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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO SCUOLA DI ...comunicazione come il web 2.0 e i social network....

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO SCUOLA DI MANAGEMENT ED ECONOMIA TESI DI LAUREA IN ECONOMIA E GESTIONE DELL’INNOVAZIONE “Dall’Open Innovation alla Smart Mobility: possibili strategie innovative in ambito urbano” Relatore: Prof. Stefano Bresciani Correlatore: Prof. Avv. Toti S. Musumeci Correlatore esterno: Dott. Maurizio Tomalino Candidato: Piero Terracciano ANNO ACCADEMICO 2013-2014
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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO

SCUOLA DI MANAGEMENT ED ECONOMIA

TESI DI LAUREA INECONOMIA E GESTIONE DELL’INNOVAZIONE

“Dall’Open Innovation alla Smart Mobility: possibili strategie innovative in ambito urbano”

Relatore: Prof. Stefano Bresciani

Correlatore: Prof. Avv. Toti S. Musumeci

Correlatore esterno: Dott. Maurizio Tomalino

Candidato: Piero Terracciano

ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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INDICE

INTRODUZIONE………………………………………………………7

CAPITOLO I

Innovazione, concetto di Open Innovation, Tripla Elica

1.1 Il concetto di Innovazione…………………………………....................14

1.2 L’innovazione nel XXI secolo………………………………………….17

1.3 Le tipologie di innovazione……………………………………………..20

1.4 Il paradigma della Closed Innovation…………………………………..22

1.4.1 Il processo della Closed Innovation……………………………….24

1.4.2 Fattori di erosione del processo di Closed Innovation…………….27

1.5 Un nuovo approccio: Open Innovation…………………………………30

1.6 Il processo di Open Innovation…………………………………………33

1.7 Possibili classificazioni…………………………………………………36

1.8 Il Business Model in un’ottica di Open Innovation…………………….37

1.9 La gestione della conoscenza nei processi di innovazione aperta……...40

1.10 Dall’Open Innovation al Crowdsourcing……………………………...42

1.10.1 Diverse tipologie di Crowdsourcing……………………………..44

1.10.2 I benefici per l’impresa…………………………………………..46

1.11 La “Tripla Elica”: Università – Stato – Impresa……………………...48

1.11.1 Il modello statale…………………………………………………49

1.11.2 Il modello liberista……………………………………………….50

1.11.3 La teoria della Tripla Elica………………………………………51

CAPITOLO II

Social Innovation e Crowdfunding

2.1 Introduzione alle innovazioni sociali………………………………….53

2.2 Social Innovation……………………………………………………...54

2.2.1 I processi della Social Innovation………………………………...57

2.2.2 L’innovazione sociale in azione…………………………………..61

2

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2.2.3 L’Italia crede nell’innovazione sociale…………………………...63

2.3 Il Crowdfunding come esperienza sociale…………………………….64

2.3.1 Tipologie di Crowdfunding……………………………………….66

2.3.2 Vantaggi e svantaggi del crowdfunding…………………………..68

2.3.3 Le piattaforme di crowdfunding in Italia…………………………70

2.3.4 Il crowdfunding nell’ordinamento italiano: il Decreto

“Crescita-bis”…………………………………………………………….76

2.3.4.1 La disciplina dell’equity crowdfunding tra TUF e Regolamento

Consob………………………………………………………………...78

2.3.4.2 Deroghe al diritto societario…………………………………..89

2.3.4.3 Prospettive………………………………………………….....91

2.3.5 Conclusioni………………………………………………………..91

CAPITOLO III

Verso una visione di Smart Mobility

3.1 La mobilità: un bisogno in continua evoluzione…………………….....93

3.2 Definizione di mobilità sostenibile………………………………….....95

3.3 La realtà della Smart Mobility………………………………………....97

3.3.1 L’importanza dell’ICT per la Smart Mobility………………….....98

3.3.1.1 (segue) Infomobilità………………………………………....100

3.3.2 Il ruolo delle tecnologie ITS per la Smart Mobility……………...100

3.3.3 Innovazione e Ricerca per la Smart Mobility…………………....102

3.4 La Smart Mobility in Italia…………………………………………....104

3.5 Smart City e Smart Mobility: due concetti inscindibili………………106

3.5.1 La mobilità sostenibile in una Smart City……………………….108

3.5.2 Torino Smart City………………………………………………..109

3.6 Strategie di marketing e di comunicazione

sulla mobilità sostenibile.............................................................................111

CAPITOLO IV

La mobilità sostenibile nel quadro normativo

4.1 Mobilità sostenibile: la visione comunitaria……………………….....114

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4.1.1 Il pacchetto “clima-energia” dell’Unione Europea……………....118

4.1.2 Il Piano d’azione sulla mobilità urbana………………………......119

4.1.3 Gli obiettivi del Libro Bianco del 2011………………………….120

4.2 La normativa italiana…………………………………………………123

4.2.1 I veicoli ecologici espressione della mobilità sostenibile………..128

4.2.2 Le misure per il trasferimento modale…………………………...129

4.2.3 Promozione di fonti rinnovabili di energia………………………130

4.2.4 Legge n. 134/2012 per la promozione del car-pooling…………..131

4.3 La Riforma del Trasporto Pubblico Locale: cenni storici…………….133

4.3.1 Legge quadro per l’ordinamento del TPL………………………..135

4.3.2 Decreto Burlando………………………………………………...139

4.3.2.1 Le principali novità introdotte dal Decreto Burlando………142

4.3.3 Il Piemonte: la Legge Regionale n. 1 del 4 Gennaio 2000………146

4.3.4 La Legge finanziaria del 2002 e il Decreto Bersani……………...151

4.3.5 Il Decreto Lanzillotta…………………………………………….153

4.3.6 Dalla Legge finanziaria 2008 alla Legge di Stabilità 2014………154

4.3.7 Ulteriori provvedimenti legislativi……………………………….159

4.3.7.1 Recenti interventi della Giurisprudenza…………………….162

4.3.8 Considerazioni finali sul quadro normativo……………………...163

CAPITOLO V

Per una mobilità sostenibile: quali strategie?

5.1 La sostenibilità dei trasporti urbani…………………………………...165

5.2 Il controllo della mobilità……………………………………………..166

5.3 Disincentivare l’uso dell’automobile………………………………....168

5.3.1 Il Mobility Management………………………………………....169

5.3.2 Road Pricing……………………………………………………...173

5.3.3 Combustibili alternativi al petrolio……………………………....177

5.3.3.1 Mercato europeo delle auto elettriche……………………....178

5.3.3.2 Considerazioni sullo sviluppo dell’auto elettrica…………...179

5.3.4 Car Sharing……………………………………………………....181

5.3.4.1 Prospettive di sviluppo del car sharing in Italia…………….187

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5.3.5 Car pooling e Ride sharing……………………………………….188

5.3.5.1 Uber: un innovativo servizio a metà tra il car pooling e il

noleggio auto………………………………………………………...192

5.4 Il rilancio del trasporto pubblico……………………………………….194

5.5 Il miglioramento delle infrastrutture…………………………………...196

CAPITOLO VI

Mobilità pedonale e ciclabile: il caso della Nanoo

6.1 Il Trasporto Lento (TL)……………………………………………….198

6.1.2 I vantaggi dell’andare in bicicletta……………………………….205

6.2 L’integrazione modale tra bicicletta e mezzi pubblici di trasporto…...206

6.2.1 Alcune esperienze internazionali………………………………...210

6.3 La bicicletta ibrida…………………………………………………...212

6.4 Le folding bike………………………………………………………..214

6.4.1 Lo sviluppo di una folding bike innovativa: la Nanoo…………...216

CAPITOLO VII

Mobilità ciclabile: l’esperienza del bike sharing

7.1 Le origini del Bike Sharing: tre generazioni a confronto……………..225

7.2 Il bike sharing in Italia………………………………………………..229

7.2.1 Il caso della città di Torino: il [TO]Bike………………………....233

7.3 L’impatto del bike sharing…………………………………………....236

7.4 I modelli di funzionamento…………………………………………...237

7.5 Fattori critici di successo……………………………………………...239

7.6 I benefici di un sistema di bike sharing……………………………. ...242

7.7 Dal “concept” alla realtà……………………………………………...244

7.8 Politiche di marketing a sostegno del bike sharing…………………...248

7.8.1 Strategie di marketing “buzz”.…………………………………...249

7.9 Sviluppi futuri del Bike sharing……………………………………...251

5

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CONCLUSIONI……………………………………………………………255

BIBLIOGRAFIA………………………………………………………257

SITOGRAFIA………………………………………………………..…264

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Le persone più forti sono quelle capaci di influenzare

le nostre azioni anche da molto lontano.

A mio padre…

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INTRODUZIONE

All’interno del tema generale dell’innovazione strategica, un fenomeno

interessante e assai dibattuto sia in letteratura sia all’interno delle aziende, è

rappresentato dal tentativo di individuare ad oggi, quali sono le principali fonti di

innovazione dalle quali la stessa impresa può attingere con successo. L’evoluzione

storica dell’approccio all’innovazione negli ultimi cinquanta anni, sia in chiave

letteraria che empirica, ha portato probabilmente ad abituarsi all’idea che la fonte

di innovazione principale per un’azienda fosse l’apparato di ricerca costituito

dall’azienda stessa al suo interno

Questo approccio adottato dalle aziende e definito come il paradigma della

“Closed Innovation”, è focalizzato sul concetto che un’impresa investa ingenti

risorse per allestire un’organizzazione interna composta da tecnici e ingegneri tra i

più preparati tra quelli disponibili. Ai tempi in cui queste convinzioni si sono

affermate, le imprese erano, infatti, l’unico motore dell’innovazione, e le

competenze dei loro dipendenti erano le uniche fonti di conoscenza che il mercato

metteva a disposizione. Tuttavia, tale modello di innovazione presentava però

notevoli limiti, considerato che il concetto di innovazione risulta ad oggi

fortemente legato ad interazioni tra la dimensione interna all'impresa e le fonti di

conoscenza e di apprendimento presenti al suo esterno.

In questo contesto si inserisce un nuovo paradigma, molto studiato in letteratura

ed applicato in realtà aziendali di dimensione variabile, introdotto all’inizio degli

anni novanta come nuovo modello di gestione dell’innovazione: “l’Open

Innovation”.

Secondo la definizione del coniatore del termine, Henry Chesbrough, il concetto

di “innovazione aperta” fa leva sull’utilizzo da parte dell’azienda di fonti esterne

di tecnologia e innovazione per stimolare la crescita interna, e si sostanzia in quei

flussi di conoscenza in entrata e in uscita, che hanno lo scopo di accelerare il

processo d’innovazione interna e accrescere i mercati per l’utilizzo

dell’innovazione all’esterno. Open Innovation significa che le aziende dovrebbero

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sfruttare maggiormente idee e tecnologie esterne nel proprio business, lasciando

che le proprie idee inutilizzate possano essere sfruttate da altre imprese.

Questo processo richiede inoltre, che le imprese adottino un modello di business

aperto, includendo attività di “inbound” e “outbound”, che si realizzano

nell’acquisto e nella vendita di licenze, brevetti e, in genere, della proprietà

intellettuale dell’azienda. Si instaurano così delle collaborazioni tra l’azienda e

diverse fonti di innovazione, tra cui clienti e fornitori, aziende di altri settori,

Università e centri di ricerca, enti ed agenzie governative, attività a supporto

dell’innovazione e concorrenti, al fine di ampliare e rendere più flessibile la base

di competenze dell’azienda, ridurre e condividerne i rischi, e di conseguenza

aumentare le performance innovative dell’azienda.

La prima parte del lavoro di tesi ed in particolare il primo Capitolo, è stato

dedicato alla definizione del concetto di innovazione, e quindi alla descrizione del

nuovo paradigma dell’innovazione aperta, definendone le caratteristiche, le

diverse classificazioni, il business model ed i principali vantaggi rispetto

all’approccio tradizionale. Sono stati evidenziati i limiti del vecchio approccio

all’innovazione, il cui modello era basato sulla chiusura dei confini aziendali,

sullo sviluppo interno delle idee e sulla protezione legale dei risultati. Sono state

spiegate le ragioni del fallimento di questo modello, sottolineando l’anacronismo

dello stesso con l’evoluzione delle condizioni dell’ambiente esterno.

Successivamente, in linea con il percorso storico evolutivo, l’attenzione si è

spostata sull’ambito soggettivo dell’innovazione, in risposta all’esigenza di

individuare e descrivere le nuove fonti di conoscenza e innovazione ad oggi

disponibili alle imprese. Si è affrontato così, in maniera definitiva il passaggio

dall’innovazione generata attraverso la collaborazione con un ristretto numero di

attori esperti, al coinvolgimento di massa vero e proprio. Vengono descritte le

ragioni grazie alle quali questo cambiamento è stato possibile, con particolare

riferimento all’innovazione tecnologica, alla conoscenza maggiormente diffusa

all’interno del mercato rispetto alle epoche passate, e soprattutto ai nuovi canali di

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comunicazione come il web 2.0 e i social network. Proprio grazie a questi ultimi è

stato possibile giungere a quella che può essere definita “l’ultima frontiera

dell’innovazione”, rappresentata dalle piattaforme di Crowdsourcing e co-

creazione del valore. Tra i diversi modelli utili per sfruttare la conoscenza diffusa,

molto probabilmente il Crowdsourcing è quello più efficace e per questo più

utilizzato ad oggi dalle imprese. Il lavoro così si è focalizzato ad una descrizione

delle principali piattaforme e dei benefici che un programma di Crowdsourcing

può apportare non solo all’impresa, ma anche agli utenti che hanno scelto di

partecipare al progetto.

Per ultimo, infine, vengono affrontati i principi della teoria della Tripla Elica di

Etzkowitz, secondo la quale, in un’ottica di gestione dell’innovazione aperta, il

ruolo del sistema della scienza e, quindi dell’università è cambiato. Esiste, infatti,

il bisogno di intensificare le interazioni fra il mondo della ricerca ed il mondo

industriale che ne utilizza i risultati, in linea con quanto emerge dai modelli a

catena dell’innovazione. Secondo Etzkowitz, dunque, gli attori del sistema

nazionale dell’innovazione, università, imprese e stato, sono chiamati ad integrarsi

ed interagire sempre più operando come un’unica entità.

Il secondo Capitolo, pone l’accento su una nuova forma di innovazione come

driver per lo sviluppo delle economie di molti paesi: le Social Innovation.

Il ruolo di queste innovazioni, è quello di migliorare il benessere degli individui e

creare innovazioni buone sia per la società sia per accrescere la capacità di azione

della società stessa. Una serie di iniziative, dunque, vengono finanziate anche

dall’Unione Europea, che cerca di rafforzare il tessuto civico, favorendo relazioni

orizzontali e comunitarie e colmando il più delle volte i vuoti lasciati dai governi

nazionali: si va dalle “social enterprise” alla cosiddetta “sharing economy”, dal

microcredito al “crowdfunding”.

In particolare il crowdfunding, letteralmente “finanziamento dalla folla”, consiste

in un finanziamento collettivo, basato sull’appello rivolto dai promotori di un

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progetto con finalità economiche o sociali ai frequentatori della Rete affinché

forniscano fondi utili alla sua realizzazione. Si tratta di una moderna versione di

quella che in passato si sarebbe definita “colletta”. In riferimento a questa

innovazione sociale, vengono esaminati le principali piattaforme di crowdfunding

nel mondo e in Italia, le diverse tipologie e i vantaggi e gli svantaggi che ne

possono derivare. In ultima analisi, viene affrontata la disciplina giuridica del

fenomeno sia a livello legislativo con il Decreto “Crescita-bis” n. 179/2012, sia

con il Regolamento Consob.

Il terzo Capitolo, costituisce invece l’inizio della seconda parte di lavoro della tesi

focalizzata sullo sviluppo della Smart Mobility e sull’evoluzione tecnologica. Le

tecnologie, infatti sono sempre più al servizio dell’uomo, delle sue necessità, in

generale della società nel suo complesso, migliorando la qualità della vita grazie

ad una innovazione e modernizzazione “intelligente” capace di offrire importanti

ritorni socio-ambientali.

Sistemi innovativi quali quelli della smart mobility e delle smart city stanno

diventando le nuove frontiere alle quali tendere per ridurre sprechi, diseconomie,

inquinamento, in altre parole rendere gli standard di vita quotidiana ed i relativi

comportamenti più eco-rispettosi, più sicuri, più civicamente virtuosi. In questi

sistemi le tecnologie – in particolare quelle ICT – sono strumenti funzionali

fondamentali perché abilitano accessibilità e “inclusività”, ovvero partecipazione

per tutti e migliore sicurezza. Inoltre, consentono di rimuovere inefficienze

burocratiche e logistiche.

Nell’ambito delle smart city, nel seguente capitolo si è analizzato anche il caso

della città di Torino, la quale si è mostrata particolarmente sensibile ai temi

dell’innovazione diventando una delle prime città a dotarsi di un piano strategico,

denominato “SMILE”, per fare del capoluogo piemontese una smart city.

Tuttavia, per sviluppare delle iniziative a favore della mobilità sostenibile sono

necessari strumenti strategici per contattare i cittadini e indurli con successo a

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mettere in atto dei comportamenti mirati. In questo senso, il marketing e la

comunicazione hanno l’obiettivo di attivare e sensibilizzare la gente sul concetto

di mobilità sostenibile. Proprio nell’ultima parte del capitolo, sono state proposte

alcune iniziative di marketing a favore della smart mobility, guidate tutte da una

mission educativa per stimolare l’utente all’uso quotidiano della mobilità

alternativa.

Il quarto Capitolo si apre con il quadro normativo comunitario in materia di

mobilità sostenibile, con un richiamo alle possibili strategie europee. Tutto ciò

rappresenta un primo passo per tutti gli enti locali per inserirsi attivamente nella

rete europea per la diffusione delle pratiche innovative. Nel particolare si

analizzano il pacchetto “clima-energia” dell’Unione Europea, il Piano d’azione

sulla mobilità urbana ed infine gli obiettivi del Libro Bianco del 2011.

Dopo l’esame della strategia europea, si analizza la strumentazione dei piani

(PUT) e i PUM operanti nel nostro Paese in materia di mobilità urbana,

mettendone in luce limiti e carenze. Vengono, analizzati sotto un aspetto

legislativo anche alcune proposte per incentivare la mobilità alternativa come: la

promozione di veicoli ecologici, le misure per il trasferimento modale,

promozione di fonti rinnovabili di energia ed infine il car-pooling.

Il passo successivo è dedicato all’esame dei principali interventi normativi

riguardanti il settore del trasporto pubblico locale in Italia. Quest’ultimo, infatti,

negli ultimi anni ha sofferto e, soffre tuttora, di una situazione di costante

instabilità del quadro normativo e di incertezza sulle risorse disponibili, che hanno

generato uno stato di crisi generalizzato ed esteso sia alle aziende, che agli enti

affidanti. La tradizione municipale del TPL italiano ha, infatti, fortemente

depotenziato la portata innovativa dell’introduzione delle gare (concorrenza “per

il mercato”) per la selezione del gestore, soluzione sperimentata con un certo

successo in altri Paesi europei. L’incertezza sulle risorse disponibili per il settore,

in massima parte garantite da trasferimenti dello Stato alle Regioni, ha poi

favorito le esigenze di continuità del servizio a tutti i costi, a scapito

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dell’efficienza e della qualità del servizio stesso, potenzialmente ottenibili

attraverso il confronto competitivo. In tale situazione, in molte realtà territoriali, le

autorità locali hanno ritenuto opportuno non celebrare le gare, usufruendo delle

numerose proroghe del periodo transitorio dettato dal D.Lgs. 422/1997, meglio

noto come Decreto Burlando.

Gli sviluppi del quadro normativo devono essere messi in relazione anche con le

recenti vicende in materia di finanza pubblica, con un taglio significativo ai

trasferimenti statali alle Regioni e un parallelo obbligo al contenimento delle

spese. La riduzione delle risorse sta costringendo infatti, gli enti affidanti, in

primis le Regioni, a ricercare, accanto ad una maggiore contribuzione da parte

degli utenti, soluzioni di efficienza.

Il quinto Capitolo, rappresenta la sezione nella quale il presente lavoro di tesi è

concentrato. Vengono, infatti, individuate le possibili strategie innovative in

ambito urbano al fine di incentivare la mobilità sostenibile. Sotto quest’ottica, la

tariffazione dei parcheggi ha assunto una grande rilevanza per ridurre le

inefficienze legate all’uso dell’automobile. Quest’ultimo, nonostante un minor

utilizzo negli ultimi anni, resta comunque il mezzo più utilizzato dagli italiani con

una percentuale pari all’83%. Ad oggi però esistono numerose iniziative volte o a

decrementare la domanda di automobili ad esempio disincentivandola o

rendendola un mezzo di trasporto più sostenibile o semplicemente condividerne

l’utilizzo. Alla prima categoria appartengono le politiche del “road pricing”, oggi

applicabili con tecnologie di tipo Telepass, che prevedono l’istituzione di una

tariffa d’uso dell’infrastruttura stradale in specifiche fasce orarie di maggior

traffico o in situazioni di congestione. Alla seconda categoria appartengono,

invece, iniziative volte ad utilizzare combustibili alternativi al petrolio, ovvero i

veicoli elettrici. Infine, quando si parla di condivisione dell’auto, ci si riferisce a

sistemi di “car sharing”, “car pooling” o “ride sharing”, il cui obiettivo è quello

di diminuire l’uso di veicoli in circolazione.

In ultima analisi, vengono proposte altre due strategie: il rilancio del trasporto

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pubblico con interventi volti a migliorare la qualità dei servizi esistenti e iniziative

per il potenziamento dell’offerta; il miglioramento delle infrastrutture per

garantire una migliore viabilità e circolazione.

Nel sesto Capitolo, l’attenzione si sposta sulla mobilità ciclabile e pedonale

definite come “soft mobility” e come forme di mobilità sostenibile a “zero

emissioni”, in quanto implicano l’impiego esclusivo della capacità fisica

dell’uomo. A partire dagli anni Settanta la mobilità pedonale e ciclabile sono state

rilanciate attraverso una pluralità di iniziative che perseguono obiettivi molteplici:

dalla sostenibilità dello sviluppo alla riqualificazione dei tessuti degradati; la

riduzione delle emissioni inquinanti; la sicurezza stradale; la protezione degli

utenti più deboli (anziani, bambini, portatori di handicap) alla promozione di

forme di spostamento più rispettose dell’ambiente. In particolare, nel presente

capitolo si sono evidenziati una moltitudine di vantaggi dell’andare in bicicletta

(vantaggio ecologico, economico, energetico, sociale etc), che ci portano a dire

che questo mezzo di spostamento rappresenta la scelta ecosostenibile per

eccellenza. La bicicletta, inoltre si presta molto bene ad un utilizzo intermodale

con i vettori di trasporto pubblico (metropolitana, treni, tram), riuscendo così ad

organizzare una rete integrata che sfrutti appieno le interconnessioni tra le diverse

realtà del trasporto collettivo. In questa sezione, vengono citate alcune esperienze

internazionali, soprattutto nei Paesi del Nord-Europa, in cui le biciclette sono dei

veri e proprio elementi distintivi della mobilità.

L’analisi poi è proseguita su un caso aziendale, la Nanoo, una “folding bike” dal

design innovativo, sviluppata e lanciata sul mercato dall’azienda Advanced

Mobility S.r.l. sita in Torino. L’obiettivo dell’azienda è stato quello di creare un

concetto di mobilità sostenibile e funzionale per un vivere quotidiano

semplificato, progettando un modello di bici pieghevole in grado di ottimizzare

questi concetti.

Nel settimo ed ultimo Capitolo, lo studio è stato condotto sul bike sharing, sul

significato del termine, sull’articolazione del servizio e sulle possibili opportunità

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che potrebbe offrire alla mobilità urbana. I servizi di bike sharing e i programmi di

biciclette pubbliche hanno ricevuto una crescente attenzione negli ultimi anni, con

iniziative volte ad aumentare ed incentivare l’utilizzo della bicicletta.

Nel capitolo si vedrà come il bike sharing possa effettivamente partecipare alla

causa pubblica attraverso le proprie particolarità ed efficienze. Si vedrà come si è

sviluppato questo fenomeno attraverso gli anni, i benefici, i maggiori servizi

operanti in Italia con riferimento anche a quello offerto dalla città di Torino e le

possibili campagne di marketing e di comunicazione a sostegno di questa forma di

mobilità sostenibile.

Infine, il lavoro si concluderà con uno sguardo proiettato verso il futuro attraverso

alcune considerazioni su come un servizio di bike sharing di quarta generazione

potrebbe esser configurato, con uno slancio verso le proposte che concretamente

potranno arricchire e migliorare il servizio in un futuro imminente.

CAPITOLO 1

INNOVAZIONE, CONCETTO DI OPEN INNOVATION, TRIPLA ELICA

1.1 Il concetto di Innovazione

Al fine di delineare il concetto di “innovazione”, è utile fare una distinzione tra

invenzione e innovazione. Fagerberg afferma che l’invenzione è la prima idea per

lo sviluppo di un nuovo prodotto o processo, mentre l’innovazione è il primo

tentativo di mettere in pratica tale idea.1 Un’innovazione è l’introduzione di un

prodotto (bene o servizio) o di un processo, nuovo, o significativamente

migliorato, o l’introduzione di un metodo di commercializzazione o di

organizzazione nuovo o significativamente migliorato, applicato alle pratiche

commerciali, all’organizzazione del lavoro o alle relazioni con l’esterno.2 Joseph

Schumpeter, definiva l’imprenditore innovatore come “colui che apporta

1 FAGERBERG J., MOWERY D.C., NELSON R.R. (2005), (a cura di), The Oxford handbook of Innovation, Oxford University Press, Oxford e New York.2 OECD (2005), Oslo Manual 3rd edition Guidelines for Collecting and Interpreting Innovation Data, OECD Publishing, Parigi.

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trasformazioni nei mercati attraverso l’implementazione di nuove combinazioni”3,

che possono riguardare:

� l’introduzione di nuovi prodotti;

� l’introduzione di nuovi metodi di produzione;

� l’apertura di nuovi mercati;

� la conquista di nuove fonti di approvvigionamento di materiali o parti;

� la realizzazione di nuove modalità organizzative all’interno dell’industria.

Egli utilizza, quindi, l’espressione “imprenditore” per definire il ruolo

dell’innovatore. Secondo l’autore, il classico equilibrio di mercato è ostacolato

dalle azioni degli imprenditori, guidati dal desiderio di creare un monopolio, per

mezzo dell’introduzione di una qualche innovazione. Essi sono, infatti, motivati

ad assumere un certo grado di rischio in cambio dei guadagni ottenibili riuscendo

a collocare un bene nel mercato. I ricavi così conseguiti potrebbero essere

successivamente investiti per continuare l’attività imprenditoriale e produrre altre

innovazioni, dato che le anteriori sarebbero già state diffuse. In questo modo si

genera un processo di retroalimentazione che stimola la crescita e lo sviluppo

economico. Secondo Schumpeter, senza la presenza di imprenditori che portino a

termine l’attività innovativa, il tasso di crescita sarebbe limitato all’incremento dei

fattori produttivi e sarebbe difficile la generazione del suddetto processo. Tutta

questa evoluzione rappresenta, per l’autore, la storia del capitalismo, prodotta da

ciò che egli definisce “distruzione creatrice”. Metodi di produzione, tecnologie e

conoscenza diventano obsoleti e vengono superati, perché solo dal cambiamento

scaturisce qualcosa di nuovo. L’imprenditore “schumpeteriano” è la figura chiave

di questo processo in continuo divenire, in cui la sopravvivenza è possibile solo se

si è disposti a mutare, perché ciò che importa davvero non è la competizione sul

prezzo, ma la concorrenza creata dalla novità. Durante gli anni Settanta e Ottanta

si afferma il pensiero evolutivo (o neo- schumpeteriano). L’idea di fondo di questo

approccio è la concezione dello sviluppo tecnologico come processo evolutivo,

3 SCHUMPETER J.A. (1911), Teoria dello sviluppo economico, ETAS, Milano, pp. 32 ss.

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dinamico, accumulativo e sistemico. Come nel pensiero di Schumpeter, si assegna

all’innovazione il principale ruolo dinamizzante dell’economia capitalista.

L’innovazione viene analizzata come un processo diviso in due tappe: la prima

fase consiste nello sviluppo e nella commercializzazione iniziale di un nuovo

prodotto o processo, la seconda è costituita dall’applicazione diffusa, ovvero dalla

trasmissione di tale innovazione con l’assimilazione da parte del grande pubblico

dell’informazione tecnica sviluppata. Inoltre, la visione “neoschumpeteriana”

stabilisce che, durante il processo di diffusione, continui il progresso tecnologico

inizialmente avviato dall’innovazione di maggiore portata. Gli autori evolutivi

considerano, quindi, che la tecnologia si sviluppi contemporaneamente alla sua

diffusione, e che ciò avvenga in un contesto determinato, contraddistinto da

caratteristiche politiche, economiche, storiche e istituzionali, con il quale si

stabilisce un processo di retroalimentazione continua. Per questo, non tutte le

innovazioni generate da un’impresa avranno lo stesso impatto, ma dipenderà dalla

loro ricezione nell’ambiente. La capacità di innovare di un’impresa sarà, quindi,

influenzata dall’ambiente che la circonda. In riferimento alle fasi del processo

innovativo, il momento in cui si produce l’innovazione è tale quando i frutti

dell’attività innovativa vengono immessi con successo nel mercato4. In questo

ambito risulta pertinente fare ulteriore chiarezza sulla differenza tra invenzione e

innovazione. Dai contributi di Schumpeter5 nascono i concetti su cui sono fondati

gran parte dei modelli successivi; in questi si stabilisce la differenza tra

invenzione, innovazione e diffusione. L’autore definisce “invenzione” il prodotto

o processo che viene creato e si sviluppa nell’ambito scientifico-tecnologico, e

relaziona, invece, l’ “innovazione” con un cambiamento di natura economica.

Così considera la “diffusione”, ovvero la trasmissione di innovazione, come ciò

che permette ad un’invenzione di trasformarsi in un fenomeno economico-sociale.

Più recentemente gli studiosi Hauschildt e Salomo, nel tentativo di sintetizzare i

principali contributi letterari sull’approccio della dottrina al tema

4 ROZGA R. (1999), Entre globalición tecnológica y context nacional y regional de la innovación, un aporte a la discussion de la importancia de lo global y lo local para la innovación tecnológica, V Seminario Internacional, Toluca, Mexico.5 SCHUMPETER J.A. (1911), Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, Duncker&Humblodt, Berlin. Versione in inglese, The Theory of Economic Development, Harvard University Press, (1934), Cambridge; MASS e SHUMPETER J.A., (1942), Capitalism, Socialism and Democracy, Harper, New York e Londra. Versione italiana, Socialismo e Democrazia, ETAS, Milano, (2001).

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dell’innovazione, riconoscono che le definizioni esistenti del termine innovazione

condividono i seguenti aspetti. Le innovazioni consistono in “nuovi prodotti o

processi che da un punto di vista qualitativo si distinguono nettamente dallo stato

precedente”6; e ancora in linea con Schumpeter affermano: “un’innovazione è tale

se può essere sfruttata commercialmente, attraverso nuovi o preesistenti mercati”,

distinguendo così il concetto di innovazione da quello di mera invenzione. Il

duplice obiettivo degli innovatori è quello di risolvere i problemi esistenti con

soluzioni inedite e offrire alla popolazione bene i e servizi in quantità e varietà

sempre crescenti, per rispondere alle esigenze dei singoli e della società.

L’innovazione costituisce, così, la leva fondamentale attraverso cui è possibile

alimentare la crescita e accelerare la generazione di conoscenza: le imprese,

applicando i risultati di ricerca, possono accrescere la competitività propria e del

sistema produttivo complessivo, avviando e sostenendo, in questo modo lo

sviluppo economico e l’avanzamento tecnologico. In riferimento alle fasi del

processo innovativo, il momento in cui si produce l’innovazione è tale quando i

frutti dell’attività innovativa vengono immessi con successo nel mercato.

L’evoluzione nel concetto di innovazione è rappresentata da numerose visioni che,

nel corso degli anni, hanno cercato di spiegare i processi per mezzo dei quali

l’attività innovativa viene realizzata. I contributi in materia, circa il cambiamento

tecnologico e la formazione di conoscenza, sono molteplici e i filoni di pensiero

descritti finora costituiscono solo una parte della letteratura al riguardo. Ciò che

lega, per alcuni aspetti, le teorie di diversi autori appartenenti a differenti momenti

storici, è la presenza di una linea di fondo, che mantiene stabili i criteri con i quali

viene rappresentata l’innovazione, pur permettendo al concetto di evolversi e

trovare definizioni sempre aggiornate con i tempi. Tale tematica di base è data

dalla continuità descrittiva per cui si conferiscono al fenomeno innovativo

attributi di novità, modernità e cambiamento. D’altra parte, vi è la presenza di

elementi di stacco, riconducibili al coinvolgimento di un numero e una varietà di

attori e attività sempre maggiori, utilizzati per spiegare l’avvio e lo sviluppo

dell’azione innovativa.

6 HAUSCHILDT J., SALOMO S. (2011), Enabling Innovation, Springer, Berlin, pp. 233 ss.

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1.2 L’innovazione nel XXI secolo

La maggior parte delle innovazioni fallisce e le compagnie che non innovano

muore.7 Al mondo d’oggi, il ruolo dell’innovazione è fondamentale per tutte le

compagnie di ogni dimensione in ogni settore. L’innovazione è vitale per

sostenere e crescere gli attuali businesses delle imprese. È opinione largamente

diffusa che il tema dell’innovazione sia uno dei driver principali per le aziende al

fine di garantire una crescita sostenibile e profittevole nel tempo. L’innovazione

degli ultimi anni è notevolmente cambiata a causa della globalizzazione la quale

sta avendo degli impatti notevoli nei processi economici. Da una parte, infatti, i

mercati hanno ridotto drammaticamente la vita media dei prodotti; di contro, la

convergenza delle differenti tecnologie ha reso il processo di innovazione

maggiormente rischioso e costoso. Oggigiorno, le grandi compagnie del passato

stanno incontrando numerose difficoltà per sostenere i loro investimenti nella

R&S interna. Si consideri il laboratorio di ricerca industriale premier del XXI

secolo, Bell Labs. Non molto tempo fa, Bell Labs sarebbe stata un’arma strategica

e decisiva nella battaglia della Lucent Technologies contro la Cisco System nel

mercato delle apparecchiature di telecomunicazione. La Lucent, divenuta Lucent-

Alcatel in seguito alla fusione del 1 dicembre del 2006, aveva ereditato dopo la

rottura di AT&T, i laboratori della Bell grazie ai quali poteva contare sulla

ricchezza della ricerca e della tecnologia per focalizzarsi sul mercato delle

apparecchiature di telecomunicazione. E per più di cinque anni, Lucent ha

riportato significative vittorie in questo mercato grazie ai suoi nuovi prodotti.

Cisco, tuttavia, in qualche modo è riuscita a mantenere il passo della Lucent pur

non avendo le capacità di R&S interna paragonabile a quelle della Lucent. Le due

compagnie, infatti pur competendo direttamente nello stesso settore, non

innovavano nello stesso modo. La Lucent, dedicava enormi risorse per esplorare il

mondo di nuovi materiali e componenti e sistemi all’avanguardia, sempre alla

ricerca di scoperte importanti che avrebbero potuto alimentare le future

generazioni di prodotti e servizi. Cisco, invece, aveva adottato una differente

strategia nella sua battaglia per la leadership dell’innovazione. Essa, infatti

7 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 7.

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esaminava il mondo delle start-up promettenti che si diffondevano intorno a lei e

che commercializzavano nuovi prodotti e servizi. Alcune di queste start-up erano

state create dai veterani della Lucent, AT&T o Nortel. La Cisco così, a volte

investiva in queste start-up e altre volte, semplicemente ne diventava partner. In

questo modo, Cisco riusciva a mantenere il passo con la produzione di R&S

diventando forse una delle realtà industriali più interessanti al mondo, il tutto

senza produrre R&S per conto proprio. La storia di Lucent e Cisco non sono

comunque un caso isolato; ad esempio l’abilità di IBM nel settore informatico ha

fornito una scarsa protezione a Intel e Microsoft nei business hardware e software

per computer personali. Allo stesso modo, Motorola, Siemens ed altri colossi

industriali sono rimasti a guardare impotenti l’ascesa di Nokia nella telefonia

wireless sulla base della sua esperienza industriale di decenni precedenti nei

settori low-tech della pasta di legno e degli stivali di gomma. Tutto ciò conduce ad

un numero di paradossi che affrontano tutte le imprese innovative del XXI secolo.

“Mentre le idee abbondano, la ricerca industriale interna è meno effettiva. Mentre

l’innovazione è vitale, il processo di organizzazione dell’innovazione sembra non

funzionare più. Mentre le idee e il capitale esterno sono abbondanti, le

compagnie hanno problemi a trovare e finanziare le opportunità di crescita

interna”8. La R&S per molti anni è stata considerata come la principale leva per

costruire e mantenere un vantaggio competitivo per le aziende. In passato, la R&S

interna rappresentava un asset strategico prezioso in grado di ostacolare l’ingresso

di nuovi concorrenti nel mercato. Solo grandi colossi, come IBM, Dupont, AT&T

erano in grado di competere svolgendo una grande attività di R&S nei rispettivi

settori e con la successiva conseguenza di raccogliere la maggior parte dei profitti.

8 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 12.

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1.3 Le tipologie di innovazione

Nel tentativo di ricavare dalla letteratura economica una definizione del concetto

di innovazione, appare interessante anche il lavoro di classificazione delle diverse

tipologie di innovazione eseguito dagli studiosi Henderson e Clark,9 e basato su

due dimensioni: 1) il livello di rinnovamento del core-concept (affinato o

rivoluzionario), 2) legame fra gli elementi che lo compongono (conservato o

ripensato). Incrociando le suddette dimensioni si ottiene la matrice riportata in

Figura 1.1.

Figura 1.1 Core concept e legame fra elementi: differenti tipologie di innovazione

9 HENDERSON R.M, CLARK K.B. (1990), “The Reconfiguration of Existing Product Technologies and the Failure of Established Firms”, Administrative Science Quarterly, Vol. 35, No. 1, pp. 11 ss.

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Fonte: adattamento da HENDERSON R.M., CLARK K.B (1990), “The Reconfiguration of Existing Product Technologies and the Failure of Established Firms”, Administrative Science Quarterly, Vol. 35, No. 1, Special Issue: Technology, p. 12.

L’innovazione radicale rappresenta un’idea completamente nuova per l’azienda e

per il contesto a cui essa fa riferimento. Esse danno luogo a cambiamenti bruschi

e significativi e non di rado, riescono a generare nuove opportunità di profitto,

alterando le strutture e le dinamiche competitive dei settori preesistenti. In

particolare, maggiormente soggetti a questo tipo di innovazione sono i settori

merceologici stimolati dal progresso tecnologico (biotecnologia, elettronica,

informatica ecc.). L’innovazione radicale implica una vera e propria rottura con il

percorso fino ad allora seguito. Essa avviene tramite la creazione di nuovi prodotti

e processi, basati su una tecnologia che non può intendersi come un’evoluzione

naturale. Questo tipo di innovazione non si distribuisce uniformemente nel tempo

ma sorge con una certa frequenza in funzione del tipo di prodotto e del grado di

saturazione della tecnologia in uso. Si tratta di situazioni in cui l’utilizzo di un

nuovo principio scientifico provoca la totale e immediata dismissione della

tecnologia anteriore, e comporta la nascita di nuovi mercati. L’innovazione

incrementale rappresenta invece il miglioramento di un prodotto/processo già

esistente, senza che sia alterato l’equilibrio tra le componenti del settore di

riferimento. Questi miglioramenti, prese singolarmente, sono poco significative,

ma viste nell’insieme costituiscono le tappe di un percorso di crescita. Per quanto

concerne l’innovazione architetturale invece, essa rivoluziona il modo, ovvero

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l’architettura con cui i componenti di un prodotto/processo sono collegati tra loro,

mentre elementi come design, tecnologia e core-concept, di base rimangono

invariati. Questo tipo di innovazione è assai interessante dal punto di vista

strategico, poiché permette di condividere i rischi insiti nel processo di

innovazione con altri attori della catena del valore (es. fornitori). Può quindi

rappresentare una rilevante fonte di vantaggio competitivo, a condizione però che

il consumatore percepisca il valore aggiunto. L’innovazione modulare infine, è

quella dove i componenti principali del sistema vengono cambiati, ad esempio

introducendo tecnologie più performanti. Ciò consente di proporre un prodotto

“nuovo” senza però alterare l’architettura generale, ovvero i legami con cui gli

elementi principali oggetto di innovazione vengono combinati tra loro. In

definitiva è corretto affermare che il concetto di innovazione, all’interno del

quadro economico dell’impresa, si presta a molteplici interpretazioni. Nel

presente lavoro il riferimento esplicito è al concetto di “innovazione aperta”

inteso come la capacità dell’impresa di progettare il proprio modello di business al

fine di sfruttare, all’interno del processo di innovazione che la caratterizza, le

risorse e le competenze che si trovano al di là dei propri confini organizzativi, in

modo da favorire lo sviluppo e la competizione, in un contesto economico

ipercompetitivo10 come quello attuale.

1.4 Il paradigma della Closed Innovation

Il modello di innovazione “closed”, così come viene descritto da Chesbrough, che

per la prima volta ne ha fornito una definizione, è improntato sulla logica per cui

le imprese basano la loro attività di sviluppo dell’innovazione sulle risorse e sulle

capacità disponibili all’interno dei propri confini. Di seguito, nella tabella sono

indicate alcune “regole” della “Closed Innovation” ricavate ed elencate da

Chesbrough nel suo primo lavoro:

Figura 1.2: Innovazione Chiusa

Le persone più capaci lavorano con noi

10 D’AVENI R. (1995), “Ipercompetizione”, Il Sole 24 Ore.

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Per creare valore dalla R&S, l’azienda deve scoprire, sviluppare e

governarla direttamenteSe innoviamo dall’interno, siamo in grado di arrivare sul mercato per primiSe siamo i primi a commercializzare la ricerca, creiamo vantaggio

competitivoSe generiamo le migliori idee sul mercato, vinciamo la competizioneDobbiamo presidiare i risultati della nostra ricerca per evitare che i nostri

competitor ne approfittinoFonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. XXVI.

Ad oggi molte (o tutte) di queste regole potrebbero sembrare inadeguate o peggio

deleterie per l’impresa che sfida la competizione in un mercato globalizzato ed

ipercompetitivo11 come quello attuale. Ma l’autore spiega quali sono state le

ragioni del successo dell’approccio “closed” operando una ragionevole

contestualizzazione. L’ipotesi di partenza è quella di una impresa di successo, che

ad un certo punto del suo percorso di crescita si rende conto che, rinunciando ad

investire nell’innovazione di prodotto e di processo, presto il vantaggio

competitivo acquisito tenderà ad esaurirsi. Chesbrough, infatti, afferma che

“condizione necessaria alla conservazione della posizione di leadership è la

capacità in futuro di creare prodotti nuovi e migliorati da offrire al mercato con

una certa regolarità”12. Attestata la necessità di intraprendere un processo di

sviluppo duraturo, l’azienda si interroga sul modello ad essa più congeniale. La

prima fase consiste nel valutare lo “stato dell’arte e della tecnologia” che

caratterizza l’industria in cui la stessa impresa opera, ovvero individuare il livello

di conoscenza presente al di fuori dei confini aziendali. Nonostante molte scoperte

scientifiche e mediche nel XX secolo, molto aziende capiscono che all’esterno

manca una formazione specifica in grado di sviluppare nuovi prodotti e servizi.

Perciò, molte di queste iniziano a dedicare molte risorse all’interno dei propri

confini, per determinare quelle condizioni necessarie allo sviluppo dei moderni

processi di innovazione. Secondo questo modello, una volta attestata

l’insufficiente conoscenza specifica all’esterno dei propri confini aziendali,

11 Op. cit, 10.12 CHESBROUGH H. (2003), The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, pp. 21 ss.

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l’impresa tende a mantenere le principali attività di ricerca all’interno

dell’organizzazione (“in house”). Le compagnie devono, quindi, generare le

proprie idee e poi svilupparle, costruirle, lanciarle sul mercato, finanziarle e

supportarle per contro proprio. Questo paradigma consiglia alle imprese di essere

indipendenti, perché spesso la qualità, la disponibilità e la capacità di altre idee

possono non essere interessanti. “If you want something done right, you’ve got to

do it”13. L’obiettivo principale è quello di limitare il fenomeno di “spillover di

conoscenza” e infatti una funzione centrale nel modello closed è la gestione della

proprietà industriale. Dunque l’impresa che sviluppa innovazione esclusivamente

al proprio interno, gestisce in maniera attenta la proprietà intellettuale delle idee

attraverso la registrazione dei brevetti, con l’obiettivo di mantenerne il controllo

nel tempo, impedendo ai concorrenti lo sfruttamento commerciale. Questa logica

dell’Innovazione Chiusa, crea un circolo virtuoso (Figura 1.3); le imprese

investono nella R&S interna, che conduce a scoperte tecnologiche. Queste

scoperte permettono alle imprese di lanciare nuovi prodotti e servizi sul mercato e

di realizzare più vendite e alti margini e poi di reinvestire sempre più nella R&S

interna che conduce ad ulteriori scoperte.

Figura 1.3: Il circolo “virtuoso

Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. XI.

Per la maggior parte del XXI secolo, questa logica ha funzionato bene. Le

13 Op. cit, 12.

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industrie chimiche tedesche riuscirono a creare un laboratorio centrale di ricerca,

usato per identificare e commercializzare una grande varietà di prodotti nuovi.

Thomas Edison creò una versione americana di questo laboratorio, utilizzato per

sviluppare e perfezionare un numero considerevole di scoperte e alla fine fondò il

famoso laboratorio della General Electrics.

1.4.1 Il processo della Closed Innovation

L’idea di base del modello di Innovazione Closed è che “successfull innovation

requires control”14. Pertanto tutte le fasi del processo innovativo, a partire dalla

ricerca di base fino allo sviluppo di nuovi prodotti o servizi, vengono svolte

all’interno dei confini aziendali, sotto il diretto controllo dei manager dell’azienda

stessa, evitando ogni tipo di contatto con l’esterno. Sono quindi, implicite le

seguenti considerazioni:

1. lo sviluppo dei prodotti può partire solo dalla prima fase, ovvero dall’idea

generata internamente e non da fasi successive;

2. vengono sviluppati impiegando solo risorse e competenze interne;

3. possono uscire dai confini aziendali ed essere commercializzati solo

attraverso un canale di distribuzione della stessa, ovvero solo

esclusivamente la commercializzazione diretta;

4. i prodotti scartati o cancellati, restano archiviati internamente e inutilizzati

fino all’eventuale successivo riutilizzo da parte di altri gruppi di R&S.

A seguito di un tale modello di innovazione, molte tecnologie magari promettenti,

non potrebbero essere mai sfruttate, rappresentando una delle cause di fallimento

o di non ottimizzazione dei processi basati sul modello closed. Secondo

Chesbrough, il primo passo verso la creazione di un organismo interno di R&S, è

la definizione degli argomenti scientifici da approfondire all’interno della fase

iniziale di ricerca, in vista di uno sfruttamento commerciale. In funzione di questi

argomenti scientifici, l’impresa si impegna a ricercare ed assumere le menti più

14 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 10.

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brillanti, quasi sempre provenienti dal mondo accademico. È necessario creare

un’ambiente interno di “fervore scientifico” e una comunità di ricerca che stimoli

la creatività.15 Pertanto saranno necessari contratti a lungo termine e

remunerazioni sostanziose, per evitare che i concorrenti si assicurino il capitale

umano dal valore più elevato. Un aspetto interessante dello scenario scientifico

che si andava affermando con il modello closed, era anche la relazione tra le

grandi corporation e le università. Diversamente dal sistema d’istruzione europeo,

quello americano era fortemente centralizzato e le università, furono create dal

governo per rispondere alle esigenze delle industrie locali. Nella Figura 1.4, è

rappresentato il modello di Closed Innovation e una caratteristica tipica del

modello è la netta separazione tra i vari percorsi di ricerca. Come si può notare,

ciascun progetto di ricerca (rappresentato in Figura 1.4 da una sfera), segue un

percorso autonomo senza mai entrare in contatto con altri progetti, sia in fase di

ricerca che di sviluppo vero e proprio dell’idea.

Figura 1.4: Il paradigma della Closed Innovation

15 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 23 ss.

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Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston., p. 31.

Le due linee che formano una sorta di imbuto hanno un duplice significato. Da un

lato rappresentano i confini dell’impresa, impermeabili sia dall’esterno verso

l’interno, nel senso che le idee provengono esclusivamente dalle menti dei

ricercatori impiegati all’interno dell’organizzazione, sia dall’interno verso

l’esterno, nel senso che l’unica via d’uscita, resta la commercializzazione diretta

attraverso nuovi prodotti a marchio aziendale. Dall’altro lato le due linee

rappresentano il processo selettivo delle idee: come possiamo osservare dalla

figura non tutti i progetti di ricerca proseguono nella fase di sviluppo, molti di

questi vengono accantonati anche se il processo di sviluppo è già in fase avanzata.

La spiegazione che Chesbrough fornisce nel suo libro, risiede nelle continue

tensioni esistenti tra le funzioni di R&S, la cui separazione è evidenziata in figura

da una linea verticale continua. Origine di tali tensioni è la divergenza tra gli

obiettivi dei dirigenti delle due funzioni. Gli scienziati e gli ingegneri che

partecipano all’attività di ricerca e sviluppo lavorano seguendo “il sogno di

realizzare nuove scoperte da pubblicare a proprio nome”; la loro preparazione è

altamente specializzata e ciò rappresenta un limite importante qualora il mercato,

in continua evoluzione, richieda maggiore flessibilità. Dall’altra parte i

manager/ingegneri responsabili della funzione sviluppo sono orientati sulla

conversione delle scoperte in nuovi prodotti, e dunque sulla realizzazione degli

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investimenti; questioni tipiche che gli stessi sono chiamati ad affrontare sono la

riduzione del time to market e il rispetto del budget.16 La funzione di sviluppo, è

di solito parte integrante dell’unità di business ed è strutturata come un centro di

profitto con una propria strategia profit-and-loss (P&L). La funzione di R&S nel

modello della Closed Innovation, invece, è quasi sempre strutturata come un

centro di costo, lontano dalle pressione dell’organizzazione aziendale proprio per

favorire la creazione di un ambiente favorevole alla scienza. La strategia che

molte imprese hanno implementato per affrontare il problema della

disconnessione tra le due funzioni è stata quella di creare un buffer che separa i

due processi. Chesbrough spiega il funzionamento del meccanismo con la

metafora dello scaffale (“ideas on the shelf”). Per ogni progetto, il centro di

ricerca quando lo ritiene opportuno dichiara di aver esaurito il processo di

elaborazione delle informazioni a disposizione; le idee vengono dunque catalogate

come pronte e quindi “messe a scaffale”. A questo punto i progetti cessano di

ottenere finanziamenti dal centro di ricerca ed i risultati ottenuti aspettano di

essere impiegati dalla funzione sviluppo, in quanto ritenuti idonei alla

realizzazione di un nuovo prodotto da commercializzare. Molte compagnie

utilizzano questo modello di innovazione, ovvero mantengono per diverso tempo

numerose invenzioni accumulate sugli scaffali senza essere mai sfruttate, con il

conseguente spreco di tutte le risorse investite per conseguirle.

1.4.2 Fattori di erosione nella logica del processo di Closed Innovation

A partire dalla fine degli anni Ottanta, determinati fattori hanno provocato la lenta

ed inesorabile erosione del vantaggio competitivo che grazie agli strumenti legati

alla “Closed Innovation” le grandi multinazionali erano riuscite ad ottenere. Tra

questi i più importanti sicuramente sono:

1. in primo luogo, la mobilità dei “knowledge worker”17 e il grado di

istruzione sono aumentati negli ultimi due anni e come risultato, una

grande quantità di conoscenza esiste al di fuori dei laboratori di ricerca

16 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 32.17 QUARANTINO L., SERIO L. (2009), “L’innovazione aperta: La prospettiva dell’innovazione aperta e le nuove logiche organizzative e manageriali”, Progetto Matri, Commissione europea.

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delle compagnie. Tutto ciò rende difficile il controllo delle idee e il

trattenimento dei talenti;

2. il mercato dei capitali e il private equity sono moltiplicati recentemente e

ciò ha reso possibile finanziare idee e tecnologie promettenti sviluppate al

di fuori dell’impresa, con apporti e combinazioni di saperi diversi (su tutti

basta citare i casi di Cisco e Google, incubati presso la Stanford University

nella Silicon Valley in California);

3. infine le possibilità di sviluppare ulteriori idee e tecnologie al di fuori

dell’impresa, nella forma di spin-off o attraverso accordi di licenza sono

cresciute.

La dinamica evolutiva del settore industriale, in particolare quello statunitense, ci

dimostra come la maggior parte delle public company che hanno perseverato nella

Closed Innovation, hanno dovuto osservare la crescita esponenziale di nuove

imprese, che sono nate ed hanno avuto successo grazie ad idee che in qualche

modo sono riuscite a superare i confini dei propri laboratori. Molto spesso il

trasferimento della conoscenza al di fuori dei confini dell’impresa avveniva

proprio in ragione della crescente mobilità dei tecnici più qualificati. Da un lato le

imprese concorrenti avevano capito che assumendo tali soggetti potevano

assorbire le conoscenze e l’esperienza che questi avevano accumulato. Dall’altro

gli stessi ricercatori o ingegneri che giungevano ad importanti scoperte,

rendendosi conto dell’inadeguatezza del modello di business alla realizzazione e

al potenziale sfruttamento commerciale delle stesse, sceglievano di abbandonare

l’attuale occupazione, seppur certa e ben retribuita, e fondare nuove imprese,

organizzandole in modo da massimizzare a proprio favore il valore commerciale

dell’idea. La Figura 1.5 rappresenta uno degli esempi più eclatanti dell’epoca: le

imprese evidenziate sono tutte start-up fondate da ricercatori inizialmente

impiegati in IBM, che hanno deciso di intraprendere un’attività propria portando

con sè e quindi sottraendoli all’impresa, in una sorta di diaspora, decine di

collaboratori scelti tra i più brillanti e preparati. A prescindere dal valore

commerciale delle idee, è facile comprendere la perdita subita dall’impresa

“madre”, già in termini di preziose risorse umane, che rapidamente scelsero di

abbandonarle.

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Figura 1.5: IBM e le compagnie discendenti nel settore degli Hard-Disk Drive

Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 36.

Le imprese evidenziate sono tutte aziende di successo, che ancora oggi, sono in

attività. Questi fattori erosivi sopra citati, quando si verificano nell’azienda, la

logica della Closed Innovation non viene più applicata e le imprese cominciano a

scoprire la ricchezza e la varietà di spunti per la ricerca provenienti dall’altro lato

dei propri confini. I fattori di contesto che hanno spinto l’impresa a chiudersi tra

le sue stesse mura, sono radicalmente mutati a causa soprattutto di un ecosistema

aperto, dove le idee possono provenire dall’esterno ed essere la fonte per lo

sviluppo interno di nuovi prodotti e processi. Inizia così un periodo storico dove la

conoscenza comincia ad essere distribuita al di fuori degli ambienti tipici di

ricerca come sono i laboratori interni alle imprese. Le stesse cominciano a

comprendere il valore delle informazioni detenute dai propri clienti, dai fornitori,

dalle università, dai consorzi, e finanche dalle start-up, piuttosto di ignorare tutto

ciò come accaduto fino ad allora.18 Nella figura 1.5 si osserva la presenza di un

18 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 40.

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percorso di rottura, che spezza il circolo virtuoso originario e fa sì che sorgano

processi aperti di innovazione.

Figura 1.6: La rottura del circolo “virtuoso”

Fonte: adattamento da CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. xxiii

Lo schema di rottura consente di immettere nel contesto organizzativo nuove

conoscenze di natura tecnologica, economica e sociale. Le aziende, al fine del

progresso, possono attingere dall’interno dell’organizzazione o dall’ambiente

esterno, così come restare nel contesto attuale o cercare nuovi mercati.

1.5 Un nuovo approccio: Open Innovation

“Open Innovation means that valuable ideas can come from inside or outside the

company and can go to market inside or outside the company as well”19. Il

termine “Open Innovation” fu coniato per la prima volta da Henry Chesbrough,

Professore e Direttore del Center for Open Innovation alla Backley University

della California, con l’intento di rappresentare un approccio nuovo

all’innovazione, aperto e condiviso fra più attori. Il nuovo modello di innovazione

è un modello nel quale l’azienda non adopera esclusivamente conoscenze ed idee

provenienti dall’interno, ma apre il proprio processo di innovazione all’esterno,

prendendo coscienza della disponibilità e della qualità della conoscenza diffusa al

di fuori dei propri confini aziendali. Il modello offerto dall’Open Innovation 19 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 43.

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stabilisce, infine, che la conoscenza può essere immessa nel mercato non solo

attraverso canali di proprietà, ma anche per mezzo di canali esterni

all’organizzazione, purché questi generino valore addizionale.20 Le nuove idee

possono continuare a trarre origine da un processo interno, o essere sviluppate

all’esterno dei confini aziendali, sia nella fase di ricerca che in stadi di sviluppo

più avanzati e concreti. Uno dei metodi maggiormente utilizzati per far sì che le

idee possano concretizzarsi all’esterno dell’impresa è la creazione di start-up, a

partire dal personale della compagnia. Questo nuovo approccio all’innovazione è

dovuto in primo luogo all’impatto della globalizzazione nell’economia mondiale

ed alla diversa distribuzione della conoscenza rispetto ai decenni passati. L’epoca

del monopolio della conoscenza detenuto dai laboratori di ricerca interni alle

grandi Corporation tali come Xerox, AT&T, Dupont, è terminata. La

partecipazione al processo di innovazione da parte di altri soggetti è in continua

crescita e l’impegno per il miglioramento dei prodotti e dei processi può essere

demandato a diverse categorie di stakeholder, come ad esempio fornitori, clienti,

dipendenti non impiegati nella funzione R&S e perfino alle imprese direttamente

concorrenti. Attualmente le aziende tendono a fare un maggiore utilizzo dei

risultati prodotti dalla ricerca di base nel contesto privato e pubblico, anziché

gestire l’attività di ricerca nei reparti interni dell’organizzazione, al fine di

velocizzare i processi innovativi e abbatterne i costi. L’innovazione così, assume

un carattere sempre più globale, sviluppandosi all’interno di un complesso sistema

di relazioni, in un network composto da imprese, università e centri di ricerca. In

sintesi il paradigma dell’Open Innovation, rappresentato in Figura 1.7, si sostanzia

in quei flussi di conoscenza in entrata e in uscita, che hanno lo scopo di migliorare

ed accelerare il processo di innovazione interna, ed alimentare i mercati attraverso

l’utilizzo all’esterno dell’innovazione prodotta internamente.

20 VANHANVERBEKE W., DUVSTERS G. M., NOORDERHAVEN N. G.(2002), “External technology sourcing through alliances or acquisitions: an analysis of the application-specific integrated circuits industry”, Organization Science, Vol. 13, No. 6, pp. 714-733.

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Figura 1.7: Il modello di Open Innovation

Fonte: CHESBROUGH H. (2012), Open Innovation. Where We’ve Been and Where We’re Going, RTM, Vol 4, (July-August), p. 23.

In questo modello i progetti possono essere originati da fonti interne o esterne e

una nuova tecnologia può essere introdotta nel processo in qualsiasi momento. I

progetti, inoltre, possono arrivare al mercato in diversi modi, sia attraverso la

concessione di licenze che per mezzo dei canali di proprietà dell’azienda.

Adottando il paradigma dell’innovazione aperta, “l’impresa si impegna a

stimolare e ad esplorare sistematicamente un ampio spettro di fonti

dell’innovazione, integrando in maniera consapevole questa attività di

esplorazione con risorse e competenze proprie, e sfruttando a fondo, attraverso i

diversi canali disponibili, le opportunità che si presentano ad essa”21.

21 WEST J., GALLAGHER S. (2006), “Challenge of Open Innovation: the Paradox of Firm’s Investment in open Source Software”, R&S Management, Vol. 36, pp. 319-331.

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Di seguito sono indicate alcune “regole” dell’Open Innovation:

Tabella 1.8: Open Innovation

Non tutte le persone più capaci lavorano con noi e diventa fattore di

vantaggio dell’azienda la capacità di valorizzare expertise e competenze che

sono al di fuori dell’aziendaLa Ricerca e Sviluppo proveniente da fonti esterne può generare valore in

maniera significativa: la R&S interna è soltanto una parte minima del valore

creabileNon è necessario sviluppare internamente ricerca per generare valoreCostruire un migliore modello di business è più importante che arrivare

primi sul mercatoSe siamo in grado di valorizzare le migliori idee, siamo vincenti sul mercatoDobbiamo essere in grado di valorizzare ricerche prodotte dall’esterno e

trasferirle nel nostro modello di businessFonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, HBRP, Boston, p. XXVI.

1.6 Il processo dell”Open Innovation

Secondo Chesbrough, “una nuova tecnologia, se isolata, non possiede alcun

valore economico intrinseco. Il valore economico della tecnologia, rimane latente

fino a quando la stessa non viene in qualche modo commercializzata. Bisogna poi

sottolineare che due modi diversi di commercializzare la stessa tecnologia

produrranno sempre due risultati differenti”22. Da questa intuizione emerge

l’importanza, per l’impresa, di dotarsi di un modello di business capace di

massimizzare il valore intrinseco del flusso di conoscenza proveniente sia dai

laboratori di ricerca interni che da fonti esterne. Dal punto di vista del processo,

come rappresentato nella seguente figura 1.8, distinguiamo almeno tre categorie di

core activities, all’interno delle quali si applicano le regole dell’Open Innovation:

1) front end di innovazione; 2) definizione dell’idea e sviluppo; 3) back end e

commercializzazione.

Figura 1.9: Le fasi del processo dell’Open Innovation

22 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p.. 64.

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Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, HBRP, Boston, p. 44.

Contrariamente al modello di innovazione closed, il lancio di un progetto di

innovazione può essere attivato anche grazie a fonti esterne di conoscenza, ad

esempio attraverso progetti finanziati esternamente, licenze o joint venture. In

questo caso dunque le idee possono essere immesse nel processo in qualsiasi

momento e con vari mezzi. In particolare durante il front end di innovazione le

imprese cercano di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze attraverso

l’integrazione con soggetti esterni. La permeabilità dei confini dell’impresa già

nella fase iniziale del processo innovativo, deve essere intesa sia dall’esterno

verso l’interno, che dall’interno verso l’esterno. Può accadere infatti, come

rappresentato sempre in Figura 1.9, che i diritti sulle idee sviluppate all’interno

dei laboratori dell’impresa vengano ceduti ad altre imprese sul mercato attraverso

operazioni di Technology Licensing. È infatti già in questa fase che l’impresa può

avvalersi di soluzioni diverse dallo sviluppo interno, che si presentano

economicamente più allettanti. Se viceversa l’intuizione viene assorbita

dall’impresa ed al suo sviluppo vengono destinati degli investimenti, ha inizio la

seconda fase del processo di innovazione, quella di definizione dell’idea e

sviluppo. Si tratta di una delle “core activity” del processo di innovazione open

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nella quale si realizza pienamente la funzione R&S. Diversamente dal passato

quando i laboratori erano isolati (spesso anche geograficamente) dalle attività

primarie della catena del valore, l’impresa che ha adottato l’Open Innovation

organizza il proprio modello di business in modo da integrare la funzione di

ricerca sia con le proprie attività interne (logistica, produzione, marketing e

vendita, ecc.), sia con quelle dei partner strategici. È proprio questa infatti la fase

cruciale in cui l’impresa, attraverso strumenti come alleanze, joint venture,

collaborazioni, acquisti o cessioni (spin-off ) di brevetti IP, cerca di scambiare

conoscenza con l’esterno per assicurarsi uno sviluppo più completo dell’idea.

Superate le fasi dell’approvvigionamento e dello sviluppo della tecnologia, il

processo di innovazione così come tradizionalmente veniva concepito, poteva

terminare con due soluzioni alternative: la messa in produzione diretta della

tecnologia (e dunque la commercializzazione), oppure il buffer, ovvero la

conservazione “a scaffale” dell’idea, opportunamente protetta da brevetto. Con

l’avvento dell’Open Innovation le soluzioni per trasferire l’idea all’ambiente

esterno in maniera profittevole si sono moltiplicate. Le imprese hanno cominciato

a lavorare su operazioni di licensing IP quando si riteneva opportuno conservare la

proprietà del brevetto, spin-off quando invece il diritto all’uso veniva

completamente ceduto, e infine start up, quando ritenuto inadatto il proprio

modello di business a sviluppare l’idea, la stessa proprietà dell’impresa effettuava

un investimento per la costituzione di una realtà separata, ma comunque

giuridicamente controllata, capace di massimizzare il valore intrinseco nella

nuova tecnologia.23

1.7 Possibili classificazioni

23 GAULE A. (2006), Open Innovation in Action: How to be strategic in the search for new source of value, H-I Network, London, pp. 62-64.

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Da uno studio empirico effettuato da Lazzarotti e Manzini (2009), è emersa la

principale classificazione dell’Open Innovation, che evidenzia quattro tipologie di

collaborazioni principali. Le variabili considerate per la classificazione sono il

numero e il tipo di partner con cui si collabora (partners variety) e il grado di

apertura delle fasi del processo di innovazione (innovation funnel openess).

Figura 1.10: le tipologie di Open Innovation

Fonte: LAZZAROTTI V., MANZINI R. (2009), “Different modes of open innovation: a theoretical framework and an empirical study”, International Journal of Innovation Management, Università Carlo Cattaneo, Castellanza, Vol. 13, No. 4, pp. 615-636.

Secondo Manzini e Lazzarotti, il grado di apertura del processo innovativo

dipende dal numero e dalla tipologia delle fasi del processo di innovazione per le

quali l’azienda si rivolge all’esterno. Si passa da una totale chiusura con aziende

molto focalizzate nell’innovazione di poche fasi con pochi partner, che

caratterizza generalmente i soggetti che considerano il processo di Open troppo

rischioso e quindi limitano le collaborazioni e definiscono regole e controlli rigidi,

fino al modello di Open ideale, in cui le aziende considerano le collaborazioni

tecnologiche come un’opportunità strategica e dedicano tempo e risorse sulla loro

esplorazione.

I quattro modelli possono essere descritti nel seguente modo:

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� The Closed Innovators: questo modello corrisponde alle imprese che

accedono a risorse esterne di conoscenza e soltanto in un’unica e specifica

fase del processo innovativo. Questo è il caso, ad esempio, di un’azienda

che accede ai servizi esterni di prototipazione nel processo di sviluppo di

un nuovo prodotto.

� The Specialised Collaborators: sono aziende che collaborano con molti

partner differenti, ma aprono il processo di innovazione ad una sola fase. È

il caso delle compagnie che coinvolgono un ampio network di clienti,

esperti, fornitori, centri di ricerca nella fase di generazione dell’idea del

processo di innovazione.

� The Integrated Collaborators: aziende che aprono il loro processo di

innovazione in tutte le fasi ma concentrano le loro relazioni con l’esterno

soltanto con specifici partner, generalmente fornitori o clienti.

� The Open Innovation: aprono interamente il loro processo di innovazione

e sono in grado di gestire un elevato numero di relazioni tecnologiche e di

coinvolgere molti partner.

1.8 Il Business Model in un’ottica di Open Innovation

Le imprese, in un’ottica di Open Innovation hanno bisogno di combinare la

ricerca interna con le idee esterne e poi di impegnarle all’interno del proprio

business. Il business model è la chiave per capire come le aziende, adottando una

determinata tecnologia, crea, distribuisce e cattura valore. L’impresa più catturare

valore economico da una nuova tecnologia in tre diversi modi: attraverso

l’adozione della stessa nel proprio modello di business, oppure concedendola in

licenza ad altre imprese, o infine istituendo un’alleanza con altri soggetti per

esplorare il valore della nuova tecnologia in nuove aree di business. Quando

l’impresa incontra una nuova tecnologia è possibile che la stessa si adatti ad

essere sviluppata all’interno dell’attuale modello di business, ma è anche possibile

che non sia esistita finora un’architettura organizzativa capace di generare ricavi

dalla tecnologia stessa, e che quindi sia necessario progettarla a partire dalle

fondamenta.

In questo ultimo caso il nuovo business model dovrà essere configurato per

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adempiere alle seguenti funzioni,24 illustrate nella figura 1.11.

Figura 1.11 Mappa cognitiva del business model

Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, p. 69.

1. articolare la value proposition, che consiste nel valore creato per il cliente

attraverso l’offerta basata sulla tecnologia;

2. identificare un mercato di riferimento, specificando la tipologia di

consumatore che potrà beneficiare della tecnologia e gli usi ai quali la

stessa può essere destinata;

3. definire la struttura della catena del valore dell’impresa, utile per creare e

distribuire l’offerta e la posizione che occupa l’impresa all’interno della

stessa;

4. specificare il meccanismo di generazione dei ricavi, ovvero la struttura

dei costi e i margini che ci si aspetta di ottenere dalla vendita;

5. descrivere il posizionamento dell’impresa all’interno della “costellazione

del valore”, includendo anche i potenziali concorrenti;

6. formulare la strategia competitiva attraverso la quale l’impresa

24 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p 69.

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guadagnerà e manterrà il vantaggio competitivo sulla concorrenza.

È necessario che l’impresa prima di introdurre una determinata tecnologia,

ponendosi nell’ottica del consumatore, risponda alle seguenti domande: “Quali

problemi del cliente sto risolvendo”, “Quanto questi sono per esso significativi?”.

Nella storia ci sono numerosi esempi di successo di imprese che hanno adottato

tecnologie non del tutto innovative, ma che hanno saputo inserirle all’interno di

una value proposition differente, riuscendo a massimizzare il valore insito nella

tecnologia. Lo sviluppo di una value proposition dipende anche dalla definizione

di un mercato di riferimento, che rappresenta il secondo presupposto nella

creazione di un business model. Quest’ultimo, infatti deve individuare un target di

riferimento o un segmento di mercato, a cui la tecnologia sarà rivolta. Il

consumatore può valorizzare una tecnologia grazie all’abilità di quest’ultima di

soddisfare un bisogno esistente e di creare nuove possibilità e opportunità. Una

volta definito il target di riferimento, è possibile costruire la catena del valore. La

catena del valore deve necessariamente raggiungere due obiettivi: 1) indicare la

strada verso la creazione di valore per il consumatore finale; 2) permettere

all’impresa di rivendicare una porzione di valore sufficiente a giustificare la sua

partecipazione. Tuttavia la creazione di valore è necessaria ma non sufficiente per

l’impresa a trarre profitto dalla propria catena di valore. Per questo l’azienda deve

identificare un’adeguata struttura dei costi e soprattutto i margini che si intendono

ricavare dalla vendita del prodotto. Proseguendo in un’ottica di Open Innovation,

la creazione di un business model dovrà consentire l’inserimento dell’impresa

all’interno di un network del valore. “Costruire dei legami forti all’interno del

network, accrescerà indubbiamente il valore insito nella tecnologia. Viceversa

fallire nella costruzione dei legami ne penalizzerà il potenziale, in particolare se

la tecnologia, e dunque le imprese che la adottano, saranno chiamate a

competere con un network concorrente che a sua volta trae beneficio da relazioni

consolidate”25. Infine, anche in fase di progettazione di un piano di innovazione

“aperta”, sarà molto importante definire la strategia competitiva. I fattori chiave

per sostenere una strategia di successo consistono nell’abilità dell’impresa di

guadagnare un accesso differente alle risorse principali, l’esperienza passata, la

difficoltà per i concorrenti di imitare il prodotto e la futura posizione dell’impresa 25 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting

from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 68.

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stessa nel mercato. Fondamentale infatti sarà capire se il nuovo prodotto potrà

essere in grado di competere secondo una strategia di costo, di differenziazione o

di focalizzazione rispetto all’offerta dei concorrenti.

1.9 La gestione della conoscenza nei processi di innovazione aperta

Nell'ambito di un paradigma chiuso si presuppone che l’organizzazione debba

realizzare l’attività produttiva mediante le proprie idee, e quindi con l'obiettivo di

controllare e proteggere la tecnologia, escludendo terzi dal suo utilizzo. Nel

tentativo di sviluppare nuovi prodotti, partendo dalla base tecnologica interna, le

aziende cercano di sfruttare le conoscenze accumulate. Nello scenario odierno,

però, i cambiamenti nel contesto tecnologico, come la riduzione dei cicli di vita

dei prodotti, la globalizzazione delle attività di R&S, la flessibilità dei processi e il

forte utilizzo dei sistemi di comunicazione, sollecitano a presentare proposte

nuove per la progettazione, pianificazione e attuazione del processo di

innovazione. I processi aperti, si fondano sulla cooperazione tra due o più

organizzazioni attraverso un modello di business praticabile per ciascuno di essi. I

brevetti svolgono un ruolo fondamentale, perché permettono alle aziende che

innovano mediante processi aperti di ottenere dei ritorni, mentre altre

organizzazioni vengono dotate di conoscenze e tecnologie dall'esterno.

L’impressione è che una tutela più forte della proprietà intellettuale si associ ad

una maggiore apertura nei processi di innovazione. Ciò stabilisce un rapporto

stretto tra innovazione e appropriazione della conoscenza, in primo luogo poiché i

brevetti consentono alle aziende di sfruttare le loro innovazioni attraverso la

concessione di licenze, e in secondo luogo perché tale sistema promuove la

specializzazione26. L’uscita del flusso di conoscenza e tecnologia consente alle

organizzazioni di utilizzare canali esterni, che possono rivelarsi più redditizi

rispetto alle strategie interne e che contribuiscono a mantenere alta l’attenzione

verso i cambiamenti tecnologici e le opportunità di mercato dell’ambiente esterno.

Nel modello di innovazione aperta, l’approccio nei confronti dei meccanismi di

protezione è duplice: le imprese vogliono mantenere il proprio vantaggio

competitivo, da un lato attraverso la definizione di un sistema di appropriazione

26 CHESBROUGH H., VANHAVERBEKE W., WEST J. (2006), Open Innovation: Researching a New Paradigm, Oxford University Press, New York, pp. 184-201.

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dei risultati e, dall'altro, sfruttando il proprio capitale intellettuale. Pertanto, il

grado di protezione necessario varia a seconda della situazione che affronta

l’organizzazione. Probabilmente la posizione intermedia offerta dai mezzi di tutela

giuridica può rappresentare una buona strategia di controllo, offrendo al tempo

stesso alternative per una reazione proattiva di fronte all'emergere di opportunità.

Facendo riferimento ai vari settori dell’economia, le modalità di adozione del

modello dell’Open Innovation appaiono diversificate. Nell'industria farmaceutica,

il portafoglio prodotti delle maggiori aziende proviene principalmente dai grandi

laboratori di R&S. L’innovazione aperta è, però, praticata da decenni. Hanno

aperto i loro processi di innovazione a risorse tecnologiche esterne e hanno

avviato un processo di ricerca di opportunità tecnologiche, visitando università,

imprese biotecnologiche, e acquistando licenze o prodotti da altre aziende. Nel

settore informatico, IBM ha adottato un modello di innovazione aperta più

cooperativo, consentendo a nuove imprese con risorse limitate di utilizzare le

proprie strutture per testare tecnologie promettenti. In alcuni casi ciò ha consentito

alla società di diventare partner nel finanziare e lanciare nuovi prodotti di

successo. Anche attraverso alleanze di ricerca, è possibile condividere i costi

elevati e i rischi considerevoli in cui si incorre per sviluppare tecnologie

all’avanguardia. A differenza di IBM, software e hardware Apple sono ancora

protetti, nel senso che non è consentito ad altre società o agenti esterni di

collaborare con il produttore per apportare migliorie. Tuttavia, una volta rilasciati

hardware e software nel mercato sotto forma di prodotto, gli agenti esterni

possono sviluppare applicazioni che aggiungono funzionalità al prodotto

originale. Concludendo, il paradigma dell’Open Innovation disegna prospettive

strategiche interessanti e diversificate, per cui le aziende, al di là del campo di

attività, possono decidere la misura in cui condividere le proprie risorse con gli

altri.

1.10 Dall’Open Innovation al Crowdsourcing

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Il termine Crowdsourcing, coniato dalla fusione delle due espressioni outsourcing

e crowd, è un neologismo che definisce un modello di business in cui un’azienda

esternalizza una parte delle proprie attività ad un insieme vasto ed indefinito di

persone, richiamate attraverso un bando pubblico. Anche se la sua paternità è da

tutti riconosciuta allo scrittore Jeff Howe, che per la prima volta ne fece uso in un

articolo pubblicato nel Giugno 2006 dalla rivista Wired, molti autori tengono a

ribadire il fatto che, precedentemente al lavoro di Howe, l’argomento era già stato

ampiamente trattato in letteratura, anche se da punti di vista differenti. Ad oggi

infatti, dopo diversi anni nei quali il fenomeno è stato al centro dell’attenzione in

ambito accademico, sono parecchi gli autori che concordano sulla classificazione

del Crowdsourcing come forma particolare e molto avanzata di Open

Innovation27. Tra questi sicuramente il Prof. Eric von Hippel, che grazie alla Lead

User Theory è oggi considerato da molti come il precursore della teoria del ricorso

al “crowd” (folla), inteso come “massa di utilizzatori esperti e motivati

all’innovazione”. Tra le sue opere, la più recente e probabilmente più famosa

Democratizing Innovation28, è l’esempio di quanto l’autore tenesse a ribadire

l’importanza della conoscenza e della competenza in possesso della massa degli

utilizzatori, come risorsa preziosa nell’ottica di innovazione di prodotto da parte

delle imprese.

In linea generale, il Crowdsourcing non è altro che uno strumento di “problem

solving”. Infatti accade che l’istituzione o l’individuo che presenta un problema da

risolvere, richiede attraverso un bando pubblico, la risoluzione dello stesso

problema ad un gruppo non definito di persone (crowd). Queste persone, o meglio

gli utenti del crowd, si riuniscono in Comunità virtuali le quali forniscono una

serie di soluzioni al problema enunciato; soluzioni che saranno opportunamente

filtrate e valutate preventivamente dalla Comunità stessa e poi in ultimo

dall’impresa. Ciascuno dei partecipanti è libero di sottoporre la propria idea alla

Comunità, e dunque di manifestare la propria competenza sulla materia. Ma è

importante sottolineare che le soluzioni che emergono dal progetto di ricerca

appartengono al soggetto che per primo ha sottoposto il problema all’attenzione 27 HOPKINS R., SLOANE P. (2011), “A Guide to Open Innovation and Crowdsourcing”, Kogan Page, London, pp. 15 ss.28 VON HIPPEL E. (2006), Democratizing Innovation, The Mitt Press, Cambridge, MA, pp. 4 ss.

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della Comunità, mentre colui che è riconosciuto dalla stessa (e dal proponente)

come ideatore della soluzione, è talvolta ripagato con un premio in denaro, o

molto più spesso con la semplice soddisfazione intellettuale. Il procedimento

appena descritto è rappresentato all’interno della Figura 1.12, e non è altro che il

funzionamento generale di un progetto di Crowdsourcing. Ma come affermato

dallo stesso Jeff Howe, esistono almeno quattro differenti strategie applicative del

modello, variabili a seconda delle regole che vengono formalizzate, di come viene

eseguito l’appello sul web, delle richieste che vengono formulate ai partecipanti,

delle ricompense che vengono eventualmente stabilite per le migliori idee, ed

ancora molte altre variabili.

Figura 1.12: Le singole fasi del Crowdsourcing

Fonte: GEIGER D., SEEDORF S., NICKERSON R., SCHADER M. (2011), “Managing the Crowd: Towards a Taxonomy of Crowdsourcing Processes”, Business Rreview, Detroit.

In definitiva, non esiste approccio più sbagliato e rischioso di quello di avvicinarsi

al Crowdsourcing con superficialità, sperando di ottenere un vantaggio

competitivo semplicemente occupando un sito web ed ordinando ad un gruppo di

persone di fornire le informazioni in proprio possesso. Il Crowdsourcing è una

strategia complessa ed anche piuttosto rischiosa da perseguire, e ne sono un

esempio le decine di società che hanno letteralmente bruciato milioni di dollari di

investimenti nel nome di questa nuova frontiera dell’innovazione29.

29 TUCCI C. (2012), “Crowdsourcing as a solution to distant search”, Academy of Management Review, Vol. 37, No. 3, pp. 355-377.

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1.10.1 Diverse tipologie di crowdsourcing

Jeff Howe nel suo primo lavoro, effettua una sorta di tassonomia del

Crowdsourcing, distinguendo tra quattro strategie possibili:

1. Intelligenza collettiva o Crowd Wisdom. Si tratta di una delle due

tipologie di piattaforma di Crowdsourcing più comuni, nella quale i

partecipanti sono messi nella condizione di poter esprimere la propria

opinione, e fornire le proprie competenze, in merito ad un argomento

proposto dall’impresa30. Si tratta di un fenomeno già molto affermato

all’interno delle imprese, che trova le sue origini in altre operazioni, come

ad esempio quella di istituire una mailbox per i dipendenti dove questi

anche anonimamente possono fornire suggerimenti o lamentare delle

irregolarità. Molto spesso infatti aziende come IBM, Dell, ma anche

Starbucks o P&G, cercano di coinvolgere un gruppo di persone (tra cui

molti sono semplici appassionati), nella risoluzione di un problema ad alto

contenuto tecnico e tecnologico.

2. Crowd creation. Probabilmente è la forma più datata ma anche più diffusa

di Crowdsourcing. Si basa su questa famosa affermazione di William

Nelson Joy, co- fondatore della multinazionale Sun MicroSystem: “No

matter who you are, most of the smartest people work for someone else”31.

In base a questa frase è giusto pensare che l’impresa debba lavorare

costantemente alla ricerca di nuove competenze al di là dei propri confini

istituzionali, in pieno accordo con i principi fondamentali dell’Open

Innovation. Il caso iStockphoto è un esempio tipico di Crowd creation. Il

contributo di fotografi professionisti o di semplici appassionati, fornito in

cambio di pochi centesimi di dollaro, o semplicemente per la

30 SUROWIECKI L. (2005), The Wisdom of Crowds, Knopf Doubleday Publishing Group, New York, pp. 28 ss.31 “Non importa tu chi sia (una grande impresa di successo o una piccola realtà), in ogni caso gran parte delle persone più competenti lavoreranno per qualcun altro”, traduzione dal discorso di William Nelson Joy, co-founder Sun Microsystem.

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soddisfazione di partecipare con le proprie opere alla più grande Comunità

virtuale sul tema, è un esempio fondamentale del successo di questo

genere di piattaforme.

3. Crowd voting. Grazie soprattutto ad internet, come del resto in tutti gli

altri casi, il Crowd voting è un strumento sempre più utilizzato dalle

imprese, ed è molto probabilmente la forma di Crowdsourcing che genera

maggior partecipazione in quanto soprattutto quella che richiede uno

sforzo minore da parte dei partecipanti. Spesso è visto dalle imprese come

una via di mezzo tra le strategie di crowd wisdom e crowd creation, nel

senso che “appare come la via più semplice e diretta per scoprire i bisogni

emergenti del mercato, direttamente da chi in prima persona li

percepisce”32. La stessa struttura del “web 2.0”, espressione ormai molto

comune al giorno d’oggi, è basata su un sistema simile al crowd voting.

Basti pensare all’algoritmo che utilizza Google Search per ordinare i

risultati di una ricerca, ovvero in base alla popolarità di ciascun sito. Il

successo sempre più affermato del La stessa struttura del “web 2.0”,

espressione ormai molto comune al giorno d’oggi, è basata su un sistema

simile al crowd voting. Basti pensare all’algoritmo che utilizza Google

Search per ordinare i risultati di una ricerca, ovvero in base alla popolarità

di ciascun sito. Facciamo riferimento, ad esempio agli ormai famosi “like”

di Facebook, ma anche al semplice meccanismo del “voto a casa”,

possibile grazie ai nuovi decoder interattivi. Il successo sempre più

affermato del crowd voting è dovuto proprio alle numerose modalità di

partecipazione ad un argomento, che la nuova organizzazione del web e

dei media in generale ammette.

4. Crowdfunding. Un piattaforma di Crowdfunding, rappresenta un sistema

efficace per facilitare l’incontro tra la domanda di finanziamenti di chi

promuove dei progetti, e l’offerta di denaro da parte di utenti che

sottoscrivono il progetto. Grazie alle piattaforme di Crowdfunding, che in

comune ai siti di Crowdsourcing hanno la partecipazione di massa e una

32 HOWE J. (2008), Crowdsourcing: Why the Power of the Crowd is Diving the Future of Business, Three Rivers Press, New York, pp. 81 ss.

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struttura organizzativa simile, è dunque possibile partecipare attivamente

alla realizzazione di un progetto, che desta un certo interesse nella

Comunità, ma che manca di fonti finanziarie adeguate. In questo modo una

nuova idea, un nuovo prodotto, o un nuovo processo di produzione di un

bene, hanno molte più possibilità di essere realizzati (e commercializzati),

anche se a proporre l’idea è una piccola start up, che certamente non gode

di notorietà internazionale e soprattutto delle risorse finanziarie necessarie.

1.10.2 I benefici per l’impresa

I benefici del Crowdsourcing per l’impresa, non sono legati esclusivamente ai

minori costi, sia diretti che indiretti, necessari per produrre innovazione. Ad

esempio nel Crowdsourcing sono presenti i vantaggi derivanti dalla fluidità e

facilità di gestione della forza lavoro, e ancora i benefici generali apportati

all’immagine aziendale, in termini di diffusione e senso di impegno dell’impresa

ad innovare e soddisfare i bisogni della Comunità. Pertanto alcuni dei più

importanti benefici del Crowdsourcing possono essere elencati di seguito:

� Presenza di sistemi remunerativi “economici ed innovativi”.

Nonostante le numerose possibilità di remunerazione, dai micro-

pagamenti a ricompense milionarie, oltre alla possibilità di non prevedere

alcuna ricompensa in denaro, appare comune a tutte le diverse forme di

Crowdsourcing, la capacità di ridurre i costi di produzione

dell’innovazione. Anche perché spesso i membri del crowd considerano il

proprio contributo non come una normale attività lavorativa, ma chiedono

in cambio del loro sforzo altre tipologie di ricompense (spesso a carattere

morale).

� Riduzione del rischio. Rispetto alle altre forme di outsourcing, grazie al

Crowdsourcing l’impresa riduce il rischio di dipendenza della fornitura di

un servizio da una singola entità, che sia un’impresa o un singolo

individuo. Inoltre lo schema remunerativo previsto per i contributi,

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qualora a questi fosse riconosciuta una ricompensa in denaro, spesso è tale

da abbattere il rischio di dover pagare in ogni caso, anche soluzioni di

minore successo.

� Maggiore qualità dell’output e time-to-market più breve. Le imprese

grazie al Crowdsourcing ottengono la possibilità di accedere ad un elevato

numero di collaboratori esperti, diminuendo considerevolmente i tempi di

sviluppo e conseguentemente il cosiddetto time-to-market. La qualità

dell’output è superiore rispetto a qualsiasi altro modello di innovazione, in

quanto nel Crowdsourcing, in particolare in quello creativo, “la qualità del

contributo non equivale alla media dei contributi dei partecipanti, ma al

migliore dei contributi di questi”33.

� Una percezione di novità assoluta nei confronti della soluzione fornita

dal prodotto, in quanto lo stesso Crowdsourcing è un fenomeno nuovo, e

pertanto i prodotti ottenuti attraverso una sua elaborazione saranno

percepiti dal mercato come nuovi allo stesso modo.

� Esternalità di rete e positive feedback. Al crescere del numero degli

utenti coinvolti nel Crowdsourcing, i progetti di successo beneficeranno di

un numero sempre crescente di collaboratori pronti non solo a lavorare

per il prodotto, ma anche a pubblicizzarlo, a tutto vantaggio del valore sia

del progetto che dei suoi risultati. Si pensi alle centinaia di programmatori

che lavorano per fornire gli AppStore dei più famosi marchi di

smartphone di applicazioni sempre nuove ed interessanti. Anche se il

servizio è gestito nel suo complesso dall’azienda madre, che sia essa

Apple, Google, Microsoft o Blackberry, esso esiste solo grazie al

contributo indispensabile degli sviluppatori esterni, che a loro volta,

guadagnando in base alle commissioni sul numero dei download, hanno

tutto l’interesse a sponsorizzare la piattaforma.

In conclusione, i benefici finora citati non sono altro che i principali vantaggi che

33 HOWE J. (2008), Crowdsourcing: Why the Power of the Crowd is Diving the Future of Business, Three Rivers Press, New York, pp. 37 ss.

49

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caratterizzano il Crowdsourcing. Ma accanto a questi ce ne saranno sicuramente

altri, magari più specifici rispetto al particolare approccio che si è scelto di

adottare.

1.11 “La Tripla Elica”: Università-Stato-Imprese

Nell’economia della conoscenza il ruolo del sistema della scienza, e quindi delle

università, è cambiato. Esiste il bisogno di intensificare le interazioni fra il mondo

della ricerca ed il mondo industriale che ne utilizza i risultati, in linea con quanto

emerge dai modelli a catena dell’innovazione. L’agenda di Lisbona, aggiornata nei

Consigli europei di Stoccolma e Barcellona del 2001 e 2002, prevede il

coinvolgimento di soggetti diversi; fra questi, le università e gli Enti di ricerca

svolgono un ruolo particolarmente importante, in considerazione del loro

tradizionale compito di ricerca e, per gli Atenei, d’insegnamento, nel processo

dell’innovazione e di contributo allo sviluppo della concorrenza dell’economia.

Questi elementi delineano un quadro in cui gli attori di quello che fin qui è stato

definito il sistema nazionale dell’innovazione, università, imprese e stato, sono

chiamati ad integrarsi ed interagire sempre più operando come un’unica entità. Per

queste ed altre ragioni Etzkowitz da tempo ha introdotto, e sostiene, un nuovo

principio economico che lui stesso definisce la “Tripla Elica” riferendosi ai

rapporti che intercorrono fra quegli attori e richiamando, implicitamente, alla

struttura del DNA (la doppia elica), la molecola che regola la vita dei sistemi

biologici. La teoria della tripla elica sostiene, dunque, che l’evoluzione delle

interazioni fra università, imprese e Stato sia la chiave per l’avanzamento

dell’innovazione nella società della conoscenza. La tripla elica presuppone che

siano in corso trasformazioni a diversi livelli: non solo nelle relazioni che

intercorrono fra i diversi soggetti, ma anche internamente a ciascuno di essi.

Etzkowitz parla di sfere che assumono il ruolo le une delle altre, cooperando ed

essendo in competizione al tempo stesso, e assume come punti di riferimento due

modelli estremi, quello “statalista” dell’ex Unione Sovietica e quello “liberista”

degli USA, per spiegare come, nella tripla elica, si stia volgendo verso un nuovo

modello globale per l’analisi e l’interpretazione delle dinamiche dell’innovazione

(figura 1.13 ).

50

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Figura 1.13: I diversi modelli di integrazione Università-Stato-Imprese

Fonte: ETZKOWITZ H., LEYDESDORFF L. (2000), “The dynamics of innovation: from National System and “Mode 2”to a Triple Helix of university-industry-government relations”, Research Policy, Vol. 29, No. 2, USA, pp. 109-123.

1.11.1 Il modello statale

Questo modello, uno dei punti di partenza estremi, da cui prende avvio

l’evoluzione verso il nuovo modello descritto da Etzkowitz, può essere ben

simboleggiato dalla ex Unione Sovietica e da alcuni governi europei e

dell’America latina, nell’era in cui le imprese statali erano predominanti. In questi

paesi il governo era la sfera dominante e università e industrie erano

fondamentalmente parte di esso, che aveva il ruolo di organizzare e coordinare i

rapporti fra gli attori. In questo contesto lo Stato è quindi il “leader” e università e

imprese sono istituzioni relativamente deboli che necessitano di guida, se non

addirittura di controllo. L’università, in particolare, è considerata

fondamentalmente come il soggetto responsabile della formazione delle figure

professionali che andranno ad operare nelle altre sfere, magari facendo ricerca, ma

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non si considera affatto l’eventualità che dal mondo accademico possano nascere

direttamente nuove imprese. Questo modello però, entra in crisi quando il governo

comincia a perdere il controllo di questo processo “top-down”, a causa

dell’emergere di nuove dinamiche di aggregazione sociale che portano alla nascita

di nuove idee e ad un paradigma di “bottom-up innovation”. Etzkowitz cita

estensivamente l’esempio degli incubatori di impresa in Brasile, dove il concetto

importato dagli USA nei primi anni ‘80, fu reinterpretato ed adattato per ottenere

una varietà di risultati economici e sociali, fra cui l’intento di elevare il livello

tecnologico delle imprese esistenti, ad esempio, attraverso la creazione di “design

incubators” per aiutare le aziende a creare nuovi prodotti o unità di business34.

1.11.2 Il modello liberista

L’alternativa opposta al modello statalista è quella, tipicamente esemplificabile

con il caso statunitense, del liberismo economico, in cui ciascuna sfera opera

competitivamente piuttosto che cooperativamente con le altre. In questo contesto

è operata una netta separazione, almeno teorica, fra i diversi soggetti che porta ad

una stretta definizione dei ruoli istituzionali di ciascuno, con confini marcati e

conseguente difficoltà nella interazione reciproca. L’università, in questo modello,

è considerata come il fornitore di ricerca di base e personale qualificato, ma è

responsabilità unicamente del mondo industriale individuare ed internalizzare le

conoscenze dotate di una qualche utilità, senza aspettativa di assistenza. Il ruolo

del governo è solo di tipo regolamentare, ovviamente essendo anche questo

ridotto al minimo indispensabile, e commerciale, con lo stato che agisce come un

cliente nei confronti dell’industria, e solo in casi eccezionali, come le grandi

depressioni, questo equilibrio viene a mancare in favore di un intervento più

marcato da parte del governo nel sistema di relazioni. È evidente che, in questo

modello, le interazioni fra stato, imprese e università sono ridotte al minimo ed

anche quando queste avvengano ciascun attore tende a difendere fortemente i

confini della propria istituzione (e attività) e, spesso, queste relazioni sono

mediate da soggetti terzi. È evidente che, in questo modello, le interazioni fra

34 ETZKOWITZ H. (2003), “Innovation in innovation: The Triple Helix of University-Industry-Government relations”, Social Science, SAGE Publications, Vol. 42, No. 3, London, pp. 293-337.

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stato, imprese e università sono ridotte al minimo ed anche quando queste

avvengano ciascun attore tende a difendere fortemente i confini della propria

istituzione (e attività) e, spesso, queste relazioni sono mediate da soggetti terzi.

Per esempio negli Stati Uniti, ai tempi in cui le università non erano ancora

direttamente coinvolte nelle attività di deposito e licenza di brevetti, esisteva una

organizzazione senza scopo di lucro, chiamata Research Corporation, che si

occupava di identificare le invenzioni brevettabili e di licenziarle alle imprese.

Università e imprese interagivano, quindi, ma in maniera mediata ed esisteva la

convinzione che non fosse opportuno entrare direttamente in contatto l’una con le

altre. Questo modello, basato prevalentemente sulle leggi di mercato, entra in crisi

quando i mercati stessi entrano in crisi e la competizione internazionale diviene

più pressante. Fu così, ad esempio, che il governo degli Stati Uniti cominciò ad

intervenire nei rapporti fra le diverse sfere in occasione della depressione degli

anni ’70, dapprima in modo indiretto, agendo sulle politiche di gestione della

proprietà intellettuale e attribuendo alle università la responsabilità del

trasferimento al mondo industriale dei risultati della ricerca finanziata dal governo

federale e, successivamente, con alcune politiche dirette a promuovere

l’aggregazione delle imprese e la ricerca pre-competitiva congiunta.

1.11.3 La teoria della Tripla Elica

La crescita di interazioni fra università, imprese e Stato, come partner egualitari, e

lo sviluppo congiunto di nuove strategie innovative e attività, frutto di questa

cooperazione, sono il cuore della teoria della tripla elica di Etzkowitz, presentata

come modello per un nuovo sviluppo economico e sociale. La tripla elica diviene

anche la piattaforma per la nascita di nuove forme istituzionali e la costituzione di

nuovi format organizzativi per promuovere l’innovazione, come gli incubatori, i

parchi scientifici e le imprese di venture capital. Queste organizzazioni sono

proprio il frutto dell’interazione fra imprese, università e stato e rappresentano,

esse stesse, una sintesi degli elementi della Tripla Elica. In particolare, uno degli

aspetti chiave della teoria della Tripla Elica riguarda il rapporto fra il Sistema

Nazionale dell’Innovazione e la Tripla Elica. Infatti, secondo Etzkowitz, sebbene

gli attori che prendono parte ai due sistemi siano gli stessi, il nuovo sistema da lui

53

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proposto si differenzia fortemente da quella che è l’interpretazione classica del

SNI nell’economia della conoscenza, poiché mentre in quest’ultimo ciascuna

istituzione opera secondo un unico asse, nella tripla elica ciascuna sfera opera

lungo due assi, un asse “x” in cui riveste il suo ruolo tradizionale ed un asse “y” in

cui assume nuovi ruoli. Blumenthal ha dimostrato, come i ricercatori di scienze

biomediche negli Stati uniti, che sono maggiormente coinvolti in attività con le

industrie, siano anche quelli con il maggior numero di pubblicazioni scientifiche35.

Tuttavia, evidenze empiriche, hanno dimostrato che, specialmente in Europa, il

flusso di conoscenze tra il mondo accademico e il mondo industriale non è privo

di ostacoli. Infatti, sebbene il sistema scientifico europeo sia estremamente

avanzato e generi una porzione importante del sapere globale, è solo una minima

parte di questo ad essere trasferita al sistema delle imprese. Uno degli elementi

principali della teoria di Etzkovitz riguarda il fatto che ciascun attore della tripla

elica debba subire dei cambiamenti interni, alla propria sfera, per essere davvero

“pronto” ad entrare a far parte del nuovo modello. In questo senso, si potrebbe

dire che la tripla elica fornisca una interpretazione socioeconomica

dell’innovazione, mentre l’Open Innovation ha un focus maggiormente rivolto

alla strategia aziendale, in altre parole, si tratterebbe di visioni complementari che

operano a diversi livelli.

35 BLUMENTHAL D., GLUCK M., LOUIS KS., WISE D. (1986), “Industrial Support of University Research in Biotechnology”, Science, Vol. 231, No. 4735, pp. 242-246.

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CAPITOLO 2

SOCIAL INNOVATION E CROWDFUNDING

2.1 Introduzione alle innovazioni sociali

Siamo abituati a pensare l’innovazione come qualcosa che avviene nelle

università e dentro i laboratori delle grandi società. È lì che i veri scienziati sono

al lavoro, con i loro saperi avanzati e competenze esclusive, per sfornare nuovi

prodotti che portano benefici per tutti. Alle questioni sociali ci pensa lo Stato, con

i suoi servizi sociali, il sistema sanitario, le politiche economiche e di sviluppo. In

realtà, nel mondo le cose non funzionano proprio così. Prima di tutto,

l’innovazione commerciale non è più unicamente una questione riguardante nuovi

prodotti e nuovi beni di consumo. Infatti gran parte delle innovazioni che hanno

veramente fatto la differenza negli ultimi anni sono state innovazioni sociali:

media sociali come Facebook che permettono nuovi modi di relazionarsi,

organizzare progetti e stare insieme; piattaforme come Iphone che forniscono una

grande quantità di servizi e li integrano in uno strumento solo diventando così

parte integrata della vita quotidiana. Inoltre, molte di queste innovazioni sociali,

specialmente nel campo del software, non sono più il prodotto esclusivo di grandi

società e centri di ricerca, ma incorporano la quotidiana creatività di piccole

imprese e persino individui che adesso riescono a mettersi in contatto fra simili e

collaborare (basti pensare per esempio, alle molte comunità di sviluppatori di Free

o Open Source Software). Le grandi società multinazionali hanno scoperto il 322

e cercano di catturarlo in un’ottica di Open Innovation.

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2.2 Social Innovation

L’innovazione sociale dev’essere considerata una risorsa strategica per tutti i Paesi

che vogliono pensare allo sviluppo della società in modo nuovo. Anche in Italia si

inizia a discutere, con maggiore interesse rispetto al passato di “social innovation”

come driver per la nostra economia. Esistono molte definizioni in letteratura di

innovazione sociale che dimostrano quanto sia complesso tracciare dei confini

analitici ad un fenomeno i cui caratteri essenziali si manifestano nelle pratiche.

Tuttavia la molteplicità di definizioni e di usi del termine innovazione sociale, ci

induce ad adottare un approccio definitorio comune. La definizione più completa

è contenuta nel Libro Bianco sull’innovazione sociale, scritto da Robin Murray,

Julie Caulier e Geoff Mulgan: “Definiamo innovazioni sociali le nuove idee

(prodotti, servizi e modelli) che soddisfano dei bisogni sociali (in modo più

efficace delle alternative esistenti) e che allo stesso tempo creano nuove relazioni

e nuove collaborazioni. In altre parole, innovazioni che sono buone per la società

e che accrescono le possibilità di azione per la società stessa”36. Il suo obiettivo è

quello di migliorare il benessere degli individui e creare innovazioni buone sia per

la società sia per accrescere la capacità di azione della società stessa. Una serie di

iniziative, dunque, sia profit che non profit, che cerca di rafforzare il tessuto

civico, favorendo relazioni orizzontali e comunitarie e colmando il più delle volte

i vuoti lasciati dai governi nazionali: si va dal microcredito al crowdfunding (il

finanziamento di servizi o prodotti in modo distribuito attraverso Internet), dalle

social enterprise alla cosiddetta sharing economy, la possibilità di utilizzare un

bene senza doverlo acquistare. All’origine di questi processi di innovazione

esistono pressioni sociali esercitate dall’esistenza di bisogni insoddisfatti (es.

servizi sanitari di prossimità), di risorse sprecate, di emergenze ambientali (come

36 “We define social innovations as new ideas (products, services and models) that simultaneously meet social needs (more effectively than alternatives) and create new social relationships or collaborations. In other words they are innovations that are both good for society and enhance society’s capacity to act”.

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la qualità dell’aria nei centri urbani) o sociali (es. crescenti aree di disagio e

marginalità). La fornitura diretta di prodotti e servizi in grado di soddisfare tali

bisogni non è più garantita né dal mercato né dalle amministrazioni pubbliche.

Questo vuoto politico e fallimento di mercato apre il campo alle risorse e forze del

privato sociale, all’imprenditorialità dal basso, alle comunità di cittadini che si

organizzano per soddisfare nuovi e vecchi bisogni, per ottimizzare l’utilizzo delle

risorse e per garantire un miglioramento sociale. L’innovazione sociale non è solo

un’idea radicale, ma una pratica innovativa, ovvero l’applicazione efficace e

sostenibile di una nuova idea di prodotto, servizio, modello. La capacità di essere

efficace si riferisce all’uso ottimale di risorse per il conseguimento di un risultato

sociale, in pratica la dimostrazione che l’idea funziona meglio delle soluzioni

esistenti e genera valore per la società. Le pratiche di innovazione sociale non solo

rispondono in modo innovativo ad alcuni bisogni, ma propongono anche nuove

modalità di decisione e di azione. In particolare propongono di affrontare

complessi problemi di natura orizzontale attraverso meccanismi di intervento di

tipo reticolare, adottando l’intera gamma degli strumenti a disposizione; utilizzano

forme di coordinamento e collaborazione piuttosto che forme verticali di

controllo. Richiedono inoltre l’utilizzo di strumenti e processi di supporto al

“design thinking”, inteso come capacità di formulare e implementare soluzioni.

Questo aumenta le capacità di azione della collettività che si mobilita, crea nuovi

ruoli e relazioni tra gli attori coinvolti, coinvolge nella produzione di risorse e

capitale umano sotto utilizzato. Il potenziale impatto di una pratica innovativa sul

contesto sociale è tanto più elevato quanto più inclusivo è il processo di

coinvolgimento della comunità. Questa mobilitazione di risorse umane porta ad

un attivismo diffuso in grado di moltiplicare energie e iniziative di servizio del

miglioramento sociale. Non ci sono attori o settori più idonei di altri nello

sviluppare pratiche di innovazione sociale. Le esperienze più interessanti e

radicali sono il frutto della collaborazione tra diversi attori appartenenti a mondi

diversi. Le pratiche di innovazione sociale tendono a collocarsi al confine tra non-

profit, pubblico, privato, società civile (volontariato, movimenti, azione collettiva,

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Page 58: UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO SCUOLA DI ...comunicazione come il web 2.0 e i social network. Proprio grazie a questi ultimi è stato possibile giungere a quella che può essere

etc..), sono trasversali e frutto di interessanti contaminazioni di valori e

prospettive. Nascono da nuove forme di collaborazione e di cooperazione tra

soggetti di diversa natura che trovano un allineamento di interessi per il

raggiungimento di un obiettivo comune. Dunque l’innovazione sociale ha una

spiccata dimensione collettiva e non appartiene solo all’immaginazione e alla

creatività di un attore singolo, quanto alla capacità collettiva di partire da

un’intuizione e di svilupparla sino a trasformarla in pratica diffusa. In

conclusione, possiamo dire che per innovazione sociale si intende un modo di

organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’impegno sociale e politico,

dove le potenzialità della vita e delle persone vengono messe all’opera con finalità

di natura etica. In modo più pragmatico, si può parlare di una tipologia di

innovazione capace di creare nuovi saperi tecnici o organizzativi, di un approccio

manageriale ai problemi sociali, dell’utilizzo di tecnologie, strumenti, forme

organizzative finalizzate a creare attività imprenditoriali partendo da una socialità

di rete. L’innovazione sociale chiede infatti idee, creatività, coraggio, metodologie

innovative per trasformare principi teorici e ricerca accademica in prodotti e

servizi da offrire a un mercato sempre più attento ai bisogni delle persone e alla

sostenibilità: obiettivi importanti per le imprese sostenibili, le istituzioni

responsabili, i territori “intelligenti”. Dunque un tema, quello della social

innovation, destinato a diventare sempre più strategico, soprattutto in tempi di

crisi come questi. La Comunità Europea sta dedicando al settore risorse

consistenti, finanziando grandi processi di ricerca nei suoi Programmi Quadro dei

prossimi anni. Il Programma comunitario per il cambiamento e l’innovazione

sociale mira ad avere un impatto diretto sulle politiche del lavoro, promuovendo

l’occupazione e l’inclusione sociale, migliorando l’accessibilità al microcredito

per le microimprese e facilitando l’erogazione di finanziamenti alle imprese

sociali. L’innovazione sociale, quindi, sotto questo aspetto, mostra un’altra strada

basata su una moltitudine di iniziative e di esperimenti quotidiani.

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2.2.1 I processi della Social Innovation

Esistono sei step utili per lo sviluppo effettivo della “Social Innovation”. Questi

momenti non sono sempre sequenziali in quanto alcune innovazioni compiono dei

veri e propri balzi. Questi sei momenti rappresentano una soluzione per pensare ai

differenti supporti che gli innovatori tanto quanto le innovazioni hanno bisogno

per crescere.

Figura 2.1: I sei momenti della Social Innovation

Fonte: adattamento da Murray R., Caulier Grice J., Mulgan G. (2010), The Open Book of Social Innovation, The Young Foundation, NESTA.

1. Suggerimenti. In questo primo livello sono compresi tutti quei fattori che

sottolineano il bisogno di innovazione come la crisi, il taglio della spesa

pubblica e via discorrendo così come le ispirazioni che danno vita al

processo. Uno dei momenti critici in questa prima fase è l’individuazione

del problema che dovrà essere in un certo senso interrogato e

contestualizzato, in modo tale da trovare le possibili soluzioni su cui

lavorare.

2. Proposte e idee. Farsi la giusta domanda è il primo step per trovare la

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giusta soluzione, e una volta che la giusta domanda è stata formulata vi è

una serie di metodi per ricercare e suggerire le soluzioni migliori ad un

dato problema. Questo è il momento in cui si generano le idee e può

richiedere il ricorso a metodi pensati per incoraggiare la creatività e la

produzione di idee che siano effettivamente nuove come premi e concorsi,

piattaforme online e banche di idee. Le idee derivano da diverse risorse,

dai cittadini, dalle comunità, da altri settori o da altri paesi. In particolare

vi è una serie di metodi, soprattutto nel campo del design, che aiutano a

coinvolgere le persone per sviluppare insieme delle soluzioni, prendendo il

nome di “co-design”37, come il sito australiano, web2care, per persone

disabili e i loro assistenti. La Toyota, invece, ha impiegato dei metodi per

il miglioramento continuo, mirati a generare idee nuove attraverso dei

circoli di dibattito formati da chi lavora in prima linea. Questo metodo si

basa sull’idea che i lavoratori possano avere una migliore conoscenza

riguardo le innovazioni potenziali rispetto ai manager o al personale

esterno all’azienda. Edward W. Deming, l’ideatore del metodo Toyota,

creò un sistema di gestione basato sulla collaborazione tra manager e lo

staff definendolo “metodo della produzione dei saperi”38.

3. Prototipi. Una volta che un’idea è proposta, essa ha bisogno di essere

testata nella pratica. Le idee infatti si sviluppano attraverso prove ed errori

ed è raro che un’idea emerga già completamente formata. Vi sono molti

modi per testare le idee e rifinirle, da quelli formali di verifiche controllate

a prototipi ed esperimenti. Non appena un’idea passa attraverso le diverse

fasi della verifica, essa si trova difronte a molte sifide: la fattibilità del

prodotto, come consegnare un servizio, come si muove l’economia, come

risparmiare. I metodi più utilizzati possono essere la messa a punto di

prototipi, ovvero la progettazione di un prodotto o servizio impiegato per

testare le relazioni dei potenziali clienti e fornitori. Durante questo livello,

possono anche essere concessi finanziamenti di vario tipo: piccole

concessioni, prestiti convertibili, commissioni dirette, premi e così via che

37 Murray R., Caulier Grice J., Mulgan G. (2010), The Open Book of Social Innovation, The Young Foundation, NESTA.38 Op. cit, 35.

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hanno tutti l’obiettivo di distribuire i fondi e incentivare l’innovazione.

4. Conferme. Solo una parte delle idee riesce a sopravvivere dopo i test,

poiché quando un’idea è nuova, è probabile che ci siano molte alternative

in concorrenza. Pensiamo per esempio alla bicicletta, nei primi decenni

della sua invenzione ha assunto forme diverse prima che una pratica

variante divenisse dominante. In questo contesto, i feedback del pubblico

sono molto utili, ma i metodi di valutazione hanno un ruolo vitale nella

decisone di quale sia un successo o un fallimento. La capacità di giudicare

un’innovazione è fondamentale per il successo di un sistema innovativo.

Per quelle idee che sopravvivono ai test, avviare un prodotto o un servizio

implica anche lo sviluppo di un modello economico che ne assicuri il

futuro finanziario. Sostenere un’idea in ottica sociale implica diversi

elementi chiave:

creare un business. Trasformare una buona idea in qualcosa che sia

sostenibile dipende dal modello di business e da una chiara idea di come si

può generare un guadagno sufficiente per coprire i costi e ottenere un

profitto;

proprietà e forme organizzative. Ogni iniziativa deve decidere quali forme

organizzative prendere, quali decisioni e quali processi di responsabilità

adottare, e così via;

organizzazione e modelli di gestione. Gran parte dell’economia sociale è

costituita da organizzazioni simili a quelle dello stato o del business

privato; esse presentano una struttura piramidale che vede l’autorità

diminuire man mano che ci si allontana dal vertice mentre la fiducia

viceversa aumenta avvicinandosi al vertice;

operazioni. Il valore di un’impresa sociale dipende non solo dalla sua

struttura ma anche dalle sue operazioni e come essa lavora con altre

imprese, l’uso della tecnologia o i lavori in partnership;

risorse finanziarie. Per le imprese sociali è importante che la fonte dei

finanziamenti condivida con l’impresa i suoi obiettivi sociali. Questo però

non è sempre possibile. Ottenere capitale può significare scendere a

compromessi con chi fornisce questo capitale, ma l’obiettivo deve sempre

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essere quello di far sì che i finanziamenti vengano da chi condivide la

mission dell’impresa;

sostenere le innovazioni attraverso il settore pubblico.

5. Diffusione. Ci sono molti modi per far crescere le innovazioni sociali dalla

crescita degli enti, dal franchising alla collaborazione e diffusione più

minuta. In realtà la maggior parte delle idee sociali si sono diffuse non

attraverso la crescita di una organizzazione ma attraverso l’emulazione.

L’innovazione sociale essendo orientata attorno alle missioni sociali,

preferisce la condivisione rapida di un’innovazione, piuttosto che tenerla

riservata. Questa è anche una ragione per cui l’economia sociale ha una

minor propensione alla crescita delle organizzazioni e mira più alla

costruzione di reti collaborative. Indipendentemente dal tipo di sviluppo,

la diffusione di un’innovazione dipende dalla effettiva offerta e dalla

effettiva domanda. La prima si riferisce al fatto che l’innovazione è utile,

mentre la seconda si riferisce alla disponibilità a pagare da parte del

consumatore. Entrambe sono necessarie e le opzioni di diffusione

includono anche lo sviluppo di marchi, licenze, il franchising, l’uso degli

strumenti dei movimenti sociali etc.

6. Cambiamento del sistema. Le innovazioni di sistema sono molto diverse

dalle innovazioni di prodotti o servizi. Esse implicano cambiamenti di

concetti e di mentalità, ma anche dei flussi economici: un sistema cambia

solo quando le persone iniziano a pensare e a vedere in modo differente.

Le innovazioni di sistema possono essere spinte improvvisamente da una

crisi o da una tecnologia distruttiva. Più spesso esse sono il risultato di

lenti processi cumulativi che portano cambiamenti alle infrastrutture, ai

comportamenti e alla cultura. Esempi sono la creazione del welfare state

dopo la seconda guerra mondiale, la diffusione dell'educazione superiore

ed universitaria, la diffusione della democrazia. Approcci sistematici

all'innovazione sono rari. Ma il servizio sanitario britannico è un ottimo

esempio. Esso è impegnato nell'innovazione attraverso investimenti nella

ricerca e nello sviluppo di strumenti medici e farmaceutici, e ha contatti

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con università d'eccellenza ma anche con grandi industrie come la Pfizer.

Negli ultimi anni ha però constatato che questi strumenti non bastano. Ciò

che oggi ha più impatto per i risultati del servizio sanitario deriva

dall'innovazione dei servizi. Da qui lo sforzo di riunire tutti gli strumenti

necessari per facilitare il passaggio da un sistema incentrato su dottori e

ospedali ad uno dove i pazienti siano responsabili per la cura, supportati da

un sistema costruito per diffondere uno stile di vita più sano.

2.2.2 L’innovazione sociale in azione

L’Unione europea punta molto all’innovazione sociale e spinge anche gli Stati

membri a sostenerla attraverso iniziative diverse. Per esempio, la Dg impresa e

industria della commissione europea ha indetto il concorso “european social

innovation competition 2013 - Unlocking potential, creating new work” per creare

nuove opportunità di lavoro. L’obiettivo dell’iniziativa è individuare le migliori

soluzioni per l’innovazione sociale e aiutare le persone a trovare lavoro o a

riorientare la loro carriera. Le sfide a cui fa riferimento sono incentivare il talento

delle persone; creare o plasmare nuovi mercati in settori in via di sviluppo come,

ad esempio, l’economia verde; incoraggiare le imprese ad assumere giovani per

incrementare il loro successo. In Italia alcune Regioni e altri enti pubblici stanno

sostenendo progetti di innovazione sociale con finanziamenti specifici. La

Regione Piemonte promuove con regolarità iniziative finalizzate al sostegno di

nuove imprese, in particolare innovative, e per favorire l’avvio di attività

economiche da parte dei giovani attraverso il sostegno di imprenditori esperti. Per

esempio, con il patto generazionale gli imprenditori già affermati sul mercato

ricevono un voucher per accompagnare i giovani nell’avvio dell’attività. Il

progetto - che rientra nel Piano giovani della Regione ed è stato condiviso da

Unioncamere Piemonte - ha l’obiettivo di mettere a fattor comune la creatività dei

giovani e l’esperienza di imprenditori eccellenti. Una misura innovativa che

sottolinea l’importanza della collaborazione e della condivisione. Esistono inoltre

nuovi modi di sostenere progetti di innovazione sociale: per esempio, attraverso

forme di “venture philanthropy”, un approccio innovativo all’investimento nel

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sociale che si basa sulla gestione strategica della relazione con soggetti

tendenzialmente ad alto potenziale di crescita. La venture philanthropy prevede, a

differenza della donazione tradizionale, una strategia di investimento completa i

cui elementi cardine sono costituti dalla valutazione dell’investimento iniziale, la

strategia di uscita, la sostenibilità e l’autonomia dell’organizzazione finanziata,

così come il trasferimento a questa di competenze organizzative e manageriali. Le

quattro caratteristiche fondamentali che distinguono la venture philantropy sono:

1) partnership attiva e di lungo periodo con le organizzazioni non profit per

promuovere la crescita dell’intera organizzazione e non solo singoli progetti; 2) la

capacità di fornire non solo denaro, ma anche competenze, contatti e sostegno

strategico; 3) l’uso non solo di donazioni, ma anche di altri strumenti finanziari

quali prestiti, prestiti partecipativi, quote di capitale; 4) l’attenzione alla

replicabilità degli interventi e all’aspetto complessivo dell’impatto sociale. In tutto

il mondo, inoltre, si assiste a innovazioni relative alle tipologie di attività

lavorative. Anche in questo caso molte sono basate sulla tecnologia, come

“TaskRabbit” o “Slivers of Time”, create nel Regno Unito e che pianificano il

tempo delle persone, le loro ore lavorative, con modalità inedite avvalendosi di

piattaforme digitali. Un’innovazione molto bella, si chiama “The Amazings”,

incentrata su un’idea molto semplice: le persone anziane possono condividere le

loro competenze con quelle più giovani che, in cambio, sono disposte anche a

spendere dei soldi. È un’idea completamente al di fuori del sistema educativo

formale, che crea non solo valore ma anche rapporti intergenerazionali, lanciando

tra l’altro agli anziani un messaggio molto positivo: consideratevi persone

“amazing”, meravigliose, con esperienze meravigliose da condividere. Negli

ultimi anni, si sta assistendo anche alla nascita di un nuovo tipo di politica,

scaturita dall’innovazione sociale. In Islanda, ad esempio, nel 2012, i cittadini

hanno usato il web per riunirsi, per stendere una nuova Costituzione, mettendo al

lavoro un comitato e successivamente tenendo un referendum per approvare il

documento preparato. La Finlandia, ha un ministero in cui i cittadini possono

aggregarsi per proporre temi da dibattere in Parlamento. Dunque, è in corso

un’innovazione anche nel processo di generazione della politica. Un altro progetto

interessante che si sta sviluppando nel Regno Unito si chiama “UpRising” che

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forma giovani leader under 25 , insegnando loro come esercitare il potere politico.

UpRising opera in diverse città selezionando un gruppo di giovani che hanno

spiccata familiarità con Facebook, le petizioni, le campagne online rivolte al

cambiamento. Durante il corso che frequentano, della durata di un anno, devono

anche svolgere una campagna offline e sperimentare in prima persona che cosa

significa conseguire un cambiamento. Un altro settore in cui stanno emergendo

forme di innovazione è quello dei trasporti. Con la city – car Hirko, per esempio è

stato introdotto per la prima volta in Spagna un sistema di trasporti pubblici a

noleggio che si avvale di vetture elettriche che possono essere ripiegate su se

stesse. È un’innovazione sociale perché richiede modello di finanziamento

diversi, metodi di ricarica diversi e anche una nuova organizzazione sociale del

processo di progettazione della tecnologia, svolto in questo caso da una rete di

cooperative nei Paesi Baschi. Il sistema del Bike sharing, diffuso in molte città

italiane e ispirato ai principi della mobilità sostenibile, rappresenta la forma di

spostamento urbano più conveniente risparmiando tempo e denaro e contribuendo

ad una mentalità “green” dell’ambiente.

2.2.3 L’Italia crede nell’innovazione sociale

Una ricerca realizzata dall’Istituto Ce&Co per il Salone della Csr e

dell’innovazione sociale, nel mese di luglio 2014 su un campione rappresentativo

della popolazione italiana adulta (18-65 anni), ha testato undici esempi di

innovazione sociale: gruppi di acquisto solidale, car sharing/bike sharing,

acquisti a km zero, acquisto di prodotti sfusi o alla spina, banca del tempo, car

pooling, co-working, orti urbani, investimenti etici, crowdsourcing,

compravendita dell’usato sul web. Secondo la ricerca,39 il 90% del campione

conosce gli acquisti sfusi alla spina, sperimentati dal 44%, mentre il 49% dichiara

che vi aderirebbe senz’altro; l’87% conosce gli acquisti a km zero, il 48% li ha

sperimentati e il 60% lo farebbe; l’85% del campione sa cos’è il car o bike

sharing, il 9% ne ha fatto uso e il 28% è disposto a sperimentarlo. Meno noti il

39 ADNKRONOS 2014, “Dal car sharing al km zero, italiani promotori di innovazione sociale”, Milano.

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crowdsourcing, conosciuto dal 38% del campione e sperimentato dal 4%, o il co-

working, noto al 41% degli intervistati e sperimentato dal 2%. I promotori

dell’innovazione sociale sono circa il 25% del campione intervistato e li troviamo

in ugual misura al Nord come al Sud, fra gli uomini e le donne. L’interesse verso

nuovi stili di vita e consumo è unanime: il 90% del campione considera questi

strumenti e servizi importanti. Ma quali benefit spingono ad aderire alle

esperienze di innovazione sociale e qual è il loro peso? Sono cinque, in ordine di

importanza: queste esperienze “danno fiducia nella qualità dei prodotti / servizi

acquistati”, “sono attività pratiche e funzionali, si risparmia tempo e si fa meno

fatica”, “consentono a volte di fare buoni affari”, “fanno davvero risparmiare

denaro”, “riducono gli sprechi e aiutano a preservare l’ambiente”40.

2.3 Il Crowdfunding come esperienza sociale

Nell’ambito della Social Innovation, i social media e Internet sono diventati degli

ottimi strumenti in grado di creare comunità virtuali dedicate ad una particolare

causa o iniziativa. Così, negli ultimi anni, molti individui hanno creato

piattaforme e progetti di crowdfunding per risolvere un problema sociale o

semplicemente per portare avanti il cambiamento sociale e l’innovazione.

L’origine del crowdfunding risale alla fine degli anni ’90 grazie ai primi siti web

dedicati a campagne di raccolta fondi, principalmente per beneficenza, che

utilizzavano la rete come strumento per ampliare le tradizionali campagne di

“fundraising”41. Il crowdfunding, letteralmente “finanziamento dalla folla”,

consiste in un finanziamento collettivo, basato sull’appello rivolto dai promotori

di un progetto con finalità economiche o sociali ai frequentatori della Rete

affinché forniscano fondi utili alla sua realizzazione. Si tratta di una moderna

versione di quella che in passato si sarebbe definita “colletta”. Questo strumento,

è una tecnica di finanziamento adatta a progetti d’investimento che non hanno

bisogno di risorse in quantità elevata e per i quali altre forme di partecipazione

40 Op. cit, 37.41 SPINELLI C. (2012), “Il crowdfunding: tra autoproduzione e social commerce, storia dello strumento che potrebbe cambiare le regole del fare impresa”, Tafter Journal, No. 48.

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alla loro realizzazione e al rischio d’impresa, come ad esempio l’attività di venture

capital, non sono praticabili. L’idea che sta alla base del crowdfunding è molto

simile a quella del microcredito, per cui piccole somme di denaro possono

contribuire allo sviluppo economico, garantendo l’accesso all’uso delle risorse a

soggetti o progetti normalmente esclusi dai principali circuiti finanziari.

Oggi questo concetto, combinato alle nuove tecnologie di Internet e dei social

network, permette ancora più facilmente di arrivare a questi obiettivi, dandoci la

possibilità di raggiungere anche coloro che sono fuori dal nostro gruppo, dalla

nostra cerchia di persone e che non conosciamo e che invece potrebbero avere

interesse in ciò che vogliamo realizzare. Il crowdfunding ha però raggiunto la

popolarità nel 2008 quando il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riuscì a

raccogliere buona parte del denaro necessario per la campagna elettorale grazie a

questo sistema. Proprio tra il 2008 e il 2009 negli USA nascono le due più famose

piattaforme di crowdfunding al mondo per numero di utenti: Indiegogo e

Kickstarter. Indiegogo è stata la prima piattaforma di crowdfunding nata

dall’esigenza di trovare fonti di finanziamento alternative per la realizzazione di

un film. “Quando i nostri fondatori hanno unito le forze nel 2007, avevano diversi

background e diversi interessi. Tuttavia, avevano una cosa importante in comune:

Danae, Eric e Slava hanno cercato di raccogliere i soldi per qualcosa cui erano

appassionati; avevano grandi idee, la passione di lavorare sodo, e buone reti, ma

l’accesso ai finanziamenti attraverso i canali tradizionali si è rivelata limitata. Il

trio era determinato a trovare una soluzione al problema: Indiegogo è nato come

una soluzione di crowdfunding che consente da un lato, di realizzare idee e,

dall’altro, permette alle persone di donare facilmente”42. In quell’occasione è

stato creato il sito attraverso cui poter ricevere i finanziamenti e nel 2012 il

Presidente Obama ha avviato una partnership con Indiegogo per favorire la

raccolta di finanziamenti agli imprenditori americani.43

Kickstarter nasce nel 2009 ed è stata definita dalla rivista “Time” una delle

migliori invenzioni nel 2010 e il miglior sito web nel 2011.44 Kickstarter è un sito

42 www.indiegogo.com/about/our-story43 Op. cit, 40.44 Fonte Wikipedia, http://it.wikipedia.orh/wiki/Kickstarter

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web di crowdfunding per progetti creativi, tramite il quale sono stati finanziati

diversi tipi di iniziative imprenditoriali, tra cui film indipendenti, musica,

spettacoli teatrali, fumetti, giornalismo, videogame e progetti legati

all’alimentazione. Esso si configura come una piattaforma “reward-based”, che

significa supportare un progetto in cambio di una ricompensa materiale o

un’esperienza, dalla semplice lettera personale di ringraziamenti, alla maglietta

personalizzata, da una cena con un autore alla partecipazione al primo collaudo di

un nuovo prodotto. Come tutte le piattaforme, anche Kickstarter facilita la raccolta

di risorse monetarie dal pubblico generico; i creatori del progetto scelgono una

data di scadenza e un minimo di fondi da raggiungere. Se il target stabilito non

viene raggiunto entro la scadenza, i fondi erogati dalla folla e trattenuti dalla

piattaforma non vengono versati agli autori del progetto. Un progetto può essere

finanziato in qualunque parte del mondo, ma gli utenti che pubblicano i progetti

possono essere solo persone residenti permanentemente negli Stati Uniti e devono

aver compiuto almeno diciotto anni. Kickstarter, trattiene il cinque per cento dei

fondi raccolti e Amazon, che riceve i finanziamenti, addebita un ulteriore 3-5%

del totale, ma in ogni caso la piattaforma non ottiene alcun diritto di proprietà sui

progetti e sulle opere prodotte. Tuttavia la piattaforma non garantisce in alcun

modo che le persone che propongono il progetto lo porteranno a termine, né che

useranno il denaro raccolto per finanziarlo o che i progetti così completati saranno

all’altezza delle aspettative dei sostenitori, ed è per questo motivo che la

piattaforma è stata accusata di fornire un insufficiente controllo di qualità. Il

ricordo al crowdfunding, richiede quindi una collaborazione tra individui sparsi in

ogni punto del globo e con una vaga conoscenza reciproca. L’impresa che ha

compreso che la conoscenza è oggi la risorsa che le permette di ottenere il

vantaggio competitivo, attinge alla “crowd” quale fonte di capitale intellettuale,

perché possiede talento e alcune persone hanno il tipo di abilità e competenze

scientifiche che una volta si trovavano solo in ambienti accademici.45

2.3.1 Tipologie di Crowdfunding

45 HOWE J. (2010), Crowdsourcing. Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del business, Edizione Sossella, pp. 20-32.

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Elementi essenziali del crowdfunding sono le piattaforme o portali, siti web che

facilitano l’incontro tra chi richiede i finanziamenti e la folla di coloro i quali

hanno interesse a finanziare i progetti proposti, cioè gli investitori. Le piattaforme

possono essere:

� Generaliste: sono piattaforme che raccolgono idee e progetti di qualsiasi

natura;

� Tematiche: sono specializzate nel finanziamento di progetti nell’ambito di

settori specifici.

Le piattaforme di crowdfunding possono essere anche classificate a seconda di

come si configura l’apporto del denaro:

1. Equity-based: La folla sottoscrive capitale di rischio tramite azioni di una

società di nuova creazione. I modelli di investimento finanziario, o basato

su azioni, sono diventati popolari attraverso due piattaforme specializzate

nel campo della musica, SellaBand e Bandstocks, in cui i creatori del

progetto e i loro partners definiscono generalmente un periodo di tempo e

una somma target che viene poi divisa in parti uguali o quote, offerte

tramite la piattaforma in forma di azioni a prezzo fisso. Le sottoscrizioni

vengono raccolte fin quando non si raggiunge la somma target per poi

iniziare la fase di investimento vera e propria.

2. Lending-based: conosciuta come “Social Lending”, consiste nella

sottoscrizione di titoli o contratti di debito direttamente stipulati fra le

parti. In pratica, la folla presta denaro ad un individuo o ad un’azienda

sapendo che il prestito verrà rimborsato con gli interessi. Le due parti

possono contrattare il finanziamento su una specifica piattaforma, in cui il

creditore può scegliere a chi prestare denaro dopo aver consultato

l’apposito profilo del richiedente. L’unico pericolo per questa tipologia di

crowdfunding è che il denaro non venga restituito e, a tal proposito, ogni

piattaforma di questo genere dovrebbe definire una politica di tutela degli

investitori, i quali devono essere messi in condizione di scegliere

consapevolmente se finanziare o meno il progetto.

3. Reward-based: in questa tipologia di piattaforma, le persone dando il

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proprio contributo per un progetto ricevono in cambio una ricompensa che

può essere materiale, come ad esempio il pre-ordine di un prodotto non

ancora esistente sul mercato. Questa categoria può essere suddivisa in due

sottogruppi:46 a) all-or-nothing, in questo modello si fissa la somma

target necessaria in un arco di tempo prefissato, prima che vengano

avviate le transazioni finanziarie. Se la somma non viene raggiunta, il

finanziamento si considera fallito, le transazioni non verranno portate a

termine e il denaro resterà ai contribuenti o verrà loro restituito; b) take-it-

all, il finanziamento viene raccolto entro la scadenza prefissata a

prescindere dal raggiungimento della somma target.

4. Donation-based: si tratta di una forma di crowdfunding che non offre

alcun ritorno economico a colui che effettua il versamento, in quanto il

finanziamento dei progetti è motivato da un particolare interesse o da

ragioni di natura etica. Può essere paragonata alle classiche forme di

campagne di raccolta di donazioni promosse in tv o come pubblicità sul

web, ma l’elemento che lo distingue da queste ultime risiede nella varietà

di progetti che la piattaforma “donation-based” può contenere.

2.3.2 Vantaggi e svantaggi del crowdfunding

Un elemento da sottolineare, in questa nuova visione del finanziamento alle

imprese, ed in particolare per le start-up innovative, è il cambiamento nella

relazione tra colui che investe e colui che riceve il finanziamento. Infatti, nel

crowdfunding, si può parlare di relazione diretta tra l’investitore utente e la

futura start-up. Si tratta di un rapporto più stretto tra le parti, che non si esaurisce

nella sola raccolta dei soldi, ma va oltre facendo leva su elementi sociali, di

collaborazione alla realizzazione di un progetto in cui si crede. Nello specifico, i

vantaggi che il fenomeno sta portando possono essere elencati di seguito:47

� il crowdfunding consente agli imprenditori di dare la giusta visibilità al

proprio progetto agevolando l’incontro con i lavoratori specifici del

settore, ma soprattutto amplia l’incontro con finanziatori non

46 CASTRATARO D., PAIS I. (2012), “Le piattaforme di crowdfunding in Italia e nel mondo”, Crowdfuture Blog.47 TORDERA I. (2013), “Le rose hanno le spine: breve esplorazione dei limiti e dei rischi del Crowdfunding”, Italian Crowdfunding Network – Blog.

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professionisti, che possono investire nelle idee che ritengono valide;

� un gran numero di persone può venire a conoscenza del business ancor

prima che si realizza concretamente;

� queste persone possono generare dei feedback, dei suggerimenti e degli

spunti per il progetto, con il vantaggio di poter migliorare ex ante il

proprio progetto prima dell’arrivo sul mercato;

� i tassi di interesse possono risultare più convenienti di quelli bancari;

� le piattaforme “donation-based” offrono maggiori possibilità di

promuovere i progetti che altrimenti potrebbero essere promossi

esclusivamente tramite i mass media tradizionali, come tv e radio.

Fra gli svantaggi,48 invece, possono essere annoverati:

� la possibilità di attività fraudolente, poiché, tranne che per alcune

piattaforme, non sono previsti controlli continui dei progetti avviati e

conclusi;

� il rischio di asimmetrie informative e/o di informazioni non attendibili

riguardo il progetto che viene promosso sulla piattaforma;

� la non restituzione degli interessi nella tipologia “lending-based”;

� considerare le piattaforme come una vetrina e non come un vero e proprio

strumento interattivo tra richiedenti e finanziatori.

Un’ulteriore caratteristica dell’equity crowdfunding è la “rapidità” con la quale è

possibile ottenere i capitali; mutuando infatti l’esperienza del crowdfunding

“tradizionale” è possibile constatare che normalmente le somme raccolte possono

essere ottenute con tempi estremamente contenuti, anche grazie ad una serie di

attività di marketing (spesso collegate a canali di comunicazione innovativi e

molto efficaci) che consentono di “raggiungere” celermente moltissimi soggetti e

convincerli ad investire sfruttando procedure semplici e dinamiche. Il

crowdfunding, pertanto, non deve essere visto soltanto sotto il profilo finanziario,

in quanto esso è rappresentativo di un “processo manageriale” completo ed

articolato nel quale gli aspetti di planning, comunicazione e marketing appaiono

fondamentali per il successo dell’iniziativa.

48 Op. cit, 45.

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Queste caratteristiche, se analizzate in ottica nazionale, fanno ben sperare nel

successo del crowdfunding nel nostro paese come booster di crescita e sviluppo

nelle sue declinazioni di creazione di imprese, di posti di lavoro, di ricerca e

innovazione, di mobilità degli investimenti e di gettito fiscale.

In conclusione, al fine di garantire il successo del progetto, è fondamentale

descrivere la propria idea in maniera chiara e adeguata mediante anche l’utilizzo

dei diversi strumenti multimediali. Inoltre il coinvolgimento di un gran numero di

persone dipende anche dalle capacità del soggetto promotore di pubblicizzare il

progetto attraverso i social network o gli altri canali informativi.

2.3.3 Le piattaforme di crowdfunding in Italia

In Italia si contano 54 piattaforme di crowdfunding. Le piattaforme attive al 10

maggio 2014 sono 41, mentre quelle in fase di lancio sono 1349. Delle 41

piattaforme attive, 19 appartengono al modello “reward-based”, 7 al “donation-

based”, 2 al “lending-based” e 2 “all’equity-based”. Ci sono poi 11 piattaforme

ibride, ovvero portali che offrono più di un modello in varie combinazioni, la più

frequente delle quali risulta essere “reward-donation”50 (Figura 2.2).

Figura 2.2: Piattaforme di Crowdfunding attive in Italia

46%

17%

6%

5%

26% Reward-based

Donation-based

Equity-based

Lending-based

Ibr ide

49 www.italiancrowdfunding.org50 Op. cit, 47.

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Fonte: www.italiancrowdfunding.org

Il modello prevalente resta quindi il “reward-based”, scelto dal 40% delle

piattaforme nella sua forma pura, quota che sale al 57% se si considerano anche le

piattaforme ibride. Negli ultimi mesi, si segnala la crescita delle piattaforme

verticali:

� Settoriali: nove piattaforme per il non profit, due per la cultura, 2 per

l’arte, 2 per l’energia, una per la scuola, una per la fotografia.

� Territoriali: Ginger, Kendoo, Finanziami il tuo futuro.

Le piattaforme sono nate in un arco temporale che va dal 2005 a oggi. Di seguito

saranno elencate alcune delle piattaforme diffuse nel nostro Paese.

Produzioni Dal Basso o PDB, fondata nel 2005 da Angelo Rindone, è la prima

piattaforma di crowdfunding italiana e generalista che dispone, ad oggi, di una

vasta comunità di oltre 39.000 utenti. Si può dire che sia nata quasi prima di tutti

gli strumenti web che oggi il crowdfunding utilizza per promuovere i progetti.

PDB è una piattaforma “reward-based” del tipo “all or nothing”, pertanto se non

viene raggiunto il target prestabilito il progetto non verrà finanziato e la somma

raccolta verrà restituita. A tal proposito, quando un progetto è pubblicato, i

finanziatori prenotano le quote che vogliono sottoscrivere e i contributi saranno

erogati solo nel momento in cui il target viene raggiunto; è per questo motivo che

PDB, a differenza di altre piattaforme, permette di effettuare i versamenti solo nel

momento in cui tutte le quote sono state sottoscritte, in modo tale che possano

essere erogate direttamente all’autore del progetto e far si che la piattaforma non

si ponga come intermediario per la raccolta di danaro. Produzioni dal Basso

permette di creare anche una community per discutere dei progetti, darne maggior

visibilità e creare un luogo con cui poter mantenere le relazioni con i propri

finanziatori. La piattaforma non effettua la promozione dei progetti, ma si limita a

ri-postarli sui social network più diffusi, quali Facebook e Twitter.

Nel 2008, Maurizio Sella fonda Smartika, una piattaforma di “lending-based”

crowdfunding, in cui si fanno prestiti tra privati e i prestatori incontrano

direttamente i richiedenti. Ha un meccanismo di funzionamento che si rifà

notevolmente al modello borsistico, infatti i tassi sono determinati dall’incontro

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tra domanda e offerta. Nel momento in cui il richiedente presenta il proprio

progetto a Smartika, essa effettua un’analisi della storia creditizia dello stesso e in

base alla valutazione la richiesta verrà accettata o meno. Chi presta denaro fa la

sua offerta, apre un conto di pagamento intestato a Smartika e questo denaro, che

verrà spalmato su più progetti, rimane in attesa di essere erogato a diversi

richiedenti. I tagli possibili vanno da 100 Euro a 50.000 Euro. Smartika non si

occupa solo di valutare la richiesta e quindi la storia creditizia del richiedente, ma

segue tutto l’iter fino alla chiusura del finanziamento preoccupandosi di trasferire

i soldi e accreditare il tasso maturato al prestatore e, in caso di necessità, anche di

recuperare i crediti. Altro elemento che differenzia Smartika da altre piattaforme e

che per primi hanno inventato un mercato secondario dei prestiti, per cui si

possono cedere i propri investimenti a terzi.

Nel 2009, nasce Kapipal dall’idea di Alberto Falossi, professore universitario,

consulente e manager nel settore dell’Information Technology. Il nome della

piattaforma è caratteristico perché identifica gli elementi caratteristici del

crowdfunding: è una fusione tra “Capital” (capitale) e “Pal” (amico), e inoltre

quest’ultima identifica anche la modalità con cui vengono raccolti i fondi, ossia

tramite PayPal, che garantisce sicurezza per le transazioni attraverso internet, oltre

ad identificare la solidarietà e amicizia, che c’è tra i componenti del network. La

finalità della raccolta fondi su questa piattaforma può essere strettamente privata,

come raccogliere i fondi per nozze, incidere un album musical o per

un’operazione medica, costruzione di case in Africa o un progetto per un

orfanotrofio in India. Recentemente GrowVc, una piattaforma di crowdfunding

inglese, ha annunciato l’acquisizione di Kapipal all’interno del gruppo, a seguito

della volontà del fondatore Alberto Falossi di trovare un partner affidabile con cui

lavorare a lungo termine al fine di accrescere la potenzialità della propria

piattaforma che necessita, a seguito del successo ottenuto, di maggiori

investimenti. GrowVc si presenta come una piattaforma di raccolta fondi, che

opera principalmente per contribuire alla nascita di start-up e sviluppo di business

già esistenti.

Prestiamoci fondata nel 2007 a Ivrea e lanciata due anni più tardi, da Mariano

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Carozzi, Paolo Galvani e Giovanni Tarditi, imprenditori con importanti esperienze

nazionali e internazionali nel mondo della banca e della finanza. Si presenta come

una piattaforma di “lending-based” crowdfunding e generalista, basata sui prestiti

tra privati.

Io Dono, nasce nel 2010 da un’idea di Direct Channel, società milanese che si

occupa di gestione di database nel settore dell’editoria e del no profit, si pone

l’obiettivo di essere un supporto alle ONP che vogliono raccogliere fondi per la

propria causa sociale. Come anche nel caso di Rete del dono, che vedremo in

seguito, questa modalità di “donationa-based” crowdfunding identifica un

cosiddetto “Personal Fundraiser”, ossia colui che diventa il promotore ed il

protagonista della raccolta fondi dell’organizzazione no profit con cui più si

identifica. La piattaforma si occupa di verificare i dati dell’ONP, della

manutenzione delle pagine web, effettua delle analisi periodiche sull’andamento

delle donazioni ricevute, offre consulenza ai promotori di un progetto per

migliorare e incrementare la raccolta dei fondi e si occupa del trasferimento

periodico delle donazioni.

Eppela, è una piattaforma “reward-based” e generalista fondata nel Maggio 2011

da Nicola Lencioni, lucchese, 45 anni, imprenditore nel campo della

comunicazione. La piattaforma nasce per promuovere progetti innovativi e

creativi nei campi di arte, tecnologia, cinema, design, musica, fumetto,

innovazione sociale, scrittura, moda, no profit. Una volta definito il progetto e

presentato sulla piattaforma, Eppela aiuterà i propri crowdfunders a scegliere le

ricompense più adatte da corrispondere ai sostenitori e, se il progetto è

potenzialmente valido, sosterrà l’attività di promozione attraverso la propria rete

di contatti (giornalisti, pubblicitari, quotidiani online, blog) sino al

raggiungimento del budget.

BuskerLabel, è una comunità online dove i fans possono scoprire nuova musica,

sponsorizzare i loro artisti preferiti e ottenere l’anteprima di album non ancora

pubblicati. L’idea del fondatore di BuskerLabel è volta a rendere la musica

condivisa e accessibile, a far guadagnare gli artisti in modo equo e ripristinare il

rapporto che lega chi crea e chi ascolta musica. È una piattaforma di

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crowdfunding “reward-based”, a tema musicale. Poco dopo la sua fondazione,

avvenuta nel 2010, BuskerLabel introduce il crowdfunding per permettere agli

artisti di raccogliere fondi e pubblicare album online sotto licenza di “Creative

Commons”. In cambio di una piccola donazione, i fans possono ascoltare in

streaming l’anteprima dell’intero album caricato dall’artista e ottenere il pubblico

riconoscimento del loro supporto nei credits dell’album.

CrowdFundMe nata a Milano, si propone per il momento come piattaforma

“reward-based”, ma ha in progetto di utilizzare anche il modello “equity-based”.

È generalista. CrowdFundMe, offre diversi servizi in partnership e a pagamento

che possono essere di aiuto agli autori dei progetti per fornire loro il giusto

supporto alla presentazione e sviluppo dei progetti stessi. Ad esempio tra i

partners vi sono associazioni no-profit per la consulenza a coloro che si affacciano

al mondo delle start-up, studi di avvocati, società per lo sviluppo di applicazioni

web per le aziende e società di coaching e consulenza finanziaria. CrowdFundMe

effettua una selezione dei progetti che possono essere presentati sulla piattaforma

e non si fa garante del successo degli stessi, assolvendo alla sola funzione di

“presentatore” del progetto. È fissato un limite massimo di Euro 999,00 per

finanziamento, ma non vi sono importi minimi richiesti dalla piattaforma, ma

eventualmente è l’imprenditore che pubblica il progetto a definire quest’ultimo.

La piattaforma fornisce informazioni sull’andamento della raccolta fondi e mette a

disposizioni appositi spazi sul sito affinché gli imprenditori possano tenere

costantemente aggiornati i propri finanziatori.

Starteed, lanciata nel Febbraio 2012 da Claudio Bedino, è una piattaforma di

crowdfunding “reward-based”. La community finanzia il progetto e, con

l’incentivo ad impegnarsi al raggiungimento del successo, i componenti offrono i

propri consigli e promuovono l’idea tra i loro contatti, aumentando così la propria

“influence”, in questo modo la piattaforma ha la possibilità di tracciare non solo

l’importo della donazione ma anche il contributo di co-creazione (suggerimenti,

condivisioni) dell’utente. A quest’ultimo viene assegnato un punteggio, in base

alle donazioni ed alle attività di promozione che vengono mappate e tracciate, che

permette di valutare l’impegno alla realizzazione del progetto. Starteed è una

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piattaforma “all or nothing”, pertanto, o viene raggiunto il target o non vengono

distribuiti i contributi. Raggiunto l’obiettivo finalmente si può realizzare il

progetto, si consegneranno le ricompense ai sostenitori e si potrà vendere il

prodotto direttamente tramite lo shop online di Starteed. Intanto i sostenitori

continuano ad accrescere la propria influence anche attirando i propri contatti allo

scopo di farli diventare nuovi clienti. La start-up che si è costituita inizierà a

guadagnare dalle vendite, ma anche i sostenitori potranno guadagnare per ogni

prodotto venduto ricevendo una percentuale sui ricavi in base al proprio punteggio

di influence.

Crowdfunding-italia, nata nel 2012 è una piattaforma “reward-based” del tipo

“all or nothing” e generalista in cui si può finanziare qualsiasi tipo di progetto, ad

esempio, al momento sono presenti progetti che vanno dall’apertura di una

gelateria a un centro comunitario in Ghana fino alla richiesta di fondi per

realizzare un cartone. La piattaforma seleziona e ammette i progetti che vogliono

essere pubblicati e impone una soglia minima di almeno cento euro da cui partire

per effettuare la raccolta, mentre la soglia massima è libera ma rispetto ad altre

piattaforme non può essere modificata in corso. Prevede obbligatoriamente due

premi di donazione, in quanto ha verificato che questa modalità contribuisce ad un

maggior successo del progetto. Crowdfunding Italia è completamente gratuita e

non trattiene alcuna commissione sui finanziamenti ai progetti, ma invita i

promotori del progetto finanziato ad effettuare una donazione in modo non

obbligatorio.

Com-unity è una piattaforma “reward-based”, di proprietà di Banca

Interprovinciale di Modena Spa, lanciata nel 2013 da un gruppo di imprenditori di

Modena e Bologna. È una piattaforma generalista in cui posso chiedere una

collaborazione, oltre che i privati, anche organizzazioni no profit. Dopo essersi

registrati ed aver preparato un video di presentazione si può inviare il progetto e,

se sarà ritenuto idoneo rispetto ai criteri definiti da Com-unity, gli autori verranno

contattati da un tutor o coach che, qualora sia necessario, aiuterà a dare una

corretta struttura economica al progetto.

MusicRaiser, viene lanciata nell’Ottobre 2012 ed è una piattaforma di “reward-

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based” crowdfunding “all or nothing” , focalizzata sul tema della musica. Un

artista, una band, un organizzatore di concerti e festival, un videomaker o a

chiunque si occupi di musica, MusicRaiser offre la possibilità di aprire una

campagna di raccolta fondi per realizzare interamente un disco o anche solo per

una parte di un lavoro, che permetta di realizzare un sogno musicale. Una volta

iscritti, il progetto deve essere approvato dallo staff di MusicRaiser sulla base di

requisiti di qualità e concretezza che la piattaforma ha stabilito, si dovrà definire il

target che si ha bisogno di raggiungere e stabilire la durata della raccolta. A questo

punto, sarà necessario realizzare un video per presentare il proprio progetto e gli

autori del progetto ai potenziali finanziatori e definire delle ricompense da offrire

come ringraziamento a coloro che avranno deciso di supportare il progetto.

Ovviamente, al fine di pubblicizzare quanto più possibile l’idea è possibile creare

dei collegamenti alla propria pagina di MusicRaiser con gli altri social network.

2.3.4 Il crowdfunding nell’ordinamento italiano: il Decreto “Crescita-bis”

Sulla spinta del JOBS-Act adottato negli Stati Uniti d’America nell’aprile 2011, il

governo Monti ha costituito un’apposita task force presso il Ministero dello

Sviluppo Economico, guidato dall’allora Ministro Corrado Passera, al fine di

approfondire il fenomeno del crowdfunding e presentare delle proposte al Go-

verno italiano “per fare in modo che l’Italia diventi un Paese ospitale per la

nascita e la crescita delle start-up”. Con specifico riferimento al crowdfunding, al

fine di rendere tale strumento operativo in Italia, è stato ritenuto essenziale

“prevedere una procedura di autorizzazione snella e semplice, basata però su

chiare garanzie offerte da parte di chi voglia aprire queste piattaforme on-line

dedicate alla raccolta di capitale, creando meccanismi di trasparenza e

informazione per rendere chiaro ai cittadini che sempre il rischio di perde- re il

capitale investito”. Infatti, solo assicurando un adeguato livello di informazione e

trasparenza, sarà auspicabile una diffusione di tale strumento di finanziamento per

le imprese.

In questo contesto, la regolamentazione ha origine nell’ottobre 2012 con il

Decreto Legge Crescita-bis, n. 179/2012 convertito nella Legge n. 221/2012,

introducendo nel nostro ordinamento la start-up innovativa e il corwdfunding. Si

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tratta di due temi tra loro strettamente correlati giacché il crowdfunding

costituisce o può costituire uno dei canali più rilevanti di finanziamento delle

nuove formule societarie.

Di start-up si parla con riferimento a svariate realtà e settori, compresi quelli più

tradizionali, tuttavia il Decreto Crescita-bis ha inteso limitare il campo d’azione

alle sole iniziative che presentino un forte ancoraggio all’innovazione51. In questo

senso, il decreto ha previsto che l’oggetto sociale, esclusivo o prevalente, della

start-up innovativa deve consistere nello sviluppo, produzione,

commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico;

ulteriore parametro di innovatività è rappresentato dalla detenzione da parte dei

soci al momento della costituzione e per i successivi 24 mesi, della maggioranza

del capitale sociale e dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria.

Dal punto di vista dimensionale è richiesto che il totale del valore della

produzione annua a partire dal secondo anno di attività non sia superiore a Euro 5

milioni.

Infine, la start-up innovativa deve possedere almeno uno dei seguenti ulteriori

requisiti:

� spese di ricerca e sviluppo uguali o superiori al 20% del maggiore fra

costo e valore totale della produzione;

� impiego di dipendenti o collaboratori, in percentuale uguale o superiore al

terzo della forza lavoro complessiva, in possesso di titolo di dottorato di

ricerca (o che stiano svolgendo un dottorato di ricerca) oppure in possesso

di laurea e che abbiano svolto, da almeno 3 anni, attività di ricerca

certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero;

� sia titolare, depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale

relativa a una invenzione industriale direttamente afferente all’oggetto

sociale e all’attività d’impresa.

51 FREGONARA E. (2013), La start up innovative. Uno sguardo all’evoluzione del sistema societario e delle forme di finanziamento, Giuffrè, Milano.

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Il Decreto Crescita 2.0 disciplina altresì il c.d. “incubatore certificato”, ossia una

società di capitali di diritto italiano, costituita anche in forma di società

cooperativa, ovvero una Società Europea, che offra servizi per sostenere la nascita

e lo sviluppo di start-up innovative.

Trattasi, in particolare, del soggetto che spesso accompagna il processo di avvio e

di crescita della start-up innovativa, formando e affiancando i fondatori nella

gestione della società e del ciclo di business, fornendo sostegno operativo,

strumenti di lavoro e sede, nonché segnalando l’impresa agli investitori ed

eventualmente investendovi esso stesso.

Le start-up innovative e gli incubatori certificati, al fine di poter beneficiare dello

speciale regime giuridico previsto dalla disciplina in esame, sono tenuti a

determinati obblighi di trasparenza: iscrizione in una apposita sezione del Registro

delle Imprese e successivo aggiornamento delle informazioni con cadenza

periodica.

In conclusione, Il problema che la norma ha inteso affrontare è costituito dalla

scarsità di canali per la raccolta di fondi da parte di soggetti imprenditoriali di

nuova costituzione caratterizzati da uno specifico profilo rischio/rendimento, che

incorpora un alto tasso di mortalità ma anche la possibilità di ritorni elevati in

caso di successo di iniziative basate su prodotti e tecnologie innovativi.

Attraverso la creazione di un “ecosistema” favorevole alle start-up innovative, il

citato decreto intende favorire la crescita, la creazione di occupazione, in

particolare quella giovanile, l’attrazione di talenti e capitali dall’estero, e a rendere

più dinamico il tessuto produttivo e tutta la società italiana.

In particolare con il decreto si è inteso creare, per la prima volta nel panorama

legislativo italiano, un quadro di riferimento nazionale coerente per le start-up.

2.3.4.1 La disciplina dell’equity crowdfunding tra TUF e Regolamento

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Consob

In data 26 giugno 2013, la CONSOB ha emanato il “Regolamento sulla raccolta

di capitali di rischio da parte di stat-up innovative tramite portali online” ai sensi

dell’art. 50-quinquies e dell’art. 100-ter del decreto legislativo 24 febbraio 1998,

n. 58 e successive modificazioni.

Come illustrato dalla Consob, il Decreto Crescita-bis del 2012, introducendo gli

articoli 50-quinquies e 100-ter nel TUF in materia di "Gestione di portali per la

raccolta di capitali per le start-up innovative" e di "Offerte attraverso portali per la

raccolta di capitali", aveva delegato la Consob ad adottare le relative disposizioni

di attuazione.

Per “equity crowdfunding" si intende la possibilità per le imprese (normalmente

neo-costituite) di raccogliere capitali di rischio ("funding") per il tramite della rete

internet svolgendo quindi un appello al pubblico risparmio rivolto a un elevato

numero di destinatari ("crowd") che nella prassi effettuano investimenti di

modesta entità.

L'Italia è il primo Paese in Europa a dotarsi di una simile normativa e

probabilmente fungerà da “guida” per i futuri interventi che verranno predisposti

negli altri Paesi.

Il Regolamento di attuazione è composto da 25 articoli ed è suddiviso in tre parti

che trattano rispettivamente:

1. le disposizioni generali;

2. il registro e la disciplina dei gestori di portali;

3. la disciplina delle offerte tramite portali.

Al Regolamento sono poi allegati:

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le istruzioni per la presentazione della domanda di iscrizione nel registro

dei gestori;

lo schema della “Relazione sull’attività d’impresa e sulla struttura

organizzativa”;

lo schema per la pubblicazione delle “Informazioni sulla singola offerta”,

che comprendono tra l’altro un’avvertenza, le informazioni sui rischi,

sull’emittente, sugli strumenti finanziari e sull’offerta.

I soggetti interessati dalla disciplina di attuazione sono fondamentalmente tre, così

definiti:

1. i “gestori”, ovvero i soggetti che esercitano professionalmente il servizio

di gestione di portali per la raccolta di capitali di rischio per le start-up

innovative ed è iscritto nell’apposito registro tenuto dalla Consob;

2. “l’emittente”, la società start-up innovativa, comprese le start-up a

vocazione sociale, come definite dall’art. 25, commi 2 e 4 del decreto;

3. gli “investitori”, cioè i soggetti disponibili a investire i loro capitali. Essi

possono essere “ordinari” oppure essere i c.d. “investitori professionali di

diritto”. Quest’ultimi sono individuati nell’Allegato n. 3, al punto I, del

Regolamento Consob in materia di intermediari, adottato con delibera n.

16190 del 29 ottobre 2007 e successive modifiche. Essi sono:

4. i soggetti che sono tenuti ad essere autorizzati o regolamentati per operare

nei mercati finanziari, siano essi italiani o esteri quali: banche, imprese di

investimento, imprese di assicurazione, organismi di investimento

collettivo e società di gestione di tali organismi, negoziatori per conto

proprio di merci e strumenti derivati su merci, agenti di scambio, fondi

pensione e società di gestione di tali fondi, altri istituti finanziari

autorizzati o regolamentati;

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5. le imprese di grandi dimensioni che presentano a livello di singola società,

almeno due dei seguenti requisiti dimensionali: 1) totale di bilancio di

20.000.000 EUR; 2) fatturato netto di 40.000.000 EUR; 3) fondi propri

pari a 2.000.000 EUR;

6. gli investitori istituzionali la cui attività principale è investire in strumenti

finanziari, compresi gli enti dediti alla cartolarizzazione di attivi o altre

operazioni finanziarie.

Tali soggetti sono ex se considerati di particolare affidamento, in quanto

posseggono l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere

consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare

correttamente i rischi che assumono. Non sono stati inclusi i c.d. “clienti

professionali su richiesta”, poiché le valutazioni previste in merito agli stessi non

assicurano le stesse garanzie in termini di affidabilità, competenza ed esperienza

sopra menzionate.

Per quanto riguarda i “portali” (le piattaforme web), per questi ultimi è previsto un

vincolo di finalità esclusiva dell’attività; tale vincolo non sussiste invece per le

società che li gestiscono (gestori dei portali).

I gestori, infatti, potranno fornire anche ulteriori attività, non sulla medesima

piattaforma, nonché servizi “ancillari”, che possano magari accrescere la visibilità

e l’affidabilità dei portali stessi agli occhi degli investitori e di conseguenza anche

la domanda di servizi.

Con riferimento al registro dei gestori di portali tenuto dalla Consob, lo stesso è

diviso in due sezioni, nelle quali verranno rispettivamente iscritti ed annotati i

gestori di portali c.d. “a richiesta” e nella sezione speciale le banche e le imprese

di investimento autorizzate ai relativi servizi di investimento, c.d. “gestori di

diritto”.

In particolare, i soggetti diversi da banche e imprese di investimento che

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presenteranno tutta la documentazione prevista dal regolamento ed in possesso dei

requisiti ivi prescritti, saranno a seguito della valutazione da parte della Consob

iscritti nel registro a richiesta.

Va specificato che apposite verifiche per l’iscrizione al registro verranno effettuate

solo sui c.d. “gestori a richiesta”, mentre nessun controllo preliminare verrà

effettuato, in sede di annotazione, sui gestori di diritto, per i quali la citata

annotazione nella sezione speciale ha una mera efficacia di pubblicità notizia.

La mancata iscrizione al registro da parte di gestori a richiesta che effettuino

offerte relative a strumenti finanziari di start-up innovative comporterà la

sussistenza di un abusivismo nella prestazione di tale attività, che verrà perseguito

ai sensi di legge.

Le banche e le imprese di investimento non avranno invece necessità di seguire

l’iter previsto dal regolamento, ma saranno abilitate “ex lege” all’esercizio

dell’attività di gestori di portale. Esse pertanto verranno semplicemente annotate

nel registro tenuto dalla Consob e l’unica attività richiesta sarà quella di

comunicare alla Consob l’intenzione di prestare l’attività di gestione di portali on-

line prima dell’inizio dell’attività stessa. In tal modo viene data la possibilità alla

Consob di dare visibilità a tale società, permettendo ai terzi di consultare il

registro ed essere così certi della legittima operatività del soggetto in questione.

È opportuno specificare che tra le banche e le imprese di investimento autorizzate

alla prestazione dei relativi servizi di investimento è da ritenersi ricompresa anche

la società Poste Italiane - Divisione Servizi di Banco Posta, autorizzata ai sensi

dell’art. 2 del D.P.R. n. 144 del 14 marzo 2001.

Nel registro, per ciascun gestore iscritto, sono indicati:

a) il numero d’ordine di iscrizione;

b) la denominazione sociale;

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c) l’indirizzo del sito internet del portale e il corrispondente collegamento

ipertestuale;

d) la sede legale e la sede amministrativa;

e) la stabile organizzazione nel territorio della Repubblica, per i soggetti

comunitari;

f) gli estremi degli eventuali provvedimenti sanzionatori e cautelari adottati

dalla Consob;

Nella sezione speciale del registro, per ciascun gestore annotato, sono indicati

invece:

a) la denominazione sociale;

b) l’indirizzo del sito internet del portale e il corrispondente collegamento

ipertestuale;

c) gli estremi degli eventuali provvedimenti sanzionatori e cautelari adottati

dalla Consob.

La domanda di iscrizione nel Registro è predisposta in conformità a quanto

indicato nell'Allegato 1 ed è corredata di una “Relazione sull'attività d'impresa e

sulla struttura organizzativa”, ivi compresa l'illustrazione dell'eventuale

affidamento a terzi di funzioni operative essenziali, redatta in osservanza di

quanto previsto dall'Allegato 2.

L’Allegato 1 prevede, tra le altre cose, che il gestore “a richiesta” produca la

documentazione attestante i requisiti di onorabilità dei soggetti che detengono il

controllo del gestore:

� per le persone fisiche, una dichiarazione sostitutiva della certificazione

antimafia e un’autocertificazione sull’insussistenza di una delle situazioni

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di cui all’art. 8 del Regolamento (interdizione dai pubblici uffici,

determinate condanne penali, etc);

� per le persone giuridiche, va invece allegato il verbale del consiglio di

amministrazione o organismo equivalente da cui risulti effettuata la

verifica del requisito in capo agli amministratori e al direttore ovvero ai

soggetti che ricoprono cariche equivalenti nella società o ente partecipante.

In tal modo si presenta alla Consob tutto quanto necessario per dimostrare la

sussistenza dei requisiti previsti dalla regolamentazione con riferimento ai

soggetti controllanti ed agli esponenti aziendali, assicurando una piena trasparenza

sui dati societari.

La valutazioni necessarie alla successiva iscrizione nel registro non si applicano ai

“gestori di diritto” per i quali non è prevista nessuna valutazione discrezionale da

parte della Consob. Tali soggetti sono infatti abilitati all’esercizio dell’attività di

gestione di portali “ex lege”; pertanto, le banche e le imprese di investimento

autorizzate alla prestazione dei servizi di investimento non dovranno presentare

alcuna domanda, bensì inviare una mera comunicazione mediante l’utilizzo di

posta elettronica certificata (PEC), precedentemente all’avvio dell’attività,

indicando di essere in procinto di avviare l’attività in questione, fornendo tutti i

dati relativi alla società (denominazione sociale, indirizzo del sito internet del

portale, il corrispondente collegamento ipertestuale nonché il nominativo e i

recapiti di un referente della società).

Inoltre sui “gestori a richiesta”, si esercita un controllo accertativo ed uno

valutativo per assicurare una corretta gestione del portale. Tale ultimo controllo

avrà ad oggetto “La relazione sull’attività d’impresa e sulla struttura

organizzativa”, documenti che devono essere presentati in sede di domanda di

iscrizione.

Più in particolare, nella relazione sull’attività d’impresa il gestore sarà tenuto a

descrivere in maniera dettagliata le attività che intende svolgere, indicando:

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le modalità per la selezione delle offerte da presentare sul portale e/o

l’affidamento di tali attività a terzi;

l’attività di consulenza eventualmente prestata in favore delle start-up

innovative in materia di analisi strategiche e valutazioni finanziarie, di

strategia industriale e di questioni connesse;

se intende pubblicare informazioni periodiche sui traguardi intermedi

raggiunti dalle start-up innovative i cui strumenti finanziari sono offerti sul

portale e/o dei report periodici sull’andamento degli stessi eventualmente

disposti a favore degli investitori delle medesime società;

se intende predisporre eventuali meccanismi di valorizzazione periodica

degli strumenti finanziari acquistati tramite il portale ovvero di rilevazione

dei prezzi delle eventuali transazioni aventi ad oggetto tali strumenti

finanziari;

altre eventuali attività.

Per quanto riguarda “La relazione sulla struttura organizzativa”, il gestore del

portale dovrà fornire in maniera dettagliata una serie di informazioni stabilite dalla

Consob, ed in particolare:

una descrizione della struttura aziendale (organigramma, funzionigramma,

etc.) con l’indicazione dell’articolazione delle deleghe in essere all’interno

dell’organizzazione aziendale e dei meccanismi di controllo predisposti

nonché di ogni altro elemento utile ad illustrare le caratteristiche operative

del gestore;

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l’eventuale piano di assunzione del personale e il relativo stato di

attuazione, ovvero l’indicazione del personale in carico da impiegare per

lo svolgimento dell’attività. In tale sede, andrà altresì specificata

l’eventuale presenza di dipendenti o collaboratori che abbiano svolto

attività professionali o attività accademiche o di ricerca certificata presso

Università e/o istituti di ricerca, pubblici o privati, in Italia o all’estero, in

materie attinente ai settori della finanza aziendale e/o dell’economia

aziendale e/o del diritto societario e/o marketing e/o nuove tecnologie e/o

in materie tecnico-scientifiche, con indicazione dei relativi ruoli e funzioni

svolti all’interno dell’organizzazione aziendale;

le modalità per la trasmissione a banche e imprese di investimento degli

ordini raccolti dagli investitori;

una descrizione della infrastruttura informatica predisposta per la ricezione

e trasmissione degli ordini degli investitori (affidabilità del sistema,

security, integrity, privacy ecc.);

il luogo e le modalità di conservazione della documentazione;

la politica di identificazione e di gestione dei conflitti di interesse;

la politica per la prevenzione delle frodi e per la tutela della privacy;

l'eventuale affidamento a terzi della strategia di selezione delle offerte da

presentare sul portale;

la struttura delle commissioni per i servizi offerti dal gestore.

Relativamente all’istruttoria della domanda, gli uffici competenti verificheranno la

completezza della documentazione presentata dall’istante entro sette giorni dalla

presentazione della domanda, comunicando allo stesso la documentazione

mancante, che dovrà essere prodotta entro trenta giorni dalla richiesta di

integrazione proveniente dalla Consob. Nel caso in cui la documentazione

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mancata non sia prodotta entro il termine indicato, il procedimento verrà estinto.

L’istante potrà però presentare una nuova domanda per l’iscrizione al registro,

dovendo necessariamente riprendere l’iter procedimentale dall’inizio.

La Consob, inoltre, per valutare la capacità di esercizio dell’attività di gestione

del portale, può rivolgere richieste di ulteriori elementi informativi anche a

soggetti diversi dalla società istante, ed in particolare anche a coloro che svolgono

funzioni di amministrazione, direzione e controllo ed alla società controllante

dell’istante.

Il termine per le valutazioni in capo alla Consob è di sessanta giorni e, la stessa

può respingere la richiesta qualora accerti la mancanza dei requisiti previsti e

quando “dalla valutazione dei contenuti della relazione prevista all'Allegato 2 non

risulti garantita la capacità della società richiedente di esercitare correttamente la

gestione di un portale” (art. 7, comma 5).

Per quanto concerne il profilo dei requisiti soggettivi, il Regolamento prevede

che, oltre ai requisiti di onorabilità che devono avere i soci che detengono il

controllo, gli amministratori e coloro i quali svolgono attività di direzione e

controllo devono anche essere in possesso di ulteriori requisiti specifici. Infatti,

oltre all’onorabilità, gli amministratori devono essere scelti in base ai criteri “di

professionalità e competenza”, fra persone che hanno maturato una comprovata

esperienza di almeno un biennio nell'esercizio di:

a) attività di amministrazione o di controllo ovvero compiti direttivi presso

imprese;

b) attività professionali in materie attinenti al settore creditizio, finanziario,

mobiliare, assicurativo;

c) attività d'insegnamento universitario in materie giuridiche o economiche;

d) funzioni amministrative o dirigenziali presso enti privati, enti pubblici o

pubbliche amministrazioni aventi attinenza con il settore creditizio,

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finanziario, mobiliare o assicurativo ovvero presso enti pubblici o

pubbliche amministrazioni che non hanno attinenza con i predetti settori

purché le funzioni comportino la gestione di risorse economico-

finanziarie.

Inoltre, possono far parte dell'organo amministrativo, ma in ruoli non esecutivi,

anche soggetti che abbiano maturato “una comprovata esperienza lavorativa di

almeno un biennio nei settori industriale, informatico o tecnico-scientifico, a

elevato contenuto innovativo, o di insegnamento o ricerca nei medesimi settori”,

purché però la maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione

possieda i requisiti sopra illustrati. È inoltre vietato assumere incarichi di

amministrazione, direzione e controllo in più gestori, salvo che si tratti di società

appartenenti allo stesso gruppo. Se, per qualsiasi motivo, vengono meno i requisiti

di onorabilità, il gestore è cancellato dal registro, a meno che tali requisiti non

siano “ricostituiti” entro due mesi, durante i quali però il gestore non può

pubblicare nuove offerte e quelle in corso rimangono sospese.

Gli artt. 13 – 21 del Regolamento trattano delle “regole di condotta” del gestore, il

quale “opera con diligenza, correttezza e trasparenza evitando che gli eventuali

conflitti di interesse che potrebbero insorgere nello svolgimento dell'attività di

gestione di portali incidano negativamente sugli interessi degli investitori e degli

emittenti e assicurando la parità di trattamento dei destinatari delle offerte che si

trovino in identiche condizioni”.

Per quanto riguarda le informazioni, il gestore rende disponibili agli investitori,

“in maniera dettagliata, corretta, chiara, non fuorviante e senza omissioni, tutte

le informazioni riguardanti l'offerta che sono fornite dall'emittente affinché gli

stessi possano ragionevolmente e compiutamente comprendere la natura

dell'investimento, il tipo di strumenti finanziari offerti e i rischi ad essi connessi e

prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole”.

Con l’art. 15, viene rafforzata la tutela dell’investitore informandolo sui rischi

derivanti dall’investimento nel capitale sociale delle start-up innovative. In

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particolare, tale articolo prevede l’obbligo da parte del gestore di fornire una serie

di informazioni in merito alle caratteristiche generali dell’investimento e che

riguardano: a) il rischio di perdita dell'intero capitale investito; b) il rischio di

illiquidità; c) il divieto di distribuzione di utili; d) il trattamento fiscale di tali

investimenti (con particolare riguardo alla temporaneità dei benefici ed alle ipotesi

di decadenza dagli stessi); e) le deroghe al diritto societario nonché al diritto

fallimentare previste dal decreto; f) i contenuti tipici di un business plan; g) il

diritto di recesso, ai sensi dell'articolo 13, comma 5 e le relative modalità di

esercizio.

Oltre agli obblighi informativi generali, il gestore deve poi pubblicare (art. 16 del

Regolamento) in relazione a ciascuna offerta specifica:

1. le informazioni indicate nell'Allegato 3 e i relativi aggiornamenti forniti

dall'emittente, portando ogni aggiornamento a conoscenza dei soggetti che

hanno aderito all'offerta;

2. gli elementi identificativi delle banche o delle imprese di investimento

che curano il perfezionamento degli ordini;

3. le informazioni e le modalità di esercizio del diritto di revoca;

4. la periodicità e le modalità con cui verranno fornite le informazioni sullo

stato delle adesioni, l'ammontare sottoscritto e il numero di aderenti.

Esaminando brevemente l’Allegato 3, il Regolamento prevede che il gestore

pubblichi a chiare lettere un’Avvertenza preliminare a ogni offerta e “con

evidenza grafica”, specificando che “Le informazioni sull'offerta non sono

sottoposte ad approvazione da parte della Consob. L'emittente è l'esclusivo

responsabile della completezza e della veridicità dei dati e delle informazioni

dallo stesso fornite. Si richiama inoltre l'attenzione dell'investitore che

l'investimento in strumenti finanziari emessi da start-up innovative è illiquido e

connotato da un rischio molto alto.”

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Sempre l’Allegato 3 dettaglia poi le informazioni specifiche relative al singolo

emittente e alla singola offerta che devono essere pubblicate.

In relazione alla società emittente devono essere fornite:

a) una descrizione dell'emittente, del progetto industriale, del relativo

business plan;

b) la descrizione degli organi sociali e del curriculum vitae degli

amministratori;

c) la descrizione degli strumenti finanziari oggetto dell'offerta, dei diritti ad

essi connessi e delle relative modalità di esercizio;

d) la descrizione delle clausole predisposte dall'emittente con riferimento alle

ipotesi in cui i soci di controllo cedano le proprie partecipazioni a terzi

successivamente all'offerta (le modalità per la way out dall'investimento,

presenza di eventuali patti di riacquisto, eventuali clausole di lock up e put

option a favore degli investitori ecc.) con indicazione della durata delle

medesime.

In merito all’offerta devono essere pubblicate:

le condizioni generali dell'offerta, ivi inclusa l'indicazione dei destinatari,

di eventuali clausole di efficacia e di revocabilità delle adesioni;

le informazioni sulla quota eventualmente già sottoscritta da parte degli

investitori professionali;

l’indicazione di eventuali costi o commissioni posti a carico

dell'investitore;

le indicazione delle banche e delle imprese di investimento cui saranno

trasmessi gli ordini di sottoscrizione degli strumenti finanziari oggetto

dell'offerta e descrizione delle modalità e della tempistica per l'esecuzione

dei medesimi, nonché della sussistenza di eventuali conflitti di interesse in

capo a tali banche e imprese di investimento;

le informazioni in merito alle modalità di restituzione dei fondi nei casi di

legittimo esercizio dei diritti di recesso o di revoca, nonché nel caso di

mancato perfezionamento dell'offerta;

termini e condizioni per il pagamento e l'assegnazione/consegna degli

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strumenti finanziari sottoscritti;

informazioni sui conflitti di interesse connessi all'offerta, ivi inclusi quelli

derivanti dai rapporti intercorrenti tra l'emittente e il gestore del portale;

informazioni sullo svolgimento da parte dell'emittente di offerte aventi il

medesimo oggetto su altri portali;

la legge applicabile e il foro competente;

la lingua o le lingue in cui sono comunicate le informazioni relative

all'offerta.

Tutte queste informazioni, come specificato nell’Avvertenza preliminare, sono

fornite dalla società emittente e non dal gestore, né sono verificate dalla Consob.

Non viene dunque fornita alcuna “garanzia” in ordine alla completezza e

veridicità dei dati pubblicati, salva ovviamente la responsabilità della società

emittente. Dal canto suo, il gestore è tenuto ad assicurare “l'integrità delle

informazioni ricevute e pubblicate” e quindi deve dotarsi di sistemi operativi

affidabili e sicuri, deve individuare le fonti di rischio operativo e predisporre

procedure e controlli adeguati, anche al fine di evitare discontinuità operative,

oltre ad appositi dispositivi di backup. Inoltre il gestore è tenuto a conservare per

almeno 5 anni la documentazione contrattuale connessa alla gestione del portale

(ricezione e trasmissione ordini, conferme, accettazioni).

Sul piano sanzionatorio, va ricordato il contenuto dell’art. 50-quinquies del T.U.F.,

il quale stabilisce che “i gestori di portali che violano le norme del presente

articolo o le disposizioni emanate dalla Consob in forza di esso, sono puniti, in

base alla gravità della violazione e tenuto conto dell'eventuale recidiva, con una

sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquecento a euro venticinquemila”.

Inoltre, l’art. 22 del Regolamento prevede che la Consob, in caso necessità e

urgenza, possa disporre la sospensione cautelare dell'attività del gestore, per un

periodo non superiore a novanta giorni, qualora sussistano fondati elementi che

facciano presumere l'esistenza di gravi violazioni di legge ovvero di disposizioni

generali o particolari impartite dalla Consob atte a dar luogo alla radiazione dal

registro.

2.3.4.2 Deroghe al diritto societario

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L’articolo 26 del Decreto Legge Crescita-bis n. 179/2012, prevede una serie di

disposizioni derogatorie rispetto alle disposizioni previste dalla normativa

societaria in favore delle start-up innovative di seguito riepilogate:

1. è ammessa la possibilità di posticipare al secondo anno di esercizio la

riduzione del capitale sociale nel caso di perdita a meno di 1/3 per la start-

up innovativa, così come previsto dall’art. 2446, comma 2, c.c. ed art.

2482, comma 4, c.c.;

2. nel caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, è

consentito all’assemblea dei soci disporre il rinvio alla chiusura

dell’esercizio successivo la deliberazione di riduzione del capitale ed il

contemporaneo aumento dello stesso ad una cifra non inferiore al minimo

legale, così come previsto dall’art. 2447 c.c. ed art. 2482 ter c.c.;

3. l’atto costitutivo della start-up innovativa costituita in forma di società a

responsabilità limitata, in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma

2 e 3, c.c. e dall’art. 2479, comma 5, c.c., può: a) creare categorie di quote

di partecipazione fornite di diritti differenti; b) determinare il contenuto

delle differenti quote di partecipazione; c) creare categorie di quote di

partecipazione che non attribuiscano diritti di voto o che attribuiscano

diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione detenuta dai

soci; d) creare categorie di quote di partecipazione che attribuiscano diritti

di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di

particolari condizioni;

4. le quote di partecipazione detenute nella start-up innovativa costituita sotto

forma di società a responsabilità limitata possono costituire oggetto di

offerta al pubblico di prodotti finanziari in deroga a quanto previsto

dall’art. 2468, comma 1, c.c.;

5. nelle start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità

limitata è consentito di derogare al divieto di compiere operazioni sulle

proprie partecipazioni previsto dall’art. 2474 c.c., nel caso in cui dette

operazioni siano realizzate in attuazione di piani di incentivazione che

prevedano l’assegnazione di quote a dipendenti, collaboratori o

componenti dell’organo amministrativo, prestatori d’opera e servizi anche

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di natura professionale;

6. è ammessa la possibilità che l’atto costitutivo della start-up innovativa e

dell’incubatore certificato possa prevedere l’emissione di strumenti

finanziari forniti di diritti patrimoniali od anche di diritti amministrativi

con esclusione del diritti di voto a seguito di un apporto prestato da parte

di soci o terzi anche d’opera o servizi.

2.3.4.3 Prospettive

Il vero limite della disciplina in esame sembra il ristretto ambito applicativo della

stessa tracciato dalla normativa primaria: quello delle start-up innovative

costituisce in effetti un settore “di nicchia” rispetto ad un meccanismo che

potrebbe essere utilizzato in numerosi contesti. I rischi legati a questa

impostazione paiono essenzialmente due: da un lato, quello di associare il

crowdfunding alle sole realtà per le quali è stato regolamentato, abbandonando le

altrettanto interessanti applicazioni socio-culturali, dall’altro quello di ingenerare

una discriminazione tra società di pari dimensioni e svolgenti attività analoghe nel

reperimento sul mercato di capitale.

D’altro canto, l’Italia, pur all’avanguardia nella regolamentazione, sconta la pena

dell’assenza di esperienza in questo settore e risulta caratterizzata da una diffusa

scarsa familiarità con il web che produce diffidenza e sfiducia negli acquisti

online e il rischio di allontanamento degli investitori, per tradizione cauti, da

questi nuovi meccanismi. In ogni caso, la disciplina “made in Italy” sull’equity

based crowdfunding rappresenta un importante traguardo e un innegabile fattore

propulsivo di crescita seppure ancora in fase di sperimentazione e con evidenti

fattori di criticità.

2.3.5 Conclusioni

Secondo il “Crowdfunding Industry Report” di Massolution, agenzia di ricerca del

gruppo Crowdsourcing LLC, esistono oltre settecento piattaforme al mondo. Il

fenomeno è ancora ai suoi albori e, ciò cui stiamo assistendo ora, è un’ampia

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sperimentazione di soluzioni innovative e alternative che spiega la vasta gamma

di piattaforme di crowdfunding presenti sul mercato. La prima piattaforma

italiana, nata nel 2005, si è dimostrata pioniera di un florido futuro che ha dato

vita a 27 piattaforme attive e 14 in fase di lancio. Nel corso dei suoi pochi anni di

vita, il crowdfunding ha sviluppato una moltitudine d’impieghi, tra i quali il

crowdfunding “Do It Yourself” così chiamato in quanto non si ricorre a una

piattaforma, bensì si attiva la propria campagna per la raccolta di capitali in modo

indipendente. Sebbene, a primo impatto questa modalità sembrerebbe ostacolare

la diffusione delle piattaforme, è possibile controbattere affermando che il

crowdfunding “Do It Yourself” funziona quasi esclusivamente per grandi imprese

che hanno già a disposizione una comunità di riferimento abbastanza ampia. Altro

utilizzo in cui si sta specializzando il crowdfunding è il “Civic Crowdfunding”,

una modalità che tende a portare offline le communities formatesi sulla rete, in

forma di collaborazione e condivisione. Il Civic Crowdfunding è, dunque, il

finanziamento collettivo di opere e progetti pubblici che possono essere proposti

da amministrazioni locali, enti pubblici, organizzazioni che operano per il settore

pubblico e, naturalmente, anche dal singolo cittadino. Le tipologie di piattaforma

che il Civic utilizza sono quelle che già conosciamo, con la peculiarità che la

raccolta di finanziamenti dovrà prevedere esclusivamente la formula “all or

nothing”, per assicurare la realizzazione del progetto. Le principali piattaforme di

Civic, attualmente attive, sono le statunitensi Neighbor, CitizenInvestor; la

britannica Specehive e la tedesca LeihDeinerStadtGeld. In generale, come emerso

anche nella conferenza “Crowdfuture – the future of crowdfunding 2013”, il

crowdfunding presenta alcuni ostacoli da superare e che oggi ne rallentano la

crescita. Innanzitutto si tratta di ostacoli di natura culturale, intesi come mancanza

di conoscenza del fenomeno dovuta alla gioventù del crowdfunding che, come per

qualsiasi novità, ha bisogno di un periodo di diffusione e maturazione. Infatti,

proprio perché si tratta di un fenomeno nuovo lo si guarda in modo scettico e

diffidente come se si trattasse dell’ultima trovata senza futuro. È necessario che le

piattaforme, le associazioni di supporto e gli stessi utenti divulghino informazioni

sul funzionamento e soprattutto sul valore della partecipazione della folla, per la

prima volta protagonista attiva nella condivisione delle conoscenze e nella

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realizzazione di progetti. Un altro ostacolo di natura culturale è la mancanza di

spirito di associazione nella società attuale che predilige il benessere individuale;

tuttavia il crowdfunding sta contribuendo a ribaltare questa configurazione

sociale, mostrando la spinta all’aggregazione delle forze comuni.

CAPITOLO 3

VERSO UNA VISIONE DI SMART MOBILITY

3.1 La mobilità: un bisogno in continua evoluzione

Negli ultimi decenni, una crescente attenzione è stata attribuita al tema della

sostenibilità e dello sviluppo sostenibile, definito, nel 1897 dalla World

Commission on Environment and Development, come lo sviluppo che

“garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità

che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. La mobilità sostenibile

può essere intesa come un sistema di trasporto progettato “ad hoc”, volto ad

affrontare le tre tipologie di problematiche a cui si fa riferimento quando si parla

di sviluppo sostenibile: sostenibilità ambientale, allocazione economica e

interconnessione sociale; infatti la mobilità sostenibile è “un potenziale per il

movimento che collega attività di trasporto con le altre, con le scelte di

localizzazione e con gli stili di vita”52. Il settore dei trasporti, inoltre è correlato a

quello delle comunicazioni: infatti; la comunicazione avanzata permette di

sostituire in molti casi i trasporti. Lo sviluppo dei trasporti sarebbe impossibile

senza comunicazione, la quale risulta di vitale importanza per i sistemi avanzati di

trasporto, dalle ferrovie al controllo del traffico aereo. La mobilità costituisce

infatti un pilastro portante di tutte le procedure di governance a livello

internazionale e le forti accelerazioni del mondo odierno comportano la necessità

di nuove infrastrutture o di nuove forme di mobilità, che risultano essere in molte 52 GUDMUNDSSON H., HISJER M., (1996), “Sustainable development principles and their implications for transport”, Ecological Economics, Vol. 3, No. 19, pp. 269-282.

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occasioni motivo di conflitto. Lo scenario della mobilità, non solo in Italia ma in

tutta Europa, negli ultimi anni è profondamente cambiato: con la definitiva

affermazione della globalizzazione dei mercati, l’efficienza e l’affidabilità dei

sistemi di trasporto sono divenuti elementi ancor più essenziali che in passato.

Inoltre, l’incremento dei costi di congestione nelle nostre aree urbane, così come

l’incremento dei prezzi del petrolio e l’aumento delle emissioni inquinanti, sono

sfide che inducono ad operare per ridurre drasticamente i consumi di energia e per

migliorare la qualità dell’ambiente.

Nel mondo la domanda di mobilità è in costante crescita grazie anche

all’evoluzione tecnologica dei mezzi di trasporto e alla riduzione dei costi

avvenuta nella seconda metà del ventesimo secolo. Ad oggi l’organizzazione dei

trasporti è prevalentemente riferita al traffico su strada, con l’uso principalmente

di mezzi privati con forti, e non sempre positive, conseguenze sul piano

socioeconomico e ambientale, basta prendere come esempio la congestione delle

città, i disagi e pericoli per i ciclisti e i pedoni e non per ultimo l’elevato

inquinamento acustico ed atmosferico che ne consegue. La congestione del

traffico motorizzato e le scarse infrastrutture per ciclisti e pedoni hanno aggravato

per questi ultimi la sicurezza negli spostamenti. La gente sente il bisogno di una

città migliore, più vivibile, dove anziani, giovani, bambini, portatori di handicap e

tutti i cittadini possano muoversi anche senza automobile raggiungendo i vari

luoghi di interesse sentendosi ugualmente sicuri, protetti, soggetti del diritto alla

mobilità indipendente, senza dover dipendere da qualcuno che li accompagni in

automobile. Per contrastare tutto questo, occorre stimolare una politica basata su

obiettivi comuni da raggiungere e i risultati da realizzare sul territorio, in cui tutti i

soggetti coinvolti, quali ad esempio Pubbliche Amministrazioni, Regioni,

associazioni locali, il sistema delle imprese e la cittadinanza possano contribuire

insieme all’utilizzo efficiente delle risorse ed alla condivisione degli obiettivi e

degli strumenti per aumentare l’efficacia degli interventi da implementare. Anche

i cittadini devono essere sensibilizzati e coinvolti nei processi di pianificazione di

politiche legate alla mobilità sostenibile, al fine di stimolare la consapevolezza di

scelte più opportune nel muoversi in città. È necessario diffondere una vera e

propria cultura della mobilità sostenibile passando ad una visione più “smart”, per

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soddisfare le mutanti esigenze di trasporto delle persone e per ottimizzare l’uso e

lo sviluppo delle risorse economiche, umani e ambientali.

3.2 Definizione di mobilità sostenibile

In ambito letterario non esiste una vera e propria definizione di “mobilità

sostenibile”, ma esistono molteplici varianti differenti tra loro o dal punto di vista

da cui viene analizzato l’ambito in questione o semplicemente per ragioni di

nomenclatura.

Banister sostiene come la mobilità sostenibile sia una parte importante di un

concetto più ampio e altrettanto rilevante come quello dello sviluppo sostenibile e

sulla base di tale assunzione, l’autore è convinto che la mobilità sostenibile sia

una forma di imposizione rivolta a tutti i settori operanti nella società di rimanere

entro prestabiliti livelli di sostenibilità, superati i quali è a rischio la

sopravvivenza delle generazioni non solo attuali, ma soprattutto future53. Friedl e

Steininger, hanno proposto invece, una definizione più ampia, considerando la

mobilità sostenibile come quel sistema di trasporto che permetta il

soddisfacimento di tutte le esigenze di accesso di base e, nel contempo, lo

sviluppo di tutti gli individui appartenenti alla società, di tutte le imprese e della

società stessa in modo sicuro e compatibile con la salute umana e con

l’ecosistema. Per mobilità sostenibile, secondo il loro punto di vista, ci si deve

riferire ad un sistema di mobilità caratterizzata da alcuni aspetti54:

� gli obiettivi generalmente accettati per la salute e la qualità ambientale (ad

esempio quelli proposti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in

53 BANISTER D., (2007), Cities, mobility and climate change, Journal of Industrial Ecology, Vol.11, No. 2, pp. 7-1054 FRIEDL B., STEININGER, (2002), Environmentally Sustainable Transport: Definition and Long-Term Economic Impacts for Austria, Kluwer Academic Publishers, Vol. 29, No. 2, pp. 163-180

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materia di inquinamento atmosferico e acustico) siano soddisfatti;

� l’integrità dell’ecosistema non venga minacciata;

� i fenomeni globali potenzialmente negativi come il cambiamento climatico

e l’esaurimento dell’ozono nella stratosfera non vengano ulteriormente

aggravati.

Un altro punto di vista da cui poter analizzare la mobilità sostenibile è quello

relativo al futuro e, in particolare, alle possibili conseguenze sulle generazioni

future: a tal proposito risulta rilevante considerare alcuni contributi alla letteratura

provenienti da alcuni studiosi, come Wiegmans. L’autore intende la mobilità

sostenibile come quel sistema che, una volta implementato, sia in grado di

generare effetti nel medio – lungo periodo legati ad una diminuzione

dell’inquinamento atmosferico ed acustico, ad un notevole e sempre crescente

risparmio energetico e ad un decremento del fenomeno della congestione, presente

nelle aree urbane. Richardson, invece, considera la mobilità sostenibile come quel

sistema di trasporto che, una volta implementato e messo a regime, consenta di

soddisfare le esigenze della mobilità delle generazioni attuali, senza

compromettere la capacità delle generazioni future di poter soddisfare le proprie.

Lo stesso punto di vista è stato utilizzato dal CST (Centre for Sustainable

Transportation), un Istituto di ricerca canadese che si occupa di politiche di

sostenibilità nel settore dei trasporti, secondo il quale la mobilità sostenibile è un

sistema di trasporto che ha le potenzialità per garantire accessibilità e sicurezza

nel rispetto del principio di equità tra le diverse generazioni; inoltre è un sistema

che risulta essere conveniente da un punto di vista economico – finanziario ed è in

grado di limitare gli impatti ambientali, ad esempio attraverso una riduzione del

livello dei rifiuti che tale sistema produce in esercizio, attraverso una diminuzione

delle emissioni di gas inquinanti con un’ottimizzazione delle risorse. In sintesi un

sistema di mobilità sostenibile è un sistema che:

� consente di soddisfare le esigenze di accesso di base degli individui e della

società in modo sicuro e in modo compatibile con la salute umana e con

l’ecosistema, rispettando il principio di equità all’interno e tra le

generazioni;

� è conveniente, funziona in modo efficiente ed offre una modalità di

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trasporto supportando la dinamicità dell’economia;

� limita le emissioni e i rifiuti considerando anche la capacità del pianeta di

assorbirli, riduce al minimo il consumo di risorse non rinnovabili, limita il

consumo delle risorse rinnovabili al livello di rendimento sostenibile.

3.3 La realtà della Smart Mobility

Occorre quindi, ripensare la mobilità in modo da rispondere ai nuovi bisogni in

modo flessibile, efficace e sicuro. Si devono utilizzare positivamente le tendenze

sociali e le nuove tecnologie (in particolare le tecnologie ICT) per ottenere una

mobilità più sostenibile, in piena e totale integrazione con i processi che tendono a

rendere la città più “intelligente”. Possiamo affermare che la “Smart Mobility”,

utilizzando al meglio le tecnologie ICT, rende la città accessibile a tutti, con

servizi di trasporto disponibili, facili da usare, efficienti e sostenibili

economicamente e ambientalmente. Tendenze socio-economiche e innovazione

tecnologica offrono diverse opportunità, che possono dare un contributo positivo.

Il cambiamento più decisivo, proviene dal mutato atteggiamento dei cittadini:

sempre più “informati”, “connessi” e capaci di utilizzare servizi di prenotazione,

informazione e navigazione, diventano “soggetti attivi” nella mobilità. La

tecnologia sta favorendo e motivando questo cambiamento, con i vari strumenti di

connessione mobile e con applicazioni mobili personalizzate (le “app”). Anche la

crescente diffusione dei social network favorisce nuovi paradigmi per la mobilità:

essi infatti rendono più facile l’interazione con gli utenti in viaggio, tanto che

stanno di-ventando il canale privilegiato dai viaggiatori per segnalare disagi, code,

incidenti, congestioni. Il viaggiatore può realmente scegliere se, quando e come

spostarsi, con quali mezzi e con quali itinerari. Se ieri vedeva il veicolo di

proprietà come unica alternativa flessibile e personale, domani potrà, anche

mediante “app” di sua scelta eventualmente “locali”, progettare e creare i propri

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spostamenti in modo personalizzato, flessibile ed efficiente, utilizzando diversi

servizi di trasporto. Sono evidenti le condizioni necessarie: occorre che le città

diventino davvero “smart” e capaci di offrire, tramite le reti, i servizi necessari per

l’effettiva ottimizzazione (e la possibile riduzione) degli spostamenti (inclusi gli

spostamenti per lavoro); poi rendano disponibili servizi di trasporto flessibili e

personalizzabili per passeggeri e merci (quali i servizi di car e bike sharing, o i

trasporti a domanda, o la “city logistic” per le merci); occorre infine che tutti i vari

servizi siano “in rete” e facilmente fruibili; che informazioni, prenotazioni, servizi

di pagamento siano disponibili e utilizzino i canali di comunicazione più efficienti

e pervasivi.

Soprattutto, occorre che i servizi di trasporto di massa abbiano la copertura e la

qualità necessarie; infine, che il traffico privato, che comunque resterà importante,

diventi efficiente e sostenibile, con veicoli sempre più “green”. La “Smart

Mobility”, quindi, condivide gli obiettivi di sostenibilità, qualità della vita,

inclusione sociale, da raggiungere attraverso l’innovazione nell’organizzazione

dei trasporti, nei comportamenti sociali, nei servizi al cittadino; utilizza le

opportunità offerte dalle tecnologie ICT disponibili, dai nuovi comportamenti

sociali e dall’integrazione dei servizi nel contesto urbano, per rendere i sistemi di

mobilità urbana più efficienti, sicuri, rispettosi dell’ambiente e, allo stesso tempo,

più “amichevoli” per il viaggiatore. Considera come prioritaria la sostenibilità,

economica, ambientale, energetica, sociale, valutando gli impatti positivi e

negativi degli interventi; sceglie le applicazioni che, accanto a benefici

significativi e dimostrabili, comportano costi e difficoltà di realizzazione limitate .

3.3.1 L’importanza dell’ICT per la Smart Mobility

Generalmente si pensa che l’utilizzo di Information and Communication

Technology (ICT) possa consentire una mobilità più sostenibile attraverso un

migliore utilizzo delle autostrade e una diminuzione sia del numero di vittime

della strada e dei livelli di congestione (solo per citare alcuni effetti). Il trend

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osservato55 ha suggerito come l’ICT potrebbe contribuire alla mobilità sostenibile:

è stato possibile notare che le auto nel futuro, grazie alla forte innovazione

tecnologica prevista, saranno più leggere e più sicure e genereranno meno

emissioni; inoltre esse diventeranno più intelligenti, utilizzando computer di bordo

in grado di analizzare la situazione del traffico e il comportamento del conducente

ed offrendo consulenze in termini di comportamento di guida ottimale. Infine, il

trend suggerisce un’interazione reciproca tra mezzi di trasporto e infrastrutture

"intelligenti" con un conseguente aumento di efficienza del traffico e quindi il

verificarsi di meno incidenti.

Sostenitori della stessa tesi sono anche alcuni professori dell’Università di Napoli,

secondo i quali una soluzione IT limitata a un solo mezzo di trasporto ha due

implicazioni negative a seguito: innanzitutto l’utente non è in grado di confrontare

efficacemente soluzioni di trasporto diverse e scegliere la più adatta in base ai

propri obiettivi e, in secondo luogo, l’utente non è a conoscenza dell’esistenza di

altre soluzioni di mobilità sostenibile, in quanto supportate da altre soluzioni

specifiche56.

Il reale impatto delle tecnologie e il loro potenziale contributo allo sviluppo di una

mobilità sostenibile dipende da numerosi fattori, uno di questi è la politica dei vari

governi, in quanto questi ultimi possiedono strumenti efficaci nel reindirizzare i

comportamenti e modificare le tendenze generali della popolazione. Negli ultimi

due decenni, la tendenza delle tecnologie informatiche è stato alquanto

significativo, ha influenzato in molti modi lo stile di vita, anche nel quotidiano,

dell’intera popolazione e ha le potenzialità, data l’enorme capillarità che la

contraddistingue, di apportare modifiche anche importanti ai modelli di mobilità

dei singoli individui. L’importanza di tale tematica e la piena consapevolezza delle

55 WIEGMANS B., BEEKMAN N., BOSCHKER A., VAN DAM W., NIJHOF N. (2003), “ICT and Sustainable Mobility: From Impacts to Policy”, Growth and Change, Vol. 34, No. 4, pp. 473-48956 DI MARTINO S., CLEMENTE G., GALIERO R. (2011), “A rich cloud application to improve sustainable mobility”, Personnel Review, Vol. 41, No. 1, pp. 109-123.

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opportunità che sarebbe possibile sfruttare utilizzando in modo appropriato le ICT

hanno spinto le varie istituzioni ad intervenire con dei programmi: un esempio è

possibile riscontrarlo anche nell’Unione Europea. La politica europea delle ICT è

principalmente formulato in due documenti relativi al piano d’azione “eEurope”

(2001) e l’Information Society Technologies Program57. I temi principali sono

l’ammissione e l’accessibilità di Internet e delle nuove forme di comunicazione;

inoltre, l’UE incoraggia i governi e le organizzazioni pubbliche ad adeguarsi

all’era digitale; negli Stati Uniti, la situazione è analoga. Sia nel continente

europeo sia negli USA vi sono anche qui politiche ICT dirette a supportare la

mobilità al fine di raggiungere il condiviso obiettivo mondiale della sostenibilità:

l’Information Society Technologies Program [Commissione europea 2001b e

2002] e l’Intelligent Transport System Program [Humphrey, 1994; National ITS

Program Plan, 1995; US Department of Transportation, 1997; Rothberg et al.,

1997; Transportation Research Board, 2000].

3.3.1.1 Infomobilità

Con l’espressione “infomobilità” si intende l’uso di tecnologie dell’informazione

a supporto della mobilità e degli spostamenti di persone e merci. Grazie allo

sviluppo di dispositivi e strumenti informatici avvenuto negli ultimi anni,

accompagnato alla rapida diffusione dei sistemi di navigazione satellitare basati

sul GPS, le informazioni relative alla mobilità ed alle sue componenti relative a

persone (traffico stradale) e merci (logistica) sono trattate in modo sempre più

completo, diffuso ed accessibile a tutti. L’infomobilità aiuta quindi, ad esempio,

sia i normali cittadini che si muovono nel traffico (in auto, moto, o anche in bici

ed a piedi), sia coloro che devono utilizzare mezzi di trasporto pubblico (con

informazioni in tempo reale sull’andamento di autobus e treni, o sulla

localizzazione delle fermate), che gli operatori della logistica e del trasporto

postale e delle merci. Le informazioni possono essere inviate all’utenza in modo

diffuso (es. con pannelli a messaggio variabile in autostrada), o può essere l’utente

stesso ad accedervi in base alle proprie necessità (es. informazioni sul traffico,

ricerca di un parcheggio) o alla propria situazione specifica (es. da casa attraverso

57 European Commission 2000, 2001, 2002.

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il web, o in mobilità attraverso un dispositivo mobile etc.). L’informazione

rappresenta il nuovo bene di riferimento per l’economia urbana: la città produce,

elabora e trasferisce informazione e sta progressivamente organizzando su tale

modello molti dei propri processi funzionali.

3.3.2 Il ruolo delle tecnologie ITS per la Smart Mobility

Nel mondo, soluzioni di smart mobility vengono implementate con successo. Un

rapporto della Information Technology and Innovation Foundation58 ha registrato

sostanziali miglioramenti del sistema dei trasporti nei Paesi che stanno

implementando modelli di una nuova mobilità intelligente, con impatti

significativi sulla qualità della vita, l’ambiente e la competitività. L’Europa ha

avviato un processo di creazione di un mercato della smart mobility; si stima

infatti, che gli impatti diretti e indiretti derivanti dall’apertura e messa a

disposizione dei dati sulla mobilità sul territorio comunitario per applicazioni

“smart” possa valere oltre 140 miliardi di Euro, con nuove filiere industriali e di

servizi59. Nella transizione dei sistemi della mobilità verso assetti e modelli

evoluti, molti Paesi stanno focalizzandosi sull’aspetto tecnologico, cercando di

raggiungere posizioni di vantaggio sulle filiere industriali e della ricerca. È

prevista, infatti, una crescita del mercato delle tecnologie nei prossimi anni: per i

soli ITS (Intelligent Transport System) si prevede un valore globale di oltre 70

miliardi di Dollari nel 201560. A questi si aggiungono i propulsori e i carburanti a

basso impatto ambientale, le tecnologie per la sicurezza etc. Alcune soluzioni

tecnologiche di smart mobility possono essere implementate e sviluppate con

successo su scala locale, come ad esempio l’adozione di tabelloni e segnali di

informazione in tempo reale; i benefici di un mobilità intelligente, possono essere

però abilitati laddove è garantita l’adozione dei modelli e delle tecnologie su larga

scala. Adottando sistemi per l’informazione, la connettività e la sicurezza sulla

rete dei trasporti e integrando i servizi collegati con la domanda individuale e

58 ITIF, Intelligent Transportation Systems, 2010.59 European Commission, Digital Agenda Assembly, 2012.60 BBC Research, market forecasting, 2010.

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collettiva è evidente il potenziale di creazione di valore e di riduzione delle

inefficienze che un sistema territoriale allargato può consentire di raggiungere. Vi

sono inoltre diverse tecnologie di rilevamento che consentono oggi di sfruttare

alcuni progressi fatti a livello di telecomunicazioni e di Information Technology,

che nascono da un mix di microchip, RFID (Radio Frequency Identification) e

tecnologie di segnalazione poco costose. Queste tecnologie sono basate su sistemi

di rete, dispositivi indistruttibili che vengono installati o incorporati nella strada o

nello spazio che circonda la strada stessa (edifici, pali, segnali stradali, etc.).

Possono essere diffusi manualmente durante la costruzione o la manutenzione di

strade, o grazie all’utilizzo di macchine capaci di iniettare questi sensori. Tali

dispositivi consentono la circolazione di dati, includono la distribuzione di

informazioni da infrastrutture a veicolo e da veicolo a infrastrutture e possono

altresì avvalersi di dispositivi video di riconoscimento automatico delle targhe dei

veicoli o di tecnologie di rilevazione magnetica dei veicoli a intervalli desiderati,

per aumentare il monitoraggio continuo di veicoli circolanti in zone critiche. A

Singapore, ad esempio, la Land Transport Authority ha creato uno strumento di

predizione dei flussi di traffico basato sui dati storici e sulle informazioni in tempo

reale. Il “Prediction Tool” è in grado di elaborare e rilasciare aggiornamenti su

durate pre-impostate (da 10 a 60 minuti). Nell’85% dei casi, il modello è in grado

di ipotizzare ciò che realmente avverrà nel sistema di mobilità della città, sia in

termini di velocità, sia in termini di volume di traffico. Il risultato delle

applicazioni è stimato in una riduzione di almeno il 20% delle congestioni al

giorno. Questo strumento fa parte di un progetto più ampio, chiamato “i-

Transport”, che è il cuore del sistema dei trasporti intelligente di Singapore. Negli

ultimi anni, un altro aspetto interessante assunto dalle comunità, è la

consapevolezza della necessità di un profondo ripensamento delle tecnologie di

alimentazione dei trasporti, che è parte integrante del concetto di smart mobility:

� metano e GPL, rappresentano già realtà importanti, ma la loro principale

criticità è la mancanza di una copertura capillare a livello di distribuzione;

� bio-combustibili, si propongono come l’alternativa al petrolio. Tra i punti

di forza vi è la compatibilità con la tecnologia motoristica attuale, mentre

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le criticità attengono all’impatto ambientale e ai costi;

� veicoli elettrici (ibridi o “full electric”), possono risolvere i problemi

dell’emissione di sostanze nocive e di inquinamento acustico.

L’evoluzione tecnologica è indirizzata a risolvere i problemi che

rappresentano i fattori ostativi alla loro diffusione come la capacità

limitata delle batterie, costi elevati e i tempi e le modalità di ricarica.

3.3.3 Innovazione e Ricerca per la Smart Mobility

L’innovazione e la ricerca nella smart mobility e nei Sistemi Intelligenti di

Trasporto offrono, grandi opportunità per la sostenibilità dei trasporti urbani; le

tecnologie, componenti, prodotti, sistemi e servizi, hanno anche un notevole

potenziale di penetrazione sul mercato mondiale. Diversi casi di studio hanno

dimostrato come una moderna organizzazione della rete di trasporto possa portare

ad un risparmio di denaro. Tecnologie “smart” sono disponibili per migliorare

l’efficienza del viaggio, fornire informazioni accurate in tempo reale,

personalizzare il viaggio in base alle proprie preferenze, etc. I progressi della

tecnologia stanno trasformando la vita quotidiana in modi impensabili solo fino a

pochi anni fa. Si pensi agli smartphone, ai tablet, dispositivi eccezionali che si

rivelano utili in tantissime circostanze. smart mobility vuole dire migliorare nel

concreto la vita delle persone, il lavoro delle imprese e la competitività del

sistema Paese attraverso nuovi e migliori sistemi di servizi e di gestione per il

trasporto. Le applicazioni pratiche sono molteplici per la mobilità delle persone e

di seguito sono riportati alcuni esempi di quello che già è in essere nel mondo:

servizi all’utenza. A Cork (Irlanda), viene promosso un sistema tramite

smartphone che consente a chi ha una macchina vuota di dare disponibilità

di un passaggio attraverso una ricarica di venti centesimi di Euro per

chilometro;

gestione del pricing. In Olanda il progetto di pricing “pay-per-use”

chiamato “NL KILONTRPIJ”, consente di applicare tasse di circolazione

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in base ai km percorsi, agli orari, alle specifiche strade utilizzate. Dal 2011

viene applicato sui mezzi pesanti, nel 2012 sui mezzi con passeggeri;

servizi per l’ambiente. Ad Amsterdam, con il programma “Ship to Grid

200”, sono state installate stazioni energetiche per connettere le

imbarcazioni ad una fonte di energia pulita che alimenta i congegni di

bordo facendo a meno dei generatori diesel. Una connessione attivabile via

telefono consente di accreditare automaticamente il costo energetico sul

conto dell’imbarcazione;

messa a valore delle informazioni. A Paredes (Portogallo), 100 milioni di

sensori gestiti da un sistema di controllo intelligente consentono di

monitorare l’evoluzione del tessuto urbanistico (cantieri aperti, stato degli

edifici). Incrociando i dati con quelli del traffico si conosce in tempo reale

quale sia il miglior mezzo di trasporto per i propri fini, con dettagli esatti

sul tempo necessario e il costo;

servizi per l’info-traffico e la sicurezza. A Helsinki, è stata creata una

piattaforma che raccoglie e condivide informazioni sul traffico, incidenti,

lavori in corso e presenza di animali sulle autostrade (causa di centinaia di

incidenti stradali). La piattaforma è aperta alle imprese che usano la

funzione di geolocalizzazione per proporre le loro offerte aggiornate in

tempo reale;

gestione del traffico. A Minneapolis è stato introdotto il sistema MNPass,

che consiste nel variare in tempo reale le tariffe di circolazione su alcune

corsie preferenziali in modo da tenere la velocità delle corsie sempre a 50

miglia orarie; bus e mezzi pubblici non sono sottoposti a tariffa;

gestione dei parcheggi. A San Francisco, è stato sviluppato un sistema di

“parcheggio dinamico” in cui i sensori posizionati sulla strada segnalano

attraverso le reti wi-fi presenti nelle vicinanze la disponibilità di posteggio

e il prezzo orario del parcheggio oscilla a seconda delle disponibilità.

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Sono poi in fase di sviluppo importanti progetti come l’iniziativa europea di

chiamata di emergenza automatica, “e-Call”, per assicurare un’assistenza

rapida agli automobilisti coinvolti in un’incidente in tutta l’Unione Europea.

L’iniziativa si propone di distribuire un dispositivo installato in tutti i veicoli che

automaticamente è in grado di chiamare il numero di emergenza unico in caso di

un grave incidente stradale e di inviare in modalità wireless dagli airbag e dai

sensori, informazioni sull’impatto, così come le coordinate GPS alle agenzie di

emergenza locali.

3.4 La Smart Mobility in Italia

Il nostro Paese, sconta forti ritardi nella gestione del trasporto, che comportano

costi notevoli. Il costo della congestione urbana è stimato intorno ai 5 miliardi di

Euro l’anno,61 di molto superiore alla media europea; i gas inquinanti continuano a

superare le soglie di legge; gli incidenti non diminuiscono come dovrebbero.

Infine, nonostante siano presenti alcuni esempi di eccellenza nell’impiego urbano

di sistemi ITS, la penetrazione globale dei sistemi intelligenti è limitata (secondo

uno studio della Fondazione Energy Lab la copertura non sarebbe superiore al

10%); di particolare rilevanza, per la mobilità urbana, il ritardo nei sistemi di

gestione del traffico e del TPL più classici e basilari (sistemi semaforici, per il

TPL, per i parcheggi, la cui diffusione è “a macchia di leopardo” e molto limitata,

comunque tale da non reggere il confronto con la situazione in Germania, presa

come esempio comparativo). D’altro canto, il nostro Paese vede un’alta

penetrazione delle tecnologie ICT, in particolare delle comunicazioni mobili

(anche se è in ritardo sull’uso effettivo delle reti) e sta investendo sulle reti a

banda larga e sulla “digitalizzazione” dei servizi. Infine, le nostre città, ciascuna

con le sue particolari caratteristiche, con flussi turistici importanti, con una

popolazione che mostra esigenze e aspettative di maggior qualità dei trasporti,

soggette a rilevanti “shock” per la mobilità, dovuti a fenomeni di varia natura e

sempre più frequenti, sono le migliori candidate per usufruire di servizi di

61 FONDAZIONE CARACCIOLO F. (2014), “Muoversi meglio in città per muovere l’Italia”, ACI.

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mobilità personalizzati e adattati alle esigenze locali.

Nel nostro Paese, una smart mobility si può raggiungere attraverso cinque punti

chiave62 stilati da TTS Italia:

1. strade tecnologiche, che sappiano comunicare dati sui flussi di traffico,

interagire con i veicoli in uno scambio reciproco di informazioni, chiamare

in caso di emergenza, sanzionare le violazioni al codice della strada,

informare gli automobilisti delle condizioni della viabilità;

2. trasporto pubblico locale facile ed affidabile, con informazioni alle

fermate o nelle stazioni, biglietti acquistabili con lo smartphone;

3. sicurezza stradale più elevata, con semafori intelligenti, tutor,

monitoraggio del trasporto delle merci pericolose e aree sicure dove far

sostare i camion;

4. una piattaforma logistica nazionale;

5. sviluppo delle “connected car”, ovvero auto intelligenti in grado di

diventare sensori in movimento, il tutto accompagnato da una revisione

dell’architettura nazionale ITS (Sistemi di Trasporto Intelligenti).

In conclusione, la smart mobility è, oggi in Italia, una componente essenziale ed

abilitante per le “smart cities”. La mobilità di persone e merci è fattore

determinante per la vita delle città e dei cittadini; essa potrà essere garantita, nel

futuro prossimo, solo con l’impiego coordinato ed efficace delle nuove tecnologie,

accompagnando le tendenze sociali ed economiche in atto. Per altro, le tecnologie

ITS sono disponibili e la loro utilizzazione su larga scala è oggetto di uno sforzo

europeo imponente; il loro impiego nell’ambito dei progetti smart city vede

sinergie molto importanti: i nuovi servizi “smart city” possono ridurre e

qualificare meglio la domanda di mobilità. La smart mobility migliora

l’accessibilità, la connettività, l’inclusione delle fasce deboli; riduce emissioni

62 La Stampa, “TTS Italia propone 5 mosse per la smart mobility”, 2013.

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inquinanti e consumi energetici; migliora la qualità della vita urbana.

L’integrazione tra i vari servizi, la cooperazione, l’utilizzo integrato dei dati

moltiplicano gli effetti positivi e riducono i costi complessivi.

3.5 Smart City e Smart Mobility: due concetti inscindibili

Sempre più spesso si sente parlare di “smart city”. L’espressione rischia tuttavia di

restare generica e priva di una visione condivisa su scala mondiale. Difatti il

termine “smart” sta diventando una moda, una parola usata dagli addetti ai lavori

per rappresentare la possibilità di una migliore qualità dei servizi. La visione di

Smart City, in quanto città ideale, trae ispirazione dal Rinascimento, durante il

quale nacquero città con gli stessi principi di una smart city. La riflessione più

recente sulle smart city nasce, però, negli anni Novanta del secolo scorso ad opera

di tecnologi e uomini del marketing, in concomitanza con la liberalizzazione delle

telecomunicazioni e l’ascesa dei servizi Internet. Con il tempo, l’espressione

smart city è diventata sinonimo di una città caratterizzata da un uso intelligente ed

steso delle tecnologie digitali. L’affermazione di questa visione va di pari passo al

proliferare di antenne della telefonia mobile e wi-fi e alla realizzazione di reti

civiche da parte dei Comuni. Oggi, il concetto di smart city è entrato nelle agende

delle istituzioni, diventando oggetto di azioni e priorità delle politiche, anche

comunitarie, come un approccio in cui si integrano nuove tecnologie, nuove

metodologie e nuovi modelli di business.

Una città può essere classificata come smart city se gestisce in modo intelligente

le attività economiche, la mobilità, le risorse ambientali, le relazioni tra le

persone. In altre parole, una città po’ essere definita come “smart” quando gli

investimenti in capitale umano e sociale e nelle infrastrutture tradizionali

(trasporti) e moderne (ICT) alimentano uno sviluppo economico sostenibile ed

una elevata qualità della vita, con una gestione saggia delle risorse naturali.

La visione della città come smart city, prevede una serie d’innovazioni

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tecnologiche, atte a rendere la città in grado di offrire servizi innovativi grazie alla

capillare introduzione delle ICT in settori fino a poco tempo fa lontani da una

simile evoluzione. La definizione di una smart city si basa su alcuni indicatori che

rendono una città “smart”. Nello specifico si tratta:

� broadband: banda larga e ultra-larga fissa (ADSL, fibra) e mobile;

� smart health: prenotazione a pagamento del ticket e ritiro dei referti via

Web;

� smart education: diffusione di personal computer nelle scuole; aule

collegate a Internet;

� smart mobility: bigliettazione elettronica; digitalizzazione orari e

percorsi; servizi informativi all’utenza; varchi ZTL elettronici; pagamento

elettronico della sosta;

� smart government: servizi anagrafici; servizi per le scuole comunali;

pagamento on-line dei tributi locali o dei servizi per la scuola;

� mobilità alternativa: diffusione di auto elettriche e colonnine per la

ricarica; servizi comunali di “carpooling”; piste ciclabili;

� energie rinnovabili: energia prodotta attraverso pannelli fotovoltaici;

energia prodotta attraverso fonti eoliche;

� efficienza energetica: consumo di gas ed energia elettrica; politiche locali

per l’illuminazione pubblica;

� risorse naturali: diffusione della raccolta differenziata; impianti di

depurazione, consumo e dispersione dell’acqua.

In questo contesto, il modello delle città del futuro può basarsi sui servizi della

città suddivisi in tre gruppi differenti:

servizi di infrastrutture: servizi per gli edifici, i trasporti, la distribuzione

dell’acqua, dell’energia, il consumo energetico, l’infrastruttura per il

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trasporto dati e le telecomunicazioni;

servizi per la comunità: servizi che vengono pensati e fruiti per il

cittadino come la sanità, la cultura, l’educazione, commercio;

servizi non per la comunità: servizi dove l’ICT potrebbe portare ad un

aumento del livello sostenibile della città in termini di incremento della

qualità della vita. In questa categoria rientrano ad esempio i servizi

finanziari o nuovi concetti di business per incrementare o migliorare

l’offerta di lavoro.

La suddivisone dei servizi in queste categorie è spiegata dal fatto che la città, ha la

necessità di attrarre sia le persone sia nuovi concetti di business. Questo perché

molte persone si muovono verso la città per migliorare la propria vita. Ad esempio

per i giovani significa trovare un lavoro soddisfacente che piccoli centri non

offrirebbero, per gli anziani poter usufruire di strutture avanzate che permettono di

avere dei servizi sanitari non possibili in zone rurali.

3.5.1 La mobilità sostenibile in una Smart City

In una smart city ci si muove più razionalmente, si hanno più percorsi e mezzi a

disposizione per raggiungere la propria destinazione, si consumano meno risorse e

si riducono le emissioni tossiche. Recenti ricerche dimostrano come la messa a

sistema di investimenti tecnologici pregressi per la realizzazione di programmi di

smart mobility possa portare ad un incremento complessivo del 5% di PIL a

livello nazionale senza la necessità di mettere in cantiere investimenti per la

costruzione di nuove infrastrutture fisiche. Esistono in Italia numerosi esempi di

Intelligent Transportation System (ITS) attivi ed efficaci che devono essere

valorizzati e messi a sistema creando raccordi funzionali e offrendo loro più

ampia diponibilità di dati. Dati in possesso delle amministrazioni che devono

poter essere messi a disposizione dell’utenza attraverso l’elaborazione in tempo

reale dei sistemi informativi cittadini per risultare massimamente funzionali in

relazione all’applicazione nei contesti specifici. Visti gli ingenti risparmi che si

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potrebbero realizzare, i protagonisti del confronto attuale sul tema propongono la

creazione di un Fondo Nazionale di sostegno all’investimento per la realizzazione

di sistemi di collaborazione tra ITS efficienti. Investimenti che alimentino il

tessuto industriale dedicato e la componente accademico-scientifica coinvolta nei

processi di ricerca e sviluppo. Nelle città intelligenti si tratta di comprendere in

programmi complessivi le numerose tecnologie già esistenti: dai cruscotti di

controllo del traffico ai sistemi di pedaggio elettronico, dalle chiamate di

emergenza all’interpretazione dei dati provenienti dai sensori distribuiti lungo le

strade, dall’identità elettronica dei veicoli ai motori elettrici, ibridi, a biofuel o a

pile combustibili. A tal proposito un importante passo riguarda l’incentivazione e

l’incubazione di Start-Up orientate alla creazione di applicazioni per la mobilità

che possano ad esempio essere utilizzate dalle aziende di Trasporto Pubblico

Locale. Ciò consentirà di mantenere e sviluppare una rete di piccole e medie

aziende che possano operare nel segmento ITS, aziende in grado di collaborare

con università e centri di ricerca e di partecipare anche ad iniziative di grande

respiro sotto l’egida dei pochi attori nazionali, necessari per la realizzazione delle

grandi infrastrutture immateriali. L’integrazione di grandi infrastrutture

immateriali e applicazioni potrebbe favorire lo sviluppo di piattaforme davvero

efficaci per l’intermodalità, integrando i servizi TPL ferro/gomma con la mobilità

individuale sostenibile per giungere fino all’integrazione con gli spostamenti a

piedi e in bicicletta.

3.5.2 Torino Smart City

Innovazione sociale e smart city rappresentano un binomio inscindibile: due

concetti che in Italia sono stati legati con la linea di intervento sostenuta dal

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MUIR). Questa è stata

la strada intrapresa da Torino, che si dimostra una realtà sensibile ai temi

dell’innovazione diventando una tra le prime città a dotarsi di un piano strategico,

denominato “SMILE”, per fare della città una smart city. La Comunità Europea ha

cercato di definire una “città intelligente” come quella che gestisce in modo Smart

le attività economiche, la mobilità, l’ambiente, le relazioni tra le persone, le

politiche abitative e il governo della cosa pubblica. In particolare, la sfida per la

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maggior parte delle città è la riqualificazione e il risanamento dell’esistente. Il

primo step per costruire una smart city è l’ottimizzazione di risorse energetiche e

trasporti in modo che le aree metropolitane diventino più efficienti riducendo al

tempo stesso le riduzioni di emissioni di carbonio, l’inquinamento, la produzione

di rifiuti e la congestione del traffico. Il secondo passo, è l’introduzione di nuove

tecnologie per la gestione dei processi urbani. In Italia, Torino si colloca in una

buona posizione dal punto di vista dell’efficienza. Basti pensare, ad esempio, al

settore energetico, dove il capoluogo piemontese risulta migliore di altre

metropoli italiane soprattutto per la riqualificazione energetica del patrimonio

edilizio. Per rispondere poi ai problemi dell’inquinamento atmosferico, a causa

della posizione morfologica della città, l’area torinese si è concentrata soprattutto

su politiche di contenimento del traffico, tenendo conto dei livelli emissivi dei

veicoli. Nel 2010, il Comune di Torino ha adottato il Piano urbano della mobilità

sostenibile con l’obiettivo di giungere entro il 2020 ad una situazione di parità

nella ripartizione del traffico privato e dei mezzi pubblici. Dal 2000 al 2010, sono

anche aumentate nella città le piste ciclabili, facendo del capoluogo piemontese la

metropoli con la maggiore densità di piste in Italia. Nel 2010 è stato anche

inaugurato il servizio di bike sharing, chiamato “Tobike”, registrando un successo

superiore alle attese.

Torino, inoltre è stata anche una delle prime città a creare un programma urbano

di innovazione sociale, chiamato “Torino Social Innovation”. Questo programma

si propone di investire nei giovani innovatori sociali, sostenendoli in percorsi

imprenditoriali e nello sviluppo di creatività, competenze digitali, sensibilità per il

cambiamento e per generare soluzioni innovative. Per supportare la piattaforma di

Torin Social Innovation si è creato un network di partner pubblici e privati che

rappresentano l’ecosistema dell’innovazione sociale a Torino. Il network cerca di

riunire competenze ed esperienze con lo scopo di diffondere la cultura della social

innovation e promuovere un nuovo modo di innovare sul territorio. In più, il

programma aspira a sostenere con azioni di advisory tecnico63 e di supporto

finanziario nuove forme di economia collaborativa e lo sviluppo di progetti

imprenditoriali. Nell’ambito del programma Torino Social Innovation, per il

63 Per azioni di advisory tecnico si intendono le attività di consulenza relative al mercato di riferimento, alla fattibilità dell’idea e in generale al realizzazione di un business plan.

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periodo gennaio 2014 – dicembre 2015, la città ha lanciato il servizio “FaciliTO

Giovani”, finalizzato a promuovere circa trenta imprese attraverso servizi di

consulenza tecnica. I destinatari di questo servizio, sono i giovani under 40

intenzionati a sviluppare attività innovative di impresa a Torino, da cui la

comunità cittadina possa trarre beneficio. Gli obiettivi di FaciliTO Giovani,

abbracciano i principi della sharing economy e del co-working, mettendo in rete

attori geograficamente lontani e rispondendo con politiche mirate al fenomeno

della disoccupazione giovanile. In conclusione, questo progetto a favore di

imprese promosse da giovani innovatori sociali rappresenta un esempio di buona

policy con cui sperimentare nuovi modelli di innovazione sociale, generando

anche impatti positivi nella città.

3.6 Strategie di marketing e di comunicazione sulla mobilità sostenibile

Non è sufficiente sviluppare delle iniziative a favore della mobilità sostenibile se

poi queste restano nell’ombra. Come ogni nuovo prodotto, anche gli interventi

innovativi necessitano della loro dose di pubblicità. Il marketing e la

comunicazione sono strumenti strategici per contattare i cittadini e indurli con

successo a mettere in atto dei comportamenti mirati. Sempre di più si vanno

consolidando esperienze di comunicazione e marketing urbano, il cui più

immediato obiettivo è attivare e sensibilizzare la gente. I mass media hanno di

certo i mezzi per puntare i riflettori sul concetto di mobilità sostenibile e sulle

iniziative che la promuovono. Per loro costituzione, questi permettono di

diffondere il messaggio ad un’ampia pluralità di individui simultaneamente. Tra i

grandi mezzi di comunicazione di massa ci sono, solo per dirne alcuni, la

televisione, i giornali, la radio, il cinema e anche gli stessi manifesti pubblicitari

che tappezzano le strade delle città. Ma oggi come oggi, forse internet è quello più

rappresentativo della società moderna. Nell’era del web 2.0 la comunicazione si è

davvero evoluta. Come parlare allora di mobilità sostenibile?

Parlare di mobilità sostenibile vuol dire per prima cosa diffondere l’ideologia che

ne è alla base. L’obiettivo, quindi, è quello di promuovere questa mobilità

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alternativa cercando di indurre l’adozione di nuovi stili di vita più responsabili e

di stimolare la riflessione. Navigando in internet è facile trovare siti che

rimandano al tema del trasporto ecosostenibile e che spieghino al dettaglio le

diverse iniziative a disposizione del cittadino. Come già accennato, sia per il “car

sharing” che per il “car pooling” esistono dei veri e propri portali gratuiti in

internet che danno tutte le informazioni su come usufruire del servizio in ogni

città che aderisce all’iniziativa. Ad oggi, ci sono diverse associazioni a favore

della mobilità sostenibile. Si prenda il caso della bicicletta. È sempre maggiore

l’attenzione riservata a questa quale veicolo per la mobilità, un mezzo economico,

ecosostenibile e alternativo ai veicoli a motore. In Europa sono diversi i paesi che

aderiscono alla promozione della mobilità ciclabile. Per fare l’esempio di una

realtà non troppo lontana da quella italiana, si può considerare Parigi che, già dal

2007, ha avviato una rete capillare di parcheggi per il bike-sharing (stesso

principio del servizio relativo alle automobili) chiamata “Velib”, e la cui

promozione è dislocata in vari punti della città. Anche in Italia alcune città di

medie dimensioni usufruiscono della bicicletta, ma non siamo al passo con lo

standard europeo. Tuttavia, ci sono delle associazioni come la FIAB (Federazione

Italiana Amici della Bicicletta), che hanno proposto “Biciplan”. Questo è un

servizio di cui l’amministrazione comunale si è dotata allo scopo di potenziare in

città la mobilità ciclabile per dare una risposta concreta alla necessità di mobilità

alternativa. “Biciplan” promuove il marketing dell’uso della bici, individua

obiettivi, strategie, azioni e forme di monitoraggio. In pratica si tratta di uno

strumento di comunicazione per motivare il ciclista; non si tratta solo di offrire il

servizio, ma anche di invogliare il cittadino ad usufruirne. Tutto ciò avviene in

diversi comuni e con diverse strategie comunicative.

Per quanto riguarda la comunicazione sulla mobilità sostenibile, promuovere la

bicicletta può essere più semplice, si può sfruttare lo stereotipo della bici come

attività ricreativa o mezzo per fare attività sportiva. La mobilità alternativa, seppur

preveda dei vantaggi ad uso sia della collettività sia del singolo, comporta anche

qualche sacrificio personale nell’essere abbracciata come stile comportamentale.

Rinunciare al mezzo privato significa in qualche modo rinunciare ad una certa

indipendenza personale, cosa che può rendere le persone tanto restie fino a farle

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desistere. Ed è per questo che è necessario informare i cittadini su quelli che sono

invece i vantaggi. Un’altra possibilità che potrebbe aiutare a perorare la causa

della mobilità sostenibile, è l’educazione ambientale. Quest’ultima, deve puntare

alla sensibilizzazione a comportamenti corretti e responsabili dal punto di vista

etico-civile per evitare i pericoli nel rispetto delle norme di sicurezza. Un ulteriore

obiettivo educativo specifico deve orientarsi alla maturazione della

consapevolezza che alcuni atteggiamenti di natura psicologica nel rapporto uomo-

macchina (narcisismo, istinto di potenza) sono negativi. L’educazione ambientale

deve puntare soprattutto sulle giovani generazioni, per fargli acquisire anche una

cognizione dei fattori patologici che possono causare pericoli e danni alla

circolazione stradale (droga, alcolismo). La mission educativa è quella di

infondere una rinnovata cultura della mobilità fondata sui principi socio-

ambientali per permettere al cittadino di scegliere un nuovo modo di muoversi da

un punto all’altro della città anche modificando abitudini consolidate nel rispetto

di un ambiente che è di tutti. E’ necessario, quindi, che la comunicazione si

focalizzi su iniziative che stimolino l’uso quotidiano delle forme della mobilità

alternativa, con l’ausilio di strategie pubblicitarie incisive e creative. Un obiettivo

è cercare di cambiare le abitudini di trasporto dei cittadini con la progettazione di

campagne pubbliche che siano in grado di promuovere le attività e i servizi a

favore del sostenibile.

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CAPITOLO 4

LA MOBILITÀ SOSTENIBILE NEL QUADRO NORMATIVO

4.1 La mobilità sostenibile: la visione comunitaria

A livello comunitario, la mobilità sostenibile è stata oggetto di una crescente

attenzione negli ultimi dieci anni. Data ormai per acquisita la centralità e la

rilevanza dei trasporti nel processo di creazione e di consolidamento dell’Unione

Europea e del mercato unico, è stata proprio la preoccupazione per

l’insostenibilità dell’attuale modello di organizzazione del settore e il

riconoscimento dell’inefficacia delle misure poste in essere a motivare la

ridefinizione delle politiche in ambito comunitario, attraverso una nuova serie di

interventi succedutisi soprattutto a partire dal 2006.

La normativa europea in materia di mobilità sostenibile si basa su 4 fattori

essenziali:

miglioramento della qualità dei combustibili;

differenziazione delle fonti energetiche usate nel campo dei trasporti;

miglioramento degli standard emissivi;

promozione di buone pratiche.

Relativamente al tema dei trasporti e della mobilità sostenibile in ambito urbano la

strategia dell’Unione Europea si esprime attraverso la pubblicazione di documenti

di indirizzo e orientamento delle politiche in materia.

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In particolare il Libro Bianco del 2001 individua un vero e proprio programma di

azioni e una serie di misure scaglionate nel tempo, spostando il centro

dell’attenzione sulla problematica degli impatti economici, ambientali e sociali di

una mobilità in continua crescita. Le misure identificate dal Libro bianco sono

attuate in gran parte a livello comunitario; tuttavia, ove possibile, nel rispetto del

principio di sussidiarietà, le politiche spettano ai livelli inferiori: nazionale,

regionale e locale.

Dal 2001 sono state adottate importanti proposte legislative che sono in corso di

attuazione, come ad esempio: l’apertura del trasporto ferroviario di merci alla

concorrenza, il miglioramento delle condizioni sociali nell'autotrasporto, la

definizione dei progetti e della rete prioritaria transeuropea Ten-t64, l’istituzione

del Cielo unico europeo, il rafforzamento dei diritti dei passeggeri aerei, la nuova

direttiva sulla tassazione delle strade. La maggior parte delle misure descritte nel

Libro bianco del 2001 sono state proposte o adottate.

Tuttavia, uno degli obiettivi proposti è quello di porre gli utenti al centro della

politica dei trasporti attraverso le seguenti misure:

aumento della consapevolezza da parte degli utenti del costo dei trasporti

(politica di tariffazione dell’uso delle infrastrutture);

aumento della sicurezza del trasporto stradale;

diffusione di pratiche quali l’intermodalità del trasporto passeggeri e la

razionalizzazione del trasporto urbano.

Il documento “Mantenere l’Europa in movimento - Una mobilità sostenibile per il

nostro continente”, riesame intermedio del Libro Bianco 2001, pone l’accento,

invece, sulla necessità di un approccio complessivo e di sistema nei confronti

della politica dei trasporti in grado di limitare gli impatti negativi. In particolare, il

documento evidenzia una serie di temi prioritari, su cui l’Unione europea e i

governi nazionali e locali devono intensificare gli sforzi nei prossimi anni. Questi

64 Commissione delle Comunità Europee (2009), Libro Verde – Ten-t: riesame della politica. Verso una migliore integrazione della rete transeuropea di trasporto al servizio della politica comune dei trasporti, COM, Bruxelles.

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temi sono:

� la mobilità sostenibile nel mercato interno all’UE;

� la mobilità sostenibile delle persone in ambito urbano;

� l’ottimizzazione delle infrastrutture e dei sistemi di trasporto intelligenti.

L’interesse Europeo per una mobilità urbana sostenibile, viene rafforzato nel 2007

con la pubblicazione da parte della Commissione Europea del Libro Verde sullo

specifico tema della mobilità urbana.

Nel Libro Verde si sostiene che l’implementazione di una strategia basata su

soluzioni condivise a livello europeo può favorire le economie di scala e

rimuovere gli ultimi ostacoli alla costituzione del mercato comune; mentre la non

sostenibilità dei grandi agglomerati urbani sarebbe un serio impedimento per il

raggiungimento dei target europei in materia di sviluppo sostenibile, e come tale

non può essere ignorato. In questa prospettiva, le città europee devono affrontare

cinque sfide:

� per un traffico scorrevole nelle città. La congestione del traffico

cittadino è uno dei problemi maggiormente presenti nelle città europee.

Non esiste un’unica soluzione al problema della congestione: in generale,

si dovrebbe promuovere un uso più moderato dei veicoli privati e dei

veicoli per il trasporto delle merci, rendendo al contempo più attraenti e

sicure le alternative all’uso dell’automobile privata, come spostarsi a piedi,

in bicicletta, con i mezzi pubblici;

� per una città più pulita. I problemi ambientali predominanti nelle città

sono riconducibili all’uso prevalente di carburanti derivati dal petrolio,

responsabili delle emissioni di CO2 e di inquinanti atmosferici, nonché del

rumore. Il Consiglio europeo ha fissato come obiettivo una riduzione del

20% delle emissioni di gas serra entro il 2020: per raggiungere tale

obiettivo, è necessario il contributo di tutte le fonti, anche del trasporto

urbano;

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� per un trasporto urbano più intelligente. La mancanza di spazio e i

vincoli ambientali non permettono di espandere illimitatamente

l’infrastruttura necessaria per far fronte alla crescita del flusso veicolare. I

sistemi di trasporto intelligenti (ITS) possono essere più sfruttati ai fini di

una gestione efficiente della mobilità urbana. Le possibilità consistono nel

miglioramento dei sistemi di informazione e assistenza (informazioni ai

viaggiatori sui modi di trasporto, tempi di viaggio, etc; gestione delle flotte

di veicoli di trasporto pubblico e commerciali) e nell’introduzione di

“smart payment systems”, sistemi di tariffazione intelligente;

� per un trasporto urbano accessibile. Accessibilità significa garantire un

accesso di qualità, per le persone e le imprese, al sistema di mobilità

urbana nella sua duplice componente di infrastruttura e di servizio, con

particolare attenzione alle persone disabili o a mobilità ridotta e alle classi

sociali più disagiate;

� per un trasporto urbano sicuro. Data l’entità dell’incidentalità stradale,

specie nelle aree urbane, la politica della sicurezza stradale deve costituire

uno dei pilastri della sostenibilità della mobilità urbana.

Nel giugno del 2010, il Consiglio Europeo ha varato una nuova strategia che

intende porre le basi per una crescita intelligente, sostenibile e solidale

dell’Unione Europea. Tale strategia prevede un’economia fondata su tre pilastri

che nell’intento comunitario risultano tra loro strettamente connessi, ovvero:

� un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, mediante la

promozione dell’istruzione, della ricerca/innovazione e dell’uso delle

tecnologie dell'informazione e della comunicazione;

� un’economia competitiva, efficiente nell’utilizzo delle risorse e

caratterizzata da basse emissioni di carbonio, mediante la riduzione delle

emissioni, la tutela dell’ambiente e della biodiversità, lo sviluppo di nuove

tecnologie e metodi di produzione verdi, la promozione di reti elettriche

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intelligenti e efficienti e il sostegno a piccole e medie imprese e

consumatori;

� un’economia in grado di assicurare elevata occupazione e coesione sociale

e territoriale, mediante l’aumento del tasso di occupazione, la

modernizzazione dei mercati del lavoro e dei sistemi previdenziali e

l’estensione dei benefici della crescita a tutte le parti dell'UE.

Per ciascun pilastro sono definite specifiche iniziative prioritarie, oltre che degli

obiettivi quantitativi complessivi utili al monitoraggio e alla misurazione dei

progressi compiuti lungo il percorso delineato dalla strategia “Europa 2020”.

Con specifico riferimento al secondo pilastro (quello della crescita sostenibile),

l’intento dell’Unione Europea è di disgiungere la crescita economica dal consumo

di risorse e di energia, di ridurre le emissioni di gas serra e di promuovere una

maggiore competitività e sicurezza dell’offerta di energia. Sotto questo profilo, la

strategia Europa 2020 fa propri gli obiettivi da conseguire entro il 2020 approvati

nel corso del 2008 nell’ambito del cosiddetto “pacchetto clima-energia”:

a) riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 20% (o persino del 30%,

a condizione che si raggiunga un accordo internazionale soddisfacente);

b) una quota del 20% di energia prodotta da fonti rinnovabili sui consumi

finali di energia;

c) un risparmio del consumo di energia primaria del 20% mediante la

promozione dell'efficienza energetica.

4.1.1 Il pacchetto “clima-energia” dell’Unione Europea

Rispetto alle finalità di riduzione delle emissioni e di promozione delle fonti

rinnovabili di energia, il pacchetto clima-energia prevede in particolare:

1. la modifica e il rafforzamento del sistema europeo di scambio delle

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emissioni (EU-ETS). Dal 2013 è infatti operativo un sistema unitario a

livello europeo per l’allocazione dei permessi di emissione il cui numero

disponibile per le imprese sarà ridotto annualmente fino al 2020 per

conseguire un livello del 21%. Si prevede inoltre il progressivo passaggio

da un sistema di allocazione gratuita dei permessi ad un sistema di aste e

l’incremento dei settori e dei gas climalteranti partecipanti all’EU-ETS;

2. la definizione di target vincolanti a livello di singoli Stati membri

(cosiddetta “Effort Sharing Decision”) per la riduzione delle emissioni di

gas climalteranti nei settori non compresi nel sistema EU-ETS, quali

trasporto, residenziale, agricoltura e rifiuti. L’obiettivo comunitario riferito

alle emissioni di tali settori è fissato in una riduzione entro il 2020 del

10%;

3. la definizione di obiettivi vincolanti a livello di singoli Stati membri con

riferimento alla quota di energia prodotta da fonti rinnovabili rispetto ai

consumi finali. Si definisce poi un sotto-obiettivo vincolante e uniforme

per tutti gli Stati membri per il settore dei trasporti. Dovrà essere infatti

conseguita una quota di consumo di biocombustibili (per i quali sono

inoltre fissati criteri di sostenibilità ambientale) pari almeno al 10%;

l’introduzione di un quadro normativo utile alla promozione e allo

sviluppo dello stoccaggio geologico di biossido di carbonio (Carbon

Capture and Storage).

L’obiettivo dell’efficienza energetica è stato invece affrontato all’inizio del 2011

nell’ambito delle azioni previste per attuare l’iniziativa di un’Europa efficiente

nell'impiego delle risorse, a loro volta connesse con la strategia Europa 2020. Il

riferimento è in particolare alla proposta di “Direttiva sull'efficienza energetica” e

al “Piano di efficienza energetica 2011”. Nella medesima prospettiva, l’Unione

Europea ha rilanciato i propri obiettivi estendendoli oltre il 2020 e definendo una

serie di azioni generali e settoriali per conseguire una riduzione delle emissioni di

gas a effetto serra di una percentuale compresa fra l'80 e il 95% entro il 2050.

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4.1.2 Il Piano d’azione sulla mobilità urbana

Con il suo piano d'azione (2009), la Commissione europea presenta per la prima

volta un programma globale di sostegno per la mobilità urbana. Le autorità locali,

regionali e nazionali possono beneficiare di tale programma di sostegno e degli

strumenti che verranno offerti. Il loro utilizzo permetterà di affrontare la sfida

della mobilità urbana sostenibile e facilitare il processo decisionale politico.

Inoltre, i cittadini e le imprese europee beneficeranno del programma di sostegno

su base giornaliera. In quest’ultimo si individuano alcuni ambiti di intervento

verso i quali orientare le future azioni in ambito comunitario:

� la promozione dell’integrazione fra politiche di mobilità urbana e politiche

di utilizzo del territorio, di accessibilità, di tutela ambientale e la politica

industriale; attenzione sui bisogni dei cittadini promuovendo informazioni

affidabili sui viaggi, nonché un elevato livello di tutela dei diritti dei

passeggeri;

� promozione di nuovi trasporti urbani non inquinanti introducendo nuove

tecnologie pulite e carburanti alternativi, nonché promuovendo la

tassazione intelligente per incoraggiare gli utenti a cambiare le loro

abitudini in materia di trasporti;

� il rafforzamento dei finanziamenti;

� l’ottimizzazione della mobilità in ambito urbano mediante

l’efficientamento della logistica per il trasporto di merci di lunga distanza

in città e lo sviluppo delle applicazioni dei sistemi di trasporto intelligenti

(STI);

� migliorare la sicurezza stradale, specialmente a favore degli utenti della

strada vulnerabili quali giovani e anziani;

� incoraggiare la condivisione di esperienze e conoscenze per permettere un

miglior accesso a queste informazioni e aiutare gli interessati a fare tesoro

di tali esperienze, nonché dei dati e delle statistiche.

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L’orientamento descritto viene dunque rafforzato e consolidato nell’ultimo Libro

Bianco. Nell’intento comunitario, le città dovrebbero costituire il terreno

privilegiato entro cui sperimentare nuovi modelli di organizzazione del trasporto e

di sviluppo e dimostrazione di soluzioni tecnologiche innovative per la mobilità,

anche al fine di accelerarne l’eventuale commercializzazione.

4.1.3 Gli obiettivi del Libro Bianco del 2011

In linea con le descritte finalità generali in materia di riduzione delle emissioni e

di contenimento dei consumi energetici il recente Libro Bianco “Tabella di marcia

verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti

competitiva e sostenibile” definisce alcuni obiettivi specifici per il settore dei

trasporti da conseguire su un duplice orizzonte temporale, ovvero entro il 2030 ed

entro il 2050. Ci si riferisce in particolare a:

� entro il 2050, riduzione di almeno il 60% delle emissioni di gas serra

rispetto ai livelli del 1990;

� entro il 2030, riduzione del 20% delle emissioni di gas serra rispetto ai

livelli del 2008.

Sono inoltre fissati una serie di sotto-obiettivi funzionali al conseguimento delle

finalità indicate di riduzione delle emissioni di gas serra:

dimezzamento entro il 2030 e successiva eliminazione entro il 2050 dell’uso delle

autovetture “alimentate con carburanti tradizionali” nei trasporti urbani;

1. definizione di un sistema di logistica urbana a zero emissioni di CO2 entro

il 2030 nelle principali città;

2. utilizzo entro il 2050 del 40% di carburanti a basso tenore di carbonio nel

settore dell’aviazione;

3. riduzione sempre entro il 2050 delle emissioni di CO2 provocate dagli oli

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combustibili utilizzati nel trasporto marittimo;

4. trasferire il 30% entro il 2030 e successivamente il 50% entro il 2050 del

trasporto merci su strada con percorrenze superiori a 300 km verso altri

modi (come la ferrovia o le vie navigabili) anche grazie alla realizzazione

di infrastrutture adeguate alla creazione di corridoi merci efficienti ed

ecologici;

5. completamento entro il 2050 della rete ferroviaria europea ad alta velocità,

triplicandone l’estensione entro il 2030, con l’obiettivo di consentire che la

maggior parte del trasporto di passeggeri sulle medie distanze avvenga per

ferrovia;

6. collegamento entro il 2050 dei principali aeroporti alla rete ferroviaria (di

preferenza ad alta velocità), dei principali porti marittimi al sistema di

trasporto merci per ferrovia e, se possibile, alle vie navigabili interne;

7. definizione entro 2020 di un quadro per un sistema europeo di

informazione, gestione e pagamento nel settore dei trasporti multimodali;

8. dimezzamento del numero di vittime entro il 2020 e “azzeramento” entro

il 2050;

9. piena applicazione dei principi "chi utilizza paga" e "chi inquina paga" e

coinvolgimento del settore privato nel finanziamento degli investimenti

futuri.

In relazione invece ai veicoli alternativi, è solo recentemente che si è cominciato a

riflettere sulla necessità di un quadro comune in materia di mobilità elettrica.

La recente Comunicazione “Una strategia europea per i veicoli puliti ed efficienti

sul piano energetico”, prevede infatti una serie di azioni con riferimento specifico

alla mobilità elettrica fra le quali l’introduzione di requisiti di sicurezza per

l'omologazione dei veicoli elettrici e di un'interfaccia standardizzata di ricarica,

verificando inoltre la coerenza fra la promozione dei veicoli elettrici e la

produzione di energia elettrica aggiuntiva a basso contenuto di carbonio. La stessa

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comunicazione prevede inoltre che siano elaborate una strategia di ricerca a lungo

termine per le tecnologie dei trasporti, delle linee guida sugli incentivi finanziari

all’acquisto dei veicoli verdi al fine di favorirne l’assorbimento sul mercato e

delle azioni specifiche in materia di concorrenza fra produttori di autovetture,

anche rispetto alle possibili ricadute in termini occupazionali.

È consolidata invece l’attenzione rivolta alla riduzione dei consumi e delle

emissioni specifiche del parco veicolare in esercizio (non solo stradale ma anche

aereo, marittimo e ferroviario).

Il Regolamento (UE) n. 443/2009 e il Regolamento (UE) n. 510/2011 fissano

rispettivamente per le autovetture di nuova fabbricazione e per i veicoli

commerciali leggeri i livelli di prestazione in materia di emissioni. Per il

complesso delle autovetture nuove, il primo Regolamento definisce un obiettivo

di 120 grammi di anidride carbonica per km per il nuovo parco auto e introduce

un limite medio di 130g di CO2/km a partire dal 2015. È inoltre previsto che il

livello medio di emissioni da rispettare scenda a 95g di CO2 a partire dal 2020.

Per i veicoli commerciali leggeri (Regolamento n. 510/2011) il limite è invece

fissato in 175 grammi di CO2/km a partire dal 2017. Anche in questo caso il

limite sarà introdotto progressivamente e, a condizione che sia fattibile,

ulteriormente ridotto a 147 grammi di CO2/km a decorrere dal 2020. Si tratta di

limiti che vanno peraltro letti congiuntamente agli standard, denominati “Euro”,

che regolano le emissioni di inquinanti come il particolato e gli ossidi di azoto. I

limiti “Euro 6” (Regolamento n. 715/2007) per le automobili e i furgoni sono già

stati applicati a partire dal 2014.

Sempre in relazione alla riduzione delle emissioni dei singoli veicoli, un esplicito

contributo è richiesto anche al settore pubblico. La Direttiva 2009/33/CE relativa

alla promozione di veicoli puliti e a basso consumo energetico nel trasporto su

strada negli appalti pubblici, impone infatti a enti pubblici e operatori che

assolvono obblighi di servizio pubblico nel quadro di un contratto di servizio di

tener conto, al momento di aggiudicare appalti per veicoli adibiti al trasporto,

dell’impatto di tali veicoli, nell’arco della loro vita utile, in termini di consumo

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energetico, emissioni di CO2 e altre sostanze inquinanti.

4.2 La normativa italiana

Nel nostro Paese il tema della sostenibilità si è progressivamente fatto spazio

nell’ambito della normativa e degli strumenti di pianificazione sui trasporti e sulle

infrastrutture. Il quadro normativo attuale è tuttavia il frutto di un insieme

piuttosto ampio e variegato di misure difficilmente riconducibili ad unitarietà. Su

un simile stato di cose pesa senza dubbio sia l’assenza di una strategia unitaria e

di un progetto condiviso e autonomo rispetto agli impegni via via assunti in

ambito comunitario e internazionale sia la discontinuità delle iniziative poste in

essere, caratterizzate in molti casi da un’ottica di intervento di natura

emergenziale che ha senza dubbio ostacolato l’acquisizione da parte di individui e

imprese di una cultura della sostenibilità e di una maggiore consapevolezza

dell’impatto dei propri comportamenti.

La normativa italiana sulla mobilità sostenibile mira a favorire l'attuazione di

interventi e progetti integrati relativi alle diverse componenti della mobilità e del

trasporto come, per esempio, la modifica della domanda di trasporto, il

potenziamento e il cambiamento dell'offerta di trasporto pubblico, gli incentivi

all'utilizzo di carburanti a basso impatto ambientale e al rinnovo del parco

veicolare, lo sviluppo dell’intermodalità e la promozione di iniziative di

sensibilizzazione come le “Domeniche ecologiche”.

I primi provvedimenti normativi sono relativi al settore della pianificazione dei

trasporti. Dopo la Circolare n. 2575 del 08/08/86 in materia di “disciplina della

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circolazione stradale nelle zone urbane ad elevata congestione del traffico

veicolare” e la Circolare n. 1196 del 28/05/91 in materia di “indirizzi attuativi per

la fluidificazione del traffico urbano, anche ai fini del risparmio energetico”, è

con l'art. 36 del d.lgs. n. 285/92 che vengono imposti i Piani Urbani del Traffico

(PUT). La Legge dispone l'obbligo di realizzazione e adozione dei PUT ai

Comuni con popolazione superiore ai 30.000 abitanti o, se inferiore, caratterizzati

da considerevoli problemi di congestione della circolazione. Obiettivi dei Piani

Urbani del Traffico sono il miglioramento delle condizioni di circolazione e della

sicurezza stradale, la riduzione dell'inquinamento acustico ed atmosferico ed il

risparmio energetico. I PUT vengono realizzati in un arco temporale di breve

periodo e con un impegno economico limitato, in quanto propongono interventi

basati sulle infrastrutture e sui mezzi di trasporto esistenti. I criteri e le indicazioni

per la realizzazione dei Piani Urbani del Traffico sono contenuti nelle Direttive

del Ministero dei Lavori Pubblici emanate nel 1995, che definiscono anche le

funzioni e le attività dell'Ufficio tecnico del traffico. Il PUT si articola secondo tre

distinti livelli:

� un livello generale, costituito dal piano generale del traffico urbano

(PGTU), che può anche essere e- steso ad un consorzio di comuni e deve

essere redatto in una scala compresa tra 1:25.000 e 1:5.000;

� un livello particolareggiato, costituito dai piani particolareggiati del

traffico urbano (PPTU), “intesi quali progetti di massima per

l’attuazione del PGTU, relativi ad ambiti territoriali più ristretti di quelli

dell’intero centro abitato, quali – a seconda delle dimensioni del centro

medesimo – le circoscrizioni, i settori urbani, i quartieri o le singole zone

urbane (anche come fascia di influenza dei singoli itinerari di viabilità

principale), e da elaborare secondo l’ordine previsto nell’anzidetto

programma generale di esecuzione del PGTU”;

� un livello esecutivo, costituito dai piani esecutivi del traffico urbano

(PETU), «intesi quali progetti esecutivi dei Piani particolareggiati del

traffico urbano. Detti Piani esecutivi definiscono completamente gli

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interventi proposti nei rispettivi Piani particolareggiati, quali – ad esempio

– le sistemazioni delle sedi viarie, la canalizzazione delle intersezioni, gli

interventi di protezione delle corsie e delle sedi riservate e le indicazioni

finali della segnaletica stradale.

Un importante crocevia dello sviluppo legislativo coincide con l'emanazione del

D. M. 27/03/1998 (Decreto Ronchi). Tale Decreto, accanto all'obbligo di

risanamento e tutela della qualità dell'aria imposto alle Regioni e all'incentivo allo

sviluppo del taxi collettivo, introduce la figura del “mobility manager”. Il Decreto

dispone, inoltre, l'obbligo per le pubbliche Amministrazioni, ma anche per i

gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, di prevedere una quota di veicoli a

basso impatto ambientale (come i veicoli elettrici e a gas) nel rinnovo del parco

veicolare.

È grazie a tale Decreto, pertanto, che si afferma il concetto di “mobility

management” in Italia, imponendo nelle aree soggette a forti flussi di traffico e

quindi a rischio di inquinamento atmosferico, a tutte le aziende private e

pubbliche con più di 300 dipendenti per unità locale oppure con un numero

complessivo di 800 dipendenti distribuiti in sedi diverse, o raggruppamenti di

aziende più piccole, di gruppi scolastici e di poli ospedalieri, l'obbligo di adottare

un Piano degli Spostamenti Casa-Lavoro del personale dipendente dell’azienda

(PSCL), definendo la figura del “mobility manager aziendale” e disponendo

l'istituzione presso i Comuni di una struttura di supporto a tali responsabili della

mobilità aziendale. La figura del mobility manager aziendale ha il compito di

individuare strategie e interventi per la riduzione dell’uso del mezzo di trasporto

privato individuale e per una migliore organizzazione degli orari di lavoro per

limitare la congestione del traffico urbano attraverso la redazione del Piano degli

Spostamenti Casa- Lavoro del personale dipendente dell’azienda (PSCL). Le

aziende coinvolte dal Decreto devono trasmettere i PSCL ai Comuni interessati

entro il 31 dicembre di ogni anno ed entro i successivi 60 giorni il comune stipula

con l'impresa o l'ente pubblico proponenti eventuali accordi di programma per

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l'applicazione del PSCL medesimo. Il PSCL è aggiornato con un rapporto annuale

che deve contenere la descrizione delle misure adottate ed i risultati raggiunti.

Ad integrazione del D. M. 27/03/98, il D. M. 20/12/2000 definisce il responsabile

delle suddette strutture di supporto e coordinamento come il “mobility manager

d'area”. Quest’ultimo, di nomina comunale e istituito presso gli Uffici Tecnici del

Traffico, ha il compito di introdurre e promuovere le iniziative di mobilità urbana

(mobility management) per migliorare la mobilità sistematica nell'intera area di

riferimento, mantenere i collegamenti con gli enti locali e le aziende del trasporto

pubblico, procedere alla ricognizione territoriale delle aziende che per legge sono

tenute a presentare il PSCL dei dipendenti e a monitorarne i risultati.

La Legge n. 340/00 all’art.22 istituisce un nuovo strumento per la pianificazione

della mobilità urbana, il Piano Urbano di Mobilità (PUM). Sono interessati alla

predisposizione del PUM, al fine di accedere ai finanziamenti statali, i singoli

Comuni con più di 100.000 abitanti ma anche aree territoriali più vaste (ad

esempio l'aggregazione di più Comuni limitrofi con più di 100.000 abitanti in

totale). Il PUM è definito come un “progetto del sistema mobilità” comprendente

un insieme di interventi infrastrutturali, tecnologici, organizzativi e gestionali

come, a titolo di esempio, quelli sulle strade e sui parcheggi di interscambio, sul

governo della domanda di trasporto, sui sistemi di regolazione e controllo del

traffico e sull'informazione all'utenza. A differenza dei PUT, i PUM coprono un

arco temporale di medio-lungo periodo e, pertanto, si integrano pienamente con i

primi.

A queste norme di carattere strutturale sono seguiti interventi di finanziamento e

incentivazione degli interventi indicati. L'iniziativa delle “Domeniche

ecologiche”, avviata dal Ministero dell'Ambiente nel 2000, è stata seguita da una

serie di decreti per il cofinanziamento di progetti rivolti, da un lato alla

sensibilizzazione e all'informazione dei cittadini in materia di mobilità sostenibile

e dall'altro alla diffusione di sistemi di mobilità sostenibile, come i sistemi

automatizzati per il controllo del traffico nei centri urbani, la promozione dell'uso

di combustibili e carburanti a basso impatto ambientale, e l'applicazione del “road

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pricing”.

Un altro tema di rilevanza nazionale nell'ambito delle politiche di mobilità

sostenibile è il car-sharing, ossia il sistema di trasporto pubblico basato sull'uso

collettivo di un certo numero di veicoli dietro pagamento di una quota

proporzionale al tempo d'uso e ai chilometri percorsi. È ancora il Decreto Ronchi

a costituire la prima manifestazione d'interesse a livello normativo per questa

forma innovativa di trasporto e sempre nel 1998 il Ministero dell'Ambiente

individua il “Programma Nazionale di Car-Sharing” come prioritario inserendolo

tra quelli finanziati nell'ambito del Programma Stralcio di Tutela Ambientale. Nel

2000, ai fini dell'attuazione delle attività previste nel Protocollo d'intesa del

26/01/00 tra il Ministero dell'Ambiente e 12 Comuni firmatari, viene costituita

l'Iniziativa Car-Sharing (ICS), struttura di coordinamento delle prime realtà locali

del car-sharing.

Nello stesso anno, con il D. M. 21/12/00 “Programmi radicali per la mobilità

sostenibile” vengono stanziati dal Ministero dell'Ambiente ulteriori fondi per la

promozione di interventi strutturali di mobilità sostenibile volti alla riduzione in

modo permanente dell'impatto ambientale da traffico urbano.

Il carattere di strutturalità del decreto è determinato dall'integrazione di interventi

operativi di mobilità sostenibile (road e area pricing, taxi collettivo, acquisto di

veicoli pubblici a basso impatto ambientale) con interventi volti a misurare i

benefici e valutare l'efficacia delle azioni intraprese (come l'ampliamento e/o

l'adeguamento tecnologico dei sistemi di monitoraggio degli inquinanti

atmosferici e lo sviluppo di modelli di correlazione tra dati di inquinamento

atmosferico e quelli pro- venienti dalla rilevazione del traffico veicolare), nonché

alla sperimentazione di nuove tecnologie in materia di riduzione delle emissioni.

Nel 2006, l'art. 1121 della Legge n. 296, istituisce il “Fondo per la mobilità

sostenibile”, con uno stanziamento di 90 milioni di euro per il triennio 2007- 2009

destinati agli interventi per il miglioramento della qualità dell'aria nelle aree

urbane e il potenziamento del trasporto pubblico. Tra le varie misure finanziabili

vi sono l'incentivazione dell'intermodalità, la realizzazione di percorsi protetti

133

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casa-scuola, la valorizzazione degli strumenti di mobility management e car-

sharing e la promozione di reti urbane per la mobilità ciclistica.

Altra area d'intervento in materia di mobilità sostenibile è quella sull'utilizzo della

bicicletta; la prima legge in materia di mobilità ciclistica è la n. 366 del 1998.

Questa legge finanzia la realizzazione, da parte degli enti locali e loro

associazioni, di interventi sia di tipo infrastrutturale (creazione di reti ciclabili e

cicolopedonali, parcheggi e centri di noleggio per biciclette) sia volti alla

diffusione della cultura del mezzo ciclabile come forma alternativa ai tradizionali

mezzi di trasporto (particolare attenzione è data all'aspetto dell'intermodalità con il

trasporto pubblico). Il già citato D. M. 21/12/00 “Programmi radicali per la

mobilità sostenibile” fissa, tra i progetti da ammettere al cofinanziamento, la

realizzazione o il miglioramento di flotte di biciclette di proprietà dei Comuni,

enti e gestori di servizi pubblici da destinare al noleggio nelle aree urbane (bike-

sharing). Più di recente, la già citata Legge n. 296 del 27/12/06 inserisce le

promozione di reti di mobilità ciclistica tra gli interventi finanziabili.

Nei paragrafi seguenti, le iniziative promosse nel corso degli ultimi anni sono

schematizzate sulla base delle principali finalità perseguite:

1. incentivo all’uso di veicoli ecologici;

2. le misure per il trasferimento modale;

3. promozioni di fonti rinnovabili di energia;

4. legge per la promozione del car-pooling.

134

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4.2.1 I veicoli ecologici espressione della mobilità sostenibile

Nella prima tipologia di iniziative possono essere fatte rientrare le misure di

incentivo all'acquisto di veicoli ecologici e alla rottamazione dei veicoli più

inquinanti, a loro volta riconducibili alle iniziative poste in essere nell’ambito del

Piano d’Azione Nazionale per l’Efficienza Energetica del 2007. Tale piano sulla

base di quanto previsto dalla Direttiva 2006/32/CE, delineava la politica italiana

per il raggiungimento degli obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica

per tutti i settori. Al fine di ridurre i consumi energetici del trasporto, il Piano

infatti, pur riconoscendo la necessità di operare sia sotto il profilo del

miglioramento delle tecnologie di trazione che nella prospettiva di una profonda

riorganizzazione delle modalità degli spostamenti prevedeva quale unica misura

l’implementazione delle politiche comunitarie in materia di riduzione delle

emissioni.

Il nuovo Piano d’Azione per l’Efficienza Energetica 2011 aggiorna i potenziali

risparmi energetici conseguibili all’implementazione del Regolamento

Comunitario CE 443/2009 che fissa un obiettivo medio di 120 grammi di anidride

carbonica per km per il nuovo parco auto. Sono tuttavia indicate ulteriori proposte

di intervento per migliorare l’efficienza energetica del settore trasporti con

particolare riferimento alla diffusione di veicoli stradali a basso consumo, al

potenziamento del trasporto pubblico su ferro in ambito urbano e alla promozione

del trasporto ferroviario di media e lunga percorrenza.

Con specifico riferimento alla diffusione dei veicoli stradali a basso consumo,

l’attenzione allo sviluppo dei veicoli elettrici è progressivamente cresciuta anche e

soprattutto sotto il profilo dell’opportunità di garantire un adeguato sviluppo delle

infrastrutture di ricarica.

La mobilità elettrica è infatti ritenuta un’opzione importante per favorire il

risparmio energetico, ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e le emissioni

di CO2 e di altri gas inquinanti specie nei centri urbani. La proposta di Legge n.

3553 presentata alla Camera dei Deputati il 17 giugno 2010 impegnava infatti il

Governo ad adottare provvedimenti per lo sviluppo delle reti di ricarica. Al

135

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contempo, l’Autorità dell’Energia Elettrica e il Gas (AEEG) è prima intervenuta a

regolare le modalità e la tariffa di connessione per la ricarica di veicoli elettrici in

ambito privato per poi introdurre ulteriori disposizioni al fine di favorire e

incentivare la sperimentazione del servizio di ricarica dei veicoli elettrici anche in

aree aperte al pubblico.

In ambito privato65, è stata infatti modificata la precedente normativa che,

stabilendo il principio dell’unicità della fornitura per unità immobiliare e tipologia

di contratto, ostacolava di fatto l’installazione di infrastrutture di ricarica nel caso

di aree condominiali destinate a parcheggio, aree destinate a parcheggio

appartenenti ad aziende, stabilimenti industriali e simili, nel caso fosse stato

necessario prevedere nella medesima unità immobiliare una pluralità di punti di

prelievo dalla rete con obbligo di connessione di terzi. L’attuale quadro

regolatorio prevede che si possano richiedere a un fornitore di energia elettrica più

punti di fornitura, ognuno con un contatore e dunque con condizioni economiche

di fornitura eventualmente diverse. L’utente è dunque libero di individuare il

prezzo di ricarica maggiormente conveniente sulla base delle offerte disponibili

sul mercato. Ai punti di ricarica destinati espressamente all'alimentazione di

veicoli elettrici è infine applicata la tariffa di trasporto già prevista per altri usi,

indipendentemente dal fatto che il richiedente sia un cliente domestico o meno.

4.2.2 Le misure per il trasferimento modale

In relazione all’obiettivo di trasferire quote crescenti di traffico passeggeri dalla

strada e dall’aereo verso la ferrovia e di traffico merci dal trasporto su gomma a

quello via ferro e via mare, le iniziative promosse si sono orientate sia

all’introduzione di specifici incentivi finalizzati, da un lato al sostegno del

trasporto combinato e trasbordato su ferro e agli investimenti delle imprese di

autotrasporto di merci (cosiddetto ferrobonus) e, dall’altro alla promozione del

trasporto navale in alternativa alla strada (cosiddetto ecobonus) e al

potenziamento delle dotazioni di infrastrutture alternative alla strada. 65 Deliberazione ARG/elt 56/10. Disposizioni in material di connessioni per l’alimentazione di pompe di calore a uso domestic e di veicoli elettrici.

136

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Sotto quest’ultimo profilo, vale la pena ricordare come attraversi la Legge n.

211/1992 prima e successivamente la Legge Obiettivo (Legge n. 433/2001) si è

inteso rilanciare la realizzazione di reti di trasporto rapido di massa a guida

vincolata in sede propria e di tramvie veloci a contenuto tecnologico innovativo e,

più in generale, la costruzione di specifici progetti infrastrutturali con l’intento di

favorire il trasporto pubblico e il decongestionamento dei principali sistemi

urbani.

Contestualmente, una serie di risorse sono state rese disponibili nell’ambito del

programma di finanziamenti per il miglioramento della qualità dell’aria nelle aree

urbane e per il potenziamento del trasporto pubblico (Legge n. 296 del 27

dicembre 2006) che istituiva un fondo destinato a finanziare una serie di interventi

attivati dagli Enti Locali finalizzati alla realizzazione nelle aree urbane di servizi e

di infrastrutture per il trasporto pubblico; al potenziamento e alla sostituzione

della flotta esistente con veicoli a basso impatto; al potenziamento

dell'infomobilità; alla razionalizzazione dei progetti di consegna merci e dei

parcheggi di interscambio e intermodalità; alla diffusione e all’utilizzo dei

carburanti a basso impatto ambientale e al potenziamento delle relative reti di

distribuzione; alla diffusione del mobility manager, dei servizi integrativi al

trasporto pubblico locale, quali ad esempio il car-sharing, il taxi collettivo, ecc.;

alla promozione della mobilità ciclistica; e, infine, alla realizzazione di interventi

specifici per accrescere la sicurezza degli utenti deboli.

4.2.3 Promozione di fonti rinnovabili di energia

Con riferimento alla promozione delle fonti rinnovabili di energia nel settore dei

trasporti, la normativa attuale prevede quale principale strumento per il

conseguimento del target vincolante (che si ricorda essere pari al 10% entro il

2020 dei consumi finali di energia) l’obbligo di immissione in consumo di una

quota minima di biocarburanti posto a carico dei fornitori di carburanti.

Come noto il rispetto dell’obbligo è monitorato e verificato attraverso il rilascio

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dei cosiddetti “certificati di immissione in consumo di biocarburanti” che, emessi

dal Ministero delle Politiche Agricole, avvalendosi dell’Agenzia per le Erogazioni

in Agricoltura (AGEA), attestano l’immissione in consumo di 10 Gcal di

biocarburante. I soggetti obbligati possono dunque assolvere all’obbligo loro

imposto sia direttamente che indirettamente acquistando, tramite contrattazioni

bilaterali, in tutto o in parte, l'equivalente quota o i relativi diritti da altri soggetti

che si trovino in condizione di surplus.

4.2.4 Legge n. 134/2012 per la promozione del Car pooling

Il nostro Paese è da sempre legato ad una solida tradizione motoristica e, in

particolare, le automobili rimangono in testa ai principali mezzi di trasporto scelti

per spostarsi nelle città della penisola 93%66. La maggioranza degli italiani

continua a considerare l’automobile personale come il mezzo di trasporto preferito

e, secondo una ricerca di Deloitte, due persone su tre hanno intenzione di

acquistarne una nei prossimi tre anni. Il tasso di motorizzazione e di pluri-

motorizzazione delle famiglie italiane è tra i più alti d’Europa: ciò significa che

l’automobile in Italia rimane un “bene passionale”, un bene che i privati

desiderano acquistare, possedere e mantenere a proprie spese. La crisi finanziaria

ha in parte però incrinato questa tendenza: i proprietari di automobili sono

diventati sempre più sensibili all’aumento dei prezzi del carburante, all’aumento

dei costi di parcheggio e alle imposizioni locali quali pedaggi e tasse sul traffico.

Una serie di fattori come la disponibilità di un considerevole parco auto private in

circolazione, l’aumento dei costi per il mantenimento dell’automobile e, non da

ultimo, la scarsità di risorse destinate al trasporto pubblico locale fanno dell’Italia

il Paese ideale per sperimentare nuove forme di mobilità, anche basate sulla con-

divisione dell’uso degli autoveicoli. Si tratta, in definitiva, di un’applicazione al

settore del trasporto della cosiddetta “sharing economy”, una forma di economia

della condivisione in via di diffusione soprattutto nei Paesi del nord Europa e

negli Stati Uniti d’America che, secondo economisti di fama internazionale,

rappresenta una rivoluzione che potrebbe addirittura mettere in discussione il

66 www.aci.it

138

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capitalismo.

Nel settore del trasporto, esistono già da diverso tempo iniziative rappresentative

del fenomeno che hanno anche il pregio di garantire una mobilità maggiormente

sostenibile. Si tratta del car sharing, ovvero l’uso, su prenotazione, di automobili

dislocate in precisi punti del territorio, del car pooling, ovvero la condivisione di

un’automobile privata da parte di un gruppo di persone che si muovono per

lavoro, studio o altre attività lungo lo stesso percorso e nei medesimi orari o,

ancora, del ride sharing, moderna rivisitazione dell’autostop. La conoscenza e la

diffusione di queste forme di sharing economy applicate alla mobilità è però in

Italia molto ridotta rispetto agli altri Paesi europei.

L’incentivazione di tali forme innovative di mobilità è fondamentale se

consideriamo che, nel 2050, secondo la FAO, il 70% della popolazione mondiale

vivrà nelle città, rispetto all’attuale 49%. In questa prospettiva è fondamentale

soprattutto sviluppare misure di car pooling e di ride sharing che, a differenza del

car sharing, si basano sulla condivisione del veicolo tra più utenti nello stesso

spazio arco-temporale, garantendo così un aumento del tasso di occupazione del

veicolo (coefficiente di riempimento) con tutto ciò che ne deriva.

La Legge n. 134/2012, si pone l’obiettivo di promuovere il car pooling e di

raggiungere grandi bacini di potenziali utenti quali possono essere gli enti

pubblici e le grandi aziende. Si punta, in pratica, a estendere l’ambito e gli

strumenti del decreto n. 179 del 27 marzo 1998 sulla mobilità sostenibile nelle

aree urbane. In quel caso, infatti, le previsioni erano destinate ad avere

un’efficacia limitata in alcune aree del Paese e a un ristretto numero di soggetti: le

disposizioni si applicavano solo alle imprese con più di 800 addetti e agli enti

pubblici con più di 300 dipendenti e solo all’interno dei comuni a rischio di

inquinamento atmosferico individuati dalle regioni e ai sensi del decreto

legislativo 13 agosto 2010, n. 155. Questo limitato numero di imprese ed enti

pubblici risultava obbligato ad adottare un piano degli spostamenti casa-lavoro

finalizzato alla riduzione dell’uso del mezzo privato e a nominare un responsabile

della mobilità. Con questa legge, invece, si punta invece a coinvolgere tutte le

grandi imprese e tutti gli enti pubblici senza più alcuna distinzione dimensionale

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nell’ambito di tutto il territorio nazionale, dando a questi soggetti uno strumento

in più per dare concretezza alle misure di mobilità sostenibile.

La legge n. 134/2012, infine, prevede anche campagne annuali di informazione e

di educazione alla mobilità alternativa e sostenibile, con riguardo al car pooling,

promosse dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dal Ministero

dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.

4.3 La Riforma del Trasporto Pubblico Locale: cenni storici

I principali riferimenti normativi per il settore del TPL traevano origine dal Testo

Unico n.1447 del 1912 e dal Regio Decreto n.2578 del 1925. Su queste leggi

precedenti la seconda guerra mondiale, erano basate le aziende pubbliche

“municipalizzate” che svolgevano servizio nelle città e in molti bacini provinciali.

Il sistema del TPL era, infatti, diviso in due branche: l’ambito urbano era di

competenza dei Comuni ed era gestito mediante lo strumento della

municipalizzazione o affidato a società private, mentre il servizio extraurbano, di

competenza dello Stato, veniva gestito prevalentemente da imprese private

attraverso l’istituto della concessione.

In questo contesto perciò, alle aziende municipali, si affiancavano una miriade di

aziende più o meno private, di dimensioni variabili dall’artigiano che operava con

un solo mezzo su un’unica linea a veri colossi di scala nazionale.

In particolare l’istituto della concessione risale al 1939 ed era regolato dalla legge

n. 1822 che fissava le condizioni del servizio e quindi un programma d’esercizio

che definiva orari, itinerari, materiale rotabile impiegato, tariffe, etc.

Il concessionario assumeva una posizione di tipo monopolistico che esercitava

quando, in occasione delle mutate condizioni della domanda, si determinava

l’esigenza di organizzare nuove autolinee sulle quali vantava una prelazione. Tale

fatto ha indotto inefficienze nei servizi. Infatti, sotto l’aspetto economico, si

riscontrava che le linee urbane, assolutamente deficitarie, venivano finanziate

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dall’Ente locale. Quelle extraurbane, invece, furono caratterizzate per un lungo

periodo da bilanci positivi ma, alla fine degli anni ’50, caratterizzati dal decollo

economico, si trovarono a subire perdite per cui i concessionari richiesero il

contributo dello Stato. La situazione peggiorò negli anni ’60 anche per effetto

dello sviluppo del nascente trasporto privato che determinò la caduta della

domanda influendo sulle condizioni economiche, già aggravate anche

dall’aumento dei costi.

Nel frattempo la mobilità si affermò quale bene sociale al pari della sanità, della

previdenza, della scuola e della casa. Già l’art. 16 della Costituzione sanciva che

“Ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio

nazionale…”.

Sotto questa spinta si assistette a un’ulteriore estensione della rete dei servizi di

trasporto con indubbi vantaggi per la popolazione, ma i disavanzi lievitarono.

Inoltre in questo periodo le province, sotto la spinta dello sviluppo urbanistico,

s’inserirono nel gioco, mediante lo strumento del consorzio di gestione,

desiderando estendere i servizi.

All’inizio degli anni ’70 si affermò, poi, il fenomeno della pubblicizzazione del

servizio di trasporto pubblico locale agevolata dalla situazione deficitaria in cui

versavano i servizi extraurbani gestiti dalle imprese private. Gli Enti locali

rilevarono imprese o parti di esse incaricando della gestione le aziende

municipalizzate o consortili67.

Quindi la nascita e lo sviluppo delle Regioni determinò, nella prima parte degli

anni Settanta, la corsa alla trasformazione delle aziende municipali e provinciali in

consorziali, vale a dire consorzi formati dalle Province, dai Comuni capoluogo ed

eventualmente da altri Comuni appartenenti a quel bacino di traffico.

Bisogna, infine, sottolineare come nel caso del TPL si tratta di produrre un

servizio venduto sottocosto. In questo periodo, per colmare i debiti aziendali, si

faceva ricorso al cosiddetto “ripiano a piè di lista”. L’utilizzo indiscriminato di

sussidi erogati ex post è stato, però, di ostacolo allo sviluppo delle imprese in

67 BALDASSARRI G. (2000), “La riforma del trasporto pubblico”, Proteo, No. 1998-3.

141

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termini di efficienza, assistendo in tal modo ad un crescente spreco di risorse.

Negli anni Settanta e Ottanta si è assistito al tentativo di attivare processi di

riorganizzazione strutturale, il che ha dato vita ad una serie di interventi normativi

che hanno interessato il settore.

4.3.1 Legge quadro per l’ordinamento del TPL

La “Legge quadro per l'ordinamento, la ristrutturazione ed il potenziamento dei

trasporti pubblici locali” (Legge quadro n°151 del 10 aprile 1981) ha avuto una

funzione di apripista nel processo di riorganizzazione e riordino del servizio di

trasporto.

Obiettivo centrale era l’ordinamento, la ristrutturazione ed il potenziamento del

trasporto pubblico locale mediante il risanamento delle aziende ed il superamento

della stagione dei deficit crescenti e dei ripiani statali68.

La Legge quadro, rappresenta la prima normativa nazionale che individua i

principi fondamentali a cui le Regioni a statuto ordinario sono chiamate ad

attenersi nell’esercizio della propria potestà legislativa ed amministrativa in tema

di trasporti collettivi urbani, extraurbani e regionali di persone e cose offerti in

maniera indifferenziata, continuativa e periodica al pubblico, con frequenze,

itinerari e orari prestabiliti. Risultavano esclusi dalla legge 151/1981 i trasporti

pubblici di competenza dello Stato, cioè non trasferiti alla competenza

amministrativa regionale dai d.p.r. 14 gennaio 1972, n. 5 e 24 luglio1977, n. 616,

vale a dire gli autoservizi di linea a carattere internazionale od anche solo

regionale se colleganti Regioni tra loro non confinanti, nonché le linee ferroviarie

in concessione o secondarie gestite dalle Ferrovie dello Stato (all’epoca ancora

68 GIORDANO A., ZOPPI G. (2000), Il nuovo trasporto pubblico regionale e locale dalla legge 151/81 ai d.leg.n.422/97 e n.400/99, Giuffrè, Milano.

142

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azienda autonoma facente capo al Ministero dei Trasporti), per le quali era

prevista semplicemente una delega dallo Stato alle Regioni delle proprie

competenze, che rimanevano pertanto allo Stato, e non un trasferimento delle

stesse, cioè un vero e proprio decentramento amministrativo. Rientravano invece

nell’ambito di applicazione della Legge 151/1981 i servizi pubblici di navigazione

lacuale, fluviale, lagunare, sui canali navigabili ed idrovie, salva la competenza

statale per i rapporti internazionali concernenti la navigazione sul lago Maggiore.

L’elemento di maggiore novità introdotto dalla Legge 151/1981, attorno alla quale

ruotava la riforma del TPL, è l’affermazione del principio di sussidiarietà. In forza

dell’affermarsi di tale principio, le Regioni sono chiamate a delegare le proprie

funzioni amministrative agli Enti locali che, rappresentando l’istituzione più

vicina alla cittadinanza, risultano essere maggiormente idonei a conoscere e

tutelare gli interessi della collettività locale69.

Le Regioni, nell’ambito delle loro competenze70, definiscono inoltre la politica

regionale dei trasporti, predispongono piani regionali dei trasporti, adottano

programmi di intervento finanziario sia per gli investimenti, sia per l’esercizio dei

trasporti pubblici locali.

Ulteriori competenze, attribuite dal Legislatore alle Regioni, hanno ad oggetto

l’individuazione dei bacini di traffico71, la definizione di indirizzi per la

ristrutturazione ed organizzazione dei servizi di trasporto pubblico, la promozione

di forme associative tra Enti locali, per l’esercizio delle funzioni amministrative,

la determinazione di sanzioni amministrative per irregolarità nei titoli di viaggio.

Con riferimento alle modalità di gestione dei servizi di trasporto pubblico locale,

queste possono essere sostanzialmente individuate nella gestione diretta, in

69 L’art 1, co. 3, 1.10 aprile 1981, n. 151, prevede che le Regioni delegano, di norma, agli enti locali e a loro consorzi, l’esercizio delle funzioni amministrative trasferite dal d.p.r 14 gennaio 1972, n. 5, e dal d.p.pr70 Art. 2,1. 10 aprile 1981, n. 15171 Ai sensi dell’art. 3, co. 2, l. 10 aprile 1981, n. 151, si intende per bacino di traffico l’unità territoriale entro la quale attuare un sistema di trasporto pubblico integrato e coordinato in rapporto ai fabbisogni di mobilità, con particolare riguardo alle esigenze lavorative, scolastiche e turistiche.

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economia, con assunzione diretta del servizio da parte dell’Ente pubblico, oppure

tramite azienda speciale, e nella gestione indiretta, mediante concessione.

La prima forma di gestione può dunque avvenire in economia, vale a dire senza

una separazione tra l’Ente pubblico che assume il servizio e soggetto gestore,

oppure mediante azienda speciale. La costituzione di un’azienda speciale

comportava un aumento degli organi dell’Ente all’interno del quale l’azienda

risultava incardinata. Essa, pur non essendo dotata di personalità giuridica, doveva

perseguire fini speciali rispetto a quelli generali dell’Ente ed era pertanto

provvista di autonomia organizzativa e di un’ampia discrezionalità nell’effettuare

scelte operative.

Per quanto riguarda la forma indiretta di gestione dei servizi di TPL, non vi è

dubbio alcuno che la concessione fosse in quegli anni la più seguita. La grande

novità, introdotta dalla Legge 151/1981, è stata quella di riconoscere al legislatore

regionale il potere di disciplinare in modo organico i trasporti regionali, urbani ed

extraurbani.

Non a caso la Legge 151/1981 riconosce alle Regioni il potere di stabilire

un’organica disciplina per l’esercizio del trasporto pubblico locale, compreso

quello urbano, facendo riferimento ai bacini di traffico come parametro di

riferimento ottimale entro il quale si attua un sistema di trasporto pubblico

integrato, in relazione ai fabbisogni della comunità. Ciò costituiva una grande

innovazione, poiché sino ad allora il trasporto pubblico locale urbano era sempre

stato considerato dal Legislatore di esclusiva competenza e prerogativa assoluta

delle Amministrazioni Comunali.

Nonostante gli ottimi propositi del legislatore, nel tentativo di procedere ad una

riforma organica del settore, gli obiettivi strategici che si era preposto il legislatore

con la Legge 151/1981 sono stati disattesi in quanto la maggior parte delle

Regioni, a cui erano state delegate le suddette funzioni di pianificazione e

programmazione del sistema dei trasporti, non è riuscita ad attuarle.

Assai di frequente, infatti, si sono verificati ritardi nella predisposizione dei piani

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di trasporto, nell’emanazione della normativa di dettaglio nonché nella definizione

dei parametri sui quali procedere al computo dei costi. Quanto alle modalità di

erogazione dei contributi di esercizio la norma in esame prevedeva che detti

contributi dovessero essere assegnati secondo principi e procedure stabiliti con

legge regionale con l’obiettivo di perseguire l’equilibrio economico dei bilanci

delle aziende di trasporto.

Secondo le intenzioni del legislatore questo doveva avvenire, da un lato

determinando i contributi erogati dalla Regione in base al costo economico

standardizzato del servizio, fondandosi ovviamente su criteri di efficienza della

gestione, dall’altro attraverso la previsione dei ricavi di traffico presunto, derivanti

dall’applicazione di tariffe minime stabilite dalla Regione72.

Dette previsioni pur innovando profondamente il settore del trasporto pubblico

locale, presentavano un forte elemento di criticità, rappresentato dall’eterogeneità

delle soluzioni adottate dalle Regioni nella determinazione dei costi standard.

Altro fattore che determinò il mancato recupero di efficienza nelle aziende del

TPL è da riscontrarsi nella commistione di ruoli fra ente di governo e aziende di

gestione. Al governo spettano la programmazione e il controllo mentre il compito

dell’azienda è quello di produrre servizi in condizioni di efficienza. Di fatto, però,

si è determinata una situazione nella quale le aziende di trasporto hanno assunto

tra i loro compiti quello di definire la politica dei trasporti e questo è potuto

accadere proprio perché l’Ente Locale esercitava un diretto controllo sulle

aziende.

Si apre così il tema della “privatizzazione” che, per quanto concerne il TPL,

sfocerà nella Legge Bassanini e nel decreto Burlando. Già con la legge

sull’ordinamento degli enti locali (Legge n.142 dell’8 giugno 1990) si

prevedevano diverse tipologie di affidamento della gestione di servizio. In

particolare con tale intervento normativo si può dire che si sia avviata la fase delle

72RANGONE N. (2003), I trasporti pubblici di linea, Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE Parte speciale, Vol. 3, Milano, p. 2272; L. GIANI, A. POLICE (2008), Le funzioni di regolazione del mercato, in Diritto Amministrativo, a cura di F.G. SCOCA, Torino, p. 525 ss.

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cosiddette “privatizzazioni formali” cioè la trasformazione delle aziende ex

municipalizzate in soggetti giuridici di tipo privato, separati dal punto di vista

organizzativo e contabile dall’Ente pubblico originario ma comunque ancora di

proprietà dell’Ente pubblico.

Lo strumento con cui gli Enti locali e le imprese cominciano a misurarsi per

responsabilizzare i diversi attori è il contratto di servizio. Si tratta peraltro di uno

strumento previsto dalla regolamentazione comunitaria (Reg. CEE 1893/91) che

lo definisce come “un contratto concluso tra le autorità competenti di uno Stato

membro e un’impresa di trasporto allo scopo di fornire alla collettività servizi di

trasporto sufficienti”.

A termini di regolamento il contratto di servizio pubblico deve contenere i

seguenti elementi:

� caratteristiche dei servizi offerti, segnatamente le norme di continuità,

regolarità, capacità e qualità;

� il prezzo delle prestazioni che formano oggetto di contratto, che si

aggiunge alle entrate tariffarie o comprende dette entrate, nonchè le

modalità delle relazioni finanziarie tra le due parti;

� periodo di validità del contratto;

� norme relative e clausole addizionali o ad eventuali modifiche;

� le sanzioni in caso di mancata osservanza del contratto.

4.3.2 Il Decreto Burlando

Il TPL ha conosciuto negli ultimi 15 anni un periodo di forte e significativa

revisione normativa, a partire dalla riforma organica della disciplina di settore

introdotta dal D.lgs. n. 422/97 (cosiddetto “Burlando”, emanato in attuazione della

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legge delega n. 59/97, rivisto ed integrato dal D.lgs. n. 400/99 e successive

modifiche), il cui obiettivo principale era quello di superare i limiti emersi dalla

legge n. 151/81 e, quindi, promuovere una modernizzazione del settore ponendo

fine ai ripetuti interventi per la copertura dei disavanzi aziendali.

Il Decreto Burlando, prevedeva innanzitutto, che tutte le competenze in materia di

trasporto locale e regionale fossero trasferite alle Regioni.

Nella ripartizione complessiva delle competenze le Regioni, risultano

sostanzialmente affidatarie di funzioni programmatorie e amministrative73, con

l’obbligo però di affidare agli Enti locali tutte le funzioni, in materia di TPL, che

non richiedono un esercizio unitario a livello regionale. Vengono, inoltre, fissate

le competenze di Regioni ed Enti Locali in tema di programmazione ed

organizzazione dei sistemi di mobilità terrestri, marittimi lagunari, fluviali e aerei,

che operano in modo continuativo o periodico con itinerari, orari, frequenze e

tariffe prestabilite, ad accesso generalizzato, nell’ambito di un territorio di

dimensione normalmente regionale o infraregionale. La norma in esame si

sofferma poi sull’individuazione di quei “servizi minimi”, sufficienti a soddisfare

la domanda di mobilità della collettività, anche mediante la definizione di obblighi

di servizio pubblico e di corrispondenti compensazioni economiche. I servizi

minimi vengono finanziati dalla Regione stessa a valere su apposito fondo,

istituito ai sensi dell’art. 20 del d.lgs.422/1997 e alimentato sia da risorse proprie

che da risorse trasferite dallo Stato.

Al fine di rendere più incisiva l’apertura al mercato nel settore del TPL, viene

successivamente adottato il d.lgs. 20 settembre 1999, n. 400, il quale, andando a

modificare la previsione contenuta originariamente nel d.lgs. 422/1997, individua

nella gara l’unico strumento, per la scelta del gestore.

Riguardo le modalità di affidamento della gestione del servizio di trasporto, il

decreto privilegia un sistema basato sulla concorrenzialità con l’intento di

73SMERALDI M., Riforma amministrativa, sussidiarietà concorrenza nella regionalizzazione del trasporto locale, in Dir. trasp., 199, fasc. 1, p. 15.

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superare gli assetti monopolistici. È prevista la possibilità per tutti quei soggetti in

possesso dei requisiti (finanziari, professionali, morali) richiesti, di partecipare

alle gare per l’ottenimento dell’abilitazione all’autotrasporto di viaggiatori su

strada. Vi sono limitati casi di esclusione per quelle società che gestiscono servizi

in affidamento diretto o in seguito a procedure non ad evidenza pubblica e per

quelle società dalle stesse controllate. Per tali società è prevista la possibilità di

essere ammesse limitatamente alle gare aventi ad oggetto i servizi già espletati

dalle stesse. Per quanto riguarda l’aggiudicazione della gara essa avverrà sulla

base delle migliori condizioni economiche, di esecuzione del servizio, dei piani di

sviluppo e di potenziamento delle reti e degli impianti.

Tra le modalità sono previste:

� la sola procedura delle gare per la scelta del gestore del servizio;

� il contratto di servizio (dalla durata massima di 9 anni), come strumento

principale per la regolazione del rapporto tra ente locale richiedente il

servizio e soggetto erogante il servizio stesso.

Un ulteriore strumento per aprire il settore ad un regime di concorrenza, sia pure

parziale, è rappresentato dalla previsione normativa che dispone la trasformazione

delle aziende speciali e dei consorzi in società per azioni e cooperative tra ex

dipendenti, oltre alla possibilità di affidamento diretto del servizio a tali società e

cooperative limitatamente ad un periodo transitorio non superiore a 5 anni.

L’obiettivo quindi della disciplina risulta oltremodo evidente: stimolare il soggetto

affidatario del servizio ad incrementare i propri ricavi attraverso una

“governance”, ispirata a principi di economicità e di efficienza.

Il modello concorrenziale introdotto con il Decreto Burlando, si identifica

sostanzialmente con il procedimento mediante il quale viene effettuata la scelta

dell’imprenditore commerciale al quale verrà affidato il servizio di gestione del

TPL. In tale contesto la concorrenza tra gli operatori, che aspirano a divenire

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gestori del servizio, risulta limitata al momento dell’accesso al mercato, non

protraendosi a quello dell’erogazione del servizio, in cui andrà ad operare solo il

gestore aggiudicatario della gara.

L’intento del Legislatore non pare dunque rivolto verso un’apertura effettiva del

settore del TPL alla concorrenza, concentrandosi in questa fase

sull’individuazione di strumenti idonei ad assicurare l’economicità e l’efficienza,

sia in fase di programmazione che di erogazione del servizio. Ovviamente il

gestore, al quale verrà affidato l’esclusiva del servizio, dovrà assicurare la

continuità e l’universalità del medesimo.

Tutto questo va perciò nella direzione di una modifica radicale del sistema,

prevedendo l’obbligo di trasformazione delle aziende in società per azioni, la

concorrenza per il mercato, l’affidamento dei servizi attraverso procedure

concorsuali, l’attenzione sulle problematiche relative all’efficacia e

all’economicità della gestione.

Tale innovazione ha ridisegnato tanto l’assegnazione delle competenze

amministrative, quanto l’assetto organizzativo dei servizi, adottando gli strumenti

della gara e del contratto di servizio rispettivamente per la scelta del gestore e per

la regolazione dei rapporti tra l’ente affidante e il gestore stesso. Questi elementi

rappresentano i capisaldi del nuovo quadro di riferimento.

I principali scopi di tale riforma possono essere sintetizzati in tre categorie

fondamentali:

1) unificazione delle competenze (a livello sia di pianificazione sia di decisioni di

spesa) relativamente a tutte le modalità di TPL;

2) assegnazione di responsabilità finanziaria agli Enti pianificatori (Regioni ed

Enti locali) ed alle imprese che gestiscono il servizio di trasporto;

3) promozione del processo di liberalizzazione e di privatizzazione nel settore.

149

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4.3.2.1 Le principali novità introdotte dal Decreto Burlando

Una delle novità più importanti della normativa della riforma del TPL è stata

quella di introdurre un quadro programmatico coordinato.

Con tale quadro, si mira all’unificazione delle competenze a livello sia di

pianificazione sia di decisioni di spesa, relativamente a tutte le modalità di TPL.

L’obiettivo è quello di far convergere in un unico centro, la Regione, la

programmazione di tutti i diversi sistemi di trasporto promuovendo

contemporaneamente l’integrazione modale dell’offerta di tali servizi, con

vantaggi in termini di abolizione di servizi duplicati e di un migliore

soddisfacimento della domanda. Il ruolo centrale di ente regolatore,

programmatore e finanziatore del settore dei TPL che il Decreto Burlando affida

alla Regione risulta rinnovato e significativamente ampliato rispetto alle

previsioni contenute nella Legge Quadro.

Tra gli elementi di novità che il Decreto Burlando introduceva, primo tra tutti fu,

ai sensi dellíart.14, la definizione, a cura delle Regioni, degli indirizzi per la

pianificazione dei trasporti locali ed in particolare dei Piani di Bacino, nonché la

redazione di Piani Regionali dei Trasporti e l’approvazione dei Programmi

Triennali dei Servizi, con il fine di assicurare una rete di trasporto che

privilegiasse le integrazioni fra le varie modalità, favorendo quelle a minore

impatto ambientale.

In particolare il d.lgs. 422/97 introduce l’utilizzazione di quattro strumenti di

programmazione:

� il Piano Regionale dei Trasporti;

� il Piano di Bacino;

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� la Programmazione dei Servizi Minimi;

� il Programma Triennale dei Servizi.

In termini generali, nella procedura di programmazione del TPL possono essere

individuati tre livelli di pianificazione:

1. un livello nazionale, nel quale sono presenti la normativa nazionale e il

Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL);

2. un livello regionale, nel quale sono presenti le normative regionali e il

Piano Regionale dei Trasporti (PRT);

3. un livello di bacino, nel quale sono presenti i Piani di Bacino (PdB).

Il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica rappresenta lo strumento di

governo del sistema dei trasporti a livello nazionale. Esso costituisce il quadro di

riferimento dell’insieme di interventi da realizzare sul sistema dei trasporti, il cui

fine Ë migliorare la dotazione infrastrutturale del Paese e rendere più efficiente il

suo utilizzo.

All’interno del PGTL, sono forniti alle Regioni degli indirizzi strategici da

seguire; in particolare, lo strumento indica quali sono gli obiettivi che la

151

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pianificazione regionale dei trasporti deve perseguire. In armonia con gli obiettivi

generali del piano dei trasporti nazionale, viene redatto il Piano Regionale dei

Trasporti (PRT). Questo è un documento programmatico generale della Regione,

già previsto dalla Legge 151/81, rivolto a realizzare un sistema equilibrato di

trasporto di persone e di merci in connessione con i piani di assetto territoriale e di

sviluppo economico.

Tale documento determina poi gli indirizzi per la pianificazione dei trasporti locali

e fissa i criteri e le direttive per l’elaborazione dei Piani di Bacino da parte delle

Province, affidando pertanto alle Regioni il compito di coordinare la

programmazione degli Enti Locali.

Infine il Programma Triennale dei Servizi è uno strumento di programmazione

approvato dalle Regioni che ha il compito di individuare la rete e l’organizzazione

dei servizi, l’integrazione modale e tariffaria, le risorse da destinare all’esercizio e

agli investimenti, le modalità di determinazione delle tariffe, le modalità di

attuazione e revisione dei contratti di servizio pubblico, il sistema di monitoraggio

dei servizi e i criteri per la riduzione della congestione e dell’inquinamento

ambientale.

Un secondo aspetto introdotto dal decreto, riguarda, invece la volontà del

legislatore di aumentare le responsabilità finanziarie dei soggetti operanti nel

settore, attraverso l’abolizione dei trasferimenti direttamente da parte dello Stato.

Si assegna, infatti, la responsabilità finanziaria agli enti pianificatori, Regioni ed

enti locali, ed alle imprese che gestiscono il servizio di trasporto.

Il trasferimento alle Regioni (decentramento amministrativo) comporta, infatti,

non solo dei diritti, quali la gestione del servizio, ma anche dei doveri in quanto

eventuali necessità di ripiani di bilancio sono a carico non più dello Stato ma delle

Regioni stesse che sono responsabili sia del servizio offerto che della redditività

dello stesso.

Attraverso un tale decentramento è possibile stimolare Regioni ed enti locali ad

una più attenta selezione dei settori che necessitano maggiormente di sussidi,

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creando i presupposti per un incremento nei livelli di efficienza produttiva da

parte delle imprese di trasporto.

Infine, un terzo aspetto della riforma, e certamente uno degli strumenti più

importanti per l’effettiva riorganizzazione del settore del TPL, riguarda la

promozione del processo di liberalizzazione e di privatizzazione del settore. Si

introduce quindi l’obbligo di affidare i servizi di trasporto regionale e locale

tramite meccanismi concorrenziali (cercando in tal modo di promuovere dove

possibile l’introduzione di forme di concorrenza per il mercato) e di stipulare un

ben definito contratto di servizio, tra enti locali e gestori, dotato di certezza e

copertura finanziaria per l’intero periodo di validità e caratterizzato da incentivi al

contenimento dei costi operativi74.

Per quanto concerne l’organizzazione dei servizi di TPL, il D.lgs. n. 422/97

nell’intento di migliorare la qualità del servizio e di ridurne i costi, in linea con i

principi di efficienza ed economicità, prevede (art. 18, comma 3) che gli enti

territoriali incentivino il riassetto organizzativo in chiave di privatizzazione del

settore ed attuino, entro il 31 dicembre 2000, la trasformazione delle aziende

speciali e dei consorzi che gestiscono servizi di TPL in società di capitali o

cooperative di cui l’ente può risultare socio unico per un periodo non superiore a

tre anni dall’avvenuta trasformazione.

Il d.lgs. n. 422 del 1997 prevede all’art. 18, comma 2, l’obbligo per le Regioni e

gli enti locali di garantire, nell’affidamento dei servizi, il ricorso alle procedure

concorsuali per la scelta dei gestori. Spetta, pertanto, alle Regioni il compito di

fissare i tempi per l’apertura alla concorrenza, fermo il rispetto dei limiti temporali

fissati dal legislatore nazionale. Decorso, infatti, il suddetto periodo transitorio

tutti i servizi dovranno inderogabilmente essere affidati con procedure di gara.

A prescindere dalle modalità di affidamento del servizio, i rapporti fra ente

erogatore e soggetto gestore devono essere regolati da appositi contratti di

servizio (art. 19). Si tratta di un’innovazione di particolare rilievo ai fini del

raggiungimento degli obiettivi di buon andamento prefigurati dal legislatore. 74 CABIANCA A. (2010), “Il trasporto pubblico locale alla difficile ricerca di un centro di gravità, tra disciplina di settore, servizi pubblici locali e normativa comunitaria”, GiustAmm.

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Infatti, il ricorso allo strumento negoziale dovrebbe consentire di individuare con

certezza diritti ed obblighi reciproci delle parti.

Altri elementi fondamentali sono costituiti dalle caratteristiche del servizio e dal

relativo programma di gestione, dalla struttura tariffaria adottata, dagli standard

qualitativi minimi da assicurare obbligatoriamente alla clientela (età,

manutenzione, pulizia e comfort dei veicoli circolanti; regolarità delle corse

effettuate; diffusione di punti di informazione).

Nell’ambito dei contratti di servizio, la definizione da parte di Regioni ed enti

Locali di obblighi di servizio pubblico deve essere accompagnata dalla previsione

delle compensazioni dovute alle aziende, calcolate sulla base di una stima a priori

dei costi che non consenta aggiustamenti a posteriori, nel caso di effettivi

scostamenti rispetto a quelli stimati, e ponga a carico delle stesse aziende il rischio

d’impresa derivante dalle strategie produttive e commerciali impiegate nella

gestione del servizio.

In conclusione, il Decreto Burlando introduce tali importanti principi:

� la liberalizzazione del settore attraverso l’affidamento dei servizi con

procedure di gare;

� la trasformazione delle aziende speciali e dei consorzi in società di capitali

o in cooperative a responsabilità limitata;

� la razionalizzazione delle reti attraverso l’integrazione modale e la

tariffazione unificata;

� l’introduzione del contratto di servizio quale strumento regolatorio tra ente

affidante e azienda affidataria;

� la costituzione in ogni Regione di un fondo destinato ai trasporti, con

risorse regionali e con risorse trasferite dallo Stato;

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� l’efficientamento del sistema, con l’obiettivo del raggiungimento del

rapporto ricavi e costi uguale a 0,35.

Il decreto ridefinisce l'organizzazione del trasporto pubblico locale e costituisce il

nuovo quadro normativo di riferimento a livello nazionale e ad esso si sono

adeguate le legislazioni regionali in materia.

4.3.3 Il Piemonte: la Legge Regionale n. 1 del 4 Gennaio 2000

Con la Legge Regionale n. 1 del 4 Gennaio 2000 e ss.mm.ii, “Norme in materia di

trasporto pubblico locale”, la Regione Piemonte ha recepito il d.lgs. 422/97 (c.d.

Decreto Burlando), successivamente integrata ad opera della L.R. n. 17 del 19

Luglio 2004, che ha come obiettivo quello di incentivare nella gestione dei servizi

di trasporto pubblico locale il superamento degli assetti monopolistici,

introducendo regole di concorrenzialità mediante l’espletamento di procedure

concorsuali per la scelta del gestore, in modo da acquisire una maggiore efficacia

ed efficienza. Attraverso questo nuovo intervento normativo si specificano

ulteriormente e più dettagliatamente le funzioni e i compiti in materia di TPL

spettanti a regioni, province e comuni, nonché comunità montane.

A tal proposito, la Regione Piemonte ha agito attraverso un sistema di deleghe a

province, comuni, cui spetta emettere bandi di gare per l’affidamento dei propri

servizi minimi con risorse a carico della Regione sia in conto esercizio che in

conto investimento, attribuite agli enti delegati in base ad accordi di programma.

L’affidamento del servizio avviene, dunque, sulla base di procedure concorsuali

ad evidenza pubblica svolti in base alle disposizioni di cui al d.lgs 158 del 199575.

Affinché gli obiettivi di cui alla nuova legge regionale possano essere meglio

realizzati, si prevede l’esercizio unitario delle funzioni da essa previste attraverso

l’elaborazione di un piano regionale dei trasporti e di un programma triennale dei

servizi di trasporto pubblico locale76.

75 Art. 11, comma 2, L.R. n. 1 del 200076 AA. VV. (2006), “Il trasporto pubblico locale”, Dossier informative per I consiglieri regionali

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Il programma triennale dei servizi di TPL, viene approvato, sulla base di un’intesa

con gli Enti locali mediante l’esame della Conferenza permanente Regioni-

Autonomie locali, dalla Giunta regionale previo parere della Commissione

consiliare competente e previa consultazione delle organizzazioni sindacali

confederali, delle associazioni delle aziende di trasporto e delle associazioni dei

consumatori. Esso definisce gli obiettivi di efficienza e di efficacia

nell’organizzazione e nella produzione dei servizi, l’assetto quantitativo e

qualitativo dei servizi minimi, nonché le risorse per ogni servizio pubblico di

trasporto da destinare all’esercizio e all’investimento, la politica tariffaria per

l’integrazione e la promozione dei servizi, le modalità di attuazione e revisione dei

contratti di servizio pubblico, il sistema di monitoraggio dei servizi, la rete e

l’organizzazione dei servizi regionali amministrati dalla Regione e gli indirizzi di

programmazione dei servizi regionali delegati amministrati dalla Regione e gli

indirizzi di programmazione dei servizi regionali delegati agli enti locali.

L’art. 11 della L.R. n. 1/2000, definisce le modalità di affidamento. In particolare,

gli enti contraenti gli accordi di programma di cui all’art. 9 stipulano i contraenti

di servizio con i soggetti giudicatrici o affidatari, a seguito dell’espletamento di

gare con procedura ad evidenza pubblica o di altra forma di affidamento prevista

dalla normativa nazionale vigente. I soggetti devono possedere i requisiti di

idoneità morale, finanziaria e professionale richiesti, ai sensi della normativa

vigente, per il conseguimento della prescritta abilitazione all’autotrasporto di

viaggiatori su strada.

Qualora il servizio sia affidato a seguito di espletamento di gare con procedure ad

evidenza pubblica, l’aggiudicazione avviene sulla base del criterio previsto

dall’art. 24, comma 1, lett. b), del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 158

(attuazione della direttiva CEE 90/531 e 93/38 relative alle procedure di appalti

nei settori esclusi) secondo le procedure previste dall’art. 12 comma 2 e dall’art.

13, limitatamente ai casi contemplati del d.lgs n. 158/1995, nonché secondo

quanto stabilito dall’art. 18, comma 2, lett. a), del d.lgs. 422/1997 e successive

modificazioni.

del Consiglio Regionale del Piemonte, pp. 36-38.

156

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L’art. 11, comma 2-bis, della L.R. del 2000, stabilisce che in coerenza con la

normativa nazionale non sono ammessi a partecipare alle gare le società che, in

Italia o all’estero, gestiscono a qualunque titolo servizi pubblici locali in virtù di

un affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica o a seguito dei

relativi rinnovi. Tale divieto si estende alle società controllate o collegate con

queste ultime. L’ente affidante ha facoltà di revocare l’affidamento, con atto

motivato, in caso di modifiche o revisioni sostanziali della rete dei servizi, ovvero

nei casi in cui venga meno l’interesse pubblico, così come previsto dal contratto di

servizio. L’affidatario incorre nella decadenza dell’affidamento in presenza di

irregolarità specificamente previste nel contratto di servizio.

L’art. 21 L.R. n. 1/2000, prevede che gli enti contraenti gli accordi di programma

di cui all’art. 9, limitatamente alla stipulazione del primo contratto di servizio e

successive proroghe con scadenza entro la fine del periodo transitorio, possono

utilizzare la procedura negoziata di cui all’art. 12, comma 2, lett. c) del d.lgs. n.

158/1995. I contratti di servizio sono estesi agli ambiti territoriali di cui all’art. 10,

comma 1. Al fine di favorire l’aggregazione tra le imprese operanti e di superare

la piccola dimensione e l’eccessiva frammentazione che ostacolano il

raggiungimento di soddisfacenti livelli di sinergia ed efficienza economica, ove

tutti i soggetti che esercitano, alla data del 31 dicembre 1999, i servizi compresi in

ciascun ambito territoriale costituiscano una riunione di imprese nelle forme

elencate dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 158/1995, alla riunione di imprese

sono in via prioritaria rivolti l’invito a presentare un’offerta e a svolgere l’attività

negoziale di cui all’art. 12, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 158/1995.

Nella procedura di governo del trasporto pubblico locale si deve poi tenere conto

non solo della normativa nazionale e regionale cui si è fatto cenno, ma anche degli

strumenti di programmazione ivi previsti: piano regionale dei trasporti, piano di

bacino, programmazione dei servizi minimi e programma triennale dei servizi che

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hanno fra di loro le relazioni indicate nello schema seguente:

Fig. 4.1: Strumenti di programmazione del trasporto pubblico locale in Piemonte

Fonte: DGR 1 agosto 2003. “Adozione del programma triennale regionale dei servizi di trasporto pubblico locale 1 gennaio 2004-31 dicembre 2006”, Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte supplemento No. 2 al No. 35.

Le risorse regionali per il finanziamento dei servizi minimi vengono distribuite

agli enti soggetti di delega (province e conurbazioni) attraverso accordi di

programma, che sostanzialmente tendono a sanare gli squilibri contributivi

esistenti tra province e aree conurbate (a favore di queste ultime), cui si

aggiungono dopo il 2004 gli oneri derivanti dall’applicazione del CCNL

autoferrotranviari.

I vincoli finanziari alla gestione derivano esclusivamente dalle disposizioni

dell’art. 14 della Legge Regionale, secondo la quale in tutti i contratti di servizio il

rapporto tra ricavi da traffico e costi operativi (al netto dei costi di infrastruttura)

deve essere pari ad almeno 0,35 e non sono consentiti agli enti locali ulteriori

contributi a copertura dell’eventuale minor rapporto tra ricavi e costi.

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La stessa Legge 422/1997 ha previsto poi un regime transitorio conclusosi al 31

dicembre 2006 nel corso del quale è data facoltà di mantenere tutti gli affidanti

agli attuali concessionari ed alle società derivanti dalla trasformazione di cui al 3

comma dell’art. 18, ma con l’obbligo di affidamento di quote di servizio o di

servizi speciali mediante procedura concorsuali, previa revisione dei contratti di

servizio in essere, se necessaria. Le regioni procedono altresì all’affidamento della

gestione dei relativi servizi a società costituite allo scopo dalle ex gestioni

governative, fermo restando quanto previsto dalle norme in materia di

programmazione e di contratti di servizio di cui al capo II del d.lgs. 422/1997.

Trascorso tale periodo transitorio, tutti i servizi vengono affidati esclusivamente

tramite procedure concorsuali previste dalla normativa comunitaria e nazionale.

Durante tale periodo la Regione Piemonte ha previsto l’automatico adeguamento

del periodo transitorio alle proroghe eventualmente previste dalla normativa

statale. In particolare, con l’art. 10 della successiva L.R. di modifica n. 17/2004,

l’originario termine di cui all’art. 21 della L.R. n. 1/2000, è differito al 31

dicembre 2005 o comunque alla data di conclusione del periodo transitorio

prevista dalla normativa nazionale in materia.

Una delle novità più rilevanti attiene all’istituzione di un’Agenzia per la mobilità

Metropolitana, ovvero un consorzio tra enti locali alla quale spettano compiti di

programmazione e gestione dei trasporti urbani di Torino e delle aree extraurbane

dell’area metropolitana, nonché tutte le alte funzioni ad essa assegnate o trasferiti

dagli enti aderenti.

La Legge Regionale, contempla la possibilità che alcuni soggetti possono

partecipare alle procedure concorsuali per l’affidamento del servizio di trasporto

pubblico locale. Si tratta delle cd. ATI, associazioni temporanee di imprese. La

loro disciplina è rimessa alle disposizioni transitorie della Legge Regionale (art.

21). Il programma di attuazione per il periodo 2001-2002 richiama in generale le

modalità di affidamento previste dall’art. 21 della L.R. 17/2000. Il successivo

programma di attuazione 2004-2006 ripropone le ATI e le definisce come un

primo passo verso le integrazioni più stabili e consolidate77.

77 D.G.R., 1 agosto 2003 No. 78-10244, BUR Piemonte 2 supplemento al No. 35 del 28 agosto 2003.

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4.3.4 La Legge finanziaria del 2002 e il Decreto Bersani

Quest’ondata di liberalizzazione che ha interessato il settore fortemente

monopolistico dei trasporti avviata con il decreto Burlando, è stata estesa

all’intero settore dei servizi pubblici attraverso la norma all’articolo 35 della

Legge Finanziaria 2002 (L. n. 448/2001), di modifica dell’articolo 113 del Testo

Unico degli Enti Locali. Per alcuni l’articolo 35 della legge finanziaria segna il

momento conclusivo di un intenso processo di riforma che ha portato il settore dei

servizi pubblici locali dalla municipalizzazione alla liberalizzazione del mercato

ed alla successiva privatizzazione dei soggetti gestori.

Si effettua una distinzione tra:

� proprietà: reti, impianti e delle altre dotazioni patrimoniali;

� gestione: reti, impianti e delle altre dotazioni patrimoniali;

� erogazione del servizio.

La proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni necessarie per

l’esercizio dei servizi pubblici, è mantenuta in capo agli enti locali, salva la

possibilità di attribuirla a società di capitali delle quali essi posseggano la

maggioranza azionaria non cedibile. Per quanto riguarda l’attività di gestione delle

reti e degli impianti destinati alla produzione dei servizi pubblici locali invece è

possibile separarla dall’attività di erogazione del servizio a seconda dei casi

stabiliti dalle normative che regolano i diversi settori. Nel caso in cui sia permessa

tale separazione, sarà possibile assegnare la gestione sia a società di capitali con la

partecipazione maggioritaria degli enti locali, sia ad imprese dotate dei requisiti

previsti, individuate attraverso procedure pubbliche; infine per quanto riguarda

l’erogazione del servizio deve avvenire secondo le normative di regolazione del

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settore che generalmente prevedono il conferimento del servizio a società di

capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza

pubblica aggiudicate quasi sempre sulla base di criteri quali la qualità del servizio,

la sicurezza dei servizi prestati, le condizioni economiche e di prestazione del

servizio. Questi elementi fanno parte del contratto di servizio, che diviene lo

strumento di regolazione tra enti locali-società di erogazione del servizio-società

di gestione delle reti.

Nella legge vi è anche un’elencazione delle cause di esclusione dalla

partecipazione alle gare per l’affidamento del servizio per quelle società che:

gestiscono servizi pubblici locali in virtù di un affidamento diretto, di una

procedura non ad evidenza pubblica od a seguito di rinnovi. Cosi come prevede il

d.lgs. 422/1997 , anche l’art.35 (in riferimento al solo settore del TPL) consente

un passaggio graduale al regime concorrenziale. È previsto infatti un arco di

tempo che va dai 3 ai 5 anni durante il quale è possibile mantenere gli affidamenti

diretti già in essere. La Commissione europea ha ritenuto la normativa contenuta

nell’art. 35 della Legge Finanziaria 2002 contrastante con la disciplina

comunitaria derivante dalla giurisprudenza salvo il fatto che nell’affidamento di

appalti e concessioni si debba sempre agire rispettando norme e principi del

Trattato (trasparenza e pubblicità), si ritiene non lecita la possibilità di affidare la

gestione della rete in maniera diretta quando è separata dall’erogazione del

servizio oltre che l’affidamento a società di capitali partecipate in maniera

maggioritaria dagli enti locali.

Con l’approvazione del d.lgs. n. 223 del 4 luglio 2006 (Decreto Bersani),

convertito poi nella Legge n. 248/2006, è stato poi stabilito che i Comuni

potessero prevedere “che il trasporto di linea di passeggeri accessibile al

pubblico, in ambito comunale e intercomunale, fosse svolto, in tutto il territorio o

in tratte e per tempi predeterminati, anche dai soggetti in possesso dei necessari

requisiti tecnico-professionali, fermo restando il divieto di disporre finanziamenti

in qualsiasi forma a favore dei predetti soggetti” (Art.14).

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Si prevede quindi di poter affidare servizi di linea di passeggeri in ambito

comunale e intercomunale a soggetti dotati delle idoneità necessarie. Con questa

disposizione si introduce nel sistema del TPL la cosiddetta “concorrenza nel

mercato” superando, solo in piccola parte, quella “per il mercato” introdotta, ma

mai pienamente portata a compimento, dal d.lgs. 422/97.

Il Decreto Burlando, con il quale si conservava un unico operatore o meglio un

numero limitato e predefinito di operatori, realizzava, infatti, una concorrenza per

il mercato. In questo modo, attraverso le procedure di concessione e le gare di

appalto, si trasferiva la competizione tra le imprese nella fase di acquisizione del

diritto temporaneo a servire il mercato in condizioni di monopoli.

A partire dal 2006, invece, nei servizi pubblici, si sono realizzati interventi

finalizzati all’apertura dei mercati alla concorrenza, in termini di numerosità delle

aziende autorizzate ad offrire servizi simili. Questa impostazione viene

identificata come una forma di concorrenza “nel mercato” che pone fine a

condizioni monopolistiche, alimentando, invece, la competitività tra aziende

pubbliche e imprese private.

Il modificarsi delle condizioni di mercato in cui la Pubblica Amministrazione

opera si è manifestato con caratteristiche e gradazioni diverse in tutti i settori di

pubblica utilità.

4.3.5 Il Decreto Lanzillotta

Nel 2006 è stata presentata una “Delega al Governo per il riordino dei servizi

pubblici locali” ad opera della Ministra Lanzillotta. Il cuore del disegno di legge è

rappresentato dal sostanziale divieto per gli Enti Locali, escluse rare e transitorie

eccezioni, di optare per la gestione diretta, con società a capitale pubblico o miste,

(gestione in house) dei servizi locali. L’assegnazione della gestione dei servizi

pubblici locali è previsto debba avvenire attraverso procedure competitive ad

evidenza pubblica, mentre temporaneamente, purché si pongano le condizioni in

un tempo limitato, è prevista la possibilità di affidare i servizi a società di a

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capitale pubblico e/o misto pubblico-privato. Il termine massimo per l’avvio delle

procedure competitive ad evidenza pubblica è comunque quello del 31 dicembre

2011. Sempre nel decreto si prevede un regime di compensazioni da parte degli

Enti Locali a favore delle imprese eroganti i servizi qualora il carattere universale

dei servizi impedisse il conseguimento dell’utile d’impresa.

L’intera gamma dei servizi pubblici locali, indipendentemente dalla volontà

politica di amministratori e cittadini, dovrà essere assegnata attraverso gare

d’appalto, consegnando al mercato e alle sue regole servizi cardine per la qualità

della vita di qualsiasi comunità. Sicuramente privatizzare serve per ridurre il

debito pubblico del nostro paese, però è anche vero che i governanti devono

essere capaci di ridistribuire ai cittadini quanto entrato nelle casse dello Stato oltre

che saper controllare e monitorare i comportamenti assunti dalle imprese neo-

privatizzate.

Secondo Lanzillotta la presenza pubblica nella gestione dei servizi è di per sé

distorsiva del funzionamento del mercato e il ruolo di garanzia degli Enti locali

attiene esclusivamente al controllo formale delle norme di affidamento. Questo

provvedimento è stato fatto arenare in Parlamento dalle frange estreme della

coalizione secondo le quali avrebbe aperto scenari inquietanti rispetto ai quali

bisognava mobilitarsi per la difendere il carattere sociale dei servizi pubblici

locali.

4.3.6 Dalla Legge Finanziaria 2008 al Legge di Stabilità 2014

Al fine di contrastare la crisi strutturale del TPL e di concludere, in attuazione

dell'art.119 della Costituzione e in un'ottica di responsabilizzazione delle

autonomie territoriali, il processo di decentramento dei finanziamenti del settore,

il legislatore è intervenuto con la legge finanziaria del 2008 che prevedeva i

seguenti obiettivi :

� sostituzione dei trasferimenti statali alle Regioni a statuto ordinario con

compartecipazione accisa gasolio;

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� assegnazione alle Regioni di risorse aggiuntive tramite compartecipazione

accisa su gasolio con i seguenti fini:

sviluppo servizi TPL;

attuazione processo riforma settore;

adeguamento annuale risorse;

mantenimento livelli servizi e del recupero inflazione anni precedenti;

copertura CCNL con risorse proprie del sistema e non trasferite dallo

Stato.

Il D.L. n. 78/2010 (art. 14), invece, ha operato pesanti tagli alle autonomie

territoriali per un importo di 8,5 miliardi di € a regime dal 2012. In relazione al

TPL vi è da osservare che i trasferimenti dello Stato alle Regioni a statuto

ordinario sono stati oggetto di riduzione. Prendendo in considerazione solo le

risorse correnti, la quasi totalità dei tagli è, però riferibile al trasporto ferroviario

di Trenitalia (98% delle risorse correnti) . Infatti, le risorse per il trasporto

regionale ferroviario di Trenitalia ammontavano a 1.181 milioni di €; quelle

destinate alla sicurezza ferroviaria delle ferrovie concesse a 41 milioni di €;

le risorse per IVA e contratti di sevizio a 148 milioni di €; le risorse in conto

capitale per investimenti per la sostituzione del parco autobus a 159 milioni di €;

infine, le risorse in conto capitale per lo sviluppo del TPL in termini di

investimento erano 94 milioni di €. Per un totale complessivo di 1.625 milioni di

€.

Nonostante il taglio dei trasferimenti abbia quasi esclusivamente riguardato

Trenitalia, la mancata assegnazione alle regioni di queste risorse ha avuto pesanti

ripercussioni sul settore del TPL, settore in cui il processo di

fiscalizzazione/federalismo amministrativo, avviato nel 1995 con l'abolizione

dell'ex fondo nazionale dei trasporti, è stato completato con la Legge finanziaria

2008.

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In termini assoluti, rispetto alle risorse del 2010, il taglio per il 2011 valeva 302

milioni di €, il taglio per il 2012 571 milioni di €, per un totale complessivo nel

biennio di 873 milioni di €. I recuperi sanciti dagli accordi del 18 novembre 2010,

del 16 dicembre 2010 (per il 2011) e del 21 dicembre 2011(per il 2012)

riguardavano quasi esclusivamente i servizi regionali di Trenitalia.

Nel 2011 i tagli residui ammontavano a 132 milioni di € e nel 2012 a 11 milioni di

€. In base ai dati forniti dalle Regioni le risorse necessarie per assicurare la

copertura dei contratti di servizio ferroviari regionali FS erano pari a 2.055

milioni di €. Per il 2012 le risorse mancanti erano pari a 307 milioni di €, mentre a

decorrere dal 2013 mancavano 855 milioni di €.

Per il 2010 le regioni a statuto ordinario hanno “distolto” dal settore 140 milioni

di € dei circa 500 di risorse aggiuntive derivanti dalla Legge finanziaria del 2008.

Nel 2011 e nel 2012 al “diverso utilizzo” di risorse derivanti dalla Legge

finanziaria 2008 ed al mancato adeguamento inflattivo delle stesse si sommavano

i tagli ai capitoli di spesa regionali discendenti dai tagli ai trasferimenti per il TPL

ferroviario di Trenitalia operati con la manovra finanziaria 2010 e poi

successivamente reintegrati con gli accordi Stato/Regioni.

In termini reali la riduzione di risorse aggiuntive nel 2012 era di 893 milioni di e

pari al 17% rispetto al 2010.

La riduzione delle risorse per il trasporto pubblico avvenuta nel biennio

2011/2012 ha avuto le seguenti ripercussioni:

� incremento dei livelli tariffari al fine di compensare, almeno in parte, la

contrazione delle risorse;

� una drastica riduzione dei livelli qualitativi e quantitativi del servizio

offerto;

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� effetti occupazionali (blocco del turnover, mancata riconferma dei contratti

a tempo determinato, applicazione di misure straordinarie come esodi

incentivati, contratti di solidarietà difensiva ed in taluni casi utilizzo di

ammortizzatori sociali in deroga ), tali effetti coinvolgono circa 8.500

dipendenti ( oltre il 7% del totale della forza lavoro del settore.

L'offerta di servizio ha avuto una riduzione nel 2011 pari al 4% e con

l'implementazione dei tagli si prevedeva che nel 2012 vi sarebbe stata un ulteriore

contrazione del 5%. Occorre, però, sottolineare che non tutte le regioni hanno

provveduto a ridurre i servizi e anche all'interno delle stesse regioni non tutti i

bacini di traffico sono stati operati tagli in misura eguale. Infatti il 40% delle

Regioni ha registrato una produzione chilometrica stabile, il 45% ha effettuato una

riduzione della produzione chilometrica fino a -9%, ed il 15% una riduzione della

produzione chilometrica di oltre il 9%.

Con la manovra finanziaria per il 201378, il Governo ha previsto l’istituzione del

“Fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del TPL,

anche ferroviario, nelle Regioni a statuto ordinario”.

Il Governo ha fissato per decreto il livello di compartecipazione ai proventi delle

accise su gasolio e benzina così da assicurare 465 milioni di € nel 2013, 443 nel

2014 e 507 dal 2015, cui andranno a sommarsi altri introiti, non ben definiti, fino

ad arrivare alla cifra di 1,6 miliardi di €.

Il decreto ha fissato anche i criteri e le modalità con cui ripartire e trasferire alle

regioni a statuto ordinario le risorse del fondo, sulla base di criteri che terranno

conto dei processi di razionalizzazione intrapresi o da intraprendere da parte delle

regioni, (i relativi piani devono essere definiti entro 60 giorni) per realizzare

un'offerta di servizio più idonea, più efficiente ed economica per il

soddisfacimento della domanda di TPL.

Il Governo ha tenuto conto nel decreto delle modalità attraverso cui le regioni

avrebbero raggiunto l'obiettivo del rapporto tra ricavi da traffico e costi dei servizi

78 Legge n. 228, approvata dal Parlamento il 24 diembre 2012.

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previsto dalla normativa nazionale vigente in materia di TPL e di servizi ferroviari

regionali e delle azioni intraprese per il progressivo incremento del rapporto tra

ricavi da traffico e costi operativi; la progressiva riduzione dei servizi offerti in

eccesso in relazione alla domanda e il corrispondente incremento qualitativo e

quantitativo dei servizi a domanda elevata; la definizione di livelli occupazionali

appropriati; la revisione di idonei strumenti di monitoraggio e di verifica.

L'articolato prevedeva, inoltre, che le regioni si sarebbero indirizzate verso la

riprogrammazione dei servizi di TPL e di trasporto ferroviario regionale,

rimodulando i servizi a domanda debole e sostituendo le modalità di trasporto da

ritenersi diseconomiche con altre più idonee a garantire il servizio nel rispetto del

rapporto tra ricavi e costi; la norma stabiliva anche che a seguito della

riprogrammazione, rimodulazione e sostituzione di cui al presente articolo, tutti i

contratti di servizio già stipulati da aziende di trasporto anche ferroviario,

sarebbero stati oggetto di revisione.

Sempre l'art. 9 della Legge di Stabilità 2013 prevedeva anche, che le aziende di

TPL e le aziende esercenti servizi ferroviari di interesse regionale e locale

avrebbero trasmesso per via telematica e con scadenza semestrale, i dati

economici e trasportistici all'Osservatorio presso il Ministero dei Trasporti istituito

ai sensi dell'art. 1, comma 300, della Legge n. 244 del 2007. Tale Legge stabiliva

che l'Osservatorio sulle politiche del TPL, cui partecipano i rappresentanti dei

Ministeri competenti, delle regioni e degli enti locali, avesse il compito di istituire

una banca dati e un sistema informativo pubblico correlato a quelli regionali al

fine di assicurare la verifica dell'andamento del settore e del completamento del

processo di riforma.

Una nuova norma contenuta nella Legge di stabilità 2013 prevedeva che le risorse

del Fondo nazionale non potessero essere destinate a finalità diverse da quelle del

finanziamento del TPL, anche ferroviario e che il monitoraggio sui costi e sulle

modalità complessive di erogazione del servizio in ciascuna Regione si sarebbe

svolto dall'Osservatorio presso il Ministero dei Trasporti.

Ma, sempre nella stessa legge, era previsto che le regioni non avrebbero avuto

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completo accesso al fondo se non avessero assicurato l'equilibrio economico della

gestione e l'appropriatezza della gestione stessa, secondo i criteri stabiliti dal

decreto che il Presidente del Consiglio ha emanato entro il 31 gennaio 2013.

Con la manovra finanziaria per il 201479, invece, si prevede che nel Patto di

Stabilità per gli enti locali non siano considerati i pagamenti in conto capitale,

ossia quelli destinati agli investimenti, sostenuti dai Comuni. È fatto divieto

inoltre a Regioni ed enti locali di:

� stipulare contratti relativi a strumenti finanziari derivati;

� rinegoziare derivati già in essere alla data di entrata in vigore della legge;

� stipulare contratti di finanziamento che includono componenti derivate.

La Legge di Stabilità, inoltre, al fine di favorire il rinnovo dei parchi

automobilistici e ferroviari destinati ai servizi di trasporto pubblico locale,

regionale e interregionale, nonché della flotta destinata ai servizi di trasporto

pubblico lagunare, la dotazione del fondo istituito dall’art. 1, comma 1031, della

Legge 27 dicembre, n. 296, è incrementata di 300 milioni di euro per l’anno 2014

e di 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016, da destinare

all’acquisto di materiale rotabile su gomma e di materiale rotabile ferroviario,

nonché di vaporetti e ferry-boat80. Al relativo riparto tra le regioni si provvede

entro il 30 giugno di ciascuno degli anni del triennio con le procedure di cui

all’art. 1, comma 1032, della Legge n. 296 del 2006, sulla base del maggiore

carico medio per servizio effettuato, registrato nell’anno precedente.

Entro il 31 marzo 2014, con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei

trasporti, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto

legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti, con criteri di uniformità a livello

nazionale, i costi standard dei servizi di trasporto pubblico locale e regionale

nonché i criteri per l’aggiornamento e l’applicazione degli stessi. Nella

79 Legge n. 147, approvata dal Parlamento il 27 dicembre 2013.80 Art. 1, comma 83, Legge n. 147/2013.

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determinazione del costo standard per unità di servizio prodotta, espressa in

chilometri, per ciascuna modalità di trasporto, si tiene conto dei fattori di contesto,

con particolare riferimento alle aree metropolitane e alle aree a domanda debole,

della velocità commerciale, delle economie di scala, delle tecnologie di

produzione, dell’ammodernamento del materiale rotabile e di un ragionevole

margine di utile. Infine, la legge prevede anche che a partire dall’anno 2014, al

fine di garantire una più equa ed efficiente distribuzione delle risorse, una quota

gradualmente crescente delle risorse statali per il trasporto pubblico locale è

ripartita tra le regioni sulla base del costo standard di produzione dei servizi.

4.3.7 Ulteriori provvedimenti legislativi

Allo stato attuale sono numerosi i provvedimenti legislativi finalizzati alla

disciplina del settore del trasporto pubblico locale, anche nel più ampio contesto

dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. In particolare, il quadro

normativo risulta costituito da:

Art. 1, comma 300, Legge 24 dicembre 2007, n. 244, istitutivo, presso il

Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, dell’Osservatorio nazionale

sulle politiche del trasporto pubblico locale con il compito di “[...] creare

una banca dati e un sistema informativo pubblico correlati a quelli

regionali e di assicurare la verifica dell’andamento del settore e del

completamento del processo di riforma” e di “presenta[re] annualmente

alle Camere un rapporto sullo stato del trasporto pubblico locale”;

l’art. 16-bis del D.l. 6 luglio 2012, n. 9581 istitutivo, “a decorrere

dall’anno 2013”, del “Fondo nazionale per il concorso finanziario dello

Stato, agli oneri del trasporto pubblico locale, anche ferroviario, nelle

regioni a statuto ordinario”;

81 D.l. 6 luglio 2012, n. 95 (decreto convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 7 agosto 2012, n. 135), contenente “Disposizioni urgenti per la revision della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonce misure di rafforzamento patrimoniale delel imprese del settore bancario”.

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l’art. 34, comma 20, D.l. 18 ottobre 2012, n. 17982, relativo all’iter da

seguire ai fini dell’affidamento del servizio (anche) di trasporto pubblico

locale. In particolare, tale stabilisce che “per i servizi pubblici locali di

rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina

europea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di

garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento,

l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione,

pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e

della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la

forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli

obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le

compensazioni economiche se previste”.;

l’art. 3-bis, D.l. n. 138/2011, che ha imposto la definizione del perimetro

degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali e omogenei ove organizzare lo

svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica,

istituendo o designando i relativi enti di governo;

l’art. 37, D.l. n. 201/2011, che stabilisce i compiti dell’Autorità di

regolazione dei trasporti. Si segnala come la predetta Autorità abbia

pubblicato sul proprio sito internet un documento di “Consultazione sulle

questioni regolatorie sulle procedure di gara per l’affidamento in

esclusiva dei servizi di trasporto pubblico locale” al precipuo scopo di

stimolare l’acquisizione, da parte di tutti i soggetti interessati, di

osservazioni scritte sul tema (Comunicato n. 38 del 3 luglio 2014). Entro il

termine stabilito (5 agosto 2014) sono pervenute all’Autorità di

Regolazione dei Trasporti numerose osservazioni scritte (nel numero di

24), sempre consultabili online. Detta attività appare collegata alla

specifica competenza assegnata a detta Autorità con riferimento alla

definizione degli “schemi dei bandi delle gare per l’assegnazione dei

servizi di trasporto in esclusiva e delle convenzioni da inserire nei

capitolati delle medesime gare e a stabilire i criteri per la nomina delle

82 D.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (decreto convertito, con modificazioni, dall’art 1, comma 1, L. 17 dicembre 2012, n. 221), contenete “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”.

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commissioni aggiudicatrici” e, in relazione ai servizi di trasporto

ferroviario regionale, all’attività di “verifica che nei relativi bandi di gara

non sussistano condizioni discriminatorie o che impediscano l’accesso al

mercato a concorrenti potenziali e specificamente che la disponibilità del

materiale rotabile già al momento della gara non costituisca un requisito

per la partecipazione ovvero un fattore di discriminazione tra le imprese

partecipanti” (art. 37, comma 2, lett. f), D.l. n. 201/2011);

Il comma 21 del già menzionato art. 34, D.l. n. 179/2012 dispone che “gli

affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto non

conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea devono essere

adeguati entro il termine del 31 dicembre 2013 pubblicando, entro la stessa

data, la relazione prevista al comma 20 [...]”. La norma da ultimo

menzionata ha formato oggetto di un successivo intervento normativo per

effetto dell’art. 13, primo comma, D.l. n. 150/2013, secondo cui, “in

deroga a quanto previsto dall’articolo 34, comma 21 del decreto-legge 18

ottobre 2012, n. 179, [...] al fine di garantire la continuità del servizio,

laddove l’ente responsabile dell’affidamento ovvero, ove previsto, l’ente di

governo dell’ambito o bacino territoriale ottimale e omogeneo abbia già

avviato le procedure di affidamento pubblicando la relazione di cui al

comma 20 del medesimo articolo, il servizio è espletato dal gestore o dai

gestori già operanti fino al subentro del nuovo gestore e comunque non

oltre il 31 dicembre 201483”;

l’art. 13, comma 25-bis, D.l. 23 dicembre 2013, n. 145, “gli enti locali

sono tenuti ad inviare le relazioni di cui all’articolo 34, commi 20 e 21,

del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni,

dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, all’Osservatorio per i servizi

pubblici locali, istituito presso il Ministero dello sviluppo economico

nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a

legislazione vigente e comunque senza maggiori oneri per la finanza

83 D.l. 30 dicembre 2013, n. 150 (decreto convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 27 febbraio 2014, n. 15), recante “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative”.

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pubblica, che provvederà a pubblicarle nel proprio portale telematico

contenente dati concernenti l’applicazione della disciplina dei servizi

pubblici locali di rilevanza economica sul territorio”;

a) L’art. 23, D.l. 24 aprile 2014, n. 66, sempre sul tema delle società

partecipate, dispone che “[...] il Commissario straordinario [...], entro il

31 luglio 2014 predispone, anche ai fini di una loro valorizzazione

industriale, un programma di razionalizzazione delle aziende speciali,

delle istituzioni e delle società direttamente o indirettamente controllate

dalle amministrazioni locali [...], individuando in particolare specifiche

misure: a) per la liquidazione o trasformazione per fusione o

incorporazione degli organismi sopra indicati, in funzione delle

dimensioni e degli ambiti ottimali per lo svolgimento delle rispettive

attività; b) per l’efficientamento della loro gestione, anche attraverso la

comparazione con altri operatori che operano a livello nazionale e

internazionale; c) per la cessione di rami d’azienda o anche di personale

ad altre società anche a capitale privato con il trasferimento di funzioni e

attività di servizi”.

4.3.7.1 Recenti interventi della Giurisprudenza

A talune delle incertezze originate dai frammentari interventi del legislatore a

proposito dell’individuazione delle specifiche modalità di affidamento del servizio

concretamente adottabili da parte dell’ente affidante si è recentemente (e

parzialmente) ovviato a cura della giurisprudenza amministrativa.

In particolare, degna di nota è la recentissima sentenza n. 4599 del 10 settembre

2014 con cui il Consiglio di Stato ha precisato che “per effetto [della pronuncia

della Corte Costituzionale n. 199/2012], i servizi pubblici locali di rilevanza

economica possono in definitiva essere gestiti indifferentemente mediante il

mercato (ossia individuando all’esito di una gara ad evidenza pubblica il

soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia

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per mezzo di una società mista e quindi con una “gara a doppio oggetto” per la

scelta del socio o poi per la gestione del servizio), ovvero attraverso

l’affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo

formalmente è diverso dall’ente, ma ne che sostituisce sostanzialmente un diretto

strumento operativo, ricorrendo in capo a quest’ultimo i requisiti della totale

partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) analogo (a

quello che l’ente affidante esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da

parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con

l’ente o gli enti che la controllano. L’affidamento diretto, in house, costituisce

invece una delle tre normali forme organizzative delle stesse, con la conseguenza

che la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici

locali, ivi compresa quella di avvalersi dell’affidamento diretto, in house (sempre

che ne ricorrano tutti i requisiti così come sopra ricordati e delineatisi per effetto

della normativa comunitaria e della relativa giurisprudenza), costituisce frutto di

una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata

circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, come tale,

sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia

manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed

arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico

travisamento dei fatti (Cons. St., sez. V, 30 settembre 2013, n. 4832; sez. VI, 11

febbraio 2013, n. 762)”.

4.3.8 Considerazioni finali sul quadro normativo

Le leggi sopra esaminate definiscono il percorso verso la liberalizzazione del

mercato del trasporto nel suo complesso e con qualsiasi modalità (ferroviaria,

automobilistica). Pare evidente che nel corso degli anni ci sia stata una spinta del

legislatore alla fornitura dei servizi pubblici mediante le imprese con la finalità di

indurre maggiormente alla concorrenza nell’erogazione di servizi pubblici, tra i

quali il trasporto pubblico locale.

Una caratteristica che emerge in modo assai evidente è la presenza di grandi

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incertezze normative per un comparto dove non si riesce a dare compiuta

attuazione ad una riforma prima che venga approvata la riforma successiva.

Comuni, Provincie e Regioni si trovano quindi con un quadro normativo non tanto

fluido, quanto soprattutto ricco di opportunità; nell’incertezza legata al proliferare

delle possibili interpretazioni, ciascuna amministrazione può legittimamente

ritenere di seguire una propria strada.

La messa in atto delle politiche di liberalizzazione ha generato la nascita di una

pluralità di imprese, che si muovono in tutti i settori di attività del trasporto

pubblico locale. Questi cambiamenti devono essere governati e sostenuti da un

forte sistema di regole, per evitare anche conseguenze ed effetti pesanti sul costo

del finanziamento dei servizi. La liberalizzazione, priva di regole, svilupperebbe

essenzialmente la concorrenza sulle differenze strutturali della definizione dei

costi, proprio per questo è utile adottare un criterio di controllo della spesa

pubblica.

In relazione al TPL vi è inoltre da osservare che i trasferimenti dello Stato alle

Regioni a statuto ordinario sono stati, negli ultimi anni, oggetto di riduzione. La

mancata assegnazione alle Regioni di queste risorse ha avuto pesanti ripercussioni

sul settore. Primo fra tutti l’incremento dei livelli tariffari al fine di compensare,

almeno in parte, la contrazione delle risorse; accompagnato da una drastica

riduzione dei livelli qualitativi e quantitativi del servizio offerto; non

dimenticando infine gli effetti occupazionali.

In questo quadro in continua evoluzione finanziario/normativo, le Regioni ed i

Comuni sono chiamati a scelte non semplici sia nella programmazione, sia nella

gestione e nel relativo controllo. In particolare si osserva come il processo di

pianificazione, non potrà finire con l’approvazione dei Piani Regionali dei

Trasporti, ma l’azione regionale dovrà programmare, amministrare e controllare in

modo dinamico il funzionamento del TPL. Le Regione dovranno dotarsi di un

efficace strumento di reporting individuando opportuni indici di prestazione per

governare i processi, verificare il raggiungimento degli obiettivi sociali ed

economici e rendere trasparente ai cittadini il ruolo di governo dell’ente.

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CAPITOLO 5

PER UNA MOBILITÀ SOSTENIBILE: QUALI STRATEGIE?

5.1 La sostenibilità dei trasporti urbani

La sostenibilità del trasporto costituisce ormai uno dei principali obiettivi

perseguiti dall’operatore pubblico: essa viene definita in modo da comprendere

non solo connotazioni ambientali (inquinamento dell’aria, inquinamento acustico

ecc.), ma anche altre dimensioni quali la vivibilità dei centri urbani e l’utilizzo

degli spazi. Gli interventi per realizzare questo obiettivo non sono agevoli da

definire a causa delle varie interrelazioni tra il settore dei trasporti, le attività

economiche e il territorio. Ad esempio, nel caso dell’inquinamento atmosferico

dei centri urbani o dell’effetto serra, occorrerebbe considerare anche il

riscaldamento domestico e le attività industriali. Un ulteriore esempio è dato dalla

interrelazione tra attività di trasporto e uso del suolo: la disponibilità di

infrastrutture e servizi di trasporto influenza l’uso del territorio e quest’ultimo, a

sua volta, influenza la domanda di trasporto, per cui è il sistema territoriale nel

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suo complesso che deve essere ripensato, anche in funzione di una minore

pressione sui centri urbani. In relazione a ciò, per salvaguardare la compatibilità

tra la qualità dei cittadini occorre non ridefinire l’offerta di trasporto, ma anche

contenerne la domanda, orientandola verso una mobilità a ridotto impatto

ambientale, verso cioè una mobilità sostenibile. In particolare, occorre agire sui

livelli di mobilità, sui mezzi di trasporto e sulle loro modalità d’uso e sulle

infrastrutture. Alcuni di questi interventi richiedono tempi di progettazione e di

esecuzione brevi mentre altri possono richiedere tempi lunghi. Gli interventi del

primo tipo sono accomunati dal fatto di prevedere una riduzione del traffico non

temporanea ma permanente e perseguita con gradualità. Le politiche di lungo

periodo, invece, sono volte soprattutto a migliorare l’offerta di mobilità e

consistono in azioni sul circolante, nell’espansione delle infrastrutture stradali, nel

miglioramento del trasporto pubblico e in tutte quelle soluzioni innovative in

grado di intervenire in modo automatico sul controllo della qualità.

5.2 Il controllo della mobilità

La sostenibilità urbana nel settore dei trasporti richiede che grande attenzione

venga data al controllo della mobilità. Sotto quest’ottica, nel corso degli ultimi

anni, la tariffazione dei parcheggi ha assunto una grande rilevanza, con una

diffusione generalizzata nei centri di una certa dimensione, e con la graduale

estensione in molte città delle aree a pagamento al di là delle zone centrali. In

questa direzione, la tariffazione dei parcheggi può rappresentare un meccanismo

importante per ridurre le inefficienze legate all’uso del veicoli, non solo

attribuendo un costo diretto all’occupazione dello spazio urbano, per lungo tempo

considerata risorsa gratuita, ma anche internalizzando i costi associati alla

mobilità privata. La potenzialità di questo strumento è accresciuta dal fatto che la

sua applicazione richiede ridotti investimenti iniziali e risulta generalmente più

accettata da parte delle collettività coinvolte, tanto da farlo ritenere da alcuni come

un’opzione più plausibile rispetto al road pricing. L’attuale applicazione della

sosta a pagamento, caratterizzata da una ridotta estensione delle aree coinvolte,

dall’adozione di tariffe mediamente contenute e da un elevato numero di categorie

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esentate o non influenzabili con la leva economica, è resa difficilmente

utilizzabile come strumento di gestione della domanda di mobilità e di controllo

della congestione urbana. In genere, essa è stata configurata come strumento per

reperire gettito, utile per far pagare agli utenti provenienti dalla cintura

metropolitana e dalle aree più esterne per l’uso della rete urbana e di altri servizi

finanziati prevalentemente dai residenti (illuminazione, parcheggi d’interscambio,

verde pubblico, polizia municipale, ecc.), ma molto meno come meccanismo di

internalizzazione dei costi esterni associati alla mobilità privata.

Il superamento di queste criticità, può essere perseguito, in primo luogo attraverso

il perfezionamento delle applicazioni esistenti, al fine di estenderne l’influenza a

un numero maggiore di utenti. Le autorità locali, ad esempio, possono

incrementare il numero di stalli a pagamento sotto il proprio controllo, portandone

progressivamente la copertura fino ai margini dell’area urbana e,

contemporaneamente coinvolgendo quelle categorie di domanda qualificata che

risultano frequentemente esenti (residenti, carico e scarico, manutentori ecc.).

Ugualmente importanti, anche se certamente più problematici, risultano i tentavi

di coinvolgere gli spazi di sosta al di fuori del controllo delle autorità locali. In

questa direzione, i centri commerciali, le imprese e i datori di lavoro possono

essere incentivati sia per legge sia attraverso accordi in forma volontaria, a

rendere manifesto ai propri clienti/dipendenti il costo di fornitura degli spazi di

sosta, al fine di poter introdurre un incentivo all’utilizzo di alternative rispetto

all’auto privata. Interessante la soluzione adottata in Svezia dove il benefit

costituito dalla disponibilità di sosta gratuita sul posto di lavoro può essere

contabilizzato nella base imponibile del reddito personale, in modo che le aliquote

marginali della tassazione possano fungere da disincentivo per l’uso dell’auto da

parte dei pendolari per recarsi sul posto di lavoro84. Per quanto interessanti, questi

tentativi rimangono tuttora isolati e con risultati molto modesti, tanto che la

disponibilità gratuita di parcheggio sul posto di lavoro o presso attività

commerciali di una certa dimensione rappresenta la norma decisamente

dominante85.

84 JANSOON J. O. (2002), “Co-ordinated Urban Transport Pricing and Parking Policy: A Scandinavian Perspective”, (http://iei.uv.es/roadpricing/ponencias/owen.pdf).85 SHOUP D. C. (2001), Parking Cash Out, in EMCT, Managing Commuters’Behaviour: A New Role for Companies, European Conference of Ministers of Transport, Paris, pp. 41-173.

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Un ulteriore intervento più avanzato riguarda l’applicazione del pedaggio urbano

in forma automatica. Questo sistema di tariffazione degli ingressi e, nelle

formulazioni più avanzate, della mobilità è in grado di commisurare in modo più

preciso le somme dovute al numero dei tragitti e alla loro collocazione spazio-

temporale, con l’ulteriore prospettiva di avere a disposizione nuove soluzioni

tecnologiche, come quella satellitare, che possono garantire un ulteriore

affinamento. Il pedaggio urbano permette di assoggettare al pagamento tutte le

categorie di utenti e spostamenti, compresi quelli che la tariffazione di parcheggio

non può e non riesce a cogliere: traffico d’attraversamento, utenti diretti verso

posti privati o aziendali, utenti che sostano regolarmente. L’affidabilità tecnica e

la sostenibilità finanziaria rendono possibile immaginare una progressiva

estensione del pedaggio al di là dei centri storici, in modo da coinvolgere una

quota maggiore di spostamenti e da costituire un adeguato strumento di gestione

della mobilità in tutta l’area metropolitana.

L’evoluzione verso questa fase è perseguibile solo su un arco di tempo allargato,

inserendo gli strumenti di prezzo in un quadro coordinato di interventi che ne

riesca a migliorare risultati e l’accettabilità.

5.3 Disincentivare l’uso dell’automobile

“Tra i costi esorbitanti per mantenere l’automobile e una crescente attenzione per

l’ambiente, gli automobilisti italiani iniziano a lasciare la macchina parcheggiata

a favore delle bici, autobus o a piedi. Anche se non supportate pienamente

soprattutto nelle grandi metropoli, le forme di mobilità sostenibile si stanno

espandendo”: è quanto sostiene la ricerca dell’osservatorio Mobilità Sostenibile

Airp, il quale, dopo avere aver rielaborato i dati Isfort (Istituto Superiore di

Formazione e Ricerca per i Trasporti), è giunto alla conclusione che nonostante le

tendenze in atto che portano verso un minore utilizzo, l’automobile resta

comunque il mezzo di trasporto di gran lunga più utilizzato dagli italiani (in auto

viene effettuato l’83% degli spostamenti con un mezzo motorizzato). È divenuto

ormai noto a tutti come il petrolio sia divenuto il principale combustibile utilizzato

nel settore dei trasporti, rendendo il settore dei trasporti il principale produttore di

emissioni. Il settore dei trasporti dipende quasi totalmente dal consumo di prodotti

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petroliferi e combustibili fossili che causano la liberazione nell’atmosfera di

sostanze inquinanti e climalteranti riconducibili ai principali gas serra quali: CO2,

N2O e CH4. Secondo il rapporto dell’APAT (Agenzia per la Protezione

dell’Ambiente e per i servizi Tecnici) “La mobilità in Italia: indicatori su trasporti

e ambiente”, dati di sintesi del 2005, le emissioni nazionali di gas- serra dai

trasporti sono aumentate del 31,1% tra il 1990 e il 2004 e l’anidride carbonica

contribuisce per il 96% alle emissioni di gas-serra generate dal settore. Come si

rileva, inoltre, esiste un dato di consistente interesse per quanto riguarda la

mobilità veicolare urbana e che indica come oggi molta parte delle attività svolte

nel corso della giornata e l’accesso ai servizi di base presuppongano lo

spostamento con il mezzo privato. La richiesta del trasporto su strada è in crescita:

nel 1990 le Unità di Trasporto di passeggeri o merci erano 791 miliardi, nel 2002

erano 1027, e, il valore nel 2013 era di 1355, con un incremento costante

superiore al 3% annuo.

Ad oggi esistono numerosi studi volti a definire iniziative aventi l’obiettivo o di

decrementare la domanda di automobili ad esempio disincentivandola o di rendere

l’utilizzo di questo mezzo di trasporto più sostenibile e di conseguenza meno

inquinante o semplicemente di condividerne l’utilizzo. Alla prima categoria

appartengono le politiche di “road pricing”, alla seconda invece appartengono

iniziative volte a utilizzare combustibili alternativi al petrolio, mentre quando si

parla di condivisione dell’automobile ci si riferisce a sistemi di “car sharing” o

“car pooling”, due aree distinte ma cha hanno in comune sia l’obiettivo sia su un

concetto di base: l’obiettivo è quello di diminuire il numero di veicoli in

circolazione principalmente sulle strade dei centri urbani, principale causa, come

detto precedentemente, degli elevati livelli di inquinamento, mentre l’idea di base

è la condivisione da parte di più individui di un solo veicolo che sarà

caratterizzato da un tasso occupazionale maggiore. Ora verranno trattate tutte le

cinque aree della mobilità sostenibile legate all’automobile.

5.3.1 Il Mobility Management

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Per risolvere gli effetti negativi causati dalle automobili, in Italia, con il Decreto

sulla mobilità sostenibile nelle aree urbane, è stata istituito il cosiddetto “mobility

management”, che si configura come un nuovo modo di affrontare i problemi

legati alla mobilità nelle aree urbane e metropolitane. Le attività promosse da tale

disciplina prendono in considerazione i problemi di mobilità in ambito urbano ed

extraurbano, con l’obiettivo principale di ridurre il numero delle vetture private

circolanti a favore dei mezzi di trasporto pubblico o alternativi (es: bicicletta, car

sharing, bike sharing etc.), migliorando in tale maniera l’accessibilità ai centri

urbani cittadini e diminuendo il grado di concentrazione delle sostanze inquinanti.

Il mobility management si basa su una serie di aspetti ritenuti fondamentali per

poter affrontare in modo efficiente problemi derivanti dalla mobilità, quali

l’informazione, la comunicazione, il coordinamento e l’organizzazione le cui

azioni non prevedono la realizzazione di nuove infrastrutture, ma si concentrano

su iniziative di persuasione, incentivazione, concessione e restrizione. Anziché

proporre il potenziamento dell’offerta, che normalmente richiede investimenti

notevoli e tempi di realizzazione lunghi, il mobility management si concentra,

quindi, sullo studio dei comportamenti degli utenti e sulla domanda di trasporto a

livello aggregato, in modo tale da individuare e dimensionare le possibili azioni

applicabili in ciascuna azienda, migliorando la mobilità dei lavoratori stessi. Il

mobility management tende a raggiungere mediante ogni attività i seguenti

obiettivi86:

� assicurare il soddisfacimento dei bisogni di mobilità delle persone e di

trasporto delle merci con il rispetto degli obiettivi di riduzione dei consumi

energetici e dei costi ambientali, sociali ed economici;

� migliorare l’accessibilità alla città/regione con particolare riguardo ai modi

“sostenibili”, quali il trasporto collettivo, il trasporto ciclo-pedonale e

quello combinato (intermodale);

� influenzare i comportamenti individuali incoraggiando l’utente a

soddisfare i bisogni di mobilità usando modi di trasporto ambientalmente e

86 PIERRI F. (1999), Linee guida per Mobility Managers: La redazione del Piano Spostamenti Casa-Lavoro, Direzione Centrale trasporti e viabilità, Milano, pp. 5-6.

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socialmente sostenibili;

� ridurre il numero, la lunghezza e i bisogni degli spostamenti individuali

con il veicolo privato;

� incoraggiare gli individui, le imprese e le istituzioni a soddisfare i loro

bisogni di spostamento attraverso l’uso efficiente ed integrato dei mezzi e

dei sistemi di trasporto disponibili;

� migliorare l’integrazione tra i modi di trasporto e facilitare

l’interconnessione delle reti di trasporto esistenti, anche attraverso lo

sviluppo di specifici sistemi informativi e di comunicazione;

� aumentare l’efficienza economica di ogni singolo modo di trasporto.

Per raggiungere tali obiettivi, sono state introdotte le figure del mobility manager

aziendale e del “mobility manager d’area”. Il mobility manager aziendale, è una

figura che deve essere assunta obbligatoriamente da imprese ed enti pubblici di

grandi dimensioni nelle aree soggette a rischio di inquinamento atmosferico. In

queste zone, generalmente caratterizzate da forti flussi di traffico, imprese ed enti

pubblici con singole unità locali con più di 300 dipendenti ovvero con un numero

complessivo di 800 dipendenti distribuiti in sedi diverse o raggruppamenti di

aziende più piccole, di gruppi scolastici e di poli ospedalieri sono tenute ad

adottare un piano degli spostamenti casa-lavoro (P.S.C.L.), del proprio personale

dipendente. Il principale obiettivo di questo documento è quello di ridurre l’uso

del mezzo di trasporto privato individuale e migliorare l’organizzazione degli

orari per limitare la congestione del traffico. Il P.S.C.L. coinvolge le aziende ed i

lavoratori nella progettazione e gestione di soluzioni di trasporto alternative e

coinvolge i comuni nella sua attuazione. Questi ultimi sono infatti chiamati a

stipulare con l’impresa o l’ente pubblico proponente eventuali accordi di

programma per l’applicazione del piano e ad istituire, una struttura di

collegamento, supporto e coordinamento tra i responsabili della mobilità

aziendale, le amministrazioni comunali e le aziende di trasporto che faccia capo

ad un mobility manager d’area. L’applicazione del P.S.C.L. può consentire alle

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aziende coinvolte di ottenere dei vantaggi, che possono essere sia di tipo diretto

che indiretto. Nel primo caso i dipendenti così come l’azienda, traggono delle

agevolazioni immediate e concrete. Nel secondo caso invece i guadagni, non

necessariamente sol0 economici, possono derivare dalle conseguenze del piano di

mobilità in un’ottica di medio periodo, come ad esempio la riduzione dello stress

da traffico per tutta l’area interessata.

Figura 5.1: I benefici diretti ed indiretti del P.S.C.L.

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Fonte: PIERRI F. (1999), Linee guida per Mobility Managers: La redazione del Piano Spostmenti Casa-Lavoro, Direzione Centrale trasporti e viabilità, Milano.

Il mobilty manager d’area è una figura di coordinamento afferente all’ambito

territoriale dell’ente o degli enti locali presso cui opera. I compiti di questo ufficio

secondo il c.d. Decreto Silvestrini, consistono nel: promuovere azioni di

divulgazione, formazione e di indirizzo presso le aziende e gli enti interessati;

assistere le aziende nella redazione dei P.S.C.L.; favorire l’integra- zione tra i

P.S.C.L. e le politiche dell’Amministrazione comunale in una logica di rete e di

interconnessione modale; verificare soluzioni, con il supporto delle aziende che

gestiscono i servizi di trasporto locale, su gomma e su ferro, per il miglioramento

dei servizi e l’integrazione degli stessi, con sistemi di trasporto complementari ed

innovativi, per garantire l’intermodalità e l’interscambio, e l’utilizzo anche della

bicicletta e/o di servizi di noleggio di veicoli elettrici e/o a basso impatto

ambientale; favorire la diffusione e la sperimentazione di servizi di taxi collettivo,

di car-pooling e di car-sharing; fornire supporto tecnico per la definizione dei

criteri e delle modalità per l’erogazione di contributi e incentivi diretti ai progetti

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di mobilità sostenibile; promuovere la diffusione di sistemi e mezzi di trasporto a

basso impatto ambientale; monitorare gli effetti delle misure attuate in termini di

impatto ambientale e decongestione del traffico veicolare.

5.3.2 Road Pricing

Nel corso degli anni si è sviluppato l’ormai noto “road pricing”, il quale prevede

l’istituzione di una tariffa d’uso dell’infrastruttura stradale e può flessibilmente

essere applicato in specifiche fasce orarie di maggior traffico (ore di punta) o in

situazione di congestione (congestion charging); questa iniziativa rappresenta in

ogni caso una politica punitiva e/o dissuasiva volta a disincentivare l’utente ad

utilizzare l’automobile per i propri spostamenti soprattutto quotidiani. Il road

pricing viene definito nella letteratura dell’Economia dei Trasporti come "la

tariffazione sull’uso dell’infrastruttura finalizzata a ridurre la congestione e ad

internalizzare le esternalità"87. L’utilizzo del road pricing, oggi applicabile con

tecnologie di tipo Telepass, presenta diversi vantaggi:

� consente di regolare il flusso veicolare con la massima elasticità: si può, ad

esempio, far pagare di più nelle ore di punta o nelle situazioni di maggiore

congestione;

� seleziona gli spostamenti secondo l’utilità economica, riportando le

decisioni decentrate in materia di mobilità nel contesto di valori e di scelte

proprio dell’economia di mercato;

� spinge ad ottimizzare l’uso dei veicoli, presentando specifiche sinergie con

il car pooling;

� incrementa le entrate della pubblica amministrazione consentendo di

autofinanziare interventi sul sistema dei trasporti;

� può essere utilizzato anche con finalità ambientali, di riduzione degli

87 TDM Encyclopedia, 2012.

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effetti inquinanti (per esempio, prevedendo esenzioni o riduzioni in

funzione dell’energia utilizzata, oppure commisurando la tariffa al livello

di inquinamento rilevato in quel momento).

Esistono varie tipologie di road pricing: “Road Tolls”, “Congestion Pricing”,

“Cordon (Area) Tolls, HOT Lanes”, “Vehicle Use Fees” e “Road Space

Rationing”.

Road Tolls. I pedaggi sono un modo comune per finanziare i miglioramenti

autostradali e infrastrutturali: sono pedaggi cosiddetti “fee-for-service”, i cui

ricavi vengono utilizzati per sostenere i costi del progetto. Questo è considerato

una modalità di finanziamento dei miglioramenti stradali più equo ed

economicamente più efficiente rispetto ad altre opzioni, che non prevedono un

aiuto economico proveniente dagli utenti utilizzatori. La riscossione dei pedaggi è

spesso proposto in collaborazione con la privatizzazione stradale (ad esempio, le

autostrade vengono costruite da imprese private e finanziate con i pedaggi). I

pedaggi sono spesso strutturati in modo da massimizzare i ricavi e il successo si

misura in termini di recupero del costo del progetto.

Congestion Pricing. Il Congestion Pricing, anche noto come “Value Pricing”, fa

riferimento a pedaggi variabili (prezzi più elevati in condizioni di intensa

congestione e prezzi più bassi in località meno congestionate), destinati a ridurre a

livelli ottimali il periodo di picco dei volumi di traffico. I pedaggi possono variare

sulla base di un programma fisso, oppure possono essere dinamici, il che significa

che i prezzi variano a seconda del livello di congestione esistente in un

determinato momento.

Cordon (Area) Tolls. Questi sono tasse pagate dagli automobilisti per guidare in

una determinata zona, di solito un centro della città: alcuni pedaggi cordone si

applicano solo nei periodi di punta, come nei giorni feriali. Ciò può essere fatto

semplicemente richiedendo un pedaggio all’entrata in una certa zona.

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HOT Lanes. Le corsie HOT (High Occupancy Toll) sono corsie HOV (High

Occupancy Vehicle), le quali consentono anche a veicoli a bassa occupazione di

poterle utilizzare a fronte del pagamento di un pedaggio. Le corsie HOT vengono

spesso proposte come un compromesso tra le corsie HOV e i pedaggi stradali.

Vehicle Use Fees. Le spese di chilometraggio possono essere utilizzate per

finanziare la realizzazione o il miglioramento delle strade o ridurre gli impatti del

traffico, tra cui la congestione, l’inquinamento e il rischio di incidenti. Nel 2002 è

stata avanzata una proposta da parte della Commissione britannica per la gestione

integrata dei trasporti, secondo la quali le tasse di immatricolazione dei veicoli

esistenti e le tasse sui carburanti venissero sostituite da una tassa per gli utenti

della strada variabile utilizzando il metodo di tariffazione basato sul GPS; secondo

la Commissione, infatti, questo avrebbe potuto essere un modo per ridurre la

congestione del traffico e riflettere in modo più equo i reali costi di carreggiata di

ciascun veicolo.

Road Space Rationing. Un’ultima tipologia di road pricing è quella di

considerare nei periodi di picco (della congestione) il numero di viaggi per veicoli

o il numero di chilometri per veicolo con un sistema di conteggio particolare: ad

esempio, ogni residente in una certa regione potrebbe ricevere dei crediti per ogni

100 chilometri che percorre nel periodo di picco. I residenti possono utilizzare i

crediti stessi, o scambiandoli con altre persone o addirittura vendendoli. Il

risultato è una forma di tariffazione della congestione, in cui vengono catturati i

benefici da parte dei residenti piuttosto che proprietari di strade o governi.

Nella tabella seguente vengono riepilogate le differenti tipologie esistenti di road

pricing.

186

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Tabella 5.2: differenti tipologie di Road Pricing

Sono richieste delle azioni e manovre politiche per incentivare le persone a

scegliere modalità di spostamenti alternativi all’uso della propria automobile, in

Road Pricing Descrizione Obiettivo

Road TollsUna tassa fissa per la guida su una strada particolare

Aumentare le entrate

Congestion Pricing

Una tassa che è maggiore in condizioni di congestione significativa, volta a spostare parte del traffico dei veicoli ad altri percorsi, in altri tempi e in modalità alternative

Aumentare le entrate e ridurre la congestione del traffico

Cordon (Area) TollsTariffe applicate per la guida in una particolare area

Ridurre la congestione nei maggiori centri urbani

HOT Lanes

Una corsia per veicoli ad alta occupazione che ospita un numero limitato di veicoli a bassa occupazione a pagamento

Aumentare le entrate rispetto ad una corsia HOV

Vehicle Use FeesUna tassa di utilizzazione del veicolo in base a quante miglia il veicolo ha percorso

Aumentare le entrate e ridurre vari problemi legati al traffico

Road Space Rationing

Entrate/crediti utilizzati per razionare i periodi di picco della congestione rispetto alla capacità stradale

Ridurre la congestione nei maggiori centri urbani

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quanto è condivisa l’idea che il primo passo per raggiungere l’obiettivo di

mobilità sostenibile sia proprio quello di abbattere la domanda di trasporto su

strada e quindi incentivare le persone a soddisfare i propri bisogni di mobilità

utilizzando modalità sostenibili da un punto di vista prima di tutto ambientale.

Una tattica utilizzata spesso per disincentivare l’uso dell’auto privata è appunto

quella di definire diverse forme di tassazione indiretta o il caricamento della

distanza basato sulla tecnologia del “Global Positioning System”, dove gli

automobilisti pagano in base al consumo del veicolo a seconda del percorso scelto

e del momento della giornata. Tuttavia, un regime di imposizione indiretta spesso

risulta molto impopolari e l’accettabilità da parte del pubblico può essere bassa a

meno che non sia dimostrato che il fatturato venga reinvestito in modo

appropriato.

5.3.3 Combustibili alternativi al petrolio

Esiste ad oggi una miriade di opzioni e alternative al petrolio come i

biocarburanti, il gas naturale, vetture ad idrogeno e i motori elettrici, i quali sono

da prendere seriamente in considerazione e su cui è necessaria un’attenta analisi di

costi/benefici, considerando non solo l’aspetto prettamente economico, ma anche

e soprattutto ambientale. Tuttavia vi è la necessità per i governi di finanziare la

ricerca e lo sviluppo di carburanti alternativi, pur utilizzando politiche fiscali che

consentano il passaggio a carburanti con basso utilizzo di risorse primarie (per

esempio il petrolio).

Le alternative ad oggi realizzate sono qui sintetizzate relative sia alle tipologie di

combustibili che di veicoli:

� veicoli con motore a combustione interna: in questo veicolo la

combustione che avviene nel motore viene modificata al fine di poter

utilizzare i biocarburanti, combustibili liquidi per trasporto prodotti a

partire da oli vegetali riciclati/amido e piante di zucchero; molti veicoli

possono funzionare con una miscela di petrolio costituito solamente dal

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5% di biodiesel o bioetanolo (l’equivalente della benzina) con una ridotta

modifica del motore e non sono richieste infrastrutture specialistiche; lo

svantaggio economico riguarda l’elevato costo ad oggi dei biocarburanti

rispetto ai combustibili convenzionali;

� veicoli con motore a combustione interna possono in alternativa essere

modificati per utilizzare combustibili gassosi come l’Autogas o gas di

petrolio liquido (stoccati in forma compressa o liquefatta). Il sostanziale

vantaggio è che il gas naturale è il combustibile migliore dal punto di vista

economico al momento conosciuto;

� i veicoli a celle combustibili utilizzano l’idrogeno, l’elemento più

abbondante presente in natura ed è stato usato spesso come combustibile

per i viaggi nello spazio; il sostanziale vantaggio di tale tecnologia è la

possibilità di ottenere un’energia pulita eventualmente convertibile in

elettricità;

� i veicoli elettrici a batteria utilizzano celle combustibili per convertire

l’energia chimica in energia elettrica; il principale vantaggio è l’assenza di

emissioni di tali veicoli, i motori elettrici aumentano l’efficienza del 20%

mediante un collegamento diretto alle ruote;

� i veicoli elettrici ibridi rappresentano una soluzione intermedia tra quelli

a combustione interna e i motori elettrici88, in cui è previsto un sistema di

gestione dell’energia al fine di ottimizzare il risparmio di carburante di

entrambi i motori, in quanto i motori elettrici e quelli a combustione

lavorano meglio in situazioni di guida differenti.

5.3.3.1 Mercato europeo delle auto elettriche

Nel corso del 2014,89 in Europa sono state vendute 29.000 auto elettriche più che

88 ORTMEYER H. T., PILLAY P. (2001), “Trends in transportation sector technology energy use and greenhouse gas emissions”, Proceedings of the IEEE-PIEEE, Vol. 89, No. 12.89 COMUNELLO D. (2014), “La classifica europea delle vendite: Italia all’ottavo posto”,

189

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negli Stati Uniti, fermi a 25.300. L’aumento rispetto al 2013 è consistente, pari al

77 per cento, ma si concentra soprattutto in Norvegia, paese che ha registrato un

vero e proprio boom grazie agli enormi incentivi: le elettriche, infatti, non pagano

i parcheggi, pedaggi e possono usare le preferenziali. In Norvegia, le

immatricolazioni del primo semestre sono state 9.950, praticamente un terzo del

totale e quattro volte le vendite registrate nel 2013.

Diversa, invece, la situazione nel resto d’Europa con la Francia al secondo posto

avendo registrato 6.405 vendite e un calo del 12 per cento rispetto al 2013.

Numeri ancora più contenuti per la Germania (4.230) e Regno Unito (2.570), dove

tuttavia il mercato elettrico è quasi raddoppiato90. Al quinto posto c’è l’Olanda con

1.149 vendite, poi la Svizzera (867), Austria (709) e infine all’ottavo posto l’Italia

con 648 elettriche vendute.

Per il nostro paese, i numeri sono contenuti, anzi quasi impercettibili se messi a

confronto con il mercato automotive nel suo complesso, ma diventano più

interessanti se si confrontano con i dati di Rse (Ricerca sul sistema energetico) su

gli ultimi anni: in Italia, infatti, sono state vendute 114 elettriche nel 2010, 302 nel

2011, 520 nel 2012 e 870 nel 2013, Con 648 immatricolazioni in sei mesi, è quasi

sicuro che il 2014 farà registrare un sensibile aumento91 (Figura 5.3).

Figura 5.3: Andamento dei dati di vendita delle auto elettriche in Italia

Quattroruote.90 Op. cit, 65.91 Op. cit, 65.

190

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Fonte: www.mondoelettrico.blogspot.it

5.3.3.2 Considerazioni sullo sviluppo dell’auto elettrica

Ad oggi, gli operatori del settore ritengono il mercato ancora troppo statico e

sicuramente non in grado di raggiungere gli obbiettivi definiti dall’Unione

Europea (125000 vetture nel 2020 in Italia) a causa di gravi problemi quali:

� il ritiro per manutenzione straordinaria di molti modelli ha scoraggiato

l’acquisto di auto elettriche perché ritenute non sicure;

� il prezzo molto alto delle batterie (circa 400 €/kw) incide per il 60% sul

prezzo totale del prodotto, rendendolo poco appetibile nei confronti di

un’automobile tradizionale;

� ansia da ricarica. Lo sviluppo non ancora massivo e capillare della rete di

ricarica non consente di attenuare la paura dell’utilizzatore di rimanere

senza energia per tornare a casa o alla prima stazione di ricarica;

191

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� l’auto elettrica è mal vista poiché l’utilizzatore la confronta erroneamente

con una macchina tradizionale per effettuare tragitti superiori ai 500-600

chilometri. A causa di una incapacità di far cambiare mentalità ai possibili

utilizzatori, i produttori di auto elettriche non riescono a far percepire alle

persone che l’auto elettrica è destinata, ad oggi, al solo utilizzo urbano;

� il sistema incentivante è fatto per sviluppare il mercato dell’auto elettrica

ma viene condiviso con le forme ibride a metano e GPL che, godendo di

mercati ben più solidi e strutturati, esauriscono l’incentivazione in tempi

molto brevi (nel 2013 circa due settimane) compromettendo le vendite del

settore elettrico durante il periodo dell’anno non incentivato;

� non si riesce a far percepire il vantaggio economico che una vettura è in

grado di portare ad un utilizzatore lungo il suo intero ciclo di vita;

� le batterie sono percepite erroneamente poco sicure e con una perdita di

carica troppo repentina. Questi “miti” risultano essere difficilmente

removibili poiché le persone comuni si concentrano sul litio e non sui

numerosi test sostenuti da questa tecnologia prima di essere proposta al

mercato e sulla ignoranza riguardante la vita utile di una batteria e la

componentistica elettronica di bordo delle vetture.

A vantaggio di questo mercato ci sono però i seguenti aspetti:

� l’economicità del veicolo elettrico, in quanto una volta percepita dal

cliente, riesce ad essere un driver di scelta rilevante;

� la percezione della sostenibilità ambientale da parte delle persone è in

continua crescita;

� si stanno stipulando accordi commerciali tra le società automobilistiche e

le aziende presenti sul territorio per elettrificare il proprio parco auto

192

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senza pesare direttamente sul lavoratore. Questo potrebbe portare ad una

più rapida crescita della rete infrastrutturale e ad una maggior

sensibilizzazione sulla mobilità elettrica delle persone;

� le case automobilistiche stanno promuovendo forme di noleggio della

batteria per evitare di accrescere eccessivamente il prezzo dell’automobile

rispetto a quello delle vetture termiche. Questo viene fatto anche per

consentire una sostituzione della batteria in caso di malfunzionamento

senza gravare ulteriormente sull’acquirente;

� la diffusione delle vetture elettriche abbatterebbe l’emissione di CO2 nelle

città consentendo di evitare il blocco del traffico che saltuariamente viene

effettuato;

� essendo veicoli privi di rumore, consentono di effettuare spostamenti con

la percezione di una maggiore rilassatezza durante il viaggio;

� l’abbattimento di CO2 porta a sensibili risparmi sulla spesa sanitaria

nazionale e conseguentemente una possibile riduzione della pressione

fiscale.

5.3.4 Car Sharing

Il car sharing (dall’inglese auto condivisa o condivisione dell’automobile) è un

servizio che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola e

riportandola in un parcheggio vicino al proprio domicilio, e pagando in ragione

dell’utilizzo fatto. Questo servizio viene utilizzato all’interno di politiche di

mobilità sostenibile, per favorire il passaggio dal possesso del mezzo all’uso dello

stesso (cioè all’accesso al servizio di mobilità), in modo da consentire di

rinunciare all’automobile privata ma non alla flessibilità delle proprie esigenze di

mobilità. Il car sharing è nato nei Paesi dell’Europa Centrale come bene condiviso

da privati nella forma di cooperativa di consumo, utilizzando veicoli in

193

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multiproprietà; il sistema si è poi trasformato in un servizio di trasporto vero e

proprio, curato da una società di gestione e con un proprio mercato di riferimento.

L’auto, in questo modo, passa dall’ambito dei beni di consumo a quello dei

servizi. Tipicamente si tratta di un servizio commerciale erogato da apposite

aziende, spesso con l’appoggio di associazioni ambientaliste ed enti locali e

permette l’uso plurimo di uno stesso veicolo affittato dall’utente per uno specifico

spostamento, tende ad incidere sulla considerazione di vantaggio nell’uso e non

nel possesso dell’autovettura.

Gli attori di questo sistema sono:

� la società di gestione, che appunto gestisce il parco dei veicoli, riceve e

soddisfa le richieste di prenotazione, registra le modalità di utilizzo e ne

fattura il corrispettivo;

� l’associato, che paga una quota per partecipare all’utilizzo del servizio e lo

può utilizzare effettivamente dietro prenotazione, pagandone il

corrispettivo.

Il car sharing, promosso e supportato a livello normativo già dal 2005 va

considerato quale nuova “etica” dello spostamento urbano e polarizza su di se una

nuova attenzione degli amministratori, operatori e studiosi della città anche in

forza dell’adozione di nuove tecnologie adottate nei protocolli d’uso dei veicoli

messi a disposizione degli utenti urbani. Il sistema, introdotto per la prima volta in

Svizzera alla fine degli anni Ottanta, consente di effettuare spostamenti atipici, in

qualsiasi ora e con la massima flessibilità rispetto alle esigenze dell’utente. In

generale l’utente del car sharing paga una quota annua di affiliazione alla società

di gestione ed, in alcuni casi, una caparra rimborsabile come costi fissi relativi al

servizio; per quanto riguarda il costo variabile esso è connesso con l’uso che si fa

del veicolo e prevede una quota relativa al tempo d’uso ed una seconda

riconducibile alla percorrenza in chilometri. Il servizio è on demand per cui

194

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l’utente prenota, anche via Internet, l’auto di cui intende servirsi presso il più

vicino parcheggio di auto car sharing. Successivamente, utilizzando la propria

card dotata di chip, si reca al parcheggio ed accede all’auto semplicemente

avvicinando la card al parabrezza. Il computer di bordo riconosce l’utente, sblocca

le portiere ed, attraverso la digitazione del codice personale, attiva tutte le

funzioni per consentire lo spostamento veicolare. In molti casi nell’affiliazione al

servizio si hanno vantaggi e sconti per l’uso dei mezzi pubblici, per

l’autonoleggio esterno in caso di lunghe percorrenze ed, in generale, il parcheggio

all’interno delle strisce blu è gratuito. Dopo l’uso è possibile lasciare il veicolo in

un altro dei parcheggi car sharing distribuiti sul territorio cittadino.

Fra le recenti esperienze internazionali di maggior interesse vanno segnalate le

nuove istituzioni di gruppi non-profit di car sharing che forniscono il servizio in

collaborazione con le amministrazioni locali, le società di trasporto pubblico, le

università, ecc.: tra le più attive negli USA vi sono Austin in Texas e San

Francisco in California ove esistono tre società di car sharing di cui due for-profit

ed una non-profit. In Europa sono numerose le esperienze di successo a partire da

quella svizzera, ove già dal 1948 erano state avviate le attività della cooperativa

Sefage a Zurigo e che oggi con la Mobility CarSharing Switzerland conta più di

1.300 auto disponibili, a quella tedesca di Berlino con la Stadtauto Drive che

vanta circa 9.000 affiliati, a quella relativa al programma Praxitele in Francia che

nel 1997 avviò la sperimentazione con 50 auto Renault elettriche ubicate in 11

aree di parcheggio (Praxiparcs) nelle vicinanze di stazioni o grandi uffici; inoltre

è importante segnalare che interessanti iniziative sono state portate avanti in

questi anni e sono tutt’ora attive anche in tutto il Regno Unito e nei Paesi Bassi

dove esiste da tempo una diffusa cultura dell’autonoleggio. Volendo scendere

ancora in dettaglio, in Italia, ove esiste un programma nazionale: “Iniziativa Car

Sharing”, al quale aderiscono numerose città, fra le esperienze più significative, è

possibile individuare numerose centri urbani in cui è ad oggi attivo un servizio di

questo tipo; nella tabella seguente vengono elencate tali città, con anche le

informazioni relative alla data di attivazione il numero di vetture a disposizione, il

totale degli utenti iscritti e le aree di parcheggio disponibili.

195

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Tabella 5.4: Iniziative di car-sharing nei centri urbani italiani

196

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Fonte: http://www.icscarsharing.it

Considerando la data di attivazione, le facilities offerte, il numero di auto della

flotta ed il numero di aree parcheggio dislocate sul territorio nazionale, vanno

citate quelle di Milano, Torino e Genova: Milano è stata la prima città italiana ad

implementare il car sharing su scala urbana realizzando una joint venture con

Legambiente. Torino invece ha da tempo sperimentato car sharing anche con le

auto elettriche ed attualmente esiste nella città piemontese la più elevata offerta

nazionale di auto ed aree di parcheggio gestita da una società mista, la Car City

Club, della quale fanno parte per il 51% la ATM (Azienda Torinese di Mobilità),

per il 33% la Savarent (società di Fiat Auto che opera nei settori del noleggio

autoveicoli e della gestione di flotte) e per il 16% la Capi (cooperativa attiva nel

settore della gestione dei servizi di trasporto). In ultima analisi vi è Genova, città

che ha attivato il servizio nel luglio del 2004 e si è subito distinta per la vasta

offerta di aree di parcheggio all’interno della città. Il numero e la distribuzione dei

parcheggi car sharing all’interno del territorio urbano rappresentano fattori

strategici per l’appetibilità e la diffusione del servizio.

Città Data Inizio N. auto N. utenti N. parcheggi

Bologna Agosto 2002 39 1159 28

Firenze Aprile 2005 16 613 16

Brescia Febbraio 2010 6 120 5

Palermo Marzo 2009 46 1104 44

Genova/SavonaLuglio 2004/Giugno 2009 55 2339 45

Milano Settembre 2001 137 6530 75

Modena Aprile 2003 17 223 13

Parma Febbraio 2007 10 372 10

Roma Marzo 2005 115 3313 78

Torino Novembre 2002 121 2420 76

197

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Anche le stesse università (Politecnico di Milano, Cattolica) erogano servizi di

questo tipo, facilitando gli spostamenti dei propri studenti avendo un occhio di

riguardo agli aspetti legati alla sostenibilità ambientale, economica e sociale.

Il concetto di car sharing si basa sulla distinzione tra accessibilità automobilistica

e la proprietà, in particolare esso separa la nozione di uso dell’automobile dalla

proprietà, fornendo agli individui la possibilità di aver accesso in modo comodo

ad una flotta comune di veicoli, piuttosto che ad una sola di proprietà privata. In

questo senso, il car sharing è un esempio del crescente numero di alternative alla

proprietà privata in quello che Katzev chiama “l’età di accesso”: egli suggerì che

“ci stiamo muovendo da un mercato basato su un’economia a quello in cui beni

privati non sono più tanto importanti quanto avere accesso ad essi92”; attrezzature

acquistate con metodologia leasing e le cooperative agricole sono esempi di

questa crescente tendenza.

La letteratura si è focalizzata nello studio della tematica con lo scopo ultimo di

definire delle “best practise” che le amministrazioni locali potrebbero considerare

per eventualmente implementare nell’area di loro pertinenza. Huwer avanzò

alcune proposte93 circa azioni che nel breve potrebbero essere implementate,

partendo dalla convinzione che la preoccupazione delle imprese di trasporti

pubblici relativa al fatto che il car sharing possa erodere il loro business sia

completamente infondata:

� integrazione del car sharing con il sistema di trasporto urbano, per esempio

aggiungendo la possibilità di usufruire a prezzi agevolati del servizio di car

sharing a tutti gli utenti detentori di un abbonamento annuale dei mezzi

pubblici; rendendo disponibili le informazioni relative al car sharing nei

centri clienti attualmente a disposizione unicamente del trasporto pubblico;

definendo un numero verde unico;

92 KATZEV R. (2003), “Car Sharing: A New Approach To Urban Transportation Problems”, Analyses of Social Issues and Public Policy, Vol. 3, No. 1, pp. 65-86.93 HUWER U. (2003), “Public transport and car-sharing: benefits and effects of combined services”, Transport Policy, Vol. 11, No. 1, pp. 38-43.

198

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� campagne promozionali, anche prevedendo di pubblicizzare la tematica su

giornali locali, newsletter;

� offrire la possibilità ai potenziali utenti di testare in prima persona il

servizio in modalità completamente gratuita.

I riflettori accesi sul car sharing e sull’importanza di pubblicizzarne gli effetti che

il suo sviluppo potrebbe generare in termini di impatti ambientali e sociali in

generale, ma anche a livello individuale i vantaggi ottenibili anche in termini

economici è ormai una questione ampiamente condivisa da molti autori. E’

convinzione di molti che il car sharing, se ampiamente sfruttato, possa

decrementare la problematica della congestione e dei livelli di inquinamento nei

centri urbani, tutti obiettivi raggiungibili in quanto questo è un servizio che

permette la diminuzione del chilometraggio individuale, un notevole risparmio di

carburante, una riduzione del numero di mezzi privati circolanti sulla strada che

avrebbe come impatto la diminuzione dei livelli di emissioni e un decremento

significativo del numero di incidenti.

Il sistema del car sharing è particolarmente vantaggioso per gli automobilisti che

utilizzano occasionalmente l’auto, in quanto si può disporre nei momenti di

necessità, di un mezzo individuale senza dover sostenere gli alti costi fissi di

esercizio legati al possesso dell’auto che alle basse percorrenze hanno

un’incidenza rilevante sul costo complessivo. I vantaggi per gli utenti possono

essere così sintetizzati:

� risparmio di tempo: l’utente usa il mezzo quando ne ha la necessità

eliminando anche la ricerca di un parcheggio dopo l’uso;

� eliminazione dei costi di manutenzione;

� risparmio economico tanto maggiore quanto minori sono i chilometri

annui percorsi. Il valore al di sotto del quale risulta vantaggioso usufruire

di questo servizio è stimato intorno agli 8000-10.000 km/anno;

� scelta della vettura più adatta alle finalità del singolo spostamento.

199

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Un altro beneficio molto importante è la riduzione delle emissioni inquinanti,

principalmente per due motivi:

� la flotta del car sharing è composta da mezzi con le più basse emissioni

possibili nelle proprie classi di veicolo. Inoltre spesso le vetture viaggiano

a metano;

� i clienti del car sharing riducono in maniera significativa il numero di

chilometri viaggiati in auto, in quanto compiono scelte di viaggio più

razionali.

A questi vantaggi per il singolo utente sono da aggiungere i benefici legati al

risparmio energetico e al contenimento delle emissioni, nonché alla riduzione

della richiesta di parcheggi per la sosta. Ma è necessario anche analizzare l’altra

faccia della medaglia: è particolarmente conosciuto nel nord Europa e in America

dove l’utilizzo dell’automobile condivisa è già entrata a far parte delle abitudini

comuni. Nel nostro Paese il car sharing si sta progressivamente affermando nelle

grandi città, anche se i numeri sono tuttavia ancora bassi, talvolta i costi troppo

alti e sono ancora pochi i centri car sharing nelle città italiane; inoltre un ulteriore

svantaggio è legato alla burocrazia, in quanto, almeno all’inizio, occorre tempo

per compilare moduli e iscriversi al servizio; inoltre la distanza dei parcheggi

(l’auto condivisa deve essere sempre lasciata presso lo stesso parcheggio del

gestore da cui è stata presa in consegna), l’obbligo di prenotare preventivamente

gli orari di utilizzo, la rigidità significativa in caso si desideri cambiare

programma in corsa e, non da ultimo, la condivisione del mezzo con altri

utilizzatori completano il quadro dei vantaggi e svantaggi legati allo sfruttamento

di un servizio di car sharing.

5.3.4.1 Prospettive di sviluppo del car sharing in Italia

Le prospettive di sviluppo in Italia nei prossimi anni riguardano:

una maggiore copertura geografica delle città in cui il car sharing è già

200

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erogato, con l’aumento dei veicoli e delle aree di sosta a loro disposizione;

una maggiore sinergia con le aziende di TPL in modo da concorrere alla

realizzazione di un nuovo modello di mobilità via via meno basato sulla

necessità de auto privata;

l’avvio del servizio in nuove realtà, sia in aree metropolitane limitrofe a

quelle già servite, sia in altre citta da parte di nuovi gestori, che si possano

inserire nel circuito Ics anche collaborando con gestori già operativi;

l’integrazione dei servizi locali meno redditizi all’interno di realtà

imprenditoriali in grado di raggiungere livelli di attività sostenibili;

un aggiornamento del sistema tecnologico impiegato e un ampliamento

delle offerte tariffarie, con particolare riguardo alle aziende e alla mobilità

non costituita da turisti o utenti occasionali che sempre più scelgono il car

sharing nei weekend o durante le vacanze;

l’effettuazione di azioni informative e promozionali più mirate a

determinati target di utenza, attraverso attività di ufficio stampa Ics-

Ministero-Amministrazioni locali finalizzate ad evidenziare i vantaggi

economici e sociali del car sharing e ad aumentare così la diffusione a

livello nazionale e soprattutto locale;

un maggiore coinvolgimento degli Enti Pubblici locali attraverso la

sottoscrizione di contratti per l’utilizzo di flotte di auto car sharing

dedicate, poiché la loro partecipazione è necessaria per aumentare il

bacino di utenza aziendale.

5.3.5 Car pooling e Ride sharing

Il termine inglese “car pooling”, corrispondente in italiano ad auto di gruppo,

indica una modalità di trasporto che consiste nella condivisione di automobili

201

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private tra un gruppo di persone, con il fine principale di ridurre i costi del

trasporto e anche questo è un ambito di intervento della mobilità sostenibile. Nello

specifico, uno o più dei soggetti coinvolti mettono a disposizione il proprio

veicolo, eventualmente alternandosi nell’utilizzo, mentre gli altri contribuiscono

con adeguate somme di denaro a coprire una parte delle spese sostenute dagli

autisti: tale modalità di trasporto è diffusa in ambienti lavorativi o universitari,

dove diversi soggetti, che percorrono la medesima tratta nella stessa fascia oraria,

spontaneamente si accordano per viaggiare insieme.

La pratica del condividere l’auto è maggiormente diffusa nei paesi del nord

Europa e negli Stati Uniti d’America dove esistono associazioni specifiche e dove

la pratica è prevista anche nella segnaletica stradale, mentre trova tuttora moderata

applicazione in Italia. Cominciano però a svilupparsi alcune iniziative specifiche

che trovano spazio anche sui quotidiani nazionali: il giornalista Paolo Scandale, il

17 Dicembre 2008 pubblicò su La Repubblica un articolo il cui obiettivo era

quello di diffondere ed elogiare un’iniziativa intrapresa da un’università milanese,

la Cattolica, incentrata sulla realizzazione di un portale (www.unicattit/mobility)

che i dipendenti dell’Ateneo avrebbero potuto utilizzare previa registrazione per

sfruttare il servizio di car pooling. Nel 2009 è stata pianificata anche un’iniziativa

ufficiale da parte di Autostrade per l’Italia per l’incentivazione al car pooling, che

prevedeva sulle autostrade A8 e A9 una riduzioni sull’importo del pedaggio

autostradale. Secondo uno studio pubblicato nel febbraio 2011 da uno dei

principali portali di car pooling in Italia [postinauto.it, 2012], a praticare il car

pooling sarebbero essenzialmente i giovani: il 31% degli utenti sarebbero

compresi nella fascia 18-24, il 29% in quella dai 25 ai 34 anni. Le donne

sarebbero meno propense rispetto agli uomini a condividere l’auto, ma

rappresenterebbero comunque il 38% dei “car pooler”. Secondo lo studio

pubblicato a maggio 2012 da uno dei principali portali di Social Carpooling in

Italia (Bringme Social Carpooling), il pubblico femminile ha ottenuto una crescita

del 48% nei primi cinque mesi del 2012. Il car pooling sembra essere

particolarmente amato dagli studenti, ma anche dai membri dell’esercito e delle

forze dell’ordine. A livello di distribuzione geografica, il car pooling sarebbe

praticato maggiormente nelle aree metropolitane e nel Nord Italia, con Milano,

202

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Roma, Torino, Como, Verona, Vicenza e Pistoia in testa, mentre al Sud e

soprattutto in Sardegna stenta ancora a diffondersi; unica realtà del Sud a fornire

tale servizio è il comune di Salerno, dal 25 gennaio 2012.

Questo servizio presenta indiscutibili vantaggi legate al fatto che, per esempio,

essendo le autovetture progettate per un minimo di 4 o 5 occupanti e solitamente

utilizzate dal solo guidatore, la condivisione potenzialmente potrebbe migliorare

la congestione del traffico riducendo il numero di veicoli in circolazione e senza

abbisognare di investimenti in nuove infrastrutture; conseguenza diretta di

quest’ultimo aspetto, proprio perché in circolazione si avrebbe un minor numero

di mezzi, sarebbe la riduzione dei livelli di inquinamento urbani. Una condizione

sicuramente necessaria ma non sufficiente che ha permesso lo sviluppo del car

pooling è da attribuire allo sviluppo parallelamente e diffusione di numerose

piattaforme Web che consentono, a chi cerca un passaggio ed a chi lo offre, di

incontrarsi e definire al meglio i dettagli organizzativi del viaggio, sia di natura

occasionale che continuativa; piattaforme che consentono di superare il principale

ostacolo del car pooling, ossia la comprensibile diffidenza nel condividere un

viaggio in auto con degli sconosciuti. Grazie ad un sistema di commenti presente

sulla maggior parte di queste piattaforme è possibile infatti conoscere in anticipo

il comportamento abituale del proprio eventuale compagno di viaggio, facilitando

il superamento della diffidenza e l’accettazione della condivisione dello

spostamento. L’uso collettivo dell’automobile può essere incentivato specialmente

nelle aziende, tra coloro che lavorano in uno stesso luogo ed abitano in zone

vicine o molto prossime. Il car pooling può infatti essere organizzato attraverso

una centrale operativa dotata di uno specifico software che gestisca la banca dati e

organizzi gli equipaggi anche attraverso bacheche virtuali (i cosiddetti

newsgroup). I vantaggi per un’amministrazione comunale che intenda promuovere

questo tipo di mobilità sostenibile sono:

� riduzione dell’inquinamento atmosferico,

� riduzione della congestione stradale,

203

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� riduzione dei tempi di trasporto e

� maggiore efficienza del trasporto pubblico.

Mentre i vantaggi per l’utente sono:

� minori costi di trasporto e diminuzione del rischio di incidenti,

� contribuire alla tutela dell’ambiente e della salute umana e

� socializzazione tra colleghi o nuovi compagni di viaggio.

Il “ride sharing”, invece, è la pratica di condividere con altre persone un viaggio

lungo, ponendo l’enfasi quindi, non sull’auto messa in comune tra un gruppo di

persone che percorrono regolarmente la stessa tratta, ma sull’iniziativa del singolo

automobilista che percorre una tratta in auto e, tramite siti dedicati come

BlaBlaCar, “affitta” i propri posti liberi e riesce così a trovare dei compagni di

viaggio che contribuiscono alle spese. Una sorta di moderno autostop, dove

tuttavia gli utenti sono più o meno monitorati, a seconda della piattaforma, e ci si

accorda sul web prima dell’inizio del viaggio. Sulla problematica legata alla

resistenza degli utenti allo sviluppo del ride sharing, in termini di diffidenza nel

condividere per un intero viaggio l’automobile con estranei, si sono sviluppate

appunto numerose piattaforme che hanno l’obiettivo di raccogliere tutti i

commenti relativi ad esempio al loro grado di soddisfacimento circa un viaggio

con uno specifico guidatore, commento che, essendo spontaneo, avrà lo stesso

peso di una vera e propria raccomandazione. Un esempio è BlaBlaCar, primo

operatore europeo del ride sharing, che si impegna a offrire un servizio il più

sicuro possibile. Esso, è una piattaforma online che mette in contatto automobilisti

con posti liberi a bordo delle proprie auto con persone in cerca di un passaggio

che viaggiano verso la stessa direzione. La piattaforma, verifica l’identità dei suoi

iscritti, ad esempio controllando la veridicità del numero di cellulare, disponendo

anche di un servizio di assistenza dedicato alla community. La fiducia è alla base

204

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di tutte le community e BlaBlaCar grazie ai commenti di feedback rilasciati dagli

utenti che hanno condiviso l’auto, costruisce la loro reputazione. In questo modo,

prima di contattare un utente per condividere un viaggio con lui, è possibile

leggere i commenti che lui ha ricevuto da altri utenti, beneficiando così della loro

esperienza.

BlaBlaCar, dunque non è solo un servizio di ride sharing ma anche un fenomeno

mediatico e sociale, virale, che affonda le proprie radici proprio nelle reti di

persone che da anni sono connessi grazie ad Internet. L’interfaccia del sito

permette subito di cercare in pochi secondi un passaggio: basta inserire un punto

di partenza e destinazione per trovarsi davanti ad una folta lista di eventuali

accompagnatori. Successivamente, è anche possibile migliorare i risultati

impostando alcuni criteri, come la data di partenza o il prezzo che si intende

spendere. Ovviamente non è gratuito; chi offre un passaggio è libero di chiedere la

cifra che vuole per coprire le spese di viaggio. La transazione non avviene sul sito

e di conseguenza BlaBlaCar non ci guadagna nulla dalla stessa, anche se in realtà

in altri paesi come la Francia è possibile usufruire del servizio soltanto

anticipando il pagamento con carta di credito ed in un secondo momento

contattare il conducente. In questo modo, il sistema garantisce più tutele per i

conducenti, ma al contempo, oltre alle spese del tragitto, si pagano delle

commissioni alla piattaforma online.

Di BlaBlaCar ne sono presenti anche le versioni mobile, sia sotto forma di app per

iOS e Android, sia come sito ottimizzato per telefoni.

Grazie, così al connubio perfetto di feedback, integrazione Facebook e buona

volontà degli utenti, questo servizio sta crescendo sempre più, offrendo quindi

passaggi in ogni direzione e ad ogni prezzo, fornendo un servizio finale non

indifferente.

5.3.5.1 Uber: un innovativo servizio a metà tra il carpooling e il noleggio auto

Uber è il servizio di autonoleggio con autista low-cost disponibile ora a Milano,

Roma, Torino, Genova ed in centinaia di città nel mondo che fornisce un servizio

di trasporto automobilistico provato attraverso un’app mobile. Ti permette di

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prenotare in pochi istanti un’auto privata low-cost tramite un’app scaricabile dallo

store del tuo cellulare (Appstore, Playstore o Windows Store).

Utilizzare Uber è davvero molto semplice:

1. bisogna scaricare ed installare l’app “UBER” dallo store del proprio

smartphone;

2. inserire il proprio nome;

3. inserire il luogo di partenza/arrivo per visualizzare in anticipo il

preventivo;

4. se il preventivo aggrada l’utente, quest’ultimo può confermare la sua auto

e visualizzarla sulla mappa del proprio cellulare mentre si avvicina.

Negli ultimi anni Uber, sembra davvero inarrestabile. Nonostante i vari problemi

che il servizio continua ad avere, con lo stato americano del Nevada che ha

bloccato le operazione dell’app di noleggio con conducente, Uber continua a

crescere espandendosi verso nuovi mercati e proponendo sempre nuovi servizi.

Nel novembre del 2014, è emersa, infatti, la notizia dell’alleanza tra Uber e

America Movil, il principale operatore di telefonia del Sud America che vanta

oltre 270 milioni di clienti abbonati e che ha deciso di appoggiare Uber con un

piano di servizi dedicato, portando ad una espansione sudamericana dell’app.

Questo a partire dal Messico dove Uber sarà segnalata come app in evidenza su

tutti gli smartphone di Telcel, l’operatore locale controllato da Amerca Movil, con

tutti gli abbonati che, per essere invitati ad utilizzare i servizi di Uber, riceveranno

un buono di 150 pesos, circa10 dollari, da spendere nella loro prima corsa. I

vantaggi però non si limitano soltanto ai clienti; anche i guidatori di Uber

messicani potranno godere di una paticolare scontistica sui servizi mobile offerti

da Telcei, così da far ampliare nel contempo il giro d’affari sia di Uber, sia di

America Movil. Tutto questo in un periodo in cui Uber è sul tetto del mondo

economico pur non essendo quotata in Borsa. Sembra infatti sempre più vicino

206

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l’obiettivo di raggiungere un valore di 41 miliardi di dollari grazie ad una nuova

raccolta di capitali che presto dovrebbe portare nelle casse dell’app oltre 1.294

miliardi per quanto riguarda la rivalutazione ed altri 600 milioni di dollari come

fondi ricevuti da alcuni investitori.

In Italia, invece, sono sorte problematiche con i tassisti che ritenevano, che l’app

violasse i loro diritti, in quanto i driver di Uber non necessitano della licenza per

lavorare. Come spesso accade nel nostro Paese, le leggi e la politica sono apparsi

inadeguati ed incapaci a governare un fenomeno figlio dell’innovazione e del

progresso ed hanno dato vita ad una serie di ordini, divieti e manifestazioni di

piazza dei tassisti. A Torino, ad esempio, la Polizia Municipale ha ritirato le

patenti e sequestrato i mezzi a tre autisti di Uber, iscritti al servizio “Uber Pop”.

Tuttavia qualcosa sta cambiando e negli ultimi mesi del 2014, l’Unione Radiotaxi

d’Italia, a lungo tra i principali oppositori di Uber, ha annunciato il lancio di It

Taxi, un’app che permetterà ai clienti di prenotare un taxi semplicemente

cliccando su una mappa proprio come si fa con le auto di Uber e di pagare persino

via Pay Pal. È questa la miglior risposta possibile a chi, davanti alle innovazioni,

piccole e grandi, rivoluzionarie o meno che siano, preferisce sempre cercare

rifugio in regole e leggi scritte da chi ha vissuto un’epoca lontana anni luce

dall’era digitale e dell’accesso che stiamo oggi vivendo.

5.4 Il rilancio del trasporto pubblico

94 MAGNI M (2014), “A Torino i vigili sequestrano i veicoli di tre autisti Uber”, Autoblog MOTORI.

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La crescita della mobilità privata nelle aree urbane è avvenuta a scapito delle

modalità alternative, in particolare del trasporto collettivo. Si è registrato il

declino dei chilometri percorsi con gli autobus, solo parzialmente compensati

dall’incremento di quelli percorsi su metropolitana e sui tratti di ferrovia che

operano nelle aree metropolitane. La crisi del trasporto collettivo è aggravata dalla

concomitante riduzione dei rapporti ricavi/costi, riscontrabile nella maggioranza

delle aziende di trasporto pubblico locale, a testimonianza di una generale

incapacità di assicurare tassi d’occupazione elevati ai mezzi in circolazione.

Questo trend negativo è attribuibile alla scarsa capacità dell’offerta di adeguarsi

alle nuove caratteristiche della domanda e di garantire servizi qualitativamente

attraenti. Si pone così l’esigenza che il trasporto pubblico evolva in una direzione

volta a soddisfare non solo le esigenze di spostamento delle persone meno

abbienti o di particolari categorie deboli ma anche a risolvere i problemi più

generali della mobilità e della sostenibilità urbana. L’attrattività dei trasporti

collettivo richiede di realizzare due strategie: la prima è costituita dagli interventi

volti a migliorare la qualità dei servizi esistenti e renderli maggiormente

competitivi, la seconda è costituita dalle iniziative volte al potenziamento

dell’offerta.

Dal punto di vista del rilancio qualitativo, risultano importanti le azioni volte a

ridurre gli elementi di discontinuità caratterizzanti il sistema complessivo dei

trasporti, soprattutto una crescente integrazione fisica e tariffaria tra le diverse

componenti della filiera dell’offerta.

Per quanto riguarda l’integrazione fisica, occorre un migliore coordinamento tra le

diverse forme e tipologie di trasporto pubblico, in modo che il servizio

complessivo offerto sia in grado di soddisfare adeguatamente il bisogno di

mobilità e sappia fornire un’idea di unitarietà organizzativa e funzionale

dell’utenza. L’integrazione fisica può riferirsi al sistema di trasporto pubblico in

sé, ovvero all’integrazione di quest’ultimo con altre forme di trasporto. Ad

esempio l’integrazione della metropolitana con i servizi di autobus, nodi di

interscambio.

L’integrazione tariffaria può essere realizzata mediante l’introduzione di una

travel card che consenta ai possessori di compiere un numero illimitato di

trasferimenti entro una zona definita e in un dato periodo, o l’introduzione di

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smart cards, già diffuse nel Comune di Torino e utilizzate non solo per il

pagamento del servizio del trasporto ma, ad esempio, anche per altri servizi o per

il pagamento dei parcheggi di interscambio.

Importanti risultano anche l’incremento delle frequenze, della velocità

commerciale e della flessibilità dei servizi, perseguiti attraverso l’introduzione di

modalità e mezzi meno ingombranti e meno legati a itinerari fissi e l’attribuzione

di crescenti forme di prioritarizzazione ai mezzi pubblici. È notevole lo sforzo

attualmente in corso per superare la rigidità tipica dei trasporti pubblici e per

renderli maggiormente adatti a una domanda di mobilità sempre più caratterizzata

da profili spaziali e temporali diversi. Sono in questa direzione partiti i primi

servizi di bus a chiamata e taxi collettivo, che potrebbero divenire uno strumento

essenziale per coprire tutto il territorio senza dover provvedere a linee

eccessivamente costose. Questo tipo di servizio pubblico sono costituiti da alcuni

peculiarità del trasporto privato (flessibilità, confort, puntualità, affidabilità,

capillarità) che si attiva solo su specifica richiesta degli utenti, tramite

prenotazione telefonica preventiva95. Per quanto si tratti di iniziative ancora allo

stato embrionale, i risultati incoraggianti sinora ottenuti, ad esempio il caso di

Parma, aprono la strada a interessanti sviluppi futuri.

Accanto al rilancio qualitativo dei servizi, un ruolo importante può essere

ricoperto dall’incremento della capacità di trasporto. Le potenzialità e gli sviluppi

futuri delle diverse modalità sembrano avere prospettive diverse, con un ruolo

particolare per i modi che operano in sede fissa. Le esigenze di rilancio e di

sviluppo del trasporto pubblico non possono essere perseguite indipendentemente

dalla loro sostenibilità economica. In particolare, occorre cercare di:

migliorare l’efficienza economica dei servizi. Qualsiasi politica di rilancio

e potenziamento dell’offerta deve essere subordinata a una maggiore

sostenibilità economica del servizio, in modo da aumentare i livelli di

copertura dei costi complessivi;

realizzare reti metropolitane in sede propria. La politica tendente a

95 http://www.spaziodelta.com

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incrementare l’offerta, soprattutto nella versione di metropolitane leggere

di superficie, sembra avere arrestato la diminuzione dei passeggeri

trasportati. A ciò va aggiunto che il rapporto proventi/costi è migliore

rispetto al trasporto su gomma;

potenziare l’offerta ferroviaria nazionale e la rete in concessione e in

gestione governativa. Importante può infatti risultare il ruolo del traffico

ferroviario a livello di trasporto urbano e di trasporto pendolare da e verso

la città.

5.5 Il miglioramento delle infrastrutture

Ulteriori interventi atti a incidere sulla mobilità riguardano il miglioramento delle

infrastrutture. Di solito, queste politiche puntano sostanzialmente in due direzioni:

l’incremento della dotazione infrastrutturale per quanto riguarda viabilità e

parcheggi e gli interventi di fluidificazione della circolazione.

Secondo alcuni, l’aumento delle infrastrutture potrebbe fare incrementare la

domanda di mobilità sottraendola ulteriormente al trasporto pubblico, per contro,

altri ritengono che vi possa essere spazio per migliorare le infrastrutture esistenti,

in modo che il problema della mobilità possa essere risolto intervenendo sia sulla

domanda, cercando di ridurla, sia sull’offerta, migliorandone la qualità o

espandendola. A riguardo tre elementi sembrano meritare attenzione in relazione

all’azione svolta nelle singole aree urbane.

1. La realizzazione di piste ciclabili. La mobilità su bicicletta può costituire,

soprattutto sui tragitti di breve raggio, una valida alternativa al traffico

motorizzato. La realizzazione della mobilità ciclo-pedonale richiede forme

di protezione e di riqualificazione delle sedi stradali. Una politica di

incentivazione dell’uso della bicicletta può consentire di coprire qualche

punto percentuale della domanda di mobilità urbana. Un paese come la

Gran Bretagna, che poi l’Italia parte da valori molto bassi, si è posta

l’obiettivo di triplicare al 2015 la quota di pista di spostamenti in bicicletta

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e conta di avere una rete di 18.000 km di piste ciclabili entro il 2020.

2. Interventi di traffic calming. Un numero crescente di città ha adottato

misure volte a ridurre la velocità delle automobili e a regolamentarne la

presenza nei centri urbani (traffic calming), cercando di privilegiare forme

alternative di mobilità. Le misure riguardano la realizzazione di passaggi

pedonali rialzati che obbligano le automobili a rallentare, fasce

spartitraffico centrali, slarghi dei marciapiedi, rotatorie con precedenza

all’anello. L’effetto di allungamento dei tempi di percorrenza provocato da

questi provvedimenti può indurre a un certo spostamento della preferenza

degli utenti verso altre modalità.

3. La politica dei parcheggi. Si va facendo strada una concezione delle

politiche di parcheggio più avanzata, non come risposta alla domanda di

sosta, ma come strumento per modificarla. In questa prospettiva essi

possono costituire un elemento essenziale del quadro degli interventi e,

contemporaneamente, un punto d’arrivo dell’insieme delle politiche di

gestione della mobilità. Per evitare che l’offerta dei parcheggi si traduca in

un ulteriore aumento della mobilità è necessario che l’ubicazione dei nuovi

posti auto risulti esterna ai centri urbani e ben coordinata con gli altri

strumenti di gestione del traffico (trasporto pubblico, disincentivi di

prezzo, integrazione tariffaria). La costruzione dei parcheggi deve essere

realizzata in strutture separate dalla sede viabilistica. Questa soluzione

offre notevoli vantaggi in termini di occupazione degli spazi, di

miglioramento dell’accessibilità. Contemporaneamente alla realizzazione

di parcheggi in struttura, occorre ridurre la disponibilità di posti in strada, i

modo che l’incremento netto di offerta sia contenuto e, soprattutto, siano

massimizzati i vantaggi legati alla nuova ubicazione. Tuttavia, gli

interventi sulle infrastrutture, devono essere in grado di salvaguardare la

competitività economica e nel contempo evitare che avvengano a scapito

dell’ambiente.

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CAPITOLO 6

MOBILITÀ PEDONALE E CICLABILE: IL CASO DELLA NANOO

6.1 Traffico Lento (TL)

Sinteticamente, con il termine traffico lento ci si riferisce all’insieme della

mobilità pedonale e della mobilità ciclabile, in quanto nella letteratura con tale

termine si intende, infatti, la locomozione a piedi, su ruota o rotelle, prodotta dalla

forza muscolare umana; nel mondo del marketing si utilizza, come sinonimo di

traffico lento, la nozione di “human powered mobility”. La mobilità pedonale e

ciclabile rappresentano due livelli base della mobilità sostenibile in quanto sono

un sistema di spostamento naturale, democratico e universale, se si pensi che

l’atto stesso del camminare è la prima modalità di spostamento dell’uomo, in tutte

le età e le categorie sociali; il camminare e l’andare in bicicletta rappresentano una

soluzione ecologica a “zero emissioni” per il trasporto personale e sono

diffusamente individuati come forme di mobilità “dolce”, nota come “soft

mobility”. Il traffico lento, oltre che con piste e percorsi ciclabili, o con percorsi

pedonali, può esprimersi secondo un’altra modalità che è quella della

moderazione del traffico. Questa può essere attuata in diversi modi:

� un primo metodo è attraverso quelle che in Italia vengono definite Isole

Ambientali ed in Europa Zone30. Le isole ambientali sono quelle aree con

ridotti movimenti veicolari, da cui è escluso il traffico di attraversamento e

che sono “finalizzate al recupero della vivibilità degli spazi urbani”. Sono

state istituite nel 1995 dalle Direttive per la redazione dei PUT e nel 1996

è stato introdotto il segnale stradale specifico (zone a limitazione di

velocità);

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� un secondo modo è costituito dall’introduzione delle zone a traffico

limitato: ZTL. In generale quindi le zone a traffico controllato (ZTL, aree

pedonali, ZTM) corrispondono ad aree urbane contrassegnate da specifici

segnali fisici e normativi di ingresso e di uscita, all’interno delle quali si

persegue l’obiettivo di integrare le diverse componenti del traffico e di

riqualificare le peculiarità funzionali, architettoniche, storiche e culturali

del luogo.

L’impiego di zone per la moderazione e di limitazione del traffico consente di

raggiungere i seguenti obiettivi:

creare zone libere dal traffico (ZTL) o eliminare il traffico di

attraversamento (ZTM);

favorire la condivisione dello spazio stradale tra le diverse utenze della

strada;

utilizzare interventi di limitato impatto economico e visivo;

riorganizzare la classificazione stradale;

regolamentare la sosta;

riqualificare i luoghi liberando aree prima assegnate al traffico di

attraversamento o alla sosta;

garantire una maggiore sicurezza, soprattutto per le utenze deboli.

Attraverso l’introduzione di strumenti atti ad interrompere o deviare il traffico di

attraversamento, si offre la possibilità di un riutilizzo degli spazi stradali di queste

zone, eliminando quella parte di traffico incompatibile con gli obiettivi di

recupero della qualità ambientale e di miglioramento delle condizioni di sicurezza.

Tale spazio potrà essere ridistribuito fra tutte le altre funzioni che si svolgono sulla

strada. Inoltre il traffico lento crea le condizioni affinché sia possibile una reale

condivisione dello spazio stradale, una riqualifica dei luoghi urbani e venga

garantita una maggior sicurezza per tutti gli abitanti del contesto urbano. La

213

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necessità di liberare queste zone dal traffico di attraversamento, convogliandolo su

determinate strade esterne ad esse, è il principio fondamentale che conduce alla

riorganizzazione della gerarchia stradale. In particolare l’estensione delle singole

zone deve essere sufficientemente ampia da contenere al suo interno un adeguato

numero di servizi e sufficientemente limitata per rendere possibili la maggior

parte degli spostamenti interni a piedi.

Esistono numerosi esempi di città che hanno implementato politiche di questo

tipo, tra cui Zurigo, Nantes e anche molti centri italiani come Firenze o Siena. In

generale le zone urbane liberate dalle auto sono accessibili tramite un sistema di

mezzi pubblici come il tram (nel caso di Nantes e Friburgo) o da mezzi pubblici

su gomma (come ad esempio la ZTL BUS di Venezia) e da veicoli autorizzati in

alcune ore del giorno (residenti o veicoli commerciali).

Ad esempio a Torino, dalle 7.30 alle 10.30 di tutti i giorni feriali, sono vietate la

circolazione e la sosta all’interno dell’area denominata ZTL Centrale e durante il

divieto possono circolare soltanto i veicoli autorizzati. L’accesso in ZTL è

controllato con telecamere in 35 punti della città; la targa di ogni veicolo che entra

nella Zona a Traffico Limitato è fotografata e confrontata con quelle autorizzate a

circolare in quanto inserite in un’apposita banca dati al momento del rilascio del

permesso96.

L’approccio che è alla base delle strategie messe in atto, considera il camminare e

l’andare in bicicletta come due dei principali modi di trasporto della mobilità

urbana, restituendo al mondo pedonale e ciclabile un ruolo essenziale nel sistema

multimodale di trasporto. In termini operativi questo si traduce nel dare priorità ai

pedoni nella pianificazione urbana e dei trasporti creando una rete pedonale densa

e continua, connessa al sistema di trasporto pubblico.

In Europa, nel corso degli ultimi decenni, lo spostamento pedonale in ambito

urbano è stato progressivamente rivalutato e si è affermata la necessità di dotare le

città di spazi attrezzati, qualificati e sicuri.

A partire dagli anni Settanta la mobilità pedonale e ciclabile sono state rilanciate

96 http://www.comune.torino.it/trasporti/ztl

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attraverso una pluralità di iniziative che perseguono obiettivi molteplici: dalla

sostenibilità dello sviluppo alla riqualificazione dei tessuti degradati; la riduzione

delle emissioni inquinanti; la sicurezza stradale; la protezione degli utenti più

deboli (anziani, bambini, portatori di handicap) alla promozione di forme di

spostamento più rispettose dell’ambiente. Già alla metà degli anni Novanta, il

Documento sottoscritto dalle città europee per promuovere un modello urbano

sostenibile, la Carta di Aalborg (1994), individuava tra i principi chiave per

riorientare lo sviluppo urbano, quello di favorire forme di mobilità sostenibile,

privilegiando gli spostamenti a piedi, in bicicletta e mediante mezzi pubblici

assegnando priorità a mezzi di trasporto ecologicamente compatibili. Tra la fine

degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, numerose sono state le iniziative

europee volte a contrastare la diffusione delle auto attraverso sistemi coordinati di

azioni volte all’innovazione e al potenziamento del trasporto pubblico, in

particolare su rotaia e, all’incentivazione degli spostamenti a piedi e in bicicletta.

Nel 2007 l’Unione Europea ha ulteriormente intensificato il proprio impegno per

una riduzione dei costi ambientali della mobilità urbana: il Libro Verde sul

Trasporto Urbano, il Patto dei Sindaci mirato a coinvolgere attivamente le città

europee nel percorso verso la sostenibilità energetica ed ambientale ed ancora, il

più recente Libro Bianco sui Trasporti del 2011.

L’insieme dei documenti menzionati evidenzia che, a partire dalla seconda metà

degli anni Novanta, si sia affermata in ambito europeo la necessità di improntare a

criteri di sostenibilità la mobilità urbana, assegnando centralità agli spostamenti

pedonali e ciclabili.

Un esempio virtuoso nel contesto europeo è rappresentato dal Gran Ducato del

Lussemburgo che promuove il traffico lento attraverso un “Plan d’action national

pour la mobilité douce” presentato nel settembre. Tra gli obiettivi del piano è

l’incremento degli spostamenti lenti dal 18% al 25% di quelli totali entro il 2020.

Nei contenuti il piano definisce programma di azioni relativo ai differenti settori

di applicazione del traffico lento (informazione; comunicazione; pianificazione

del territorio; legislazione; infrastrutture di trasporto) e finalizzato a diffondere la

mobilità dolce come stile di vita per il miglioramento delle condizioni di salubrità

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dell’ambiente naturale ed urbano.

La situazione italiana si distingue invece per il ritardo con il quale risponde alla

diffusa attenzione verso la promozione della mobilità dolce come stile di vita. Nel

report di ricerca sulla “Mobilità sostenibile in Italia: l’indagine sulle 50 principali

città” (2008) elaborato dal Euromobility si mette in evidenza sia la disparità

interna tra le regioni italiane in tema di promozione e sostegno alla mobilità

sostenibile, sia le condizioni di una ancora accentuata dipendenza dall’auto (il

tasso di motorizzazione è tra i più alti di Europa: 62 veicoli ogni 100 abitanti) da

parte degli italiani anche per gli spostamenti brevi e/o legati al tempo libero. Le

iniziative si concentrano essenzialmente sulle misure di limitazione del traffico

veicolare in città e sulla promozione di iniziative di sensibilizzazione attraverso la

promozione delle “Domeniche Ecologiche” o della “Giornata senza auto” durante

le quali è possibile da parte della popolazione di riappropriarsi di spazi della città

momentaneamente liberati dal traffico veicolare.

Tuttavia, nonostante ci siano stati notevoli sforzi volti ad incentivare lo sviluppo a

zero emissioni, sia la mobilità a piedi che in bicicletta sono diminuite

significativamente nel corso degli ultimi 20 anni. Questo declino riflette

fortemente la crescita e la convenienza dell’automobile legata ad una serie di

fattori psicologici e sociologici, che spaziano da un livello generale di scarsa

idoneità fino alla paura della criminalità ed eventuali condizioni meteorologiche

avverse. Sono essenziali programmi di cambiamento comportamentale volti a

ridurre il traffico, non solo per ridurre l’impatto ambientale ma anche per rendere

la società più sana nel suo complesso. Al fine di rendere la mobilità pedonale e il

cycling, alternative per i viaggi locali realizzabili non solo nella teoria, ogni ente

locale, le imprese e la scuola dovrebbero prendere in considerazione misure “soft”

della politica dei trasporti per incoraggiare tali spostamenti.

Anche in questo ambito, si sono sviluppati numerosi studi ed analizzati diversi

contesti al fine di individuare quali potrebbero essere delle “good practises” da

proporre alle Pubbliche Amministrazioni. Alcuni studiosi sono convinti che un

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mezzo sicuramente efficace per infondere nelle singole persone la volontà di

scegliere, tra le alternative modalità di spostamento il walking o il cycling, siano

le campagne promozionali rivolte a particolari targets di individui. Ulteriori

iniziative e programmi educativi hanno dimostrato attraverso dei sondaggi che,

nei giorni successivi ad un opening day di una campagna volta ad incentivare le

persone nell’uso della bicicletta o delle proprie gambe, sono successivamente

incrementate le percentuali relative. Esistono semplici miglioramenti che possono

essere implementati quali il sempre più popolare “walking buses” in alternativa al

motorizzato e al tradizionale “school run”. Molti autori sostengono che la

strategia di riallocazione dello spazio sia fondamentale per aumentare la sicurezza

dei viaggi a zero emissioni; ciò significherebbe la progettazione di una rete di

piste ciclabili e aree pedonali collegata con incroci stradali e con raccordi sicuri.

Tuttavia, le misure locali costituiscono solo una parte dell’intera soluzione per

rendere davvero implementabile e usufruibile da tutti la modalità pedonale e

ciclabile. Uno dei fattori principali causa di un declino del numero di viaggi “soft”

è da individuarsi nel fatto che sono sempre meno il numero di destinazioni

raggiungibili a piedi o in bicicletta data l’elevata distanza.

Quindi, le carenze nella scelta intermodale sono in realtà parte della sfida che lo

sviluppo sostenibile richiede.

Negli ultimi anni, i problemi crescenti della congestione e di inquinamento da

traffico urbano, hanno riportato l’attenzione sulle modalità di spostamento

ciclabile. Nonostante si faccia maggior ricorso alla bicicletta nei piccoli centri,

questo mezzo sta guadagnando spazio anche nelle città medio-grandi poiché,

specie nei brevi tragitti in ambito urbano, si dimostra più rapido dell’automobile.

(Figura 6.1).

Figura 6.1: Relazione minuti/km percorsi: confronto tra i vari mezzi di trasporto

217

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Fonte: BERUCCIO L., PASCALIZI F., CAFARELLI E., MORICCI F., PARMAGNANI F. (2011), “La mobilità in Italia. Rapporto sulle principali 50 città”, Euromobility, p.50.

Focalizzandosi sempre sulla bicicletta, ogni viaggio confrontato rispetto all’auto,

genera risparmi significativi con notevoli vantaggi sia per l’individuo che per la

comunità urbana:

� assenza di impatto sulla qualità della vita urbana - nessun rumore, nessun

inquinamento;

� conservazione dei monumenti e degli spazi verdi;

� meno necessità di territorio, sia per spostarsi che per il parcheggio e di

conseguenza, un incremento della redditività del suolo;

� minore deterioramento della rete stradale e riduzione dei programmi di

nuove infrastrutture;

� il centro urbano diventa più attraente - negozi, cultura, attività ricreative,

vita sociale;

� riduzione della congestione e delle perdite economiche che queste

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generano;

� miglioramento del flusso di traffico automobilistico;

� trasporto pubblico più conveniente;

� notevole risparmio di tempo per i ciclisti nei percorsi brevi e di media

distanza;

� risparmio di spazio - strada e parcheggio - con riduzione degli investimenti

in vie di circolazione e la possibilità di reinvestire in luoghi pubblici per

aumentare l’attrattività del centro urbano.

In conclusione il traffico lento costituisce un potenziale notevole, attualmente

inutilizzato, per il miglioramento del sistema complessivo del traffico viaggiatori

e contribuisce a preservare l’ambiente (aria, inquinamento fonico, energia) e a

promuovere un modello di vita più sano; inoltre sostiene il turismo dolce e

contribuisce al risparmio nell’ambito della spesa, sia pubblica che privata, per i

trasporti. La mobilità pedonale e ciclabile sono dunque, due realtà sostenibili che

possono davvero dare un’enorme contributo al raggiungimento degli obiettivi per

la realizzazione di un sistema di trasporto sostenibile.

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6.1.2 I vantaggi dell’andare in bicicletta

L’uso quotidiano della bicicletta come principale mezzo di trasporto sostenibile in

città non è ancora rientrato nelle nostre abitudini, sia per cultura, sia per pigrizia, o

perché l’uso della bici è ostacolato da alcuni pregiudizi. La bicicletta resta in ogni

caso la scelta ecosostenibile per eccellenza che ricoprirà ruoli sempre meno

trascurabili per risolvere i problemi legati alle aree urbane. Senza una rete

razionale di piste ciclo–pedonali, il potenziale utente è meno incentivato

all’acquisto di una bici.

Tuttavia i suoi vantaggi sono evidenti già oggi, e sono tutt’altro che irrilevanti:

� ecologico: abbattimento delle emissioni nocive, con una distinzione tra gli

effetti locali a breve termine e gli effetti planetari a lungo termine;

� economico: diminuzione della cospicua spesa di bilancio delle

famiglie dedicata all’automobile, riduzione delle ore perse negli ingorghi

sprecando tempo e carburante, riduzione dei costi legati alla manutenzione

del manto stradale, riduzione dei costi del sistema sanitario;

� energetico: massima efficienza nel rapporto tra esigenze soddisfatte e

risorse impiegate (spostamenti senza bruciare nemmeno una goccia di

petrolio);

� politico: riduzione della dipendenza energetica, risparmio di risorse non

rinnovabili, e di conseguenza maggiore credibilità internazionale;

� sociale: maggiore benessere grazie ad individui più sani e meno

sovrappeso, democratizzazione della mobilità.

A livello strettamente urbano, i vantaggi della bicicletta per l’individuo e per la

collettività sono:

� riduzione diretta della congestione del traffico riducendo il numero di

automobili in circolazione (scelta della bicicletta come mezzo di trasporto

prevalente);

� riduzione indiretta della congestione del traffico aumentando l’attrattiva

220

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dei trasporti pubblici per i pendolari grazie alla combinazione trasporti

pubblici–bicicletta come accade per esempio in Svezia (e dunque una

redditività degli investimenti in trasporti pubblici);

� minore inquinamento e di conseguenza niente più blocchi del traffico o

targhe alterne per sforamento delle emissioni;

� economia di spazio (carreggiate e aree destinate al parcheggio);

� riduzione degli investimenti per le reti stradali con la possibilità di

reinvestire nei luoghi pubblici aumentando l’attrattiva del centro città -

abitazioni, negozi, cultura, sport e tempo libero;

� miglioramento della qualità della vita in città - inquinamento

atmosferico, inquinamento acustico, maggior fruibilità dei luoghi pubblici,

sicurezza dei bambini;

� migliore attrattiva abitativa, in particolare per le abitazioni familiari con

riduzione di strade ipertrafficate, inquinate e rumorose;

� minore deterioramento del patrimonio storico e monumentale e

conseguenti costi di manutenzione ridotti.

6.2 L’integrazione modale tra bicicletta e mezzi pubblici di trasporto

Ogni mezzo di trasporto ha un ambito in cui il suo utilizzo si rivela ottimale.

Soltanto l’automobile pretende di soddisfare da sola ogni esigenza di

spostamento, finendo con l’imporre una “cultura totalizzante” da cui sono

fortemente condizionate le abitudini della maggior parte dei nostri concittadini.

Per opporre una valida alternativa in termini di mobilità sostenibile all’attrazione

fatale esercitata dalle quattro ruote, è necessario che l’uso della bici si integri con

quello dei vettori di trasporto pubblico. Questo vale soprattutto per i mezzi a guida

vincolata: treni, metropolitane, tram moderni, che, potendo contare su una sede

propria indipendente dalla viabilità ordinaria, possono offrire prestazioni migliori

in termini di tempi di percorrenza. Purtroppo, a volte non permettono di coprire

comodamente l’intero tragitto, quando il punto di partenza o la destinazione finale

sono distanziati dalla stazione o dalla fermata. La bici può colmare efficacemente

l’anello mancante nella catena dei trasferimenti, specie per quanto riguarda le

distanze comprese tra i 500 metri ed i 5 chilometri, ambito nel quale costituisce la

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risorsa migliore in fatto di velocità e facilità di penetrazione. Interessante è la

possibile sinergia con gli autobus, sia per le caratteristiche del veicolo, che si

presta facilmente al trasporto di molte bici - nel caso queste siano pieghevoli - sia

per i trasferimenti a lungo raggio sulle linee inter regionali riservate ai pendolari.

Tradizionalmente si possono individuare tre possibili sinergie: il trasporto della

bici sul treno o metropolitana, il park and ride nelle stazioni o fermate, il noleggio

di bici in punti facilmente accessibili per chi arriva in treno. Riguardo il primo

punto, la situazione presenta luci ed ombre. Infatti, da un lato è cresciuta la

sensibilità nei confronti dell’utenza dei ciclisti da parte delle Ferrovie dello Stato,

in particolar modo della Divisione Trasporto Regionale. Ne sono derivati

provvedimenti importanti, quali l’estensione a tutti i “treni verdi” - quelli

accessibili a prezzo dimezzato per i portatori della “Carta Amicotreno” - della

possibilità di trasportare la bici al seguito del passeggero. Ne consegue una

notevole estensione del servizio, specie nei fine settimana, senza rischi di conflitto

con l’utenza abituale, visto che sono esclusi dal novero dei “treni verdi” quasi tutti

i treni regionali a maggior utilizzo da parte dei pendolari che comporterebbero

difficoltà di accesso per le bici. In alcune città, come a Milano, grazie alla

pressione esercitata da Ciclobby, con il sostegno delle altre associazioni della

mobilità, di consumatori e ambientaliste, l’esperienza è stata estesa ormai da

alcuni anni alle linee della metropolitana e alle tranvie della Brianza, sempre al di

fuori delle ore di maggior frequentazione, ovvero nei fine settimana e alla sera,

senza creare alcun problema agli altri utenti. Tutto ciò ha favorito una certa

diffusione del cicloturismo abbinato all’uso della rotaia, di cui si è fatta interprete

in più occasioni, anche con proposte mirate di itinerari e convenzioni, la rivista

“Amicotreno” della Divisione Regionale FS, nel cui Comitato dei Garanti sono

rappresentate le associazioni della Mobilità Sostenibile - Fiab, Utenti del

Trasporto Pubblico e Camminacittà - che ne firmano anche l’editoriale.

A fronte di queste iniziative incoraggianti bisogna, però, riscontrare le difficoltà

determinate da alcune scelte strategiche operate dalle Ferrovie dello Stato. La

riduzione dei costi di produzione del servizio, quali la disabilitazione di molte

stazioni minori con l’eliminazione dei depositi bagagli, ha reso problematico l’uso

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della bici, specie per quanto riguarda i collegamenti a lungo percorso.

Inoltre, la diminuzione del personale a presidio delle stazioni aveva comportato

negli anni passati anche l’eliminazione di parecchi parcheggi per biciclette

tradizionalmente posti all’interno delle stazioni. Ultimamente si è diffusa la

consapevolezza che la facilità di collocare la bici presso le stazioni comporti un

maggiore utilizzo del treno da parte dei pendolari. C’è da dire che in molte città

della pianura Padana l’abitudine al park and ride ciclistico è sempre stata diffusa,

basti pensare all’enorme parcheggio di biciclette adiacente alla stazione di

Bologna, Ferrara e Pavia. In questi casi si tratta di sensibilizzare sia i responsabili

FS e le autorità comunali per individuare collocazioni idonee ai parcheggi

destinati alle bici, magari all’interno degli scali merci dismessi, come del resto è

già avvenuto in diverse regioni. Anche in ambito urbano si possono individuare

valide soluzioni di interscambio, specie in prossimità delle stazioni periferiche

della metropolitana. Qualche passo in questa direzione è stato compiuto a Milano

(San Donato, Melchiorre Gioia etc.) ed altri interventi potrebbero derivare dal

futuro ridisegno delle principali fermate della rete di superficie.

C’è infine una terza possibilità di collaborazione tra la rotaia e le due ruote, ancora

poco praticata in Italia che potrebbe conoscere sviluppi interessanti, nel campo del

cicloturismo e non solo. Il grande pubblico non è composto da amatori della bici,

interessati a spostarsi con il proprio mezzo in giro per l’Italia o all’estero, ma

sarebbe forse disponibile a puntare sulle due ruote come mezzo di fruizione

intelligente in una città o in una porzione di territorio rurale. Questa possibilità è

molto apprezzata proprio nei paesi a maggior vocazione ciclistica, dove sono

proposte anche forme di “drop-off”, ovvero il noleggio della bici in una stazione e

la riconsegna in un’altra, evitando così di dover tornare al punto di partenza -

costrizione imposta, invece, a chi si sposta in auto con la bici al seguito. Anche se

per ora è ancora prematuro pensare ad una rete di noleggio così capillare e

sofisticata, tipo quella presente in Svizzera, nondimeno si devono registrare

alcune iniziative interessanti, come quella recentemente proposta a Mantova.

Dunque, per ottenere spostamenti razionali ed efficienti, nelle città e tra centri

urbani, è indispensabile realizzare un elevato tasso di integrazione modale:

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significa offrire opportunità al cittadino affinché possa utilizzare la bicicletta

(propria o a noleggio) anche su medie e lunghe percorrenze, integrandola

all’utilizzo del trasporto pubblico. Questo sistema integrato permette di

raggiungere pedalando la stazione o la fermata, parcheggiare la bici, proseguire il

viaggio con il mezzo pubblico. Occorre rendere, però agevole la movimentazione

delle bici all’interno delle stazioni (ascensori, canaline lungo le scale), chiedendo

alle Istituzioni o ai gestori del pubblico trasporto di favorire e massimizzare

l’accesso delle biciclette sui treni e sul trasporto pubblico locale, sia mediante

l’individuazione di idonei spazi sulle carrozze e sia mediante agevolazioni

tariffarie. L’intermodalità assume quindi un’importanza rilevante a livello di

servizi pubblici, con la prospettiva di riuscire ad organizzare una rete integrata che

sfrutti appieno le interconnessioni tra le diverse realtà del trasporto collettivo.

Negli spostamenti urbani, in Italia, si registra, infatti da qualche anno una

tendenza alla crescita dei viaggi effettuati utilizzando più di una modalità di

trasporto. La quota di tragitti in cui si combinano diversi vettori è salita nel 2012

al 4,3% contro il 3,7% del 2011 e il 3,2% del 200797. Focalizzando l’attenzione sul

solo segmento delle città con oltre 100mila abitanti (Figura 5.6), la quota

dell’intermodalità raddoppia attestandosi all’8,2% di tutti gli spostamenti, in

decisa crescita rispetto al 2011 (7,1%), al 2007 (6%) e al 2005 (3,6%). I cittadini

quindi sembrano essere più disponibili a sopportare “interruzioni” nel loro

viaggio, se questo aggravio di scomodità è funzionale a risparmiare tempo e

denaro per raggiungere la destinazione finale. Negli spostamenti extraurbani,

queste dinamiche vengono meno per effetto della dispersione territoriale, così che

il potenziale di crescita dell’intermodalità è molto meno scontato. In effetti, nella

mobilità extraurbana non c’è una tendenza chiara alla crescita dell’intermodalità

ed anzi si può dire che almeno nell’ultimo biennio questa potenziale opzione

abbia subito una battuta d’arresto.

97 Isfort, Oservatorio Audimob.

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Figura 6.2: Quota spostamenti intermodali (sul totale spostamenti motorizzati)

Fonte: Isfort, Osservatorio Audimob sulla mobilità degli italiani, 2013.

6.2.1 Alcune esperienze internazionali

Nei Paesi Bassi, il 23% dei passeggeri di treni delle quattro più grandi città

arrivano alla stazione in bicicletta e ne hanno a disposizione un’altra parcheggiata

in prossimità della loro destinazione.

L’autorità nazionale di treni, possiede quasi 200.000 parcheggi, mentre gli

operatori privati ne hanno migliaia in più. Inoltre, per i prossimi sette anni, il

Ministero dei Trasporti olandese ha stanziato circa 200 milioni di euro per

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migliorare ed espandere le strutture per i parcheggi delle biciclette dentro e nei

pressi delle stazioni ferroviarie.

In Giappone, circa tre milioni di biciclette sono parcheggiate presso le stazioni

ferroviarie, il cui servizio è privato o pubblicamente gestito.

Nella provincia di Voralberg, Austria, quindici comuni, dove abitano circa

200.000 persone, hanno messo in atto una campagna di sovvenzione per

l’acquisto di carrelli fissati alla parte posteriore della bicicletta, per il trasporto di

bambini.

A Trondheim, Norvegia, è stato installato un ascensore per biciclette nel centro

città, in modo da facilitare l’accesso alla collina Brubakken, a 150 metri di

dislivello. Se l’esperienza viene valutata come un successo, probabilmente il

comune imporrà una tassa per il suo utilizzo.

Amsterdam è conosciuta come la città ciclistica per eccellenza, ma questo non

significa che non sia necessario concepire alternative per migliorare le loro

prestazioni. Il sistema di trasporto pubblico è ancora insufficiente in alcune zone,

persone provenienti dalle periferie fino ad ora non sempre raggiungono facilmente

il centro della città in bicicletta, perché è troppo lontano o complicato entrare in

città con la bici. Il sistema DEPO è stato definito come un mezzo di trasporto

pubblico individuale, basato sul principio di depositi, DEPO è una rete di dispense

di “biciclette bianche”. Chiunque può affittare una bicicletta da uno dei depositi.

Per liberare questa, viene utilizzata una moneta, che è rimborsata al momento del

deposito della bicicletta in un altro deposito. La “bicicletta bianca” è stata

progettata appositamente per i viaggi brevi, ha pneumatici di grandi dimensioni

che non vengono perforati, un telaio standard e borse laterali accessibili a tutti gli

utenti, luce a batteria e modo di identificazione. I depositi stessi sono parcheggi di

biciclette appositamente progettati, che non richiedono personale qualificato.

Copenhagen, ha una lunga storia quanto a città delle biciclette e queste negli ’50

hanno dominato l’immagine rappresentativa della città. L’utilizzo della bicicletta

come mezzo di trasporto oggi è molto frequente; il 30% della popolazione ne fa

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uso come mezzo di trasporto per recarsi al lavoro indipendentemente dalle

condizioni atmosferiche. Le strade più importanti sono dotate di piste e strisce blu

per i ciclisti utilizzate in molte intersezioni.

Altro punto cruciale è l’integrazione della bici con l’autobus, che è stata al centro

di un piano della società dei trasporti pubblici di Copenhagen denominata “Ht”,

secondo la quale, l’unione fra il treno, l’autobus e la bicicletta può dar vita ad

un’alleanza strategica per il trasporto sostenibile. Nel complesso, secondo quanto

emerge dal progetto, l’alleanza virtuosa treno-autobus-bici, comprensiva di

infrastrutture adeguate, rafforza il sistema di trasporto collettivo perché accresce

notevolmente la sua forza attrattiva nei riguardi degli automobilisti. La bici può

avere un ruolo centrale nella riduzione dei tempi complessivi di percorrenza dei

mezzi pubblici e dunque rafforzare questi ultimi al confronto con l’automobile.

Secondo le indagini svolte in Danimarca, gli utenti valutano più in termini di

tempo che di distanza fisica la collocazione delle fermate. Per questo la Ht ha

deciso di favorire l’alleanza con la bicicletta, favorendo un contesto nel quale si è

abbandonata la visione dei soggetti nel traffico come entità separate, ciclisti,

automobilisti, utenti dei mezzi pubblici sostituendola con una figura di

viaggiatore integrato che meglio rispecchia la realtà e le potenzialità di

miglioramento della mobilità collettiva.

Infine, sia in Canada che negli Stati Uniti, hanno introdotto l’uso di portabiciclette

montate sulla parte anteriore degli autobus; un servizio considerato un importante

complemento.

6.3 La bicicletta ibrida

Oggigiorno si sente parlare molto spesso di auto ibride, ovvero di tecnologie che

permettono il recupero e l’ottimizzazione delle forze cinetiche in gioco. Si tratta di

una forma di tecnologia intelligente, in quanto effettivamente non fa altro che

ridurre gli sprechi di energia dovuti alle frenate (KERS), riconvertendo

quest’ultima potenziale per essere utilizzata. Ora sembra che questa soluzione

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possa essere adottata anche da un veicolo che già di per sé è estremamente

efficiente quale la bicicletta.

Nel 2010, a Copenhagen è stata presentata la “Copenhagen Wheel”, un

concentrato di tecnologia in grado di trasformare qualsiasi bicicletta in un’elettrica

a pedalata assistita, senza alcuna predisposizione necessaria per quanto riguarda la

bici in questione, ma solamente attraverso il montaggio di una particolare ruota

posteriore98. La ruota (Figura 5.7) messa a punto dal MIT (Massachussets Institute

of Technology) di Boston in collaborazione con Ducati Energia e con il supporto

del Ministero dell’Ambiente italiano, può essere considerata davvero il primo

esempio di bicicletta ibrida.

Figura 6.3: La Copenhagen Wheel

98 https://www.superpedestrian.com

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Fonte: https://www.superpedestrian.com

Apparentemente il disco rosso all’interno non ha niente di particolare rispetto alle

normali ruote. Ma è in quell’unico mozzo color rubino che è contenuta tutta la sua

innovazione: dalla batteria elettrica in grado di accumulare l’energia passiva

prodotta dalla pedalata per poi rilasciarla quando necessario, come ad esempio in

salita, al chip bluetooth per lo scambio delle comunicazioni; ai sensori ambientali

che interagiscono con lo smartphone, all’elettronica di controllo.

Grazie alla Copenhagen Wheel ed attraverso gli speciali sensori collegati via

bluetooth allo smartphone collocato sul manubrio, il ciclista riceve informazioni

dalla strumentazione on board, dal web, sulla velocità, sulla distanza percorsa,

sullo stato del traffico e sui percorsi da preferire (sfruttando il GPS dello

smartphone). Può informarsi addirittura sulla prossimità di amici in zona o sul

livello di inquinamento urbano in quel preciso punto. Tutti dati che il ciclista può

decidere di trasmettere esso stesso al web server del Comune per aggiornamenti in

tempo reale. L’iterazione tra la ruota posteriore e lo smartphone è costante e oltre

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all’elaborazione delle varie informazioni, il sistema funge da ausilio al ciclista

permettendogli di scegliere tra una serie di comandi e sette differenti modalità di

pedalata.

Dunque, è un ritorno alla bici, ma in modalità 2.0 con la tecnologia che facilita e

assiste la guida e consente nuove esperienze d’uso. La missione contenuta nel

progetto “Copenhagen Wheel”, infatti, è quella di estendere l’uso della bici anche

a quel target di utenti che oggi esclude a priori il concetto di andare al lavoro

pedalando.

6.4 Le folding bike

Le folding bike, ovvero le biciclette pieghevoli, sono diventate un mezzo ideale

per il trasporto di varie tipologie di persone.

In primo luogo è un perfetto esempio di mezzo intermodale, potendo trasportarla

su un qualsiasi mezzo pubblico con grande facilità e senza comportare l’aggiunta

di costi aggiuntivi.

Diventa anche una soluzione perfetta per i pendolari che ogni giorno arrivano

nella città in cui lavorano in treno e dovrebbero prendere altri mezzi pubblici per

arrivare in ufficio. Nel loro caso, la bici pieghevole può essere comodamente

posizionata sotto o tra i sedili del vagone durante il viaggio e trasportata e fatta

scorrere come un trolley - visto il particolare sistema di chiusura di particolari

modelli presenti sul mercato - all’uscita della stazione.

Anche coloro che si spostano volentieri in città sulla bicicletta per lavoro o per

svago ma non hanno a disposizione un box sotto casa oppure temono i furti, l’idea

di ripiegare la bicicletta e portarla a casa è semplicemente geniale. Per non parlare

delle gite fuori porta o delle vacanze estive quando una o più biciclette possono

comodamente essere stivate nel bagagliaio.

Si tratta, infatti di bici studiate tenendo bene in conto alcuni criteri, quali

la leggerezza e la compattezza. Spesso e volentieri infatti si resta al di sotto dei

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10-12 kg e questi mezzi, una volta piegati, sono sufficientemente compatti da

entrare tranquillamente tra i sedili di un treno o nel bagagliaio di una piccola

utilitaria.

Figura 6.4: Biciclette pieghevoli

Fonte: www.greenme.it

Oltre che essere ovviamente un mezzo di trasporto “green” e dalla spesa

velocemente ammortizzabile, la folding bike è un modo di spostarsi estremamente

comodo, che fa risparmiare tempo prezioso e lascia totale libertà di movimento;

inoltre permette di fare regolarmente un po’ di attività fisica a costo zero.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le biciclette pieghevoli delle

migliori marche sono molto robuste e resistenti, nonostante la loro esile struttura.

Il pericolo per il ciclista non deriva tanto dal mezzo a pedali su cui si sposta ma

dai ben noti problemi per i ciclisti in città: l’indisciplina degli automobilisti che

lasciano le macchine parcheggiate in doppia fila, la mancanza di piste ciclabili e

l’inquinamento da polveri sottili contro cui è essenziale indossare una mascherina

protettiva di ultima generazione.

Il sistema di chiusura di una folding bike è fondamentale perché trasforma un

semplice mezzo di trasporto in un sofisticato accessorio compatto e trasportabile,

quindi con un valore aggiunto molto più alto. Trattandosi di un mezzo suddiviso

in diverse parti collegate tra di esse con cerniere, i materiali devono essere

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particolarmente robusti e affidabili. Si parla dunque, solo di materiali nobili quali

l’acciaio e l’alluminio.

6.4.1 Lo sviluppo di una folding bike innovativa: la Nanoo

Nel 2010, con l’idea di utilizzare la bicicletta pieghevole per l’intermodalità e

quindi permettere a chiunque viaggiasse con i mezzi pubblici di trasportare in

modo semplice la propria bicicletta e raggiungere il proprio posto di lavoro dalla

stazione all’ufficio, nasce la folding bike Nanoo. La Nanoo, si sviluppa in seguito

alla collaborazione stilistica e progettuale tra Advanced Mobility S.r.l, un’azienda

torinese e JAB, costruttore taiwanese specializzato da 30 anni nella realizzazione

di telai unici per le loro soluzioni tecniche d’avanguardia, unitamente al design e

cura nei dettagli su prodotti destinati prevalentemente al mercato giapponese.

Il titolare di Advanced Mobility S.r.l., il Dott.re Maurizio Tomalino e il Direttore

commerciale, il Dott.re Pier Giorgio de Leone, sostengono che gli spostamenti

siano fondamentali nel nostro vivere quotidiano e il miglioramento delle modalità

di trasferimento in città con mezzi meno impattanti dal punto di vista ambientale

costituisca l’obiettivo principale di Advanced Mobility. La continua ricerca di

soluzioni innovative e compatibili ad un’ottimizzazione dello stile di vita hanno

determinato così una gamma di prodotti nuovi e gradevoli sia nell’apparenza che

nel loro utilizzo.

Advanced Mobility, oltre a porre la massima attenzione all’innovazione,

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all’affidabilità e alla funzionalità dei propri prodotti, considera fattore altamente

importante il gradimento estetico attraverso design all’avanguardia e in sintonia

con le tendenze in atto.

La bicicletta pieghevole è un prodotto che racchiude in sé un concetto di mobilità

sostenibile e funzionale per un vivere quotidiano semplificato. Advanced

Mobility, ha così progettato modelli che ottimizzassero questi concetti e che

esprimessero un forte gradimento per la loro apparenza.

Figura 6.5: La Nanoo versione 12

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Fonte: www.nanoo.biz.it

Con il progetto Nanoo, è stata rivoluzionata la concezione di chiusura classica del

telaio definendo nuovi standard per la mobilità e praticità di utilizzo in città. La

Nanoo è interamente in alluminio, richiudibile in 10 secondi e trasportabile sulle

proprie ruote, caratteristica che la rende unica nella categoria in modalità richiusa.

Grazie all’architettura del telaio, il trasporto della bici in modalità ripiegata

avviene senza fatica, sostituendo al tipico sollevamento degli altri modelli della

categoria il facile scorrimento sulle proprie ruote con il semplice appoggio di una

mano sul manubrio. Ne deriva così la possibilità di portarla con sé ovunque:

appartamento, ufficio, negozio, mercato, ristorante, etc, senza rischiarne il furto.

Lo slogan della bici, infatti, presto diventa il seguente: “Nanoo è sempre con te!”.

È da sottolineare il limite strutturale dei telai delle bici pieghevoli presenti sul

mercato che creano non poche difficoltà in termini di volumi occupati quando

sono in modalità di chiusura perché diventano ingombranti e non è semplice

trasportarle. Il modello Graziella disegnato nel 1964 da Renato Donzelli, è il

capostipite dal quale hanno tratto ispirazione tutti gli attuali costruttori di

biciclette pieghevoli con la classica chiusura “a libro”. Questo tipo di chiusura

comporta obbligatoriamente il sollevamento della bici in quanto le ruote si

trovano affiancate in maniera disallineata non permettendone il comodo

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scorrimento.

Alcune di esse, per sopperire a questo inconveniente, propongono soluzioni di

trascinamento su piccole ruote di plastica montate su portapacchi agganciati al

telaio rendendole a tutti gli effetti trolley instabili che provocano intralcio in caso

di trascinamento in aree affollate. Il trascinamento su terreni accidentati è

pressoché impossibile.

La Nanoo, invece, grazie a questa nuova concezione di chiusura che ne permette il

perfetto scorrimento, ha la particolarità di poter restare in piedi sul proprio

cavalletto sia quando è in posizione aperta che in posizione chiusa a differenza

della totalità delle concorrenti che non permettono tale opportunità, obbligando

l’utente ad appoggiare la bici ripiegata a terra oppure ad un appoggio fortuito. Il

cavalletto ha anche la funzione con la sua particolare forma di fungere da blocco

della bici appoggiandoci un piede sopra, utilissimo soprattutto quando si viaggia

su mezzi di trasporto quali bus, metro, treno.

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Figura 6.6: Nanoo pensata per l’intermodalità

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Fonte: www.nanoo.biz.it

La regolazione del manubrio e della sella anatomica in gel fanno sì che la Nanoo

sia una bicicletta adattabile per le diverse stature, da 140 cm a 205 cm e fino a 110

Kg di portata. Grazie alle sue ridotte dimensioni e al peso contenuto – 12 Kg per

la versione meccanica e 16 Kg per la versione elettrica - Nanoo è infatti comoda

da trasportare sia su mezzi pubblici quali treno, metropolitana e bus, sia su

autovetture, camper e barche. I cerchioni in alluminio da 12” con copertoni a

sezione larga la rendono sicura su qualunque terreno e confortevole nella guida

come una comoda city bike.

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La Nanoo, dunque, si differenzia dai competitors per diversi aspetti:

1. l’utilità: determinata dal fatto che la bici una volta chiusa, può essere

trasportata istintivamente sulle proprie ruote come un trolley senza uno

sforzo fisico;

2. la praticità: la facilità di apertura e chiusura della Nanoo;

3. la comodità: la possibilità di portarla sempre con sé in qualunque luogo;

4. la guidabilità: l’utente quando prova la bicicletta ha una sensazione di

leggerezza e di fluidità del prodotto. La diffidenza inziale per la presenza

delle ruote piccole viene vinta proprio nel momento in cui si testa il

prodotto;

5. il design: la Nanoo riesce a catturare l’attenzione del pubblico per il suo

design innovativo e accattivante. È un oggetto che risalta agli occhi e nella

sua forma esprime una certa essenzialità tecnologica e compattezza con

grandi possibilità di affidabilità e di utilizzo. Questo aspetto della

bicicletta, che indubbiamente costituisce un altro fattore di successo, ha

fatto sì che la Nanoo potesse essere utilizzata anche come un oggetto

trasversale di moda in molte vetrine di negozi di abbigliamento e di

arredamento, concept store (Fig. 6.7), nelle principali città italiane ed

europee, per attirare l’attenzione.

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Figura 6.7: La Nanoo all’interno del punto vendita Emporio Armani, Milano.

Fonte: www.nanoo.biz.it

Relativamente al mercato, prima del lancio del prodotto, è stata fatta un’analisi dei

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principali competitor e quindi anche un “benchmarking” non tanto sotto il profilo

tecnologico ma riguardo al posizionamento della Nanoo sul mercato.

I principali player di cui la Nanoo deve tener conto sono:

a) Brompton: leader inglese nel settore da 27 anni con un modello di

bicicletta concepita come un prodotto che aumenta l’indipendenza e la

libertà delle persone. La Brompton, rispetto alla Nanoo ha un’estetica più

retrò e tradizionale con un’ottima affidabilità e compattezza ma ha il

problema della trasportabilità come già accennato, dovendo caricarla e

trasportarla di peso;

b) Strida: le biciclette di questo brand inglese, hanno un design tecnico a

forma triangolare in cui la sella scorre sull’ipotenusa di questo triangolo. È

una bici molto accattivante dal punto di vista del design e meno efficiente

dal punto di vista della guidabilità a causa della sella che scorrendo

sull’ipotenusa, crea problemi per le persone alte. La bicicletta quando

viene ripiegata, si presenta come un lungo bastone con le ruote affiancate

comportando una trasportabilità che affatica il polso di chi la utilizza;

c) Dahon: brand americano presente sul mercato da oltre quarant’anni, che ha

creato un modello di biciclette pieghevoli con un sistema di piegatura

tradizionale “a libro”, come la Graziella, presenta un’ottima affidabilità ma

meno efficiente da un punto di vista di trasporto passivo intermodale a

causa del suo sistema di chiusura;

d) Tern: brand taiwanese, creata dal figlio del proprietario della Dahon,

sviluppando una bicicletta simile a quest’ultima rendendola più

accattivante da un punto di vista del design. È una bicicletta bella

esteticamente, affidabile ma sconta le stesse problematiche in termini di

trasportabilità passiva e di ingombro della Dahon;

e) Mobiky: brand francese che ha caratteristiche similari alla Nanoo per il

sistema di piegatura “ad ombrello”, con scorrimento sulle proprie ruote

quando è chiusa anche se è più ingombrante. La Mobiky, inoltre ha una

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maneggevolezza inferiore rispetto alla Nanoo poiché il telaio non è così

rigido a smorzare le oscillazioni lungo l’asse e la sensazione provandola è

quella di avere un serpentone che si muove e oscilla sotto la sella

soprattutto affrontando le curve;

f) Pacific: azienda taiwanese che ha realizzato un paio di modelli di bici

pieghevoli la più conosciuta è il modello “Carry Me”, una bicicletta con le

ruote molto piccole da 8”, stabile adatta per le brevi distanze;

g) Di Biasi: brand italiano, costruttore siciliano che ha creato un modello di

bici caratterizzato da un interessante sistema di piegatura ma in termini di

trasportabilità sconta gli stessi problemi della Brompton.

Dunque, la Nanoo è un prodotto con caratteristiche specifiche, posizionato su un

mercato di nicchia, che sconta il problema di far capire al pubblico l’essenza

stessa della bicicletta pieghevole e di spiegare in ogni piccolo particolare l’utilità

di un prodotto del genere. Spesso, succede che l’utente, non sia informato e non

conosca esattamente il significato di biciclette pieghevoli; non abbia ben chiaro

l’idea sull’utilizzo di una folding bike ma, soprattutto dimostra la necessità di

vincere quella diffidenza inziale che può sorgere vedendo un mezzo con le ruote

piccole.

Inoltre, da un’attenta analisi del target da parte dell’azienda, sono venuti fuori due

comportamenti tipici dei consumatori in questo settore:

1) un comportamento compulsivo, cioè una reazione di immediatezza che il

potenziale acquirente ha nei confronti del prodotto appena lo vede e se ne

innamora; 2) un comportamento ragionato dettato da chi vuole scientificamente

essere certo che quello è il prodotto che fa per lui e quindi si è informato,

raccogliendo tutte le possibili nozioni oltre che aver voluto provare e testare la

bicicletta. La crisi economica, ovviamente, ha frenato il primo gruppo di possibili

acquirenti con una percentuale del 25% contro il 75% della seconda tipologia, in

quanto la Nanoo, trattandosi di un prodotto di fascia medio-alta ha dei prezzi che

241

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non sono alla portata di tutti e quindi non possono permettersela pur essendone

attratti.

Tutto ciò, ha spinto i due titolari di Advanced Mobility S.r.l., a realizzare

un’analisi dei canali commerciali del settore delle bici pieghevoli pur sapendo di

essere in un contesto molto particolare. Infatti, dopo circa un anno di analisi dei

vari canali, focalizzandosi soprattutto sui rivenditori ufficiali delle biciclette, è

emerso che tutti questi operatori non fossero preparati e capaci di rispondere

all’esigenza di saper proporre un tale modello di bicicletta.

Da questa problematica, è stato necessario selezionare chi fosse in grado di

proporre la Nanoo, di farla provare, di spiegare in tutte le sue caratteristiche il

prodotto e di avere uno stile di vita decisamente interessante, appagante e sano

proprio perché la Nanoo offriva delle possibilità che una bicicletta normale non

aveva. L’obiettivo quindi, di Advanced Mobility, è stato quello di presentare e

sviluppare la Nanoo come un prodotto innovativo ed originale e allo stesso tempo

spiegare e far conoscere le componenti innovative del prodotto sfruttando anche la

Rete e quindi Internet. Difatti, oggigiorno, la comunità di persone che ha un

approccio verso l’intermodalità e verso uno stile di vita volto ad utilizzare anche

la bicicletta pieghevole quotidianamente, è un pubblico che sente il bisogno di

utilizzare Internet per acquisire le informazioni. Per la Nanoo, è stato importante

avere delle buone recensioni e riscontri positivi sulla Rete per far sì che i

potenziali clienti della seconda tipologia - quelli con un comportamento ragionato

- trovassero tali informazioni positive su Internet.

Ad oggi, quindi, le strategie di marketing e di comunicazione dell’azienda si

concentrano su questa strategia, soprattutto sui Social network, che sono una parte

importante e fondamentale per diffondere ancor di più la presenza sul Web e in

più su alcuni eventi di interesse per far toccare con mano il prodotto.

Figura 6.8: Esempi di campagne marketing della Nanoo sui social network

242

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Fonte: www.nanoo.biz.it

Si è pensato anche ad eventi non attinenti il mondo delle bici ma a situazioni in

altri ambiti come la recente esposizione delle Nanoo al Salone del Gusto lo scorso

ottobre, l’esposizione all’ultima edizione della Biennale di Venezia-Architettura

2014, catturando l’attenzione dei visitatori proprio per l’originalità del design in

un contesto del tutto differente da quello delle biciclette.

In conclusione, la Nanoo, si presenta come un prodotto davvero innovativo, utile e

versatile, capace di migliorare la vita delle persone ribaltando positivamente a

proprio favore le inefficienze e i problemi della viabilità in ambito urbano come

opportunità e stimolo per sviluppare un buon marchio aziendale, non solo a livello

nazionale ma anche oltre i confini del nostro Paese.

243

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CAPITOLO 7

L’ESPERIENZA DEL BIKE SHARING

7.1 Le origini del Bike Sharing: tre generazioni a confronto

Il “bike sharing” (traducibile come "condivisione della bicicletta", talvolta

indicato come servizio di biciclette pubbliche) è uno degli strumenti di mobilità

sostenibile a disposizione delle amministrazioni pubbliche che intendono

aumentare l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici (autobus, tram e

metropolitane), integrandoli tra loro (trasporto intermodale) e integrandoli

dall’utilizzo delle biciclette condivise per i viaggi di prossimità dove il mezzo

pubblico non arriva o non può arrivare: è quindi una possibile soluzione al

problema noto con il nome di “ultimo chilometro”, cioè quel tratto di percorso che

separa la fermata del mezzo pubblico alla destinazione finale dell’utente.

È necessario tuttavia fare attenzione alla distinzione che intercorre tra i sistemi di

bike sharing e quelli di noleggio biciclette. Contrariamente a quanto si pensa

comunemente, la differenza non sta nella gestione: privata nel noleggio biciclette

e pubblica nel bike sharing. Ci sono non pochi casi in cui il bike sharing viene

gestito da privati. Il vero tratto caratteristico dei sistemi di bike sharing va

ricercato nel fatto che questi sono dei servizi che non prevedono la stipula di un

contratto per ogni volta che è usata la bicicletta. Noleggiando la bicicletta, invece,

si deve passare, ogni volta per un front-office, rendendo la procedura più

macchinosa. A ciò va aggiunto il discorso legato all’uso condiviso, che viene ben

riassunto con il termine inglese “sharing”. Si deve all’americano Paul DeMaio,

fondatore della società di consulenza per il bike sharing “MetroBike LLC”, il

primo tentativo di sistematizzare l’argomento. DeMaio distingue tre generazioni

di sistemi di bike sharing, caratterizzate dalla tecnica e dalla tecnologia di

condivisione. In ciascuna di queste tre generazioni, i servizi di bike sharing si

sono poi potuti differenziare, in particolare per le soluzioni adottate nella fornitura

244

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del servizio.

Prima generazione: Amsterdam. Nel 1967, ad Amsterdam, Luud

Schimmelpennink, un ingegnere industriale e membro attivo dei Provos, fu uno

dei primi fautori dell’idea della bici come strumento per il trasporto sostenibile.

Fu sua l’idea di dipingere le biciclette di bianco e di offrirle alla comunità per una

maggiore diffusione delle bici stesse, sostenendo di fatto l’idea di una nuova

mobilità, non inquinante, sicura e rispettosa del contesto in cui si sviluppa.

L’iniziativa ebbe subito un discreto successo, tanto che, oltre alle biciclette che

erano recuperate dai Provos tra quelle gettate via, ce ne furono altre regalate da

cittadini desiderosi di contribuire all’iniziativa. Si

arrivò ad avere, in città, qualche centinaio di

biciclette bianche, che potevano venire usate da

chiunque e poi rilasciate sulla strada .

Il bianco simboleggiava il colore della purezza contro lo sporco della società

moderna che avanzava.

Seconda generazione: i sistemi meccanici danesi. Nonostante l’entusiasmo dei

promotori delle “biciclette bianche” e nonostante il senso civico degli olandesi, i

comportamenti antisociali ebbero il sopravvento. Si comprese allora che era

necessario fornire almeno un incentivo per la restituzione del mezzo fornito in

uso. Su questa intuizione sono nati i sistemi di seconda generazione.

Nel 1974, nella città francese di La Rochelle, fu lanciato per la prima volta dopo il

periodo dei Provos in Olanda, un programma regolamentato, dove delle bici gialle

potevano essere utilizzate dalla comunità in maniera libera e gratuita. Questo

avvenimento è oggi considerato tra i primi successi di una forma di bike sharing.

Nulla di significativo successe fino al 1993,quando in Danimarca, nella città di

Nakskov nacque un programma che, seppur di piccola portata, dimostrò al mondo

intero che il bike sharing poteva essere una realtà funzionante e di sicuro beneficio

per la città. Naturalmente si trattò di iniziative di proporzioni modeste, ma

indubbiamente donarono una certa popolarità al servizio, che si trasformò in

qualcosa di più concreto ed utile alla comunità. Questo sistema ebbe un buon

245

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successo, al punto che fu decisa una sperimentazione nella capitale Copenhagen.

Nacque così, nel 1995 il sistema “City Bikes Bycyklen”, con circa 1000 biciclette

in 120 stazioni nel centro di Copenhagen. Le biciclette di Copenaghen furono per

la prima volta appositamente progettate per l’intenso uso utilitario: montavano

pneumatici in gomma piena e parti che presentavano targhe pubblicitarie.

Potevano essere recuperate e riconsegnate in luoghi specifici racchiusi all’interno

del centro della città, attraverso un semplice deposito su cauzione in denaro

contante.

Le City Bikes sono delle biciclette studiate per l’uso urbano, con telai

riconoscibili non solo per i colori ma anche per la loro forma: questo dovrebbe

scoraggiare eventuali malintenzionati dal rivenderle o dall’usarle in modo privato.

Esse hanno inoltre gomme piene per minimizzare le forature. La manutenzione

delle “Bycyklen” è affidata a degli ex-carcerati che facendo pratica sulle City

Bikes possono avere la possibilità di un reinserimento nel mondo del lavoro.

Il successo di Copenhagen è stato esportato in altre realtà: se la sperimentazione

ad Helsinki e ad Århus ha dato risultati comparabili a quelli di Copenhagen, non

si può dire la stessa cosa per Vienna, dove il sistema di bike sharing di seconda

generazione simile a quello danese è stato sospeso, a causa del numero di

biciclette rubate e danneggiate nettamente superiore a quanto preventivato99,

appena pochi mesi dopo essere stato lanciato, nel 2002.

I sistemi attuali: la terza generazione. Il primo esempio di programma di terza

generazione si sperimentò nel 1996 nell’ateneo dell’Università di Portsmouth, in

Inghilterra, dove gli studenti poterono per la prima volta utilizzare una carta a

banda magnetica per prelevare una bicicletta. Potrebbe apparire un’innovazione di

piccola portata ma in realtà, proprio grazie alla possibilità di identificazione

dell’utente si potè abbattere il tasso di furti che descriveva la precedente

generazione di bike sharing. Questa e le manifestazioni successive del servizio

furono sviluppate e potenziate grazie all’introduzione di nuove tecnologie che

permisero un miglioramento globale del servizio esistente ed introducendone altri

inediti. Basti pensare al bloccaggio elettronico delle sedi delle biciclette, i sistemi 99 http:/ow.ly/UqEu

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di telecomunicazione, le smartcard, l’accesso a sistemi che funzionano attraverso

la telefonia mobile e on-board attraverso il computer.

Il servizio di bike sharing maturò costantemente negli anni successivi, con uno o

due programmi lanciati con cadenza annuale; si pensi al primo servizio francese, a

Rennes, il “Vèlo à la Carte”, inaugurato nel 1998 o a Monaco e al suo “Call a

Bike” del 2000. Call a Bike è un servizio fornito dalle ferrovie

tedesche Deutsche Bahn AG, che permette, agli utenti registrati, di liberare una

bicicletta attraverso un codice a quattro cifre che è fornito, via SMS, sul cellulare

dell’utilizzatore.

Ogni bicicletta è identificata attraverso un numero ed ha un lucchetto che può

essere sbloccato telefonando a questo numero ed inserendo, in un microcontroller

LCD, il codice ricevuto via SMS. Ma fu il 2004 l’anno della definitiva

consacrazione del bike sharing, attraverso l’avviamento del programma “Velo’v”,

a Lione, con 1.500 biciclette fornite dalla società JCDecaux. Si trattava del

servizio più imponente che si fosse mai visto ed ancora oggi il suo impatto è

notevole. Il sistema lionese fu il primo ad essere concesso “in fornitura” e a non

essere pagato direttamente: l’accordo con JCDecaux, infatti, ha stabilito la

cessione di spazi pubblicitari tra le mura cittadine in cambio della fornitura e

gestione completa del servizio da parte di Ciclocity, la società figlia di JCDecaux

che si occupa del bike sharing. Due anni dopo, Parigi avviò il proprio servizio di

bike sharing, il Vélib’ con un massiccio utilizzo di risorse: ben 7.000 biciclette,

che furono quasi immediatamente portate a 23.600 unità tra città e sobborghi.

Questo massiccio impegno e l’ancor migliore risposta da parte del pubblico, che

ne decretò un successo quasi insperato, cambiò il corso della storia del bike

sharing e generò un enorme interesse per questa modalità di transito in tutto il

mondo.

Al di fuori dell’Europa, il bike sharing ha cominciato a prendere piede solamente

nel 2008, con nuovi programmi in Brasile, Cile, Cina, Nuova Zelanda, Corea del

Sud, Taiwan e negli Stati Uniti, dove per ogni singolo stato il servizio partiva

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direttamente dai presupposti del bike sharing di terza generazione. Verso la fine

del 2007 vi erano 60 programmi di bike sharing a livello mondiale. Entro la fine

del 2008, ce n’erano circa 92. Attualmente, esistono circa 120 programmi, come

mostrato nella mappa (figura 6.1) di Google Maps a cura di Paul DeMaio, con

programmi di terza generazione indicati con l’icona di un ciclista e programmi

previsti a breve rappresentati con un’icona con il punto interrogativo.

Figura 7.1: Mappa di bike sharing nel mondo

Fonte: GOOGLE MAPS, DEMAIO P. (2009), (a cura di), “Bike-sharing: Its History, Models of Provision and Future”, Velo-city Conference, Washington, pp. 1-12.

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7.2 Il bike sharing in Italia

Negli ultimi anni il servizio di condivisione delle biciclette ha contagiato i comuni

d’Italia desiderosi di garantire un sistema di mobilità alternativo ed utile ai

cittadini, ma nonostante il grande successo, sono molti i problemi legati alla

ricerca di una soluzione che, se trovata, spingerebbe ancora più su l’uso della

bicicletta per brevi distanze.

Negli ultimi anni le città italiane, hanno investito denaro ed energie in metodi

alternativi alla mobilità privata, nella speranza di liberare i centri urbani

dall’assedio delle autovetture incentivando i cittadini a muoversi con mezzi

ecologici o usando i servizi pubblici. Ed uno degli strumenti sicuramente più

interessanti è il bike sharing, visto come un metodo ecologico ed economico per

migliorare la mobilità privata. La mobilità su bicicletta sembra abbia avuto un

incredibile incremento negli ultimi anni anche se il servizio, sembra non

raggiungere gli standard europei. Ad oggi, in Italia il bike sharing è presente in

188 città, con una prevalenza al nord e al centro rispetto al sud. Le tipologie di

servizio sono due, a chiave ed a scheda magnetica. Nel primo caso la bicicletta

viene liberata da una chiave che la identifica e può essere presa o restituita a

qualsiasi orario, a patto di ritirarla e consegnarla nell’apposito alloggiamento.

La chiave può essere usata in città diverse ed in questo modo si garantisce un

utilizzo più capillare. Il sistema a scheda magnetica, invece, appare utile nel caso

di un utilizzo a breve periodo a causa della regolazione tariffaria a tempo. A

differenza del servizio a chiave, in questo caso il mezzo può essere restituito

ovunque, con il pagamento che viene effettuato con carta di credito o messaggio

telefonico. L’utilizzo dell’una o dell’altra tipologia di bike sharing in Italia

dipende dalla divisione del mercato tra due sole aziende fornitrici:

� C’entro in bici per il sistema a chiave;

� Bicincittà per il sistema a scheda.

Su circa 188 sistemi attivi ad oggi, 2/3 sono a chiave e 1/3 a scheda, con una

distribuzione territoriale molto legata alla localizzazione d’origine e alla

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conseguente penetrazione commerciale delle due aziende fornitrici.

“C’entro in bici”, che ha sede a Ravenna, è prevalente nelle zone dell'Emilia e del

Veneto, mentre "Bicincittà" è di Torino e ha la prevalenza nel Nord Ovest;

Bicincittà è inoltre presente anche sul mercato internazionale con i sistemi di

Pamplona e Losanna. Questa forma di duopolio legato a una partizione territoriale

tra sistemi tecnicamente diversi è sintomo di come il bike sharing in Italia sia

ancora giovane e debba ancora evolvere verso una molteplicità di offerta

caratteristica di un mercato più maturo.

Unica eccezione a questa partizione rigida del mercato fra due aziende, ciascuna

con la propria differente tecnologia, è rappresentata dal Comune di Milano, che

utilizza il sistema sviluppato dalla società americana Clear Channel. Milano è

attualmente il sistema italiano di maggiori dimensioni: denominato BikeMi, è

stato inaugurato nel Novembre 2008, prevede 3.010 biciclette distribuite lungo

tutta la città e le stazioni attive nella cerchia urbana hanno raggiunto quota 173,

con un’aggiunta di 53 stazioni grazie ad un investimento di tre milioni di euro

proveniente da Area C, con l’obiettivo di arrivare a 200 stazioni nei prossimi

mesi100. BikeMi è l’esempio lampante del progetto di condivisione di biciclette a

breve periodo, visto che com’è specificato sul sito, il tempo massimo d’uso è di

due ore ed è conveniente se usato in correlazione con la rete dei mezzi pubblici

Atm.

Una nota particolare meritano i sistemi di Genova e Siracusa in quanto

rappresentano in assoluto le prime esperienze di utilizzo di biciclette a pedalata

assistita su veri e propri sistemi di bike sharing, mentre già se ne potevano trovare

su tradizionali ciclonoleggi.

Il sistema di Genova, inaugurato nell'Aprile 2009, è denominato MOBIKE,

dispone di 55 bici distribuite su 6 stazioni ed è stato realizzato grazie a un

contributo del Ministero per l'Ambiente a favore della mobilità elettrica. E'

realizzato e gestito direttamente da Bicincittà. L'utilizzo delle biciclette assistite

può essere indicato in una città come Genova che presenta molte parti collinari,

100 https://www.bikemi.com

250

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anche se le postazioni realizzate ad oggi, collocate lungo l'arco del vecchio porto e

nelle zone centrali, presentano un dislivello fra loro inferiore a 50 metri,

decisamente accettabile anche per una bici tradizionale. L'utilizzo del bike sharing

genovese risulta comunque fortemente penalizzato dalla quasi totale mancanza di

percorsi protetti per le bici. Analogamente il sistema di Siracusa, aperto poco

dopo Genova, si basa sulla tecnologia di Bicincittà e utilizza un finanziamento

dato dal Ministero per l'Ambiente in occasione del G8. Il sistema è in questo caso

di tipo misto con la previsione a regime di 200 bici tradizionali e 50 assistite,

distribuite su 15 stazioni.

In particolare, con riferimento al numero di biciclette previste, i sistemi in Italia

numericamente più consistenti101 dopo Torino e Milano sono:

� Brescia (200)

� Ravenna (140)

� La Spezia (135)

� Bergamo (120)

� Trento (88)

Rapportando il numero di bici al numero di abitanti102, tra i migliori rapporti

risultano:

� Modena (1/900)

� Milano (1/1000)

� Cuneo (1/1100)

Siamo dunque ben lontani da valori tali da rappresentare un significativo

contributo alla mobilità urbana, come quelli che troviamo ad esempio in grandi

città francesi quali Parigi (1/100) o Lione (1/160). In generale quindi l'Italia si

101 www.bicincitta.com102 Op. cit, 79.

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caratterizza per un elevato numero di sistemi prevalentemente di piccolissima

dimensione. Si può inoltre ragionevolmente supporre che questa tendenza

aumenterà nei prossimi anni con il prevedibile estendersi dell'interesse per il bike

sharing nelle città del Centro e del Sud. La diffusione di sistemi di piccolissima

dimensione è una tipicità italiana che può dipendere dalla conformazione del

nostro territorio, caratterizzato da un'urbanizzazione diffusa, con molte città medie

o piccole. Le dimensioni limitate delle città probabilmente non consentono di

innescare livelli di redditività tali da consentire la realizzazione da parte di privati

di sistemi di bike sharing in cambio della concessione di spazi pubblicitari, come

invece avviene altrove. Ne deriva quindi la necessità, da parte delle

Amministrazioni locali, di rivolgersi quasi esclusivamente a fondi pubblici, con la

conseguenza di avere finanziamenti limitati, tempi incerti e prospettive non sicure

circa il mantenimento del servizio. Non è da sottovalutare inoltre l'ostacolo alla

creazione di sistemi numericamente importanti rappresentato dalla arretratezza

italiana nella realizzazione di infrastrutture ciclabili.

Lo sviluppo del bike sharing può avvenire se coordinato con altre azioni aventi

come obbiettivo la ciclabilità, così come accade se le Amministrazioni si dotano

di un apposito Biciplan che, oltre al bike sharing, preveda percorsi, facilitazioni

per chi va in bici quali rastrelliere o scivoli, promozione e informazione,

manutenzione dell'esistente. Ad oggi in Italia sono pochi gli studi o le ricerche sul

fenomeno del bike sharing e non esiste una approfondita analisi di carattere

generale su di esso.

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7.2.1 Il caso della città di Torino: il [TO]Bike

Il servizio di bike sharing nel capoluogo piemontese, è stato lanciato il 6 Giugno

2010 e rappresenta il primo servizio metropolitano di condivisione di biciclette in

Italia103. Il caso della città di Torino, inoltre, è interessante poiché qui si è

verificato un fenomeno opposto a quello verificatosi nelle grandi città europee

dotate di un sistema di bike sharing: se a Parigi e Lione il servizio che è nato

all’interno della città si è ampliato oltre i confini amministrativi fino ad interessare

anche i territori immediatamente prossimi, a Torino il bike sharing è nato prima in

alcuni comuni della prima e della seconda cintura (Patto Zona Ovest, Nichelino,

Settimo Torinese).

Il servizio, nonostante le prime diffidenze degli utenti torinesi, ha conquistato un

ruolo importante all’interno della mobilità di Torino. Partito tra mille scetticismi,

il servizio di bike sharing TOBike (Fig. 7.2), ha superato le più rosee previsioni;

in poco meno di un anno e mezzo i velocipedi gialli con le strisce blu, sono ormai

entrati nel panorama delle strade cittadine, soprattutto all’interno del centro

storico, zona a traffico limitato. Le stazioni del bike sharing più gettonate sono

quelle delle stazioni ferroviarie di Porta Nuova e Porta Susa e quella di Cernaia.

L’orario preferito è dalle 8 alle 9 e dalle 18 alle 19, in corrispondenza con

l’ingresso e l’uscita dall’ufficio; segno che il bike sharing sta diventando un

mezzo alternativo per i pendolari che arrivano in treno e in metrò e invece di salire

sul tram prendono una delle tante biciclette condivise e pedalano fino al posto di

lavoro. Si tratta di un mezzo molto amato dai torinesi, che ne hanno di fatto

decretato il successo permettendone il continuo miglioramento della qualità del

servizio.

103 www.tobike.it

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Figura 7.2: [TO]Bike. Il sistema di bike sharing nella città di Torino

Fonte: www.tobike.it

Ad oggi il, il servizio conta 105 postazioni attive in città cui si aggiungono le 30

stazioni distribuite sui comuni dell’area metropolitana104 (Alpignano, Collegno,

Druento, Grugliasco e Venaria Reale). Oltre 22.000 abbonamenti annuali attivi

utilizzano con grande costanza il servizio che si attesta sui 7.000 prelievi medi

giornalieri, registrando nelle giornate di maggior utilizzo oltre i 10.000 prelievi.

Tuttavia, se da una parte crescono gli abbonati al TOBike, dall’altra crescono

anche le lamentele di chi lo utilizza. Spesso, infatti, il vero problema è quello di

prelevare e consegnare il mezzo, soprattutto nelle ore di punta e questo, per un

sistema che fa dell’agilità di spostamento la sua mission, rischia di essere un guaio

grosso. Gli utenti lamentano che al mattino, quando migliaia di pendolari danno

l’assalto alle rastrelliere periferiche, in particolare a quelle collocate nei pressi

delle stazioni ferroviarie, spesso accade di trovarle sguarnite. Alla sera, invece,

quando si torna in bici alle rastrelliere si trovano tutti i posto occupati e per

104 Op. cit, 81.

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riuscire a riconsegnare il mezzo per evitare di incorrere nelle sanzioni bisogna

peregrinare da una stazione all’altra. Cosa è accaduto?

Semplicemente, all’innalzamento della domanda non ha fatto in tempo a

corrispondere un innalzamento dell’offerta. Il problema non è aumentare il

numero delle biciclette disponibili quanto i posti sulle rastrelliere. Una rastrelliera

è un oggetto tecnologico piuttosto avanzato, che deve essere collegato agli

impianti sotterranei e tramite loro ai cervelloni informatici che monitorano il

traffico delle bici gialle.

La manutenzione delle biciclette sta affrontando in questo periodo il principale

problema lamentato dagli utenti: quello dell’altezza dei sellini, che spesso è

difficile da regolare perché i meccanismi di fermo non funzionano bene. TOBike

sta provvedendo a sostituire le leve di blocco con un nuovo modello più lungo che

dovrebbe rendere più facile bloccare il sellino all’altezza prescelta.

Tutti gli utenti, per usufruire del servizio, devono essere dotati di una

tessera RFID ricaricabile, che, in base all'abbonamento scelto, varia di prezzo.

Sono disponibili formule giornaliere, settimanali e annuali; qualunque sia la

soluzione scelta la tessera è rilasciata presso l'ufficio di Torino, oppure spedita

dopo la sottoscrizione e il pagamento su internet. L'abbonamento può essere

caricato anche sul BIP, la tessera unica dei trasporti della Regione Piemonte.

Il 30 Maggio 2014, è stata lanciata anche la prima app per smartphone del

servizio, che calcola il percorso più veloce e conveniente in bicicletta, con

l’obiettivo di andare incontro alle esigenze dei cittadini, sempre più propensi a

spostarsi sulle due ruote. L’applicazione che fa parte del progetto di “Torino Smart

City”, è stata finanziata dalla divisione Ambiente del Comune di Torino ed è attiva

in tutta l’area metropolitana. Chi si muove grazie a TOBike può sempre sapere in

ogni momento dove sono le varie stazioni e quante biciclette sono disponibili; un

aiuto, dunque, a tutte quelle persone intenzionate a sfruttare il servizio, ma che

hanno dovuto desistere perché il servizio non offre la garanzia totale di trovare il

mezzo sempre disponibile.

255

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Inoltre, grazie ad un’alleanza “ecologica” che vede in campo Italo, il treno ad alta

velocità e a basso consumo energetico di Ntv e il TOBike, la città piemontese

lancia la mobilità “verde”, diventando la capitale del trasporto integrato di

persone. Nel dettaglio, gli iscritti al programma fedeltà ItaloPiù possono accedere

alle bici del TOBike, con una riduzione di 5 euro per chi sottoscrive un

abbonamento annuale, comprensivo di prima ricarica e assicurazione RCT. Allo

stesso modo, gli abbonati del TOBike che viaggiano con Italo possono fruire di un

voucher di 10 euro utilizzabile con le offerte Base ed Economy per i viaggi Ntv

con origine o destinazione Torino105.

Una particolarità del bike sharing torinese rispetto al panorama regionale è

proprio la concessione di spazio pubblicitario in cambio della fornitura del

servizio: un modello già presente in Europa (Rennes, Lione e Parigi) ed in Italia

(Milano). Il bike sharing torinese fornisce anche alcuni servizi complementari:

� un servizio di movimentazione delle biciclette, effettuato tramite veicoli

ecologici (elettrici, ibridi oppure funzionanti a metano o gpl);

� un servizio di assistenza alla clientela con un Numero Verde dedicato, per

la raccolta di segnalazioni e richieste da parte degli utenti;

� un servizio di riparazione delle biciclette, installato nel territorio

comunale.

Complessivamente, i velocipedi scelti per l’esperimento di TOBike hanno dato

buona prova di sé: sono indubbiamente pesanti ma compensano questo difetto con

una robustezza che, per mezzi destinati ad essere un po’ maltrattati dagli utenti, è

un requisito fondamentale.

7.3 L’impatto del bike sharing

105 http://www.ntvspa.it

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Il bike sharing ha avuto un apporto fondamentale alla creazione di una enorme

comunità di ciclisti, incrementando ed incentivando l’uso della bicicletta e, di

conseguenza, concorrendo ad una riduzione dei gas a effetto serra ed un globale

miglioramento dell’ambiente urbano in termini di sanità pubblica e non solo.

Non è facile, comunque, misurare il successo di un progetto di bike sharing, in

quanto esso dipende molto dal punto di vista dei differenti stakeholders. In termini

di livello di utilizzo per bicicletta, Dublino è probabilmente la regina con tredici

prelievi giornalieri a bicicletta. Per qualità del servizio, Vélo’v a Lione è stato

recentemente riconosciuto come il migliore tra quaranta sistemi europei di bike

sharing in diciotto Paesi europei.

L’incremento del transito delle bici nelle città attraverso il bike sharing e ai nuovi

percorsi disegnati dall’utilizzo delle bici stesse ha migliorato la connettività di

altre modalità di transito: grazie alla disposizione delle stazioni di bike sharing

viene migliorato anche il problema dell’interconnettività tra i diversi mezzi di

trasporto, riducendo al minimo gli spostamenti effettuati con veicoli privati. Con

l’utilizzo intensivo del bike sharing si concretizza un altro fenomeno interessante:

il numero di spostamenti effettuati in bicicletta va a sostituire e ridimensionare il

numero di spostamenti che in precedenza venivano effettuati attraverso mezzi

motorizzati quali automobili e motociclette. Allo stesso tempo però, il servizio di

trasporto pubblico non soffre in nessun modo dello stesso calo d’utenza, in quanto

molti utenti rimangono titolari di una tessera di trasporto pubblico. Parigi, ad

esempio, ha segnalato che sono stati effettuati ben 50 milioni di viaggio con il suo

Velib’ solamente nei primi due anni di servizio.

Inoltre, gli organizzatori e pianificatori di molti programmi di bike sharing si

dichiarano fieri del proprio contributo alla causa ambientale e della

riqualificazione del territorio. Il servizio Bixi di Montreal afferma con orgoglio

che il proprio programma ha permesso di evitare l’emissione di più di un milione

e mezzo di kg di gas ad effetto serra dall’avvio del programma, nel maggio del

2009. Ad ogni modo, i benefici derivanti dall’utilizzo del bike sharing devono

essere ancora analizzati e quantificati approfonditamente ma d’altro canto l’utilità

ed i vantaggi dell’utilizzo della bicicletta sono noti da sempre, sia a livello

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individuale, sia a livello globale.

7.4 I modelli di funzionamento

Il sistema a chiave meccanica prevede l’utilizzo di una chiave, data all’atto

dell’abbonamento al servizio all’utilizzatore, per prelevare e riconsegnare le

biciclette presso le stazioni. La chiave, generalmente consegnata presso gli uffici

comunali competenti, è dotata di codice univoco di identificazione e consente il

rilascio di una qualsiasi bicicletta del servizio. Al momento dello sgancio del

mezzo, la chiave rimane inserita nell’alloggiamento; l’estrazione della chiave è

consentita solo rialloggiando la bicicletta presso il medesimo posteggio da cui è

stata estratta. Questo impedisce automaticamente la riconsegna presso una

stazione diversa da quella di prelievo; il codice identificativo, dal punto di vista

del gestore, consente di risalire all’utente che per ultimo ha fatto uso della

bicicletta, in caso di mancata riconsegna. Il servizio è usufruibile a seguito di

un’iscrizione, in alcuni casi sottoscrivendo un abbonamento a pagamento, in

genere di durata annuale, in altri casi solo versando una cauzione. Il regolamento

d’uso specifica però gli orari di funzionamento del servizio: generalmente la

restituzione della bicicletta al di fuori degli orari prestabiliti esclude l’utente dal

servizio per un certo periodo di tempo. I sistemi a chiave meccanica, per quanto

detto finora, agevolano e consentono gli spostamenti pianificati: qualsiasi sia il

percorso, l’utente deve necessariamente considerare a priori la riconsegna della

bici presso la medesima stazione di prelievo. Tra gli spostamenti di questo tipo

possono annoverarsi, ad esempio, i percorsi dei pendolari con scambio

intermodale treno-bici presso la stazione ferroviaria piuttosto che i percorsi di

carattere turistico – ricreativo ad anello: ad esempio, parcheggio presso il parco,

ingresso a piedi, giro in bicicletta nel parco, restituzione della bicicletta e ritorno.

Un altro punto di forza dei sistemi a chiave meccanica è la semplicità del sistema

di gestione: non sono necessari né controlli sulla posizione delle biciclette né

riallocazione. L’obbligo di restituzione presso la stazione di prelievo comporta

chiaramente alcune limitazioni in termini di flessibilità nelle origini e nelle

destinazioni dei percorsi e non incentiva il ricambio tra gli utenti (l’utente tende a

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trattenere la bicicletta per tutta la durata consentita); inoltre il sistema non può

prevedere meccanismi di miglioramento della localizzazione delle stazioni

presenti sul territorio in quanto non raccoglie informazioni sulle soste degli utenti.

La novità introdotta dai sistemi a carta è la tipologia di chiave per il prelievo, che

da meccanica diviene elettronica e non deve più rimanere alloggiata nelle strutture

di deposito delle biciclette in sosta, garantendo una maggiore flessibilità all’utente

nei suoi spostamenti. Il sistema offre la possibilità di prelevare la bicicletta in una

qualsiasi rastrelliera e di depositarla ovunque si trovi un alloggio libero, senza

“tenerla impegnata” nelle soste di lunga durata (per esempio in orario di lavoro o

durante le lezioni in università). Per prelevare la bicicletta occorre accostare al

dispositivo di lettura ottica la tessera elettronica, che permette l’apertura

dell’elettroserratura registrando i dati dell’utente; analogamente una volta

raggiunta la destinazione è necessario accostare la tessera al lettore per

riagganciare la bicicletta. Ogni azione viene immediatamente trasmessa, via radio,

ad una centrale operativa. In ogni momento, quindi, il sistema fornisce la

disponibilità effettiva di biciclette per ogni stazione; gli utenti possono verificare

la disponibilità di bicicletta accedendo ad un portale web dedicato. Laddove

un’unità risulti in avaria, un sistema di sblocco da remoto consente di riportare in

piena efficienza l’intera stazione di distribuzione. Il sistema, inoltre, registrando

punto di partenza, di arrivo, tempo di utilizzo, permette di elaborare un dettagliato

quadro statistico delle abitudini di spostamento degli utenti e di ottenere le

informazioni necessarie per ottimizzare il sistema. Il principale punto di forza di

questa modalità di gestione del servizio di bike sharing è la flessibilità che

consente ad un mezzo di essere utilizzato da più persone nell’arco della giornata e

non richiede di tornare al termine dell’utilizzo al punto di prelievo da cui si è

partiti. La flessibilità rappresenta anche il principale punto di debolezza: se

l’utente intende utilizzare la bicicletta per ritornare al punto di partenza non ha la

certezza di trovarne una ad una stazione a distanza utile per minimizzare il suo

tempo di percorrenza (quella che aveva utilizzato per il primo spostamento

potrebbe nel frattempo essere stata prelevata da un altro soggetto), oppure

potrebbe non trovare una colonnina libera in corrispondenza del punto di arrivo.

Inoltre dal punto di vista del gestore vi è lo svantaggio di dover gestire la

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riallocazione delle biciclette. La possibilità di poter mappare in tempo reale

l’utilizzo di ogni bicicletta consente anche l’introduzione di tariffe a tempo per

l’utilizzo.

7.5 Fattori critici di successo

Il successo di un bike sharing dipende dagli stakeholders coinvolti e la continuità

nel tempo, la sopravvivenza, è l’obiettivo generale a cui deve mirare un

programma di bike sharing. Più gli indicatori di successo si evolvono in una

direzione positiva e più gli stakeholders sono soddisfatti, più lunga sarà la vita del

sistema. Dal punto di vista della continuità nel tempo dei bike sharing, gli aspetti

più importanti di cui tener conto possono essere riassunti in alcune categorie:

1. Infrastrutture per la mobilità ciclistica in città: all’interno di questa

categoria, può assumere un’importanza rilevante l’approvazione di un Bici

Masterplan, che disciplini la realizzazione e la manutenzione di piste o

corsie ciclabili, la segnalazione per i percorsi ciclabili più lunghi,

particolari misure di sicurezza da adottare nei punti d’interazione con il

traffico veicolare e con i pedoni.

2. Accessibilità al servizio da parte degli utenti: adottare alcune misure per

rendere il sistema facilmente accessibile, sia in termini spaziali che

temporali. Tra queste possono essere considerate: la fluidità del processo

d’iscrizione, in modo che sia semplice interfacciarsi la prima volta; la

densità delle stazioni o, in caso di sistemi senza stazioni, la densità di

biciclette nei luoghi in cui ci sia più domanda; le modalità di prelievo delle

biciclette nelle stazioni e di riconsegna nei luoghi di destinazione; la

velocità di riparazione di guasti alle stazioni e delle biciclette; gli orari di

apertura durante il giorno e i periodi in cui è in funzione il sistema durante

l’anno. Su questi aspetti è possibile adottare numerosi indicatori:

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� sistemi con stazioni/senza stazioni,

� densità delle stazioni nell’area effettivamente coperta dal sistema,

� media del numero di posteggi per singola stazione,

� numero di ore di apertura al giorno,

� numero di giorni di apertura all’anno,

� numero di riparazioni diviso per il numero di utilizzi totali,

� numero di casi in cui è stato segnalato di non aver trovato una

bicicletta presso la stazione o il numero di casi in cui non è stato

possibile effettuare la riconsegna nel punto di destinazione

prescelto, a causa ad esempio del fatto che la stazione era piena.

3. Sicurezza: Molti parametri di sicurezza sono applicabili alle

infrastrutture ciclistiche nel loro complesso, ma alcune sono peculiari del

bike sharing come, per esempio, i luoghi dove sono posizionate le stazioni

o il grado di visibilità e di funzionalità delle biciclette offerte dal sistema

(luci, freni, modalità di parcheggio, ecc.). Il posizionamento delle stazioni

dovrebbe essere effettuato tenendo conto delle esigenze di sicurezza e

senza introdurre elementi di disturbo per gli altri utenti della strada o i

pedoni. Le stazioni non dovrebbero nemmeno interferire con altri

utilizzatori di spazi pubblici come, ad esempio, i veicoli per la pulizia e chi

interviene per rimuovere la neve, oltre a non ostacolare gli accessi per

disabili, etc.

4. Design di biciclette e stazioni: Una caratteristica importante delle

biciclette e del sistema di aggancio presso le postazioni di prelievo è una

robustezza sufficiente a scoraggiare atti vandalici e furti, ma tale da non

pregiudicarne la maneggevolezza e il peso. Le biciclette dovrebbero

inoltre avere un look coordinato e ben caratterizzato, per essere visibili nel

traffico, proprio come avviene con altri mezzi di trasporto pubblico,

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rafforzare l’immagine identitaria del sistema ed aumentarne la sicurezza.

La robustezza delle biciclette del bike sharing le rende più pesanti, e

questo può comportare una difficoltà per l’utente che non potrà

raggiungere la velocità di chi possiede una bicicletta ad alte prestazioni.

5. Integrazione con il sistema dei trasporti e Information Technology:

L’integrazione del bike sharing con altre modalità di trasporto in

condivisione (trasporto pubblico, car sharing, park-and-price, traghetti) in

termini d’iscrizione, pagamenti, smart card uniche d’accesso ai servizi, etc,

consente agli utenti di combinare tra loro più modalità di trasporto ed è

d’aiuto affinchè i viaggi diventino più convenienti ed efficienti. Ciò è

particolarmente importante in città dove non c’è un unico operatore, ma

più soggetti che effettuano servizi di trasporto pubblico; in tal caso un

clima di collaborazione sarebbe necessario. Si possono ottenere degli

importanti risultati anche dall’utilizzo delle nuove tecnologie di

comunicazione ed informazione: mappatura sul cellulare delle stazioni ed

indicazione della presenza di biciclette; segnalazione delle possibili

connessioni intermodali alle fermate del trasporto pubblico; valutazione in

tempo reale dei tempi di viaggio a seconda del tipo di mezzo o delle

diverse combinazioni intermodali a cui si può fare ricorso, nuovi telefoni

cellulari che funzionano anche come smart card, etc. In realtà, potrebbe

essere difficile investire in questa direzione, se il sistema di bike sharing

dipendesse da grossi finanziamenti; tuttavia, alcuni sistemi di bike sharing

che operano su scala ridotta fanno già affidamento sulla tecnologia

“mobile”.

6. Attività di ridistribuzione delle biciclette: Per mantenere il livello

qualitativo del servizio e rispondere in modo istantaneo alla domanda del

territorio di biciclette presso le stazioni, è necessaria una costante

ridistribuzione di biciclette dai punti di destinazione a quelli di origine.

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Normalmente, i punti di origine e destinazione si scambiano di ruolo

durante l’arco della giornata, quando il flusso di pendolari cambia

direzione. Per i bike sharing pensati per i turisti, tutto potrebbe avvenire in

modo diverso ma, in questi casi, si hanno probabilmente alcuni o più punti

d’interesse che fungono da luoghi di destinazione durante il giorno, per

trasformarsi in punti di partenza nel pomeriggio. I furgoni per la

ridistribuzione, inoltre non sono gli unici veicoli utilizzati per far

funzionare il sistema; vi sono, infatti, anche diversi tipi di furgoni e auto di

servizio, utilizzati, ad esempio, per gestire le stazioni.

7.6 I benefici di un sistema di bike sharing

Le ragioni per l’attuazione di un programma di bike sharing sono spesso

incentrate sugli obiettivi di aumentare il ciclismo, ridurre la congestione,

migliorare la qualità dell’aria e offrire ai residenti la possibilità di una mobilità

attiva. Il bike sharing ha due principali vantaggi rispetto ad altri progetti di

trasporto:

1. i costi di implementazione sono relativamente bassi;

2. i tempi di implementazione anch’essi bassi. È possibile, infatti, pianificare

e implementare un sistema in un arco temporale breve (dai due ad un

massimo di quattro anni), il che significa che i benefici per il pubblico

maturano prima rispetto alla maggior parte dei progetti di trasporto.

Un sistema di bike sharing può apportare numerosi benefici in una città, attraverso

vari modi:

riduce la congestione e migliora la qualità dell’aria: il bike sharing,

infatti, offre una mobilità alternativa per i viaggi brevi che diversamente

potrebbero essere svolti con la macchina;

aumenta l’accessibilità: l’implementazione di un SBS fornisce agli utenti

locali un maggiore accesso a luoghi che sono oltre la loro portata a piedi;

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migliora l’immagine del ciclismo: un sistema di bike sharing proietta

un’immagine moderna della cultura ciclistica, aiutandola a svilupparsi

all’interno di una città;

fornisce un servizio complementare ai trasporti pubblici: il bike sharing

offre un’alternativa per i viaggi brevi che diversamente le persone

potrebbero compiere con gli autobus;

migliora la salute dei residenti: un SBS offre una scelta di trasporto attivo,

fornendo vantaggi sia per la salute fisica che mentale. Alcuni studi, infatti,

hanno dimostrato che, spendere venti minuti al giorno su una bicicletta, ha

un impatto positivo sulla salute mentale106;

attrae nuovi ciclisti: un sistema di bike sharing offre la possibilità di

utilizzare una bicicletta anche a quegli utenti i quali, in passato, non hanno

potuto usufruirne per mancanza di accesso al servizio o per parcheggi

inesistenti all’interno delle città. Ad esempio, Lione, ha registrato un

aumento del 44% del ciclismo durante il primo anno di lancio del suo

sistema di bike sharing, Velo’v;

migliora l’immagine e il brand della città: il ciclismo è una forma di

mobilità sostenibile ed una città in grado di sviluppare un sistema di bike

sharing potrebbe rafforzare la propria immagine di città “green” e

innovativa;

crea investimenti nelle industrie locali: il bike sharing, infatti, ha il

potenziale per stimolare lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi attraverso

la domanda di software e hardware, così come la fornitura di operazioni.

Il bike sharing, inoltre, può anche attirare utenti che possiedono biciclette proprie

ma che decidono di usufruire del servizio per la sua convenienza e praticità. La

ITDP Cina, ha condotto un sondaggio sugli utenti del bike sharing a Guangzhou,

106 INTELLIGENT ENERGY EUROPE (2011), Ottimizzare i Sistemi di Bike Sharing nelle città europee, Obis, p. 41.

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in Cina, dimostrando che il 16% degli utenti erano precedentemente al servizio,

utenti di biciclette private.

Le città che hanno implementato e sviluppato un SBS, hanno scoperto che i

benefici si fanno sentire da una vasta gamma di utenti, generazioni, classi, etnie in

vari periodi dell’anno107.

7.7 Dal “concept” alla realtà

L’implementazione di un sistema di bike sharing è un’iniziativa fattibile per la

maggior parte delle città grandi e per aver successo, esso dev’essere preparato

accuratamente predisponendo soprattutto di una strategia di pianificazione dei

trasporti. Solitamente, il “concept” di un sistema di bike sharing, è composto da

tre fasi: la Preparazione, l’Implementazione e l’Operazione. Gli aspetti chiave del

primo step sono costituiti da:

� Le dimensioni della città: molti professionisti del settore, affermano che

una media di almeno 200.000 abitanti dovrebbe essere una prerogativa in

fase di preparazione per creare successo nel servizio.

� La topografia e il clima: una tipografia collinare della città potrebbe

costituire una barriera all’introduzione, ma potrebbe incentivare l’utilizzo

di biciclette elettriche. Il clima, invece, non sembra giocare un ruolo

rilevante per il successo nei sistemi di bike sharing.

� Creazione di condizioni favorevoli per la ciclabilità urbana: un sistema

di bike sharing può diventare un’opportunità per promuovere la mobilità

ciclabile in citta. Gli utenti, però, possono utilizzare la bicicletta solo se è

sicura, conveniente e veloce per spostarsi; perciò le città devono presentare

un minimo di infrastrutture sicure e una strategia integrata per promuovere 107 GAUTHIER A., HUGHES C., KOST K., LI S., LINKE C., LOTSHAW S., MASON J., PARDO C., RASORE C., SCHROEDER B., TREVINO X. (2013), The Bike-share Planning Guide, Institute for Transportation & Development Policy, New York, p. 16.

265

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tale mobilità, offrendo delle buone condizioni per l’implementazione di un

servizio di bike sharing. Ciò significa includere misure come moderatori di

traffico, parcheggi sicuri, informazioni, marketing ed educazione ad una

corretta mobilità. Tutto questo è necessario prima di introdurre un bike

sharing per facilitare l’accettazione del “concept” da parte del

consumatore.

� Individuazione del giusto target: è necessario identificare il principale

target conforme al “concept” di un sistema di bike sharing. Ad esempio,

Call a bike, il bike sharing in Germania, è un sistema altamente flessibile

per il centro città che può essere usato sia dai pendolari sia dai turisti per

viaggi brevi utilizzando lo smartphone per usufruire del servizio.

Analizzando, inoltre le abitudini dei ciclisti e il target è necessario

determinare anche se il servizio deve essere gratis per promuovere la

mobilità ciclabile in città o se gli utenti sono disposti a pagare per

usufruire delle biciclette pubbliche.

� Pianificazione di risorse e spazio che garantiscano la disponibilità

sufficiente delle biciclette: fondamentale per un successo nel bike sharing

è la facilità con cui gli utenti possono trovare le bici in posti convenienti

con una disponibilità sufficiente. Ciò significa anche, pianificare un

sistema con un elevato numero di biciclette e stazioni di raccolta che sono

facilmente visibili all’interno della città.

� Valutazione di un business model e delle possibili implicazioni

finanziarie: nella maggior parte dei casi, un sistema di bike sharing non

sono finanziariamente autosufficienti, richiedendo grossi investimenti

soprattutto nella fase iniziale. Ci sono differenti opzioni di finanziamento,

che coinvolgono sia il settore privato che il settore pubblico. Un’autorità

locale potrebbe considerare di utilizzare un processo che tende a

comparare i costi e la qualità del servizio offerto dai differenti fornitori. In

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aggiunta, le autorità locali hanno bisogno, di sviluppare anche delle attività

complementari tali come l’implementazione di condizioni favorevoli al

ciclismo e attività di marketing.

A titolo di esempio, Vélo à la Carte, è il sistema di bike sharing sviluppato

tramite una partnership tra la città di Rennes, in Francia, e la compagnia

pubblicitaria Clear Channel Adshell. La compagnia, offre il sistema di

condivisione delle biciclette alle autorità locali che possono usare anche

altri servizi della stessa compagnia, quali punti di informazione o le

pensiline degli autobus. I servizi sono pagati attraverso le pubblicità che

sono esposte sulle forniture esterne dei velocipedi, finanziando così il bike

sharing.

La seconda fase, l’Implementazione del “concept” di un sistema di bike sharing,

rappresenta l’elemento chiave per assicurare un successo nel lungo periodo. I suoi

aspetti chiave sono:

� Scelta del giusto momento per l’implementazione: è raccomandabile

iniziare un programma di bike sharing in primavera o all’inizio dell’estate

quando le persone possono godere del bel clima. Oppure è consigliabile

iniziarlo in concomitanza con un altro evento, ad esempio un festival del

ciclismo, che ponga una maggiore attenzione al servizio di bike sharing.

� Una distanza accettabile per l’utente e posti visibili: le stazioni dove le

biciclette pubbliche possono essere trovate nel centro città dovrebbero

essere facilmente visibili dagli utenti; generalmente, le stazioni non

dovrebbero essere diffuse per più di 300-500 metri lontane da fonti di

traffico urbano. Sotto quest’ottica, potrebbe essere utile un app apposita,

scaricabile tramite tablet o smartphone che indichi all’utente quale

stazione di raccolta sia la più vicina a lui.

� Semplicità d’uso: al fine di ottenere un buon feedback dall’utenza, è

necessario che il sistema di bike sharing sia il più semplice possibile. La

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procedura di registrazione e la tecnologia di accesso dovrebbero essere

pensate nel modo giusto, per esempio attraverso l’utilizzo di smart cards,

ritenute più convenienti rispetto a quei sistemi basati sull’utilizzo degli

smartphone per il pagamento. I moderni programmi di bike sharing,

richiedono tutti una registrazione al service e ciò dovrebbe esser fatto nella

maniera più semplice e veloce possibile, offrendo ulteriori servizi come

l’uso di una carta di credito nelle stazioni di raccolta. In generale le

procedure di registrazione e di noleggio dovrebbero essere intuitive e

comunicate chiaramente dal fornitore del servizio.

� Educazione al traffico: specialmente nelle città dove la mobilità ciclabile

non è ancora ben conosciuta, è consigliabile lanciare campagne di

educazione per incoraggiare il rispetto reciproco tra ciclisti, pedoni e

automobilisti. Nella fase di introduzione di un sistema di bike sharing,

spesso si verificano problemi fra i pedoni e i ciclisti, ma anche con gli

automobilisti i quali non sono abituati a vederli in strada. Per le persone

che utilizzano sporadicamente la bicicletta, programmi di educazione,

dovrebbero essere svolti per migliorare le proprie abilità sui velocipedi.

� Marketing e comunicazione: è molto importante per una diffusione del

bike sharing promuovere il sistema sui media, sui cartelloni pubblicitari e

attraverso testimonial. Le biciclette pubbliche e le stazioni dovrebbero

essere ben visibili in spazi pubblici e comunicare un brand unico. Ad

esempio, un design attraente e un’immagine high-tech delle biciclette,

potrebbero aiutare ad incrementare la coscienza delle persone e farle

percepire come mezzi alla moda.

La terza ed ultima fase è rappresentata dall’Operazione, ovvero quello step

necessario a monitorare costantemente il sistema e a svilupparlo in linea con il

mercato. I suoi aspetti chiave sono i seguenti:

� Monitorare e mantenere la qualità del sistema: è cruciale monitorare

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costantemente l’uso, l’accettazione e la qualità di un sistema di bike

sharing, utilizzando feedback o dati degli utenti per ottimizzare la

distribuzione delle biciclette e assicurare una buona disponibilità e qualità

al consumatore.

� Marketing virale: dopo aver pubblicizzato l’introduzione di un sistema di

bike sharing, l’interesse dell’utenza potrebbe diminuire e perciò è

fondamentale ricordare alle persone i benefici di un servizio del genere,

incoraggiando il suo uso per raggiungere un numero stabile e crescente di

utenti. Il marketing, dovrebbe puntare ad incoraggiare le persone che

rivalutato la mobilità ciclabile attraverso questo servizio per prendere le

proprie biciclette e usarle quotidianamente o nel tempo libero. Tutto ciò

può aiutare ad incrementare la mobilità ciclabile in citta.

� Una strategia finanziaria a lungo termine: un elemento chiave per il

successo in questo campo è lo sviluppo di una strategia ben pianificata. In

molti casi, il finanziamento nella fase iniziale da parte del settore pubblico

potrebbe essere disponibile ma dopo questa fase potrebbero essere

sviluppate altre idee. Nella maggior parte dei casi, ad esempio, le entrate

pubblicitarie possono rappresentare un elemento importante del

finanziamento; oppure quando il “concept” di un sistema di bike sharing è

stato ampiamente accettato dall’utenza e la cultura della bicicletta si è

diffusa a macchia d’olio, potrebbe sembrare opportuno introdurre delle

tariffe moderate per usufruire del sistema. Tuttavia, quest’ultime devono

rimanere su un livello economico per evitare la diminuzione degli utenti.

7.8 Politiche di marketing a sostegno del bike sharing

Un sistema di bike sharing, ha bisogno di avere un’identità chiara e consistente,

un forte brand, che presenti un’immagine professionale, moderna e che si

distingui dagli altri mezzi di trasporto urbano. Ci sono vari elementi di

identificazione, come il logo, il nome del programma, lo slogan etc. ma in

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particolare, un uso consistente degli elementi della “core identity”, possono

migliorare l’accettazione da parte dell’utente.

Il brand del sistema dovrebbe essere facilmente utilizzato in diversi tipi di media e

costituito generalmente dai seguenti elementi:

� una sola parola, breve e concisa;

� trasmettere una connotazione positiva;

� facilmente ricordabile.

Riguardo al sito del programma, invece, si raccomanda che qualsiasi sistema di

bike sharing in corso di attuazione da parte del Comune, inizi a promuovere e a

registrare sul proprio sito le prime stazioni di distribuzione. Il sito web, infatti

dovrebbe rappresentare un luogo centrale dove l’utente può trovare qualsiasi tipo

di informazione sul servizio e a tal fine, prima del lancio del programma, il “buzz”

creato dalle persone, dovrebbe spingere gli utenti a visitare il portale web

iscrivendosi come membri a lungo termine.

Qui di seguito sono elencate le possibili strategie di marketing per aiutare a

promuovere un programma di bike sharing:

Partnership e Co-promotion: la creazione di partnership e co-promotion

con le organizzazioni e le istituzioni locali rappresenta un modo

fondamentale per promuovere un nuovo servizio di biciclette condivise,

creando delle associazioni positive di diversi gruppi di utenti. Le co-

promotion, possono essere sviluppate anche con altre aziende o

organizzazioni come le università, ospedali, società di car sharing,

offrendo incentivi per questi enti ad associarsi al sistema di bike sharing e

promuoverlo.

Pubblicità per i turisti: i visitatori e l’uso turistico del bike sharing, sono

una componente molto importante per la sua sostenibilità finanziaria,

anche se attualmente in diverse città italiane, questo tipo di pubblicità non

viene effettuata in modo coerente con gli atri sistemi europei a causa degli

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elevati costi. Alcune strategie per raggiungere questo target di utenza, si

concentrano soprattutto sull’informazione e sull’educazione alla mobilità

ciclabile, con le co-promotion che possono svolgere un ruolo interessante

anche in questo campo. Ad esempio, le città dovrebbero accordarsi

insieme agli alberghi situati all’interno dell’area del servizio proposto,

distribuendo ai clienti brochures ed educandoli al servizio di bike sharing.

Un altro tipo di alleanza potrebbe vedere in campo il Comune con le

Università e gli ospedali, distribuendo materiale promozionale ed

informativo alle famiglie e agli studenti. Queste informazioni devono

focalizzarsi, soprattutto, sulle caratteristiche di un sistema di bike sharing,

promuovendolo come un mezzo di trasporto alternativo alla mobilità

motorizzata.

7.8.1 Strategie di marketing “buzz” per il bike sharing

L’esperienza dei precedenti sistemi di bike sharing, ha dimostrato che per

aumentarne la notorietà riguardo una prima implementazione del programma,

bisognerebbe creare un “buzz”, ovvero un passaparola o dare alle persone motivo

di parlare del servizio.

Diverse strategie per la creazione di un “buzz” sul bike sharing sono iniziative

offerte dalla combinazione di elementi di PR, tali come eventi promozionali e

media digitali (social media e blog).

Gli attuali sistemi di bike sharing, hanno trovato molti modi creativi per

incrementare la diffusione di strumenti di PR ( giornali, spot pubblicitari,

comunicati stampa etc.), che hanno reso possibile creare un passaparola senza

utilizzare i tradizionali mezzi di comunicazione a pagamento tali come la

televisione, le radio commerciali, pubblicità sui giornali, cartelloni pubblicitari e

molti altri ancora. Le possibili strategie per aumentare il passaparola possono

essere le seguenti:

Il lancio del sito web attraverso un’espediente pubblicitario: in

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occasione del lancio del sito web, sarebbe strategico creare un “trucco”

pubblicitario attraverso i social media per attirare una maggiore attenzione.

Un esempio potrebbe essere quello di far guidare le biciclette condivise

all’interno della città da un gruppo di ciclisti per creare curiosità e

passaparola tra le persone presenti all’evento.

Eventi nei quartieri: piccoli eventi nei quartieri possono creare

pubblicità e portare notorietà al programma. Eventi come il “taglio del

nastro” ad opera dei politici locali in particolari stazioni, rappresenta uno

dei modi per favorire la proprietà di un sistema di bike sharing su un

livello locale.

Social Media: la crescita dei social network come Facebook, Twitter può

aiutare ad aumentare il “word of mouth”, ovvero il passaparola sul bike

sharing. Altri sistemi hanno dimostrato come i social media possano

favorire la promozione del programma, incentivando anche la promozione

di sconti o eventi relativi al bike sharing. Le partnership e le co-promotion

trattate precedentemente, possono ulteriormente diffondere il passaparola

attraverso i social network. Inoltre, il contributo fornito anche da

giornalisti influenti, bloggers, editori e dai media locali è fondamentale per

creare il giusto tipo di “buzz” per tale servizio.

Concorsi: i concorsi gestiti da un sistema di bike sharing sono in grado di

accrescere il passaparola sia sui social media sia su altri mass media. Per

esempio, potrebbe essere interessante un concorso che aiuti a promuovere

e ad accrescere l’uso del sistema durante i mesi invernali, quando l’utenza

tende ad essere più bassa a causa del tempo.

La divisione PR del Comune: l’attenzione dei media si basa molto sul

sostegno della divisione PR della città. Infatti, non importa quanto buono

sia il contraente, gli sponsor o il team di implementazione ma sono

importanti il supporto e gli annunci del Comune, molto più di una

qualsiasi società privata. A tal fine, è giusto che la città sfrutti attività di

pubbliche relazioni esistenti in tutti i suoi dipartimenti per contribuire a

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promuovere un sistema di bike sharing.

7.9 Sviluppi futuri del bike sharing

Come sarà e come si configurerà la prossima generazione del bike sharing?

Se la terza generazione ha introdotto nuovi elementi come carte magnetiche,

l’utilizzo di smartphones, schermi interattivi di interfaccia con l’utente, la quarta

generazione migliorerà l’efficienza del servizio, la sostenibilità e l’usabilità.

Questo diventerà possibile grazie ad un miglioramento globale della distribuzione

delle biciclette, dei luoghi d’installazione delle stazioni d’interscambio, una nuova

modalità di tracking, nuove biciclette anche con la pedalata assistita e nuovi

modelli di business.

Tuttavia, delineare una generazione futura di bike sharing, è molto difficile in

quanto si tratta di un fenomeno che deve ancora compiersi in ogni sua parte; si

potrà, tutt’al più, analizzare le tendenze, le scelte e le politiche che vengono

attuate nelle numerose esperienze e servizi sperimentali, fino a quando

appariranno chiare le logiche che maggiormente aiutano il servizio. Naturalmente,

andranno considerate anche le realtà locali e le diversità culturali e sociali che

potranno influire sul successo o meno di un servizio di bike sharing.

Le introduzioni possibili in una quarta generazione di bike sharing potranno

essere le seguenti:

� migliore distribuzione delle stazioni: la buona distribuzione delle

stazioni e delle biciclette migliora notevolmente un servizio di bike

sharing, rendendolo più efficiente ed ambientalmente compatibile. I

programmi dovranno quindi valutare accuratamente a monte i flussi, la

domanda ed il volume di biciclette utilizzate, mete preferite, etc. per creare

stazioni maggiormente propense a svincolare le bici ed altre invece più

orientate a ricevere i flussi di biciclette. Queste valutazioni, porteranno

benefici in termini di tempo, denaro e risosrse.

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Analizzando ad esempio il sistema parigino, il Velib’, si può notare come

molti di questi accorgimenti siano stati concretizzati con il lancio del

progetto “V+”. Partendo dalla considerazione che per gli utilizzatori del

servizio a livello fisico è maggiormente provante raggiungere le stazioni

localizzate sulle colline o in generale su zone che presentano delle salite, il

progetto “V+” prevede una proroga di 15 minuti nell’utilizzo della

bicicletta per accedere a tutte queste zone. Il tempo extra concesso ha

implementato ed incoraggiato in maniera sorprendente l’utilizzo di queste

stazioni. Questo quarto d’ora di bonus può anche esser salvato,

memorizzandolo nel software del sistema, quando non viene utilizzato nei

percorsi previsti, per poter esser poi successivamente impiegato nei tragitti

ordinari. L’installazione di una stazione richiede però del tempo, risorse

umane ed economiche: la rimozione dell’asfalto o del pavè, le variabili

legate al sottosuolo come tubature e cavi elettrici e l’impiego di materiali

da costruzione implicano uno dispendio di energie non trascurabile. Alcuni

sistemi hanno limitato questi costi con una sorta di piattaforma tecnica, la

quale rappresenta la base per la stazione di scambio del bike sharing e

dove vengono alloggiati basamenti, supporti e cavi per lo stoccaggio delle

bici e per la colonnina utilizzata per i pagamenti. È il caso, ad esempio, del

sistema del bike sharing di Montreal, Bixi, in cui la zona di fermo delle

bici e la parte tecnica sono installate senza interventi invasivi e perciò

anche di facile reversibilità.

� Stazioni autoalimentate: questo tipo di stazioni sono servite da un

cablaggio sotterraneo che le collega alla fonte elettrica più vicina per

dotarle di funzionalità quali il pagamento in loco, il tracking delle

biciclette ed altri servizi. Questa soluzione, tuttavia, si rivela costosa,

lunga e determinante sulla possibilità di installare o meno una stazione in

una certa zona a seconda della possibilità d’esser servita o meno dalla

fonte elettrica. Così si sta pensando ad un sistema che incorpori alcuni

pannelli solari per evitare la necessita di creare ad hoc un allacciamento

sotterraneo alla rete elettrica.

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� Tracking e connettività: un miglioramento del sistema di tracking

attraverso dispositivi di posizionamento (GPS) consentiranno una raccolta

dati utile per determinare quali siano i percorsi preferiti degli utenti e una

quantificazione dei chilometri percorsi. Attualmente, molti sistemi

raccolgono dati in linea d’aria, che rappresentano una linea retta dal luogo

d’origine alla destinazione e quindi difficilmente attendibili

nell’applicazione di circostanze reali. Inoltre, il GPS potrebbe rivelarsi

utile per fronteggiare il fenomeno dei furti.

� Biciclette elettriche o a pedalata assistita: in determinate aree,

caratterizzate da numerosi saliscendi o salite impegnative, l’utilizzo della

bicicletta potrebbe rivelarsi fisicamente proibitiva. L’uso di sistemi che

prevedono l’impiego di bici a pedalata assistita può essere utile per le

categorie più svantaggiate da tale contesto. Proprio come nel caso degli

autobus, muniti di dispositivi che possono permettere l’accesso al servizio

pubblico da parte degli utenti relegati su sedie a rotelle, il sistema a

pedalata assistita apre la possibilità d’utilizzo per le categorie svantaggiate.

Un servizio di bike sharing di questo genere non deve necessariamente

esser interamente composto da una flotta di biciclette elettriche ma

piuttosto in una percentuale di velocipedi nella misura minima in cui possa

esser effettivamente utile per gli utilizzatori potenziali.

In conclusione, il futuro del bike sharing è chiaro: ci saranno sempre maggiori

servizi e maggiore richiesta. Il bike sharing, ormai si sta affermando

nell’immaginario collettivo come una realtà cittadina forte e sempre più concreta,

configurandosi come la forma di transito maggiormente interessante e moderna,

capace di sensibilizzare le masse alle questioni ambientali e generando così un

circolo virtuoso108 che porta nuovi utenti e servizi.

108 DE MAIO P. (2009), “Bike-sharing: Its History, Models of Provision, and Future”, Velo-city Conference, Washington D.C, p. 10.

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I continui incrementi del prezzo del carburante, congestionamento del traffico

motorizzato, la crescita delle popolazioni urbane ed un globale peggioramento

della qualità di vita delle metropoli dovrebbe convincere i leader a trovare nuove

modalità di trasporto che possano meglio adattarsi alle esigenze di oggigiorno,

quali una maggiore vivibilità e minori emissioni inquinanti. Fortunatamente, un

sistema di bike sharing si adatta a queste esigenze, identificandosi come un mezzo

complementare di trasporto e come l’unica vera risposta concreta in un periodo di

crisi economica come quella attuale.

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CONCLUSIONI

Il problema dell’insostenibilità del trasporto è presente in tutte le città europee e

anche in quelle più sviluppate dell’Asia, del Centro e Sud America anche se

l’intensità di questo problema si presenta persino in aree rurali o marginali

ritenute spesso non investite dai problemi della mobilità in connessione con lo

sviluppo.

Il criterio di valutazione di tali problemi di mobilità è diverso da territorio a

territorio, da paese a paese e le soluzioni connesse devono essere distinguibili non

solo in termini astratti ma anche in termini concreti per promuovere il

raggiungimento di livelli standard di accettabilità della qualità della vita, nonché

l’adozione di strategie di lungo periodo che involvano anche il tema dello

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sviluppo del territorio.

Migliorare, razionalizzare e favorire il trasporto pubblico (e contemporaneamente

la metanizzazione delle flotte del trasporto pubblico) che è una delle alternative

all’auto, è una delle strade che si possono percorrere, ma anche altre si possono

battere. Si potrebbe anche introdurre ad esempio il concetto di capacità ambientale

delle strade: un strada può tollerare un certo flusso di traffico, oltre il quale i limiti

di inquinamento acustico e dell’aria vengono superati, per cui il traffico veicolare

dovrebbe essere sospeso. Limitare l’accesso alle aree urbane in base ad un monte

ore annuale per ogni possessore di autovetture: un sistema come il Sirio di

Bologna, anziché in forma repressiva, potrebbe essere usato in chiave preventiva.

Introdurre tecnologie che riducano l’impatto ambientale, o sfruttare maggiormente

quelle già esistenti sarebbe auspicabile. Non dobbiamo perdere di vista il fatto che

l’intermodalità tra mezzi di trasporto e tra pubblico è privato è fondamentale per

diminuire l’impatto della mobilità sulla qualità della vita.

E soprattutto dobbiamo ricordare che c’è un modo di diminuire gli effetti della

mobilità inquinante: diminuire la mobilità. Come? Con divieti? No,

semplicemente diminuendo la domanda di mobilità, progettando città, quartieri

vivibili anche senz’auto. In tutto questo la bicicletta può giocare un ruolo

strategico, se opportunamente favorita ed integrata agli altri mezzi di trasporto.

Certo non si può continuare com’è stato fatto fino ad ora, considerandola

secondaria, quasi ad umiliarla, perché nell’ambito urbano, in città con un territorio

piatto e in zone con un clima mite, il margine di miglioramento che questo mezzo

potrebbe contribuire a dare alla circolazione è notevole. Pensiamo a quanto

avviene in Olanda, che certo non gode del nostro clima. Come a Ferrara, così

anche nei centri urbani limitrofi la bicicletta è usata largamente come mezzo di

trasporto.

In conclusione, da quanto emerso dalla ricerca svolta, risulta chiaro che molte

sono le strade percorribili nel raggiungimento di una mobilità sostenibile,

puntando non solo sulle politiche dirette ai trasporti, ma anche sugli altri aspetti

correlati alla mobilità e una ridefinizione dello spazio urbano che privilegi gli

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spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari sicuri e piacevoli e perché no,

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� www.tobike.com

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio mia madre per aver creduto sempre in me durante il corso di laurea

magistrale e per avermi trasmesso tutta la forza necessaria.

Mio fratello per i suoi consigli preziosi e la mia famiglia il cui supporto è sempre

stato fondamentale.

Martina per la sua inesauribile pazienza e per essermi stata sempre accanto nel

raggiungimento di questo importante traguardo.

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