionale cognitivo, la patologia motivo del ricovero
ed i parametri ematochimici di routine; 3) verificare la possibile interazione
tra deficit cognitivo, durata della degenza ed outcome clinico; 4) valutare la
variazione dello stato cognitivo al momento della dimissione.
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MATERIALE E METODI
Studio osservazionale, prospettico su 205 pazienti, (55.6% donne) di età me-
dia (±DS) 81.5±6.0 anni, ricoverati consecutivamente tra aprile e luglio 2010,
nel reparto di Medicinad’Urgenza (non UTI) della AOUP. Sono stati esclusi
dallo studio i pazienti identificati come codice rosso al triage del Pronto Soc-
corso (PS) e quelli in stato confusionale secondario a trauma cranico e/o abu-
so (stupefacenti,alcool, farmaci psicotropi). All’ingresso in PS sono stati rac-
colti i principali parametri vitali (PA, FC, TC, SO2) e valutata la presenza di
delirium mediante Confusion Assessment Method (CAM). Presso il reparto di
degenza, entro 24 ore dall’accesso, sono stati valutati: stato funzionale me-
diante indice di Barthel, stato cognitivo con il Mini Mental State Examination
(MMSE), il grado di comorbidità mediante dell’Indice di
Charlson, i parametri ematochimici di routine e la funzione tiroidea.
RISULTATI
Nel presente studio la prevalenza di deficit cognitivo (punteggio al MMSE <
di 24) risultava superiore al 70%. E’ stata accertata una significativa correla-
zione tra punteggio MMSE con alcuni parametri demografici, clinici ed ema-
tochimici. Nello specifico, il punteggio MMSE presentava una correlazione
diretta con l’indice di Barthel (p<0.0001; R=0.78), i livelli di albumina sierica
(p=0.0004; R=0.32) e di FT3 (p=0.03; R=0.15) ed inversa con l’età
(p<0.0001; R=-0.33), l’indice di Charlson (p=0.06; R=-0.13) e il valore della
VES (p=0.01; R=-0.22). Abbiamo inoltre osservato come la presenza di deli-
rium si associasse ad una maggiore compromissione cognitiva [0.0 (0-26) Vs
22.0 (0-30); p<0.0001]. E’ stata inoltre indagata la connessione tra deficit co-
7
gnitivo e patologia acuta motivo del ricovero; i pazienti con
disidratazione/squilibrio elettrolitico (p=0.0009) e febbre (p=0.03) presenta-
vano un grado maggiore di compromissione cognitiva.
Per quanto riguarda la mortalità intraospedaliera, risultata pari all’8%, abbia-
mo documentato che i pazienti deceduti presentavano più frequentemente de-
lirium (p=0.0004), una maggiore compromissione cognitiva (p=0.0003) e fun-
zionale (p=0.003), oltre a una maggiore comorbilità (p=0.03) e un’età più
avanzata (p=0.0004). Differenze statisticamente significative tra i pazienti so-
pravvissuti e quelli deceduti sono state documentate anche per quanto riguar-
da i livelli plasmatici di glicemia (p=0.02), albumina (p=0.02), creatinina
(p=0.04), LDH (p=0.02), PCR (p=0.03) e potassiemia (p=0.04). Mediante re-
gressione logistica multipla, ponendo la mortalità come fattore dipendente e
punteggio MMSE, indice di Barthel, presenza di delirium, indice di Charlson,
età e i parametri ematochimici sopra riportati come variabili indipendenti, la
compromissione cognitiva (p<0.003), seguita dall’iperglicemia (p<0.01), ri-
sulta essere il maggior fattore di rischio indipendente di mortalità. In partico-
lare un declino cognitivo severo (MMSE<18) comportava un rischio di mor-
talità 5 volte superiore [Odds ratio 5.5 (95% CI: 3-10)]. Infine, non abbiamo
documentato alcuna correlazione significativa tra punteggio MMSE, indice di
Charlson e di Barthel e durata della degenza [3.0 giorni (1-29), mediana e ran-
ge]. Abbiamo inoltre osservato un miglioramento del deficit cognitivo alla di-
missione [18 (0-30) Vs 16 (0-30); p<0.0001)], che risultava indipendente dal-
la presenza o meno di delirium, dal grado di comorbidità e di compromissione
cognitiva iniziale e dalla durata della degenza.
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CONCLUSIONE
Il presente studio documenta un’elevata prevalenza di deficit cognitivo nella
popolazione ultra-settantenne con patologia acuta, con quasi il 50% dei pa-
zienti con punteggio MMSE inferiore a 18. La compromissione cognitiva ri-
sulta inoltre essere il più importante fattore predittivo di mortalità a breve ter-
mine, suggerendo quindi la necessità di includere la valutazione dello stato
cognitivo nell’inquadramento clinico del paziente anziano con patologia acu-
ta. Quest’ultima inoltre sembra determinare un transitorio peggioramento
delle capacità cognitive, come suggerito dal miglioramento del MMSE al mo-
mento della dimissione, miglioramento che risulta indipendente dalla durata
della degenza e dal grado di compromissione cognitiva iniziale.
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L’ANZIANO FRAGILE
Demografia dell’anziano
L’invecchiamento è un processo che interessa tutti gli organismi viventi che
sono soggetti ad uno sviluppo ed ad una maturazione fino all’inevitabile
progressiva senescenza. Il destino biologico dell’essere umano è associato ad
altre modificazioni di uguale importanza come l’aspetto psicologico e il
contesto sociale. Invecchiare è un processo ineluttabile, anche se diverso per
ogni individuo.
Nei paesi industrializzati e in particolare in Italia, il miglioramento delle
condizioni socio-economiche e sanitarie e la riduzione del tasso di natalità
hanno determinato una trasformazione demografica di notevole entità, che
porterà ad un’inversione della piramide demografica per la metà di questo
secolo, con una marcata riduzione delle nascite, associata ad un significativo
aumento della popolazione della terza età. La dinamica demografica pone
l’Italia fra i paesi con la più alta percentuale di anziani nella popolazione:
oltre il 20% , ossia circa 12 milioni di abitanti hanno un’età superiore a 65
anni (1). Stime di recenti proiezioni contano che entro il 2051 gli anziani
ammonteranno a circa 20.3 milioni di persone, ed in termini di percentuali
raggiungeranno il 33%. Inoltre, all’interno di questa classe di età, aumenta il
peso dei “Grandi Vecchi”, la quota degli anziani sopra gli 80 anni, che subirà
un incremento altrettanto rapido da circa il 6% nel 2010 ad oltre il 9% nel
2030, vale a dire circa 1 italiano su 10. Viceversa, la quota di giovani (fino a
14 anni di età) scenderà al 14.1% nel 2010, ed all’11.6% nel 2030 (1). In
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questo contesto l’indice di vecchiaia, che misura appunto il rapporto numerico
tra anziani e giovani, crescerà costantemente, passando da 127 anziani per
100 giovani nel 2000, a 146 nel 2010, a 242 nel 2030 fino alla cifra
allarmante di 301 nel 2050.
Al di là delle possibili deviazioni dalla dinamica demografica prevista, un
fatto rimane comunque assodato: il paese dovrà convivere con una sempre
maggiore presenza di anziani e predisporre le strutture per assorbirne
positivamente l'impatto. Il progressivo invecchiamento della popolazione, si
rifletterà, infatti, sulle diverse sfere della società (stato di salute della
popolazione, sistema previdenziale, potenziale umano ecc..) e sui bisogni di
incrementare e migliorare i servizi sociali, assistenziali e sanitari.
Il concetto di fragilità
Nell’anziano il concetto di salute è espresso, principalmente, in termini di
autonomia funzionale anche in presenza di malattia, per tale motivo grande
rilevanza assumono le problematiche cognitive, dalle forme più gravi di
demenza (Alzheimer, Lewy) ai disordini apparentemente minori. Il concetto
di autonomia funzionale inoltre non deve prescindere da alcuni bisogni
fondamentali quali l’affettività, intesa sia come attaccamento emotivo sia
come vicinanza fisica, l’autonomia, fisica e psicologica, la sessualità,
l’autostima e l’autorealizzazione (2). Partendo da questi presupposti si è
delineata una nuova entità clinica: l’anziano fragile. Scriveva lo studioso
Hazzard: “alla domanda: chi è il tipico paziente geriatrico? La risposta è:
pensa al più anziano, al più malato, al più complicato ed al più fragile dei
11
tuoi pazienti... affetto di solito da multiple patologie, la cui presentazione è
spesso atipica e portatore di deficit funzionali. I suoi problemi di salute sono
cronici, progressivi e solo in parte reversibili...” (3).
L’anziano fragile è pertanto un soggetto d’età avanzata o molto avanzata,
cronicamente affetto da patologie multiple, con stato di salute instabile,
frequentemente disabile, in cui gli effetti dell’invecchiamento e delle malattie
sono spesso complicati da problematiche di tipo socio-economico. La fragilità
comporta di conseguenza un rischio elevato di rapido deterioramento della
salute e dello stato funzionale ed un elevato consumo di risorse (4).
Il gruppo di ricerca che ha proposto uno dei modelli interpretativi della
fragilità più ampiamente accettato per la pratica clinica è quello coordinato
da L. Fried (4, 5). Questi hanno tracciato una definizione di fragilità in cui
svolgono un ruolo centrale sarcopenia e malnutrizione, che condurrebbero a
ridotta produzione di energia e quindi condizionerebbero negativamente
attività fondamentali quali camminare e mantenere l’equilibrio. Il modello
riconosce che alla genesi della fragilità contribuiscono le malattie (acute e
croniche), intese come eventi stressanti, che si sommano alle modificazioni
legate all’invecchiamento. La cascata di eventi conduce ad un quadro
complesso di sindromi, che è almeno in parte indipendente dagli eventi che lo
hanno determinato, ed è caratterizzato da cinque condizioni misurabili:
debolezza muscolare,
perdita involontaria di peso,
riduzione della velocità del cammino,
ridotto livello di attività fisica,
maggior senso di fatica.
12
Secondo questo approccio, coloro che presentano tre o più di tali condizioni
possono considerarsi fragili, mentre la presenza di una o due condizioni viene
considerata una condizione di “pre-fragilità”.
E’ stato infatti dimostrato che una marcata sarcopenia si accompagna ad una
riduzione della massa grassa, perdita di massa ossea, instabilità posturale,
minor capacità di termoregolazione (4). A tali fenomeni conseguono un
aumentato rischio di declino funzionale, cadute, fratture, ipo-ipertermia,
malattie cardiovascolari (4).
All’istaurarsi della fragilità contribuisce inoltre la disregolazione di alcuni
sistemi:
• Asse ipotalamo-ipofisi-surrene con un aumento cronico dei livelli di
cortisolo, quindi un aumento della resistenza insulinica e riduzione
delle difese immunitarie. E’ presente inoltre una neurodegenerazione
a livello ippocampale determinante un aumento del catabolismo
muscolare, del rischio cardiovascolare e deterioramento mentale (5);
• Un’aumentata attività del sistema simpatico che contribuisce
all’aumento del cortisolo plasmatico;
• Minore reattività del sistema immunitario con maggior vulnerabilità nei
confronti delle infezioni e più elevati indici d’infiammazione (in
particolare IL6 e TNF-α);
• Riduzione di GH e DHEAS che contribuisce alla perdita di massa
muscolare ed ossea.
Altri meccanismi biologici sono comunque coinvolti nella genesi della
fragilità, dal momento che tale condizione è spesso caratterizzata anche dalla
presenza di anemia, segni di malnutrizione calorico-proteica (diminuiti livelli
13
di albumina e proteine totali), aumentati livelli di D-dimero espressione di
un’attivazione inappropriata della coagulazione, condizione correlata
nell’anziano all’aumento del rischio di declino funzionale e mortalità (6).
Epidemiologia della fragilità
Esiste un’ampia letteratura sulla prevalenza della fragilità. Secondo uno
studio americano circa il 7% degli ultra-sessantacinquenni residenti in
comunità è portatore di fragilità con una incidenza a tre anni del 7% (5).
Questi pazienti presentavano un rischio di mortalità, cadute, ospedalizzazioni
e disabilità significativamente maggiore rispetto ai “non fragili”. Dallo stesso
studio è emerso che la prevalenza di fragilità aumentava in modo
esponenziale con l’avanzare dell’età, interessando oltre il 26% della
popolazione tra gli 85 e 89 anni (5). Un dato molto più allarmante è riportato
dall’Associazione Medica Americana: circa il 40% degli ultraottantenni è
portatore di fragilità (7). La recente indagine SHARE - Survery of Health,
Aging and Retirement in Europe-, che analizza un campione di 18227 pazienti
viventi in 10 paesi europei di età superiore a 50 anni, mostra che la fragilità è
presente nel 17% degli ultrasessantacinquenni, con una maggior prevalenza
nel sesso femminile (8). La conferma di questi dati si ritrova anche nel
Women’s Health Initiative Observational Study dove la prevalenza della
fragilità nelle donne era pari al 16.3% (9). Altro dato interessante in questo
studio è la scoperta che alcuni fattori di rischi come il fumo e sintomi
depressivi, oltre ovviamente all’elevata comorbidità e l’età avanzata, sono
associati all’aumento del rischio di sviluppare fragilità (9).
14
In Italia i dati di prevalenza rispecchiano queste percentuali. Nello studio
“Invecchiare in Chianti”, la percentuale di anziani fragili sfiora il 9% (10), del
tutto paragonabile al 7.6% riportato da un altro studio italiano ILSA (11).
Questi ricercatori hanno inoltre dimostrato che la fragilità è un determinante
di mortalità a breve e lungo termine (5, 11, 12). La probabilità d’andare
incontro a questo evento è due volte maggiore nelle persone fragili e ancora
più elevata se questi pazienti presentano anche deficit cognitivo (11).
Indici di fragilità ed outcome clinico
Molte ricerche sono state portate avanti nel tentativo di creare un indice
quantitativo di fragilità, facilmente ripetibile ed applicabile in diversi setting,
che permettesse di individuare i soggetti maggiormente a rischio (12-16).
Rokwood et al. hanno definito la fragilità come un accumulo di deficit
riguardanti vari ambiti, quali quello cognitivo, nutrizionale, funzionale,
affettivo oltre a quello sociale (12-14). Nell’insieme questi deficit vanno a
definire un indice di fragilità, “Frailty Index”, direttamente correlato alla
mortalità e all’ospedalizzazione con un rischio relativo ad un anno di 3.1 e
9.4, rispettivamente, per i soggetti con grado di fragilità maggiore (13). In uno
studio successivo, lo stesso autore ha utilizzato il CSHA Clinical Friality
Index Scale, che definisce 7 gradi di fragilità attraverso una complessa
valutazione multidimensionale geriatrica che includeva anche la presenza di
deficit di vista ed udito e di alcune patologie mediche (diabete mellito,
ipertensione arteriosa sistemica, problemi urinari e gastrointestinali, tireopatie
etc) (14). In tale studio il passaggio da un grado di fragilità a quello
15
successivo determinava un aumento della mortalità e del rischio di
ospedalizzazione del 21 e 24%, rispettivamente. Tali studi prevedono però
una valutazione piuttosto complessa e articolata, spesso non applicabile in
tutti i contesti.
Alcuni autori (17) hanno proposto pertanto l’utilizzo di semplici test, quali il
test della sedia e della velocità del cammino, come strumenti diagnostici per
identificare e quantificare una condizione di fragilità, e hanno riscontrato un
ampia correlazione tra questa classificazione e la disabilità: tra i soggetti non
fragili solo il 4% non otteneva un punteggio pieno all’IADL (Instrumental
Activities of Daily Living), questa percentuale superava il 60% se considerato
il sottogruppo di anziani con più elevato grado di fragilità (17). La fragilità
era anche fortemente associata ad una diminuita sopravvivenza a 20 mesi,
passando da un 90.5% nei soggetti non fragili fino al 80% nei pazienti
gravemente fragili (17). Numerosi studi in letteratura hanno inoltre utilizzato i
criteri di fragilità (CHS Index) proposti da L. Fried et al. (5), confermandone
la validità e la facile applicabilità (9, 18, 19, 20, 21).
Woods et al., conducendo uno studio su un campione di donne ultra-65enni,
hanno dimostrato che la fragilità è associata significativamente ad un
aumentato rischio di morte (OR 2.45), ospedalizzazione (OR 4.21), disabilità
nelle attività della vita quotidiana (OR 3.15) e fratture (OR 1.74) (9).
Cowthon et al. hanno confermato, in un campione di circa 6000 anziani, una
forte associazione tra fragilità e mortalità, risultata pari al 6.9% nei soggetti
robusti, 14% nei pre-fragili e superiore al 40% nei soggetti fragili (18). In altri
termini questi anziani avevano un rischio di mortalità 8 volte superiore
rispetto agli altri (18).
16
Questo studio inoltre conferma come la prevalenza di fragilità aumenti
esponenzialmente all’aumentare dell’età passando dal 1.6% nei soggetti d’età
compresa tra 65 e 69 anni per passare all’11% negli ultra-ottantenni (18).
Ensrud et al. (19) hanno proposto un indice di fragilità di più veloce
esecuzione che analizza solo 3 condizioni (perdita di peso, inabilità ad alzarsi
dalla sedia e mancanza di energia) e lo hanno posto a confronto con il CHS
Index utilizzato dalla Freid per comprovarne la validità. I risultati mostrano
che i soggetti inquadrati come fragili in entrambe le classificazioni hanno un
rischio elevato e parzialmente sovrapponibile di andare incontro ad eventi
avversi: OR per ripetute cadute pari a 3.03 (verso 3.56 valutato mediante CHS
Index), OR per disabilità 5.28 (verso 7.52), OR fratture vertebrali 2.15 (verso
2.30) e infine OR per mortalità 2.53 (verso 3.51) (19). Uno studio tedesco
analizza invece l’applicabilità e la validità del CHS Index in un diverso
setting: quello del medico di medicina generale (MMG) (22). I dati ancora
una volta confermano un’elevata prevalenza di fragilità (14.3%) e la validità
di questo indice nell’identificare i pazienti anziani maggiormente a rischio i
termini di comorbidità, rischio di cadute, scarsa qualità di vita, declino
cognitivo. Tale studio suggerisce come anche il MMG potrebbe svolgere un
ruolo chiave nell’identificazione e prevenzione della fragilità negli anziani
(22).
DEFICIT COGNITIVI E FUNZIONALI NELL’ANZIANO
L’obiettivo della promozione della salute nella popolazione geriatrica non è
la sola prevenzione e cura delle patologie, ma anche il mantenimento di una
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autonomia che garantisca una vita dignitosa da un punto di vista psico-
affettivo e sociale. In tale contesto assumono rilevante importanza le
problematiche cognitive e funzionali, e quindi il loro precoce riconoscimento
e la prevenzione dei possibili eventi avversi ad esse correlati.
Mild cognitive impairment
Se in passato la stessa demenza era considerata una sequela normale
dell’invecchiamento e quindi null’altro che l’accentuazione di un ineluttabile
processo fisiologico, negli ultimi anni l’interesse scientifico si è rivolto anche
verso quei disturbi cognitivi sub-clinici propri dell’anziano e si è andata a
delineare una nuova entità clinica caratterizzata appunto dalla presenza di
deficit cognitivi più sfumati: il Deficit Cognitivo Lieve o Mild Cognitive
Impairment (23).
In passato sono state fornite diverse definizioni cliniche di deficit cognitivi
sub-clinici legati all’invecchiamento quali: la “smemoratezza senile benigna”
(24), i “deficit di memoria associati all’età” (AAMI) (25) e il “declino
cognitivo associato all’età” (AADI) (26).
Solitamente tali entità cliniche venivano individuate come deficit cognitivi
isolati o multipli, accomunati soprattutto dalla nozione che questi deficit non
fossero evolutivi e quindi nei limiti di un invecchiamento naturale (23). In
particolare l’AAMI definisce un disturbo di memoria lieve nell’anziano (un
punteggio a test standardizzati di una deviazione standard inferiore rispetto
alla popolazione di controllo adulta), non correlato ad altri deficit
neuropsicologici o processi patologici causali e di entità tale da non interferire
con la vita quotidiana (25). Al contrario i criteri diagnostici per l’AACD
18
prevedono una valutazione neuropsicologica più estesa, non limitata quindi
alla sola memoria, che includa l’attenzione, concentrazione, apprendimento,
pensiero, linguaggio, età, sesso e livello di educazione (26, 27). Più
recentemente la normalità di queste condizioni è stata messa in dubbio. E’
stato infatti dimostrato che i soggetti anziani non dementi, ma con lievi
disturbi cognitivi, inquadrabili nei quadri clinici sopra citati, presentavano un
rischio di sviluppare demenza degenerativa superiore rispetto a quanto atteso
nella popolazione normale (28-30). Altre definizioni sono state allora
proposte per definire entità cliniche in cui il disturbo cognitivo sub-clinico
abbia un legame con stati francamente patologici, come il “lieve disordine
cognitivo” (31), il “lieve disturbo neuro-cognitivo” (27), fino al “disturbo
cognitivo lieve” o “Mild cognitive impairment (MCI)” (28, 30). Il concetto di
MCI, con cui ci si riferisce ad una popolazione di soggetti anziani non
compromessi sul piano delle attività del daily living, ma con un disturbo sub-
clinico e isolato di memoria potenzialmente a rischio per lo sviluppo di
demenza (in particolare di Alzheimer), è stato introdotto inizialmente proprio
per definire lo stato di transizione fra normale invecchiamento e demenza
franca. La diagnosi di MCI viene stabilita, secondo Petersen e collaboratori in
presenza di: a) disturbi soggettivi di memoria, b) rendimento patologico per
età e scolarità in prove di memoria, c) non interferenza del disturbo sulle
attività della vita lavorativa, sociale e quotidiana del soggetto, d) normalità
delle altre funzioni cognitive e) assenza di demenza e f) assenza di altre
condizioni morbose che possano spiegare il disturbo di memoria (ad es.
depressione, malattie endocrine ecc.) (28, 32, 33).
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Benché tale definizione di MCI sia stata ampiamente utilizzata, ha rivelato
ben presto alcune “debolezze” operative al punto di creare questioni tuttora
irrisolte relative alla possibilità di definire il MCI nel contesto clinico e alla
validità dei criteri diagnostici stessi (34). Lo stesso Petersen ha modificato più
volte i criteri diagnostici, distinguendo all’interno di questa entità clinica
diversi sottogruppi: MCI amnesico verso MCI non amnesico, MCI isolato
verso MCI multiplo, MCI degenerativo verso quello vascolare (35,36). La
confusione, generata dalla presenza di molteplici criteri classificativi e
diagnostici per la diagnosi di MCI, ha dato vita in letteratura ad
un’elevatissima variabilità circa la sua prevalenza, la sua prognosi e più
specificatamente la probabilità di progressione in demenza (23,29,37,38). A
questo proposito in letteratura viene riportata una prevalenza variabile
dall’1% al 25%, che riflette appunto i diversi criteri diagnostici utilizzati, le
metodiche di misura e la dimensione delle popolazioni studiate (33,39). Ad
esempio, se si considera il deficit di memoria associato all’età (AAMI) è
riportata una prevalenza nei soggetti ultra-sessantacinquenni variabile dal 7%
(40) al 38% (41) fino ad arrivare addirittura al 98% (42), con una incidenza
annua di 6.6 per 1000 nei soggetti con età superiore a 80 anni. A dimostrare
l’artificiosità dei criteri clinici-diagnostici utilizzati, è interessante citare un
lavoro di Ganguli et al., che riporta una prevalenza della MCI variabile dal
1.1 al 9.9% a fronte di una percentuale relativa di AAMI del 36% nella stessa
popolazione (43). Anche per quanto riguarda il deficit cognitivo associato
all’età (AACD), i dati in letteratura sono contrastanti con una prevalenza
variabile dal 6% circa (44) al 27% (45). Lo studio di Busse et al., condotto su
1045 soggetti con età superiore a 75 anni, riporta inoltre un progressivo
20
incremento con l’età della sua prevalenza (5.9% nei soggetti tra i 75 e79 anni
contro il 14.6% negli ultra-ottantacinquenni) ed incidenza annua (32.7/1000
nel primo gruppo d’età Vs 109.8/1000 nel secondo) (44). Lo stesso studio
riporta una prevalenza di MCI intorno al 3%, in linea con precedenti studi
(29,46), con una incidenza annua di 8.5 casi per 1000 abitanti; prevalenza ed
incidenza, analogamente a quanto accade per l’AACD, mostrano una
tendenza ad aumentare con l’età senza però raggiungere la significatività
statistica. Altri studi al contrario riportano dati più allarmanti con una
prevalenza intorno al 15% (47). La stessa variabilità si presenta circa i tassi di
progressione della MCI verso la demenza, che si assestano tra il 10-15% per
anno (33,38,48,49,50), per salire a percentuali variabili dal 20 al 50% in 2-3
anni (51-54). Tale variabilità, come fanno notare alcuni autori (30,33), è in
gran parte dovuta a differenza nei criteri clinici applicati e nelle valutazioni
neuropsicologiche utilizzate per selezionare i pazienti. Ad esempio, i tassi
annuali di conversione in demenza per i soggetti classificati secondo i criteri
del AAMI vanno dall’1-3% al 24% (38). Il gruppo di soggetti che risponde ai
criteri del AACD è risultato essere più omogeneo di quello dei soggetti MCI
con una progressione verso la demenza del 28.6% in un follow-up di tre anni,
smentendo quindi che l’AACD sia un entità clinica stabile, non progressiva e
quindi sostanzialmente non patologica (38). Nonostante tale difformità di dati
circa la conversione in demenza, è diffusa l’opinione che il mild cognitive
impairment sia da considerarsi una condizione morbosa, non solo destinata ad
evolversi ma anche meritevole di trattamento farmacologico (55). D’altra
parte è da notare che molti dati in letteratura riportano come una variabile
percentuale di pazienti con tale deficit ritorni ad uno stato cognitivo di
21
normalità durante il follow-up (34,43,46,56). Ad esempio Larrieu et al. ad un
follow-up di 2 anni hanno documentato come oltre il 40% dei pazienti con
MCI tornava alla normalità (46). Una percentuale simile è stata inoltre
riportata anche da uno studio di Ganguli et al. Durante un follow-up di 10
anni (43).
Se è ben documentato in letteratura come il deficit cognitivo grave, in
particolare la demenza, sia associato ad un’aumentata mortalità (57-61),
alcuni autori hanno riportato un’associazione tra MCI e aumentata mortalità
(61-64) contrariamente ad altri studi (65,66). Bassuk et al. hanno
documentato una differenza statisticamente significativa nelle curve di
sopravvivenza tra soggetti severamente, moderatamente e non compromessi
sul piano cognitivo; in particolare negli anziani tra i 65 e 80 anni una
moderata compromissione cognitiva si associava ad un rischio di morte a due
anni pari a 2.2 (RR) rispetto ai soggetti non compromessi, indipendentemente
dal grado comorbidità (63). Tale eterogeneità di dati potrebbe essere non solo
dovuta alla mancanza di criteri univoci per la diagnosi, ma anche al fatto che
nel paziente anziano fragile lo stato cognitivo è fortemente influenzato da
stato affettivo, stato psico-relazionale e comorbidità somatica, la cui
alterazione anche solo momentanea può avere ripercussioni, in parte
reversibili, sulla sfera cognitiva. Ad esempio, circa il 60% di pazienti con
MCI presenta un quadro di depressione e non è sempre chiaro se quest’ultima
sia una manifestazione reattiva o la causa del deficit cognitivo stesso (67).
22
Delirium
Per gli anziani fragili assume importanza anche un'altra patologia
appartenente ai disturbi cognitivi: il delirium. Il delirium è una sindrome
psico-organica caratterizzata da una transitoria e fluttuante alterazione dello
stato di coscienza, ad esordio acuto o subacuto, con ripercussioni sulle
capacità cognitive. Dal punto di vista clinico si caratterizza per un'elevata
variabilità di sintomi, sia in termini quantitativi che qualitativi, e per la
presenza di compromissione dello stato di vigilanza, dell’attenzione,
dell’orientamento, del pensiero astratto, della memoria, del comportamento e
del ritmo sonno-veglia (68). L’esordio è acuto e avviene nel giro di poche ore
o alcuni giorni; la durata non supera di solito il mese (69). La gravità della
sintomatologia varia notevolmente e in modo imprevedibile nell’arco della
giornata e tende ad essere più marcata durante la notte. Il delirium può essere
definito sulla base delle caratteristiche cliniche con le quali si manifesta:
ipercinetico, ipocinetico e misto.
Il primo è caratterizzato da aumento della quota ansiosa, iperattività e
aggressività; il secondo da apatia, ipoattività e/o letargia ed il terzo dalla
presenza contemporanea o a fasi alterne di entrambi i quadri (68). I pazienti
anziani risultano particolarmente a rischio di sviluppare delirium, in parte per
la presenza di deficit cognitivi preesistenti, ed inoltre per la presenza di
comorbidità, fragilità e poli-farmacoterapia (70,71). In letteratura viene
riportato infatti come la sua prevalenza si attesti intorno a valori compresi tra
il 30 fino al 60% dei soggetti con una patologia acuta o cronica scompensata
(68,72-75). Fino al 60% dei residenti nelle case di riposo d’età superiore ai 75
23
anni può presentare delirium in qualsiasi momento e l’80% dei pazienti con
malattie terminali sviluppa delirium in prossimità della morte (69).
Clinicamente il delirium dell’anziano è importante non solo per l’elevata
prevalenza, ma anche perché spesso costituisce la sintomatologia d’esordio di
una patologia acuta la cui mancata diagnosi potrebbe peggiorare
notevolmente la prognosi del paziente (71,76,77). A tale proposito, in
letteratura sono stati proposti numerosi acronimi per schematizzare le diverse
possibili cause di delirium. Le Linee Guida della società italiana di Geriatria
e Gerontologia suggeriscono l’utilizzo di VINDICATE: Vascular, Infections,
Nutrition, Drugs, Injury, Cardiac, Autoimmune, Tumors, Endocrine (78).
Tali acronimi sono utili soprattutto per sottolineare l’importanza di evitare di
trattare con farmaci sintomatici senza prima aver individuato le cause
sottostanti (68). Poiché nel paziente anziano è sufficiente un fattore esterno
di lieve entità per alterare il delicato equilibrio omeostatico cerebrale, è di
fondamentale importanza riuscire ad individuare i pazienti a maggior rischio
di sviluppare delirium ed evitare per quanto possibile in questi soggetti tutte
quelle condizioni potenzialmente precipitanti. Fattori predisponenti nel
paziente anziano per lo sviluppo del delirium sono rappresentati dal deficit
visivo e uditivo, deterioramento cognitivo, gravità della malattia acuta e
disidratazione (70,71,79,80); in particolare, in uno studio di Inouye et al.
combinando tali fattori era possibile identificare tre gruppi di rischio (basso,
intermedio, elevato) in grado di predire con rapporto dose-effetto, outcomes
negativi, come il decesso e l’istituzionalizzazione (79).
I possibili fattori precipitanti, oltre ovviamente alle malattie sistemiche (ictus,
cardiopatie, malattie polmonari etc.), vanno dall’uso di mezzi di contenzione
24
fisica o l’uso di catetere vescicale fino a condizioni quali la coprostasi,
ritenzione urinaria, malnutrizione e l’introduzione di 3 o più farmaci, in
particolare di psicotropi (78,80-83). In particolare i bassi livelli sierici di
albumina, specie laddove sia già presente malnutrizione calorico-proteica,
oltre a costituire di per sè un fattore predisponente, possono concorrere a
determinare un incremento delle concentrazioni plasmatiche libere di farmaci,
aumentandone la potenziale tossicità a livello del SNC (84).
Disabilità
La disabilità funzionale negli anziani è intesa come una difficoltà acquisita
nello svolgimento delle attività quotidiane di base o di compiti più complessi
necessari per mantenere una vita indipendente. La disabilità comprende tre
dimensioni: fisica, mentale, emotiva. Le prestazioni fisiche si riferiscono a
funzioni sensoriali e motorie del corpo. La perfomance emotiva è misurata
attraverso l’adattamento dei soggetti ai vari eventi della loro vita e infine
quella mentale è valutata attraverso test che misurano la capacità intellettuale
e razionale degli individui. Le misure più utilizzate di disabilità funzionale
sono quelle che valutano le attività della vita quotidiana (Activities of Daily
Living, ADL), le attività strumentali della vita quotidiana (Instrumental
Activities of Daily Living, IADL) e la mobilità. Le prime indicano attività
riguardanti la cura di sé, come ad esempio vestirsi, andare in bagno,
mangiare. Le attività strumentali indicano azioni necessarie per mantenere
una vita indipendente all’interno della comunità e sono ad esempio: uso del
telefono, fare la spesa, cucinare i pasti, pulizie, assunzione di farmaci e
25
gestione delle finanze. La disabilità è molto frequente tra gli anziani residenti
in comunità, aggirandosi tra il 20 e il 40% (4,85,86), con maggiore prevalenza
nelle donne e con una incidenza estremamente variabile dal 5.6 al 47% nei
diversi studi (85,87-90). Secondo dati ISTAT aggiornati al 2007, il 44.5%
degli ultra-ottantenni presenta disabilità grave (91). Ovviamente la prevalenza
e la gravità della disabilità aumenta esponenzialmente con l’età, subendo un
sensibile incremento dopo i 75 anni e ancor di più dopo gli 80 anni (91,92).
Secondo alcuni studi (93,94), infatti, se in una fascia d’età compresa tra i 65-
69 anni, il 5% circa dei soggetti riferisce difficoltà in 2 o più attività basilari
della vita quotidiana (ADL), tale percentuale sale al 20-25% tra 80 e 85 anni
(93,94).
Una tendenza simile, ma ancora più spiccata, si osserva per quanto riguarda le
attività strumentali quotidiane: il 5% dei soggetti tra 65 e 69 anni riferisce
difficoltà in 2 o più delle IADL e oltre il 60% dei soggetti tra 80 e 85 anni
(93,94).
La disabilità, come evidenziato da numerosi studi longitudinali (95-99), è un
processo complesso e dinamico che può manifestarsi come un singolo e breve
episodio, come episodi ricorrenti fino ad un quadro di disabilità prolungata o
permanente. In uno studio di Hardy et al. su 754 ultrasettantenni, il 56% dei
soggetti in un follow-up di 5 anni presentava uno o più episodi di disabilità,
tuttavia la maggior parte degli episodi era breve e più dell’80% dei soggetti
recuperava, almeno parzialmente le abilità perdute (100), come confermato da
ulteriori studi (101-103).
La natura dinamica della disabilità è il risultato dell’interazione di fattori
precipitanti, quali le cadute, l’ospedalizzazione e le patologia acute (104) e
26
molteplici fattori di rischio, in particolare la fragilità in tutte le sue
componenti (19,105). A questo proposito, numerosi studi documentano come
alcuni indicatori di fragilità rappresentino un fattore di rischio per lo sviluppo
di disabilità: perdita non intenzionale di peso (106-108), ridotta velocità di
cammino (107,109-111), ridotta forza muscolare (110-113), ridotto equilibrio
(110,114). Accanto alla fragilità, oltre ovviamente all’età, anche i fattori
socio-economici, la polifarmacoterapia, la presenza di deficit cognitivo,
deficit della vista e/o udito, la depressione e alcune patologie, quali ad
esempio l’ictus e le patologie osteoarticolari, giocano un ruolo importante
nella patogenesi della disabilità (85,104,112,115-118). La presenza di
disabilità risulta essere un importante fattore prognostico negativo, in quanto
oltre ad essere associata ad un peggioramento della qualità di vita, ad un
maggior rischio di ospedalizzazione e istituzionalizzazione (119,120),
rappresenta un importante fattore predittivo di morte (119,121-123).
Lubitz et al. hanno documentato che l’aspettativa di vita di un settantenne con
almeno una disabilità all’ADL è 11 anni rispetto ai 14 anni di un soggetto
della stessa età senza disabilità a parità di altre condizioni morbose (123).
ANZIANO FRAGILE E OSPEDALIZZAZIONE
Nell’anziano, l’estrema precarietà caratteristica della fragilità comporta
l’incapacità di reagire efficacemente ad eventi anche banali, che risultano
capaci di innescare nel volgere di breve tempo una catena di eventi ad esito
catastrofico, il cosiddetto “scompenso a catena”. Abbiamo, infatti, visto come
la fragilità e la disabilità siano associati ad un maggior rischio di
ospedalizzazione e mortalità a lungo termine (9,12-14,119,121-123). Anche la
27
presenza di deficit cognitivo determina un aumentato rischio di mortalità (62-
64) e di ospedalizzazione (124,125), tanto che la prevalenza di deficit
cognitivo nei pazienti anziani ricoverati, secondo alcune casistiche, sfiora il
70% (125). Non stupisce pertanto che fragilità, disabilità e deficit cognitivo
rappresentino fattori prognostici negativi per il paziente anziano
ospedalizzato, in termini sia d’incidenza di eventi avversi e di mortalità che di
durata della degenza stessa (6,61,126-134). A questo proposito Lang et al.
hanno condotto uno studio per verificare se la fragilità potesse essere un
marker precoce di prolungata ospedalizzazione in 1306 ultrasettantacinquenni
provenienti dal pronto soccorso. I risultati ottenuti hanno confermato la loro
ipotesi. Quando presenti, i parametri della fragilità possono con alta
significatività predire una più lunga degenza in reparto; in particolare la
difficoltà nella deambulazione, il rischio di cadute e la presenza di deficit
cognitivo si associavano a maggiori tempi di degenza (OR di 2.6, 2.5 e 7.1
rispettivamente) (134). Gli stessi autori in un lavoro successivo (135) hanno
evidenziato come, oltre ai fattori già citati, anche una stato di malnutrizione,
valutato mediante Mini Nutritional Assessment (MNA), si associasse a tempi
di degenza maggiori. Sebbene un aumentato rischio di mortalità si
accompagni all’età avanzata, molti studi suggeriscono che l’età di per sé non
rappresenta un forte fattore predittivo di mortalità (136,137) e che esistono
altri fattori predittivi più rilevanti nel paziente anziano, quali ad esempio il
deficit funzionale (6,127,131,132,136-141). In particolare in uno studio di Bo
et al., su 659 pazienti ultra-sessantacinquenni ricoverati presso un reparto di
Terapia Intensiva, un ridotto punteggio all’ADL e la presenza di deficit
cognitivo rappresentavano fattori prognostici di mortalità più rilevanti rispetto
28
all’APACHE II score (OR 2.84, 3.98 e 1.07, rispettivamente) (142). E’
ampiamente documentato in letteratura come la presenza di deficit cognitivo
determini un aumento della mortalità a breve termine (6,61,124,126-131).
Marengoni et al., analizzando un campione di anziani ospedalizzati, hanno
riscontrato come la percentuale di mortalità intraospedaliera sia stata di 9.4%
tra i soggetti con deficit cognitivo e solo del 4.9% in quelli senza tale
compromissione. Inoltre nel 37.5% dei pazienti con deficit cognitivo la causa
finale della morte iniziava con un evento avverso accorso durante il ricovero;
infatti il rischio di decesso risultava 20 volte superiore se considerati i
pazienti con deficit cognitivo e colpiti da eventi avversi (verso un RR pari a
2.1 per i pazienti con deficit cognitivo e 9.2 per quelli colpiti da eventi
avversi) (61). Anche la presenza di alterazioni cognitive temporanee, quali il
delirium, è risultata associata ad una più elevata mortalità e incidenza di
eventi avversi (77,143); ad esempio Han et al. sottolineano come la presenza
di delirium, oltre ad essere associata ad una maggiore mortalità intra-
ospedaliera (37% contro il 14%), risultava inoltre un importante fattore
predittivo di mortalità a medio termine (6 mesi) a parità di altri fattori, come
comorbidità, gravità di malattia e dipendenza fisica (144).
Le ragioni per cui i pazienti con deficit cognitivo hanno un peggiore outcome
non sono ben chiare. Alcuni autori hanno ipotizzato che il trattamento di tali
pazienti in regime d’urgenza possa essere sub-ottimale a causa della
compromessa abilità del paziente di percepire la presenza di un
malfunzionamento incipiente, di rilevare la severità della malattia e di
riportare adeguatamente i sintomi (61,145,146). A questo proposito Han JH et
al.hanno dimostrato come il deficit cognitivo di vario grado, dalla demenza al
29
delirium, inficiava non solo la capacità di prendersi cura di se stessi e di
esprimere i sintomi relativi alla patologia, ma sopratutto di seguire le
istruzioni alla dimissione ospedaliera, con conseguente peggioramento
dell’outcome (147). E’ stato inoltre documentato come durante la degenza, la
presenza di compromissione cognitiva e di disabilità possano aumentare fino
a 10-15 volte la probabilità d’insorgenza di sindromi geriatriche, quali le
piaghe da decubito, incontinenza fecale e urinaria (148). Infine è stato
dimostrato come la possibilità di eventi avversi, intesi come danni non
intenzionali e complicanze dovute ad una degenza prolungata, è
significativamente più frequente nei pazienti con deficit cognitivo moderato
(MMSE 18-23) rispetto ai pazienti con deficit assente e grave (RR 3.61 contro
0.92 e 1, rispettivamente) (133).
Sebbene le cure mediche ospedaliere offrano una risposta ai bisogni degli
anziani fragili, il ricovero per patologia acuta rappresenta di per sé un evento
che altera fortemente l’equilibrio di questi pazienti e lo stress che comporta
esita spesso in un peggioramento del deficit cognitivo, della disabilità
funzionale e quindi in un peggioramento della qualità di vita (61,147,149).
Alcuni studi riportano come circa un terzo dei pazienti anziani ricoverati per
patologia acuta sperimentino durante la degenza un declino cognitivo di
variabile entità (150-157) e che tale declino è associato ad un aumento della
mortalità (158,159) ed ad un decadimento funzionale nell’ADL (160,161).
Molto spesso inoltre questi deficit persistono a lungo dopo la dimissione,
alterando così anche i domini funzionali e sociali (61,162). Uno studio
effettuato su pazienti anziani sottoposti a by-pass coronarico ha documentato
come tale deficit persista in una percentuale variabile dal 24 al 42% per
30
cinque anni dopo l’intervento (163). Analogamente, in quasi la metà dei
pazienti ultra- sessantacinquenni ricoverati in seguito a frattura del femore, il
deficit cognitivo persisteva fino a due anni dalla dimissione (162). Il
decadimento cognitivo, osservato durante la degenza, può essere correlato da
una parte all’ambiente ospedaliero stesso, fondamentalmente estraneo ed
ostile per il paziente, ma dall’altra la stessa patologia acuta può contribuire
alla genesi dell’alterazione cognitiva, come suggerito da alcuni studi che
documentano come una volta risoltosi il quadro patologico acuto vi sia un
miglioramento delle prestazioni cognitive nell’ambito della degenza stessa
(164). Possibili meccanismi attraverso cui la patologia critica potrebbe
contribuire a tale deficit sono: ipossia, delirium, ipotensione, alterazione del
metabolismo glucidico, infiammazione sistemica e somministrazione di
farmaci sedativi e analgesici (149,165-168).
Per molti anziani, l’ospedalizzazione è un fattore di rischio anche per il
peggioramento della disabilità funzionale e risulta maggiormente associata al
mancato o parziale recupero dopo la dimissione, riducendo così la percentuale
dei pazienti che passano da uno stato di disabilità a quello di non disabilità
(169,170). In letteratura è riportato infatti come una percentuale variabile dal
30 al 60% di pazienti anziani sviluppi durante la degenza nuovi deficit
funzionali (171-174). Boyd et al. hanno documentato come il 33% dei
pazienti ospedalizzati vada incontro ad un declino funzionale, parzialmente
recuperabile nei 30 mesi successivi al ricovero solo nella metà dei pazienti. I
fattori che di rischio per lo sviluppo di disabilità a seguito di un ricovero sono
molteplici: l’età avanzata, la presenza di sintomi depressivi, l’ADL pre-
ammissione e la durata stessa della degenza (170,73,175). In particolare la
31
presenza di fragilità e deficit cognitivo si associano ad un maggior rischio di
declino funzionale (174,169); un recente lavoro di Gill et al. riporta come il
rischio relativo di sviluppare disabilità sia 34.9% nei pazienti fragili contro il
4.9% nei pazienti non-fragili.(169).
Alla luce di questi dati, si rende sempre più evidente la necessità di adeguare
il nostro approccio clinico alle esigenze di coloro che ne sono i principali
fruitori.
L’ ANZIANO IN PRONTO SOCCORSO
L’anziano in passato era tradizionalmente visto come un paziente che, per la
cronicità della sua patologia, rivestiva scarsa importanza per la Medicina
D’Urgenza. Negli ultimi anni la letteratura ha ampiamente dimostrato come i
soggetti anziani rappresentino una percentuale rilevante, variabile dal 20 al
25%, degli utenti di un Pronto Soccorso (176-178). Tale fenomeno non può
essere giustificato dalla sola distribuzione demografica della popolazione,
come dimostrato dalla mancata proporzione tra la percentuale di anziani che
accedono al PS e quella nella popolazione generale (177). Molti studi
dimostrano inoltre come tale fenomeno sia costantemente e progressivamente
in crescita nell’ultimo decennio (177); la National Hospital Ambulatory
Medical Care Survey del 2005 ha riportato dal 1995 al 2003 un incremento
dell’11% dell’utilizzo del PS da parte dei soggetti tra i e 74 anni (179). Più
recentemente Roberts DS et al. hanno invece un incremento del 34% del
numero di visite dei soggetti anziani nei reparti di Pronto Soccorso (180).
32
Il paziente anziano verso il PS
Recentemente, Grunier et al. (181) hanno individuato le due cause principali
dell’incremento dell’utilizzo del PS da parte degli anziani: da una parte motivi
strettamente medici come l’elevata prevalenza di patologie croniche e acute e
dall’altra la mancanza e/o la difficoltà di accedere a servizi sanitari sul
territorio. Se nel primo caso quindi l’accesso al PS è necessario e quindi
appropriato, nell’altro è il risultato di bisogni sociosanitari non soddisfatti che
culminano in un peggioramento acuto della salute; in questi ultimi casi
l’utilizzo del PS può essere visto come un segno del fallimento del sistema
sanitario.
Cause mediche
I sintomi che più frequentemente inducono il paziente anziano a recarsi in PS
sono: dolore al petto, dispnea, lesioni varie da traumi, dolore addominale ed
alterazioni del livello di coscienza (182). Secondo recenti studi, tra le diagnosi
mediche più frequentemente poste vi sono la cardiopatia ischemica,
scompenso cardiaco, aritmie, sincope, eventi cerebrovascolari, polmoniti,
patologia addominali (in particolare sub-occlusione intestinale),
disidratazione e infezioni delle vie urinarie (181). Nel complesso le
problematiche mediche sono molto più frequenti nell’anziano rispetto a quelle
chirurgiche, rappresentando circa l’80% delle cause di accesso in PS (183).
Tra le emergenze chirurgiche, la causa più frequente di accesso in PS è
correlata a traumi e/o fratture secondarie cadute a terra (181). In un recente
studio (184), le lesioni o fratture secondarie a caduta sono responsabili del
12% delle visite nel soggetto anziano ogni anno e tale percentuale duplica se
considerati solamente gli ultra-ottantacinquenni.
33
Accanto a tali patologie, motivo frequente di accesso al PS da parte
dell’anziano è la ridotta capacità di prendersi cura di se stesso, dettata dalla
presenza di deficit cognitivi e/o funzionali (185-187). A questo proposito, già
nel 1986 Steel et al. avevano documentato come il 16% dei problemi medici
riscontrati nell’anziano in PS fosse dovuto ad una ridotta indipendenza nella
vita quotidiana: disidratazione, deficit dietetici, cadute a terra, scorretta
assunzione di farmaci (188).
Carenze assistenziali sul territorio
Se alla base del sempre più frequente ricorso al PS da parte dell’anziano vi è
la progressiva espansione della popolazione anziana, con il suo carico di
comorbosità e il rischio di scompenso acuto (189), va comunque sottolineato
come il ricorso all’ospedale sia tanto maggiore in quei paesi, come gli USA,
dove non esiste un sistema universale di cure che garantisca una continuità
assistenziale. Lì dove viene a mancare il filtro delle cure primarie, lo
scompenso acuto diventa una frequente emergenza e impone il ricorso alle
cure ospedaliere. Purtroppo esistono ad oggi pochi studi che valutino come la
carenza di un’attività assistenziale medica di base influenzi l’utilizzo delle
risorse ospedaliere. Rosenblatt et al. (190) hanno dimostrato come i soggetti
anziani senza Medico di Medicina Generale usufruivano molto più
frequentemente delle cure ospedaliere presso il PS rispetto ai pazienti assistiti;
tale discrepanza persisteva indipendentemente dalla gravità di malattia e da
altri fattori socio-demografici. In un altro studio anche solo un basso grado di
continuità assistenziale aumentava del 45% la probabilità di rivolgersi ad un
PS (191). Molti altri studi hanno evidenziato come anche l’educazione all’uso
34
dei farmaci da parte di un farmacista (192), le valutazione geriatriche
ambulatoriali (193,194) ed il coinvolgimento attivo del Medico di Medicina
Generale e dello Specialista Geriatra nella gestione dell’anziano residente
nelle residenze sanitarie assistite (RSA) (195,196) riducessero la probabilità
di accesso in PS.
Appropriatezza dell’accesso in PS.
Malgrado la carenza o la difficile accessibilità a cure primarie o sistemi
assistenziali, possa giustificare in parte il crescente ricorso alle cure
ospedaliere in regime d’urgenza, è ampiamente documentato in letteratura
come quest’ultimo possa nella maggior parte dei casi definirsi appropriato,
valutando l’appropriatezza in base all’utilizzo o meno del servizio
d’ambulanza, durata della permanenza in PS, intensità di cura e necessità di
ricovero. Secondo alcuni dati in letteratura, solo il 13% degli accessi sono da
considerarsi inappropriati contro una percentuale variabile, in base ai diversi
criteri selezionati per definire l’appropriatezza, dal 55 al 77% in cui l’accesso
al PS era giudicato necessario (181). Ad esempio, Shah et al (186) hanno
documentato come l’utilizzo dell’ambulanza sia pari al 27% nei soggetti con
età comprese tra i 65 e gli 84 anni, raggiungendo il 48% negli ultra-
ottantacinquenni. In un recente studio di Wolinsky et al. (187), il 29% dei
pazienti anziani in PS necessitavano di un’alta intensità di cura contro un 6%
considerati come a bassa intensità di cura. Inoltre, per il paziente anziano è
stata documentata una più lunga permanenza in PS (dal 19% al 58%
maggiore) (197,198), un più cospicuo utilizzo di risorse per l’elevato impiego
di esami diagnostici e una maggiore probabilità di ricovero (177,199). In
35
Italia recenti valutazioni confermano come i tassi di ricovero siano nettamente
superiori per le classi più anziane: 232,7 per 1000 abitanti tra i 65 e i 74 anni,
101,4 per 1000 abitanti negli ultra- settantacinquenni, rispetto agli adulti con
età inferiore a 64 anni. Tali dati trovano un’ulteriore conferma in uno studio
americano che documenta una percentuale di ricovero per il paziente anziano
pari al 26% rispetto al 18% del paziente più giovane (198). Infine, l’anziano
necessità più frequentemente di ricovero nelle unità di terapia intensiva o sub-
intensiva (201-203).
L’anziano in PS
In considerazione del crescente utilizzo da parte delle persone anziane del PS,
sorge il problema dell’adeguamento di queste strutture, che ad oggi non
risultano adatte né dal punto di vista logistico (fisico-architetturale) né da
quello delle modalità operative (valutazione multidimensionale, assegnazione
dei tradizionali codici) a questa tipologia di pazienti, che ha esigenze legate
non solo alle classiche e numerose malattie ma anche a problemi sociali e a
ridotte performance cognitive, affettive e funzionali.
L’anziano che giunge al PS si trova frequentemente in un ambiente privo di
finestre e l’illuminazione artificiale, insieme al rumore pressoché costante,
causano disorientamento spazio-temporale. Inoltre, gli spazi sono organizzati
a discapito della privacy e i pazienti sono costretti a passare molte ore soli,
sdraiati su barelle strette e con materassini sottili, che facilitano l’insorgenza
di ulcere da decubito (204). Per quanto riguarda le modalità operative,
anch’esse rivelano molteplici punti critici. Il sistema di Triage e il criterio dei
colori che definiscono diversi gradi di emergenza/urgenza dovrebbe essere
36
modificato per i soggetti di età avanzata; ad esempio appare improprio che
una così alta percentuale di anziani con frattura di femore sia considerata un
codice verde (urgenza minore) (204).
Il PS non è un ambiente favorevole per gli anziani anche dal punto di vista
degli operatori: gli stessi medici ammettono di sentirsi frequentemente
inadeguati nei confronti di tale tipologia di pazienti. Un campione di 400
medici del New England, ai quali era stato sottoposto un questionario sulla
loro attività ed attitudine nei confronti dei pazienti, sovrastima nettamente la
percentuale di ultra-sessantacinquenni tra i loro pazienti (39.4% dichiarato,
rispetto ai valori effettivi compresi tra l’11.6% e il 23%); inoltre, il grado di
sicurezza percepita nel trattare i pazienti anziani era significativamente
inferiore rispetto a quella percepita per i soggetti più giovani. Infine, l’80%
dei medici riteneva utile una maggiore formazione in senso geriatrico durante
la specializzazione in Medicina D’Urgenza (205).
I fattori che rendono più difficoltosa la gestione dell’anziano in PS sono le
caratteristiche tipiche dell’età avanzata: fragilità, comorbidità, presentazioni
cliniche spesso atipiche, polifarmacoterapia, deficit cognitivo, difficoltà
comunicazionali.
♥ Fragilità: abbiamo già trattato come la presenza di fragilità determini
un maggior rischio di eventi avversi e di ospedalizzazione
(13,14,9,18). Durante la valutazione in PS, la presenza di limitazioni
funzionali e di problematiche psico-sociali viene spesso misconosciuta
o comunque sottovalutata (206,177), lasciando il soggetto anziano più
vulnerabile e più frequentemente vittima di eventi avversi (ad
37
es.cadute), meno compliante nei confronti della terapia medica o nei
confronti delle indicazioni poste al momento della dimissione.
♥ Comorbidità: è ben documentato come la presenza di altre entità
cliniche che si sommano alla specifica malattia, per la quale il paziente
si rivolge al PS, renda più difficoltosa la diagnosi e il successivo
trattamento (207,208). Uno studio condotto su un campione di anziani,
che al termine del ricovero veniva dimesso con diagnosi di scompenso
cardiaco, ha descritto come le alterazioni iniziali siano state quelle
dello scompenso solo in una minoranza dei casi, predominando invece
sintomi neurologici o più spesso un aspecifico peggioramento dello
stato funzionale. (209).
♥ Presentazioni cliniche atipiche: Le malattie si presentano
frequentemente nell’anziano con quadri clinici meno caratteristici che
nel giovane, determinando una maggiore difficoltà nella diagnosi
(177). Ad esempio, in uno studio italiano svoltosi tra il 1999 e il 2003
tra gli ultra-settantacinquenni con infarto del miocardio, quasi nella
metà dei casi non si presenta con il classico sintomo di dolore toracico,
ma con dispnea (30%) o sintomi neurologici (25%), determinando un
intervallo tra esordio dei sintomi, arrivo in PS e diagnosi di circa 9 ore,
rispetto alle 4.5 dell’adulto (210).
♥ Polifarmacoterapia: gli anziani frequentemente non sono in grado di
riferire correttamente tutti i farmaci che assumono, il dosaggio e le
rispettive indicazioni (211). Inoltre, al PS, vengono aggiunti nuovi
farmaci in più del 40% dei casi e, secondo alcuni autori, con scarsa
attenzione a interazioni potenzialmente avverse (212). Secondo un
38
studio del 2006 (213), dal 6 al 10% dei pazienti anziani in PS riceve
una prescrizione di farmaci che, secondo criteri comunemente
accettati, risulta inappropriata. Infine, gli anziani sono esposti ad un
maggior rischio di eventi avversi da farmaci, che si stima costituiscano
la causa di circa il 10% delle visite al PS (214). Va inoltre sottolineato
come spesso vengano diagnosticate solo le reazioni avverse di
maggiore entità, mentre quelle più lievi vengono spesso misconosciute
(214).
♥ Deficit cognitivo: particolare importanza in questo senso riveste il
delirium, presente in quasi il 10% degli anziani in PS. La presenza di
delirium viene diagnosticata, secondo dati in letteratura (215), solo nel
35% dei casi e quindi la sua mancata diagnosi rende impossibile
l’identificazione ed eventuale rimozione della causa scatenante,
determinando un notevole peggioramento della prognosi a breve
termine (216).
♥ Problemi comunicazionali: non solo il paziente anziano può avere
difficoltà, per motivi di ordine cognitivo e sensoriale (afasia o
ipoacusia), a comunicare al personale sanitario i sintomi e i farmaci
assunti, ma è stato documentato come lo stesso sanitario presenti
difficoltà nel comunicare al paziente e al MMG i problemi identificati
e gli interventi effettuati, contribuendo in tal modo all’outcome
negativo.
Fattori prognostici negativi per l’anziano in PS
L’accesso in PS per il paziente anziano rappresenta non solo un marcatore,
ma anche concausa di una grave destabilizzazione clinica anche a lungo
39
termine. Infatti, il rischio di eventi avversi in seguito all’accesso in PS è
particolarmente elevato nei primi tre mesi, con una mortalità intorno al 10%
(217), un secondo accesso in circa il 24% dei casi e le necessità di un ricovero
nel 24% dei casi (217). Sebbene la mortalità tenda a rimanere stabile dopo i
primi tre mesi, la probabilità di un nuovo accesso in PS continua ad
aumentare, attestandosi intorno al 44% a 6 mesi di follow-up.
Inoltre da un 10 ad 45% di pazienti sperimentano un declino funzionale e
quindi una perdita di autonomia nei tre mesi successivi alla visita in PS
(217,218). E’ pertanto evidente quanto sia necessario individuare nuovi fattori
prognostici negativi e nuovi strumenti che permettano di inquadrare l’anziano
in tutta la sua complessità, non solo clinica ma anche affettiva, cognitiva e
sociale. Fattori prognostici negativi, sia in termini di mortalità che di declino
funzionale, e fattori predittivi di ripetuti accessi in PS sono stati riconosciuti
nella presenza di elevata comorbidità (219,220), polifarmacoterapia
(220,215), ricovero nei mesi precedenti (215,220), isolamento sociale (221),
depressione, declino funzionale (206) ed, infine, nella presenza di deficit della
memoria e del visus. McCusker et al. (222) hanno anche documentato come
anche la scarsa disponibilità di posti letto all’interno del PS e nei reparti di
degenza e l’assenza di un’unità geriatrica e di un assistente sociale
determinino un aumento di un nuovo accesso in PS nei mesi immediatamente
successivi. Hastings et al. in quasi 2000 pazienti ultra-sessantacinquenni
afferenti al PS hanno sottolineato la relazione tra la fragilità, valutata
mediante Deficit Accumulation Index (DAI) (223), e la probabilità di eventi
avversi entro un mese dalla dimissione: la percentuale di ospedalizzazione,
40
istituzionalizzazione e mortalità aumenta dal 10 al 45% con l’aumentare del
grado di fragilità (223).
PS a misura d’anziano: nuove proposte.
Alla luce di queste premesse sono stati individuati svariati modelli
d’intervento, che vanno da semplici strumenti che permettano un
inquadramento multidimensionale dell’anziano a veri e propri cambiamenti
strutturali/organizzativi all’interno del PS. Al di là della creazione di PS
Geriatrici, analoghi ai modelli pediatrici e traumatologici già esistenti, una
proposta più realistica potrebbe essere una maggiore collaborazione tra
personale del PS e Geriatra per creare e riadattare nuovi modelli gestionali,
grazie ai quali il tempo di permanenza in PS sia ridotto al minimo, vengano
messi in atto interventi diagnostici e terapeutici più idonei e sia favorita la
dimissione dei pazienti che non richiedono ricovero (199). In questo contesto,
una proposta particolarmente interessante è la creazione e diffusione delle
Unità Geriatrica per Acuti (UGA), che accettano i pazienti anziani fragili
provenienti dal PS. Queste unità sono dirette da un Geriatra e si ispirano ad un
principio di collaborazione interdisciplinare fra figure professionali diverse
come medici, infermieri e fisioterapisti. Queste figure professionali mettono
in atto una Valutazione Geriatrica Multidimensionale (VMD) di tutti i disturbi
del paziente, attuano la prevenzione delle complicanze e delle patologie
iatrogene, la mobilizzazione e riabilitazione precoce ed elaborano un piano di
dimissione in collaborazione con i caregiver. Studi randomizzati di confronto
con Unità di Medicina Interna dimostrano che anziani selezionati al PS per
caratteristiche di maggior fragilità ricoverati nelle UGA hanno una mortalità
41
più bassa a 3, 6, 12 mesi (224), tempi di degenza più brevi, meno ricoveri di
ritorno in un anno e spese sanitarie più contenute (225).
In assenza di tali strutture, è comunque auspicabile all’interno dei DEA la
diffusione della valutazione multifunzionale, che permetterebbe una riduzione
della mortalità, dell’istituzionalizzazione e del declino delle capacità
cognitive e funzionali (222). Al fine di consentire un’applicazione rapida
della VMD sono stati messi a punto diversi strumenti, alcuni dei quali validati
in studi randomizzati: l’Identification of Senior at Risk (ISAR) e il Trial Risk
Screening Tool (TRST).
L’ISAR è costituto da 6 domande che possono essere somministrate dal
personale infermieristico al momento della visita in PS:
ISAR: Identification of Senior at Risk
1-Prima della patologia acuta che ti ha portato in PS, avevi bisogno che
qualcuno ti aiutasse regolarmente?
2-Pensi che avrai bisogno di più aiuto del solito in seguito alla patologia che ti
ha portato in PS?
3-Sei stato in ospedale per più di una notte negli scorsi sei mesi?
4-In generale, ci vedi bene?
5-In generale hai problemi seri di memoria?
6-Prendi più di 3 medicine al giorno?
Lo screening è positivo se il punteggio è superiore a 2
Due o più risposte positive ai quesiti richiesti implicano un’associazione con
una significativa compromissione funzionale e/o uno stato depressivo grave al
momento della visita in PS, a cui segue un rischio elevato di sindrome
42
depressiva nei 4 mesi successivi ed un eccessivo utilizzo dei servizi sanitari
nei 5 mesi successivi.
Il TRST, sviluppato negli Stati Uniti, identifica l’anziano a cui assegnare un
codice di urgenza, in base alla presenza di alcuni fattori di rischio. Si
considera positivo se è presente deficit cognitivo o 2 o più degli altri fattori.
TRST: Triage Risk Screening Tool
1-Presenza di deterioramento cognitivo (disorientamento, incapacità di
eseguire comandi semplici, diagnosi precedente di demenza o delirium)
2-Vive da solo/non si riesce a reperire un caregiver
3-Difficoltà nella deambulazione o storia recente di cadute
4-Ospedalizzazione/accesso in PS negli ultimi 30 giorni
5-Cinque o più farmaci
6-Valutazione da parte dell’infermiere per sospetto di abuso/negligenza, non
compliance farmacologica, sospetto di abuso di sostanze, problemi nelle
ADL o IADL altro.
Il paziente è considerato a rischio se è presente deterioramento cognitivo o
due o più degli altri criteri.
Meldon et al (206) in uno studio su 650 ultra-sessantacinquenni documenta
che un elevato punteggio comporta una maggiore probabilità di
ospedalizzazione e di ritorno al PS nei 30 giorni successivi alla dimissione
(206).
43
L’Emercency Severity Index (ESI) è una scala di valutazione che con un
algoritmo a 5 livelli divide i pazienti in 5 gruppi (1: massima urgenza, 5:
minima urgenza), sulla base della gravità del quadro clinico e dell’utilizzo
delle risorse. L’ESI si è dimostrato efficace anche nelle persone anziane, visto
che le sue categorie correlano con l’ospedalizzazione, l’utilizzo di risorse e la
sopravvivenza (78).
Di recente è stata dimostrata la possibilità di un’iniziale stratificazione
prognostica degli anziani afferenti al PS basata solamente su dati
amministrativi con assegnazione di un punteggio di rischio: il Codice
Argento. Mediante questo approccio, le informazioni contenute negli archivi
amministrativi delle aziende sanitarie possono essere utilizzate per
identificare, contemporaneamente all’ingresso al PS, gli anziani ad alto
rischio e bisognosi di percorsi diagnostici-terapeutici differenziati (199).
Partendo dall’esecuzione di una valutazione multifunzionale del paziente
anziano in PS, sono stati disegnati molti studi di intervento con risultati
variabili che, mediante il coinvolgimento di un infermiere specializzato o del
MMG nel follow-up del paziente o mediante il semplice follow-up telefonico,
si proponevano di migliorare l’outcome, riducendo il numero delle visite di
ritorno in PS o limitando il decadimento funzionale e/o cognitivo. Purtroppo
vi sono ad oggi pochi studi con un disegno sperimentale controllato o con una
valutazione rigorosa dell’outcome (229). Caplan et al.(230) hanno
documentato che una valutazione multidimensionale geriatrica eseguita in PS
e a domicilio nelle 4 settimane successive da un infermiere specializzato in
739 pazienti ultrasettantacinquenni determinava una riduzione delle visite di
44
ritorno in PS a 18 mesi, una riduzione dell’ospedalizzazione a 30 giorni e una
riduzione del declino funzionale e cognitivo.
SCOPO DELLO STUDIO
Lo scopo del presente studio è stato: 1) verificare la prevalenza ed il grado di
deficit cognitivo nei pazienti ultrasettantenni afferenti al DEA della AUOP e
ricoverati nella U.O. Medicina di Urgenza (non UTI);2) valutare la possibile
correlazione tra lo stato funzionale cognitivo, la patologia motivo del ricovero
ed i parametri ematochimici di routine; 3) verificare la possibile interazione
tra deficit cognitivo, durata della degenza ed outcome clinico; 4) valutare la
variazione dello stato cognitivo al momento della dimissione.
MATERIALI E METODI
Pazienti e metodi
Studio osservazionale, prospettico, su pazienti ultra-settantenni
consecutivamente ricoverati da Aprile a Luglio 2010 nel reparto di Medicina
d’Urgenza (non UTI) della AOUP. Lo studio comprende 205 pazienti (55.6%
donne) di età media (±DS) 81.5±6.0 anni. Sono stati esclusi dallo studio i
pazienti identificati come codice rosso al triage del Pronto Soccorso (PS) e
quelli in stato confusionale secondario a trauma cranico e/o abuso
(stupefacenti, alcool, farmaci psicotropi). All’ingresso in PS sono stati
raccolti i principali parametri vitali quali pressione arteriosa (PA), frequenza
cardiaca (FC), temperatura corporea (TC), saturazione arteriosa (SO2) e
valutata la presenza di delirium mediante Confusion Assessment Method 45
(CAM). Presso il reparto di degenza, entro 24 ore dall’accesso in PS, è stato
valutato lo stato funzionale mediante indice Barthel, il grado di comorbidità
mediante indice di Charlson e il deficit cognitivo mediante MMSE (Mini
Mental State Examination), quest’ultimo ripetuto anche al momento della
dimissione. In prima giornata di ricovero, al mattino, a digiuno, è stato
eseguito prelievo per i seguenti parametri ematochimici: emocromo con
formula, glicemia, emoglobina glicata (HbA1c), creatinina, elettroliti,
aspartato aminotrasferasi (AST), alanina aminotrasferasi (ALT), gamma GT,
creatinchinasi (CPK), lattico deidrogenasi (LDH), attività di protrombina,
INR, aPTT, fibrinogeno, proteine totali con elettroforesi, proteina C reattiva
(PCR), velocità di eritrosedimentazione (VES), ormone tireotropo (TSH),
triiodotironina libera (FT3), tiroxina libera (FT4).
Metodi di dosaggio
I livelli sierici di FT4, FT3, venivano analizzati mediante chemiluminescenza
(Immulite 2000; Medical Systems S.p.A., Genova, Italia), mentre le
concentrazioni di TSH mediante metodica IRMA (Cis Diagnostici, Tronzano
Vercellese, Italy). I parametri bioumorali venivano misurati con auto-analyzer
biochimico automatico (Hitachi Cobas 6000, C501 Analyzer, Roche
Diagnostics, IN, USA). Gli intervalli di riferimento del nostro laboratorio
sono i seguenti: FT4 = 8.6 –18.6 pg/ml; FT3 = 2.1-4.6 pg/ml; TSH = 0.30-3.6
μU/ml; AST = sino a 40 U/L; ALT = sino a 41 U/L; GGT = sino a 60 U/L;
HbA1c = sino a 6.1%; Ves = sino a 25 mm/h; Glicemia = 74-109 mg/dL;
Creatinina = 0.50-0.90 mg/dL; eritrociti = 4-5.30 10^3μL; emoglobina = 4-
5.3010^3μL; ematocrito = 36- 46%; leucociti = 4.50-1010^3μL; proteine tot =
6.4-8.3 g/dL .
46
Analisi statistica
L’analisi statistica è stata condotta utilizzando il software Stat-View (SAS
Institute Inc, 5.0.1. version, 1992-1998). I dati con distribuzione parametrica
sono stati espressi come media ± DS, quelli con distribuzione non parametrica
come mediana e range. Il test di Student, l’analisi della varianza (ANOVA)
(distribuzione parametrica), ed il test di Mann-Whitney (dati non parametrici)
sono stati utilizzati per comparare i diversi gruppi. La relazione tra i diversi
parametri è stata valutata mediante regressione semplice (dati parametrici), il
test di correlazione di Spearman (dati non parametrici) o il test del Chi quadro
(variabili dicotomiche). La regressione logistica multipla è stata condotta
utilizzando la mortalità come variabile dipendente il punteggio MMSE,
l’indice di Barthel e di Charlson, la prevalenza di delirium, l’età ed i
parametri bioumorali, che presentavano correlazione diretta con la mortalità
come variabili indipendenti. La significatività veniva assegnata per p<0.05.
RISULTATI
Parametri demografici, clinici, bioumorali e deficit cognitivo
Abbiamo suddiviso la popolazione in base al grado di compromissione
cognitiva, documentando la seguente distribuzione: 103 pazienti presentavano
un grado di compromissione grave (MMSE<18), 46 una compromissione
moderata (MMSE 18-24) e 53 un lieve-assente impairment cognitivo
(MMSE>24). I parametri demografici, clinici e bioumorali distinti per sesso
sono riportati nelle Tabelle 1 e 2. Le donne presentavano un’età
significativamente più avanzata (p=0.0002), inferiori concentrazioni sieriche
di albumina (p=0.01), una maggiore compromissione cognitiva (MMSE, 47
p=0.02), e funzionale (indice di Barthel, p=0.04) rispetto agli uomini. Dopo
correzione per età, non era più evidente alcuna differenza statisticamente
significativa tra i due sessi per quanto riguarda sia il punteggio MMSE che
l’indice di Barthel (p=0.3 e p=0.2, rispettivamente).
Il punteggio MMSE presentava una correlazione significativa diretta con
l’indice di Barthel (p<0.0001; R=0.78) ed inversa con l’età (p<0.0001; R= -
0.33); era inoltre presente una correlazione inversa con l’indice di Charlson,
che sfiorava la significatività statistica (p=0.06; R=-0.13). La presenza di
delirium inoltre si associava ad una compromissione cognitiva
significativamente maggiore [0.0 (0-26) Vs 22.0 (0-30); p<0.0001]. Per
quanto riguarda i parametri ematochimici, il punteggio MMSE presentava una
significativa correlazione diretta con i livelli sierici di albumina (p=0.0004;
R=0.32) e di FT3 (p=0.03; R=0.15), ed una correlazione inversa con il valore
della VES (p=0.01; R=-0.22) (figura 1). Le concentrazioni plasmatiche di
creatinina e di PCR correlavano inversamente con il grado di compromissione
cognitiva, sfiorando solamente la significatività statistica (p=0.05). All’analisi
multivariata, ponendo il punteggio MMSE come variabile dipendente e
l’indice di Barthel e di Charlson, i livelli di albumina, FT3 e creatinina, la
VES e l’età come variabili indipendenti, solamente l’indice di Barthel
manteneva la significatività statistica (p<0.0001). Le patologie più
frequentemente riscontrate sono state: patologie polmonari (16%), patologie
addominali (14%), scompenso cardiaco (10%), squilibri elettrolitici-
disidratazione (10%), febbre di ndd (10%), sincope (9%), aritmie (7%),
cerebropatie vascolari acute (5%), anemia (8%). A questo proposito, abbiamo
inoltre indagato la possibile associazione tra compromissione cognitiva e la
48
patologia acuta, motivo dell’acceso al PS. I pazienti con disidratazione e/o
squilibrio elettrolitico (iper- o iposodiemia, iper- o ipopotiessiemia)
presentavano un grado di compromissione cognitiva significativamente
maggiore rispetto a quelli con un normale assetto idro-elettrolitico [MMSE
0.0 (0-25) Vs 19.0 (0-30); p=0.0009]; un maggiore impairment cognitivo era
anche presente nei pazienti con patologia acuta febbrile [TC >38 °C, MMSE
3.0 (0-28) Vs 18.0 (0-30); p=0.03] (figura 2).
Degenza e compromissione cognitiva
La mediana della degenza è stata 3.0 giorni (range 1-29), con il 55.6% di
pazienti ricoverati per meno di 5 giorni, il 27.3% tra 5 e 10 giorni e solo il
17.0% per un periodo superiore a 10 giorni. Non era presente alcuna
correlazione significativa tra durata della degenza e grado di compromissione
cognitiva (MMSE), funzionale (Barthel) e comorbidità (Charlson)
all’ingresso. Abbiamo invece documentato un incremento statisticamente
significativo del punteggio MMSE ottenuto alla dimissione rispetto a quello
all’ingresso [18 (0-30) Vs 16 (0-30); p<0.0001)]; tale incremento risultava
significativo sia nei pazienti con presenza di delirium all’ingresso [11 (0-26)
Vs 3 (0-25); p=0.001)] che in quelli senza delirium [22 (0-30) Vs 20 (0-30);
p=0.002)]. Inoltre, tale incremento significativo del punteggio MMSE si
osservava indipendentemente dal grado di compromissione cognitiva iniziale
(Tab 3) e dalla durata della degenza (Tab 4). Analogamente, l’incremento del
punteggio MMSE si manteneva suddividendo la popolazione in base al grado
49
di comorbilità: indice di Charlson ≤ 4 (p=0.05), maggiore di 4 e ≤6 (p=0.001),
maggiore di 6 e ≤8 (p=0.002) e ≥ 9 (p=0.05).
Deficit cognitivo e mortalità
Durante la degenza la mortalità complessiva è stata pari all’8%. I pazienti
deceduti presentavano all’ingresso un punteggio MMSE (p=0.0003) ed un
indice di Barthel (p=0.003) significativamente inferiore, una maggiore
prevalenza di delirium (p=0.0004) ed un indice di Charlson più elevato
(p=0.03), oltre ad un’età più avanzata (p=0.0004) rispetto ai soggetti di messi
(tabella 5). Differenze statisticamente significative tra i pazienti sopravvissuti
e quelli deceduti sono state documentate anche per quanto riguarda i livelli
plasmatici di glicemia (p=0.02), albumina (p=0.02), LDH (p=0.02), PCR
(p=0.03), creatinina (p=0.04) e potassio (p=0.03) (tabella 5).
Mediante regressione logistica multipla, ponendo la mortalità come fattore
dipendente e punteggio MMSE, indice di Barthel, presenza di delirium, indice
di Charlson, età e i parametri ematochimici sopra riportati come variabili
indipendenti, la compromissione cognitiva (MMSE, p=0.003) seguita dalla
glicemia (p=0.01) risultava essere il fattore di rischio indipendente più
rilevante per la mortalità (Tab. 6). In particolare un declino cognitivo severo
(MMSE<18) comportava un rischio di mortalità cinque volte superiore [Odds
ratio 5.5 (95% CI: 3-10)].
DISCUSSIONE
Il numero di anziani che afferiscono ai reparti di emergenza è in costante
aumento e tra questi la prevalenza di demenza e delirium risulta molto
elevata, aggirandosi intorno al 6-8% e 26-40%, rispettivamente (124,231). 50
Nel nostro studio la prevalenza di delirium (31.2%) è conforme ai dati
epidemiologici della letteratura (161,231). Al contrario, la prevalenza di
deficit cognitivo grave (MMSE<18) risulta particolarmente elevata, intorno al
50% con solo un quarto dei pazienti (25.8%) con lieve o assente
compromissione (MMSE>24). Una possibile spiegazione di questo risultato
può essere ricondotta all’elevato indice di vecchiaia della Regione Toscana
con una prevalenza di ultraottantenni di circa il 7% (ISTAT 2010). Infatti, la
prevalenza di demenza varia da circa il 5% nei soggetti di età compresa tra i
75 e i 79 anni fino ad oltre il 25% negli ultraottantacinquenni (232).
Oltre a ciò, va rilevato che il MMSE è stato somministrato immediatamente
dopo il trasferimento dal DEA, ambiente di per sé sfavorevole per l’equilibrio
psico-cognitivo del paziente anziano (ritmi serrati, scarsa illuminazione,
lunghe attese su barelle, eccessivi rumori etc.), che può favorire il
manifestarsi di uno stato confusionale acuto (delirium), presente in circa un
terzo dei pazienti del nostro studio. Un’altra possibile spiegazione è che il
quadro patologico acuto responsabile dell’accesso al DEA possa,
particolarmente nel paziente anziano, determinare un temporaneo
peggioramento della funzione cognitiva, indipendentemente dalla presenza di
delirium. In accordo con questa ipotesi, abbiamo osservato un miglioramento
statisticamente significativo del punteggio MMSE alla dimissione rispetto
all’ingresso in reparto, in concomitanza con la risoluzione del quadro acuto.
Tale miglioramento risultava indipendente sia dal grado di compromissione
cognitiva iniziale che dalla durata della degenza, che comunque era inferiore
ai cinque giorni in oltre il 50% dei pazienti. L’incremento del punteggio
MMSE si manteneva significativo anche escludendo i pazienti con delirium
51
all’ingresso, sebbene quest’ultimo si associasse ad una più grave
compromissione cognitiva. In questo contesto risulta particolarmente
interessante notare come nei pazienti più fragili, con maggiore comorbilità,
l’evento acuto fosse in grado di indurre un più spiccato transitorio
deterioramento delle capacità cognitive, come indicato da un incremento
medio di oltre 8 punti del MMSE alla dimissione. Va sottolineato comunque
che minime variazioni del punteggio MMSE (1 o 2 punti), anche se
statisticamente significative, possono non corrispondere ad un reale
miglioramento della funzione cognitiva (157). E’ ampiamente documentato
come la degenza, associata o meno alla presenza di patologia acuta critica,
comporti un peggioramento del deficit cognitivo persistente nel tempo
(149,162,233). Al contrario vi sono pochi studi che documentano la comparsa
di una compromissione cognitiva parzialmente reversibile alla dimissione e
quindi alla risoluzione del quadro acuto (13). Analogamente ai nostri dati, in
uno studio di Inouye et al. il 39% di 460 ultra-settantenni ricoverati in regime
d’urgenza in un reparto di medicina generale presentava, al momento della
dimissione, un miglioramento del punteggio MMSE variabile da 3 a 13 punti
(164). Non vi sono attualmente evidenze riguardo la possibile interazione tra
gravità della patologia acuta e compromissione transitoria dello stato
cognitivo. Benché nel nostro studio non siano stati utilizzati score di gravità
di malattia acuta, abbiamo documentato una significativa correlazione diretta
tra punteggio MMSE e concentrazione plasmatica di albumina e
triiodotironina libera (FT3) e negativa con i livelli di VES e PCR. Poiché
l’intensità dello stato flogistico e la riduzione della concentrazione plasmatica
di FT3 sono considerati markers di gravità di malattia (234), la descritta
52
correlazione sembra confermare il ruolo patogenetico almeno parziale del
quadro clinico acuto sul grado di compromissione cognitiva all’ingresso.
Inoltre, l’ipoalbuminemia potrebbe aver svolto un ruolo scatenante per
l’insorgenza di delirium, con conseguente maggiore transitoria
compromissione cognitiva, attraverso diversi meccanismi, quali ad esempio
un incremento della concentrazione plasmatica di farmaci potenzialmente
tossici per il SNC (84). In accordo con queste considerazioni è stata descritta
un’associazione tra deterioramento cognitivo, ipoalbuminemia ed elevati
livelli di PCR (235-237). Contrariamente a quanto riportato da alcuni autori
(135), i nostri risultati non confermano la presenza di un’associazione tra
deficit cognitivo all’ingresso e durata della degenza, sebbene quest’ultima sia
stata generalmente molto breve (mediana: 3 giorni). Nel nostro studio la
mortalità globale (8%) era in linea con le più basse riportate in letteratura,
variabili dal 7 al 20% (61,238). All’analisi multivariata, il deficit cognitivo è
emerso come il più importante fattore predittivo di mortalità seguito
dall’iperglicemia a digiuno, mentre gli indici di flogosi (PCR, VES) e l’età
non raggiungevano la significatività statistica. In particolare un severo declino
cognitivo (MMSE<18) comportava un incremento di 5 volte del rischio di
mortalità. I nostri dati quindi confermano come pazienti anziani, ricoverati per
patologia acuta, con grave compromissione cognitiva, funzionale e delirium,
presentino un incremento del rischio di mortalità a breve termine
(61,128,238); numerosi studi infatti hanno infatti documentato come la
presenza di deterioramento cognitivo determini nel paziente anziano
ospedalizzato, oltre ad un peggiore “outcome” in termini funzionali (240) e di
istituzionalizzazione (239), un significativo incremento della mortalità a breve
53
termine (61,126,129-131). La ragione per cui i pazienti con deficit cognitivo
abbiano un incremento del rischio di morte in corso di patologia acuta non
risulta ad oggi ben chiara. Alcuni autori hanno suggerito che i pazienti con
deterioramento cognitivo siano più frequentemente vittime di eventi iatrogeni
avversi e che le cure loro prestate possano non essere sempre ottimali
(129,131,133). I nostri dati confermano inoltre il ruolo prognostico negativo
dell’iperglicemia a digiuno come recentemente dimostrato in uno studio
prospettico multicentrico in pazienti anziani ospedalizzati sia in reparti
geriatrici che di medicina interna (241). In conclusione, il presente studio
documenta l’estrema frequenza di grave deficit cognitivo nei pazienti
ultrasettantenni ospedalizzati per patologia acuta e ne conferma il primario
ruolo prognostico negativo, suggerendo quindi la necessità di includere lo
screening cognitivo nella routine dell’inquadramento clinico del paziente
anziano. Lo stato cognitivo appariva significativamente migliorato al
momento della dimissione indipendentemente dal grado di compromissione
iniziale e dalla durata della degenza, suggerendo che la patologia acuta è in
grado di indurre una transitoria alterazione della performance cognitiva.
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LEGENDA DELLE TABELLA E DELLE FIGURE
Tabella 1: in questa tabella sono riportati i principali parametri vitali e clinici di-
stinti per sesso della popolazione (F 55.6%).
Tabella 2: in questa tabella sono riportati i principali parametri ematochimici distin-
ti per sesso.
Tabella 3: descrive la variazione del deficit cognitivo durante la degenza, suddivi-
dendo la popolazione in base al grado di impairment cognitivo documentato all’in-
gresso in reparto: lieve-assente (MMSE>24; 53 pazienti, F 39.6%), una compromis-
sione moderata (MMSE 18-24; 49 pazienti, F 59.2%), compromissione grave
(MMSE<18; 103 pazienti F 61.1%). La tabella documenta un miglioramento signi-
ficatico del punteggio MMSE alla dimissione indipendentemente dal grado di com-
promissione iniziale.
Tabella 4: descrive la variazione del deficit cognitivo durante la degenza, suddivi-
dendo la popolazione in base alla durata del ricovero: < 5 giorni (109 pazienti),
compresa tra 5 e 10 giorni (51 pazienti) e maggiore di 10 giorni (30 pazienti). La ta-
bella documenta un miglioramento significativo del punteggio MMSE che risulta
indipendente dalla durata del ricovero.
Tabella 5: riporta il punteggio MMSE, indice di Barthel e di Charlson el la preva-
lenza del delirium, oltre ai parametri clinici e bioumorali nei pazienti dimessi e in
quelli deceduti (8% della popolazione di studio). Le differenze statisticamente più 79
significative sono state documentate per il punteggio MMSE (p=0.0003), prvalenza
di delirium (p=0.0004), indice di Charlson (p=0.0004) e di Barthel (p=0.001).
Tabella 6: riporta la regressione logistica multipla, con la mortalità come fattore di-
pendente e come variabili indipendenti: punteggio MMSE, indice di Barthel, pre-
senza di delirium, indice di Charlson, età, glicemia, albuminemia, potassiemia, crea-
tininemia e livelli sierici di LDH e PCR. La compromissione cognitiva (MMSE,
p=0.003) seguita dalla glicemia (p=0.01) risultava essere il fattore di rischio indi-
pendente più rilevante per la mortalità. In particolare un declino cognitivo severo
(MMSE<18) comportava un rischio di mortalità 5 volte superiore [Odds ratio 5.5
(95% CI: 3-10)]. Glic = glicemia; Alb = albumina; Creat = creatinina.
Figura 1: la figura riporta i parametri bioumorali, con i quali il punteggio MMSE
presenta una correlazione significativa diretta con albumina (p=0.0004; R=0.32) e
FT3 (p=0.03; R=0.15), ed inversa con il valore della VES (p=0.01; R=-0.22).
Figura 2: La figura riporta come il punteggio MMSE in relazione alla patologia
acuta di base. Nei pazienti con disidratazione e/o squilibrio elettrolitico (iper- o ipo-
sodiemia, iper- o ipopotiessiemia) il punteggio MMSE è significativamente più bas-
so rispetto ai pazienti con un normale assetto idro-elettrolitico [MMSE 0.0 (0-25)
Vs 19.0 (0-30); p=0.0009]. I pazienti con febbre (TC>38°C) presentavano un mag-
giore impairment cognitivo rispetto ai soggetti apiretici [MMSE 3.0 (0-28) Vs 18.0
(0-30); p=0.03].
80
Tabella 1: Parametri vitali e clinici distinti per sesso
Variabili parametriche espresse in media ± DS; non parametriche mediana e range. Per va-riabili parametriche ANOVA; non parametriche Mann-Whitney
81
M
(n=91)
F
(n=114)p
Età* (anni) 80 (70-92) 83 (70-97) 0.0002
PAS (mmHg) 136.1±24.3 129.8±24.1 0.1
PAD (mmHg) 78.2 ±14.1 73.9 ±13.4 0.06
FC (bpm) 88.1 ±21.7 92.5 ±19.9 0.2
TC (°C) 36.8 ±0.74 37.1 ±1.2 0.2
SO2 (%) 94.8 ± 4.0 93.8 ± 5.3 0.1
MMSE 20 (0-30) 15 (0-30) 0.01
Barthel Index* 90 (0-100) 50 (0-100) 0.04
Charlson Index 6.5 ± 2.1 6.3 ± 1.9 0.5
Prevalenza di de-lirium 23.1% 28.9% 0.3
Tabella 2: Parametri bioumorali distinti per sesso
Variabili parametriche espresse in media ± DS; non parametriche mediana e range. Per va-
riabili parametriche ANOVA; non parametriche Mann-Whitney
82
M
(n=91)
F
(n=114)P
Creatinina (mg/dl) 1.4±1.0 1.2±0.9 0.08
MDRD 60.8 (9.5-111.5) 52.3 (6.4-114.6) 0.1
Glicemia (mg/dl) 112.2 ±42.4 115.4 ±55.5 0.9
Albumina (g/dl) 3.3 ±0.5 3.1 ±0.5 0.01
FT3 (pg/ml) 1.8 ± 0.8 1.7 ± 0.8 0.3
TSH *(mU/ml) 1.15 (0.0-13.9) 1.32 (0.0-9.6) 0.4
VES (mm/h) 41.6 ± 30.2 43.6 ±30.5 0.6
PCR (mg/dl) 7.4 ± 10.0 7.5 ±9.5 0.7
Tabella 3: Variazione del deficit e durata del ricovero
Tabella 4: Variazione del deficit cognitivo all’ingresso e alla dimis-sione in base ai gruppi di MMSE
83
MMSE all’ingresso
MMSE alla dimissione p
< 5 giorni di ricovero 16 (0-30) 18 (0-30) <0.0001
5-10 giorni di ricovero 12.5 (0-30) 17.7 (0-30) <0.0001
>10 giorni di ricovero 16 (0-30) 19 (0-30) <0.05
MMSE ingresso MMSE dimissione P
grave 0.0 (0-17) 2.05 (0-22) 0.007
moderato 21 (18-24) 23 (18-28) <0.0001
lieve- assen-te 26 (25-30) 28 (24-30) 0.007
Tabella 5: Parametri clinici, ematochimici e mortalità
Variabili parametriche espresse in media ± DS; non parametriche mediana e range
84
Dimessi(n=190)
Deceduti(n=15) p
MMSE 19 (0-30) 0.0 (0-30) 0.0003
Indice di Barthel 80 (0-100) 0.0 (0-100) 0.001
Prevalenza delirium 23.7% 66.7% 0.0004
Indice di Charlson 6.3 ± 1.9 7.4 ±2.1 0.03
Età 80.8 ± 5.9 86.5 ± 5.3 0.0004
Glicemia (mg/dl) 109.3 ± 42.2 140.0 ± 70.4 0.02
Albumina (g/dl) 3.2 ± 0.5 2.8 ± 0.6 0.02
LDH (U/l) 240.0 ± 145.9 387.4 ± 55.4 0.02
PCR (mg/dl) 7.1 ± 9.3 14.2 ± 13.3 0.03
K (mEq/L) 3.9 ± 0.7 4.4 ± 1.0 0.03
Creatinina (mg/dl) 1.27 ± 0.95 1.86 ± 0.97 0.04
FT3 (pg/ml) 1.7 ± 0.8 1.6 ± 0.8 ns
VES (mm/h) 44.3 ± 31.9 37.5 ± 17.4 ns
Na (mEq/l) 138.8 ± 6.1 137.2 ± 10.8 ns
Tabella 6: Regressione logistica multipla per mortalità
85
MMSE Glic LDH Età PCR Alb Creat K+ p R2
0.2 0.04 0.3 0.2 0.1 0.6 0.8 0.9 ns 0.33
0.2 0.04 0.3 0.2 0.1 0.6 0.8 ns 0.33
0.2 0.04 0.3 0.2 0.09 0.6 ns 0.33
0.1 0.02 0.1 0.1 0.2 0.04 0.34
0.02 0.008 0.1 0.1 0.03 0.27
0.006 0.009 0.1 <0.0001 0.25
0.003 0.01 <0.0001 0.20
0.001 <0.0001 0.16
Figura 1. Regressioni lineari MMSE e parametri bioumorali.
0
10
20
30
1 2 3 4
0
10
20
30
0 1 2 3 4 5
86
Albumina (g/dl)
MMSE p=0.0004R=0.32
p=0.003R=0.15
fT3 (pg/mL)
MMSE
0
10
20
30
0 20 40 60 80 100 120 140
87
MMSE
VES (mm/h)
p=0.01R=-0.22
Figura 2. Deficit cognitivo e patologie
88
Squilibri idro-elettrolitici
89
Febbre di ndd