UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI TORINO
SCUOLA DI MANAGEMENT ED ECONOMIA
TESI DI LAUREA INECONOMIA E GESTIONE DELL’INNOVAZIONE
“Dall’Open Innovation alla Smart Mobility: possibili strategie innovative in ambito urbano”
Relatore: Prof. Stefano Bresciani
Correlatore: Prof. Avv. Toti S. Musumeci
Correlatore esterno: Dott. Maurizio Tomalino
Candidato: Piero Terracciano
ANNO ACCADEMICO 2013-2014
INDICE
INTRODUZIONE………………………………………………………7
CAPITOLO I
Innovazione, concetto di Open Innovation, Tripla Elica
1.1 Il concetto di Innovazione…………………………………....................14
1.2 L’innovazione nel XXI secolo………………………………………….17
1.3 Le tipologie di innovazione……………………………………………..20
1.4 Il paradigma della Closed Innovation…………………………………..22
1.4.1 Il processo della Closed Innovation……………………………….24
1.4.2 Fattori di erosione del processo di Closed Innovation…………….27
1.5 Un nuovo approccio: Open Innovation…………………………………30
1.6 Il processo di Open Innovation…………………………………………33
1.7 Possibili classificazioni…………………………………………………36
1.8 Il Business Model in un’ottica di Open Innovation…………………….37
1.9 La gestione della conoscenza nei processi di innovazione aperta……...40
1.10 Dall’Open Innovation al Crowdsourcing……………………………...42
1.10.1 Diverse tipologie di Crowdsourcing……………………………..44
1.10.2 I benefici per l’impresa…………………………………………..46
1.11 La “Tripla Elica”: Università – Stato – Impresa……………………...48
1.11.1 Il modello statale…………………………………………………49
1.11.2 Il modello liberista……………………………………………….50
1.11.3 La teoria della Tripla Elica………………………………………51
CAPITOLO II
Social Innovation e Crowdfunding
2.1 Introduzione alle innovazioni sociali………………………………….53
2.2 Social Innovation……………………………………………………...54
2.2.1 I processi della Social Innovation………………………………...57
2.2.2 L’innovazione sociale in azione…………………………………..61
2
2.2.3 L’Italia crede nell’innovazione sociale…………………………...63
2.3 Il Crowdfunding come esperienza sociale…………………………….64
2.3.1 Tipologie di Crowdfunding……………………………………….66
2.3.2 Vantaggi e svantaggi del crowdfunding…………………………..68
2.3.3 Le piattaforme di crowdfunding in Italia…………………………70
2.3.4 Il crowdfunding nell’ordinamento italiano: il Decreto
“Crescita-bis”…………………………………………………………….76
2.3.4.1 La disciplina dell’equity crowdfunding tra TUF e Regolamento
Consob………………………………………………………………...78
2.3.4.2 Deroghe al diritto societario…………………………………..89
2.3.4.3 Prospettive………………………………………………….....91
2.3.5 Conclusioni………………………………………………………..91
CAPITOLO III
Verso una visione di Smart Mobility
3.1 La mobilità: un bisogno in continua evoluzione…………………….....93
3.2 Definizione di mobilità sostenibile………………………………….....95
3.3 La realtà della Smart Mobility………………………………………....97
3.3.1 L’importanza dell’ICT per la Smart Mobility………………….....98
3.3.1.1 (segue) Infomobilità………………………………………....100
3.3.2 Il ruolo delle tecnologie ITS per la Smart Mobility……………...100
3.3.3 Innovazione e Ricerca per la Smart Mobility…………………....102
3.4 La Smart Mobility in Italia…………………………………………....104
3.5 Smart City e Smart Mobility: due concetti inscindibili………………106
3.5.1 La mobilità sostenibile in una Smart City……………………….108
3.5.2 Torino Smart City………………………………………………..109
3.6 Strategie di marketing e di comunicazione
sulla mobilità sostenibile.............................................................................111
CAPITOLO IV
La mobilità sostenibile nel quadro normativo
4.1 Mobilità sostenibile: la visione comunitaria……………………….....114
3
4.1.1 Il pacchetto “clima-energia” dell’Unione Europea……………....118
4.1.2 Il Piano d’azione sulla mobilità urbana………………………......119
4.1.3 Gli obiettivi del Libro Bianco del 2011………………………….120
4.2 La normativa italiana…………………………………………………123
4.2.1 I veicoli ecologici espressione della mobilità sostenibile………..128
4.2.2 Le misure per il trasferimento modale…………………………...129
4.2.3 Promozione di fonti rinnovabili di energia………………………130
4.2.4 Legge n. 134/2012 per la promozione del car-pooling…………..131
4.3 La Riforma del Trasporto Pubblico Locale: cenni storici…………….133
4.3.1 Legge quadro per l’ordinamento del TPL………………………..135
4.3.2 Decreto Burlando………………………………………………...139
4.3.2.1 Le principali novità introdotte dal Decreto Burlando………142
4.3.3 Il Piemonte: la Legge Regionale n. 1 del 4 Gennaio 2000………146
4.3.4 La Legge finanziaria del 2002 e il Decreto Bersani……………...151
4.3.5 Il Decreto Lanzillotta…………………………………………….153
4.3.6 Dalla Legge finanziaria 2008 alla Legge di Stabilità 2014………154
4.3.7 Ulteriori provvedimenti legislativi……………………………….159
4.3.7.1 Recenti interventi della Giurisprudenza…………………….162
4.3.8 Considerazioni finali sul quadro normativo……………………...163
CAPITOLO V
Per una mobilità sostenibile: quali strategie?
5.1 La sostenibilità dei trasporti urbani…………………………………...165
5.2 Il controllo della mobilità……………………………………………..166
5.3 Disincentivare l’uso dell’automobile………………………………....168
5.3.1 Il Mobility Management………………………………………....169
5.3.2 Road Pricing……………………………………………………...173
5.3.3 Combustibili alternativi al petrolio……………………………....177
5.3.3.1 Mercato europeo delle auto elettriche……………………....178
5.3.3.2 Considerazioni sullo sviluppo dell’auto elettrica…………...179
5.3.4 Car Sharing……………………………………………………....181
5.3.4.1 Prospettive di sviluppo del car sharing in Italia…………….187
4
5.3.5 Car pooling e Ride sharing……………………………………….188
5.3.5.1 Uber: un innovativo servizio a metà tra il car pooling e il
noleggio auto………………………………………………………...192
5.4 Il rilancio del trasporto pubblico……………………………………….194
5.5 Il miglioramento delle infrastrutture…………………………………...196
CAPITOLO VI
Mobilità pedonale e ciclabile: il caso della Nanoo
6.1 Il Trasporto Lento (TL)……………………………………………….198
6.1.2 I vantaggi dell’andare in bicicletta……………………………….205
6.2 L’integrazione modale tra bicicletta e mezzi pubblici di trasporto…...206
6.2.1 Alcune esperienze internazionali………………………………...210
6.3 La bicicletta ibrida…………………………………………………...212
6.4 Le folding bike………………………………………………………..214
6.4.1 Lo sviluppo di una folding bike innovativa: la Nanoo…………...216
CAPITOLO VII
Mobilità ciclabile: l’esperienza del bike sharing
7.1 Le origini del Bike Sharing: tre generazioni a confronto……………..225
7.2 Il bike sharing in Italia………………………………………………..229
7.2.1 Il caso della città di Torino: il [TO]Bike………………………....233
7.3 L’impatto del bike sharing…………………………………………....236
7.4 I modelli di funzionamento…………………………………………...237
7.5 Fattori critici di successo……………………………………………...239
7.6 I benefici di un sistema di bike sharing……………………………. ...242
7.7 Dal “concept” alla realtà……………………………………………...244
7.8 Politiche di marketing a sostegno del bike sharing…………………...248
7.8.1 Strategie di marketing “buzz”.…………………………………...249
7.9 Sviluppi futuri del Bike sharing……………………………………...251
5
CONCLUSIONI……………………………………………………………255
BIBLIOGRAFIA………………………………………………………257
SITOGRAFIA………………………………………………………..…264
6
Le persone più forti sono quelle capaci di influenzare
le nostre azioni anche da molto lontano.
A mio padre…
7
INTRODUZIONE
All’interno del tema generale dell’innovazione strategica, un fenomeno
interessante e assai dibattuto sia in letteratura sia all’interno delle aziende, è
rappresentato dal tentativo di individuare ad oggi, quali sono le principali fonti di
innovazione dalle quali la stessa impresa può attingere con successo. L’evoluzione
storica dell’approccio all’innovazione negli ultimi cinquanta anni, sia in chiave
letteraria che empirica, ha portato probabilmente ad abituarsi all’idea che la fonte
di innovazione principale per un’azienda fosse l’apparato di ricerca costituito
dall’azienda stessa al suo interno
Questo approccio adottato dalle aziende e definito come il paradigma della
“Closed Innovation”, è focalizzato sul concetto che un’impresa investa ingenti
risorse per allestire un’organizzazione interna composta da tecnici e ingegneri tra i
più preparati tra quelli disponibili. Ai tempi in cui queste convinzioni si sono
affermate, le imprese erano, infatti, l’unico motore dell’innovazione, e le
competenze dei loro dipendenti erano le uniche fonti di conoscenza che il mercato
metteva a disposizione. Tuttavia, tale modello di innovazione presentava però
notevoli limiti, considerato che il concetto di innovazione risulta ad oggi
fortemente legato ad interazioni tra la dimensione interna all'impresa e le fonti di
conoscenza e di apprendimento presenti al suo esterno.
In questo contesto si inserisce un nuovo paradigma, molto studiato in letteratura
ed applicato in realtà aziendali di dimensione variabile, introdotto all’inizio degli
anni novanta come nuovo modello di gestione dell’innovazione: “l’Open
Innovation”.
Secondo la definizione del coniatore del termine, Henry Chesbrough, il concetto
di “innovazione aperta” fa leva sull’utilizzo da parte dell’azienda di fonti esterne
di tecnologia e innovazione per stimolare la crescita interna, e si sostanzia in quei
flussi di conoscenza in entrata e in uscita, che hanno lo scopo di accelerare il
processo d’innovazione interna e accrescere i mercati per l’utilizzo
dell’innovazione all’esterno. Open Innovation significa che le aziende dovrebbero
8
sfruttare maggiormente idee e tecnologie esterne nel proprio business, lasciando
che le proprie idee inutilizzate possano essere sfruttate da altre imprese.
Questo processo richiede inoltre, che le imprese adottino un modello di business
aperto, includendo attività di “inbound” e “outbound”, che si realizzano
nell’acquisto e nella vendita di licenze, brevetti e, in genere, della proprietà
intellettuale dell’azienda. Si instaurano così delle collaborazioni tra l’azienda e
diverse fonti di innovazione, tra cui clienti e fornitori, aziende di altri settori,
Università e centri di ricerca, enti ed agenzie governative, attività a supporto
dell’innovazione e concorrenti, al fine di ampliare e rendere più flessibile la base
di competenze dell’azienda, ridurre e condividerne i rischi, e di conseguenza
aumentare le performance innovative dell’azienda.
La prima parte del lavoro di tesi ed in particolare il primo Capitolo, è stato
dedicato alla definizione del concetto di innovazione, e quindi alla descrizione del
nuovo paradigma dell’innovazione aperta, definendone le caratteristiche, le
diverse classificazioni, il business model ed i principali vantaggi rispetto
all’approccio tradizionale. Sono stati evidenziati i limiti del vecchio approccio
all’innovazione, il cui modello era basato sulla chiusura dei confini aziendali,
sullo sviluppo interno delle idee e sulla protezione legale dei risultati. Sono state
spiegate le ragioni del fallimento di questo modello, sottolineando l’anacronismo
dello stesso con l’evoluzione delle condizioni dell’ambiente esterno.
Successivamente, in linea con il percorso storico evolutivo, l’attenzione si è
spostata sull’ambito soggettivo dell’innovazione, in risposta all’esigenza di
individuare e descrivere le nuove fonti di conoscenza e innovazione ad oggi
disponibili alle imprese. Si è affrontato così, in maniera definitiva il passaggio
dall’innovazione generata attraverso la collaborazione con un ristretto numero di
attori esperti, al coinvolgimento di massa vero e proprio. Vengono descritte le
ragioni grazie alle quali questo cambiamento è stato possibile, con particolare
riferimento all’innovazione tecnologica, alla conoscenza maggiormente diffusa
all’interno del mercato rispetto alle epoche passate, e soprattutto ai nuovi canali di
9
comunicazione come il web 2.0 e i social network. Proprio grazie a questi ultimi è
stato possibile giungere a quella che può essere definita “l’ultima frontiera
dell’innovazione”, rappresentata dalle piattaforme di Crowdsourcing e co-
creazione del valore. Tra i diversi modelli utili per sfruttare la conoscenza diffusa,
molto probabilmente il Crowdsourcing è quello più efficace e per questo più
utilizzato ad oggi dalle imprese. Il lavoro così si è focalizzato ad una descrizione
delle principali piattaforme e dei benefici che un programma di Crowdsourcing
può apportare non solo all’impresa, ma anche agli utenti che hanno scelto di
partecipare al progetto.
Per ultimo, infine, vengono affrontati i principi della teoria della Tripla Elica di
Etzkowitz, secondo la quale, in un’ottica di gestione dell’innovazione aperta, il
ruolo del sistema della scienza e, quindi dell’università è cambiato. Esiste, infatti,
il bisogno di intensificare le interazioni fra il mondo della ricerca ed il mondo
industriale che ne utilizza i risultati, in linea con quanto emerge dai modelli a
catena dell’innovazione. Secondo Etzkowitz, dunque, gli attori del sistema
nazionale dell’innovazione, università, imprese e stato, sono chiamati ad integrarsi
ed interagire sempre più operando come un’unica entità.
Il secondo Capitolo, pone l’accento su una nuova forma di innovazione come
driver per lo sviluppo delle economie di molti paesi: le Social Innovation.
Il ruolo di queste innovazioni, è quello di migliorare il benessere degli individui e
creare innovazioni buone sia per la società sia per accrescere la capacità di azione
della società stessa. Una serie di iniziative, dunque, vengono finanziate anche
dall’Unione Europea, che cerca di rafforzare il tessuto civico, favorendo relazioni
orizzontali e comunitarie e colmando il più delle volte i vuoti lasciati dai governi
nazionali: si va dalle “social enterprise” alla cosiddetta “sharing economy”, dal
microcredito al “crowdfunding”.
In particolare il crowdfunding, letteralmente “finanziamento dalla folla”, consiste
in un finanziamento collettivo, basato sull’appello rivolto dai promotori di un
10
progetto con finalità economiche o sociali ai frequentatori della Rete affinché
forniscano fondi utili alla sua realizzazione. Si tratta di una moderna versione di
quella che in passato si sarebbe definita “colletta”. In riferimento a questa
innovazione sociale, vengono esaminati le principali piattaforme di crowdfunding
nel mondo e in Italia, le diverse tipologie e i vantaggi e gli svantaggi che ne
possono derivare. In ultima analisi, viene affrontata la disciplina giuridica del
fenomeno sia a livello legislativo con il Decreto “Crescita-bis” n. 179/2012, sia
con il Regolamento Consob.
Il terzo Capitolo, costituisce invece l’inizio della seconda parte di lavoro della tesi
focalizzata sullo sviluppo della Smart Mobility e sull’evoluzione tecnologica. Le
tecnologie, infatti sono sempre più al servizio dell’uomo, delle sue necessità, in
generale della società nel suo complesso, migliorando la qualità della vita grazie
ad una innovazione e modernizzazione “intelligente” capace di offrire importanti
ritorni socio-ambientali.
Sistemi innovativi quali quelli della smart mobility e delle smart city stanno
diventando le nuove frontiere alle quali tendere per ridurre sprechi, diseconomie,
inquinamento, in altre parole rendere gli standard di vita quotidiana ed i relativi
comportamenti più eco-rispettosi, più sicuri, più civicamente virtuosi. In questi
sistemi le tecnologie – in particolare quelle ICT – sono strumenti funzionali
fondamentali perché abilitano accessibilità e “inclusività”, ovvero partecipazione
per tutti e migliore sicurezza. Inoltre, consentono di rimuovere inefficienze
burocratiche e logistiche.
Nell’ambito delle smart city, nel seguente capitolo si è analizzato anche il caso
della città di Torino, la quale si è mostrata particolarmente sensibile ai temi
dell’innovazione diventando una delle prime città a dotarsi di un piano strategico,
denominato “SMILE”, per fare del capoluogo piemontese una smart city.
Tuttavia, per sviluppare delle iniziative a favore della mobilità sostenibile sono
necessari strumenti strategici per contattare i cittadini e indurli con successo a
11
mettere in atto dei comportamenti mirati. In questo senso, il marketing e la
comunicazione hanno l’obiettivo di attivare e sensibilizzare la gente sul concetto
di mobilità sostenibile. Proprio nell’ultima parte del capitolo, sono state proposte
alcune iniziative di marketing a favore della smart mobility, guidate tutte da una
mission educativa per stimolare l’utente all’uso quotidiano della mobilità
alternativa.
Il quarto Capitolo si apre con il quadro normativo comunitario in materia di
mobilità sostenibile, con un richiamo alle possibili strategie europee. Tutto ciò
rappresenta un primo passo per tutti gli enti locali per inserirsi attivamente nella
rete europea per la diffusione delle pratiche innovative. Nel particolare si
analizzano il pacchetto “clima-energia” dell’Unione Europea, il Piano d’azione
sulla mobilità urbana ed infine gli obiettivi del Libro Bianco del 2011.
Dopo l’esame della strategia europea, si analizza la strumentazione dei piani
(PUT) e i PUM operanti nel nostro Paese in materia di mobilità urbana,
mettendone in luce limiti e carenze. Vengono, analizzati sotto un aspetto
legislativo anche alcune proposte per incentivare la mobilità alternativa come: la
promozione di veicoli ecologici, le misure per il trasferimento modale,
promozione di fonti rinnovabili di energia ed infine il car-pooling.
Il passo successivo è dedicato all’esame dei principali interventi normativi
riguardanti il settore del trasporto pubblico locale in Italia. Quest’ultimo, infatti,
negli ultimi anni ha sofferto e, soffre tuttora, di una situazione di costante
instabilità del quadro normativo e di incertezza sulle risorse disponibili, che hanno
generato uno stato di crisi generalizzato ed esteso sia alle aziende, che agli enti
affidanti. La tradizione municipale del TPL italiano ha, infatti, fortemente
depotenziato la portata innovativa dell’introduzione delle gare (concorrenza “per
il mercato”) per la selezione del gestore, soluzione sperimentata con un certo
successo in altri Paesi europei. L’incertezza sulle risorse disponibili per il settore,
in massima parte garantite da trasferimenti dello Stato alle Regioni, ha poi
favorito le esigenze di continuità del servizio a tutti i costi, a scapito
12
dell’efficienza e della qualità del servizio stesso, potenzialmente ottenibili
attraverso il confronto competitivo. In tale situazione, in molte realtà territoriali, le
autorità locali hanno ritenuto opportuno non celebrare le gare, usufruendo delle
numerose proroghe del periodo transitorio dettato dal D.Lgs. 422/1997, meglio
noto come Decreto Burlando.
Gli sviluppi del quadro normativo devono essere messi in relazione anche con le
recenti vicende in materia di finanza pubblica, con un taglio significativo ai
trasferimenti statali alle Regioni e un parallelo obbligo al contenimento delle
spese. La riduzione delle risorse sta costringendo infatti, gli enti affidanti, in
primis le Regioni, a ricercare, accanto ad una maggiore contribuzione da parte
degli utenti, soluzioni di efficienza.
Il quinto Capitolo, rappresenta la sezione nella quale il presente lavoro di tesi è
concentrato. Vengono, infatti, individuate le possibili strategie innovative in
ambito urbano al fine di incentivare la mobilità sostenibile. Sotto quest’ottica, la
tariffazione dei parcheggi ha assunto una grande rilevanza per ridurre le
inefficienze legate all’uso dell’automobile. Quest’ultimo, nonostante un minor
utilizzo negli ultimi anni, resta comunque il mezzo più utilizzato dagli italiani con
una percentuale pari all’83%. Ad oggi però esistono numerose iniziative volte o a
decrementare la domanda di automobili ad esempio disincentivandola o
rendendola un mezzo di trasporto più sostenibile o semplicemente condividerne
l’utilizzo. Alla prima categoria appartengono le politiche del “road pricing”, oggi
applicabili con tecnologie di tipo Telepass, che prevedono l’istituzione di una
tariffa d’uso dell’infrastruttura stradale in specifiche fasce orarie di maggior
traffico o in situazioni di congestione. Alla seconda categoria appartengono,
invece, iniziative volte ad utilizzare combustibili alternativi al petrolio, ovvero i
veicoli elettrici. Infine, quando si parla di condivisione dell’auto, ci si riferisce a
sistemi di “car sharing”, “car pooling” o “ride sharing”, il cui obiettivo è quello
di diminuire l’uso di veicoli in circolazione.
In ultima analisi, vengono proposte altre due strategie: il rilancio del trasporto
13
pubblico con interventi volti a migliorare la qualità dei servizi esistenti e iniziative
per il potenziamento dell’offerta; il miglioramento delle infrastrutture per
garantire una migliore viabilità e circolazione.
Nel sesto Capitolo, l’attenzione si sposta sulla mobilità ciclabile e pedonale
definite come “soft mobility” e come forme di mobilità sostenibile a “zero
emissioni”, in quanto implicano l’impiego esclusivo della capacità fisica
dell’uomo. A partire dagli anni Settanta la mobilità pedonale e ciclabile sono state
rilanciate attraverso una pluralità di iniziative che perseguono obiettivi molteplici:
dalla sostenibilità dello sviluppo alla riqualificazione dei tessuti degradati; la
riduzione delle emissioni inquinanti; la sicurezza stradale; la protezione degli
utenti più deboli (anziani, bambini, portatori di handicap) alla promozione di
forme di spostamento più rispettose dell’ambiente. In particolare, nel presente
capitolo si sono evidenziati una moltitudine di vantaggi dell’andare in bicicletta
(vantaggio ecologico, economico, energetico, sociale etc), che ci portano a dire
che questo mezzo di spostamento rappresenta la scelta ecosostenibile per
eccellenza. La bicicletta, inoltre si presta molto bene ad un utilizzo intermodale
con i vettori di trasporto pubblico (metropolitana, treni, tram), riuscendo così ad
organizzare una rete integrata che sfrutti appieno le interconnessioni tra le diverse
realtà del trasporto collettivo. In questa sezione, vengono citate alcune esperienze
internazionali, soprattutto nei Paesi del Nord-Europa, in cui le biciclette sono dei
veri e proprio elementi distintivi della mobilità.
L’analisi poi è proseguita su un caso aziendale, la Nanoo, una “folding bike” dal
design innovativo, sviluppata e lanciata sul mercato dall’azienda Advanced
Mobility S.r.l. sita in Torino. L’obiettivo dell’azienda è stato quello di creare un
concetto di mobilità sostenibile e funzionale per un vivere quotidiano
semplificato, progettando un modello di bici pieghevole in grado di ottimizzare
questi concetti.
Nel settimo ed ultimo Capitolo, lo studio è stato condotto sul bike sharing, sul
significato del termine, sull’articolazione del servizio e sulle possibili opportunità
14
che potrebbe offrire alla mobilità urbana. I servizi di bike sharing e i programmi di
biciclette pubbliche hanno ricevuto una crescente attenzione negli ultimi anni, con
iniziative volte ad aumentare ed incentivare l’utilizzo della bicicletta.
Nel capitolo si vedrà come il bike sharing possa effettivamente partecipare alla
causa pubblica attraverso le proprie particolarità ed efficienze. Si vedrà come si è
sviluppato questo fenomeno attraverso gli anni, i benefici, i maggiori servizi
operanti in Italia con riferimento anche a quello offerto dalla città di Torino e le
possibili campagne di marketing e di comunicazione a sostegno di questa forma di
mobilità sostenibile.
Infine, il lavoro si concluderà con uno sguardo proiettato verso il futuro attraverso
alcune considerazioni su come un servizio di bike sharing di quarta generazione
potrebbe esser configurato, con uno slancio verso le proposte che concretamente
potranno arricchire e migliorare il servizio in un futuro imminente.
CAPITOLO 1
INNOVAZIONE, CONCETTO DI OPEN INNOVATION, TRIPLA ELICA
1.1 Il concetto di Innovazione
Al fine di delineare il concetto di “innovazione”, è utile fare una distinzione tra
invenzione e innovazione. Fagerberg afferma che l’invenzione è la prima idea per
lo sviluppo di un nuovo prodotto o processo, mentre l’innovazione è il primo
tentativo di mettere in pratica tale idea.1 Un’innovazione è l’introduzione di un
prodotto (bene o servizio) o di un processo, nuovo, o significativamente
migliorato, o l’introduzione di un metodo di commercializzazione o di
organizzazione nuovo o significativamente migliorato, applicato alle pratiche
commerciali, all’organizzazione del lavoro o alle relazioni con l’esterno.2 Joseph
Schumpeter, definiva l’imprenditore innovatore come “colui che apporta
1 FAGERBERG J., MOWERY D.C., NELSON R.R. (2005), (a cura di), The Oxford handbook of Innovation, Oxford University Press, Oxford e New York.2 OECD (2005), Oslo Manual 3rd edition Guidelines for Collecting and Interpreting Innovation Data, OECD Publishing, Parigi.
15
trasformazioni nei mercati attraverso l’implementazione di nuove combinazioni”3,
che possono riguardare:
� l’introduzione di nuovi prodotti;
� l’introduzione di nuovi metodi di produzione;
� l’apertura di nuovi mercati;
� la conquista di nuove fonti di approvvigionamento di materiali o parti;
� la realizzazione di nuove modalità organizzative all’interno dell’industria.
Egli utilizza, quindi, l’espressione “imprenditore” per definire il ruolo
dell’innovatore. Secondo l’autore, il classico equilibrio di mercato è ostacolato
dalle azioni degli imprenditori, guidati dal desiderio di creare un monopolio, per
mezzo dell’introduzione di una qualche innovazione. Essi sono, infatti, motivati
ad assumere un certo grado di rischio in cambio dei guadagni ottenibili riuscendo
a collocare un bene nel mercato. I ricavi così conseguiti potrebbero essere
successivamente investiti per continuare l’attività imprenditoriale e produrre altre
innovazioni, dato che le anteriori sarebbero già state diffuse. In questo modo si
genera un processo di retroalimentazione che stimola la crescita e lo sviluppo
economico. Secondo Schumpeter, senza la presenza di imprenditori che portino a
termine l’attività innovativa, il tasso di crescita sarebbe limitato all’incremento dei
fattori produttivi e sarebbe difficile la generazione del suddetto processo. Tutta
questa evoluzione rappresenta, per l’autore, la storia del capitalismo, prodotta da
ciò che egli definisce “distruzione creatrice”. Metodi di produzione, tecnologie e
conoscenza diventano obsoleti e vengono superati, perché solo dal cambiamento
scaturisce qualcosa di nuovo. L’imprenditore “schumpeteriano” è la figura chiave
di questo processo in continuo divenire, in cui la sopravvivenza è possibile solo se
si è disposti a mutare, perché ciò che importa davvero non è la competizione sul
prezzo, ma la concorrenza creata dalla novità. Durante gli anni Settanta e Ottanta
si afferma il pensiero evolutivo (o neo- schumpeteriano). L’idea di fondo di questo
approccio è la concezione dello sviluppo tecnologico come processo evolutivo,
3 SCHUMPETER J.A. (1911), Teoria dello sviluppo economico, ETAS, Milano, pp. 32 ss.
16
dinamico, accumulativo e sistemico. Come nel pensiero di Schumpeter, si assegna
all’innovazione il principale ruolo dinamizzante dell’economia capitalista.
L’innovazione viene analizzata come un processo diviso in due tappe: la prima
fase consiste nello sviluppo e nella commercializzazione iniziale di un nuovo
prodotto o processo, la seconda è costituita dall’applicazione diffusa, ovvero dalla
trasmissione di tale innovazione con l’assimilazione da parte del grande pubblico
dell’informazione tecnica sviluppata. Inoltre, la visione “neoschumpeteriana”
stabilisce che, durante il processo di diffusione, continui il progresso tecnologico
inizialmente avviato dall’innovazione di maggiore portata. Gli autori evolutivi
considerano, quindi, che la tecnologia si sviluppi contemporaneamente alla sua
diffusione, e che ciò avvenga in un contesto determinato, contraddistinto da
caratteristiche politiche, economiche, storiche e istituzionali, con il quale si
stabilisce un processo di retroalimentazione continua. Per questo, non tutte le
innovazioni generate da un’impresa avranno lo stesso impatto, ma dipenderà dalla
loro ricezione nell’ambiente. La capacità di innovare di un’impresa sarà, quindi,
influenzata dall’ambiente che la circonda. In riferimento alle fasi del processo
innovativo, il momento in cui si produce l’innovazione è tale quando i frutti
dell’attività innovativa vengono immessi con successo nel mercato4. In questo
ambito risulta pertinente fare ulteriore chiarezza sulla differenza tra invenzione e
innovazione. Dai contributi di Schumpeter5 nascono i concetti su cui sono fondati
gran parte dei modelli successivi; in questi si stabilisce la differenza tra
invenzione, innovazione e diffusione. L’autore definisce “invenzione” il prodotto
o processo che viene creato e si sviluppa nell’ambito scientifico-tecnologico, e
relaziona, invece, l’ “innovazione” con un cambiamento di natura economica.
Così considera la “diffusione”, ovvero la trasmissione di innovazione, come ciò
che permette ad un’invenzione di trasformarsi in un fenomeno economico-sociale.
Più recentemente gli studiosi Hauschildt e Salomo, nel tentativo di sintetizzare i
principali contributi letterari sull’approccio della dottrina al tema
4 ROZGA R. (1999), Entre globalición tecnológica y context nacional y regional de la innovación, un aporte a la discussion de la importancia de lo global y lo local para la innovación tecnológica, V Seminario Internacional, Toluca, Mexico.5 SCHUMPETER J.A. (1911), Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, Duncker&Humblodt, Berlin. Versione in inglese, The Theory of Economic Development, Harvard University Press, (1934), Cambridge; MASS e SHUMPETER J.A., (1942), Capitalism, Socialism and Democracy, Harper, New York e Londra. Versione italiana, Socialismo e Democrazia, ETAS, Milano, (2001).
17
dell’innovazione, riconoscono che le definizioni esistenti del termine innovazione
condividono i seguenti aspetti. Le innovazioni consistono in “nuovi prodotti o
processi che da un punto di vista qualitativo si distinguono nettamente dallo stato
precedente”6; e ancora in linea con Schumpeter affermano: “un’innovazione è tale
se può essere sfruttata commercialmente, attraverso nuovi o preesistenti mercati”,
distinguendo così il concetto di innovazione da quello di mera invenzione. Il
duplice obiettivo degli innovatori è quello di risolvere i problemi esistenti con
soluzioni inedite e offrire alla popolazione bene i e servizi in quantità e varietà
sempre crescenti, per rispondere alle esigenze dei singoli e della società.
L’innovazione costituisce, così, la leva fondamentale attraverso cui è possibile
alimentare la crescita e accelerare la generazione di conoscenza: le imprese,
applicando i risultati di ricerca, possono accrescere la competitività propria e del
sistema produttivo complessivo, avviando e sostenendo, in questo modo lo
sviluppo economico e l’avanzamento tecnologico. In riferimento alle fasi del
processo innovativo, il momento in cui si produce l’innovazione è tale quando i
frutti dell’attività innovativa vengono immessi con successo nel mercato.
L’evoluzione nel concetto di innovazione è rappresentata da numerose visioni che,
nel corso degli anni, hanno cercato di spiegare i processi per mezzo dei quali
l’attività innovativa viene realizzata. I contributi in materia, circa il cambiamento
tecnologico e la formazione di conoscenza, sono molteplici e i filoni di pensiero
descritti finora costituiscono solo una parte della letteratura al riguardo. Ciò che
lega, per alcuni aspetti, le teorie di diversi autori appartenenti a differenti momenti
storici, è la presenza di una linea di fondo, che mantiene stabili i criteri con i quali
viene rappresentata l’innovazione, pur permettendo al concetto di evolversi e
trovare definizioni sempre aggiornate con i tempi. Tale tematica di base è data
dalla continuità descrittiva per cui si conferiscono al fenomeno innovativo
attributi di novità, modernità e cambiamento. D’altra parte, vi è la presenza di
elementi di stacco, riconducibili al coinvolgimento di un numero e una varietà di
attori e attività sempre maggiori, utilizzati per spiegare l’avvio e lo sviluppo
dell’azione innovativa.
6 HAUSCHILDT J., SALOMO S. (2011), Enabling Innovation, Springer, Berlin, pp. 233 ss.
18
1.2 L’innovazione nel XXI secolo
La maggior parte delle innovazioni fallisce e le compagnie che non innovano
muore.7 Al mondo d’oggi, il ruolo dell’innovazione è fondamentale per tutte le
compagnie di ogni dimensione in ogni settore. L’innovazione è vitale per
sostenere e crescere gli attuali businesses delle imprese. È opinione largamente
diffusa che il tema dell’innovazione sia uno dei driver principali per le aziende al
fine di garantire una crescita sostenibile e profittevole nel tempo. L’innovazione
degli ultimi anni è notevolmente cambiata a causa della globalizzazione la quale
sta avendo degli impatti notevoli nei processi economici. Da una parte, infatti, i
mercati hanno ridotto drammaticamente la vita media dei prodotti; di contro, la
convergenza delle differenti tecnologie ha reso il processo di innovazione
maggiormente rischioso e costoso. Oggigiorno, le grandi compagnie del passato
stanno incontrando numerose difficoltà per sostenere i loro investimenti nella
R&S interna. Si consideri il laboratorio di ricerca industriale premier del XXI
secolo, Bell Labs. Non molto tempo fa, Bell Labs sarebbe stata un’arma strategica
e decisiva nella battaglia della Lucent Technologies contro la Cisco System nel
mercato delle apparecchiature di telecomunicazione. La Lucent, divenuta Lucent-
Alcatel in seguito alla fusione del 1 dicembre del 2006, aveva ereditato dopo la
rottura di AT&T, i laboratori della Bell grazie ai quali poteva contare sulla
ricchezza della ricerca e della tecnologia per focalizzarsi sul mercato delle
apparecchiature di telecomunicazione. E per più di cinque anni, Lucent ha
riportato significative vittorie in questo mercato grazie ai suoi nuovi prodotti.
Cisco, tuttavia, in qualche modo è riuscita a mantenere il passo della Lucent pur
non avendo le capacità di R&S interna paragonabile a quelle della Lucent. Le due
compagnie, infatti pur competendo direttamente nello stesso settore, non
innovavano nello stesso modo. La Lucent, dedicava enormi risorse per esplorare il
mondo di nuovi materiali e componenti e sistemi all’avanguardia, sempre alla
ricerca di scoperte importanti che avrebbero potuto alimentare le future
generazioni di prodotti e servizi. Cisco, invece, aveva adottato una differente
strategia nella sua battaglia per la leadership dell’innovazione. Essa, infatti
7 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 7.
19
esaminava il mondo delle start-up promettenti che si diffondevano intorno a lei e
che commercializzavano nuovi prodotti e servizi. Alcune di queste start-up erano
state create dai veterani della Lucent, AT&T o Nortel. La Cisco così, a volte
investiva in queste start-up e altre volte, semplicemente ne diventava partner. In
questo modo, Cisco riusciva a mantenere il passo con la produzione di R&S
diventando forse una delle realtà industriali più interessanti al mondo, il tutto
senza produrre R&S per conto proprio. La storia di Lucent e Cisco non sono
comunque un caso isolato; ad esempio l’abilità di IBM nel settore informatico ha
fornito una scarsa protezione a Intel e Microsoft nei business hardware e software
per computer personali. Allo stesso modo, Motorola, Siemens ed altri colossi
industriali sono rimasti a guardare impotenti l’ascesa di Nokia nella telefonia
wireless sulla base della sua esperienza industriale di decenni precedenti nei
settori low-tech della pasta di legno e degli stivali di gomma. Tutto ciò conduce ad
un numero di paradossi che affrontano tutte le imprese innovative del XXI secolo.
“Mentre le idee abbondano, la ricerca industriale interna è meno effettiva. Mentre
l’innovazione è vitale, il processo di organizzazione dell’innovazione sembra non
funzionare più. Mentre le idee e il capitale esterno sono abbondanti, le
compagnie hanno problemi a trovare e finanziare le opportunità di crescita
interna”8. La R&S per molti anni è stata considerata come la principale leva per
costruire e mantenere un vantaggio competitivo per le aziende. In passato, la R&S
interna rappresentava un asset strategico prezioso in grado di ostacolare l’ingresso
di nuovi concorrenti nel mercato. Solo grandi colossi, come IBM, Dupont, AT&T
erano in grado di competere svolgendo una grande attività di R&S nei rispettivi
settori e con la successiva conseguenza di raccogliere la maggior parte dei profitti.
8 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 12.
20
1.3 Le tipologie di innovazione
Nel tentativo di ricavare dalla letteratura economica una definizione del concetto
di innovazione, appare interessante anche il lavoro di classificazione delle diverse
tipologie di innovazione eseguito dagli studiosi Henderson e Clark,9 e basato su
due dimensioni: 1) il livello di rinnovamento del core-concept (affinato o
rivoluzionario), 2) legame fra gli elementi che lo compongono (conservato o
ripensato). Incrociando le suddette dimensioni si ottiene la matrice riportata in
Figura 1.1.
Figura 1.1 Core concept e legame fra elementi: differenti tipologie di innovazione
9 HENDERSON R.M, CLARK K.B. (1990), “The Reconfiguration of Existing Product Technologies and the Failure of Established Firms”, Administrative Science Quarterly, Vol. 35, No. 1, pp. 11 ss.
21
Fonte: adattamento da HENDERSON R.M., CLARK K.B (1990), “The Reconfiguration of Existing Product Technologies and the Failure of Established Firms”, Administrative Science Quarterly, Vol. 35, No. 1, Special Issue: Technology, p. 12.
L’innovazione radicale rappresenta un’idea completamente nuova per l’azienda e
per il contesto a cui essa fa riferimento. Esse danno luogo a cambiamenti bruschi
e significativi e non di rado, riescono a generare nuove opportunità di profitto,
alterando le strutture e le dinamiche competitive dei settori preesistenti. In
particolare, maggiormente soggetti a questo tipo di innovazione sono i settori
merceologici stimolati dal progresso tecnologico (biotecnologia, elettronica,
informatica ecc.). L’innovazione radicale implica una vera e propria rottura con il
percorso fino ad allora seguito. Essa avviene tramite la creazione di nuovi prodotti
e processi, basati su una tecnologia che non può intendersi come un’evoluzione
naturale. Questo tipo di innovazione non si distribuisce uniformemente nel tempo
ma sorge con una certa frequenza in funzione del tipo di prodotto e del grado di
saturazione della tecnologia in uso. Si tratta di situazioni in cui l’utilizzo di un
nuovo principio scientifico provoca la totale e immediata dismissione della
tecnologia anteriore, e comporta la nascita di nuovi mercati. L’innovazione
incrementale rappresenta invece il miglioramento di un prodotto/processo già
esistente, senza che sia alterato l’equilibrio tra le componenti del settore di
riferimento. Questi miglioramenti, prese singolarmente, sono poco significative,
ma viste nell’insieme costituiscono le tappe di un percorso di crescita. Per quanto
concerne l’innovazione architetturale invece, essa rivoluziona il modo, ovvero
22
l’architettura con cui i componenti di un prodotto/processo sono collegati tra loro,
mentre elementi come design, tecnologia e core-concept, di base rimangono
invariati. Questo tipo di innovazione è assai interessante dal punto di vista
strategico, poiché permette di condividere i rischi insiti nel processo di
innovazione con altri attori della catena del valore (es. fornitori). Può quindi
rappresentare una rilevante fonte di vantaggio competitivo, a condizione però che
il consumatore percepisca il valore aggiunto. L’innovazione modulare infine, è
quella dove i componenti principali del sistema vengono cambiati, ad esempio
introducendo tecnologie più performanti. Ciò consente di proporre un prodotto
“nuovo” senza però alterare l’architettura generale, ovvero i legami con cui gli
elementi principali oggetto di innovazione vengono combinati tra loro. In
definitiva è corretto affermare che il concetto di innovazione, all’interno del
quadro economico dell’impresa, si presta a molteplici interpretazioni. Nel
presente lavoro il riferimento esplicito è al concetto di “innovazione aperta”
inteso come la capacità dell’impresa di progettare il proprio modello di business al
fine di sfruttare, all’interno del processo di innovazione che la caratterizza, le
risorse e le competenze che si trovano al di là dei propri confini organizzativi, in
modo da favorire lo sviluppo e la competizione, in un contesto economico
ipercompetitivo10 come quello attuale.
1.4 Il paradigma della Closed Innovation
Il modello di innovazione “closed”, così come viene descritto da Chesbrough, che
per la prima volta ne ha fornito una definizione, è improntato sulla logica per cui
le imprese basano la loro attività di sviluppo dell’innovazione sulle risorse e sulle
capacità disponibili all’interno dei propri confini. Di seguito, nella tabella sono
indicate alcune “regole” della “Closed Innovation” ricavate ed elencate da
Chesbrough nel suo primo lavoro:
Figura 1.2: Innovazione Chiusa
Le persone più capaci lavorano con noi
10 D’AVENI R. (1995), “Ipercompetizione”, Il Sole 24 Ore.
23
Per creare valore dalla R&S, l’azienda deve scoprire, sviluppare e
governarla direttamenteSe innoviamo dall’interno, siamo in grado di arrivare sul mercato per primiSe siamo i primi a commercializzare la ricerca, creiamo vantaggio
competitivoSe generiamo le migliori idee sul mercato, vinciamo la competizioneDobbiamo presidiare i risultati della nostra ricerca per evitare che i nostri
competitor ne approfittinoFonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. XXVI.
Ad oggi molte (o tutte) di queste regole potrebbero sembrare inadeguate o peggio
deleterie per l’impresa che sfida la competizione in un mercato globalizzato ed
ipercompetitivo11 come quello attuale. Ma l’autore spiega quali sono state le
ragioni del successo dell’approccio “closed” operando una ragionevole
contestualizzazione. L’ipotesi di partenza è quella di una impresa di successo, che
ad un certo punto del suo percorso di crescita si rende conto che, rinunciando ad
investire nell’innovazione di prodotto e di processo, presto il vantaggio
competitivo acquisito tenderà ad esaurirsi. Chesbrough, infatti, afferma che
“condizione necessaria alla conservazione della posizione di leadership è la
capacità in futuro di creare prodotti nuovi e migliorati da offrire al mercato con
una certa regolarità”12. Attestata la necessità di intraprendere un processo di
sviluppo duraturo, l’azienda si interroga sul modello ad essa più congeniale. La
prima fase consiste nel valutare lo “stato dell’arte e della tecnologia” che
caratterizza l’industria in cui la stessa impresa opera, ovvero individuare il livello
di conoscenza presente al di fuori dei confini aziendali. Nonostante molte scoperte
scientifiche e mediche nel XX secolo, molto aziende capiscono che all’esterno
manca una formazione specifica in grado di sviluppare nuovi prodotti e servizi.
Perciò, molte di queste iniziano a dedicare molte risorse all’interno dei propri
confini, per determinare quelle condizioni necessarie allo sviluppo dei moderni
processi di innovazione. Secondo questo modello, una volta attestata
l’insufficiente conoscenza specifica all’esterno dei propri confini aziendali,
11 Op. cit, 10.12 CHESBROUGH H. (2003), The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, pp. 21 ss.
24
l’impresa tende a mantenere le principali attività di ricerca all’interno
dell’organizzazione (“in house”). Le compagnie devono, quindi, generare le
proprie idee e poi svilupparle, costruirle, lanciarle sul mercato, finanziarle e
supportarle per contro proprio. Questo paradigma consiglia alle imprese di essere
indipendenti, perché spesso la qualità, la disponibilità e la capacità di altre idee
possono non essere interessanti. “If you want something done right, you’ve got to
do it”13. L’obiettivo principale è quello di limitare il fenomeno di “spillover di
conoscenza” e infatti una funzione centrale nel modello closed è la gestione della
proprietà industriale. Dunque l’impresa che sviluppa innovazione esclusivamente
al proprio interno, gestisce in maniera attenta la proprietà intellettuale delle idee
attraverso la registrazione dei brevetti, con l’obiettivo di mantenerne il controllo
nel tempo, impedendo ai concorrenti lo sfruttamento commerciale. Questa logica
dell’Innovazione Chiusa, crea un circolo virtuoso (Figura 1.3); le imprese
investono nella R&S interna, che conduce a scoperte tecnologiche. Queste
scoperte permettono alle imprese di lanciare nuovi prodotti e servizi sul mercato e
di realizzare più vendite e alti margini e poi di reinvestire sempre più nella R&S
interna che conduce ad ulteriori scoperte.
Figura 1.3: Il circolo “virtuoso
Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. XI.
Per la maggior parte del XXI secolo, questa logica ha funzionato bene. Le
13 Op. cit, 12.
25
industrie chimiche tedesche riuscirono a creare un laboratorio centrale di ricerca,
usato per identificare e commercializzare una grande varietà di prodotti nuovi.
Thomas Edison creò una versione americana di questo laboratorio, utilizzato per
sviluppare e perfezionare un numero considerevole di scoperte e alla fine fondò il
famoso laboratorio della General Electrics.
1.4.1 Il processo della Closed Innovation
L’idea di base del modello di Innovazione Closed è che “successfull innovation
requires control”14. Pertanto tutte le fasi del processo innovativo, a partire dalla
ricerca di base fino allo sviluppo di nuovi prodotti o servizi, vengono svolte
all’interno dei confini aziendali, sotto il diretto controllo dei manager dell’azienda
stessa, evitando ogni tipo di contatto con l’esterno. Sono quindi, implicite le
seguenti considerazioni:
1. lo sviluppo dei prodotti può partire solo dalla prima fase, ovvero dall’idea
generata internamente e non da fasi successive;
2. vengono sviluppati impiegando solo risorse e competenze interne;
3. possono uscire dai confini aziendali ed essere commercializzati solo
attraverso un canale di distribuzione della stessa, ovvero solo
esclusivamente la commercializzazione diretta;
4. i prodotti scartati o cancellati, restano archiviati internamente e inutilizzati
fino all’eventuale successivo riutilizzo da parte di altri gruppi di R&S.
A seguito di un tale modello di innovazione, molte tecnologie magari promettenti,
non potrebbero essere mai sfruttate, rappresentando una delle cause di fallimento
o di non ottimizzazione dei processi basati sul modello closed. Secondo
Chesbrough, il primo passo verso la creazione di un organismo interno di R&S, è
la definizione degli argomenti scientifici da approfondire all’interno della fase
iniziale di ricerca, in vista di uno sfruttamento commerciale. In funzione di questi
argomenti scientifici, l’impresa si impegna a ricercare ed assumere le menti più
14 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 10.
26
brillanti, quasi sempre provenienti dal mondo accademico. È necessario creare
un’ambiente interno di “fervore scientifico” e una comunità di ricerca che stimoli
la creatività.15 Pertanto saranno necessari contratti a lungo termine e
remunerazioni sostanziose, per evitare che i concorrenti si assicurino il capitale
umano dal valore più elevato. Un aspetto interessante dello scenario scientifico
che si andava affermando con il modello closed, era anche la relazione tra le
grandi corporation e le università. Diversamente dal sistema d’istruzione europeo,
quello americano era fortemente centralizzato e le università, furono create dal
governo per rispondere alle esigenze delle industrie locali. Nella Figura 1.4, è
rappresentato il modello di Closed Innovation e una caratteristica tipica del
modello è la netta separazione tra i vari percorsi di ricerca. Come si può notare,
ciascun progetto di ricerca (rappresentato in Figura 1.4 da una sfera), segue un
percorso autonomo senza mai entrare in contatto con altri progetti, sia in fase di
ricerca che di sviluppo vero e proprio dell’idea.
Figura 1.4: Il paradigma della Closed Innovation
15 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 23 ss.
27
Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston., p. 31.
Le due linee che formano una sorta di imbuto hanno un duplice significato. Da un
lato rappresentano i confini dell’impresa, impermeabili sia dall’esterno verso
l’interno, nel senso che le idee provengono esclusivamente dalle menti dei
ricercatori impiegati all’interno dell’organizzazione, sia dall’interno verso
l’esterno, nel senso che l’unica via d’uscita, resta la commercializzazione diretta
attraverso nuovi prodotti a marchio aziendale. Dall’altro lato le due linee
rappresentano il processo selettivo delle idee: come possiamo osservare dalla
figura non tutti i progetti di ricerca proseguono nella fase di sviluppo, molti di
questi vengono accantonati anche se il processo di sviluppo è già in fase avanzata.
La spiegazione che Chesbrough fornisce nel suo libro, risiede nelle continue
tensioni esistenti tra le funzioni di R&S, la cui separazione è evidenziata in figura
da una linea verticale continua. Origine di tali tensioni è la divergenza tra gli
obiettivi dei dirigenti delle due funzioni. Gli scienziati e gli ingegneri che
partecipano all’attività di ricerca e sviluppo lavorano seguendo “il sogno di
realizzare nuove scoperte da pubblicare a proprio nome”; la loro preparazione è
altamente specializzata e ciò rappresenta un limite importante qualora il mercato,
in continua evoluzione, richieda maggiore flessibilità. Dall’altra parte i
manager/ingegneri responsabili della funzione sviluppo sono orientati sulla
conversione delle scoperte in nuovi prodotti, e dunque sulla realizzazione degli
28
investimenti; questioni tipiche che gli stessi sono chiamati ad affrontare sono la
riduzione del time to market e il rispetto del budget.16 La funzione di sviluppo, è
di solito parte integrante dell’unità di business ed è strutturata come un centro di
profitto con una propria strategia profit-and-loss (P&L). La funzione di R&S nel
modello della Closed Innovation, invece, è quasi sempre strutturata come un
centro di costo, lontano dalle pressione dell’organizzazione aziendale proprio per
favorire la creazione di un ambiente favorevole alla scienza. La strategia che
molte imprese hanno implementato per affrontare il problema della
disconnessione tra le due funzioni è stata quella di creare un buffer che separa i
due processi. Chesbrough spiega il funzionamento del meccanismo con la
metafora dello scaffale (“ideas on the shelf”). Per ogni progetto, il centro di
ricerca quando lo ritiene opportuno dichiara di aver esaurito il processo di
elaborazione delle informazioni a disposizione; le idee vengono dunque catalogate
come pronte e quindi “messe a scaffale”. A questo punto i progetti cessano di
ottenere finanziamenti dal centro di ricerca ed i risultati ottenuti aspettano di
essere impiegati dalla funzione sviluppo, in quanto ritenuti idonei alla
realizzazione di un nuovo prodotto da commercializzare. Molte compagnie
utilizzano questo modello di innovazione, ovvero mantengono per diverso tempo
numerose invenzioni accumulate sugli scaffali senza essere mai sfruttate, con il
conseguente spreco di tutte le risorse investite per conseguirle.
1.4.2 Fattori di erosione nella logica del processo di Closed Innovation
A partire dalla fine degli anni Ottanta, determinati fattori hanno provocato la lenta
ed inesorabile erosione del vantaggio competitivo che grazie agli strumenti legati
alla “Closed Innovation” le grandi multinazionali erano riuscite ad ottenere. Tra
questi i più importanti sicuramente sono:
1. in primo luogo, la mobilità dei “knowledge worker”17 e il grado di
istruzione sono aumentati negli ultimi due anni e come risultato, una
grande quantità di conoscenza esiste al di fuori dei laboratori di ricerca
16 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 32.17 QUARANTINO L., SERIO L. (2009), “L’innovazione aperta: La prospettiva dell’innovazione aperta e le nuove logiche organizzative e manageriali”, Progetto Matri, Commissione europea.
29
delle compagnie. Tutto ciò rende difficile il controllo delle idee e il
trattenimento dei talenti;
2. il mercato dei capitali e il private equity sono moltiplicati recentemente e
ciò ha reso possibile finanziare idee e tecnologie promettenti sviluppate al
di fuori dell’impresa, con apporti e combinazioni di saperi diversi (su tutti
basta citare i casi di Cisco e Google, incubati presso la Stanford University
nella Silicon Valley in California);
3. infine le possibilità di sviluppare ulteriori idee e tecnologie al di fuori
dell’impresa, nella forma di spin-off o attraverso accordi di licenza sono
cresciute.
La dinamica evolutiva del settore industriale, in particolare quello statunitense, ci
dimostra come la maggior parte delle public company che hanno perseverato nella
Closed Innovation, hanno dovuto osservare la crescita esponenziale di nuove
imprese, che sono nate ed hanno avuto successo grazie ad idee che in qualche
modo sono riuscite a superare i confini dei propri laboratori. Molto spesso il
trasferimento della conoscenza al di fuori dei confini dell’impresa avveniva
proprio in ragione della crescente mobilità dei tecnici più qualificati. Da un lato le
imprese concorrenti avevano capito che assumendo tali soggetti potevano
assorbire le conoscenze e l’esperienza che questi avevano accumulato. Dall’altro
gli stessi ricercatori o ingegneri che giungevano ad importanti scoperte,
rendendosi conto dell’inadeguatezza del modello di business alla realizzazione e
al potenziale sfruttamento commerciale delle stesse, sceglievano di abbandonare
l’attuale occupazione, seppur certa e ben retribuita, e fondare nuove imprese,
organizzandole in modo da massimizzare a proprio favore il valore commerciale
dell’idea. La Figura 1.5 rappresenta uno degli esempi più eclatanti dell’epoca: le
imprese evidenziate sono tutte start-up fondate da ricercatori inizialmente
impiegati in IBM, che hanno deciso di intraprendere un’attività propria portando
con sè e quindi sottraendoli all’impresa, in una sorta di diaspora, decine di
collaboratori scelti tra i più brillanti e preparati. A prescindere dal valore
commerciale delle idee, è facile comprendere la perdita subita dall’impresa
“madre”, già in termini di preziose risorse umane, che rapidamente scelsero di
abbandonarle.
30
Figura 1.5: IBM e le compagnie discendenti nel settore degli Hard-Disk Drive
Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 36.
Le imprese evidenziate sono tutte aziende di successo, che ancora oggi, sono in
attività. Questi fattori erosivi sopra citati, quando si verificano nell’azienda, la
logica della Closed Innovation non viene più applicata e le imprese cominciano a
scoprire la ricchezza e la varietà di spunti per la ricerca provenienti dall’altro lato
dei propri confini. I fattori di contesto che hanno spinto l’impresa a chiudersi tra
le sue stesse mura, sono radicalmente mutati a causa soprattutto di un ecosistema
aperto, dove le idee possono provenire dall’esterno ed essere la fonte per lo
sviluppo interno di nuovi prodotti e processi. Inizia così un periodo storico dove la
conoscenza comincia ad essere distribuita al di fuori degli ambienti tipici di
ricerca come sono i laboratori interni alle imprese. Le stesse cominciano a
comprendere il valore delle informazioni detenute dai propri clienti, dai fornitori,
dalle università, dai consorzi, e finanche dalle start-up, piuttosto di ignorare tutto
ciò come accaduto fino ad allora.18 Nella figura 1.5 si osserva la presenza di un
18 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 40.
31
percorso di rottura, che spezza il circolo virtuoso originario e fa sì che sorgano
processi aperti di innovazione.
Figura 1.6: La rottura del circolo “virtuoso”
Fonte: adattamento da CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. xxiii
Lo schema di rottura consente di immettere nel contesto organizzativo nuove
conoscenze di natura tecnologica, economica e sociale. Le aziende, al fine del
progresso, possono attingere dall’interno dell’organizzazione o dall’ambiente
esterno, così come restare nel contesto attuale o cercare nuovi mercati.
1.5 Un nuovo approccio: Open Innovation
“Open Innovation means that valuable ideas can come from inside or outside the
company and can go to market inside or outside the company as well”19. Il
termine “Open Innovation” fu coniato per la prima volta da Henry Chesbrough,
Professore e Direttore del Center for Open Innovation alla Backley University
della California, con l’intento di rappresentare un approccio nuovo
all’innovazione, aperto e condiviso fra più attori. Il nuovo modello di innovazione
è un modello nel quale l’azienda non adopera esclusivamente conoscenze ed idee
provenienti dall’interno, ma apre il proprio processo di innovazione all’esterno,
prendendo coscienza della disponibilità e della qualità della conoscenza diffusa al
di fuori dei propri confini aziendali. Il modello offerto dall’Open Innovation 19 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 43.
32
stabilisce, infine, che la conoscenza può essere immessa nel mercato non solo
attraverso canali di proprietà, ma anche per mezzo di canali esterni
all’organizzazione, purché questi generino valore addizionale.20 Le nuove idee
possono continuare a trarre origine da un processo interno, o essere sviluppate
all’esterno dei confini aziendali, sia nella fase di ricerca che in stadi di sviluppo
più avanzati e concreti. Uno dei metodi maggiormente utilizzati per far sì che le
idee possano concretizzarsi all’esterno dell’impresa è la creazione di start-up, a
partire dal personale della compagnia. Questo nuovo approccio all’innovazione è
dovuto in primo luogo all’impatto della globalizzazione nell’economia mondiale
ed alla diversa distribuzione della conoscenza rispetto ai decenni passati. L’epoca
del monopolio della conoscenza detenuto dai laboratori di ricerca interni alle
grandi Corporation tali come Xerox, AT&T, Dupont, è terminata. La
partecipazione al processo di innovazione da parte di altri soggetti è in continua
crescita e l’impegno per il miglioramento dei prodotti e dei processi può essere
demandato a diverse categorie di stakeholder, come ad esempio fornitori, clienti,
dipendenti non impiegati nella funzione R&S e perfino alle imprese direttamente
concorrenti. Attualmente le aziende tendono a fare un maggiore utilizzo dei
risultati prodotti dalla ricerca di base nel contesto privato e pubblico, anziché
gestire l’attività di ricerca nei reparti interni dell’organizzazione, al fine di
velocizzare i processi innovativi e abbatterne i costi. L’innovazione così, assume
un carattere sempre più globale, sviluppandosi all’interno di un complesso sistema
di relazioni, in un network composto da imprese, università e centri di ricerca. In
sintesi il paradigma dell’Open Innovation, rappresentato in Figura 1.7, si sostanzia
in quei flussi di conoscenza in entrata e in uscita, che hanno lo scopo di migliorare
ed accelerare il processo di innovazione interna, ed alimentare i mercati attraverso
l’utilizzo all’esterno dell’innovazione prodotta internamente.
20 VANHANVERBEKE W., DUVSTERS G. M., NOORDERHAVEN N. G.(2002), “External technology sourcing through alliances or acquisitions: an analysis of the application-specific integrated circuits industry”, Organization Science, Vol. 13, No. 6, pp. 714-733.
33
Figura 1.7: Il modello di Open Innovation
Fonte: CHESBROUGH H. (2012), Open Innovation. Where We’ve Been and Where We’re Going, RTM, Vol 4, (July-August), p. 23.
In questo modello i progetti possono essere originati da fonti interne o esterne e
una nuova tecnologia può essere introdotta nel processo in qualsiasi momento. I
progetti, inoltre, possono arrivare al mercato in diversi modi, sia attraverso la
concessione di licenze che per mezzo dei canali di proprietà dell’azienda.
Adottando il paradigma dell’innovazione aperta, “l’impresa si impegna a
stimolare e ad esplorare sistematicamente un ampio spettro di fonti
dell’innovazione, integrando in maniera consapevole questa attività di
esplorazione con risorse e competenze proprie, e sfruttando a fondo, attraverso i
diversi canali disponibili, le opportunità che si presentano ad essa”21.
21 WEST J., GALLAGHER S. (2006), “Challenge of Open Innovation: the Paradox of Firm’s Investment in open Source Software”, R&S Management, Vol. 36, pp. 319-331.
34
Di seguito sono indicate alcune “regole” dell’Open Innovation:
Tabella 1.8: Open Innovation
Non tutte le persone più capaci lavorano con noi e diventa fattore di
vantaggio dell’azienda la capacità di valorizzare expertise e competenze che
sono al di fuori dell’aziendaLa Ricerca e Sviluppo proveniente da fonti esterne può generare valore in
maniera significativa: la R&S interna è soltanto una parte minima del valore
creabileNon è necessario sviluppare internamente ricerca per generare valoreCostruire un migliore modello di business è più importante che arrivare
primi sul mercatoSe siamo in grado di valorizzare le migliori idee, siamo vincenti sul mercatoDobbiamo essere in grado di valorizzare ricerche prodotte dall’esterno e
trasferirle nel nostro modello di businessFonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, HBRP, Boston, p. XXVI.
1.6 Il processo dell”Open Innovation
Secondo Chesbrough, “una nuova tecnologia, se isolata, non possiede alcun
valore economico intrinseco. Il valore economico della tecnologia, rimane latente
fino a quando la stessa non viene in qualche modo commercializzata. Bisogna poi
sottolineare che due modi diversi di commercializzare la stessa tecnologia
produrranno sempre due risultati differenti”22. Da questa intuizione emerge
l’importanza, per l’impresa, di dotarsi di un modello di business capace di
massimizzare il valore intrinseco del flusso di conoscenza proveniente sia dai
laboratori di ricerca interni che da fonti esterne. Dal punto di vista del processo,
come rappresentato nella seguente figura 1.8, distinguiamo almeno tre categorie di
core activities, all’interno delle quali si applicano le regole dell’Open Innovation:
1) front end di innovazione; 2) definizione dell’idea e sviluppo; 3) back end e
commercializzazione.
Figura 1.9: Le fasi del processo dell’Open Innovation
22 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p.. 64.
35
Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, HBRP, Boston, p. 44.
Contrariamente al modello di innovazione closed, il lancio di un progetto di
innovazione può essere attivato anche grazie a fonti esterne di conoscenza, ad
esempio attraverso progetti finanziati esternamente, licenze o joint venture. In
questo caso dunque le idee possono essere immesse nel processo in qualsiasi
momento e con vari mezzi. In particolare durante il front end di innovazione le
imprese cercano di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze attraverso
l’integrazione con soggetti esterni. La permeabilità dei confini dell’impresa già
nella fase iniziale del processo innovativo, deve essere intesa sia dall’esterno
verso l’interno, che dall’interno verso l’esterno. Può accadere infatti, come
rappresentato sempre in Figura 1.9, che i diritti sulle idee sviluppate all’interno
dei laboratori dell’impresa vengano ceduti ad altre imprese sul mercato attraverso
operazioni di Technology Licensing. È infatti già in questa fase che l’impresa può
avvalersi di soluzioni diverse dallo sviluppo interno, che si presentano
economicamente più allettanti. Se viceversa l’intuizione viene assorbita
dall’impresa ed al suo sviluppo vengono destinati degli investimenti, ha inizio la
seconda fase del processo di innovazione, quella di definizione dell’idea e
sviluppo. Si tratta di una delle “core activity” del processo di innovazione open
36
nella quale si realizza pienamente la funzione R&S. Diversamente dal passato
quando i laboratori erano isolati (spesso anche geograficamente) dalle attività
primarie della catena del valore, l’impresa che ha adottato l’Open Innovation
organizza il proprio modello di business in modo da integrare la funzione di
ricerca sia con le proprie attività interne (logistica, produzione, marketing e
vendita, ecc.), sia con quelle dei partner strategici. È proprio questa infatti la fase
cruciale in cui l’impresa, attraverso strumenti come alleanze, joint venture,
collaborazioni, acquisti o cessioni (spin-off ) di brevetti IP, cerca di scambiare
conoscenza con l’esterno per assicurarsi uno sviluppo più completo dell’idea.
Superate le fasi dell’approvvigionamento e dello sviluppo della tecnologia, il
processo di innovazione così come tradizionalmente veniva concepito, poteva
terminare con due soluzioni alternative: la messa in produzione diretta della
tecnologia (e dunque la commercializzazione), oppure il buffer, ovvero la
conservazione “a scaffale” dell’idea, opportunamente protetta da brevetto. Con
l’avvento dell’Open Innovation le soluzioni per trasferire l’idea all’ambiente
esterno in maniera profittevole si sono moltiplicate. Le imprese hanno cominciato
a lavorare su operazioni di licensing IP quando si riteneva opportuno conservare la
proprietà del brevetto, spin-off quando invece il diritto all’uso veniva
completamente ceduto, e infine start up, quando ritenuto inadatto il proprio
modello di business a sviluppare l’idea, la stessa proprietà dell’impresa effettuava
un investimento per la costituzione di una realtà separata, ma comunque
giuridicamente controllata, capace di massimizzare il valore intrinseco nella
nuova tecnologia.23
1.7 Possibili classificazioni
23 GAULE A. (2006), Open Innovation in Action: How to be strategic in the search for new source of value, H-I Network, London, pp. 62-64.
37
Da uno studio empirico effettuato da Lazzarotti e Manzini (2009), è emersa la
principale classificazione dell’Open Innovation, che evidenzia quattro tipologie di
collaborazioni principali. Le variabili considerate per la classificazione sono il
numero e il tipo di partner con cui si collabora (partners variety) e il grado di
apertura delle fasi del processo di innovazione (innovation funnel openess).
Figura 1.10: le tipologie di Open Innovation
Fonte: LAZZAROTTI V., MANZINI R. (2009), “Different modes of open innovation: a theoretical framework and an empirical study”, International Journal of Innovation Management, Università Carlo Cattaneo, Castellanza, Vol. 13, No. 4, pp. 615-636.
Secondo Manzini e Lazzarotti, il grado di apertura del processo innovativo
dipende dal numero e dalla tipologia delle fasi del processo di innovazione per le
quali l’azienda si rivolge all’esterno. Si passa da una totale chiusura con aziende
molto focalizzate nell’innovazione di poche fasi con pochi partner, che
caratterizza generalmente i soggetti che considerano il processo di Open troppo
rischioso e quindi limitano le collaborazioni e definiscono regole e controlli rigidi,
fino al modello di Open ideale, in cui le aziende considerano le collaborazioni
tecnologiche come un’opportunità strategica e dedicano tempo e risorse sulla loro
esplorazione.
I quattro modelli possono essere descritti nel seguente modo:
38
� The Closed Innovators: questo modello corrisponde alle imprese che
accedono a risorse esterne di conoscenza e soltanto in un’unica e specifica
fase del processo innovativo. Questo è il caso, ad esempio, di un’azienda
che accede ai servizi esterni di prototipazione nel processo di sviluppo di
un nuovo prodotto.
� The Specialised Collaborators: sono aziende che collaborano con molti
partner differenti, ma aprono il processo di innovazione ad una sola fase. È
il caso delle compagnie che coinvolgono un ampio network di clienti,
esperti, fornitori, centri di ricerca nella fase di generazione dell’idea del
processo di innovazione.
� The Integrated Collaborators: aziende che aprono il loro processo di
innovazione in tutte le fasi ma concentrano le loro relazioni con l’esterno
soltanto con specifici partner, generalmente fornitori o clienti.
� The Open Innovation: aprono interamente il loro processo di innovazione
e sono in grado di gestire un elevato numero di relazioni tecnologiche e di
coinvolgere molti partner.
1.8 Il Business Model in un’ottica di Open Innovation
Le imprese, in un’ottica di Open Innovation hanno bisogno di combinare la
ricerca interna con le idee esterne e poi di impegnarle all’interno del proprio
business. Il business model è la chiave per capire come le aziende, adottando una
determinata tecnologia, crea, distribuisce e cattura valore. L’impresa più catturare
valore economico da una nuova tecnologia in tre diversi modi: attraverso
l’adozione della stessa nel proprio modello di business, oppure concedendola in
licenza ad altre imprese, o infine istituendo un’alleanza con altri soggetti per
esplorare il valore della nuova tecnologia in nuove aree di business. Quando
l’impresa incontra una nuova tecnologia è possibile che la stessa si adatti ad
essere sviluppata all’interno dell’attuale modello di business, ma è anche possibile
che non sia esistita finora un’architettura organizzativa capace di generare ricavi
dalla tecnologia stessa, e che quindi sia necessario progettarla a partire dalle
fondamenta.
In questo ultimo caso il nuovo business model dovrà essere configurato per
39
adempiere alle seguenti funzioni,24 illustrate nella figura 1.11.
Figura 1.11 Mappa cognitiva del business model
Fonte: CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, p. 69.
1. articolare la value proposition, che consiste nel valore creato per il cliente
attraverso l’offerta basata sulla tecnologia;
2. identificare un mercato di riferimento, specificando la tipologia di
consumatore che potrà beneficiare della tecnologia e gli usi ai quali la
stessa può essere destinata;
3. definire la struttura della catena del valore dell’impresa, utile per creare e
distribuire l’offerta e la posizione che occupa l’impresa all’interno della
stessa;
4. specificare il meccanismo di generazione dei ricavi, ovvero la struttura
dei costi e i margini che ci si aspetta di ottenere dalla vendita;
5. descrivere il posizionamento dell’impresa all’interno della “costellazione
del valore”, includendo anche i potenziali concorrenti;
6. formulare la strategia competitiva attraverso la quale l’impresa
24 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p 69.
40
guadagnerà e manterrà il vantaggio competitivo sulla concorrenza.
È necessario che l’impresa prima di introdurre una determinata tecnologia,
ponendosi nell’ottica del consumatore, risponda alle seguenti domande: “Quali
problemi del cliente sto risolvendo”, “Quanto questi sono per esso significativi?”.
Nella storia ci sono numerosi esempi di successo di imprese che hanno adottato
tecnologie non del tutto innovative, ma che hanno saputo inserirle all’interno di
una value proposition differente, riuscendo a massimizzare il valore insito nella
tecnologia. Lo sviluppo di una value proposition dipende anche dalla definizione
di un mercato di riferimento, che rappresenta il secondo presupposto nella
creazione di un business model. Quest’ultimo, infatti deve individuare un target di
riferimento o un segmento di mercato, a cui la tecnologia sarà rivolta. Il
consumatore può valorizzare una tecnologia grazie all’abilità di quest’ultima di
soddisfare un bisogno esistente e di creare nuove possibilità e opportunità. Una
volta definito il target di riferimento, è possibile costruire la catena del valore. La
catena del valore deve necessariamente raggiungere due obiettivi: 1) indicare la
strada verso la creazione di valore per il consumatore finale; 2) permettere
all’impresa di rivendicare una porzione di valore sufficiente a giustificare la sua
partecipazione. Tuttavia la creazione di valore è necessaria ma non sufficiente per
l’impresa a trarre profitto dalla propria catena di valore. Per questo l’azienda deve
identificare un’adeguata struttura dei costi e soprattutto i margini che si intendono
ricavare dalla vendita del prodotto. Proseguendo in un’ottica di Open Innovation,
la creazione di un business model dovrà consentire l’inserimento dell’impresa
all’interno di un network del valore. “Costruire dei legami forti all’interno del
network, accrescerà indubbiamente il valore insito nella tecnologia. Viceversa
fallire nella costruzione dei legami ne penalizzerà il potenziale, in particolare se
la tecnologia, e dunque le imprese che la adottano, saranno chiamate a
competere con un network concorrente che a sua volta trae beneficio da relazioni
consolidate”25. Infine, anche in fase di progettazione di un piano di innovazione
“aperta”, sarà molto importante definire la strategia competitiva. I fattori chiave
per sostenere una strategia di successo consistono nell’abilità dell’impresa di
guadagnare un accesso differente alle risorse principali, l’esperienza passata, la
difficoltà per i concorrenti di imitare il prodotto e la futura posizione dell’impresa 25 CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting
from Technology, Harvard Business Review Press, Boston, p. 68.
41
stessa nel mercato. Fondamentale infatti sarà capire se il nuovo prodotto potrà
essere in grado di competere secondo una strategia di costo, di differenziazione o
di focalizzazione rispetto all’offerta dei concorrenti.
1.9 La gestione della conoscenza nei processi di innovazione aperta
Nell'ambito di un paradigma chiuso si presuppone che l’organizzazione debba
realizzare l’attività produttiva mediante le proprie idee, e quindi con l'obiettivo di
controllare e proteggere la tecnologia, escludendo terzi dal suo utilizzo. Nel
tentativo di sviluppare nuovi prodotti, partendo dalla base tecnologica interna, le
aziende cercano di sfruttare le conoscenze accumulate. Nello scenario odierno,
però, i cambiamenti nel contesto tecnologico, come la riduzione dei cicli di vita
dei prodotti, la globalizzazione delle attività di R&S, la flessibilità dei processi e il
forte utilizzo dei sistemi di comunicazione, sollecitano a presentare proposte
nuove per la progettazione, pianificazione e attuazione del processo di
innovazione. I processi aperti, si fondano sulla cooperazione tra due o più
organizzazioni attraverso un modello di business praticabile per ciascuno di essi. I
brevetti svolgono un ruolo fondamentale, perché permettono alle aziende che
innovano mediante processi aperti di ottenere dei ritorni, mentre altre
organizzazioni vengono dotate di conoscenze e tecnologie dall'esterno.
L’impressione è che una tutela più forte della proprietà intellettuale si associ ad
una maggiore apertura nei processi di innovazione. Ciò stabilisce un rapporto
stretto tra innovazione e appropriazione della conoscenza, in primo luogo poiché i
brevetti consentono alle aziende di sfruttare le loro innovazioni attraverso la
concessione di licenze, e in secondo luogo perché tale sistema promuove la
specializzazione26. L’uscita del flusso di conoscenza e tecnologia consente alle
organizzazioni di utilizzare canali esterni, che possono rivelarsi più redditizi
rispetto alle strategie interne e che contribuiscono a mantenere alta l’attenzione
verso i cambiamenti tecnologici e le opportunità di mercato dell’ambiente esterno.
Nel modello di innovazione aperta, l’approccio nei confronti dei meccanismi di
protezione è duplice: le imprese vogliono mantenere il proprio vantaggio
competitivo, da un lato attraverso la definizione di un sistema di appropriazione
26 CHESBROUGH H., VANHAVERBEKE W., WEST J. (2006), Open Innovation: Researching a New Paradigm, Oxford University Press, New York, pp. 184-201.
42
dei risultati e, dall'altro, sfruttando il proprio capitale intellettuale. Pertanto, il
grado di protezione necessario varia a seconda della situazione che affronta
l’organizzazione. Probabilmente la posizione intermedia offerta dai mezzi di tutela
giuridica può rappresentare una buona strategia di controllo, offrendo al tempo
stesso alternative per una reazione proattiva di fronte all'emergere di opportunità.
Facendo riferimento ai vari settori dell’economia, le modalità di adozione del
modello dell’Open Innovation appaiono diversificate. Nell'industria farmaceutica,
il portafoglio prodotti delle maggiori aziende proviene principalmente dai grandi
laboratori di R&S. L’innovazione aperta è, però, praticata da decenni. Hanno
aperto i loro processi di innovazione a risorse tecnologiche esterne e hanno
avviato un processo di ricerca di opportunità tecnologiche, visitando università,
imprese biotecnologiche, e acquistando licenze o prodotti da altre aziende. Nel
settore informatico, IBM ha adottato un modello di innovazione aperta più
cooperativo, consentendo a nuove imprese con risorse limitate di utilizzare le
proprie strutture per testare tecnologie promettenti. In alcuni casi ciò ha consentito
alla società di diventare partner nel finanziare e lanciare nuovi prodotti di
successo. Anche attraverso alleanze di ricerca, è possibile condividere i costi
elevati e i rischi considerevoli in cui si incorre per sviluppare tecnologie
all’avanguardia. A differenza di IBM, software e hardware Apple sono ancora
protetti, nel senso che non è consentito ad altre società o agenti esterni di
collaborare con il produttore per apportare migliorie. Tuttavia, una volta rilasciati
hardware e software nel mercato sotto forma di prodotto, gli agenti esterni
possono sviluppare applicazioni che aggiungono funzionalità al prodotto
originale. Concludendo, il paradigma dell’Open Innovation disegna prospettive
strategiche interessanti e diversificate, per cui le aziende, al di là del campo di
attività, possono decidere la misura in cui condividere le proprie risorse con gli
altri.
1.10 Dall’Open Innovation al Crowdsourcing
43
Il termine Crowdsourcing, coniato dalla fusione delle due espressioni outsourcing
e crowd, è un neologismo che definisce un modello di business in cui un’azienda
esternalizza una parte delle proprie attività ad un insieme vasto ed indefinito di
persone, richiamate attraverso un bando pubblico. Anche se la sua paternità è da
tutti riconosciuta allo scrittore Jeff Howe, che per la prima volta ne fece uso in un
articolo pubblicato nel Giugno 2006 dalla rivista Wired, molti autori tengono a
ribadire il fatto che, precedentemente al lavoro di Howe, l’argomento era già stato
ampiamente trattato in letteratura, anche se da punti di vista differenti. Ad oggi
infatti, dopo diversi anni nei quali il fenomeno è stato al centro dell’attenzione in
ambito accademico, sono parecchi gli autori che concordano sulla classificazione
del Crowdsourcing come forma particolare e molto avanzata di Open
Innovation27. Tra questi sicuramente il Prof. Eric von Hippel, che grazie alla Lead
User Theory è oggi considerato da molti come il precursore della teoria del ricorso
al “crowd” (folla), inteso come “massa di utilizzatori esperti e motivati
all’innovazione”. Tra le sue opere, la più recente e probabilmente più famosa
Democratizing Innovation28, è l’esempio di quanto l’autore tenesse a ribadire
l’importanza della conoscenza e della competenza in possesso della massa degli
utilizzatori, come risorsa preziosa nell’ottica di innovazione di prodotto da parte
delle imprese.
In linea generale, il Crowdsourcing non è altro che uno strumento di “problem
solving”. Infatti accade che l’istituzione o l’individuo che presenta un problema da
risolvere, richiede attraverso un bando pubblico, la risoluzione dello stesso
problema ad un gruppo non definito di persone (crowd). Queste persone, o meglio
gli utenti del crowd, si riuniscono in Comunità virtuali le quali forniscono una
serie di soluzioni al problema enunciato; soluzioni che saranno opportunamente
filtrate e valutate preventivamente dalla Comunità stessa e poi in ultimo
dall’impresa. Ciascuno dei partecipanti è libero di sottoporre la propria idea alla
Comunità, e dunque di manifestare la propria competenza sulla materia. Ma è
importante sottolineare che le soluzioni che emergono dal progetto di ricerca
appartengono al soggetto che per primo ha sottoposto il problema all’attenzione 27 HOPKINS R., SLOANE P. (2011), “A Guide to Open Innovation and Crowdsourcing”, Kogan Page, London, pp. 15 ss.28 VON HIPPEL E. (2006), Democratizing Innovation, The Mitt Press, Cambridge, MA, pp. 4 ss.
44
della Comunità, mentre colui che è riconosciuto dalla stessa (e dal proponente)
come ideatore della soluzione, è talvolta ripagato con un premio in denaro, o
molto più spesso con la semplice soddisfazione intellettuale. Il procedimento
appena descritto è rappresentato all’interno della Figura 1.12, e non è altro che il
funzionamento generale di un progetto di Crowdsourcing. Ma come affermato
dallo stesso Jeff Howe, esistono almeno quattro differenti strategie applicative del
modello, variabili a seconda delle regole che vengono formalizzate, di come viene
eseguito l’appello sul web, delle richieste che vengono formulate ai partecipanti,
delle ricompense che vengono eventualmente stabilite per le migliori idee, ed
ancora molte altre variabili.
Figura 1.12: Le singole fasi del Crowdsourcing
Fonte: GEIGER D., SEEDORF S., NICKERSON R., SCHADER M. (2011), “Managing the Crowd: Towards a Taxonomy of Crowdsourcing Processes”, Business Rreview, Detroit.
In definitiva, non esiste approccio più sbagliato e rischioso di quello di avvicinarsi
al Crowdsourcing con superficialità, sperando di ottenere un vantaggio
competitivo semplicemente occupando un sito web ed ordinando ad un gruppo di
persone di fornire le informazioni in proprio possesso. Il Crowdsourcing è una
strategia complessa ed anche piuttosto rischiosa da perseguire, e ne sono un
esempio le decine di società che hanno letteralmente bruciato milioni di dollari di
investimenti nel nome di questa nuova frontiera dell’innovazione29.
29 TUCCI C. (2012), “Crowdsourcing as a solution to distant search”, Academy of Management Review, Vol. 37, No. 3, pp. 355-377.
45
1.10.1 Diverse tipologie di crowdsourcing
Jeff Howe nel suo primo lavoro, effettua una sorta di tassonomia del
Crowdsourcing, distinguendo tra quattro strategie possibili:
1. Intelligenza collettiva o Crowd Wisdom. Si tratta di una delle due
tipologie di piattaforma di Crowdsourcing più comuni, nella quale i
partecipanti sono messi nella condizione di poter esprimere la propria
opinione, e fornire le proprie competenze, in merito ad un argomento
proposto dall’impresa30. Si tratta di un fenomeno già molto affermato
all’interno delle imprese, che trova le sue origini in altre operazioni, come
ad esempio quella di istituire una mailbox per i dipendenti dove questi
anche anonimamente possono fornire suggerimenti o lamentare delle
irregolarità. Molto spesso infatti aziende come IBM, Dell, ma anche
Starbucks o P&G, cercano di coinvolgere un gruppo di persone (tra cui
molti sono semplici appassionati), nella risoluzione di un problema ad alto
contenuto tecnico e tecnologico.
2. Crowd creation. Probabilmente è la forma più datata ma anche più diffusa
di Crowdsourcing. Si basa su questa famosa affermazione di William
Nelson Joy, co- fondatore della multinazionale Sun MicroSystem: “No
matter who you are, most of the smartest people work for someone else”31.
In base a questa frase è giusto pensare che l’impresa debba lavorare
costantemente alla ricerca di nuove competenze al di là dei propri confini
istituzionali, in pieno accordo con i principi fondamentali dell’Open
Innovation. Il caso iStockphoto è un esempio tipico di Crowd creation. Il
contributo di fotografi professionisti o di semplici appassionati, fornito in
cambio di pochi centesimi di dollaro, o semplicemente per la
30 SUROWIECKI L. (2005), The Wisdom of Crowds, Knopf Doubleday Publishing Group, New York, pp. 28 ss.31 “Non importa tu chi sia (una grande impresa di successo o una piccola realtà), in ogni caso gran parte delle persone più competenti lavoreranno per qualcun altro”, traduzione dal discorso di William Nelson Joy, co-founder Sun Microsystem.
46
soddisfazione di partecipare con le proprie opere alla più grande Comunità
virtuale sul tema, è un esempio fondamentale del successo di questo
genere di piattaforme.
3. Crowd voting. Grazie soprattutto ad internet, come del resto in tutti gli
altri casi, il Crowd voting è un strumento sempre più utilizzato dalle
imprese, ed è molto probabilmente la forma di Crowdsourcing che genera
maggior partecipazione in quanto soprattutto quella che richiede uno
sforzo minore da parte dei partecipanti. Spesso è visto dalle imprese come
una via di mezzo tra le strategie di crowd wisdom e crowd creation, nel
senso che “appare come la via più semplice e diretta per scoprire i bisogni
emergenti del mercato, direttamente da chi in prima persona li
percepisce”32. La stessa struttura del “web 2.0”, espressione ormai molto
comune al giorno d’oggi, è basata su un sistema simile al crowd voting.
Basti pensare all’algoritmo che utilizza Google Search per ordinare i
risultati di una ricerca, ovvero in base alla popolarità di ciascun sito. Il
successo sempre più affermato del La stessa struttura del “web 2.0”,
espressione ormai molto comune al giorno d’oggi, è basata su un sistema
simile al crowd voting. Basti pensare all’algoritmo che utilizza Google
Search per ordinare i risultati di una ricerca, ovvero in base alla popolarità
di ciascun sito. Facciamo riferimento, ad esempio agli ormai famosi “like”
di Facebook, ma anche al semplice meccanismo del “voto a casa”,
possibile grazie ai nuovi decoder interattivi. Il successo sempre più
affermato del crowd voting è dovuto proprio alle numerose modalità di
partecipazione ad un argomento, che la nuova organizzazione del web e
dei media in generale ammette.
4. Crowdfunding. Un piattaforma di Crowdfunding, rappresenta un sistema
efficace per facilitare l’incontro tra la domanda di finanziamenti di chi
promuove dei progetti, e l’offerta di denaro da parte di utenti che
sottoscrivono il progetto. Grazie alle piattaforme di Crowdfunding, che in
comune ai siti di Crowdsourcing hanno la partecipazione di massa e una
32 HOWE J. (2008), Crowdsourcing: Why the Power of the Crowd is Diving the Future of Business, Three Rivers Press, New York, pp. 81 ss.
47
struttura organizzativa simile, è dunque possibile partecipare attivamente
alla realizzazione di un progetto, che desta un certo interesse nella
Comunità, ma che manca di fonti finanziarie adeguate. In questo modo una
nuova idea, un nuovo prodotto, o un nuovo processo di produzione di un
bene, hanno molte più possibilità di essere realizzati (e commercializzati),
anche se a proporre l’idea è una piccola start up, che certamente non gode
di notorietà internazionale e soprattutto delle risorse finanziarie necessarie.
1.10.2 I benefici per l’impresa
I benefici del Crowdsourcing per l’impresa, non sono legati esclusivamente ai
minori costi, sia diretti che indiretti, necessari per produrre innovazione. Ad
esempio nel Crowdsourcing sono presenti i vantaggi derivanti dalla fluidità e
facilità di gestione della forza lavoro, e ancora i benefici generali apportati
all’immagine aziendale, in termini di diffusione e senso di impegno dell’impresa
ad innovare e soddisfare i bisogni della Comunità. Pertanto alcuni dei più
importanti benefici del Crowdsourcing possono essere elencati di seguito:
� Presenza di sistemi remunerativi “economici ed innovativi”.
Nonostante le numerose possibilità di remunerazione, dai micro-
pagamenti a ricompense milionarie, oltre alla possibilità di non prevedere
alcuna ricompensa in denaro, appare comune a tutte le diverse forme di
Crowdsourcing, la capacità di ridurre i costi di produzione
dell’innovazione. Anche perché spesso i membri del crowd considerano il
proprio contributo non come una normale attività lavorativa, ma chiedono
in cambio del loro sforzo altre tipologie di ricompense (spesso a carattere
morale).
� Riduzione del rischio. Rispetto alle altre forme di outsourcing, grazie al
Crowdsourcing l’impresa riduce il rischio di dipendenza della fornitura di
un servizio da una singola entità, che sia un’impresa o un singolo
individuo. Inoltre lo schema remunerativo previsto per i contributi,
48
qualora a questi fosse riconosciuta una ricompensa in denaro, spesso è tale
da abbattere il rischio di dover pagare in ogni caso, anche soluzioni di
minore successo.
� Maggiore qualità dell’output e time-to-market più breve. Le imprese
grazie al Crowdsourcing ottengono la possibilità di accedere ad un elevato
numero di collaboratori esperti, diminuendo considerevolmente i tempi di
sviluppo e conseguentemente il cosiddetto time-to-market. La qualità
dell’output è superiore rispetto a qualsiasi altro modello di innovazione, in
quanto nel Crowdsourcing, in particolare in quello creativo, “la qualità del
contributo non equivale alla media dei contributi dei partecipanti, ma al
migliore dei contributi di questi”33.
� Una percezione di novità assoluta nei confronti della soluzione fornita
dal prodotto, in quanto lo stesso Crowdsourcing è un fenomeno nuovo, e
pertanto i prodotti ottenuti attraverso una sua elaborazione saranno
percepiti dal mercato come nuovi allo stesso modo.
� Esternalità di rete e positive feedback. Al crescere del numero degli
utenti coinvolti nel Crowdsourcing, i progetti di successo beneficeranno di
un numero sempre crescente di collaboratori pronti non solo a lavorare
per il prodotto, ma anche a pubblicizzarlo, a tutto vantaggio del valore sia
del progetto che dei suoi risultati. Si pensi alle centinaia di programmatori
che lavorano per fornire gli AppStore dei più famosi marchi di
smartphone di applicazioni sempre nuove ed interessanti. Anche se il
servizio è gestito nel suo complesso dall’azienda madre, che sia essa
Apple, Google, Microsoft o Blackberry, esso esiste solo grazie al
contributo indispensabile degli sviluppatori esterni, che a loro volta,
guadagnando in base alle commissioni sul numero dei download, hanno
tutto l’interesse a sponsorizzare la piattaforma.
In conclusione, i benefici finora citati non sono altro che i principali vantaggi che
33 HOWE J. (2008), Crowdsourcing: Why the Power of the Crowd is Diving the Future of Business, Three Rivers Press, New York, pp. 37 ss.
49
caratterizzano il Crowdsourcing. Ma accanto a questi ce ne saranno sicuramente
altri, magari più specifici rispetto al particolare approccio che si è scelto di
adottare.
1.11 “La Tripla Elica”: Università-Stato-Imprese
Nell’economia della conoscenza il ruolo del sistema della scienza, e quindi delle
università, è cambiato. Esiste il bisogno di intensificare le interazioni fra il mondo
della ricerca ed il mondo industriale che ne utilizza i risultati, in linea con quanto
emerge dai modelli a catena dell’innovazione. L’agenda di Lisbona, aggiornata nei
Consigli europei di Stoccolma e Barcellona del 2001 e 2002, prevede il
coinvolgimento di soggetti diversi; fra questi, le università e gli Enti di ricerca
svolgono un ruolo particolarmente importante, in considerazione del loro
tradizionale compito di ricerca e, per gli Atenei, d’insegnamento, nel processo
dell’innovazione e di contributo allo sviluppo della concorrenza dell’economia.
Questi elementi delineano un quadro in cui gli attori di quello che fin qui è stato
definito il sistema nazionale dell’innovazione, università, imprese e stato, sono
chiamati ad integrarsi ed interagire sempre più operando come un’unica entità. Per
queste ed altre ragioni Etzkowitz da tempo ha introdotto, e sostiene, un nuovo
principio economico che lui stesso definisce la “Tripla Elica” riferendosi ai
rapporti che intercorrono fra quegli attori e richiamando, implicitamente, alla
struttura del DNA (la doppia elica), la molecola che regola la vita dei sistemi
biologici. La teoria della tripla elica sostiene, dunque, che l’evoluzione delle
interazioni fra università, imprese e Stato sia la chiave per l’avanzamento
dell’innovazione nella società della conoscenza. La tripla elica presuppone che
siano in corso trasformazioni a diversi livelli: non solo nelle relazioni che
intercorrono fra i diversi soggetti, ma anche internamente a ciascuno di essi.
Etzkowitz parla di sfere che assumono il ruolo le une delle altre, cooperando ed
essendo in competizione al tempo stesso, e assume come punti di riferimento due
modelli estremi, quello “statalista” dell’ex Unione Sovietica e quello “liberista”
degli USA, per spiegare come, nella tripla elica, si stia volgendo verso un nuovo
modello globale per l’analisi e l’interpretazione delle dinamiche dell’innovazione
(figura 1.13 ).
50
Figura 1.13: I diversi modelli di integrazione Università-Stato-Imprese
Fonte: ETZKOWITZ H., LEYDESDORFF L. (2000), “The dynamics of innovation: from National System and “Mode 2”to a Triple Helix of university-industry-government relations”, Research Policy, Vol. 29, No. 2, USA, pp. 109-123.
1.11.1 Il modello statale
Questo modello, uno dei punti di partenza estremi, da cui prende avvio
l’evoluzione verso il nuovo modello descritto da Etzkowitz, può essere ben
simboleggiato dalla ex Unione Sovietica e da alcuni governi europei e
dell’America latina, nell’era in cui le imprese statali erano predominanti. In questi
paesi il governo era la sfera dominante e università e industrie erano
fondamentalmente parte di esso, che aveva il ruolo di organizzare e coordinare i
rapporti fra gli attori. In questo contesto lo Stato è quindi il “leader” e università e
imprese sono istituzioni relativamente deboli che necessitano di guida, se non
addirittura di controllo. L’università, in particolare, è considerata
fondamentalmente come il soggetto responsabile della formazione delle figure
professionali che andranno ad operare nelle altre sfere, magari facendo ricerca, ma
51
non si considera affatto l’eventualità che dal mondo accademico possano nascere
direttamente nuove imprese. Questo modello però, entra in crisi quando il governo
comincia a perdere il controllo di questo processo “top-down”, a causa
dell’emergere di nuove dinamiche di aggregazione sociale che portano alla nascita
di nuove idee e ad un paradigma di “bottom-up innovation”. Etzkowitz cita
estensivamente l’esempio degli incubatori di impresa in Brasile, dove il concetto
importato dagli USA nei primi anni ‘80, fu reinterpretato ed adattato per ottenere
una varietà di risultati economici e sociali, fra cui l’intento di elevare il livello
tecnologico delle imprese esistenti, ad esempio, attraverso la creazione di “design
incubators” per aiutare le aziende a creare nuovi prodotti o unità di business34.
1.11.2 Il modello liberista
L’alternativa opposta al modello statalista è quella, tipicamente esemplificabile
con il caso statunitense, del liberismo economico, in cui ciascuna sfera opera
competitivamente piuttosto che cooperativamente con le altre. In questo contesto
è operata una netta separazione, almeno teorica, fra i diversi soggetti che porta ad
una stretta definizione dei ruoli istituzionali di ciascuno, con confini marcati e
conseguente difficoltà nella interazione reciproca. L’università, in questo modello,
è considerata come il fornitore di ricerca di base e personale qualificato, ma è
responsabilità unicamente del mondo industriale individuare ed internalizzare le
conoscenze dotate di una qualche utilità, senza aspettativa di assistenza. Il ruolo
del governo è solo di tipo regolamentare, ovviamente essendo anche questo
ridotto al minimo indispensabile, e commerciale, con lo stato che agisce come un
cliente nei confronti dell’industria, e solo in casi eccezionali, come le grandi
depressioni, questo equilibrio viene a mancare in favore di un intervento più
marcato da parte del governo nel sistema di relazioni. È evidente che, in questo
modello, le interazioni fra stato, imprese e università sono ridotte al minimo ed
anche quando queste avvengano ciascun attore tende a difendere fortemente i
confini della propria istituzione (e attività) e, spesso, queste relazioni sono
mediate da soggetti terzi. È evidente che, in questo modello, le interazioni fra
34 ETZKOWITZ H. (2003), “Innovation in innovation: The Triple Helix of University-Industry-Government relations”, Social Science, SAGE Publications, Vol. 42, No. 3, London, pp. 293-337.
52
stato, imprese e università sono ridotte al minimo ed anche quando queste
avvengano ciascun attore tende a difendere fortemente i confini della propria
istituzione (e attività) e, spesso, queste relazioni sono mediate da soggetti terzi.
Per esempio negli Stati Uniti, ai tempi in cui le università non erano ancora
direttamente coinvolte nelle attività di deposito e licenza di brevetti, esisteva una
organizzazione senza scopo di lucro, chiamata Research Corporation, che si
occupava di identificare le invenzioni brevettabili e di licenziarle alle imprese.
Università e imprese interagivano, quindi, ma in maniera mediata ed esisteva la
convinzione che non fosse opportuno entrare direttamente in contatto l’una con le
altre. Questo modello, basato prevalentemente sulle leggi di mercato, entra in crisi
quando i mercati stessi entrano in crisi e la competizione internazionale diviene
più pressante. Fu così, ad esempio, che il governo degli Stati Uniti cominciò ad
intervenire nei rapporti fra le diverse sfere in occasione della depressione degli
anni ’70, dapprima in modo indiretto, agendo sulle politiche di gestione della
proprietà intellettuale e attribuendo alle università la responsabilità del
trasferimento al mondo industriale dei risultati della ricerca finanziata dal governo
federale e, successivamente, con alcune politiche dirette a promuovere
l’aggregazione delle imprese e la ricerca pre-competitiva congiunta.
1.11.3 La teoria della Tripla Elica
La crescita di interazioni fra università, imprese e Stato, come partner egualitari, e
lo sviluppo congiunto di nuove strategie innovative e attività, frutto di questa
cooperazione, sono il cuore della teoria della tripla elica di Etzkowitz, presentata
come modello per un nuovo sviluppo economico e sociale. La tripla elica diviene
anche la piattaforma per la nascita di nuove forme istituzionali e la costituzione di
nuovi format organizzativi per promuovere l’innovazione, come gli incubatori, i
parchi scientifici e le imprese di venture capital. Queste organizzazioni sono
proprio il frutto dell’interazione fra imprese, università e stato e rappresentano,
esse stesse, una sintesi degli elementi della Tripla Elica. In particolare, uno degli
aspetti chiave della teoria della Tripla Elica riguarda il rapporto fra il Sistema
Nazionale dell’Innovazione e la Tripla Elica. Infatti, secondo Etzkowitz, sebbene
gli attori che prendono parte ai due sistemi siano gli stessi, il nuovo sistema da lui
53
proposto si differenzia fortemente da quella che è l’interpretazione classica del
SNI nell’economia della conoscenza, poiché mentre in quest’ultimo ciascuna
istituzione opera secondo un unico asse, nella tripla elica ciascuna sfera opera
lungo due assi, un asse “x” in cui riveste il suo ruolo tradizionale ed un asse “y” in
cui assume nuovi ruoli. Blumenthal ha dimostrato, come i ricercatori di scienze
biomediche negli Stati uniti, che sono maggiormente coinvolti in attività con le
industrie, siano anche quelli con il maggior numero di pubblicazioni scientifiche35.
Tuttavia, evidenze empiriche, hanno dimostrato che, specialmente in Europa, il
flusso di conoscenze tra il mondo accademico e il mondo industriale non è privo
di ostacoli. Infatti, sebbene il sistema scientifico europeo sia estremamente
avanzato e generi una porzione importante del sapere globale, è solo una minima
parte di questo ad essere trasferita al sistema delle imprese. Uno degli elementi
principali della teoria di Etzkovitz riguarda il fatto che ciascun attore della tripla
elica debba subire dei cambiamenti interni, alla propria sfera, per essere davvero
“pronto” ad entrare a far parte del nuovo modello. In questo senso, si potrebbe
dire che la tripla elica fornisca una interpretazione socioeconomica
dell’innovazione, mentre l’Open Innovation ha un focus maggiormente rivolto
alla strategia aziendale, in altre parole, si tratterebbe di visioni complementari che
operano a diversi livelli.
35 BLUMENTHAL D., GLUCK M., LOUIS KS., WISE D. (1986), “Industrial Support of University Research in Biotechnology”, Science, Vol. 231, No. 4735, pp. 242-246.
54
CAPITOLO 2
SOCIAL INNOVATION E CROWDFUNDING
2.1 Introduzione alle innovazioni sociali
Siamo abituati a pensare l’innovazione come qualcosa che avviene nelle
università e dentro i laboratori delle grandi società. È lì che i veri scienziati sono
al lavoro, con i loro saperi avanzati e competenze esclusive, per sfornare nuovi
prodotti che portano benefici per tutti. Alle questioni sociali ci pensa lo Stato, con
i suoi servizi sociali, il sistema sanitario, le politiche economiche e di sviluppo. In
realtà, nel mondo le cose non funzionano proprio così. Prima di tutto,
l’innovazione commerciale non è più unicamente una questione riguardante nuovi
prodotti e nuovi beni di consumo. Infatti gran parte delle innovazioni che hanno
veramente fatto la differenza negli ultimi anni sono state innovazioni sociali:
media sociali come Facebook che permettono nuovi modi di relazionarsi,
organizzare progetti e stare insieme; piattaforme come Iphone che forniscono una
grande quantità di servizi e li integrano in uno strumento solo diventando così
parte integrata della vita quotidiana. Inoltre, molte di queste innovazioni sociali,
specialmente nel campo del software, non sono più il prodotto esclusivo di grandi
società e centri di ricerca, ma incorporano la quotidiana creatività di piccole
imprese e persino individui che adesso riescono a mettersi in contatto fra simili e
collaborare (basti pensare per esempio, alle molte comunità di sviluppatori di Free
o Open Source Software). Le grandi società multinazionali hanno scoperto il 322
e cercano di catturarlo in un’ottica di Open Innovation.
55
2.2 Social Innovation
L’innovazione sociale dev’essere considerata una risorsa strategica per tutti i Paesi
che vogliono pensare allo sviluppo della società in modo nuovo. Anche in Italia si
inizia a discutere, con maggiore interesse rispetto al passato di “social innovation”
come driver per la nostra economia. Esistono molte definizioni in letteratura di
innovazione sociale che dimostrano quanto sia complesso tracciare dei confini
analitici ad un fenomeno i cui caratteri essenziali si manifestano nelle pratiche.
Tuttavia la molteplicità di definizioni e di usi del termine innovazione sociale, ci
induce ad adottare un approccio definitorio comune. La definizione più completa
è contenuta nel Libro Bianco sull’innovazione sociale, scritto da Robin Murray,
Julie Caulier e Geoff Mulgan: “Definiamo innovazioni sociali le nuove idee
(prodotti, servizi e modelli) che soddisfano dei bisogni sociali (in modo più
efficace delle alternative esistenti) e che allo stesso tempo creano nuove relazioni
e nuove collaborazioni. In altre parole, innovazioni che sono buone per la società
e che accrescono le possibilità di azione per la società stessa”36. Il suo obiettivo è
quello di migliorare il benessere degli individui e creare innovazioni buone sia per
la società sia per accrescere la capacità di azione della società stessa. Una serie di
iniziative, dunque, sia profit che non profit, che cerca di rafforzare il tessuto
civico, favorendo relazioni orizzontali e comunitarie e colmando il più delle volte
i vuoti lasciati dai governi nazionali: si va dal microcredito al crowdfunding (il
finanziamento di servizi o prodotti in modo distribuito attraverso Internet), dalle
social enterprise alla cosiddetta sharing economy, la possibilità di utilizzare un
bene senza doverlo acquistare. All’origine di questi processi di innovazione
esistono pressioni sociali esercitate dall’esistenza di bisogni insoddisfatti (es.
servizi sanitari di prossimità), di risorse sprecate, di emergenze ambientali (come
36 “We define social innovations as new ideas (products, services and models) that simultaneously meet social needs (more effectively than alternatives) and create new social relationships or collaborations. In other words they are innovations that are both good for society and enhance society’s capacity to act”.
56
la qualità dell’aria nei centri urbani) o sociali (es. crescenti aree di disagio e
marginalità). La fornitura diretta di prodotti e servizi in grado di soddisfare tali
bisogni non è più garantita né dal mercato né dalle amministrazioni pubbliche.
Questo vuoto politico e fallimento di mercato apre il campo alle risorse e forze del
privato sociale, all’imprenditorialità dal basso, alle comunità di cittadini che si
organizzano per soddisfare nuovi e vecchi bisogni, per ottimizzare l’utilizzo delle
risorse e per garantire un miglioramento sociale. L’innovazione sociale non è solo
un’idea radicale, ma una pratica innovativa, ovvero l’applicazione efficace e
sostenibile di una nuova idea di prodotto, servizio, modello. La capacità di essere
efficace si riferisce all’uso ottimale di risorse per il conseguimento di un risultato
sociale, in pratica la dimostrazione che l’idea funziona meglio delle soluzioni
esistenti e genera valore per la società. Le pratiche di innovazione sociale non solo
rispondono in modo innovativo ad alcuni bisogni, ma propongono anche nuove
modalità di decisione e di azione. In particolare propongono di affrontare
complessi problemi di natura orizzontale attraverso meccanismi di intervento di
tipo reticolare, adottando l’intera gamma degli strumenti a disposizione; utilizzano
forme di coordinamento e collaborazione piuttosto che forme verticali di
controllo. Richiedono inoltre l’utilizzo di strumenti e processi di supporto al
“design thinking”, inteso come capacità di formulare e implementare soluzioni.
Questo aumenta le capacità di azione della collettività che si mobilita, crea nuovi
ruoli e relazioni tra gli attori coinvolti, coinvolge nella produzione di risorse e
capitale umano sotto utilizzato. Il potenziale impatto di una pratica innovativa sul
contesto sociale è tanto più elevato quanto più inclusivo è il processo di
coinvolgimento della comunità. Questa mobilitazione di risorse umane porta ad
un attivismo diffuso in grado di moltiplicare energie e iniziative di servizio del
miglioramento sociale. Non ci sono attori o settori più idonei di altri nello
sviluppare pratiche di innovazione sociale. Le esperienze più interessanti e
radicali sono il frutto della collaborazione tra diversi attori appartenenti a mondi
diversi. Le pratiche di innovazione sociale tendono a collocarsi al confine tra non-
profit, pubblico, privato, società civile (volontariato, movimenti, azione collettiva,
57
etc..), sono trasversali e frutto di interessanti contaminazioni di valori e
prospettive. Nascono da nuove forme di collaborazione e di cooperazione tra
soggetti di diversa natura che trovano un allineamento di interessi per il
raggiungimento di un obiettivo comune. Dunque l’innovazione sociale ha una
spiccata dimensione collettiva e non appartiene solo all’immaginazione e alla
creatività di un attore singolo, quanto alla capacità collettiva di partire da
un’intuizione e di svilupparla sino a trasformarla in pratica diffusa. In
conclusione, possiamo dire che per innovazione sociale si intende un modo di
organizzare l’attività umana, nel lavoro come nell’impegno sociale e politico,
dove le potenzialità della vita e delle persone vengono messe all’opera con finalità
di natura etica. In modo più pragmatico, si può parlare di una tipologia di
innovazione capace di creare nuovi saperi tecnici o organizzativi, di un approccio
manageriale ai problemi sociali, dell’utilizzo di tecnologie, strumenti, forme
organizzative finalizzate a creare attività imprenditoriali partendo da una socialità
di rete. L’innovazione sociale chiede infatti idee, creatività, coraggio, metodologie
innovative per trasformare principi teorici e ricerca accademica in prodotti e
servizi da offrire a un mercato sempre più attento ai bisogni delle persone e alla
sostenibilità: obiettivi importanti per le imprese sostenibili, le istituzioni
responsabili, i territori “intelligenti”. Dunque un tema, quello della social
innovation, destinato a diventare sempre più strategico, soprattutto in tempi di
crisi come questi. La Comunità Europea sta dedicando al settore risorse
consistenti, finanziando grandi processi di ricerca nei suoi Programmi Quadro dei
prossimi anni. Il Programma comunitario per il cambiamento e l’innovazione
sociale mira ad avere un impatto diretto sulle politiche del lavoro, promuovendo
l’occupazione e l’inclusione sociale, migliorando l’accessibilità al microcredito
per le microimprese e facilitando l’erogazione di finanziamenti alle imprese
sociali. L’innovazione sociale, quindi, sotto questo aspetto, mostra un’altra strada
basata su una moltitudine di iniziative e di esperimenti quotidiani.
58
2.2.1 I processi della Social Innovation
Esistono sei step utili per lo sviluppo effettivo della “Social Innovation”. Questi
momenti non sono sempre sequenziali in quanto alcune innovazioni compiono dei
veri e propri balzi. Questi sei momenti rappresentano una soluzione per pensare ai
differenti supporti che gli innovatori tanto quanto le innovazioni hanno bisogno
per crescere.
Figura 2.1: I sei momenti della Social Innovation
Fonte: adattamento da Murray R., Caulier Grice J., Mulgan G. (2010), The Open Book of Social Innovation, The Young Foundation, NESTA.
1. Suggerimenti. In questo primo livello sono compresi tutti quei fattori che
sottolineano il bisogno di innovazione come la crisi, il taglio della spesa
pubblica e via discorrendo così come le ispirazioni che danno vita al
processo. Uno dei momenti critici in questa prima fase è l’individuazione
del problema che dovrà essere in un certo senso interrogato e
contestualizzato, in modo tale da trovare le possibili soluzioni su cui
lavorare.
2. Proposte e idee. Farsi la giusta domanda è il primo step per trovare la
59
giusta soluzione, e una volta che la giusta domanda è stata formulata vi è
una serie di metodi per ricercare e suggerire le soluzioni migliori ad un
dato problema. Questo è il momento in cui si generano le idee e può
richiedere il ricorso a metodi pensati per incoraggiare la creatività e la
produzione di idee che siano effettivamente nuove come premi e concorsi,
piattaforme online e banche di idee. Le idee derivano da diverse risorse,
dai cittadini, dalle comunità, da altri settori o da altri paesi. In particolare
vi è una serie di metodi, soprattutto nel campo del design, che aiutano a
coinvolgere le persone per sviluppare insieme delle soluzioni, prendendo il
nome di “co-design”37, come il sito australiano, web2care, per persone
disabili e i loro assistenti. La Toyota, invece, ha impiegato dei metodi per
il miglioramento continuo, mirati a generare idee nuove attraverso dei
circoli di dibattito formati da chi lavora in prima linea. Questo metodo si
basa sull’idea che i lavoratori possano avere una migliore conoscenza
riguardo le innovazioni potenziali rispetto ai manager o al personale
esterno all’azienda. Edward W. Deming, l’ideatore del metodo Toyota,
creò un sistema di gestione basato sulla collaborazione tra manager e lo
staff definendolo “metodo della produzione dei saperi”38.
3. Prototipi. Una volta che un’idea è proposta, essa ha bisogno di essere
testata nella pratica. Le idee infatti si sviluppano attraverso prove ed errori
ed è raro che un’idea emerga già completamente formata. Vi sono molti
modi per testare le idee e rifinirle, da quelli formali di verifiche controllate
a prototipi ed esperimenti. Non appena un’idea passa attraverso le diverse
fasi della verifica, essa si trova difronte a molte sifide: la fattibilità del
prodotto, come consegnare un servizio, come si muove l’economia, come
risparmiare. I metodi più utilizzati possono essere la messa a punto di
prototipi, ovvero la progettazione di un prodotto o servizio impiegato per
testare le relazioni dei potenziali clienti e fornitori. Durante questo livello,
possono anche essere concessi finanziamenti di vario tipo: piccole
concessioni, prestiti convertibili, commissioni dirette, premi e così via che
37 Murray R., Caulier Grice J., Mulgan G. (2010), The Open Book of Social Innovation, The Young Foundation, NESTA.38 Op. cit, 35.
60
hanno tutti l’obiettivo di distribuire i fondi e incentivare l’innovazione.
4. Conferme. Solo una parte delle idee riesce a sopravvivere dopo i test,
poiché quando un’idea è nuova, è probabile che ci siano molte alternative
in concorrenza. Pensiamo per esempio alla bicicletta, nei primi decenni
della sua invenzione ha assunto forme diverse prima che una pratica
variante divenisse dominante. In questo contesto, i feedback del pubblico
sono molto utili, ma i metodi di valutazione hanno un ruolo vitale nella
decisone di quale sia un successo o un fallimento. La capacità di giudicare
un’innovazione è fondamentale per il successo di un sistema innovativo.
Per quelle idee che sopravvivono ai test, avviare un prodotto o un servizio
implica anche lo sviluppo di un modello economico che ne assicuri il
futuro finanziario. Sostenere un’idea in ottica sociale implica diversi
elementi chiave:
creare un business. Trasformare una buona idea in qualcosa che sia
sostenibile dipende dal modello di business e da una chiara idea di come si
può generare un guadagno sufficiente per coprire i costi e ottenere un
profitto;
proprietà e forme organizzative. Ogni iniziativa deve decidere quali forme
organizzative prendere, quali decisioni e quali processi di responsabilità
adottare, e così via;
organizzazione e modelli di gestione. Gran parte dell’economia sociale è
costituita da organizzazioni simili a quelle dello stato o del business
privato; esse presentano una struttura piramidale che vede l’autorità
diminuire man mano che ci si allontana dal vertice mentre la fiducia
viceversa aumenta avvicinandosi al vertice;
operazioni. Il valore di un’impresa sociale dipende non solo dalla sua
struttura ma anche dalle sue operazioni e come essa lavora con altre
imprese, l’uso della tecnologia o i lavori in partnership;
risorse finanziarie. Per le imprese sociali è importante che la fonte dei
finanziamenti condivida con l’impresa i suoi obiettivi sociali. Questo però
non è sempre possibile. Ottenere capitale può significare scendere a
compromessi con chi fornisce questo capitale, ma l’obiettivo deve sempre
61
essere quello di far sì che i finanziamenti vengano da chi condivide la
mission dell’impresa;
sostenere le innovazioni attraverso il settore pubblico.
5. Diffusione. Ci sono molti modi per far crescere le innovazioni sociali dalla
crescita degli enti, dal franchising alla collaborazione e diffusione più
minuta. In realtà la maggior parte delle idee sociali si sono diffuse non
attraverso la crescita di una organizzazione ma attraverso l’emulazione.
L’innovazione sociale essendo orientata attorno alle missioni sociali,
preferisce la condivisione rapida di un’innovazione, piuttosto che tenerla
riservata. Questa è anche una ragione per cui l’economia sociale ha una
minor propensione alla crescita delle organizzazioni e mira più alla
costruzione di reti collaborative. Indipendentemente dal tipo di sviluppo,
la diffusione di un’innovazione dipende dalla effettiva offerta e dalla
effettiva domanda. La prima si riferisce al fatto che l’innovazione è utile,
mentre la seconda si riferisce alla disponibilità a pagare da parte del
consumatore. Entrambe sono necessarie e le opzioni di diffusione
includono anche lo sviluppo di marchi, licenze, il franchising, l’uso degli
strumenti dei movimenti sociali etc.
6. Cambiamento del sistema. Le innovazioni di sistema sono molto diverse
dalle innovazioni di prodotti o servizi. Esse implicano cambiamenti di
concetti e di mentalità, ma anche dei flussi economici: un sistema cambia
solo quando le persone iniziano a pensare e a vedere in modo differente.
Le innovazioni di sistema possono essere spinte improvvisamente da una
crisi o da una tecnologia distruttiva. Più spesso esse sono il risultato di
lenti processi cumulativi che portano cambiamenti alle infrastrutture, ai
comportamenti e alla cultura. Esempi sono la creazione del welfare state
dopo la seconda guerra mondiale, la diffusione dell'educazione superiore
ed universitaria, la diffusione della democrazia. Approcci sistematici
all'innovazione sono rari. Ma il servizio sanitario britannico è un ottimo
esempio. Esso è impegnato nell'innovazione attraverso investimenti nella
ricerca e nello sviluppo di strumenti medici e farmaceutici, e ha contatti
62
con università d'eccellenza ma anche con grandi industrie come la Pfizer.
Negli ultimi anni ha però constatato che questi strumenti non bastano. Ciò
che oggi ha più impatto per i risultati del servizio sanitario deriva
dall'innovazione dei servizi. Da qui lo sforzo di riunire tutti gli strumenti
necessari per facilitare il passaggio da un sistema incentrato su dottori e
ospedali ad uno dove i pazienti siano responsabili per la cura, supportati da
un sistema costruito per diffondere uno stile di vita più sano.
2.2.2 L’innovazione sociale in azione
L’Unione europea punta molto all’innovazione sociale e spinge anche gli Stati
membri a sostenerla attraverso iniziative diverse. Per esempio, la Dg impresa e
industria della commissione europea ha indetto il concorso “european social
innovation competition 2013 - Unlocking potential, creating new work” per creare
nuove opportunità di lavoro. L’obiettivo dell’iniziativa è individuare le migliori
soluzioni per l’innovazione sociale e aiutare le persone a trovare lavoro o a
riorientare la loro carriera. Le sfide a cui fa riferimento sono incentivare il talento
delle persone; creare o plasmare nuovi mercati in settori in via di sviluppo come,
ad esempio, l’economia verde; incoraggiare le imprese ad assumere giovani per
incrementare il loro successo. In Italia alcune Regioni e altri enti pubblici stanno
sostenendo progetti di innovazione sociale con finanziamenti specifici. La
Regione Piemonte promuove con regolarità iniziative finalizzate al sostegno di
nuove imprese, in particolare innovative, e per favorire l’avvio di attività
economiche da parte dei giovani attraverso il sostegno di imprenditori esperti. Per
esempio, con il patto generazionale gli imprenditori già affermati sul mercato
ricevono un voucher per accompagnare i giovani nell’avvio dell’attività. Il
progetto - che rientra nel Piano giovani della Regione ed è stato condiviso da
Unioncamere Piemonte - ha l’obiettivo di mettere a fattor comune la creatività dei
giovani e l’esperienza di imprenditori eccellenti. Una misura innovativa che
sottolinea l’importanza della collaborazione e della condivisione. Esistono inoltre
nuovi modi di sostenere progetti di innovazione sociale: per esempio, attraverso
forme di “venture philanthropy”, un approccio innovativo all’investimento nel
63
sociale che si basa sulla gestione strategica della relazione con soggetti
tendenzialmente ad alto potenziale di crescita. La venture philanthropy prevede, a
differenza della donazione tradizionale, una strategia di investimento completa i
cui elementi cardine sono costituti dalla valutazione dell’investimento iniziale, la
strategia di uscita, la sostenibilità e l’autonomia dell’organizzazione finanziata,
così come il trasferimento a questa di competenze organizzative e manageriali. Le
quattro caratteristiche fondamentali che distinguono la venture philantropy sono:
1) partnership attiva e di lungo periodo con le organizzazioni non profit per
promuovere la crescita dell’intera organizzazione e non solo singoli progetti; 2) la
capacità di fornire non solo denaro, ma anche competenze, contatti e sostegno
strategico; 3) l’uso non solo di donazioni, ma anche di altri strumenti finanziari
quali prestiti, prestiti partecipativi, quote di capitale; 4) l’attenzione alla
replicabilità degli interventi e all’aspetto complessivo dell’impatto sociale. In tutto
il mondo, inoltre, si assiste a innovazioni relative alle tipologie di attività
lavorative. Anche in questo caso molte sono basate sulla tecnologia, come
“TaskRabbit” o “Slivers of Time”, create nel Regno Unito e che pianificano il
tempo delle persone, le loro ore lavorative, con modalità inedite avvalendosi di
piattaforme digitali. Un’innovazione molto bella, si chiama “The Amazings”,
incentrata su un’idea molto semplice: le persone anziane possono condividere le
loro competenze con quelle più giovani che, in cambio, sono disposte anche a
spendere dei soldi. È un’idea completamente al di fuori del sistema educativo
formale, che crea non solo valore ma anche rapporti intergenerazionali, lanciando
tra l’altro agli anziani un messaggio molto positivo: consideratevi persone
“amazing”, meravigliose, con esperienze meravigliose da condividere. Negli
ultimi anni, si sta assistendo anche alla nascita di un nuovo tipo di politica,
scaturita dall’innovazione sociale. In Islanda, ad esempio, nel 2012, i cittadini
hanno usato il web per riunirsi, per stendere una nuova Costituzione, mettendo al
lavoro un comitato e successivamente tenendo un referendum per approvare il
documento preparato. La Finlandia, ha un ministero in cui i cittadini possono
aggregarsi per proporre temi da dibattere in Parlamento. Dunque, è in corso
un’innovazione anche nel processo di generazione della politica. Un altro progetto
interessante che si sta sviluppando nel Regno Unito si chiama “UpRising” che
64
forma giovani leader under 25 , insegnando loro come esercitare il potere politico.
UpRising opera in diverse città selezionando un gruppo di giovani che hanno
spiccata familiarità con Facebook, le petizioni, le campagne online rivolte al
cambiamento. Durante il corso che frequentano, della durata di un anno, devono
anche svolgere una campagna offline e sperimentare in prima persona che cosa
significa conseguire un cambiamento. Un altro settore in cui stanno emergendo
forme di innovazione è quello dei trasporti. Con la city – car Hirko, per esempio è
stato introdotto per la prima volta in Spagna un sistema di trasporti pubblici a
noleggio che si avvale di vetture elettriche che possono essere ripiegate su se
stesse. È un’innovazione sociale perché richiede modello di finanziamento
diversi, metodi di ricarica diversi e anche una nuova organizzazione sociale del
processo di progettazione della tecnologia, svolto in questo caso da una rete di
cooperative nei Paesi Baschi. Il sistema del Bike sharing, diffuso in molte città
italiane e ispirato ai principi della mobilità sostenibile, rappresenta la forma di
spostamento urbano più conveniente risparmiando tempo e denaro e contribuendo
ad una mentalità “green” dell’ambiente.
2.2.3 L’Italia crede nell’innovazione sociale
Una ricerca realizzata dall’Istituto Ce&Co per il Salone della Csr e
dell’innovazione sociale, nel mese di luglio 2014 su un campione rappresentativo
della popolazione italiana adulta (18-65 anni), ha testato undici esempi di
innovazione sociale: gruppi di acquisto solidale, car sharing/bike sharing,
acquisti a km zero, acquisto di prodotti sfusi o alla spina, banca del tempo, car
pooling, co-working, orti urbani, investimenti etici, crowdsourcing,
compravendita dell’usato sul web. Secondo la ricerca,39 il 90% del campione
conosce gli acquisti sfusi alla spina, sperimentati dal 44%, mentre il 49% dichiara
che vi aderirebbe senz’altro; l’87% conosce gli acquisti a km zero, il 48% li ha
sperimentati e il 60% lo farebbe; l’85% del campione sa cos’è il car o bike
sharing, il 9% ne ha fatto uso e il 28% è disposto a sperimentarlo. Meno noti il
39 ADNKRONOS 2014, “Dal car sharing al km zero, italiani promotori di innovazione sociale”, Milano.
65
crowdsourcing, conosciuto dal 38% del campione e sperimentato dal 4%, o il co-
working, noto al 41% degli intervistati e sperimentato dal 2%. I promotori
dell’innovazione sociale sono circa il 25% del campione intervistato e li troviamo
in ugual misura al Nord come al Sud, fra gli uomini e le donne. L’interesse verso
nuovi stili di vita e consumo è unanime: il 90% del campione considera questi
strumenti e servizi importanti. Ma quali benefit spingono ad aderire alle
esperienze di innovazione sociale e qual è il loro peso? Sono cinque, in ordine di
importanza: queste esperienze “danno fiducia nella qualità dei prodotti / servizi
acquistati”, “sono attività pratiche e funzionali, si risparmia tempo e si fa meno
fatica”, “consentono a volte di fare buoni affari”, “fanno davvero risparmiare
denaro”, “riducono gli sprechi e aiutano a preservare l’ambiente”40.
2.3 Il Crowdfunding come esperienza sociale
Nell’ambito della Social Innovation, i social media e Internet sono diventati degli
ottimi strumenti in grado di creare comunità virtuali dedicate ad una particolare
causa o iniziativa. Così, negli ultimi anni, molti individui hanno creato
piattaforme e progetti di crowdfunding per risolvere un problema sociale o
semplicemente per portare avanti il cambiamento sociale e l’innovazione.
L’origine del crowdfunding risale alla fine degli anni ’90 grazie ai primi siti web
dedicati a campagne di raccolta fondi, principalmente per beneficenza, che
utilizzavano la rete come strumento per ampliare le tradizionali campagne di
“fundraising”41. Il crowdfunding, letteralmente “finanziamento dalla folla”,
consiste in un finanziamento collettivo, basato sull’appello rivolto dai promotori
di un progetto con finalità economiche o sociali ai frequentatori della Rete
affinché forniscano fondi utili alla sua realizzazione. Si tratta di una moderna
versione di quella che in passato si sarebbe definita “colletta”. Questo strumento,
è una tecnica di finanziamento adatta a progetti d’investimento che non hanno
bisogno di risorse in quantità elevata e per i quali altre forme di partecipazione
40 Op. cit, 37.41 SPINELLI C. (2012), “Il crowdfunding: tra autoproduzione e social commerce, storia dello strumento che potrebbe cambiare le regole del fare impresa”, Tafter Journal, No. 48.
66
alla loro realizzazione e al rischio d’impresa, come ad esempio l’attività di venture
capital, non sono praticabili. L’idea che sta alla base del crowdfunding è molto
simile a quella del microcredito, per cui piccole somme di denaro possono
contribuire allo sviluppo economico, garantendo l’accesso all’uso delle risorse a
soggetti o progetti normalmente esclusi dai principali circuiti finanziari.
Oggi questo concetto, combinato alle nuove tecnologie di Internet e dei social
network, permette ancora più facilmente di arrivare a questi obiettivi, dandoci la
possibilità di raggiungere anche coloro che sono fuori dal nostro gruppo, dalla
nostra cerchia di persone e che non conosciamo e che invece potrebbero avere
interesse in ciò che vogliamo realizzare. Il crowdfunding ha però raggiunto la
popolarità nel 2008 quando il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riuscì a
raccogliere buona parte del denaro necessario per la campagna elettorale grazie a
questo sistema. Proprio tra il 2008 e il 2009 negli USA nascono le due più famose
piattaforme di crowdfunding al mondo per numero di utenti: Indiegogo e
Kickstarter. Indiegogo è stata la prima piattaforma di crowdfunding nata
dall’esigenza di trovare fonti di finanziamento alternative per la realizzazione di
un film. “Quando i nostri fondatori hanno unito le forze nel 2007, avevano diversi
background e diversi interessi. Tuttavia, avevano una cosa importante in comune:
Danae, Eric e Slava hanno cercato di raccogliere i soldi per qualcosa cui erano
appassionati; avevano grandi idee, la passione di lavorare sodo, e buone reti, ma
l’accesso ai finanziamenti attraverso i canali tradizionali si è rivelata limitata. Il
trio era determinato a trovare una soluzione al problema: Indiegogo è nato come
una soluzione di crowdfunding che consente da un lato, di realizzare idee e,
dall’altro, permette alle persone di donare facilmente”42. In quell’occasione è
stato creato il sito attraverso cui poter ricevere i finanziamenti e nel 2012 il
Presidente Obama ha avviato una partnership con Indiegogo per favorire la
raccolta di finanziamenti agli imprenditori americani.43
Kickstarter nasce nel 2009 ed è stata definita dalla rivista “Time” una delle
migliori invenzioni nel 2010 e il miglior sito web nel 2011.44 Kickstarter è un sito
42 www.indiegogo.com/about/our-story43 Op. cit, 40.44 Fonte Wikipedia, http://it.wikipedia.orh/wiki/Kickstarter
67
web di crowdfunding per progetti creativi, tramite il quale sono stati finanziati
diversi tipi di iniziative imprenditoriali, tra cui film indipendenti, musica,
spettacoli teatrali, fumetti, giornalismo, videogame e progetti legati
all’alimentazione. Esso si configura come una piattaforma “reward-based”, che
significa supportare un progetto in cambio di una ricompensa materiale o
un’esperienza, dalla semplice lettera personale di ringraziamenti, alla maglietta
personalizzata, da una cena con un autore alla partecipazione al primo collaudo di
un nuovo prodotto. Come tutte le piattaforme, anche Kickstarter facilita la raccolta
di risorse monetarie dal pubblico generico; i creatori del progetto scelgono una
data di scadenza e un minimo di fondi da raggiungere. Se il target stabilito non
viene raggiunto entro la scadenza, i fondi erogati dalla folla e trattenuti dalla
piattaforma non vengono versati agli autori del progetto. Un progetto può essere
finanziato in qualunque parte del mondo, ma gli utenti che pubblicano i progetti
possono essere solo persone residenti permanentemente negli Stati Uniti e devono
aver compiuto almeno diciotto anni. Kickstarter, trattiene il cinque per cento dei
fondi raccolti e Amazon, che riceve i finanziamenti, addebita un ulteriore 3-5%
del totale, ma in ogni caso la piattaforma non ottiene alcun diritto di proprietà sui
progetti e sulle opere prodotte. Tuttavia la piattaforma non garantisce in alcun
modo che le persone che propongono il progetto lo porteranno a termine, né che
useranno il denaro raccolto per finanziarlo o che i progetti così completati saranno
all’altezza delle aspettative dei sostenitori, ed è per questo motivo che la
piattaforma è stata accusata di fornire un insufficiente controllo di qualità. Il
ricordo al crowdfunding, richiede quindi una collaborazione tra individui sparsi in
ogni punto del globo e con una vaga conoscenza reciproca. L’impresa che ha
compreso che la conoscenza è oggi la risorsa che le permette di ottenere il
vantaggio competitivo, attinge alla “crowd” quale fonte di capitale intellettuale,
perché possiede talento e alcune persone hanno il tipo di abilità e competenze
scientifiche che una volta si trovavano solo in ambienti accademici.45
2.3.1 Tipologie di Crowdfunding
45 HOWE J. (2010), Crowdsourcing. Il valore partecipativo come risorsa per il futuro del business, Edizione Sossella, pp. 20-32.
68
Elementi essenziali del crowdfunding sono le piattaforme o portali, siti web che
facilitano l’incontro tra chi richiede i finanziamenti e la folla di coloro i quali
hanno interesse a finanziare i progetti proposti, cioè gli investitori. Le piattaforme
possono essere:
� Generaliste: sono piattaforme che raccolgono idee e progetti di qualsiasi
natura;
� Tematiche: sono specializzate nel finanziamento di progetti nell’ambito di
settori specifici.
Le piattaforme di crowdfunding possono essere anche classificate a seconda di
come si configura l’apporto del denaro:
1. Equity-based: La folla sottoscrive capitale di rischio tramite azioni di una
società di nuova creazione. I modelli di investimento finanziario, o basato
su azioni, sono diventati popolari attraverso due piattaforme specializzate
nel campo della musica, SellaBand e Bandstocks, in cui i creatori del
progetto e i loro partners definiscono generalmente un periodo di tempo e
una somma target che viene poi divisa in parti uguali o quote, offerte
tramite la piattaforma in forma di azioni a prezzo fisso. Le sottoscrizioni
vengono raccolte fin quando non si raggiunge la somma target per poi
iniziare la fase di investimento vera e propria.
2. Lending-based: conosciuta come “Social Lending”, consiste nella
sottoscrizione di titoli o contratti di debito direttamente stipulati fra le
parti. In pratica, la folla presta denaro ad un individuo o ad un’azienda
sapendo che il prestito verrà rimborsato con gli interessi. Le due parti
possono contrattare il finanziamento su una specifica piattaforma, in cui il
creditore può scegliere a chi prestare denaro dopo aver consultato
l’apposito profilo del richiedente. L’unico pericolo per questa tipologia di
crowdfunding è che il denaro non venga restituito e, a tal proposito, ogni
piattaforma di questo genere dovrebbe definire una politica di tutela degli
investitori, i quali devono essere messi in condizione di scegliere
consapevolmente se finanziare o meno il progetto.
3. Reward-based: in questa tipologia di piattaforma, le persone dando il
69
proprio contributo per un progetto ricevono in cambio una ricompensa che
può essere materiale, come ad esempio il pre-ordine di un prodotto non
ancora esistente sul mercato. Questa categoria può essere suddivisa in due
sottogruppi:46 a) all-or-nothing, in questo modello si fissa la somma
target necessaria in un arco di tempo prefissato, prima che vengano
avviate le transazioni finanziarie. Se la somma non viene raggiunta, il
finanziamento si considera fallito, le transazioni non verranno portate a
termine e il denaro resterà ai contribuenti o verrà loro restituito; b) take-it-
all, il finanziamento viene raccolto entro la scadenza prefissata a
prescindere dal raggiungimento della somma target.
4. Donation-based: si tratta di una forma di crowdfunding che non offre
alcun ritorno economico a colui che effettua il versamento, in quanto il
finanziamento dei progetti è motivato da un particolare interesse o da
ragioni di natura etica. Può essere paragonata alle classiche forme di
campagne di raccolta di donazioni promosse in tv o come pubblicità sul
web, ma l’elemento che lo distingue da queste ultime risiede nella varietà
di progetti che la piattaforma “donation-based” può contenere.
2.3.2 Vantaggi e svantaggi del crowdfunding
Un elemento da sottolineare, in questa nuova visione del finanziamento alle
imprese, ed in particolare per le start-up innovative, è il cambiamento nella
relazione tra colui che investe e colui che riceve il finanziamento. Infatti, nel
crowdfunding, si può parlare di relazione diretta tra l’investitore utente e la
futura start-up. Si tratta di un rapporto più stretto tra le parti, che non si esaurisce
nella sola raccolta dei soldi, ma va oltre facendo leva su elementi sociali, di
collaborazione alla realizzazione di un progetto in cui si crede. Nello specifico, i
vantaggi che il fenomeno sta portando possono essere elencati di seguito:47
� il crowdfunding consente agli imprenditori di dare la giusta visibilità al
proprio progetto agevolando l’incontro con i lavoratori specifici del
settore, ma soprattutto amplia l’incontro con finanziatori non
46 CASTRATARO D., PAIS I. (2012), “Le piattaforme di crowdfunding in Italia e nel mondo”, Crowdfuture Blog.47 TORDERA I. (2013), “Le rose hanno le spine: breve esplorazione dei limiti e dei rischi del Crowdfunding”, Italian Crowdfunding Network – Blog.
70
professionisti, che possono investire nelle idee che ritengono valide;
� un gran numero di persone può venire a conoscenza del business ancor
prima che si realizza concretamente;
� queste persone possono generare dei feedback, dei suggerimenti e degli
spunti per il progetto, con il vantaggio di poter migliorare ex ante il
proprio progetto prima dell’arrivo sul mercato;
� i tassi di interesse possono risultare più convenienti di quelli bancari;
� le piattaforme “donation-based” offrono maggiori possibilità di
promuovere i progetti che altrimenti potrebbero essere promossi
esclusivamente tramite i mass media tradizionali, come tv e radio.
Fra gli svantaggi,48 invece, possono essere annoverati:
� la possibilità di attività fraudolente, poiché, tranne che per alcune
piattaforme, non sono previsti controlli continui dei progetti avviati e
conclusi;
� il rischio di asimmetrie informative e/o di informazioni non attendibili
riguardo il progetto che viene promosso sulla piattaforma;
� la non restituzione degli interessi nella tipologia “lending-based”;
� considerare le piattaforme come una vetrina e non come un vero e proprio
strumento interattivo tra richiedenti e finanziatori.
Un’ulteriore caratteristica dell’equity crowdfunding è la “rapidità” con la quale è
possibile ottenere i capitali; mutuando infatti l’esperienza del crowdfunding
“tradizionale” è possibile constatare che normalmente le somme raccolte possono
essere ottenute con tempi estremamente contenuti, anche grazie ad una serie di
attività di marketing (spesso collegate a canali di comunicazione innovativi e
molto efficaci) che consentono di “raggiungere” celermente moltissimi soggetti e
convincerli ad investire sfruttando procedure semplici e dinamiche. Il
crowdfunding, pertanto, non deve essere visto soltanto sotto il profilo finanziario,
in quanto esso è rappresentativo di un “processo manageriale” completo ed
articolato nel quale gli aspetti di planning, comunicazione e marketing appaiono
fondamentali per il successo dell’iniziativa.
48 Op. cit, 45.
71
Queste caratteristiche, se analizzate in ottica nazionale, fanno ben sperare nel
successo del crowdfunding nel nostro paese come booster di crescita e sviluppo
nelle sue declinazioni di creazione di imprese, di posti di lavoro, di ricerca e
innovazione, di mobilità degli investimenti e di gettito fiscale.
In conclusione, al fine di garantire il successo del progetto, è fondamentale
descrivere la propria idea in maniera chiara e adeguata mediante anche l’utilizzo
dei diversi strumenti multimediali. Inoltre il coinvolgimento di un gran numero di
persone dipende anche dalle capacità del soggetto promotore di pubblicizzare il
progetto attraverso i social network o gli altri canali informativi.
2.3.3 Le piattaforme di crowdfunding in Italia
In Italia si contano 54 piattaforme di crowdfunding. Le piattaforme attive al 10
maggio 2014 sono 41, mentre quelle in fase di lancio sono 1349. Delle 41
piattaforme attive, 19 appartengono al modello “reward-based”, 7 al “donation-
based”, 2 al “lending-based” e 2 “all’equity-based”. Ci sono poi 11 piattaforme
ibride, ovvero portali che offrono più di un modello in varie combinazioni, la più
frequente delle quali risulta essere “reward-donation”50 (Figura 2.2).
Figura 2.2: Piattaforme di Crowdfunding attive in Italia
46%
17%
6%
5%
26% Reward-based
Donation-based
Equity-based
Lending-based
Ibr ide
49 www.italiancrowdfunding.org50 Op. cit, 47.
72
Fonte: www.italiancrowdfunding.org
Il modello prevalente resta quindi il “reward-based”, scelto dal 40% delle
piattaforme nella sua forma pura, quota che sale al 57% se si considerano anche le
piattaforme ibride. Negli ultimi mesi, si segnala la crescita delle piattaforme
verticali:
� Settoriali: nove piattaforme per il non profit, due per la cultura, 2 per
l’arte, 2 per l’energia, una per la scuola, una per la fotografia.
� Territoriali: Ginger, Kendoo, Finanziami il tuo futuro.
Le piattaforme sono nate in un arco temporale che va dal 2005 a oggi. Di seguito
saranno elencate alcune delle piattaforme diffuse nel nostro Paese.
Produzioni Dal Basso o PDB, fondata nel 2005 da Angelo Rindone, è la prima
piattaforma di crowdfunding italiana e generalista che dispone, ad oggi, di una
vasta comunità di oltre 39.000 utenti. Si può dire che sia nata quasi prima di tutti
gli strumenti web che oggi il crowdfunding utilizza per promuovere i progetti.
PDB è una piattaforma “reward-based” del tipo “all or nothing”, pertanto se non
viene raggiunto il target prestabilito il progetto non verrà finanziato e la somma
raccolta verrà restituita. A tal proposito, quando un progetto è pubblicato, i
finanziatori prenotano le quote che vogliono sottoscrivere e i contributi saranno
erogati solo nel momento in cui il target viene raggiunto; è per questo motivo che
PDB, a differenza di altre piattaforme, permette di effettuare i versamenti solo nel
momento in cui tutte le quote sono state sottoscritte, in modo tale che possano
essere erogate direttamente all’autore del progetto e far si che la piattaforma non
si ponga come intermediario per la raccolta di danaro. Produzioni dal Basso
permette di creare anche una community per discutere dei progetti, darne maggior
visibilità e creare un luogo con cui poter mantenere le relazioni con i propri
finanziatori. La piattaforma non effettua la promozione dei progetti, ma si limita a
ri-postarli sui social network più diffusi, quali Facebook e Twitter.
Nel 2008, Maurizio Sella fonda Smartika, una piattaforma di “lending-based”
crowdfunding, in cui si fanno prestiti tra privati e i prestatori incontrano
direttamente i richiedenti. Ha un meccanismo di funzionamento che si rifà
notevolmente al modello borsistico, infatti i tassi sono determinati dall’incontro
73
tra domanda e offerta. Nel momento in cui il richiedente presenta il proprio
progetto a Smartika, essa effettua un’analisi della storia creditizia dello stesso e in
base alla valutazione la richiesta verrà accettata o meno. Chi presta denaro fa la
sua offerta, apre un conto di pagamento intestato a Smartika e questo denaro, che
verrà spalmato su più progetti, rimane in attesa di essere erogato a diversi
richiedenti. I tagli possibili vanno da 100 Euro a 50.000 Euro. Smartika non si
occupa solo di valutare la richiesta e quindi la storia creditizia del richiedente, ma
segue tutto l’iter fino alla chiusura del finanziamento preoccupandosi di trasferire
i soldi e accreditare il tasso maturato al prestatore e, in caso di necessità, anche di
recuperare i crediti. Altro elemento che differenzia Smartika da altre piattaforme e
che per primi hanno inventato un mercato secondario dei prestiti, per cui si
possono cedere i propri investimenti a terzi.
Nel 2009, nasce Kapipal dall’idea di Alberto Falossi, professore universitario,
consulente e manager nel settore dell’Information Technology. Il nome della
piattaforma è caratteristico perché identifica gli elementi caratteristici del
crowdfunding: è una fusione tra “Capital” (capitale) e “Pal” (amico), e inoltre
quest’ultima identifica anche la modalità con cui vengono raccolti i fondi, ossia
tramite PayPal, che garantisce sicurezza per le transazioni attraverso internet, oltre
ad identificare la solidarietà e amicizia, che c’è tra i componenti del network. La
finalità della raccolta fondi su questa piattaforma può essere strettamente privata,
come raccogliere i fondi per nozze, incidere un album musical o per
un’operazione medica, costruzione di case in Africa o un progetto per un
orfanotrofio in India. Recentemente GrowVc, una piattaforma di crowdfunding
inglese, ha annunciato l’acquisizione di Kapipal all’interno del gruppo, a seguito
della volontà del fondatore Alberto Falossi di trovare un partner affidabile con cui
lavorare a lungo termine al fine di accrescere la potenzialità della propria
piattaforma che necessita, a seguito del successo ottenuto, di maggiori
investimenti. GrowVc si presenta come una piattaforma di raccolta fondi, che
opera principalmente per contribuire alla nascita di start-up e sviluppo di business
già esistenti.
Prestiamoci fondata nel 2007 a Ivrea e lanciata due anni più tardi, da Mariano
74
Carozzi, Paolo Galvani e Giovanni Tarditi, imprenditori con importanti esperienze
nazionali e internazionali nel mondo della banca e della finanza. Si presenta come
una piattaforma di “lending-based” crowdfunding e generalista, basata sui prestiti
tra privati.
Io Dono, nasce nel 2010 da un’idea di Direct Channel, società milanese che si
occupa di gestione di database nel settore dell’editoria e del no profit, si pone
l’obiettivo di essere un supporto alle ONP che vogliono raccogliere fondi per la
propria causa sociale. Come anche nel caso di Rete del dono, che vedremo in
seguito, questa modalità di “donationa-based” crowdfunding identifica un
cosiddetto “Personal Fundraiser”, ossia colui che diventa il promotore ed il
protagonista della raccolta fondi dell’organizzazione no profit con cui più si
identifica. La piattaforma si occupa di verificare i dati dell’ONP, della
manutenzione delle pagine web, effettua delle analisi periodiche sull’andamento
delle donazioni ricevute, offre consulenza ai promotori di un progetto per
migliorare e incrementare la raccolta dei fondi e si occupa del trasferimento
periodico delle donazioni.
Eppela, è una piattaforma “reward-based” e generalista fondata nel Maggio 2011
da Nicola Lencioni, lucchese, 45 anni, imprenditore nel campo della
comunicazione. La piattaforma nasce per promuovere progetti innovativi e
creativi nei campi di arte, tecnologia, cinema, design, musica, fumetto,
innovazione sociale, scrittura, moda, no profit. Una volta definito il progetto e
presentato sulla piattaforma, Eppela aiuterà i propri crowdfunders a scegliere le
ricompense più adatte da corrispondere ai sostenitori e, se il progetto è
potenzialmente valido, sosterrà l’attività di promozione attraverso la propria rete
di contatti (giornalisti, pubblicitari, quotidiani online, blog) sino al
raggiungimento del budget.
BuskerLabel, è una comunità online dove i fans possono scoprire nuova musica,
sponsorizzare i loro artisti preferiti e ottenere l’anteprima di album non ancora
pubblicati. L’idea del fondatore di BuskerLabel è volta a rendere la musica
condivisa e accessibile, a far guadagnare gli artisti in modo equo e ripristinare il
rapporto che lega chi crea e chi ascolta musica. È una piattaforma di
75
crowdfunding “reward-based”, a tema musicale. Poco dopo la sua fondazione,
avvenuta nel 2010, BuskerLabel introduce il crowdfunding per permettere agli
artisti di raccogliere fondi e pubblicare album online sotto licenza di “Creative
Commons”. In cambio di una piccola donazione, i fans possono ascoltare in
streaming l’anteprima dell’intero album caricato dall’artista e ottenere il pubblico
riconoscimento del loro supporto nei credits dell’album.
CrowdFundMe nata a Milano, si propone per il momento come piattaforma
“reward-based”, ma ha in progetto di utilizzare anche il modello “equity-based”.
È generalista. CrowdFundMe, offre diversi servizi in partnership e a pagamento
che possono essere di aiuto agli autori dei progetti per fornire loro il giusto
supporto alla presentazione e sviluppo dei progetti stessi. Ad esempio tra i
partners vi sono associazioni no-profit per la consulenza a coloro che si affacciano
al mondo delle start-up, studi di avvocati, società per lo sviluppo di applicazioni
web per le aziende e società di coaching e consulenza finanziaria. CrowdFundMe
effettua una selezione dei progetti che possono essere presentati sulla piattaforma
e non si fa garante del successo degli stessi, assolvendo alla sola funzione di
“presentatore” del progetto. È fissato un limite massimo di Euro 999,00 per
finanziamento, ma non vi sono importi minimi richiesti dalla piattaforma, ma
eventualmente è l’imprenditore che pubblica il progetto a definire quest’ultimo.
La piattaforma fornisce informazioni sull’andamento della raccolta fondi e mette a
disposizioni appositi spazi sul sito affinché gli imprenditori possano tenere
costantemente aggiornati i propri finanziatori.
Starteed, lanciata nel Febbraio 2012 da Claudio Bedino, è una piattaforma di
crowdfunding “reward-based”. La community finanzia il progetto e, con
l’incentivo ad impegnarsi al raggiungimento del successo, i componenti offrono i
propri consigli e promuovono l’idea tra i loro contatti, aumentando così la propria
“influence”, in questo modo la piattaforma ha la possibilità di tracciare non solo
l’importo della donazione ma anche il contributo di co-creazione (suggerimenti,
condivisioni) dell’utente. A quest’ultimo viene assegnato un punteggio, in base
alle donazioni ed alle attività di promozione che vengono mappate e tracciate, che
permette di valutare l’impegno alla realizzazione del progetto. Starteed è una
76
piattaforma “all or nothing”, pertanto, o viene raggiunto il target o non vengono
distribuiti i contributi. Raggiunto l’obiettivo finalmente si può realizzare il
progetto, si consegneranno le ricompense ai sostenitori e si potrà vendere il
prodotto direttamente tramite lo shop online di Starteed. Intanto i sostenitori
continuano ad accrescere la propria influence anche attirando i propri contatti allo
scopo di farli diventare nuovi clienti. La start-up che si è costituita inizierà a
guadagnare dalle vendite, ma anche i sostenitori potranno guadagnare per ogni
prodotto venduto ricevendo una percentuale sui ricavi in base al proprio punteggio
di influence.
Crowdfunding-italia, nata nel 2012 è una piattaforma “reward-based” del tipo
“all or nothing” e generalista in cui si può finanziare qualsiasi tipo di progetto, ad
esempio, al momento sono presenti progetti che vanno dall’apertura di una
gelateria a un centro comunitario in Ghana fino alla richiesta di fondi per
realizzare un cartone. La piattaforma seleziona e ammette i progetti che vogliono
essere pubblicati e impone una soglia minima di almeno cento euro da cui partire
per effettuare la raccolta, mentre la soglia massima è libera ma rispetto ad altre
piattaforme non può essere modificata in corso. Prevede obbligatoriamente due
premi di donazione, in quanto ha verificato che questa modalità contribuisce ad un
maggior successo del progetto. Crowdfunding Italia è completamente gratuita e
non trattiene alcuna commissione sui finanziamenti ai progetti, ma invita i
promotori del progetto finanziato ad effettuare una donazione in modo non
obbligatorio.
Com-unity è una piattaforma “reward-based”, di proprietà di Banca
Interprovinciale di Modena Spa, lanciata nel 2013 da un gruppo di imprenditori di
Modena e Bologna. È una piattaforma generalista in cui posso chiedere una
collaborazione, oltre che i privati, anche organizzazioni no profit. Dopo essersi
registrati ed aver preparato un video di presentazione si può inviare il progetto e,
se sarà ritenuto idoneo rispetto ai criteri definiti da Com-unity, gli autori verranno
contattati da un tutor o coach che, qualora sia necessario, aiuterà a dare una
corretta struttura economica al progetto.
MusicRaiser, viene lanciata nell’Ottobre 2012 ed è una piattaforma di “reward-
77
based” crowdfunding “all or nothing” , focalizzata sul tema della musica. Un
artista, una band, un organizzatore di concerti e festival, un videomaker o a
chiunque si occupi di musica, MusicRaiser offre la possibilità di aprire una
campagna di raccolta fondi per realizzare interamente un disco o anche solo per
una parte di un lavoro, che permetta di realizzare un sogno musicale. Una volta
iscritti, il progetto deve essere approvato dallo staff di MusicRaiser sulla base di
requisiti di qualità e concretezza che la piattaforma ha stabilito, si dovrà definire il
target che si ha bisogno di raggiungere e stabilire la durata della raccolta. A questo
punto, sarà necessario realizzare un video per presentare il proprio progetto e gli
autori del progetto ai potenziali finanziatori e definire delle ricompense da offrire
come ringraziamento a coloro che avranno deciso di supportare il progetto.
Ovviamente, al fine di pubblicizzare quanto più possibile l’idea è possibile creare
dei collegamenti alla propria pagina di MusicRaiser con gli altri social network.
2.3.4 Il crowdfunding nell’ordinamento italiano: il Decreto “Crescita-bis”
Sulla spinta del JOBS-Act adottato negli Stati Uniti d’America nell’aprile 2011, il
governo Monti ha costituito un’apposita task force presso il Ministero dello
Sviluppo Economico, guidato dall’allora Ministro Corrado Passera, al fine di
approfondire il fenomeno del crowdfunding e presentare delle proposte al Go-
verno italiano “per fare in modo che l’Italia diventi un Paese ospitale per la
nascita e la crescita delle start-up”. Con specifico riferimento al crowdfunding, al
fine di rendere tale strumento operativo in Italia, è stato ritenuto essenziale
“prevedere una procedura di autorizzazione snella e semplice, basata però su
chiare garanzie offerte da parte di chi voglia aprire queste piattaforme on-line
dedicate alla raccolta di capitale, creando meccanismi di trasparenza e
informazione per rendere chiaro ai cittadini che sempre il rischio di perde- re il
capitale investito”. Infatti, solo assicurando un adeguato livello di informazione e
trasparenza, sarà auspicabile una diffusione di tale strumento di finanziamento per
le imprese.
In questo contesto, la regolamentazione ha origine nell’ottobre 2012 con il
Decreto Legge Crescita-bis, n. 179/2012 convertito nella Legge n. 221/2012,
introducendo nel nostro ordinamento la start-up innovativa e il corwdfunding. Si
78
tratta di due temi tra loro strettamente correlati giacché il crowdfunding
costituisce o può costituire uno dei canali più rilevanti di finanziamento delle
nuove formule societarie.
Di start-up si parla con riferimento a svariate realtà e settori, compresi quelli più
tradizionali, tuttavia il Decreto Crescita-bis ha inteso limitare il campo d’azione
alle sole iniziative che presentino un forte ancoraggio all’innovazione51. In questo
senso, il decreto ha previsto che l’oggetto sociale, esclusivo o prevalente, della
start-up innovativa deve consistere nello sviluppo, produzione,
commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico;
ulteriore parametro di innovatività è rappresentato dalla detenzione da parte dei
soci al momento della costituzione e per i successivi 24 mesi, della maggioranza
del capitale sociale e dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria.
Dal punto di vista dimensionale è richiesto che il totale del valore della
produzione annua a partire dal secondo anno di attività non sia superiore a Euro 5
milioni.
Infine, la start-up innovativa deve possedere almeno uno dei seguenti ulteriori
requisiti:
� spese di ricerca e sviluppo uguali o superiori al 20% del maggiore fra
costo e valore totale della produzione;
� impiego di dipendenti o collaboratori, in percentuale uguale o superiore al
terzo della forza lavoro complessiva, in possesso di titolo di dottorato di
ricerca (o che stiano svolgendo un dottorato di ricerca) oppure in possesso
di laurea e che abbiano svolto, da almeno 3 anni, attività di ricerca
certificata presso istituti di ricerca pubblici o privati, in Italia o all’estero;
� sia titolare, depositaria o licenziataria di almeno una privativa industriale
relativa a una invenzione industriale direttamente afferente all’oggetto
sociale e all’attività d’impresa.
51 FREGONARA E. (2013), La start up innovative. Uno sguardo all’evoluzione del sistema societario e delle forme di finanziamento, Giuffrè, Milano.
79
Il Decreto Crescita 2.0 disciplina altresì il c.d. “incubatore certificato”, ossia una
società di capitali di diritto italiano, costituita anche in forma di società
cooperativa, ovvero una Società Europea, che offra servizi per sostenere la nascita
e lo sviluppo di start-up innovative.
Trattasi, in particolare, del soggetto che spesso accompagna il processo di avvio e
di crescita della start-up innovativa, formando e affiancando i fondatori nella
gestione della società e del ciclo di business, fornendo sostegno operativo,
strumenti di lavoro e sede, nonché segnalando l’impresa agli investitori ed
eventualmente investendovi esso stesso.
Le start-up innovative e gli incubatori certificati, al fine di poter beneficiare dello
speciale regime giuridico previsto dalla disciplina in esame, sono tenuti a
determinati obblighi di trasparenza: iscrizione in una apposita sezione del Registro
delle Imprese e successivo aggiornamento delle informazioni con cadenza
periodica.
In conclusione, Il problema che la norma ha inteso affrontare è costituito dalla
scarsità di canali per la raccolta di fondi da parte di soggetti imprenditoriali di
nuova costituzione caratterizzati da uno specifico profilo rischio/rendimento, che
incorpora un alto tasso di mortalità ma anche la possibilità di ritorni elevati in
caso di successo di iniziative basate su prodotti e tecnologie innovativi.
Attraverso la creazione di un “ecosistema” favorevole alle start-up innovative, il
citato decreto intende favorire la crescita, la creazione di occupazione, in
particolare quella giovanile, l’attrazione di talenti e capitali dall’estero, e a rendere
più dinamico il tessuto produttivo e tutta la società italiana.
In particolare con il decreto si è inteso creare, per la prima volta nel panorama
legislativo italiano, un quadro di riferimento nazionale coerente per le start-up.
2.3.4.1 La disciplina dell’equity crowdfunding tra TUF e Regolamento
80
Consob
In data 26 giugno 2013, la CONSOB ha emanato il “Regolamento sulla raccolta
di capitali di rischio da parte di stat-up innovative tramite portali online” ai sensi
dell’art. 50-quinquies e dell’art. 100-ter del decreto legislativo 24 febbraio 1998,
n. 58 e successive modificazioni.
Come illustrato dalla Consob, il Decreto Crescita-bis del 2012, introducendo gli
articoli 50-quinquies e 100-ter nel TUF in materia di "Gestione di portali per la
raccolta di capitali per le start-up innovative" e di "Offerte attraverso portali per la
raccolta di capitali", aveva delegato la Consob ad adottare le relative disposizioni
di attuazione.
Per “equity crowdfunding" si intende la possibilità per le imprese (normalmente
neo-costituite) di raccogliere capitali di rischio ("funding") per il tramite della rete
internet svolgendo quindi un appello al pubblico risparmio rivolto a un elevato
numero di destinatari ("crowd") che nella prassi effettuano investimenti di
modesta entità.
L'Italia è il primo Paese in Europa a dotarsi di una simile normativa e
probabilmente fungerà da “guida” per i futuri interventi che verranno predisposti
negli altri Paesi.
Il Regolamento di attuazione è composto da 25 articoli ed è suddiviso in tre parti
che trattano rispettivamente:
1. le disposizioni generali;
2. il registro e la disciplina dei gestori di portali;
3. la disciplina delle offerte tramite portali.
Al Regolamento sono poi allegati:
81
le istruzioni per la presentazione della domanda di iscrizione nel registro
dei gestori;
lo schema della “Relazione sull’attività d’impresa e sulla struttura
organizzativa”;
lo schema per la pubblicazione delle “Informazioni sulla singola offerta”,
che comprendono tra l’altro un’avvertenza, le informazioni sui rischi,
sull’emittente, sugli strumenti finanziari e sull’offerta.
I soggetti interessati dalla disciplina di attuazione sono fondamentalmente tre, così
definiti:
1. i “gestori”, ovvero i soggetti che esercitano professionalmente il servizio
di gestione di portali per la raccolta di capitali di rischio per le start-up
innovative ed è iscritto nell’apposito registro tenuto dalla Consob;
2. “l’emittente”, la società start-up innovativa, comprese le start-up a
vocazione sociale, come definite dall’art. 25, commi 2 e 4 del decreto;
3. gli “investitori”, cioè i soggetti disponibili a investire i loro capitali. Essi
possono essere “ordinari” oppure essere i c.d. “investitori professionali di
diritto”. Quest’ultimi sono individuati nell’Allegato n. 3, al punto I, del
Regolamento Consob in materia di intermediari, adottato con delibera n.
16190 del 29 ottobre 2007 e successive modifiche. Essi sono:
4. i soggetti che sono tenuti ad essere autorizzati o regolamentati per operare
nei mercati finanziari, siano essi italiani o esteri quali: banche, imprese di
investimento, imprese di assicurazione, organismi di investimento
collettivo e società di gestione di tali organismi, negoziatori per conto
proprio di merci e strumenti derivati su merci, agenti di scambio, fondi
pensione e società di gestione di tali fondi, altri istituti finanziari
autorizzati o regolamentati;
82
5. le imprese di grandi dimensioni che presentano a livello di singola società,
almeno due dei seguenti requisiti dimensionali: 1) totale di bilancio di
20.000.000 EUR; 2) fatturato netto di 40.000.000 EUR; 3) fondi propri
pari a 2.000.000 EUR;
6. gli investitori istituzionali la cui attività principale è investire in strumenti
finanziari, compresi gli enti dediti alla cartolarizzazione di attivi o altre
operazioni finanziarie.
Tali soggetti sono ex se considerati di particolare affidamento, in quanto
posseggono l’esperienza, le conoscenze e la competenza necessarie per prendere
consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti e per valutare
correttamente i rischi che assumono. Non sono stati inclusi i c.d. “clienti
professionali su richiesta”, poiché le valutazioni previste in merito agli stessi non
assicurano le stesse garanzie in termini di affidabilità, competenza ed esperienza
sopra menzionate.
Per quanto riguarda i “portali” (le piattaforme web), per questi ultimi è previsto un
vincolo di finalità esclusiva dell’attività; tale vincolo non sussiste invece per le
società che li gestiscono (gestori dei portali).
I gestori, infatti, potranno fornire anche ulteriori attività, non sulla medesima
piattaforma, nonché servizi “ancillari”, che possano magari accrescere la visibilità
e l’affidabilità dei portali stessi agli occhi degli investitori e di conseguenza anche
la domanda di servizi.
Con riferimento al registro dei gestori di portali tenuto dalla Consob, lo stesso è
diviso in due sezioni, nelle quali verranno rispettivamente iscritti ed annotati i
gestori di portali c.d. “a richiesta” e nella sezione speciale le banche e le imprese
di investimento autorizzate ai relativi servizi di investimento, c.d. “gestori di
diritto”.
In particolare, i soggetti diversi da banche e imprese di investimento che
83
presenteranno tutta la documentazione prevista dal regolamento ed in possesso dei
requisiti ivi prescritti, saranno a seguito della valutazione da parte della Consob
iscritti nel registro a richiesta.
Va specificato che apposite verifiche per l’iscrizione al registro verranno effettuate
solo sui c.d. “gestori a richiesta”, mentre nessun controllo preliminare verrà
effettuato, in sede di annotazione, sui gestori di diritto, per i quali la citata
annotazione nella sezione speciale ha una mera efficacia di pubblicità notizia.
La mancata iscrizione al registro da parte di gestori a richiesta che effettuino
offerte relative a strumenti finanziari di start-up innovative comporterà la
sussistenza di un abusivismo nella prestazione di tale attività, che verrà perseguito
ai sensi di legge.
Le banche e le imprese di investimento non avranno invece necessità di seguire
l’iter previsto dal regolamento, ma saranno abilitate “ex lege” all’esercizio
dell’attività di gestori di portale. Esse pertanto verranno semplicemente annotate
nel registro tenuto dalla Consob e l’unica attività richiesta sarà quella di
comunicare alla Consob l’intenzione di prestare l’attività di gestione di portali on-
line prima dell’inizio dell’attività stessa. In tal modo viene data la possibilità alla
Consob di dare visibilità a tale società, permettendo ai terzi di consultare il
registro ed essere così certi della legittima operatività del soggetto in questione.
È opportuno specificare che tra le banche e le imprese di investimento autorizzate
alla prestazione dei relativi servizi di investimento è da ritenersi ricompresa anche
la società Poste Italiane - Divisione Servizi di Banco Posta, autorizzata ai sensi
dell’art. 2 del D.P.R. n. 144 del 14 marzo 2001.
Nel registro, per ciascun gestore iscritto, sono indicati:
a) il numero d’ordine di iscrizione;
b) la denominazione sociale;
84
c) l’indirizzo del sito internet del portale e il corrispondente collegamento
ipertestuale;
d) la sede legale e la sede amministrativa;
e) la stabile organizzazione nel territorio della Repubblica, per i soggetti
comunitari;
f) gli estremi degli eventuali provvedimenti sanzionatori e cautelari adottati
dalla Consob;
Nella sezione speciale del registro, per ciascun gestore annotato, sono indicati
invece:
a) la denominazione sociale;
b) l’indirizzo del sito internet del portale e il corrispondente collegamento
ipertestuale;
c) gli estremi degli eventuali provvedimenti sanzionatori e cautelari adottati
dalla Consob.
La domanda di iscrizione nel Registro è predisposta in conformità a quanto
indicato nell'Allegato 1 ed è corredata di una “Relazione sull'attività d'impresa e
sulla struttura organizzativa”, ivi compresa l'illustrazione dell'eventuale
affidamento a terzi di funzioni operative essenziali, redatta in osservanza di
quanto previsto dall'Allegato 2.
L’Allegato 1 prevede, tra le altre cose, che il gestore “a richiesta” produca la
documentazione attestante i requisiti di onorabilità dei soggetti che detengono il
controllo del gestore:
� per le persone fisiche, una dichiarazione sostitutiva della certificazione
antimafia e un’autocertificazione sull’insussistenza di una delle situazioni
85
di cui all’art. 8 del Regolamento (interdizione dai pubblici uffici,
determinate condanne penali, etc);
� per le persone giuridiche, va invece allegato il verbale del consiglio di
amministrazione o organismo equivalente da cui risulti effettuata la
verifica del requisito in capo agli amministratori e al direttore ovvero ai
soggetti che ricoprono cariche equivalenti nella società o ente partecipante.
In tal modo si presenta alla Consob tutto quanto necessario per dimostrare la
sussistenza dei requisiti previsti dalla regolamentazione con riferimento ai
soggetti controllanti ed agli esponenti aziendali, assicurando una piena trasparenza
sui dati societari.
La valutazioni necessarie alla successiva iscrizione nel registro non si applicano ai
“gestori di diritto” per i quali non è prevista nessuna valutazione discrezionale da
parte della Consob. Tali soggetti sono infatti abilitati all’esercizio dell’attività di
gestione di portali “ex lege”; pertanto, le banche e le imprese di investimento
autorizzate alla prestazione dei servizi di investimento non dovranno presentare
alcuna domanda, bensì inviare una mera comunicazione mediante l’utilizzo di
posta elettronica certificata (PEC), precedentemente all’avvio dell’attività,
indicando di essere in procinto di avviare l’attività in questione, fornendo tutti i
dati relativi alla società (denominazione sociale, indirizzo del sito internet del
portale, il corrispondente collegamento ipertestuale nonché il nominativo e i
recapiti di un referente della società).
Inoltre sui “gestori a richiesta”, si esercita un controllo accertativo ed uno
valutativo per assicurare una corretta gestione del portale. Tale ultimo controllo
avrà ad oggetto “La relazione sull’attività d’impresa e sulla struttura
organizzativa”, documenti che devono essere presentati in sede di domanda di
iscrizione.
Più in particolare, nella relazione sull’attività d’impresa il gestore sarà tenuto a
descrivere in maniera dettagliata le attività che intende svolgere, indicando:
86
le modalità per la selezione delle offerte da presentare sul portale e/o
l’affidamento di tali attività a terzi;
l’attività di consulenza eventualmente prestata in favore delle start-up
innovative in materia di analisi strategiche e valutazioni finanziarie, di
strategia industriale e di questioni connesse;
se intende pubblicare informazioni periodiche sui traguardi intermedi
raggiunti dalle start-up innovative i cui strumenti finanziari sono offerti sul
portale e/o dei report periodici sull’andamento degli stessi eventualmente
disposti a favore degli investitori delle medesime società;
se intende predisporre eventuali meccanismi di valorizzazione periodica
degli strumenti finanziari acquistati tramite il portale ovvero di rilevazione
dei prezzi delle eventuali transazioni aventi ad oggetto tali strumenti
finanziari;
altre eventuali attività.
Per quanto riguarda “La relazione sulla struttura organizzativa”, il gestore del
portale dovrà fornire in maniera dettagliata una serie di informazioni stabilite dalla
Consob, ed in particolare:
una descrizione della struttura aziendale (organigramma, funzionigramma,
etc.) con l’indicazione dell’articolazione delle deleghe in essere all’interno
dell’organizzazione aziendale e dei meccanismi di controllo predisposti
nonché di ogni altro elemento utile ad illustrare le caratteristiche operative
del gestore;
87
l’eventuale piano di assunzione del personale e il relativo stato di
attuazione, ovvero l’indicazione del personale in carico da impiegare per
lo svolgimento dell’attività. In tale sede, andrà altresì specificata
l’eventuale presenza di dipendenti o collaboratori che abbiano svolto
attività professionali o attività accademiche o di ricerca certificata presso
Università e/o istituti di ricerca, pubblici o privati, in Italia o all’estero, in
materie attinente ai settori della finanza aziendale e/o dell’economia
aziendale e/o del diritto societario e/o marketing e/o nuove tecnologie e/o
in materie tecnico-scientifiche, con indicazione dei relativi ruoli e funzioni
svolti all’interno dell’organizzazione aziendale;
le modalità per la trasmissione a banche e imprese di investimento degli
ordini raccolti dagli investitori;
una descrizione della infrastruttura informatica predisposta per la ricezione
e trasmissione degli ordini degli investitori (affidabilità del sistema,
security, integrity, privacy ecc.);
il luogo e le modalità di conservazione della documentazione;
la politica di identificazione e di gestione dei conflitti di interesse;
la politica per la prevenzione delle frodi e per la tutela della privacy;
l'eventuale affidamento a terzi della strategia di selezione delle offerte da
presentare sul portale;
la struttura delle commissioni per i servizi offerti dal gestore.
Relativamente all’istruttoria della domanda, gli uffici competenti verificheranno la
completezza della documentazione presentata dall’istante entro sette giorni dalla
presentazione della domanda, comunicando allo stesso la documentazione
mancante, che dovrà essere prodotta entro trenta giorni dalla richiesta di
integrazione proveniente dalla Consob. Nel caso in cui la documentazione
88
mancata non sia prodotta entro il termine indicato, il procedimento verrà estinto.
L’istante potrà però presentare una nuova domanda per l’iscrizione al registro,
dovendo necessariamente riprendere l’iter procedimentale dall’inizio.
La Consob, inoltre, per valutare la capacità di esercizio dell’attività di gestione
del portale, può rivolgere richieste di ulteriori elementi informativi anche a
soggetti diversi dalla società istante, ed in particolare anche a coloro che svolgono
funzioni di amministrazione, direzione e controllo ed alla società controllante
dell’istante.
Il termine per le valutazioni in capo alla Consob è di sessanta giorni e, la stessa
può respingere la richiesta qualora accerti la mancanza dei requisiti previsti e
quando “dalla valutazione dei contenuti della relazione prevista all'Allegato 2 non
risulti garantita la capacità della società richiedente di esercitare correttamente la
gestione di un portale” (art. 7, comma 5).
Per quanto concerne il profilo dei requisiti soggettivi, il Regolamento prevede
che, oltre ai requisiti di onorabilità che devono avere i soci che detengono il
controllo, gli amministratori e coloro i quali svolgono attività di direzione e
controllo devono anche essere in possesso di ulteriori requisiti specifici. Infatti,
oltre all’onorabilità, gli amministratori devono essere scelti in base ai criteri “di
professionalità e competenza”, fra persone che hanno maturato una comprovata
esperienza di almeno un biennio nell'esercizio di:
a) attività di amministrazione o di controllo ovvero compiti direttivi presso
imprese;
b) attività professionali in materie attinenti al settore creditizio, finanziario,
mobiliare, assicurativo;
c) attività d'insegnamento universitario in materie giuridiche o economiche;
d) funzioni amministrative o dirigenziali presso enti privati, enti pubblici o
pubbliche amministrazioni aventi attinenza con il settore creditizio,
89
finanziario, mobiliare o assicurativo ovvero presso enti pubblici o
pubbliche amministrazioni che non hanno attinenza con i predetti settori
purché le funzioni comportino la gestione di risorse economico-
finanziarie.
Inoltre, possono far parte dell'organo amministrativo, ma in ruoli non esecutivi,
anche soggetti che abbiano maturato “una comprovata esperienza lavorativa di
almeno un biennio nei settori industriale, informatico o tecnico-scientifico, a
elevato contenuto innovativo, o di insegnamento o ricerca nei medesimi settori”,
purché però la maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione
possieda i requisiti sopra illustrati. È inoltre vietato assumere incarichi di
amministrazione, direzione e controllo in più gestori, salvo che si tratti di società
appartenenti allo stesso gruppo. Se, per qualsiasi motivo, vengono meno i requisiti
di onorabilità, il gestore è cancellato dal registro, a meno che tali requisiti non
siano “ricostituiti” entro due mesi, durante i quali però il gestore non può
pubblicare nuove offerte e quelle in corso rimangono sospese.
Gli artt. 13 – 21 del Regolamento trattano delle “regole di condotta” del gestore, il
quale “opera con diligenza, correttezza e trasparenza evitando che gli eventuali
conflitti di interesse che potrebbero insorgere nello svolgimento dell'attività di
gestione di portali incidano negativamente sugli interessi degli investitori e degli
emittenti e assicurando la parità di trattamento dei destinatari delle offerte che si
trovino in identiche condizioni”.
Per quanto riguarda le informazioni, il gestore rende disponibili agli investitori,
“in maniera dettagliata, corretta, chiara, non fuorviante e senza omissioni, tutte
le informazioni riguardanti l'offerta che sono fornite dall'emittente affinché gli
stessi possano ragionevolmente e compiutamente comprendere la natura
dell'investimento, il tipo di strumenti finanziari offerti e i rischi ad essi connessi e
prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole”.
Con l’art. 15, viene rafforzata la tutela dell’investitore informandolo sui rischi
derivanti dall’investimento nel capitale sociale delle start-up innovative. In
90
particolare, tale articolo prevede l’obbligo da parte del gestore di fornire una serie
di informazioni in merito alle caratteristiche generali dell’investimento e che
riguardano: a) il rischio di perdita dell'intero capitale investito; b) il rischio di
illiquidità; c) il divieto di distribuzione di utili; d) il trattamento fiscale di tali
investimenti (con particolare riguardo alla temporaneità dei benefici ed alle ipotesi
di decadenza dagli stessi); e) le deroghe al diritto societario nonché al diritto
fallimentare previste dal decreto; f) i contenuti tipici di un business plan; g) il
diritto di recesso, ai sensi dell'articolo 13, comma 5 e le relative modalità di
esercizio.
Oltre agli obblighi informativi generali, il gestore deve poi pubblicare (art. 16 del
Regolamento) in relazione a ciascuna offerta specifica:
1. le informazioni indicate nell'Allegato 3 e i relativi aggiornamenti forniti
dall'emittente, portando ogni aggiornamento a conoscenza dei soggetti che
hanno aderito all'offerta;
2. gli elementi identificativi delle banche o delle imprese di investimento
che curano il perfezionamento degli ordini;
3. le informazioni e le modalità di esercizio del diritto di revoca;
4. la periodicità e le modalità con cui verranno fornite le informazioni sullo
stato delle adesioni, l'ammontare sottoscritto e il numero di aderenti.
Esaminando brevemente l’Allegato 3, il Regolamento prevede che il gestore
pubblichi a chiare lettere un’Avvertenza preliminare a ogni offerta e “con
evidenza grafica”, specificando che “Le informazioni sull'offerta non sono
sottoposte ad approvazione da parte della Consob. L'emittente è l'esclusivo
responsabile della completezza e della veridicità dei dati e delle informazioni
dallo stesso fornite. Si richiama inoltre l'attenzione dell'investitore che
l'investimento in strumenti finanziari emessi da start-up innovative è illiquido e
connotato da un rischio molto alto.”
91
Sempre l’Allegato 3 dettaglia poi le informazioni specifiche relative al singolo
emittente e alla singola offerta che devono essere pubblicate.
In relazione alla società emittente devono essere fornite:
a) una descrizione dell'emittente, del progetto industriale, del relativo
business plan;
b) la descrizione degli organi sociali e del curriculum vitae degli
amministratori;
c) la descrizione degli strumenti finanziari oggetto dell'offerta, dei diritti ad
essi connessi e delle relative modalità di esercizio;
d) la descrizione delle clausole predisposte dall'emittente con riferimento alle
ipotesi in cui i soci di controllo cedano le proprie partecipazioni a terzi
successivamente all'offerta (le modalità per la way out dall'investimento,
presenza di eventuali patti di riacquisto, eventuali clausole di lock up e put
option a favore degli investitori ecc.) con indicazione della durata delle
medesime.
In merito all’offerta devono essere pubblicate:
le condizioni generali dell'offerta, ivi inclusa l'indicazione dei destinatari,
di eventuali clausole di efficacia e di revocabilità delle adesioni;
le informazioni sulla quota eventualmente già sottoscritta da parte degli
investitori professionali;
l’indicazione di eventuali costi o commissioni posti a carico
dell'investitore;
le indicazione delle banche e delle imprese di investimento cui saranno
trasmessi gli ordini di sottoscrizione degli strumenti finanziari oggetto
dell'offerta e descrizione delle modalità e della tempistica per l'esecuzione
dei medesimi, nonché della sussistenza di eventuali conflitti di interesse in
capo a tali banche e imprese di investimento;
le informazioni in merito alle modalità di restituzione dei fondi nei casi di
legittimo esercizio dei diritti di recesso o di revoca, nonché nel caso di
mancato perfezionamento dell'offerta;
termini e condizioni per il pagamento e l'assegnazione/consegna degli
92
strumenti finanziari sottoscritti;
informazioni sui conflitti di interesse connessi all'offerta, ivi inclusi quelli
derivanti dai rapporti intercorrenti tra l'emittente e il gestore del portale;
informazioni sullo svolgimento da parte dell'emittente di offerte aventi il
medesimo oggetto su altri portali;
la legge applicabile e il foro competente;
la lingua o le lingue in cui sono comunicate le informazioni relative
all'offerta.
Tutte queste informazioni, come specificato nell’Avvertenza preliminare, sono
fornite dalla società emittente e non dal gestore, né sono verificate dalla Consob.
Non viene dunque fornita alcuna “garanzia” in ordine alla completezza e
veridicità dei dati pubblicati, salva ovviamente la responsabilità della società
emittente. Dal canto suo, il gestore è tenuto ad assicurare “l'integrità delle
informazioni ricevute e pubblicate” e quindi deve dotarsi di sistemi operativi
affidabili e sicuri, deve individuare le fonti di rischio operativo e predisporre
procedure e controlli adeguati, anche al fine di evitare discontinuità operative,
oltre ad appositi dispositivi di backup. Inoltre il gestore è tenuto a conservare per
almeno 5 anni la documentazione contrattuale connessa alla gestione del portale
(ricezione e trasmissione ordini, conferme, accettazioni).
Sul piano sanzionatorio, va ricordato il contenuto dell’art. 50-quinquies del T.U.F.,
il quale stabilisce che “i gestori di portali che violano le norme del presente
articolo o le disposizioni emanate dalla Consob in forza di esso, sono puniti, in
base alla gravità della violazione e tenuto conto dell'eventuale recidiva, con una
sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquecento a euro venticinquemila”.
Inoltre, l’art. 22 del Regolamento prevede che la Consob, in caso necessità e
urgenza, possa disporre la sospensione cautelare dell'attività del gestore, per un
periodo non superiore a novanta giorni, qualora sussistano fondati elementi che
facciano presumere l'esistenza di gravi violazioni di legge ovvero di disposizioni
generali o particolari impartite dalla Consob atte a dar luogo alla radiazione dal
registro.
2.3.4.2 Deroghe al diritto societario
93
L’articolo 26 del Decreto Legge Crescita-bis n. 179/2012, prevede una serie di
disposizioni derogatorie rispetto alle disposizioni previste dalla normativa
societaria in favore delle start-up innovative di seguito riepilogate:
1. è ammessa la possibilità di posticipare al secondo anno di esercizio la
riduzione del capitale sociale nel caso di perdita a meno di 1/3 per la start-
up innovativa, così come previsto dall’art. 2446, comma 2, c.c. ed art.
2482, comma 4, c.c.;
2. nel caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale, è
consentito all’assemblea dei soci disporre il rinvio alla chiusura
dell’esercizio successivo la deliberazione di riduzione del capitale ed il
contemporaneo aumento dello stesso ad una cifra non inferiore al minimo
legale, così come previsto dall’art. 2447 c.c. ed art. 2482 ter c.c.;
3. l’atto costitutivo della start-up innovativa costituita in forma di società a
responsabilità limitata, in deroga a quanto previsto dall’art. 2468, comma
2 e 3, c.c. e dall’art. 2479, comma 5, c.c., può: a) creare categorie di quote
di partecipazione fornite di diritti differenti; b) determinare il contenuto
delle differenti quote di partecipazione; c) creare categorie di quote di
partecipazione che non attribuiscano diritti di voto o che attribuiscano
diritti di voto in misura non proporzionale alla partecipazione detenuta dai
soci; d) creare categorie di quote di partecipazione che attribuiscano diritti
di voto limitati a particolari argomenti o subordinati al verificarsi di
particolari condizioni;
4. le quote di partecipazione detenute nella start-up innovativa costituita sotto
forma di società a responsabilità limitata possono costituire oggetto di
offerta al pubblico di prodotti finanziari in deroga a quanto previsto
dall’art. 2468, comma 1, c.c.;
5. nelle start-up innovative costituite in forma di società a responsabilità
limitata è consentito di derogare al divieto di compiere operazioni sulle
proprie partecipazioni previsto dall’art. 2474 c.c., nel caso in cui dette
operazioni siano realizzate in attuazione di piani di incentivazione che
prevedano l’assegnazione di quote a dipendenti, collaboratori o
componenti dell’organo amministrativo, prestatori d’opera e servizi anche
94
di natura professionale;
6. è ammessa la possibilità che l’atto costitutivo della start-up innovativa e
dell’incubatore certificato possa prevedere l’emissione di strumenti
finanziari forniti di diritti patrimoniali od anche di diritti amministrativi
con esclusione del diritti di voto a seguito di un apporto prestato da parte
di soci o terzi anche d’opera o servizi.
2.3.4.3 Prospettive
Il vero limite della disciplina in esame sembra il ristretto ambito applicativo della
stessa tracciato dalla normativa primaria: quello delle start-up innovative
costituisce in effetti un settore “di nicchia” rispetto ad un meccanismo che
potrebbe essere utilizzato in numerosi contesti. I rischi legati a questa
impostazione paiono essenzialmente due: da un lato, quello di associare il
crowdfunding alle sole realtà per le quali è stato regolamentato, abbandonando le
altrettanto interessanti applicazioni socio-culturali, dall’altro quello di ingenerare
una discriminazione tra società di pari dimensioni e svolgenti attività analoghe nel
reperimento sul mercato di capitale.
D’altro canto, l’Italia, pur all’avanguardia nella regolamentazione, sconta la pena
dell’assenza di esperienza in questo settore e risulta caratterizzata da una diffusa
scarsa familiarità con il web che produce diffidenza e sfiducia negli acquisti
online e il rischio di allontanamento degli investitori, per tradizione cauti, da
questi nuovi meccanismi. In ogni caso, la disciplina “made in Italy” sull’equity
based crowdfunding rappresenta un importante traguardo e un innegabile fattore
propulsivo di crescita seppure ancora in fase di sperimentazione e con evidenti
fattori di criticità.
2.3.5 Conclusioni
Secondo il “Crowdfunding Industry Report” di Massolution, agenzia di ricerca del
gruppo Crowdsourcing LLC, esistono oltre settecento piattaforme al mondo. Il
fenomeno è ancora ai suoi albori e, ciò cui stiamo assistendo ora, è un’ampia
95
sperimentazione di soluzioni innovative e alternative che spiega la vasta gamma
di piattaforme di crowdfunding presenti sul mercato. La prima piattaforma
italiana, nata nel 2005, si è dimostrata pioniera di un florido futuro che ha dato
vita a 27 piattaforme attive e 14 in fase di lancio. Nel corso dei suoi pochi anni di
vita, il crowdfunding ha sviluppato una moltitudine d’impieghi, tra i quali il
crowdfunding “Do It Yourself” così chiamato in quanto non si ricorre a una
piattaforma, bensì si attiva la propria campagna per la raccolta di capitali in modo
indipendente. Sebbene, a primo impatto questa modalità sembrerebbe ostacolare
la diffusione delle piattaforme, è possibile controbattere affermando che il
crowdfunding “Do It Yourself” funziona quasi esclusivamente per grandi imprese
che hanno già a disposizione una comunità di riferimento abbastanza ampia. Altro
utilizzo in cui si sta specializzando il crowdfunding è il “Civic Crowdfunding”,
una modalità che tende a portare offline le communities formatesi sulla rete, in
forma di collaborazione e condivisione. Il Civic Crowdfunding è, dunque, il
finanziamento collettivo di opere e progetti pubblici che possono essere proposti
da amministrazioni locali, enti pubblici, organizzazioni che operano per il settore
pubblico e, naturalmente, anche dal singolo cittadino. Le tipologie di piattaforma
che il Civic utilizza sono quelle che già conosciamo, con la peculiarità che la
raccolta di finanziamenti dovrà prevedere esclusivamente la formula “all or
nothing”, per assicurare la realizzazione del progetto. Le principali piattaforme di
Civic, attualmente attive, sono le statunitensi Neighbor, CitizenInvestor; la
britannica Specehive e la tedesca LeihDeinerStadtGeld. In generale, come emerso
anche nella conferenza “Crowdfuture – the future of crowdfunding 2013”, il
crowdfunding presenta alcuni ostacoli da superare e che oggi ne rallentano la
crescita. Innanzitutto si tratta di ostacoli di natura culturale, intesi come mancanza
di conoscenza del fenomeno dovuta alla gioventù del crowdfunding che, come per
qualsiasi novità, ha bisogno di un periodo di diffusione e maturazione. Infatti,
proprio perché si tratta di un fenomeno nuovo lo si guarda in modo scettico e
diffidente come se si trattasse dell’ultima trovata senza futuro. È necessario che le
piattaforme, le associazioni di supporto e gli stessi utenti divulghino informazioni
sul funzionamento e soprattutto sul valore della partecipazione della folla, per la
prima volta protagonista attiva nella condivisione delle conoscenze e nella
96
realizzazione di progetti. Un altro ostacolo di natura culturale è la mancanza di
spirito di associazione nella società attuale che predilige il benessere individuale;
tuttavia il crowdfunding sta contribuendo a ribaltare questa configurazione
sociale, mostrando la spinta all’aggregazione delle forze comuni.
CAPITOLO 3
VERSO UNA VISIONE DI SMART MOBILITY
3.1 La mobilità: un bisogno in continua evoluzione
Negli ultimi decenni, una crescente attenzione è stata attribuita al tema della
sostenibilità e dello sviluppo sostenibile, definito, nel 1897 dalla World
Commission on Environment and Development, come lo sviluppo che
“garantisce i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la possibilità
che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. La mobilità sostenibile
può essere intesa come un sistema di trasporto progettato “ad hoc”, volto ad
affrontare le tre tipologie di problematiche a cui si fa riferimento quando si parla
di sviluppo sostenibile: sostenibilità ambientale, allocazione economica e
interconnessione sociale; infatti la mobilità sostenibile è “un potenziale per il
movimento che collega attività di trasporto con le altre, con le scelte di
localizzazione e con gli stili di vita”52. Il settore dei trasporti, inoltre è correlato a
quello delle comunicazioni: infatti; la comunicazione avanzata permette di
sostituire in molti casi i trasporti. Lo sviluppo dei trasporti sarebbe impossibile
senza comunicazione, la quale risulta di vitale importanza per i sistemi avanzati di
trasporto, dalle ferrovie al controllo del traffico aereo. La mobilità costituisce
infatti un pilastro portante di tutte le procedure di governance a livello
internazionale e le forti accelerazioni del mondo odierno comportano la necessità
di nuove infrastrutture o di nuove forme di mobilità, che risultano essere in molte 52 GUDMUNDSSON H., HISJER M., (1996), “Sustainable development principles and their implications for transport”, Ecological Economics, Vol. 3, No. 19, pp. 269-282.
97
occasioni motivo di conflitto. Lo scenario della mobilità, non solo in Italia ma in
tutta Europa, negli ultimi anni è profondamente cambiato: con la definitiva
affermazione della globalizzazione dei mercati, l’efficienza e l’affidabilità dei
sistemi di trasporto sono divenuti elementi ancor più essenziali che in passato.
Inoltre, l’incremento dei costi di congestione nelle nostre aree urbane, così come
l’incremento dei prezzi del petrolio e l’aumento delle emissioni inquinanti, sono
sfide che inducono ad operare per ridurre drasticamente i consumi di energia e per
migliorare la qualità dell’ambiente.
Nel mondo la domanda di mobilità è in costante crescita grazie anche
all’evoluzione tecnologica dei mezzi di trasporto e alla riduzione dei costi
avvenuta nella seconda metà del ventesimo secolo. Ad oggi l’organizzazione dei
trasporti è prevalentemente riferita al traffico su strada, con l’uso principalmente
di mezzi privati con forti, e non sempre positive, conseguenze sul piano
socioeconomico e ambientale, basta prendere come esempio la congestione delle
città, i disagi e pericoli per i ciclisti e i pedoni e non per ultimo l’elevato
inquinamento acustico ed atmosferico che ne consegue. La congestione del
traffico motorizzato e le scarse infrastrutture per ciclisti e pedoni hanno aggravato
per questi ultimi la sicurezza negli spostamenti. La gente sente il bisogno di una
città migliore, più vivibile, dove anziani, giovani, bambini, portatori di handicap e
tutti i cittadini possano muoversi anche senza automobile raggiungendo i vari
luoghi di interesse sentendosi ugualmente sicuri, protetti, soggetti del diritto alla
mobilità indipendente, senza dover dipendere da qualcuno che li accompagni in
automobile. Per contrastare tutto questo, occorre stimolare una politica basata su
obiettivi comuni da raggiungere e i risultati da realizzare sul territorio, in cui tutti i
soggetti coinvolti, quali ad esempio Pubbliche Amministrazioni, Regioni,
associazioni locali, il sistema delle imprese e la cittadinanza possano contribuire
insieme all’utilizzo efficiente delle risorse ed alla condivisione degli obiettivi e
degli strumenti per aumentare l’efficacia degli interventi da implementare. Anche
i cittadini devono essere sensibilizzati e coinvolti nei processi di pianificazione di
politiche legate alla mobilità sostenibile, al fine di stimolare la consapevolezza di
scelte più opportune nel muoversi in città. È necessario diffondere una vera e
propria cultura della mobilità sostenibile passando ad una visione più “smart”, per
98
soddisfare le mutanti esigenze di trasporto delle persone e per ottimizzare l’uso e
lo sviluppo delle risorse economiche, umani e ambientali.
3.2 Definizione di mobilità sostenibile
In ambito letterario non esiste una vera e propria definizione di “mobilità
sostenibile”, ma esistono molteplici varianti differenti tra loro o dal punto di vista
da cui viene analizzato l’ambito in questione o semplicemente per ragioni di
nomenclatura.
Banister sostiene come la mobilità sostenibile sia una parte importante di un
concetto più ampio e altrettanto rilevante come quello dello sviluppo sostenibile e
sulla base di tale assunzione, l’autore è convinto che la mobilità sostenibile sia
una forma di imposizione rivolta a tutti i settori operanti nella società di rimanere
entro prestabiliti livelli di sostenibilità, superati i quali è a rischio la
sopravvivenza delle generazioni non solo attuali, ma soprattutto future53. Friedl e
Steininger, hanno proposto invece, una definizione più ampia, considerando la
mobilità sostenibile come quel sistema di trasporto che permetta il
soddisfacimento di tutte le esigenze di accesso di base e, nel contempo, lo
sviluppo di tutti gli individui appartenenti alla società, di tutte le imprese e della
società stessa in modo sicuro e compatibile con la salute umana e con
l’ecosistema. Per mobilità sostenibile, secondo il loro punto di vista, ci si deve
riferire ad un sistema di mobilità caratterizzata da alcuni aspetti54:
� gli obiettivi generalmente accettati per la salute e la qualità ambientale (ad
esempio quelli proposti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in
53 BANISTER D., (2007), Cities, mobility and climate change, Journal of Industrial Ecology, Vol.11, No. 2, pp. 7-1054 FRIEDL B., STEININGER, (2002), Environmentally Sustainable Transport: Definition and Long-Term Economic Impacts for Austria, Kluwer Academic Publishers, Vol. 29, No. 2, pp. 163-180
99
materia di inquinamento atmosferico e acustico) siano soddisfatti;
� l’integrità dell’ecosistema non venga minacciata;
� i fenomeni globali potenzialmente negativi come il cambiamento climatico
e l’esaurimento dell’ozono nella stratosfera non vengano ulteriormente
aggravati.
Un altro punto di vista da cui poter analizzare la mobilità sostenibile è quello
relativo al futuro e, in particolare, alle possibili conseguenze sulle generazioni
future: a tal proposito risulta rilevante considerare alcuni contributi alla letteratura
provenienti da alcuni studiosi, come Wiegmans. L’autore intende la mobilità
sostenibile come quel sistema che, una volta implementato, sia in grado di
generare effetti nel medio – lungo periodo legati ad una diminuzione
dell’inquinamento atmosferico ed acustico, ad un notevole e sempre crescente
risparmio energetico e ad un decremento del fenomeno della congestione, presente
nelle aree urbane. Richardson, invece, considera la mobilità sostenibile come quel
sistema di trasporto che, una volta implementato e messo a regime, consenta di
soddisfare le esigenze della mobilità delle generazioni attuali, senza
compromettere la capacità delle generazioni future di poter soddisfare le proprie.
Lo stesso punto di vista è stato utilizzato dal CST (Centre for Sustainable
Transportation), un Istituto di ricerca canadese che si occupa di politiche di
sostenibilità nel settore dei trasporti, secondo il quale la mobilità sostenibile è un
sistema di trasporto che ha le potenzialità per garantire accessibilità e sicurezza
nel rispetto del principio di equità tra le diverse generazioni; inoltre è un sistema
che risulta essere conveniente da un punto di vista economico – finanziario ed è in
grado di limitare gli impatti ambientali, ad esempio attraverso una riduzione del
livello dei rifiuti che tale sistema produce in esercizio, attraverso una diminuzione
delle emissioni di gas inquinanti con un’ottimizzazione delle risorse. In sintesi un
sistema di mobilità sostenibile è un sistema che:
� consente di soddisfare le esigenze di accesso di base degli individui e della
società in modo sicuro e in modo compatibile con la salute umana e con
l’ecosistema, rispettando il principio di equità all’interno e tra le
generazioni;
� è conveniente, funziona in modo efficiente ed offre una modalità di
100
trasporto supportando la dinamicità dell’economia;
� limita le emissioni e i rifiuti considerando anche la capacità del pianeta di
assorbirli, riduce al minimo il consumo di risorse non rinnovabili, limita il
consumo delle risorse rinnovabili al livello di rendimento sostenibile.
3.3 La realtà della Smart Mobility
Occorre quindi, ripensare la mobilità in modo da rispondere ai nuovi bisogni in
modo flessibile, efficace e sicuro. Si devono utilizzare positivamente le tendenze
sociali e le nuove tecnologie (in particolare le tecnologie ICT) per ottenere una
mobilità più sostenibile, in piena e totale integrazione con i processi che tendono a
rendere la città più “intelligente”. Possiamo affermare che la “Smart Mobility”,
utilizzando al meglio le tecnologie ICT, rende la città accessibile a tutti, con
servizi di trasporto disponibili, facili da usare, efficienti e sostenibili
economicamente e ambientalmente. Tendenze socio-economiche e innovazione
tecnologica offrono diverse opportunità, che possono dare un contributo positivo.
Il cambiamento più decisivo, proviene dal mutato atteggiamento dei cittadini:
sempre più “informati”, “connessi” e capaci di utilizzare servizi di prenotazione,
informazione e navigazione, diventano “soggetti attivi” nella mobilità. La
tecnologia sta favorendo e motivando questo cambiamento, con i vari strumenti di
connessione mobile e con applicazioni mobili personalizzate (le “app”). Anche la
crescente diffusione dei social network favorisce nuovi paradigmi per la mobilità:
essi infatti rendono più facile l’interazione con gli utenti in viaggio, tanto che
stanno di-ventando il canale privilegiato dai viaggiatori per segnalare disagi, code,
incidenti, congestioni. Il viaggiatore può realmente scegliere se, quando e come
spostarsi, con quali mezzi e con quali itinerari. Se ieri vedeva il veicolo di
proprietà come unica alternativa flessibile e personale, domani potrà, anche
mediante “app” di sua scelta eventualmente “locali”, progettare e creare i propri
101
spostamenti in modo personalizzato, flessibile ed efficiente, utilizzando diversi
servizi di trasporto. Sono evidenti le condizioni necessarie: occorre che le città
diventino davvero “smart” e capaci di offrire, tramite le reti, i servizi necessari per
l’effettiva ottimizzazione (e la possibile riduzione) degli spostamenti (inclusi gli
spostamenti per lavoro); poi rendano disponibili servizi di trasporto flessibili e
personalizzabili per passeggeri e merci (quali i servizi di car e bike sharing, o i
trasporti a domanda, o la “city logistic” per le merci); occorre infine che tutti i vari
servizi siano “in rete” e facilmente fruibili; che informazioni, prenotazioni, servizi
di pagamento siano disponibili e utilizzino i canali di comunicazione più efficienti
e pervasivi.
Soprattutto, occorre che i servizi di trasporto di massa abbiano la copertura e la
qualità necessarie; infine, che il traffico privato, che comunque resterà importante,
diventi efficiente e sostenibile, con veicoli sempre più “green”. La “Smart
Mobility”, quindi, condivide gli obiettivi di sostenibilità, qualità della vita,
inclusione sociale, da raggiungere attraverso l’innovazione nell’organizzazione
dei trasporti, nei comportamenti sociali, nei servizi al cittadino; utilizza le
opportunità offerte dalle tecnologie ICT disponibili, dai nuovi comportamenti
sociali e dall’integrazione dei servizi nel contesto urbano, per rendere i sistemi di
mobilità urbana più efficienti, sicuri, rispettosi dell’ambiente e, allo stesso tempo,
più “amichevoli” per il viaggiatore. Considera come prioritaria la sostenibilità,
economica, ambientale, energetica, sociale, valutando gli impatti positivi e
negativi degli interventi; sceglie le applicazioni che, accanto a benefici
significativi e dimostrabili, comportano costi e difficoltà di realizzazione limitate .
3.3.1 L’importanza dell’ICT per la Smart Mobility
Generalmente si pensa che l’utilizzo di Information and Communication
Technology (ICT) possa consentire una mobilità più sostenibile attraverso un
migliore utilizzo delle autostrade e una diminuzione sia del numero di vittime
della strada e dei livelli di congestione (solo per citare alcuni effetti). Il trend
102
osservato55 ha suggerito come l’ICT potrebbe contribuire alla mobilità sostenibile:
è stato possibile notare che le auto nel futuro, grazie alla forte innovazione
tecnologica prevista, saranno più leggere e più sicure e genereranno meno
emissioni; inoltre esse diventeranno più intelligenti, utilizzando computer di bordo
in grado di analizzare la situazione del traffico e il comportamento del conducente
ed offrendo consulenze in termini di comportamento di guida ottimale. Infine, il
trend suggerisce un’interazione reciproca tra mezzi di trasporto e infrastrutture
"intelligenti" con un conseguente aumento di efficienza del traffico e quindi il
verificarsi di meno incidenti.
Sostenitori della stessa tesi sono anche alcuni professori dell’Università di Napoli,
secondo i quali una soluzione IT limitata a un solo mezzo di trasporto ha due
implicazioni negative a seguito: innanzitutto l’utente non è in grado di confrontare
efficacemente soluzioni di trasporto diverse e scegliere la più adatta in base ai
propri obiettivi e, in secondo luogo, l’utente non è a conoscenza dell’esistenza di
altre soluzioni di mobilità sostenibile, in quanto supportate da altre soluzioni
specifiche56.
Il reale impatto delle tecnologie e il loro potenziale contributo allo sviluppo di una
mobilità sostenibile dipende da numerosi fattori, uno di questi è la politica dei vari
governi, in quanto questi ultimi possiedono strumenti efficaci nel reindirizzare i
comportamenti e modificare le tendenze generali della popolazione. Negli ultimi
due decenni, la tendenza delle tecnologie informatiche è stato alquanto
significativo, ha influenzato in molti modi lo stile di vita, anche nel quotidiano,
dell’intera popolazione e ha le potenzialità, data l’enorme capillarità che la
contraddistingue, di apportare modifiche anche importanti ai modelli di mobilità
dei singoli individui. L’importanza di tale tematica e la piena consapevolezza delle
55 WIEGMANS B., BEEKMAN N., BOSCHKER A., VAN DAM W., NIJHOF N. (2003), “ICT and Sustainable Mobility: From Impacts to Policy”, Growth and Change, Vol. 34, No. 4, pp. 473-48956 DI MARTINO S., CLEMENTE G., GALIERO R. (2011), “A rich cloud application to improve sustainable mobility”, Personnel Review, Vol. 41, No. 1, pp. 109-123.
103
opportunità che sarebbe possibile sfruttare utilizzando in modo appropriato le ICT
hanno spinto le varie istituzioni ad intervenire con dei programmi: un esempio è
possibile riscontrarlo anche nell’Unione Europea. La politica europea delle ICT è
principalmente formulato in due documenti relativi al piano d’azione “eEurope”
(2001) e l’Information Society Technologies Program57. I temi principali sono
l’ammissione e l’accessibilità di Internet e delle nuove forme di comunicazione;
inoltre, l’UE incoraggia i governi e le organizzazioni pubbliche ad adeguarsi
all’era digitale; negli Stati Uniti, la situazione è analoga. Sia nel continente
europeo sia negli USA vi sono anche qui politiche ICT dirette a supportare la
mobilità al fine di raggiungere il condiviso obiettivo mondiale della sostenibilità:
l’Information Society Technologies Program [Commissione europea 2001b e
2002] e l’Intelligent Transport System Program [Humphrey, 1994; National ITS
Program Plan, 1995; US Department of Transportation, 1997; Rothberg et al.,
1997; Transportation Research Board, 2000].
3.3.1.1 Infomobilità
Con l’espressione “infomobilità” si intende l’uso di tecnologie dell’informazione
a supporto della mobilità e degli spostamenti di persone e merci. Grazie allo
sviluppo di dispositivi e strumenti informatici avvenuto negli ultimi anni,
accompagnato alla rapida diffusione dei sistemi di navigazione satellitare basati
sul GPS, le informazioni relative alla mobilità ed alle sue componenti relative a
persone (traffico stradale) e merci (logistica) sono trattate in modo sempre più
completo, diffuso ed accessibile a tutti. L’infomobilità aiuta quindi, ad esempio,
sia i normali cittadini che si muovono nel traffico (in auto, moto, o anche in bici
ed a piedi), sia coloro che devono utilizzare mezzi di trasporto pubblico (con
informazioni in tempo reale sull’andamento di autobus e treni, o sulla
localizzazione delle fermate), che gli operatori della logistica e del trasporto
postale e delle merci. Le informazioni possono essere inviate all’utenza in modo
diffuso (es. con pannelli a messaggio variabile in autostrada), o può essere l’utente
stesso ad accedervi in base alle proprie necessità (es. informazioni sul traffico,
ricerca di un parcheggio) o alla propria situazione specifica (es. da casa attraverso
57 European Commission 2000, 2001, 2002.
104
il web, o in mobilità attraverso un dispositivo mobile etc.). L’informazione
rappresenta il nuovo bene di riferimento per l’economia urbana: la città produce,
elabora e trasferisce informazione e sta progressivamente organizzando su tale
modello molti dei propri processi funzionali.
3.3.2 Il ruolo delle tecnologie ITS per la Smart Mobility
Nel mondo, soluzioni di smart mobility vengono implementate con successo. Un
rapporto della Information Technology and Innovation Foundation58 ha registrato
sostanziali miglioramenti del sistema dei trasporti nei Paesi che stanno
implementando modelli di una nuova mobilità intelligente, con impatti
significativi sulla qualità della vita, l’ambiente e la competitività. L’Europa ha
avviato un processo di creazione di un mercato della smart mobility; si stima
infatti, che gli impatti diretti e indiretti derivanti dall’apertura e messa a
disposizione dei dati sulla mobilità sul territorio comunitario per applicazioni
“smart” possa valere oltre 140 miliardi di Euro, con nuove filiere industriali e di
servizi59. Nella transizione dei sistemi della mobilità verso assetti e modelli
evoluti, molti Paesi stanno focalizzandosi sull’aspetto tecnologico, cercando di
raggiungere posizioni di vantaggio sulle filiere industriali e della ricerca. È
prevista, infatti, una crescita del mercato delle tecnologie nei prossimi anni: per i
soli ITS (Intelligent Transport System) si prevede un valore globale di oltre 70
miliardi di Dollari nel 201560. A questi si aggiungono i propulsori e i carburanti a
basso impatto ambientale, le tecnologie per la sicurezza etc. Alcune soluzioni
tecnologiche di smart mobility possono essere implementate e sviluppate con
successo su scala locale, come ad esempio l’adozione di tabelloni e segnali di
informazione in tempo reale; i benefici di un mobilità intelligente, possono essere
però abilitati laddove è garantita l’adozione dei modelli e delle tecnologie su larga
scala. Adottando sistemi per l’informazione, la connettività e la sicurezza sulla
rete dei trasporti e integrando i servizi collegati con la domanda individuale e
58 ITIF, Intelligent Transportation Systems, 2010.59 European Commission, Digital Agenda Assembly, 2012.60 BBC Research, market forecasting, 2010.
105
collettiva è evidente il potenziale di creazione di valore e di riduzione delle
inefficienze che un sistema territoriale allargato può consentire di raggiungere. Vi
sono inoltre diverse tecnologie di rilevamento che consentono oggi di sfruttare
alcuni progressi fatti a livello di telecomunicazioni e di Information Technology,
che nascono da un mix di microchip, RFID (Radio Frequency Identification) e
tecnologie di segnalazione poco costose. Queste tecnologie sono basate su sistemi
di rete, dispositivi indistruttibili che vengono installati o incorporati nella strada o
nello spazio che circonda la strada stessa (edifici, pali, segnali stradali, etc.).
Possono essere diffusi manualmente durante la costruzione o la manutenzione di
strade, o grazie all’utilizzo di macchine capaci di iniettare questi sensori. Tali
dispositivi consentono la circolazione di dati, includono la distribuzione di
informazioni da infrastrutture a veicolo e da veicolo a infrastrutture e possono
altresì avvalersi di dispositivi video di riconoscimento automatico delle targhe dei
veicoli o di tecnologie di rilevazione magnetica dei veicoli a intervalli desiderati,
per aumentare il monitoraggio continuo di veicoli circolanti in zone critiche. A
Singapore, ad esempio, la Land Transport Authority ha creato uno strumento di
predizione dei flussi di traffico basato sui dati storici e sulle informazioni in tempo
reale. Il “Prediction Tool” è in grado di elaborare e rilasciare aggiornamenti su
durate pre-impostate (da 10 a 60 minuti). Nell’85% dei casi, il modello è in grado
di ipotizzare ciò che realmente avverrà nel sistema di mobilità della città, sia in
termini di velocità, sia in termini di volume di traffico. Il risultato delle
applicazioni è stimato in una riduzione di almeno il 20% delle congestioni al
giorno. Questo strumento fa parte di un progetto più ampio, chiamato “i-
Transport”, che è il cuore del sistema dei trasporti intelligente di Singapore. Negli
ultimi anni, un altro aspetto interessante assunto dalle comunità, è la
consapevolezza della necessità di un profondo ripensamento delle tecnologie di
alimentazione dei trasporti, che è parte integrante del concetto di smart mobility:
� metano e GPL, rappresentano già realtà importanti, ma la loro principale
criticità è la mancanza di una copertura capillare a livello di distribuzione;
� bio-combustibili, si propongono come l’alternativa al petrolio. Tra i punti
di forza vi è la compatibilità con la tecnologia motoristica attuale, mentre
106
le criticità attengono all’impatto ambientale e ai costi;
� veicoli elettrici (ibridi o “full electric”), possono risolvere i problemi
dell’emissione di sostanze nocive e di inquinamento acustico.
L’evoluzione tecnologica è indirizzata a risolvere i problemi che
rappresentano i fattori ostativi alla loro diffusione come la capacità
limitata delle batterie, costi elevati e i tempi e le modalità di ricarica.
3.3.3 Innovazione e Ricerca per la Smart Mobility
L’innovazione e la ricerca nella smart mobility e nei Sistemi Intelligenti di
Trasporto offrono, grandi opportunità per la sostenibilità dei trasporti urbani; le
tecnologie, componenti, prodotti, sistemi e servizi, hanno anche un notevole
potenziale di penetrazione sul mercato mondiale. Diversi casi di studio hanno
dimostrato come una moderna organizzazione della rete di trasporto possa portare
ad un risparmio di denaro. Tecnologie “smart” sono disponibili per migliorare
l’efficienza del viaggio, fornire informazioni accurate in tempo reale,
personalizzare il viaggio in base alle proprie preferenze, etc. I progressi della
tecnologia stanno trasformando la vita quotidiana in modi impensabili solo fino a
pochi anni fa. Si pensi agli smartphone, ai tablet, dispositivi eccezionali che si
rivelano utili in tantissime circostanze. smart mobility vuole dire migliorare nel
concreto la vita delle persone, il lavoro delle imprese e la competitività del
sistema Paese attraverso nuovi e migliori sistemi di servizi e di gestione per il
trasporto. Le applicazioni pratiche sono molteplici per la mobilità delle persone e
di seguito sono riportati alcuni esempi di quello che già è in essere nel mondo:
servizi all’utenza. A Cork (Irlanda), viene promosso un sistema tramite
smartphone che consente a chi ha una macchina vuota di dare disponibilità
di un passaggio attraverso una ricarica di venti centesimi di Euro per
chilometro;
gestione del pricing. In Olanda il progetto di pricing “pay-per-use”
chiamato “NL KILONTRPIJ”, consente di applicare tasse di circolazione
107
in base ai km percorsi, agli orari, alle specifiche strade utilizzate. Dal 2011
viene applicato sui mezzi pesanti, nel 2012 sui mezzi con passeggeri;
servizi per l’ambiente. Ad Amsterdam, con il programma “Ship to Grid
200”, sono state installate stazioni energetiche per connettere le
imbarcazioni ad una fonte di energia pulita che alimenta i congegni di
bordo facendo a meno dei generatori diesel. Una connessione attivabile via
telefono consente di accreditare automaticamente il costo energetico sul
conto dell’imbarcazione;
messa a valore delle informazioni. A Paredes (Portogallo), 100 milioni di
sensori gestiti da un sistema di controllo intelligente consentono di
monitorare l’evoluzione del tessuto urbanistico (cantieri aperti, stato degli
edifici). Incrociando i dati con quelli del traffico si conosce in tempo reale
quale sia il miglior mezzo di trasporto per i propri fini, con dettagli esatti
sul tempo necessario e il costo;
servizi per l’info-traffico e la sicurezza. A Helsinki, è stata creata una
piattaforma che raccoglie e condivide informazioni sul traffico, incidenti,
lavori in corso e presenza di animali sulle autostrade (causa di centinaia di
incidenti stradali). La piattaforma è aperta alle imprese che usano la
funzione di geolocalizzazione per proporre le loro offerte aggiornate in
tempo reale;
gestione del traffico. A Minneapolis è stato introdotto il sistema MNPass,
che consiste nel variare in tempo reale le tariffe di circolazione su alcune
corsie preferenziali in modo da tenere la velocità delle corsie sempre a 50
miglia orarie; bus e mezzi pubblici non sono sottoposti a tariffa;
gestione dei parcheggi. A San Francisco, è stato sviluppato un sistema di
“parcheggio dinamico” in cui i sensori posizionati sulla strada segnalano
attraverso le reti wi-fi presenti nelle vicinanze la disponibilità di posteggio
e il prezzo orario del parcheggio oscilla a seconda delle disponibilità.
108
Sono poi in fase di sviluppo importanti progetti come l’iniziativa europea di
chiamata di emergenza automatica, “e-Call”, per assicurare un’assistenza
rapida agli automobilisti coinvolti in un’incidente in tutta l’Unione Europea.
L’iniziativa si propone di distribuire un dispositivo installato in tutti i veicoli che
automaticamente è in grado di chiamare il numero di emergenza unico in caso di
un grave incidente stradale e di inviare in modalità wireless dagli airbag e dai
sensori, informazioni sull’impatto, così come le coordinate GPS alle agenzie di
emergenza locali.
3.4 La Smart Mobility in Italia
Il nostro Paese, sconta forti ritardi nella gestione del trasporto, che comportano
costi notevoli. Il costo della congestione urbana è stimato intorno ai 5 miliardi di
Euro l’anno,61 di molto superiore alla media europea; i gas inquinanti continuano a
superare le soglie di legge; gli incidenti non diminuiscono come dovrebbero.
Infine, nonostante siano presenti alcuni esempi di eccellenza nell’impiego urbano
di sistemi ITS, la penetrazione globale dei sistemi intelligenti è limitata (secondo
uno studio della Fondazione Energy Lab la copertura non sarebbe superiore al
10%); di particolare rilevanza, per la mobilità urbana, il ritardo nei sistemi di
gestione del traffico e del TPL più classici e basilari (sistemi semaforici, per il
TPL, per i parcheggi, la cui diffusione è “a macchia di leopardo” e molto limitata,
comunque tale da non reggere il confronto con la situazione in Germania, presa
come esempio comparativo). D’altro canto, il nostro Paese vede un’alta
penetrazione delle tecnologie ICT, in particolare delle comunicazioni mobili
(anche se è in ritardo sull’uso effettivo delle reti) e sta investendo sulle reti a
banda larga e sulla “digitalizzazione” dei servizi. Infine, le nostre città, ciascuna
con le sue particolari caratteristiche, con flussi turistici importanti, con una
popolazione che mostra esigenze e aspettative di maggior qualità dei trasporti,
soggette a rilevanti “shock” per la mobilità, dovuti a fenomeni di varia natura e
sempre più frequenti, sono le migliori candidate per usufruire di servizi di
61 FONDAZIONE CARACCIOLO F. (2014), “Muoversi meglio in città per muovere l’Italia”, ACI.
109
mobilità personalizzati e adattati alle esigenze locali.
Nel nostro Paese, una smart mobility si può raggiungere attraverso cinque punti
chiave62 stilati da TTS Italia:
1. strade tecnologiche, che sappiano comunicare dati sui flussi di traffico,
interagire con i veicoli in uno scambio reciproco di informazioni, chiamare
in caso di emergenza, sanzionare le violazioni al codice della strada,
informare gli automobilisti delle condizioni della viabilità;
2. trasporto pubblico locale facile ed affidabile, con informazioni alle
fermate o nelle stazioni, biglietti acquistabili con lo smartphone;
3. sicurezza stradale più elevata, con semafori intelligenti, tutor,
monitoraggio del trasporto delle merci pericolose e aree sicure dove far
sostare i camion;
4. una piattaforma logistica nazionale;
5. sviluppo delle “connected car”, ovvero auto intelligenti in grado di
diventare sensori in movimento, il tutto accompagnato da una revisione
dell’architettura nazionale ITS (Sistemi di Trasporto Intelligenti).
In conclusione, la smart mobility è, oggi in Italia, una componente essenziale ed
abilitante per le “smart cities”. La mobilità di persone e merci è fattore
determinante per la vita delle città e dei cittadini; essa potrà essere garantita, nel
futuro prossimo, solo con l’impiego coordinato ed efficace delle nuove tecnologie,
accompagnando le tendenze sociali ed economiche in atto. Per altro, le tecnologie
ITS sono disponibili e la loro utilizzazione su larga scala è oggetto di uno sforzo
europeo imponente; il loro impiego nell’ambito dei progetti smart city vede
sinergie molto importanti: i nuovi servizi “smart city” possono ridurre e
qualificare meglio la domanda di mobilità. La smart mobility migliora
l’accessibilità, la connettività, l’inclusione delle fasce deboli; riduce emissioni
62 La Stampa, “TTS Italia propone 5 mosse per la smart mobility”, 2013.
110
inquinanti e consumi energetici; migliora la qualità della vita urbana.
L’integrazione tra i vari servizi, la cooperazione, l’utilizzo integrato dei dati
moltiplicano gli effetti positivi e riducono i costi complessivi.
3.5 Smart City e Smart Mobility: due concetti inscindibili
Sempre più spesso si sente parlare di “smart city”. L’espressione rischia tuttavia di
restare generica e priva di una visione condivisa su scala mondiale. Difatti il
termine “smart” sta diventando una moda, una parola usata dagli addetti ai lavori
per rappresentare la possibilità di una migliore qualità dei servizi. La visione di
Smart City, in quanto città ideale, trae ispirazione dal Rinascimento, durante il
quale nacquero città con gli stessi principi di una smart city. La riflessione più
recente sulle smart city nasce, però, negli anni Novanta del secolo scorso ad opera
di tecnologi e uomini del marketing, in concomitanza con la liberalizzazione delle
telecomunicazioni e l’ascesa dei servizi Internet. Con il tempo, l’espressione
smart city è diventata sinonimo di una città caratterizzata da un uso intelligente ed
steso delle tecnologie digitali. L’affermazione di questa visione va di pari passo al
proliferare di antenne della telefonia mobile e wi-fi e alla realizzazione di reti
civiche da parte dei Comuni. Oggi, il concetto di smart city è entrato nelle agende
delle istituzioni, diventando oggetto di azioni e priorità delle politiche, anche
comunitarie, come un approccio in cui si integrano nuove tecnologie, nuove
metodologie e nuovi modelli di business.
Una città può essere classificata come smart city se gestisce in modo intelligente
le attività economiche, la mobilità, le risorse ambientali, le relazioni tra le
persone. In altre parole, una città po’ essere definita come “smart” quando gli
investimenti in capitale umano e sociale e nelle infrastrutture tradizionali
(trasporti) e moderne (ICT) alimentano uno sviluppo economico sostenibile ed
una elevata qualità della vita, con una gestione saggia delle risorse naturali.
La visione della città come smart city, prevede una serie d’innovazioni
111
tecnologiche, atte a rendere la città in grado di offrire servizi innovativi grazie alla
capillare introduzione delle ICT in settori fino a poco tempo fa lontani da una
simile evoluzione. La definizione di una smart city si basa su alcuni indicatori che
rendono una città “smart”. Nello specifico si tratta:
� broadband: banda larga e ultra-larga fissa (ADSL, fibra) e mobile;
� smart health: prenotazione a pagamento del ticket e ritiro dei referti via
Web;
� smart education: diffusione di personal computer nelle scuole; aule
collegate a Internet;
� smart mobility: bigliettazione elettronica; digitalizzazione orari e
percorsi; servizi informativi all’utenza; varchi ZTL elettronici; pagamento
elettronico della sosta;
� smart government: servizi anagrafici; servizi per le scuole comunali;
pagamento on-line dei tributi locali o dei servizi per la scuola;
� mobilità alternativa: diffusione di auto elettriche e colonnine per la
ricarica; servizi comunali di “carpooling”; piste ciclabili;
� energie rinnovabili: energia prodotta attraverso pannelli fotovoltaici;
energia prodotta attraverso fonti eoliche;
� efficienza energetica: consumo di gas ed energia elettrica; politiche locali
per l’illuminazione pubblica;
� risorse naturali: diffusione della raccolta differenziata; impianti di
depurazione, consumo e dispersione dell’acqua.
In questo contesto, il modello delle città del futuro può basarsi sui servizi della
città suddivisi in tre gruppi differenti:
servizi di infrastrutture: servizi per gli edifici, i trasporti, la distribuzione
dell’acqua, dell’energia, il consumo energetico, l’infrastruttura per il
112
trasporto dati e le telecomunicazioni;
servizi per la comunità: servizi che vengono pensati e fruiti per il
cittadino come la sanità, la cultura, l’educazione, commercio;
servizi non per la comunità: servizi dove l’ICT potrebbe portare ad un
aumento del livello sostenibile della città in termini di incremento della
qualità della vita. In questa categoria rientrano ad esempio i servizi
finanziari o nuovi concetti di business per incrementare o migliorare
l’offerta di lavoro.
La suddivisone dei servizi in queste categorie è spiegata dal fatto che la città, ha la
necessità di attrarre sia le persone sia nuovi concetti di business. Questo perché
molte persone si muovono verso la città per migliorare la propria vita. Ad esempio
per i giovani significa trovare un lavoro soddisfacente che piccoli centri non
offrirebbero, per gli anziani poter usufruire di strutture avanzate che permettono di
avere dei servizi sanitari non possibili in zone rurali.
3.5.1 La mobilità sostenibile in una Smart City
In una smart city ci si muove più razionalmente, si hanno più percorsi e mezzi a
disposizione per raggiungere la propria destinazione, si consumano meno risorse e
si riducono le emissioni tossiche. Recenti ricerche dimostrano come la messa a
sistema di investimenti tecnologici pregressi per la realizzazione di programmi di
smart mobility possa portare ad un incremento complessivo del 5% di PIL a
livello nazionale senza la necessità di mettere in cantiere investimenti per la
costruzione di nuove infrastrutture fisiche. Esistono in Italia numerosi esempi di
Intelligent Transportation System (ITS) attivi ed efficaci che devono essere
valorizzati e messi a sistema creando raccordi funzionali e offrendo loro più
ampia diponibilità di dati. Dati in possesso delle amministrazioni che devono
poter essere messi a disposizione dell’utenza attraverso l’elaborazione in tempo
reale dei sistemi informativi cittadini per risultare massimamente funzionali in
relazione all’applicazione nei contesti specifici. Visti gli ingenti risparmi che si
113
potrebbero realizzare, i protagonisti del confronto attuale sul tema propongono la
creazione di un Fondo Nazionale di sostegno all’investimento per la realizzazione
di sistemi di collaborazione tra ITS efficienti. Investimenti che alimentino il
tessuto industriale dedicato e la componente accademico-scientifica coinvolta nei
processi di ricerca e sviluppo. Nelle città intelligenti si tratta di comprendere in
programmi complessivi le numerose tecnologie già esistenti: dai cruscotti di
controllo del traffico ai sistemi di pedaggio elettronico, dalle chiamate di
emergenza all’interpretazione dei dati provenienti dai sensori distribuiti lungo le
strade, dall’identità elettronica dei veicoli ai motori elettrici, ibridi, a biofuel o a
pile combustibili. A tal proposito un importante passo riguarda l’incentivazione e
l’incubazione di Start-Up orientate alla creazione di applicazioni per la mobilità
che possano ad esempio essere utilizzate dalle aziende di Trasporto Pubblico
Locale. Ciò consentirà di mantenere e sviluppare una rete di piccole e medie
aziende che possano operare nel segmento ITS, aziende in grado di collaborare
con università e centri di ricerca e di partecipare anche ad iniziative di grande
respiro sotto l’egida dei pochi attori nazionali, necessari per la realizzazione delle
grandi infrastrutture immateriali. L’integrazione di grandi infrastrutture
immateriali e applicazioni potrebbe favorire lo sviluppo di piattaforme davvero
efficaci per l’intermodalità, integrando i servizi TPL ferro/gomma con la mobilità
individuale sostenibile per giungere fino all’integrazione con gli spostamenti a
piedi e in bicicletta.
3.5.2 Torino Smart City
Innovazione sociale e smart city rappresentano un binomio inscindibile: due
concetti che in Italia sono stati legati con la linea di intervento sostenuta dal
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MUIR). Questa è stata
la strada intrapresa da Torino, che si dimostra una realtà sensibile ai temi
dell’innovazione diventando una tra le prime città a dotarsi di un piano strategico,
denominato “SMILE”, per fare della città una smart city. La Comunità Europea ha
cercato di definire una “città intelligente” come quella che gestisce in modo Smart
le attività economiche, la mobilità, l’ambiente, le relazioni tra le persone, le
politiche abitative e il governo della cosa pubblica. In particolare, la sfida per la
114
maggior parte delle città è la riqualificazione e il risanamento dell’esistente. Il
primo step per costruire una smart city è l’ottimizzazione di risorse energetiche e
trasporti in modo che le aree metropolitane diventino più efficienti riducendo al
tempo stesso le riduzioni di emissioni di carbonio, l’inquinamento, la produzione
di rifiuti e la congestione del traffico. Il secondo passo, è l’introduzione di nuove
tecnologie per la gestione dei processi urbani. In Italia, Torino si colloca in una
buona posizione dal punto di vista dell’efficienza. Basti pensare, ad esempio, al
settore energetico, dove il capoluogo piemontese risulta migliore di altre
metropoli italiane soprattutto per la riqualificazione energetica del patrimonio
edilizio. Per rispondere poi ai problemi dell’inquinamento atmosferico, a causa
della posizione morfologica della città, l’area torinese si è concentrata soprattutto
su politiche di contenimento del traffico, tenendo conto dei livelli emissivi dei
veicoli. Nel 2010, il Comune di Torino ha adottato il Piano urbano della mobilità
sostenibile con l’obiettivo di giungere entro il 2020 ad una situazione di parità
nella ripartizione del traffico privato e dei mezzi pubblici. Dal 2000 al 2010, sono
anche aumentate nella città le piste ciclabili, facendo del capoluogo piemontese la
metropoli con la maggiore densità di piste in Italia. Nel 2010 è stato anche
inaugurato il servizio di bike sharing, chiamato “Tobike”, registrando un successo
superiore alle attese.
Torino, inoltre è stata anche una delle prime città a creare un programma urbano
di innovazione sociale, chiamato “Torino Social Innovation”. Questo programma
si propone di investire nei giovani innovatori sociali, sostenendoli in percorsi
imprenditoriali e nello sviluppo di creatività, competenze digitali, sensibilità per il
cambiamento e per generare soluzioni innovative. Per supportare la piattaforma di
Torin Social Innovation si è creato un network di partner pubblici e privati che
rappresentano l’ecosistema dell’innovazione sociale a Torino. Il network cerca di
riunire competenze ed esperienze con lo scopo di diffondere la cultura della social
innovation e promuovere un nuovo modo di innovare sul territorio. In più, il
programma aspira a sostenere con azioni di advisory tecnico63 e di supporto
finanziario nuove forme di economia collaborativa e lo sviluppo di progetti
imprenditoriali. Nell’ambito del programma Torino Social Innovation, per il
63 Per azioni di advisory tecnico si intendono le attività di consulenza relative al mercato di riferimento, alla fattibilità dell’idea e in generale al realizzazione di un business plan.
115
periodo gennaio 2014 – dicembre 2015, la città ha lanciato il servizio “FaciliTO
Giovani”, finalizzato a promuovere circa trenta imprese attraverso servizi di
consulenza tecnica. I destinatari di questo servizio, sono i giovani under 40
intenzionati a sviluppare attività innovative di impresa a Torino, da cui la
comunità cittadina possa trarre beneficio. Gli obiettivi di FaciliTO Giovani,
abbracciano i principi della sharing economy e del co-working, mettendo in rete
attori geograficamente lontani e rispondendo con politiche mirate al fenomeno
della disoccupazione giovanile. In conclusione, questo progetto a favore di
imprese promosse da giovani innovatori sociali rappresenta un esempio di buona
policy con cui sperimentare nuovi modelli di innovazione sociale, generando
anche impatti positivi nella città.
3.6 Strategie di marketing e di comunicazione sulla mobilità sostenibile
Non è sufficiente sviluppare delle iniziative a favore della mobilità sostenibile se
poi queste restano nell’ombra. Come ogni nuovo prodotto, anche gli interventi
innovativi necessitano della loro dose di pubblicità. Il marketing e la
comunicazione sono strumenti strategici per contattare i cittadini e indurli con
successo a mettere in atto dei comportamenti mirati. Sempre di più si vanno
consolidando esperienze di comunicazione e marketing urbano, il cui più
immediato obiettivo è attivare e sensibilizzare la gente. I mass media hanno di
certo i mezzi per puntare i riflettori sul concetto di mobilità sostenibile e sulle
iniziative che la promuovono. Per loro costituzione, questi permettono di
diffondere il messaggio ad un’ampia pluralità di individui simultaneamente. Tra i
grandi mezzi di comunicazione di massa ci sono, solo per dirne alcuni, la
televisione, i giornali, la radio, il cinema e anche gli stessi manifesti pubblicitari
che tappezzano le strade delle città. Ma oggi come oggi, forse internet è quello più
rappresentativo della società moderna. Nell’era del web 2.0 la comunicazione si è
davvero evoluta. Come parlare allora di mobilità sostenibile?
Parlare di mobilità sostenibile vuol dire per prima cosa diffondere l’ideologia che
ne è alla base. L’obiettivo, quindi, è quello di promuovere questa mobilità
116
alternativa cercando di indurre l’adozione di nuovi stili di vita più responsabili e
di stimolare la riflessione. Navigando in internet è facile trovare siti che
rimandano al tema del trasporto ecosostenibile e che spieghino al dettaglio le
diverse iniziative a disposizione del cittadino. Come già accennato, sia per il “car
sharing” che per il “car pooling” esistono dei veri e propri portali gratuiti in
internet che danno tutte le informazioni su come usufruire del servizio in ogni
città che aderisce all’iniziativa. Ad oggi, ci sono diverse associazioni a favore
della mobilità sostenibile. Si prenda il caso della bicicletta. È sempre maggiore
l’attenzione riservata a questa quale veicolo per la mobilità, un mezzo economico,
ecosostenibile e alternativo ai veicoli a motore. In Europa sono diversi i paesi che
aderiscono alla promozione della mobilità ciclabile. Per fare l’esempio di una
realtà non troppo lontana da quella italiana, si può considerare Parigi che, già dal
2007, ha avviato una rete capillare di parcheggi per il bike-sharing (stesso
principio del servizio relativo alle automobili) chiamata “Velib”, e la cui
promozione è dislocata in vari punti della città. Anche in Italia alcune città di
medie dimensioni usufruiscono della bicicletta, ma non siamo al passo con lo
standard europeo. Tuttavia, ci sono delle associazioni come la FIAB (Federazione
Italiana Amici della Bicicletta), che hanno proposto “Biciplan”. Questo è un
servizio di cui l’amministrazione comunale si è dotata allo scopo di potenziare in
città la mobilità ciclabile per dare una risposta concreta alla necessità di mobilità
alternativa. “Biciplan” promuove il marketing dell’uso della bici, individua
obiettivi, strategie, azioni e forme di monitoraggio. In pratica si tratta di uno
strumento di comunicazione per motivare il ciclista; non si tratta solo di offrire il
servizio, ma anche di invogliare il cittadino ad usufruirne. Tutto ciò avviene in
diversi comuni e con diverse strategie comunicative.
Per quanto riguarda la comunicazione sulla mobilità sostenibile, promuovere la
bicicletta può essere più semplice, si può sfruttare lo stereotipo della bici come
attività ricreativa o mezzo per fare attività sportiva. La mobilità alternativa, seppur
preveda dei vantaggi ad uso sia della collettività sia del singolo, comporta anche
qualche sacrificio personale nell’essere abbracciata come stile comportamentale.
Rinunciare al mezzo privato significa in qualche modo rinunciare ad una certa
indipendenza personale, cosa che può rendere le persone tanto restie fino a farle
117
desistere. Ed è per questo che è necessario informare i cittadini su quelli che sono
invece i vantaggi. Un’altra possibilità che potrebbe aiutare a perorare la causa
della mobilità sostenibile, è l’educazione ambientale. Quest’ultima, deve puntare
alla sensibilizzazione a comportamenti corretti e responsabili dal punto di vista
etico-civile per evitare i pericoli nel rispetto delle norme di sicurezza. Un ulteriore
obiettivo educativo specifico deve orientarsi alla maturazione della
consapevolezza che alcuni atteggiamenti di natura psicologica nel rapporto uomo-
macchina (narcisismo, istinto di potenza) sono negativi. L’educazione ambientale
deve puntare soprattutto sulle giovani generazioni, per fargli acquisire anche una
cognizione dei fattori patologici che possono causare pericoli e danni alla
circolazione stradale (droga, alcolismo). La mission educativa è quella di
infondere una rinnovata cultura della mobilità fondata sui principi socio-
ambientali per permettere al cittadino di scegliere un nuovo modo di muoversi da
un punto all’altro della città anche modificando abitudini consolidate nel rispetto
di un ambiente che è di tutti. E’ necessario, quindi, che la comunicazione si
focalizzi su iniziative che stimolino l’uso quotidiano delle forme della mobilità
alternativa, con l’ausilio di strategie pubblicitarie incisive e creative. Un obiettivo
è cercare di cambiare le abitudini di trasporto dei cittadini con la progettazione di
campagne pubbliche che siano in grado di promuovere le attività e i servizi a
favore del sostenibile.
118
CAPITOLO 4
LA MOBILITÀ SOSTENIBILE NEL QUADRO NORMATIVO
4.1 La mobilità sostenibile: la visione comunitaria
A livello comunitario, la mobilità sostenibile è stata oggetto di una crescente
attenzione negli ultimi dieci anni. Data ormai per acquisita la centralità e la
rilevanza dei trasporti nel processo di creazione e di consolidamento dell’Unione
Europea e del mercato unico, è stata proprio la preoccupazione per
l’insostenibilità dell’attuale modello di organizzazione del settore e il
riconoscimento dell’inefficacia delle misure poste in essere a motivare la
ridefinizione delle politiche in ambito comunitario, attraverso una nuova serie di
interventi succedutisi soprattutto a partire dal 2006.
La normativa europea in materia di mobilità sostenibile si basa su 4 fattori
essenziali:
miglioramento della qualità dei combustibili;
differenziazione delle fonti energetiche usate nel campo dei trasporti;
miglioramento degli standard emissivi;
promozione di buone pratiche.
Relativamente al tema dei trasporti e della mobilità sostenibile in ambito urbano la
strategia dell’Unione Europea si esprime attraverso la pubblicazione di documenti
di indirizzo e orientamento delle politiche in materia.
119
In particolare il Libro Bianco del 2001 individua un vero e proprio programma di
azioni e una serie di misure scaglionate nel tempo, spostando il centro
dell’attenzione sulla problematica degli impatti economici, ambientali e sociali di
una mobilità in continua crescita. Le misure identificate dal Libro bianco sono
attuate in gran parte a livello comunitario; tuttavia, ove possibile, nel rispetto del
principio di sussidiarietà, le politiche spettano ai livelli inferiori: nazionale,
regionale e locale.
Dal 2001 sono state adottate importanti proposte legislative che sono in corso di
attuazione, come ad esempio: l’apertura del trasporto ferroviario di merci alla
concorrenza, il miglioramento delle condizioni sociali nell'autotrasporto, la
definizione dei progetti e della rete prioritaria transeuropea Ten-t64, l’istituzione
del Cielo unico europeo, il rafforzamento dei diritti dei passeggeri aerei, la nuova
direttiva sulla tassazione delle strade. La maggior parte delle misure descritte nel
Libro bianco del 2001 sono state proposte o adottate.
Tuttavia, uno degli obiettivi proposti è quello di porre gli utenti al centro della
politica dei trasporti attraverso le seguenti misure:
aumento della consapevolezza da parte degli utenti del costo dei trasporti
(politica di tariffazione dell’uso delle infrastrutture);
aumento della sicurezza del trasporto stradale;
diffusione di pratiche quali l’intermodalità del trasporto passeggeri e la
razionalizzazione del trasporto urbano.
Il documento “Mantenere l’Europa in movimento - Una mobilità sostenibile per il
nostro continente”, riesame intermedio del Libro Bianco 2001, pone l’accento,
invece, sulla necessità di un approccio complessivo e di sistema nei confronti
della politica dei trasporti in grado di limitare gli impatti negativi. In particolare, il
documento evidenzia una serie di temi prioritari, su cui l’Unione europea e i
governi nazionali e locali devono intensificare gli sforzi nei prossimi anni. Questi
64 Commissione delle Comunità Europee (2009), Libro Verde – Ten-t: riesame della politica. Verso una migliore integrazione della rete transeuropea di trasporto al servizio della politica comune dei trasporti, COM, Bruxelles.
120
temi sono:
� la mobilità sostenibile nel mercato interno all’UE;
� la mobilità sostenibile delle persone in ambito urbano;
� l’ottimizzazione delle infrastrutture e dei sistemi di trasporto intelligenti.
L’interesse Europeo per una mobilità urbana sostenibile, viene rafforzato nel 2007
con la pubblicazione da parte della Commissione Europea del Libro Verde sullo
specifico tema della mobilità urbana.
Nel Libro Verde si sostiene che l’implementazione di una strategia basata su
soluzioni condivise a livello europeo può favorire le economie di scala e
rimuovere gli ultimi ostacoli alla costituzione del mercato comune; mentre la non
sostenibilità dei grandi agglomerati urbani sarebbe un serio impedimento per il
raggiungimento dei target europei in materia di sviluppo sostenibile, e come tale
non può essere ignorato. In questa prospettiva, le città europee devono affrontare
cinque sfide:
� per un traffico scorrevole nelle città. La congestione del traffico
cittadino è uno dei problemi maggiormente presenti nelle città europee.
Non esiste un’unica soluzione al problema della congestione: in generale,
si dovrebbe promuovere un uso più moderato dei veicoli privati e dei
veicoli per il trasporto delle merci, rendendo al contempo più attraenti e
sicure le alternative all’uso dell’automobile privata, come spostarsi a piedi,
in bicicletta, con i mezzi pubblici;
� per una città più pulita. I problemi ambientali predominanti nelle città
sono riconducibili all’uso prevalente di carburanti derivati dal petrolio,
responsabili delle emissioni di CO2 e di inquinanti atmosferici, nonché del
rumore. Il Consiglio europeo ha fissato come obiettivo una riduzione del
20% delle emissioni di gas serra entro il 2020: per raggiungere tale
obiettivo, è necessario il contributo di tutte le fonti, anche del trasporto
urbano;
121
� per un trasporto urbano più intelligente. La mancanza di spazio e i
vincoli ambientali non permettono di espandere illimitatamente
l’infrastruttura necessaria per far fronte alla crescita del flusso veicolare. I
sistemi di trasporto intelligenti (ITS) possono essere più sfruttati ai fini di
una gestione efficiente della mobilità urbana. Le possibilità consistono nel
miglioramento dei sistemi di informazione e assistenza (informazioni ai
viaggiatori sui modi di trasporto, tempi di viaggio, etc; gestione delle flotte
di veicoli di trasporto pubblico e commerciali) e nell’introduzione di
“smart payment systems”, sistemi di tariffazione intelligente;
� per un trasporto urbano accessibile. Accessibilità significa garantire un
accesso di qualità, per le persone e le imprese, al sistema di mobilità
urbana nella sua duplice componente di infrastruttura e di servizio, con
particolare attenzione alle persone disabili o a mobilità ridotta e alle classi
sociali più disagiate;
� per un trasporto urbano sicuro. Data l’entità dell’incidentalità stradale,
specie nelle aree urbane, la politica della sicurezza stradale deve costituire
uno dei pilastri della sostenibilità della mobilità urbana.
Nel giugno del 2010, il Consiglio Europeo ha varato una nuova strategia che
intende porre le basi per una crescita intelligente, sostenibile e solidale
dell’Unione Europea. Tale strategia prevede un’economia fondata su tre pilastri
che nell’intento comunitario risultano tra loro strettamente connessi, ovvero:
� un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione, mediante la
promozione dell’istruzione, della ricerca/innovazione e dell’uso delle
tecnologie dell'informazione e della comunicazione;
� un’economia competitiva, efficiente nell’utilizzo delle risorse e
caratterizzata da basse emissioni di carbonio, mediante la riduzione delle
emissioni, la tutela dell’ambiente e della biodiversità, lo sviluppo di nuove
tecnologie e metodi di produzione verdi, la promozione di reti elettriche
122
intelligenti e efficienti e il sostegno a piccole e medie imprese e
consumatori;
� un’economia in grado di assicurare elevata occupazione e coesione sociale
e territoriale, mediante l’aumento del tasso di occupazione, la
modernizzazione dei mercati del lavoro e dei sistemi previdenziali e
l’estensione dei benefici della crescita a tutte le parti dell'UE.
Per ciascun pilastro sono definite specifiche iniziative prioritarie, oltre che degli
obiettivi quantitativi complessivi utili al monitoraggio e alla misurazione dei
progressi compiuti lungo il percorso delineato dalla strategia “Europa 2020”.
Con specifico riferimento al secondo pilastro (quello della crescita sostenibile),
l’intento dell’Unione Europea è di disgiungere la crescita economica dal consumo
di risorse e di energia, di ridurre le emissioni di gas serra e di promuovere una
maggiore competitività e sicurezza dell’offerta di energia. Sotto questo profilo, la
strategia Europa 2020 fa propri gli obiettivi da conseguire entro il 2020 approvati
nel corso del 2008 nell’ambito del cosiddetto “pacchetto clima-energia”:
a) riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 20% (o persino del 30%,
a condizione che si raggiunga un accordo internazionale soddisfacente);
b) una quota del 20% di energia prodotta da fonti rinnovabili sui consumi
finali di energia;
c) un risparmio del consumo di energia primaria del 20% mediante la
promozione dell'efficienza energetica.
4.1.1 Il pacchetto “clima-energia” dell’Unione Europea
Rispetto alle finalità di riduzione delle emissioni e di promozione delle fonti
rinnovabili di energia, il pacchetto clima-energia prevede in particolare:
1. la modifica e il rafforzamento del sistema europeo di scambio delle
123
emissioni (EU-ETS). Dal 2013 è infatti operativo un sistema unitario a
livello europeo per l’allocazione dei permessi di emissione il cui numero
disponibile per le imprese sarà ridotto annualmente fino al 2020 per
conseguire un livello del 21%. Si prevede inoltre il progressivo passaggio
da un sistema di allocazione gratuita dei permessi ad un sistema di aste e
l’incremento dei settori e dei gas climalteranti partecipanti all’EU-ETS;
2. la definizione di target vincolanti a livello di singoli Stati membri
(cosiddetta “Effort Sharing Decision”) per la riduzione delle emissioni di
gas climalteranti nei settori non compresi nel sistema EU-ETS, quali
trasporto, residenziale, agricoltura e rifiuti. L’obiettivo comunitario riferito
alle emissioni di tali settori è fissato in una riduzione entro il 2020 del
10%;
3. la definizione di obiettivi vincolanti a livello di singoli Stati membri con
riferimento alla quota di energia prodotta da fonti rinnovabili rispetto ai
consumi finali. Si definisce poi un sotto-obiettivo vincolante e uniforme
per tutti gli Stati membri per il settore dei trasporti. Dovrà essere infatti
conseguita una quota di consumo di biocombustibili (per i quali sono
inoltre fissati criteri di sostenibilità ambientale) pari almeno al 10%;
l’introduzione di un quadro normativo utile alla promozione e allo
sviluppo dello stoccaggio geologico di biossido di carbonio (Carbon
Capture and Storage).
L’obiettivo dell’efficienza energetica è stato invece affrontato all’inizio del 2011
nell’ambito delle azioni previste per attuare l’iniziativa di un’Europa efficiente
nell'impiego delle risorse, a loro volta connesse con la strategia Europa 2020. Il
riferimento è in particolare alla proposta di “Direttiva sull'efficienza energetica” e
al “Piano di efficienza energetica 2011”. Nella medesima prospettiva, l’Unione
Europea ha rilanciato i propri obiettivi estendendoli oltre il 2020 e definendo una
serie di azioni generali e settoriali per conseguire una riduzione delle emissioni di
gas a effetto serra di una percentuale compresa fra l'80 e il 95% entro il 2050.
124
4.1.2 Il Piano d’azione sulla mobilità urbana
Con il suo piano d'azione (2009), la Commissione europea presenta per la prima
volta un programma globale di sostegno per la mobilità urbana. Le autorità locali,
regionali e nazionali possono beneficiare di tale programma di sostegno e degli
strumenti che verranno offerti. Il loro utilizzo permetterà di affrontare la sfida
della mobilità urbana sostenibile e facilitare il processo decisionale politico.
Inoltre, i cittadini e le imprese europee beneficeranno del programma di sostegno
su base giornaliera. In quest’ultimo si individuano alcuni ambiti di intervento
verso i quali orientare le future azioni in ambito comunitario:
� la promozione dell’integrazione fra politiche di mobilità urbana e politiche
di utilizzo del territorio, di accessibilità, di tutela ambientale e la politica
industriale; attenzione sui bisogni dei cittadini promuovendo informazioni
affidabili sui viaggi, nonché un elevato livello di tutela dei diritti dei
passeggeri;
� promozione di nuovi trasporti urbani non inquinanti introducendo nuove
tecnologie pulite e carburanti alternativi, nonché promuovendo la
tassazione intelligente per incoraggiare gli utenti a cambiare le loro
abitudini in materia di trasporti;
� il rafforzamento dei finanziamenti;
� l’ottimizzazione della mobilità in ambito urbano mediante
l’efficientamento della logistica per il trasporto di merci di lunga distanza
in città e lo sviluppo delle applicazioni dei sistemi di trasporto intelligenti
(STI);
� migliorare la sicurezza stradale, specialmente a favore degli utenti della
strada vulnerabili quali giovani e anziani;
� incoraggiare la condivisione di esperienze e conoscenze per permettere un
miglior accesso a queste informazioni e aiutare gli interessati a fare tesoro
di tali esperienze, nonché dei dati e delle statistiche.
125
L’orientamento descritto viene dunque rafforzato e consolidato nell’ultimo Libro
Bianco. Nell’intento comunitario, le città dovrebbero costituire il terreno
privilegiato entro cui sperimentare nuovi modelli di organizzazione del trasporto e
di sviluppo e dimostrazione di soluzioni tecnologiche innovative per la mobilità,
anche al fine di accelerarne l’eventuale commercializzazione.
4.1.3 Gli obiettivi del Libro Bianco del 2011
In linea con le descritte finalità generali in materia di riduzione delle emissioni e
di contenimento dei consumi energetici il recente Libro Bianco “Tabella di marcia
verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti
competitiva e sostenibile” definisce alcuni obiettivi specifici per il settore dei
trasporti da conseguire su un duplice orizzonte temporale, ovvero entro il 2030 ed
entro il 2050. Ci si riferisce in particolare a:
� entro il 2050, riduzione di almeno il 60% delle emissioni di gas serra
rispetto ai livelli del 1990;
� entro il 2030, riduzione del 20% delle emissioni di gas serra rispetto ai
livelli del 2008.
Sono inoltre fissati una serie di sotto-obiettivi funzionali al conseguimento delle
finalità indicate di riduzione delle emissioni di gas serra:
dimezzamento entro il 2030 e successiva eliminazione entro il 2050 dell’uso delle
autovetture “alimentate con carburanti tradizionali” nei trasporti urbani;
1. definizione di un sistema di logistica urbana a zero emissioni di CO2 entro
il 2030 nelle principali città;
2. utilizzo entro il 2050 del 40% di carburanti a basso tenore di carbonio nel
settore dell’aviazione;
3. riduzione sempre entro il 2050 delle emissioni di CO2 provocate dagli oli
126
combustibili utilizzati nel trasporto marittimo;
4. trasferire il 30% entro il 2030 e successivamente il 50% entro il 2050 del
trasporto merci su strada con percorrenze superiori a 300 km verso altri
modi (come la ferrovia o le vie navigabili) anche grazie alla realizzazione
di infrastrutture adeguate alla creazione di corridoi merci efficienti ed
ecologici;
5. completamento entro il 2050 della rete ferroviaria europea ad alta velocità,
triplicandone l’estensione entro il 2030, con l’obiettivo di consentire che la
maggior parte del trasporto di passeggeri sulle medie distanze avvenga per
ferrovia;
6. collegamento entro il 2050 dei principali aeroporti alla rete ferroviaria (di
preferenza ad alta velocità), dei principali porti marittimi al sistema di
trasporto merci per ferrovia e, se possibile, alle vie navigabili interne;
7. definizione entro 2020 di un quadro per un sistema europeo di
informazione, gestione e pagamento nel settore dei trasporti multimodali;
8. dimezzamento del numero di vittime entro il 2020 e “azzeramento” entro
il 2050;
9. piena applicazione dei principi "chi utilizza paga" e "chi inquina paga" e
coinvolgimento del settore privato nel finanziamento degli investimenti
futuri.
In relazione invece ai veicoli alternativi, è solo recentemente che si è cominciato a
riflettere sulla necessità di un quadro comune in materia di mobilità elettrica.
La recente Comunicazione “Una strategia europea per i veicoli puliti ed efficienti
sul piano energetico”, prevede infatti una serie di azioni con riferimento specifico
alla mobilità elettrica fra le quali l’introduzione di requisiti di sicurezza per
l'omologazione dei veicoli elettrici e di un'interfaccia standardizzata di ricarica,
verificando inoltre la coerenza fra la promozione dei veicoli elettrici e la
produzione di energia elettrica aggiuntiva a basso contenuto di carbonio. La stessa
127
comunicazione prevede inoltre che siano elaborate una strategia di ricerca a lungo
termine per le tecnologie dei trasporti, delle linee guida sugli incentivi finanziari
all’acquisto dei veicoli verdi al fine di favorirne l’assorbimento sul mercato e
delle azioni specifiche in materia di concorrenza fra produttori di autovetture,
anche rispetto alle possibili ricadute in termini occupazionali.
È consolidata invece l’attenzione rivolta alla riduzione dei consumi e delle
emissioni specifiche del parco veicolare in esercizio (non solo stradale ma anche
aereo, marittimo e ferroviario).
Il Regolamento (UE) n. 443/2009 e il Regolamento (UE) n. 510/2011 fissano
rispettivamente per le autovetture di nuova fabbricazione e per i veicoli
commerciali leggeri i livelli di prestazione in materia di emissioni. Per il
complesso delle autovetture nuove, il primo Regolamento definisce un obiettivo
di 120 grammi di anidride carbonica per km per il nuovo parco auto e introduce
un limite medio di 130g di CO2/km a partire dal 2015. È inoltre previsto che il
livello medio di emissioni da rispettare scenda a 95g di CO2 a partire dal 2020.
Per i veicoli commerciali leggeri (Regolamento n. 510/2011) il limite è invece
fissato in 175 grammi di CO2/km a partire dal 2017. Anche in questo caso il
limite sarà introdotto progressivamente e, a condizione che sia fattibile,
ulteriormente ridotto a 147 grammi di CO2/km a decorrere dal 2020. Si tratta di
limiti che vanno peraltro letti congiuntamente agli standard, denominati “Euro”,
che regolano le emissioni di inquinanti come il particolato e gli ossidi di azoto. I
limiti “Euro 6” (Regolamento n. 715/2007) per le automobili e i furgoni sono già
stati applicati a partire dal 2014.
Sempre in relazione alla riduzione delle emissioni dei singoli veicoli, un esplicito
contributo è richiesto anche al settore pubblico. La Direttiva 2009/33/CE relativa
alla promozione di veicoli puliti e a basso consumo energetico nel trasporto su
strada negli appalti pubblici, impone infatti a enti pubblici e operatori che
assolvono obblighi di servizio pubblico nel quadro di un contratto di servizio di
tener conto, al momento di aggiudicare appalti per veicoli adibiti al trasporto,
dell’impatto di tali veicoli, nell’arco della loro vita utile, in termini di consumo
128
energetico, emissioni di CO2 e altre sostanze inquinanti.
4.2 La normativa italiana
Nel nostro Paese il tema della sostenibilità si è progressivamente fatto spazio
nell’ambito della normativa e degli strumenti di pianificazione sui trasporti e sulle
infrastrutture. Il quadro normativo attuale è tuttavia il frutto di un insieme
piuttosto ampio e variegato di misure difficilmente riconducibili ad unitarietà. Su
un simile stato di cose pesa senza dubbio sia l’assenza di una strategia unitaria e
di un progetto condiviso e autonomo rispetto agli impegni via via assunti in
ambito comunitario e internazionale sia la discontinuità delle iniziative poste in
essere, caratterizzate in molti casi da un’ottica di intervento di natura
emergenziale che ha senza dubbio ostacolato l’acquisizione da parte di individui e
imprese di una cultura della sostenibilità e di una maggiore consapevolezza
dell’impatto dei propri comportamenti.
La normativa italiana sulla mobilità sostenibile mira a favorire l'attuazione di
interventi e progetti integrati relativi alle diverse componenti della mobilità e del
trasporto come, per esempio, la modifica della domanda di trasporto, il
potenziamento e il cambiamento dell'offerta di trasporto pubblico, gli incentivi
all'utilizzo di carburanti a basso impatto ambientale e al rinnovo del parco
veicolare, lo sviluppo dell’intermodalità e la promozione di iniziative di
sensibilizzazione come le “Domeniche ecologiche”.
I primi provvedimenti normativi sono relativi al settore della pianificazione dei
trasporti. Dopo la Circolare n. 2575 del 08/08/86 in materia di “disciplina della
129
circolazione stradale nelle zone urbane ad elevata congestione del traffico
veicolare” e la Circolare n. 1196 del 28/05/91 in materia di “indirizzi attuativi per
la fluidificazione del traffico urbano, anche ai fini del risparmio energetico”, è
con l'art. 36 del d.lgs. n. 285/92 che vengono imposti i Piani Urbani del Traffico
(PUT). La Legge dispone l'obbligo di realizzazione e adozione dei PUT ai
Comuni con popolazione superiore ai 30.000 abitanti o, se inferiore, caratterizzati
da considerevoli problemi di congestione della circolazione. Obiettivi dei Piani
Urbani del Traffico sono il miglioramento delle condizioni di circolazione e della
sicurezza stradale, la riduzione dell'inquinamento acustico ed atmosferico ed il
risparmio energetico. I PUT vengono realizzati in un arco temporale di breve
periodo e con un impegno economico limitato, in quanto propongono interventi
basati sulle infrastrutture e sui mezzi di trasporto esistenti. I criteri e le indicazioni
per la realizzazione dei Piani Urbani del Traffico sono contenuti nelle Direttive
del Ministero dei Lavori Pubblici emanate nel 1995, che definiscono anche le
funzioni e le attività dell'Ufficio tecnico del traffico. Il PUT si articola secondo tre
distinti livelli:
� un livello generale, costituito dal piano generale del traffico urbano
(PGTU), che può anche essere e- steso ad un consorzio di comuni e deve
essere redatto in una scala compresa tra 1:25.000 e 1:5.000;
� un livello particolareggiato, costituito dai piani particolareggiati del
traffico urbano (PPTU), “intesi quali progetti di massima per
l’attuazione del PGTU, relativi ad ambiti territoriali più ristretti di quelli
dell’intero centro abitato, quali – a seconda delle dimensioni del centro
medesimo – le circoscrizioni, i settori urbani, i quartieri o le singole zone
urbane (anche come fascia di influenza dei singoli itinerari di viabilità
principale), e da elaborare secondo l’ordine previsto nell’anzidetto
programma generale di esecuzione del PGTU”;
� un livello esecutivo, costituito dai piani esecutivi del traffico urbano
(PETU), «intesi quali progetti esecutivi dei Piani particolareggiati del
traffico urbano. Detti Piani esecutivi definiscono completamente gli
130
interventi proposti nei rispettivi Piani particolareggiati, quali – ad esempio
– le sistemazioni delle sedi viarie, la canalizzazione delle intersezioni, gli
interventi di protezione delle corsie e delle sedi riservate e le indicazioni
finali della segnaletica stradale.
Un importante crocevia dello sviluppo legislativo coincide con l'emanazione del
D. M. 27/03/1998 (Decreto Ronchi). Tale Decreto, accanto all'obbligo di
risanamento e tutela della qualità dell'aria imposto alle Regioni e all'incentivo allo
sviluppo del taxi collettivo, introduce la figura del “mobility manager”. Il Decreto
dispone, inoltre, l'obbligo per le pubbliche Amministrazioni, ma anche per i
gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, di prevedere una quota di veicoli a
basso impatto ambientale (come i veicoli elettrici e a gas) nel rinnovo del parco
veicolare.
È grazie a tale Decreto, pertanto, che si afferma il concetto di “mobility
management” in Italia, imponendo nelle aree soggette a forti flussi di traffico e
quindi a rischio di inquinamento atmosferico, a tutte le aziende private e
pubbliche con più di 300 dipendenti per unità locale oppure con un numero
complessivo di 800 dipendenti distribuiti in sedi diverse, o raggruppamenti di
aziende più piccole, di gruppi scolastici e di poli ospedalieri, l'obbligo di adottare
un Piano degli Spostamenti Casa-Lavoro del personale dipendente dell’azienda
(PSCL), definendo la figura del “mobility manager aziendale” e disponendo
l'istituzione presso i Comuni di una struttura di supporto a tali responsabili della
mobilità aziendale. La figura del mobility manager aziendale ha il compito di
individuare strategie e interventi per la riduzione dell’uso del mezzo di trasporto
privato individuale e per una migliore organizzazione degli orari di lavoro per
limitare la congestione del traffico urbano attraverso la redazione del Piano degli
Spostamenti Casa- Lavoro del personale dipendente dell’azienda (PSCL). Le
aziende coinvolte dal Decreto devono trasmettere i PSCL ai Comuni interessati
entro il 31 dicembre di ogni anno ed entro i successivi 60 giorni il comune stipula
con l'impresa o l'ente pubblico proponenti eventuali accordi di programma per
131
l'applicazione del PSCL medesimo. Il PSCL è aggiornato con un rapporto annuale
che deve contenere la descrizione delle misure adottate ed i risultati raggiunti.
Ad integrazione del D. M. 27/03/98, il D. M. 20/12/2000 definisce il responsabile
delle suddette strutture di supporto e coordinamento come il “mobility manager
d'area”. Quest’ultimo, di nomina comunale e istituito presso gli Uffici Tecnici del
Traffico, ha il compito di introdurre e promuovere le iniziative di mobilità urbana
(mobility management) per migliorare la mobilità sistematica nell'intera area di
riferimento, mantenere i collegamenti con gli enti locali e le aziende del trasporto
pubblico, procedere alla ricognizione territoriale delle aziende che per legge sono
tenute a presentare il PSCL dei dipendenti e a monitorarne i risultati.
La Legge n. 340/00 all’art.22 istituisce un nuovo strumento per la pianificazione
della mobilità urbana, il Piano Urbano di Mobilità (PUM). Sono interessati alla
predisposizione del PUM, al fine di accedere ai finanziamenti statali, i singoli
Comuni con più di 100.000 abitanti ma anche aree territoriali più vaste (ad
esempio l'aggregazione di più Comuni limitrofi con più di 100.000 abitanti in
totale). Il PUM è definito come un “progetto del sistema mobilità” comprendente
un insieme di interventi infrastrutturali, tecnologici, organizzativi e gestionali
come, a titolo di esempio, quelli sulle strade e sui parcheggi di interscambio, sul
governo della domanda di trasporto, sui sistemi di regolazione e controllo del
traffico e sull'informazione all'utenza. A differenza dei PUT, i PUM coprono un
arco temporale di medio-lungo periodo e, pertanto, si integrano pienamente con i
primi.
A queste norme di carattere strutturale sono seguiti interventi di finanziamento e
incentivazione degli interventi indicati. L'iniziativa delle “Domeniche
ecologiche”, avviata dal Ministero dell'Ambiente nel 2000, è stata seguita da una
serie di decreti per il cofinanziamento di progetti rivolti, da un lato alla
sensibilizzazione e all'informazione dei cittadini in materia di mobilità sostenibile
e dall'altro alla diffusione di sistemi di mobilità sostenibile, come i sistemi
automatizzati per il controllo del traffico nei centri urbani, la promozione dell'uso
di combustibili e carburanti a basso impatto ambientale, e l'applicazione del “road
132
pricing”.
Un altro tema di rilevanza nazionale nell'ambito delle politiche di mobilità
sostenibile è il car-sharing, ossia il sistema di trasporto pubblico basato sull'uso
collettivo di un certo numero di veicoli dietro pagamento di una quota
proporzionale al tempo d'uso e ai chilometri percorsi. È ancora il Decreto Ronchi
a costituire la prima manifestazione d'interesse a livello normativo per questa
forma innovativa di trasporto e sempre nel 1998 il Ministero dell'Ambiente
individua il “Programma Nazionale di Car-Sharing” come prioritario inserendolo
tra quelli finanziati nell'ambito del Programma Stralcio di Tutela Ambientale. Nel
2000, ai fini dell'attuazione delle attività previste nel Protocollo d'intesa del
26/01/00 tra il Ministero dell'Ambiente e 12 Comuni firmatari, viene costituita
l'Iniziativa Car-Sharing (ICS), struttura di coordinamento delle prime realtà locali
del car-sharing.
Nello stesso anno, con il D. M. 21/12/00 “Programmi radicali per la mobilità
sostenibile” vengono stanziati dal Ministero dell'Ambiente ulteriori fondi per la
promozione di interventi strutturali di mobilità sostenibile volti alla riduzione in
modo permanente dell'impatto ambientale da traffico urbano.
Il carattere di strutturalità del decreto è determinato dall'integrazione di interventi
operativi di mobilità sostenibile (road e area pricing, taxi collettivo, acquisto di
veicoli pubblici a basso impatto ambientale) con interventi volti a misurare i
benefici e valutare l'efficacia delle azioni intraprese (come l'ampliamento e/o
l'adeguamento tecnologico dei sistemi di monitoraggio degli inquinanti
atmosferici e lo sviluppo di modelli di correlazione tra dati di inquinamento
atmosferico e quelli pro- venienti dalla rilevazione del traffico veicolare), nonché
alla sperimentazione di nuove tecnologie in materia di riduzione delle emissioni.
Nel 2006, l'art. 1121 della Legge n. 296, istituisce il “Fondo per la mobilità
sostenibile”, con uno stanziamento di 90 milioni di euro per il triennio 2007- 2009
destinati agli interventi per il miglioramento della qualità dell'aria nelle aree
urbane e il potenziamento del trasporto pubblico. Tra le varie misure finanziabili
vi sono l'incentivazione dell'intermodalità, la realizzazione di percorsi protetti
133
casa-scuola, la valorizzazione degli strumenti di mobility management e car-
sharing e la promozione di reti urbane per la mobilità ciclistica.
Altra area d'intervento in materia di mobilità sostenibile è quella sull'utilizzo della
bicicletta; la prima legge in materia di mobilità ciclistica è la n. 366 del 1998.
Questa legge finanzia la realizzazione, da parte degli enti locali e loro
associazioni, di interventi sia di tipo infrastrutturale (creazione di reti ciclabili e
cicolopedonali, parcheggi e centri di noleggio per biciclette) sia volti alla
diffusione della cultura del mezzo ciclabile come forma alternativa ai tradizionali
mezzi di trasporto (particolare attenzione è data all'aspetto dell'intermodalità con il
trasporto pubblico). Il già citato D. M. 21/12/00 “Programmi radicali per la
mobilità sostenibile” fissa, tra i progetti da ammettere al cofinanziamento, la
realizzazione o il miglioramento di flotte di biciclette di proprietà dei Comuni,
enti e gestori di servizi pubblici da destinare al noleggio nelle aree urbane (bike-
sharing). Più di recente, la già citata Legge n. 296 del 27/12/06 inserisce le
promozione di reti di mobilità ciclistica tra gli interventi finanziabili.
Nei paragrafi seguenti, le iniziative promosse nel corso degli ultimi anni sono
schematizzate sulla base delle principali finalità perseguite:
1. incentivo all’uso di veicoli ecologici;
2. le misure per il trasferimento modale;
3. promozioni di fonti rinnovabili di energia;
4. legge per la promozione del car-pooling.
134
4.2.1 I veicoli ecologici espressione della mobilità sostenibile
Nella prima tipologia di iniziative possono essere fatte rientrare le misure di
incentivo all'acquisto di veicoli ecologici e alla rottamazione dei veicoli più
inquinanti, a loro volta riconducibili alle iniziative poste in essere nell’ambito del
Piano d’Azione Nazionale per l’Efficienza Energetica del 2007. Tale piano sulla
base di quanto previsto dalla Direttiva 2006/32/CE, delineava la politica italiana
per il raggiungimento degli obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica
per tutti i settori. Al fine di ridurre i consumi energetici del trasporto, il Piano
infatti, pur riconoscendo la necessità di operare sia sotto il profilo del
miglioramento delle tecnologie di trazione che nella prospettiva di una profonda
riorganizzazione delle modalità degli spostamenti prevedeva quale unica misura
l’implementazione delle politiche comunitarie in materia di riduzione delle
emissioni.
Il nuovo Piano d’Azione per l’Efficienza Energetica 2011 aggiorna i potenziali
risparmi energetici conseguibili all’implementazione del Regolamento
Comunitario CE 443/2009 che fissa un obiettivo medio di 120 grammi di anidride
carbonica per km per il nuovo parco auto. Sono tuttavia indicate ulteriori proposte
di intervento per migliorare l’efficienza energetica del settore trasporti con
particolare riferimento alla diffusione di veicoli stradali a basso consumo, al
potenziamento del trasporto pubblico su ferro in ambito urbano e alla promozione
del trasporto ferroviario di media e lunga percorrenza.
Con specifico riferimento alla diffusione dei veicoli stradali a basso consumo,
l’attenzione allo sviluppo dei veicoli elettrici è progressivamente cresciuta anche e
soprattutto sotto il profilo dell’opportunità di garantire un adeguato sviluppo delle
infrastrutture di ricarica.
La mobilità elettrica è infatti ritenuta un’opzione importante per favorire il
risparmio energetico, ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e le emissioni
di CO2 e di altri gas inquinanti specie nei centri urbani. La proposta di Legge n.
3553 presentata alla Camera dei Deputati il 17 giugno 2010 impegnava infatti il
Governo ad adottare provvedimenti per lo sviluppo delle reti di ricarica. Al
135
contempo, l’Autorità dell’Energia Elettrica e il Gas (AEEG) è prima intervenuta a
regolare le modalità e la tariffa di connessione per la ricarica di veicoli elettrici in
ambito privato per poi introdurre ulteriori disposizioni al fine di favorire e
incentivare la sperimentazione del servizio di ricarica dei veicoli elettrici anche in
aree aperte al pubblico.
In ambito privato65, è stata infatti modificata la precedente normativa che,
stabilendo il principio dell’unicità della fornitura per unità immobiliare e tipologia
di contratto, ostacolava di fatto l’installazione di infrastrutture di ricarica nel caso
di aree condominiali destinate a parcheggio, aree destinate a parcheggio
appartenenti ad aziende, stabilimenti industriali e simili, nel caso fosse stato
necessario prevedere nella medesima unità immobiliare una pluralità di punti di
prelievo dalla rete con obbligo di connessione di terzi. L’attuale quadro
regolatorio prevede che si possano richiedere a un fornitore di energia elettrica più
punti di fornitura, ognuno con un contatore e dunque con condizioni economiche
di fornitura eventualmente diverse. L’utente è dunque libero di individuare il
prezzo di ricarica maggiormente conveniente sulla base delle offerte disponibili
sul mercato. Ai punti di ricarica destinati espressamente all'alimentazione di
veicoli elettrici è infine applicata la tariffa di trasporto già prevista per altri usi,
indipendentemente dal fatto che il richiedente sia un cliente domestico o meno.
4.2.2 Le misure per il trasferimento modale
In relazione all’obiettivo di trasferire quote crescenti di traffico passeggeri dalla
strada e dall’aereo verso la ferrovia e di traffico merci dal trasporto su gomma a
quello via ferro e via mare, le iniziative promosse si sono orientate sia
all’introduzione di specifici incentivi finalizzati, da un lato al sostegno del
trasporto combinato e trasbordato su ferro e agli investimenti delle imprese di
autotrasporto di merci (cosiddetto ferrobonus) e, dall’altro alla promozione del
trasporto navale in alternativa alla strada (cosiddetto ecobonus) e al
potenziamento delle dotazioni di infrastrutture alternative alla strada. 65 Deliberazione ARG/elt 56/10. Disposizioni in material di connessioni per l’alimentazione di pompe di calore a uso domestic e di veicoli elettrici.
136
Sotto quest’ultimo profilo, vale la pena ricordare come attraversi la Legge n.
211/1992 prima e successivamente la Legge Obiettivo (Legge n. 433/2001) si è
inteso rilanciare la realizzazione di reti di trasporto rapido di massa a guida
vincolata in sede propria e di tramvie veloci a contenuto tecnologico innovativo e,
più in generale, la costruzione di specifici progetti infrastrutturali con l’intento di
favorire il trasporto pubblico e il decongestionamento dei principali sistemi
urbani.
Contestualmente, una serie di risorse sono state rese disponibili nell’ambito del
programma di finanziamenti per il miglioramento della qualità dell’aria nelle aree
urbane e per il potenziamento del trasporto pubblico (Legge n. 296 del 27
dicembre 2006) che istituiva un fondo destinato a finanziare una serie di interventi
attivati dagli Enti Locali finalizzati alla realizzazione nelle aree urbane di servizi e
di infrastrutture per il trasporto pubblico; al potenziamento e alla sostituzione
della flotta esistente con veicoli a basso impatto; al potenziamento
dell'infomobilità; alla razionalizzazione dei progetti di consegna merci e dei
parcheggi di interscambio e intermodalità; alla diffusione e all’utilizzo dei
carburanti a basso impatto ambientale e al potenziamento delle relative reti di
distribuzione; alla diffusione del mobility manager, dei servizi integrativi al
trasporto pubblico locale, quali ad esempio il car-sharing, il taxi collettivo, ecc.;
alla promozione della mobilità ciclistica; e, infine, alla realizzazione di interventi
specifici per accrescere la sicurezza degli utenti deboli.
4.2.3 Promozione di fonti rinnovabili di energia
Con riferimento alla promozione delle fonti rinnovabili di energia nel settore dei
trasporti, la normativa attuale prevede quale principale strumento per il
conseguimento del target vincolante (che si ricorda essere pari al 10% entro il
2020 dei consumi finali di energia) l’obbligo di immissione in consumo di una
quota minima di biocarburanti posto a carico dei fornitori di carburanti.
Come noto il rispetto dell’obbligo è monitorato e verificato attraverso il rilascio
137
dei cosiddetti “certificati di immissione in consumo di biocarburanti” che, emessi
dal Ministero delle Politiche Agricole, avvalendosi dell’Agenzia per le Erogazioni
in Agricoltura (AGEA), attestano l’immissione in consumo di 10 Gcal di
biocarburante. I soggetti obbligati possono dunque assolvere all’obbligo loro
imposto sia direttamente che indirettamente acquistando, tramite contrattazioni
bilaterali, in tutto o in parte, l'equivalente quota o i relativi diritti da altri soggetti
che si trovino in condizione di surplus.
4.2.4 Legge n. 134/2012 per la promozione del Car pooling
Il nostro Paese è da sempre legato ad una solida tradizione motoristica e, in
particolare, le automobili rimangono in testa ai principali mezzi di trasporto scelti
per spostarsi nelle città della penisola 93%66. La maggioranza degli italiani
continua a considerare l’automobile personale come il mezzo di trasporto preferito
e, secondo una ricerca di Deloitte, due persone su tre hanno intenzione di
acquistarne una nei prossimi tre anni. Il tasso di motorizzazione e di pluri-
motorizzazione delle famiglie italiane è tra i più alti d’Europa: ciò significa che
l’automobile in Italia rimane un “bene passionale”, un bene che i privati
desiderano acquistare, possedere e mantenere a proprie spese. La crisi finanziaria
ha in parte però incrinato questa tendenza: i proprietari di automobili sono
diventati sempre più sensibili all’aumento dei prezzi del carburante, all’aumento
dei costi di parcheggio e alle imposizioni locali quali pedaggi e tasse sul traffico.
Una serie di fattori come la disponibilità di un considerevole parco auto private in
circolazione, l’aumento dei costi per il mantenimento dell’automobile e, non da
ultimo, la scarsità di risorse destinate al trasporto pubblico locale fanno dell’Italia
il Paese ideale per sperimentare nuove forme di mobilità, anche basate sulla con-
divisione dell’uso degli autoveicoli. Si tratta, in definitiva, di un’applicazione al
settore del trasporto della cosiddetta “sharing economy”, una forma di economia
della condivisione in via di diffusione soprattutto nei Paesi del nord Europa e
negli Stati Uniti d’America che, secondo economisti di fama internazionale,
rappresenta una rivoluzione che potrebbe addirittura mettere in discussione il
66 www.aci.it
138
capitalismo.
Nel settore del trasporto, esistono già da diverso tempo iniziative rappresentative
del fenomeno che hanno anche il pregio di garantire una mobilità maggiormente
sostenibile. Si tratta del car sharing, ovvero l’uso, su prenotazione, di automobili
dislocate in precisi punti del territorio, del car pooling, ovvero la condivisione di
un’automobile privata da parte di un gruppo di persone che si muovono per
lavoro, studio o altre attività lungo lo stesso percorso e nei medesimi orari o,
ancora, del ride sharing, moderna rivisitazione dell’autostop. La conoscenza e la
diffusione di queste forme di sharing economy applicate alla mobilità è però in
Italia molto ridotta rispetto agli altri Paesi europei.
L’incentivazione di tali forme innovative di mobilità è fondamentale se
consideriamo che, nel 2050, secondo la FAO, il 70% della popolazione mondiale
vivrà nelle città, rispetto all’attuale 49%. In questa prospettiva è fondamentale
soprattutto sviluppare misure di car pooling e di ride sharing che, a differenza del
car sharing, si basano sulla condivisione del veicolo tra più utenti nello stesso
spazio arco-temporale, garantendo così un aumento del tasso di occupazione del
veicolo (coefficiente di riempimento) con tutto ciò che ne deriva.
La Legge n. 134/2012, si pone l’obiettivo di promuovere il car pooling e di
raggiungere grandi bacini di potenziali utenti quali possono essere gli enti
pubblici e le grandi aziende. Si punta, in pratica, a estendere l’ambito e gli
strumenti del decreto n. 179 del 27 marzo 1998 sulla mobilità sostenibile nelle
aree urbane. In quel caso, infatti, le previsioni erano destinate ad avere
un’efficacia limitata in alcune aree del Paese e a un ristretto numero di soggetti: le
disposizioni si applicavano solo alle imprese con più di 800 addetti e agli enti
pubblici con più di 300 dipendenti e solo all’interno dei comuni a rischio di
inquinamento atmosferico individuati dalle regioni e ai sensi del decreto
legislativo 13 agosto 2010, n. 155. Questo limitato numero di imprese ed enti
pubblici risultava obbligato ad adottare un piano degli spostamenti casa-lavoro
finalizzato alla riduzione dell’uso del mezzo privato e a nominare un responsabile
della mobilità. Con questa legge, invece, si punta invece a coinvolgere tutte le
grandi imprese e tutti gli enti pubblici senza più alcuna distinzione dimensionale
139
nell’ambito di tutto il territorio nazionale, dando a questi soggetti uno strumento
in più per dare concretezza alle misure di mobilità sostenibile.
La legge n. 134/2012, infine, prevede anche campagne annuali di informazione e
di educazione alla mobilità alternativa e sostenibile, con riguardo al car pooling,
promosse dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e dal Ministero
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
4.3 La Riforma del Trasporto Pubblico Locale: cenni storici
I principali riferimenti normativi per il settore del TPL traevano origine dal Testo
Unico n.1447 del 1912 e dal Regio Decreto n.2578 del 1925. Su queste leggi
precedenti la seconda guerra mondiale, erano basate le aziende pubbliche
“municipalizzate” che svolgevano servizio nelle città e in molti bacini provinciali.
Il sistema del TPL era, infatti, diviso in due branche: l’ambito urbano era di
competenza dei Comuni ed era gestito mediante lo strumento della
municipalizzazione o affidato a società private, mentre il servizio extraurbano, di
competenza dello Stato, veniva gestito prevalentemente da imprese private
attraverso l’istituto della concessione.
In questo contesto perciò, alle aziende municipali, si affiancavano una miriade di
aziende più o meno private, di dimensioni variabili dall’artigiano che operava con
un solo mezzo su un’unica linea a veri colossi di scala nazionale.
In particolare l’istituto della concessione risale al 1939 ed era regolato dalla legge
n. 1822 che fissava le condizioni del servizio e quindi un programma d’esercizio
che definiva orari, itinerari, materiale rotabile impiegato, tariffe, etc.
Il concessionario assumeva una posizione di tipo monopolistico che esercitava
quando, in occasione delle mutate condizioni della domanda, si determinava
l’esigenza di organizzare nuove autolinee sulle quali vantava una prelazione. Tale
fatto ha indotto inefficienze nei servizi. Infatti, sotto l’aspetto economico, si
riscontrava che le linee urbane, assolutamente deficitarie, venivano finanziate
140
dall’Ente locale. Quelle extraurbane, invece, furono caratterizzate per un lungo
periodo da bilanci positivi ma, alla fine degli anni ’50, caratterizzati dal decollo
economico, si trovarono a subire perdite per cui i concessionari richiesero il
contributo dello Stato. La situazione peggiorò negli anni ’60 anche per effetto
dello sviluppo del nascente trasporto privato che determinò la caduta della
domanda influendo sulle condizioni economiche, già aggravate anche
dall’aumento dei costi.
Nel frattempo la mobilità si affermò quale bene sociale al pari della sanità, della
previdenza, della scuola e della casa. Già l’art. 16 della Costituzione sanciva che
“Ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio
nazionale…”.
Sotto questa spinta si assistette a un’ulteriore estensione della rete dei servizi di
trasporto con indubbi vantaggi per la popolazione, ma i disavanzi lievitarono.
Inoltre in questo periodo le province, sotto la spinta dello sviluppo urbanistico,
s’inserirono nel gioco, mediante lo strumento del consorzio di gestione,
desiderando estendere i servizi.
All’inizio degli anni ’70 si affermò, poi, il fenomeno della pubblicizzazione del
servizio di trasporto pubblico locale agevolata dalla situazione deficitaria in cui
versavano i servizi extraurbani gestiti dalle imprese private. Gli Enti locali
rilevarono imprese o parti di esse incaricando della gestione le aziende
municipalizzate o consortili67.
Quindi la nascita e lo sviluppo delle Regioni determinò, nella prima parte degli
anni Settanta, la corsa alla trasformazione delle aziende municipali e provinciali in
consorziali, vale a dire consorzi formati dalle Province, dai Comuni capoluogo ed
eventualmente da altri Comuni appartenenti a quel bacino di traffico.
Bisogna, infine, sottolineare come nel caso del TPL si tratta di produrre un
servizio venduto sottocosto. In questo periodo, per colmare i debiti aziendali, si
faceva ricorso al cosiddetto “ripiano a piè di lista”. L’utilizzo indiscriminato di
sussidi erogati ex post è stato, però, di ostacolo allo sviluppo delle imprese in
67 BALDASSARRI G. (2000), “La riforma del trasporto pubblico”, Proteo, No. 1998-3.
141
termini di efficienza, assistendo in tal modo ad un crescente spreco di risorse.
Negli anni Settanta e Ottanta si è assistito al tentativo di attivare processi di
riorganizzazione strutturale, il che ha dato vita ad una serie di interventi normativi
che hanno interessato il settore.
4.3.1 Legge quadro per l’ordinamento del TPL
La “Legge quadro per l'ordinamento, la ristrutturazione ed il potenziamento dei
trasporti pubblici locali” (Legge quadro n°151 del 10 aprile 1981) ha avuto una
funzione di apripista nel processo di riorganizzazione e riordino del servizio di
trasporto.
Obiettivo centrale era l’ordinamento, la ristrutturazione ed il potenziamento del
trasporto pubblico locale mediante il risanamento delle aziende ed il superamento
della stagione dei deficit crescenti e dei ripiani statali68.
La Legge quadro, rappresenta la prima normativa nazionale che individua i
principi fondamentali a cui le Regioni a statuto ordinario sono chiamate ad
attenersi nell’esercizio della propria potestà legislativa ed amministrativa in tema
di trasporti collettivi urbani, extraurbani e regionali di persone e cose offerti in
maniera indifferenziata, continuativa e periodica al pubblico, con frequenze,
itinerari e orari prestabiliti. Risultavano esclusi dalla legge 151/1981 i trasporti
pubblici di competenza dello Stato, cioè non trasferiti alla competenza
amministrativa regionale dai d.p.r. 14 gennaio 1972, n. 5 e 24 luglio1977, n. 616,
vale a dire gli autoservizi di linea a carattere internazionale od anche solo
regionale se colleganti Regioni tra loro non confinanti, nonché le linee ferroviarie
in concessione o secondarie gestite dalle Ferrovie dello Stato (all’epoca ancora
68 GIORDANO A., ZOPPI G. (2000), Il nuovo trasporto pubblico regionale e locale dalla legge 151/81 ai d.leg.n.422/97 e n.400/99, Giuffrè, Milano.
142
azienda autonoma facente capo al Ministero dei Trasporti), per le quali era
prevista semplicemente una delega dallo Stato alle Regioni delle proprie
competenze, che rimanevano pertanto allo Stato, e non un trasferimento delle
stesse, cioè un vero e proprio decentramento amministrativo. Rientravano invece
nell’ambito di applicazione della Legge 151/1981 i servizi pubblici di navigazione
lacuale, fluviale, lagunare, sui canali navigabili ed idrovie, salva la competenza
statale per i rapporti internazionali concernenti la navigazione sul lago Maggiore.
L’elemento di maggiore novità introdotto dalla Legge 151/1981, attorno alla quale
ruotava la riforma del TPL, è l’affermazione del principio di sussidiarietà. In forza
dell’affermarsi di tale principio, le Regioni sono chiamate a delegare le proprie
funzioni amministrative agli Enti locali che, rappresentando l’istituzione più
vicina alla cittadinanza, risultano essere maggiormente idonei a conoscere e
tutelare gli interessi della collettività locale69.
Le Regioni, nell’ambito delle loro competenze70, definiscono inoltre la politica
regionale dei trasporti, predispongono piani regionali dei trasporti, adottano
programmi di intervento finanziario sia per gli investimenti, sia per l’esercizio dei
trasporti pubblici locali.
Ulteriori competenze, attribuite dal Legislatore alle Regioni, hanno ad oggetto
l’individuazione dei bacini di traffico71, la definizione di indirizzi per la
ristrutturazione ed organizzazione dei servizi di trasporto pubblico, la promozione
di forme associative tra Enti locali, per l’esercizio delle funzioni amministrative,
la determinazione di sanzioni amministrative per irregolarità nei titoli di viaggio.
Con riferimento alle modalità di gestione dei servizi di trasporto pubblico locale,
queste possono essere sostanzialmente individuate nella gestione diretta, in
69 L’art 1, co. 3, 1.10 aprile 1981, n. 151, prevede che le Regioni delegano, di norma, agli enti locali e a loro consorzi, l’esercizio delle funzioni amministrative trasferite dal d.p.r 14 gennaio 1972, n. 5, e dal d.p.pr70 Art. 2,1. 10 aprile 1981, n. 15171 Ai sensi dell’art. 3, co. 2, l. 10 aprile 1981, n. 151, si intende per bacino di traffico l’unità territoriale entro la quale attuare un sistema di trasporto pubblico integrato e coordinato in rapporto ai fabbisogni di mobilità, con particolare riguardo alle esigenze lavorative, scolastiche e turistiche.
143
economia, con assunzione diretta del servizio da parte dell’Ente pubblico, oppure
tramite azienda speciale, e nella gestione indiretta, mediante concessione.
La prima forma di gestione può dunque avvenire in economia, vale a dire senza
una separazione tra l’Ente pubblico che assume il servizio e soggetto gestore,
oppure mediante azienda speciale. La costituzione di un’azienda speciale
comportava un aumento degli organi dell’Ente all’interno del quale l’azienda
risultava incardinata. Essa, pur non essendo dotata di personalità giuridica, doveva
perseguire fini speciali rispetto a quelli generali dell’Ente ed era pertanto
provvista di autonomia organizzativa e di un’ampia discrezionalità nell’effettuare
scelte operative.
Per quanto riguarda la forma indiretta di gestione dei servizi di TPL, non vi è
dubbio alcuno che la concessione fosse in quegli anni la più seguita. La grande
novità, introdotta dalla Legge 151/1981, è stata quella di riconoscere al legislatore
regionale il potere di disciplinare in modo organico i trasporti regionali, urbani ed
extraurbani.
Non a caso la Legge 151/1981 riconosce alle Regioni il potere di stabilire
un’organica disciplina per l’esercizio del trasporto pubblico locale, compreso
quello urbano, facendo riferimento ai bacini di traffico come parametro di
riferimento ottimale entro il quale si attua un sistema di trasporto pubblico
integrato, in relazione ai fabbisogni della comunità. Ciò costituiva una grande
innovazione, poiché sino ad allora il trasporto pubblico locale urbano era sempre
stato considerato dal Legislatore di esclusiva competenza e prerogativa assoluta
delle Amministrazioni Comunali.
Nonostante gli ottimi propositi del legislatore, nel tentativo di procedere ad una
riforma organica del settore, gli obiettivi strategici che si era preposto il legislatore
con la Legge 151/1981 sono stati disattesi in quanto la maggior parte delle
Regioni, a cui erano state delegate le suddette funzioni di pianificazione e
programmazione del sistema dei trasporti, non è riuscita ad attuarle.
Assai di frequente, infatti, si sono verificati ritardi nella predisposizione dei piani
144
di trasporto, nell’emanazione della normativa di dettaglio nonché nella definizione
dei parametri sui quali procedere al computo dei costi. Quanto alle modalità di
erogazione dei contributi di esercizio la norma in esame prevedeva che detti
contributi dovessero essere assegnati secondo principi e procedure stabiliti con
legge regionale con l’obiettivo di perseguire l’equilibrio economico dei bilanci
delle aziende di trasporto.
Secondo le intenzioni del legislatore questo doveva avvenire, da un lato
determinando i contributi erogati dalla Regione in base al costo economico
standardizzato del servizio, fondandosi ovviamente su criteri di efficienza della
gestione, dall’altro attraverso la previsione dei ricavi di traffico presunto, derivanti
dall’applicazione di tariffe minime stabilite dalla Regione72.
Dette previsioni pur innovando profondamente il settore del trasporto pubblico
locale, presentavano un forte elemento di criticità, rappresentato dall’eterogeneità
delle soluzioni adottate dalle Regioni nella determinazione dei costi standard.
Altro fattore che determinò il mancato recupero di efficienza nelle aziende del
TPL è da riscontrarsi nella commistione di ruoli fra ente di governo e aziende di
gestione. Al governo spettano la programmazione e il controllo mentre il compito
dell’azienda è quello di produrre servizi in condizioni di efficienza. Di fatto, però,
si è determinata una situazione nella quale le aziende di trasporto hanno assunto
tra i loro compiti quello di definire la politica dei trasporti e questo è potuto
accadere proprio perché l’Ente Locale esercitava un diretto controllo sulle
aziende.
Si apre così il tema della “privatizzazione” che, per quanto concerne il TPL,
sfocerà nella Legge Bassanini e nel decreto Burlando. Già con la legge
sull’ordinamento degli enti locali (Legge n.142 dell’8 giugno 1990) si
prevedevano diverse tipologie di affidamento della gestione di servizio. In
particolare con tale intervento normativo si può dire che si sia avviata la fase delle
72RANGONE N. (2003), I trasporti pubblici di linea, Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. CASSESE Parte speciale, Vol. 3, Milano, p. 2272; L. GIANI, A. POLICE (2008), Le funzioni di regolazione del mercato, in Diritto Amministrativo, a cura di F.G. SCOCA, Torino, p. 525 ss.
145
cosiddette “privatizzazioni formali” cioè la trasformazione delle aziende ex
municipalizzate in soggetti giuridici di tipo privato, separati dal punto di vista
organizzativo e contabile dall’Ente pubblico originario ma comunque ancora di
proprietà dell’Ente pubblico.
Lo strumento con cui gli Enti locali e le imprese cominciano a misurarsi per
responsabilizzare i diversi attori è il contratto di servizio. Si tratta peraltro di uno
strumento previsto dalla regolamentazione comunitaria (Reg. CEE 1893/91) che
lo definisce come “un contratto concluso tra le autorità competenti di uno Stato
membro e un’impresa di trasporto allo scopo di fornire alla collettività servizi di
trasporto sufficienti”.
A termini di regolamento il contratto di servizio pubblico deve contenere i
seguenti elementi:
� caratteristiche dei servizi offerti, segnatamente le norme di continuità,
regolarità, capacità e qualità;
� il prezzo delle prestazioni che formano oggetto di contratto, che si
aggiunge alle entrate tariffarie o comprende dette entrate, nonchè le
modalità delle relazioni finanziarie tra le due parti;
� periodo di validità del contratto;
� norme relative e clausole addizionali o ad eventuali modifiche;
� le sanzioni in caso di mancata osservanza del contratto.
4.3.2 Il Decreto Burlando
Il TPL ha conosciuto negli ultimi 15 anni un periodo di forte e significativa
revisione normativa, a partire dalla riforma organica della disciplina di settore
introdotta dal D.lgs. n. 422/97 (cosiddetto “Burlando”, emanato in attuazione della
146
legge delega n. 59/97, rivisto ed integrato dal D.lgs. n. 400/99 e successive
modifiche), il cui obiettivo principale era quello di superare i limiti emersi dalla
legge n. 151/81 e, quindi, promuovere una modernizzazione del settore ponendo
fine ai ripetuti interventi per la copertura dei disavanzi aziendali.
Il Decreto Burlando, prevedeva innanzitutto, che tutte le competenze in materia di
trasporto locale e regionale fossero trasferite alle Regioni.
Nella ripartizione complessiva delle competenze le Regioni, risultano
sostanzialmente affidatarie di funzioni programmatorie e amministrative73, con
l’obbligo però di affidare agli Enti locali tutte le funzioni, in materia di TPL, che
non richiedono un esercizio unitario a livello regionale. Vengono, inoltre, fissate
le competenze di Regioni ed Enti Locali in tema di programmazione ed
organizzazione dei sistemi di mobilità terrestri, marittimi lagunari, fluviali e aerei,
che operano in modo continuativo o periodico con itinerari, orari, frequenze e
tariffe prestabilite, ad accesso generalizzato, nell’ambito di un territorio di
dimensione normalmente regionale o infraregionale. La norma in esame si
sofferma poi sull’individuazione di quei “servizi minimi”, sufficienti a soddisfare
la domanda di mobilità della collettività, anche mediante la definizione di obblighi
di servizio pubblico e di corrispondenti compensazioni economiche. I servizi
minimi vengono finanziati dalla Regione stessa a valere su apposito fondo,
istituito ai sensi dell’art. 20 del d.lgs.422/1997 e alimentato sia da risorse proprie
che da risorse trasferite dallo Stato.
Al fine di rendere più incisiva l’apertura al mercato nel settore del TPL, viene
successivamente adottato il d.lgs. 20 settembre 1999, n. 400, il quale, andando a
modificare la previsione contenuta originariamente nel d.lgs. 422/1997, individua
nella gara l’unico strumento, per la scelta del gestore.
Riguardo le modalità di affidamento della gestione del servizio di trasporto, il
decreto privilegia un sistema basato sulla concorrenzialità con l’intento di
73SMERALDI M., Riforma amministrativa, sussidiarietà concorrenza nella regionalizzazione del trasporto locale, in Dir. trasp., 199, fasc. 1, p. 15.
147
superare gli assetti monopolistici. È prevista la possibilità per tutti quei soggetti in
possesso dei requisiti (finanziari, professionali, morali) richiesti, di partecipare
alle gare per l’ottenimento dell’abilitazione all’autotrasporto di viaggiatori su
strada. Vi sono limitati casi di esclusione per quelle società che gestiscono servizi
in affidamento diretto o in seguito a procedure non ad evidenza pubblica e per
quelle società dalle stesse controllate. Per tali società è prevista la possibilità di
essere ammesse limitatamente alle gare aventi ad oggetto i servizi già espletati
dalle stesse. Per quanto riguarda l’aggiudicazione della gara essa avverrà sulla
base delle migliori condizioni economiche, di esecuzione del servizio, dei piani di
sviluppo e di potenziamento delle reti e degli impianti.
Tra le modalità sono previste:
� la sola procedura delle gare per la scelta del gestore del servizio;
� il contratto di servizio (dalla durata massima di 9 anni), come strumento
principale per la regolazione del rapporto tra ente locale richiedente il
servizio e soggetto erogante il servizio stesso.
Un ulteriore strumento per aprire il settore ad un regime di concorrenza, sia pure
parziale, è rappresentato dalla previsione normativa che dispone la trasformazione
delle aziende speciali e dei consorzi in società per azioni e cooperative tra ex
dipendenti, oltre alla possibilità di affidamento diretto del servizio a tali società e
cooperative limitatamente ad un periodo transitorio non superiore a 5 anni.
L’obiettivo quindi della disciplina risulta oltremodo evidente: stimolare il soggetto
affidatario del servizio ad incrementare i propri ricavi attraverso una
“governance”, ispirata a principi di economicità e di efficienza.
Il modello concorrenziale introdotto con il Decreto Burlando, si identifica
sostanzialmente con il procedimento mediante il quale viene effettuata la scelta
dell’imprenditore commerciale al quale verrà affidato il servizio di gestione del
TPL. In tale contesto la concorrenza tra gli operatori, che aspirano a divenire
148
gestori del servizio, risulta limitata al momento dell’accesso al mercato, non
protraendosi a quello dell’erogazione del servizio, in cui andrà ad operare solo il
gestore aggiudicatario della gara.
L’intento del Legislatore non pare dunque rivolto verso un’apertura effettiva del
settore del TPL alla concorrenza, concentrandosi in questa fase
sull’individuazione di strumenti idonei ad assicurare l’economicità e l’efficienza,
sia in fase di programmazione che di erogazione del servizio. Ovviamente il
gestore, al quale verrà affidato l’esclusiva del servizio, dovrà assicurare la
continuità e l’universalità del medesimo.
Tutto questo va perciò nella direzione di una modifica radicale del sistema,
prevedendo l’obbligo di trasformazione delle aziende in società per azioni, la
concorrenza per il mercato, l’affidamento dei servizi attraverso procedure
concorsuali, l’attenzione sulle problematiche relative all’efficacia e
all’economicità della gestione.
Tale innovazione ha ridisegnato tanto l’assegnazione delle competenze
amministrative, quanto l’assetto organizzativo dei servizi, adottando gli strumenti
della gara e del contratto di servizio rispettivamente per la scelta del gestore e per
la regolazione dei rapporti tra l’ente affidante e il gestore stesso. Questi elementi
rappresentano i capisaldi del nuovo quadro di riferimento.
I principali scopi di tale riforma possono essere sintetizzati in tre categorie
fondamentali:
1) unificazione delle competenze (a livello sia di pianificazione sia di decisioni di
spesa) relativamente a tutte le modalità di TPL;
2) assegnazione di responsabilità finanziaria agli Enti pianificatori (Regioni ed
Enti locali) ed alle imprese che gestiscono il servizio di trasporto;
3) promozione del processo di liberalizzazione e di privatizzazione nel settore.
149
4.3.2.1 Le principali novità introdotte dal Decreto Burlando
Una delle novità più importanti della normativa della riforma del TPL è stata
quella di introdurre un quadro programmatico coordinato.
Con tale quadro, si mira all’unificazione delle competenze a livello sia di
pianificazione sia di decisioni di spesa, relativamente a tutte le modalità di TPL.
L’obiettivo è quello di far convergere in un unico centro, la Regione, la
programmazione di tutti i diversi sistemi di trasporto promuovendo
contemporaneamente l’integrazione modale dell’offerta di tali servizi, con
vantaggi in termini di abolizione di servizi duplicati e di un migliore
soddisfacimento della domanda. Il ruolo centrale di ente regolatore,
programmatore e finanziatore del settore dei TPL che il Decreto Burlando affida
alla Regione risulta rinnovato e significativamente ampliato rispetto alle
previsioni contenute nella Legge Quadro.
Tra gli elementi di novità che il Decreto Burlando introduceva, primo tra tutti fu,
ai sensi dellíart.14, la definizione, a cura delle Regioni, degli indirizzi per la
pianificazione dei trasporti locali ed in particolare dei Piani di Bacino, nonché la
redazione di Piani Regionali dei Trasporti e l’approvazione dei Programmi
Triennali dei Servizi, con il fine di assicurare una rete di trasporto che
privilegiasse le integrazioni fra le varie modalità, favorendo quelle a minore
impatto ambientale.
In particolare il d.lgs. 422/97 introduce l’utilizzazione di quattro strumenti di
programmazione:
� il Piano Regionale dei Trasporti;
� il Piano di Bacino;
150
� la Programmazione dei Servizi Minimi;
� il Programma Triennale dei Servizi.
In termini generali, nella procedura di programmazione del TPL possono essere
individuati tre livelli di pianificazione:
1. un livello nazionale, nel quale sono presenti la normativa nazionale e il
Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (PGTL);
2. un livello regionale, nel quale sono presenti le normative regionali e il
Piano Regionale dei Trasporti (PRT);
3. un livello di bacino, nel quale sono presenti i Piani di Bacino (PdB).
Il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica rappresenta lo strumento di
governo del sistema dei trasporti a livello nazionale. Esso costituisce il quadro di
riferimento dell’insieme di interventi da realizzare sul sistema dei trasporti, il cui
fine Ë migliorare la dotazione infrastrutturale del Paese e rendere più efficiente il
suo utilizzo.
All’interno del PGTL, sono forniti alle Regioni degli indirizzi strategici da
seguire; in particolare, lo strumento indica quali sono gli obiettivi che la
151
pianificazione regionale dei trasporti deve perseguire. In armonia con gli obiettivi
generali del piano dei trasporti nazionale, viene redatto il Piano Regionale dei
Trasporti (PRT). Questo è un documento programmatico generale della Regione,
già previsto dalla Legge 151/81, rivolto a realizzare un sistema equilibrato di
trasporto di persone e di merci in connessione con i piani di assetto territoriale e di
sviluppo economico.
Tale documento determina poi gli indirizzi per la pianificazione dei trasporti locali
e fissa i criteri e le direttive per l’elaborazione dei Piani di Bacino da parte delle
Province, affidando pertanto alle Regioni il compito di coordinare la
programmazione degli Enti Locali.
Infine il Programma Triennale dei Servizi è uno strumento di programmazione
approvato dalle Regioni che ha il compito di individuare la rete e l’organizzazione
dei servizi, l’integrazione modale e tariffaria, le risorse da destinare all’esercizio e
agli investimenti, le modalità di determinazione delle tariffe, le modalità di
attuazione e revisione dei contratti di servizio pubblico, il sistema di monitoraggio
dei servizi e i criteri per la riduzione della congestione e dell’inquinamento
ambientale.
Un secondo aspetto introdotto dal decreto, riguarda, invece la volontà del
legislatore di aumentare le responsabilità finanziarie dei soggetti operanti nel
settore, attraverso l’abolizione dei trasferimenti direttamente da parte dello Stato.
Si assegna, infatti, la responsabilità finanziaria agli enti pianificatori, Regioni ed
enti locali, ed alle imprese che gestiscono il servizio di trasporto.
Il trasferimento alle Regioni (decentramento amministrativo) comporta, infatti,
non solo dei diritti, quali la gestione del servizio, ma anche dei doveri in quanto
eventuali necessità di ripiani di bilancio sono a carico non più dello Stato ma delle
Regioni stesse che sono responsabili sia del servizio offerto che della redditività
dello stesso.
Attraverso un tale decentramento è possibile stimolare Regioni ed enti locali ad
una più attenta selezione dei settori che necessitano maggiormente di sussidi,
152
creando i presupposti per un incremento nei livelli di efficienza produttiva da
parte delle imprese di trasporto.
Infine, un terzo aspetto della riforma, e certamente uno degli strumenti più
importanti per l’effettiva riorganizzazione del settore del TPL, riguarda la
promozione del processo di liberalizzazione e di privatizzazione del settore. Si
introduce quindi l’obbligo di affidare i servizi di trasporto regionale e locale
tramite meccanismi concorrenziali (cercando in tal modo di promuovere dove
possibile l’introduzione di forme di concorrenza per il mercato) e di stipulare un
ben definito contratto di servizio, tra enti locali e gestori, dotato di certezza e
copertura finanziaria per l’intero periodo di validità e caratterizzato da incentivi al
contenimento dei costi operativi74.
Per quanto concerne l’organizzazione dei servizi di TPL, il D.lgs. n. 422/97
nell’intento di migliorare la qualità del servizio e di ridurne i costi, in linea con i
principi di efficienza ed economicità, prevede (art. 18, comma 3) che gli enti
territoriali incentivino il riassetto organizzativo in chiave di privatizzazione del
settore ed attuino, entro il 31 dicembre 2000, la trasformazione delle aziende
speciali e dei consorzi che gestiscono servizi di TPL in società di capitali o
cooperative di cui l’ente può risultare socio unico per un periodo non superiore a
tre anni dall’avvenuta trasformazione.
Il d.lgs. n. 422 del 1997 prevede all’art. 18, comma 2, l’obbligo per le Regioni e
gli enti locali di garantire, nell’affidamento dei servizi, il ricorso alle procedure
concorsuali per la scelta dei gestori. Spetta, pertanto, alle Regioni il compito di
fissare i tempi per l’apertura alla concorrenza, fermo il rispetto dei limiti temporali
fissati dal legislatore nazionale. Decorso, infatti, il suddetto periodo transitorio
tutti i servizi dovranno inderogabilmente essere affidati con procedure di gara.
A prescindere dalle modalità di affidamento del servizio, i rapporti fra ente
erogatore e soggetto gestore devono essere regolati da appositi contratti di
servizio (art. 19). Si tratta di un’innovazione di particolare rilievo ai fini del
raggiungimento degli obiettivi di buon andamento prefigurati dal legislatore. 74 CABIANCA A. (2010), “Il trasporto pubblico locale alla difficile ricerca di un centro di gravità, tra disciplina di settore, servizi pubblici locali e normativa comunitaria”, GiustAmm.
153
Infatti, il ricorso allo strumento negoziale dovrebbe consentire di individuare con
certezza diritti ed obblighi reciproci delle parti.
Altri elementi fondamentali sono costituiti dalle caratteristiche del servizio e dal
relativo programma di gestione, dalla struttura tariffaria adottata, dagli standard
qualitativi minimi da assicurare obbligatoriamente alla clientela (età,
manutenzione, pulizia e comfort dei veicoli circolanti; regolarità delle corse
effettuate; diffusione di punti di informazione).
Nell’ambito dei contratti di servizio, la definizione da parte di Regioni ed enti
Locali di obblighi di servizio pubblico deve essere accompagnata dalla previsione
delle compensazioni dovute alle aziende, calcolate sulla base di una stima a priori
dei costi che non consenta aggiustamenti a posteriori, nel caso di effettivi
scostamenti rispetto a quelli stimati, e ponga a carico delle stesse aziende il rischio
d’impresa derivante dalle strategie produttive e commerciali impiegate nella
gestione del servizio.
In conclusione, il Decreto Burlando introduce tali importanti principi:
� la liberalizzazione del settore attraverso l’affidamento dei servizi con
procedure di gare;
� la trasformazione delle aziende speciali e dei consorzi in società di capitali
o in cooperative a responsabilità limitata;
� la razionalizzazione delle reti attraverso l’integrazione modale e la
tariffazione unificata;
� l’introduzione del contratto di servizio quale strumento regolatorio tra ente
affidante e azienda affidataria;
� la costituzione in ogni Regione di un fondo destinato ai trasporti, con
risorse regionali e con risorse trasferite dallo Stato;
154
� l’efficientamento del sistema, con l’obiettivo del raggiungimento del
rapporto ricavi e costi uguale a 0,35.
Il decreto ridefinisce l'organizzazione del trasporto pubblico locale e costituisce il
nuovo quadro normativo di riferimento a livello nazionale e ad esso si sono
adeguate le legislazioni regionali in materia.
4.3.3 Il Piemonte: la Legge Regionale n. 1 del 4 Gennaio 2000
Con la Legge Regionale n. 1 del 4 Gennaio 2000 e ss.mm.ii, “Norme in materia di
trasporto pubblico locale”, la Regione Piemonte ha recepito il d.lgs. 422/97 (c.d.
Decreto Burlando), successivamente integrata ad opera della L.R. n. 17 del 19
Luglio 2004, che ha come obiettivo quello di incentivare nella gestione dei servizi
di trasporto pubblico locale il superamento degli assetti monopolistici,
introducendo regole di concorrenzialità mediante l’espletamento di procedure
concorsuali per la scelta del gestore, in modo da acquisire una maggiore efficacia
ed efficienza. Attraverso questo nuovo intervento normativo si specificano
ulteriormente e più dettagliatamente le funzioni e i compiti in materia di TPL
spettanti a regioni, province e comuni, nonché comunità montane.
A tal proposito, la Regione Piemonte ha agito attraverso un sistema di deleghe a
province, comuni, cui spetta emettere bandi di gare per l’affidamento dei propri
servizi minimi con risorse a carico della Regione sia in conto esercizio che in
conto investimento, attribuite agli enti delegati in base ad accordi di programma.
L’affidamento del servizio avviene, dunque, sulla base di procedure concorsuali
ad evidenza pubblica svolti in base alle disposizioni di cui al d.lgs 158 del 199575.
Affinché gli obiettivi di cui alla nuova legge regionale possano essere meglio
realizzati, si prevede l’esercizio unitario delle funzioni da essa previste attraverso
l’elaborazione di un piano regionale dei trasporti e di un programma triennale dei
servizi di trasporto pubblico locale76.
75 Art. 11, comma 2, L.R. n. 1 del 200076 AA. VV. (2006), “Il trasporto pubblico locale”, Dossier informative per I consiglieri regionali
155
Il programma triennale dei servizi di TPL, viene approvato, sulla base di un’intesa
con gli Enti locali mediante l’esame della Conferenza permanente Regioni-
Autonomie locali, dalla Giunta regionale previo parere della Commissione
consiliare competente e previa consultazione delle organizzazioni sindacali
confederali, delle associazioni delle aziende di trasporto e delle associazioni dei
consumatori. Esso definisce gli obiettivi di efficienza e di efficacia
nell’organizzazione e nella produzione dei servizi, l’assetto quantitativo e
qualitativo dei servizi minimi, nonché le risorse per ogni servizio pubblico di
trasporto da destinare all’esercizio e all’investimento, la politica tariffaria per
l’integrazione e la promozione dei servizi, le modalità di attuazione e revisione dei
contratti di servizio pubblico, il sistema di monitoraggio dei servizi, la rete e
l’organizzazione dei servizi regionali amministrati dalla Regione e gli indirizzi di
programmazione dei servizi regionali delegati amministrati dalla Regione e gli
indirizzi di programmazione dei servizi regionali delegati agli enti locali.
L’art. 11 della L.R. n. 1/2000, definisce le modalità di affidamento. In particolare,
gli enti contraenti gli accordi di programma di cui all’art. 9 stipulano i contraenti
di servizio con i soggetti giudicatrici o affidatari, a seguito dell’espletamento di
gare con procedura ad evidenza pubblica o di altra forma di affidamento prevista
dalla normativa nazionale vigente. I soggetti devono possedere i requisiti di
idoneità morale, finanziaria e professionale richiesti, ai sensi della normativa
vigente, per il conseguimento della prescritta abilitazione all’autotrasporto di
viaggiatori su strada.
Qualora il servizio sia affidato a seguito di espletamento di gare con procedure ad
evidenza pubblica, l’aggiudicazione avviene sulla base del criterio previsto
dall’art. 24, comma 1, lett. b), del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 158
(attuazione della direttiva CEE 90/531 e 93/38 relative alle procedure di appalti
nei settori esclusi) secondo le procedure previste dall’art. 12 comma 2 e dall’art.
13, limitatamente ai casi contemplati del d.lgs n. 158/1995, nonché secondo
quanto stabilito dall’art. 18, comma 2, lett. a), del d.lgs. 422/1997 e successive
modificazioni.
del Consiglio Regionale del Piemonte, pp. 36-38.
156
L’art. 11, comma 2-bis, della L.R. del 2000, stabilisce che in coerenza con la
normativa nazionale non sono ammessi a partecipare alle gare le società che, in
Italia o all’estero, gestiscono a qualunque titolo servizi pubblici locali in virtù di
un affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica o a seguito dei
relativi rinnovi. Tale divieto si estende alle società controllate o collegate con
queste ultime. L’ente affidante ha facoltà di revocare l’affidamento, con atto
motivato, in caso di modifiche o revisioni sostanziali della rete dei servizi, ovvero
nei casi in cui venga meno l’interesse pubblico, così come previsto dal contratto di
servizio. L’affidatario incorre nella decadenza dell’affidamento in presenza di
irregolarità specificamente previste nel contratto di servizio.
L’art. 21 L.R. n. 1/2000, prevede che gli enti contraenti gli accordi di programma
di cui all’art. 9, limitatamente alla stipulazione del primo contratto di servizio e
successive proroghe con scadenza entro la fine del periodo transitorio, possono
utilizzare la procedura negoziata di cui all’art. 12, comma 2, lett. c) del d.lgs. n.
158/1995. I contratti di servizio sono estesi agli ambiti territoriali di cui all’art. 10,
comma 1. Al fine di favorire l’aggregazione tra le imprese operanti e di superare
la piccola dimensione e l’eccessiva frammentazione che ostacolano il
raggiungimento di soddisfacenti livelli di sinergia ed efficienza economica, ove
tutti i soggetti che esercitano, alla data del 31 dicembre 1999, i servizi compresi in
ciascun ambito territoriale costituiscano una riunione di imprese nelle forme
elencate dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 158/1995, alla riunione di imprese
sono in via prioritaria rivolti l’invito a presentare un’offerta e a svolgere l’attività
negoziale di cui all’art. 12, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 158/1995.
Nella procedura di governo del trasporto pubblico locale si deve poi tenere conto
non solo della normativa nazionale e regionale cui si è fatto cenno, ma anche degli
strumenti di programmazione ivi previsti: piano regionale dei trasporti, piano di
bacino, programmazione dei servizi minimi e programma triennale dei servizi che
157
hanno fra di loro le relazioni indicate nello schema seguente:
Fig. 4.1: Strumenti di programmazione del trasporto pubblico locale in Piemonte
Fonte: DGR 1 agosto 2003. “Adozione del programma triennale regionale dei servizi di trasporto pubblico locale 1 gennaio 2004-31 dicembre 2006”, Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte supplemento No. 2 al No. 35.
Le risorse regionali per il finanziamento dei servizi minimi vengono distribuite
agli enti soggetti di delega (province e conurbazioni) attraverso accordi di
programma, che sostanzialmente tendono a sanare gli squilibri contributivi
esistenti tra province e aree conurbate (a favore di queste ultime), cui si
aggiungono dopo il 2004 gli oneri derivanti dall’applicazione del CCNL
autoferrotranviari.
I vincoli finanziari alla gestione derivano esclusivamente dalle disposizioni
dell’art. 14 della Legge Regionale, secondo la quale in tutti i contratti di servizio il
rapporto tra ricavi da traffico e costi operativi (al netto dei costi di infrastruttura)
deve essere pari ad almeno 0,35 e non sono consentiti agli enti locali ulteriori
contributi a copertura dell’eventuale minor rapporto tra ricavi e costi.
158
La stessa Legge 422/1997 ha previsto poi un regime transitorio conclusosi al 31
dicembre 2006 nel corso del quale è data facoltà di mantenere tutti gli affidanti
agli attuali concessionari ed alle società derivanti dalla trasformazione di cui al 3
comma dell’art. 18, ma con l’obbligo di affidamento di quote di servizio o di
servizi speciali mediante procedura concorsuali, previa revisione dei contratti di
servizio in essere, se necessaria. Le regioni procedono altresì all’affidamento della
gestione dei relativi servizi a società costituite allo scopo dalle ex gestioni
governative, fermo restando quanto previsto dalle norme in materia di
programmazione e di contratti di servizio di cui al capo II del d.lgs. 422/1997.
Trascorso tale periodo transitorio, tutti i servizi vengono affidati esclusivamente
tramite procedure concorsuali previste dalla normativa comunitaria e nazionale.
Durante tale periodo la Regione Piemonte ha previsto l’automatico adeguamento
del periodo transitorio alle proroghe eventualmente previste dalla normativa
statale. In particolare, con l’art. 10 della successiva L.R. di modifica n. 17/2004,
l’originario termine di cui all’art. 21 della L.R. n. 1/2000, è differito al 31
dicembre 2005 o comunque alla data di conclusione del periodo transitorio
prevista dalla normativa nazionale in materia.
Una delle novità più rilevanti attiene all’istituzione di un’Agenzia per la mobilità
Metropolitana, ovvero un consorzio tra enti locali alla quale spettano compiti di
programmazione e gestione dei trasporti urbani di Torino e delle aree extraurbane
dell’area metropolitana, nonché tutte le alte funzioni ad essa assegnate o trasferiti
dagli enti aderenti.
La Legge Regionale, contempla la possibilità che alcuni soggetti possono
partecipare alle procedure concorsuali per l’affidamento del servizio di trasporto
pubblico locale. Si tratta delle cd. ATI, associazioni temporanee di imprese. La
loro disciplina è rimessa alle disposizioni transitorie della Legge Regionale (art.
21). Il programma di attuazione per il periodo 2001-2002 richiama in generale le
modalità di affidamento previste dall’art. 21 della L.R. 17/2000. Il successivo
programma di attuazione 2004-2006 ripropone le ATI e le definisce come un
primo passo verso le integrazioni più stabili e consolidate77.
77 D.G.R., 1 agosto 2003 No. 78-10244, BUR Piemonte 2 supplemento al No. 35 del 28 agosto 2003.
159
4.3.4 La Legge finanziaria del 2002 e il Decreto Bersani
Quest’ondata di liberalizzazione che ha interessato il settore fortemente
monopolistico dei trasporti avviata con il decreto Burlando, è stata estesa
all’intero settore dei servizi pubblici attraverso la norma all’articolo 35 della
Legge Finanziaria 2002 (L. n. 448/2001), di modifica dell’articolo 113 del Testo
Unico degli Enti Locali. Per alcuni l’articolo 35 della legge finanziaria segna il
momento conclusivo di un intenso processo di riforma che ha portato il settore dei
servizi pubblici locali dalla municipalizzazione alla liberalizzazione del mercato
ed alla successiva privatizzazione dei soggetti gestori.
Si effettua una distinzione tra:
� proprietà: reti, impianti e delle altre dotazioni patrimoniali;
� gestione: reti, impianti e delle altre dotazioni patrimoniali;
� erogazione del servizio.
La proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni necessarie per
l’esercizio dei servizi pubblici, è mantenuta in capo agli enti locali, salva la
possibilità di attribuirla a società di capitali delle quali essi posseggano la
maggioranza azionaria non cedibile. Per quanto riguarda l’attività di gestione delle
reti e degli impianti destinati alla produzione dei servizi pubblici locali invece è
possibile separarla dall’attività di erogazione del servizio a seconda dei casi
stabiliti dalle normative che regolano i diversi settori. Nel caso in cui sia permessa
tale separazione, sarà possibile assegnare la gestione sia a società di capitali con la
partecipazione maggioritaria degli enti locali, sia ad imprese dotate dei requisiti
previsti, individuate attraverso procedure pubbliche; infine per quanto riguarda
l’erogazione del servizio deve avvenire secondo le normative di regolazione del
160
settore che generalmente prevedono il conferimento del servizio a società di
capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza
pubblica aggiudicate quasi sempre sulla base di criteri quali la qualità del servizio,
la sicurezza dei servizi prestati, le condizioni economiche e di prestazione del
servizio. Questi elementi fanno parte del contratto di servizio, che diviene lo
strumento di regolazione tra enti locali-società di erogazione del servizio-società
di gestione delle reti.
Nella legge vi è anche un’elencazione delle cause di esclusione dalla
partecipazione alle gare per l’affidamento del servizio per quelle società che:
gestiscono servizi pubblici locali in virtù di un affidamento diretto, di una
procedura non ad evidenza pubblica od a seguito di rinnovi. Cosi come prevede il
d.lgs. 422/1997 , anche l’art.35 (in riferimento al solo settore del TPL) consente
un passaggio graduale al regime concorrenziale. È previsto infatti un arco di
tempo che va dai 3 ai 5 anni durante il quale è possibile mantenere gli affidamenti
diretti già in essere. La Commissione europea ha ritenuto la normativa contenuta
nell’art. 35 della Legge Finanziaria 2002 contrastante con la disciplina
comunitaria derivante dalla giurisprudenza salvo il fatto che nell’affidamento di
appalti e concessioni si debba sempre agire rispettando norme e principi del
Trattato (trasparenza e pubblicità), si ritiene non lecita la possibilità di affidare la
gestione della rete in maniera diretta quando è separata dall’erogazione del
servizio oltre che l’affidamento a società di capitali partecipate in maniera
maggioritaria dagli enti locali.
Con l’approvazione del d.lgs. n. 223 del 4 luglio 2006 (Decreto Bersani),
convertito poi nella Legge n. 248/2006, è stato poi stabilito che i Comuni
potessero prevedere “che il trasporto di linea di passeggeri accessibile al
pubblico, in ambito comunale e intercomunale, fosse svolto, in tutto il territorio o
in tratte e per tempi predeterminati, anche dai soggetti in possesso dei necessari
requisiti tecnico-professionali, fermo restando il divieto di disporre finanziamenti
in qualsiasi forma a favore dei predetti soggetti” (Art.14).
161
Si prevede quindi di poter affidare servizi di linea di passeggeri in ambito
comunale e intercomunale a soggetti dotati delle idoneità necessarie. Con questa
disposizione si introduce nel sistema del TPL la cosiddetta “concorrenza nel
mercato” superando, solo in piccola parte, quella “per il mercato” introdotta, ma
mai pienamente portata a compimento, dal d.lgs. 422/97.
Il Decreto Burlando, con il quale si conservava un unico operatore o meglio un
numero limitato e predefinito di operatori, realizzava, infatti, una concorrenza per
il mercato. In questo modo, attraverso le procedure di concessione e le gare di
appalto, si trasferiva la competizione tra le imprese nella fase di acquisizione del
diritto temporaneo a servire il mercato in condizioni di monopoli.
A partire dal 2006, invece, nei servizi pubblici, si sono realizzati interventi
finalizzati all’apertura dei mercati alla concorrenza, in termini di numerosità delle
aziende autorizzate ad offrire servizi simili. Questa impostazione viene
identificata come una forma di concorrenza “nel mercato” che pone fine a
condizioni monopolistiche, alimentando, invece, la competitività tra aziende
pubbliche e imprese private.
Il modificarsi delle condizioni di mercato in cui la Pubblica Amministrazione
opera si è manifestato con caratteristiche e gradazioni diverse in tutti i settori di
pubblica utilità.
4.3.5 Il Decreto Lanzillotta
Nel 2006 è stata presentata una “Delega al Governo per il riordino dei servizi
pubblici locali” ad opera della Ministra Lanzillotta. Il cuore del disegno di legge è
rappresentato dal sostanziale divieto per gli Enti Locali, escluse rare e transitorie
eccezioni, di optare per la gestione diretta, con società a capitale pubblico o miste,
(gestione in house) dei servizi locali. L’assegnazione della gestione dei servizi
pubblici locali è previsto debba avvenire attraverso procedure competitive ad
evidenza pubblica, mentre temporaneamente, purché si pongano le condizioni in
un tempo limitato, è prevista la possibilità di affidare i servizi a società di a
162
capitale pubblico e/o misto pubblico-privato. Il termine massimo per l’avvio delle
procedure competitive ad evidenza pubblica è comunque quello del 31 dicembre
2011. Sempre nel decreto si prevede un regime di compensazioni da parte degli
Enti Locali a favore delle imprese eroganti i servizi qualora il carattere universale
dei servizi impedisse il conseguimento dell’utile d’impresa.
L’intera gamma dei servizi pubblici locali, indipendentemente dalla volontà
politica di amministratori e cittadini, dovrà essere assegnata attraverso gare
d’appalto, consegnando al mercato e alle sue regole servizi cardine per la qualità
della vita di qualsiasi comunità. Sicuramente privatizzare serve per ridurre il
debito pubblico del nostro paese, però è anche vero che i governanti devono
essere capaci di ridistribuire ai cittadini quanto entrato nelle casse dello Stato oltre
che saper controllare e monitorare i comportamenti assunti dalle imprese neo-
privatizzate.
Secondo Lanzillotta la presenza pubblica nella gestione dei servizi è di per sé
distorsiva del funzionamento del mercato e il ruolo di garanzia degli Enti locali
attiene esclusivamente al controllo formale delle norme di affidamento. Questo
provvedimento è stato fatto arenare in Parlamento dalle frange estreme della
coalizione secondo le quali avrebbe aperto scenari inquietanti rispetto ai quali
bisognava mobilitarsi per la difendere il carattere sociale dei servizi pubblici
locali.
4.3.6 Dalla Legge Finanziaria 2008 al Legge di Stabilità 2014
Al fine di contrastare la crisi strutturale del TPL e di concludere, in attuazione
dell'art.119 della Costituzione e in un'ottica di responsabilizzazione delle
autonomie territoriali, il processo di decentramento dei finanziamenti del settore,
il legislatore è intervenuto con la legge finanziaria del 2008 che prevedeva i
seguenti obiettivi :
� sostituzione dei trasferimenti statali alle Regioni a statuto ordinario con
compartecipazione accisa gasolio;
163
� assegnazione alle Regioni di risorse aggiuntive tramite compartecipazione
accisa su gasolio con i seguenti fini:
sviluppo servizi TPL;
attuazione processo riforma settore;
adeguamento annuale risorse;
mantenimento livelli servizi e del recupero inflazione anni precedenti;
copertura CCNL con risorse proprie del sistema e non trasferite dallo
Stato.
Il D.L. n. 78/2010 (art. 14), invece, ha operato pesanti tagli alle autonomie
territoriali per un importo di 8,5 miliardi di € a regime dal 2012. In relazione al
TPL vi è da osservare che i trasferimenti dello Stato alle Regioni a statuto
ordinario sono stati oggetto di riduzione. Prendendo in considerazione solo le
risorse correnti, la quasi totalità dei tagli è, però riferibile al trasporto ferroviario
di Trenitalia (98% delle risorse correnti) . Infatti, le risorse per il trasporto
regionale ferroviario di Trenitalia ammontavano a 1.181 milioni di €; quelle
destinate alla sicurezza ferroviaria delle ferrovie concesse a 41 milioni di €;
le risorse per IVA e contratti di sevizio a 148 milioni di €; le risorse in conto
capitale per investimenti per la sostituzione del parco autobus a 159 milioni di €;
infine, le risorse in conto capitale per lo sviluppo del TPL in termini di
investimento erano 94 milioni di €. Per un totale complessivo di 1.625 milioni di
€.
Nonostante il taglio dei trasferimenti abbia quasi esclusivamente riguardato
Trenitalia, la mancata assegnazione alle regioni di queste risorse ha avuto pesanti
ripercussioni sul settore del TPL, settore in cui il processo di
fiscalizzazione/federalismo amministrativo, avviato nel 1995 con l'abolizione
dell'ex fondo nazionale dei trasporti, è stato completato con la Legge finanziaria
2008.
164
In termini assoluti, rispetto alle risorse del 2010, il taglio per il 2011 valeva 302
milioni di €, il taglio per il 2012 571 milioni di €, per un totale complessivo nel
biennio di 873 milioni di €. I recuperi sanciti dagli accordi del 18 novembre 2010,
del 16 dicembre 2010 (per il 2011) e del 21 dicembre 2011(per il 2012)
riguardavano quasi esclusivamente i servizi regionali di Trenitalia.
Nel 2011 i tagli residui ammontavano a 132 milioni di € e nel 2012 a 11 milioni di
€. In base ai dati forniti dalle Regioni le risorse necessarie per assicurare la
copertura dei contratti di servizio ferroviari regionali FS erano pari a 2.055
milioni di €. Per il 2012 le risorse mancanti erano pari a 307 milioni di €, mentre a
decorrere dal 2013 mancavano 855 milioni di €.
Per il 2010 le regioni a statuto ordinario hanno “distolto” dal settore 140 milioni
di € dei circa 500 di risorse aggiuntive derivanti dalla Legge finanziaria del 2008.
Nel 2011 e nel 2012 al “diverso utilizzo” di risorse derivanti dalla Legge
finanziaria 2008 ed al mancato adeguamento inflattivo delle stesse si sommavano
i tagli ai capitoli di spesa regionali discendenti dai tagli ai trasferimenti per il TPL
ferroviario di Trenitalia operati con la manovra finanziaria 2010 e poi
successivamente reintegrati con gli accordi Stato/Regioni.
In termini reali la riduzione di risorse aggiuntive nel 2012 era di 893 milioni di e
pari al 17% rispetto al 2010.
La riduzione delle risorse per il trasporto pubblico avvenuta nel biennio
2011/2012 ha avuto le seguenti ripercussioni:
� incremento dei livelli tariffari al fine di compensare, almeno in parte, la
contrazione delle risorse;
� una drastica riduzione dei livelli qualitativi e quantitativi del servizio
offerto;
165
� effetti occupazionali (blocco del turnover, mancata riconferma dei contratti
a tempo determinato, applicazione di misure straordinarie come esodi
incentivati, contratti di solidarietà difensiva ed in taluni casi utilizzo di
ammortizzatori sociali in deroga ), tali effetti coinvolgono circa 8.500
dipendenti ( oltre il 7% del totale della forza lavoro del settore.
L'offerta di servizio ha avuto una riduzione nel 2011 pari al 4% e con
l'implementazione dei tagli si prevedeva che nel 2012 vi sarebbe stata un ulteriore
contrazione del 5%. Occorre, però, sottolineare che non tutte le regioni hanno
provveduto a ridurre i servizi e anche all'interno delle stesse regioni non tutti i
bacini di traffico sono stati operati tagli in misura eguale. Infatti il 40% delle
Regioni ha registrato una produzione chilometrica stabile, il 45% ha effettuato una
riduzione della produzione chilometrica fino a -9%, ed il 15% una riduzione della
produzione chilometrica di oltre il 9%.
Con la manovra finanziaria per il 201378, il Governo ha previsto l’istituzione del
“Fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del TPL,
anche ferroviario, nelle Regioni a statuto ordinario”.
Il Governo ha fissato per decreto il livello di compartecipazione ai proventi delle
accise su gasolio e benzina così da assicurare 465 milioni di € nel 2013, 443 nel
2014 e 507 dal 2015, cui andranno a sommarsi altri introiti, non ben definiti, fino
ad arrivare alla cifra di 1,6 miliardi di €.
Il decreto ha fissato anche i criteri e le modalità con cui ripartire e trasferire alle
regioni a statuto ordinario le risorse del fondo, sulla base di criteri che terranno
conto dei processi di razionalizzazione intrapresi o da intraprendere da parte delle
regioni, (i relativi piani devono essere definiti entro 60 giorni) per realizzare
un'offerta di servizio più idonea, più efficiente ed economica per il
soddisfacimento della domanda di TPL.
Il Governo ha tenuto conto nel decreto delle modalità attraverso cui le regioni
avrebbero raggiunto l'obiettivo del rapporto tra ricavi da traffico e costi dei servizi
78 Legge n. 228, approvata dal Parlamento il 24 diembre 2012.
166
previsto dalla normativa nazionale vigente in materia di TPL e di servizi ferroviari
regionali e delle azioni intraprese per il progressivo incremento del rapporto tra
ricavi da traffico e costi operativi; la progressiva riduzione dei servizi offerti in
eccesso in relazione alla domanda e il corrispondente incremento qualitativo e
quantitativo dei servizi a domanda elevata; la definizione di livelli occupazionali
appropriati; la revisione di idonei strumenti di monitoraggio e di verifica.
L'articolato prevedeva, inoltre, che le regioni si sarebbero indirizzate verso la
riprogrammazione dei servizi di TPL e di trasporto ferroviario regionale,
rimodulando i servizi a domanda debole e sostituendo le modalità di trasporto da
ritenersi diseconomiche con altre più idonee a garantire il servizio nel rispetto del
rapporto tra ricavi e costi; la norma stabiliva anche che a seguito della
riprogrammazione, rimodulazione e sostituzione di cui al presente articolo, tutti i
contratti di servizio già stipulati da aziende di trasporto anche ferroviario,
sarebbero stati oggetto di revisione.
Sempre l'art. 9 della Legge di Stabilità 2013 prevedeva anche, che le aziende di
TPL e le aziende esercenti servizi ferroviari di interesse regionale e locale
avrebbero trasmesso per via telematica e con scadenza semestrale, i dati
economici e trasportistici all'Osservatorio presso il Ministero dei Trasporti istituito
ai sensi dell'art. 1, comma 300, della Legge n. 244 del 2007. Tale Legge stabiliva
che l'Osservatorio sulle politiche del TPL, cui partecipano i rappresentanti dei
Ministeri competenti, delle regioni e degli enti locali, avesse il compito di istituire
una banca dati e un sistema informativo pubblico correlato a quelli regionali al
fine di assicurare la verifica dell'andamento del settore e del completamento del
processo di riforma.
Una nuova norma contenuta nella Legge di stabilità 2013 prevedeva che le risorse
del Fondo nazionale non potessero essere destinate a finalità diverse da quelle del
finanziamento del TPL, anche ferroviario e che il monitoraggio sui costi e sulle
modalità complessive di erogazione del servizio in ciascuna Regione si sarebbe
svolto dall'Osservatorio presso il Ministero dei Trasporti.
Ma, sempre nella stessa legge, era previsto che le regioni non avrebbero avuto
167
completo accesso al fondo se non avessero assicurato l'equilibrio economico della
gestione e l'appropriatezza della gestione stessa, secondo i criteri stabiliti dal
decreto che il Presidente del Consiglio ha emanato entro il 31 gennaio 2013.
Con la manovra finanziaria per il 201479, invece, si prevede che nel Patto di
Stabilità per gli enti locali non siano considerati i pagamenti in conto capitale,
ossia quelli destinati agli investimenti, sostenuti dai Comuni. È fatto divieto
inoltre a Regioni ed enti locali di:
� stipulare contratti relativi a strumenti finanziari derivati;
� rinegoziare derivati già in essere alla data di entrata in vigore della legge;
� stipulare contratti di finanziamento che includono componenti derivate.
La Legge di Stabilità, inoltre, al fine di favorire il rinnovo dei parchi
automobilistici e ferroviari destinati ai servizi di trasporto pubblico locale,
regionale e interregionale, nonché della flotta destinata ai servizi di trasporto
pubblico lagunare, la dotazione del fondo istituito dall’art. 1, comma 1031, della
Legge 27 dicembre, n. 296, è incrementata di 300 milioni di euro per l’anno 2014
e di 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016, da destinare
all’acquisto di materiale rotabile su gomma e di materiale rotabile ferroviario,
nonché di vaporetti e ferry-boat80. Al relativo riparto tra le regioni si provvede
entro il 30 giugno di ciascuno degli anni del triennio con le procedure di cui
all’art. 1, comma 1032, della Legge n. 296 del 2006, sulla base del maggiore
carico medio per servizio effettuato, registrato nell’anno precedente.
Entro il 31 marzo 2014, con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono definiti, con criteri di uniformità a livello
nazionale, i costi standard dei servizi di trasporto pubblico locale e regionale
nonché i criteri per l’aggiornamento e l’applicazione degli stessi. Nella
79 Legge n. 147, approvata dal Parlamento il 27 dicembre 2013.80 Art. 1, comma 83, Legge n. 147/2013.
168
determinazione del costo standard per unità di servizio prodotta, espressa in
chilometri, per ciascuna modalità di trasporto, si tiene conto dei fattori di contesto,
con particolare riferimento alle aree metropolitane e alle aree a domanda debole,
della velocità commerciale, delle economie di scala, delle tecnologie di
produzione, dell’ammodernamento del materiale rotabile e di un ragionevole
margine di utile. Infine, la legge prevede anche che a partire dall’anno 2014, al
fine di garantire una più equa ed efficiente distribuzione delle risorse, una quota
gradualmente crescente delle risorse statali per il trasporto pubblico locale è
ripartita tra le regioni sulla base del costo standard di produzione dei servizi.
4.3.7 Ulteriori provvedimenti legislativi
Allo stato attuale sono numerosi i provvedimenti legislativi finalizzati alla
disciplina del settore del trasporto pubblico locale, anche nel più ampio contesto
dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. In particolare, il quadro
normativo risulta costituito da:
Art. 1, comma 300, Legge 24 dicembre 2007, n. 244, istitutivo, presso il
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, dell’Osservatorio nazionale
sulle politiche del trasporto pubblico locale con il compito di “[...] creare
una banca dati e un sistema informativo pubblico correlati a quelli
regionali e di assicurare la verifica dell’andamento del settore e del
completamento del processo di riforma” e di “presenta[re] annualmente
alle Camere un rapporto sullo stato del trasporto pubblico locale”;
l’art. 16-bis del D.l. 6 luglio 2012, n. 9581 istitutivo, “a decorrere
dall’anno 2013”, del “Fondo nazionale per il concorso finanziario dello
Stato, agli oneri del trasporto pubblico locale, anche ferroviario, nelle
regioni a statuto ordinario”;
81 D.l. 6 luglio 2012, n. 95 (decreto convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 7 agosto 2012, n. 135), contenente “Disposizioni urgenti per la revision della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonce misure di rafforzamento patrimoniale delel imprese del settore bancario”.
169
l’art. 34, comma 20, D.l. 18 ottobre 2012, n. 17982, relativo all’iter da
seguire ai fini dell’affidamento del servizio (anche) di trasporto pubblico
locale. In particolare, tale stabilisce che “per i servizi pubblici locali di
rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina
europea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di
garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento,
l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione,
pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e
della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la
forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli
obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le
compensazioni economiche se previste”.;
l’art. 3-bis, D.l. n. 138/2011, che ha imposto la definizione del perimetro
degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali e omogenei ove organizzare lo
svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica,
istituendo o designando i relativi enti di governo;
l’art. 37, D.l. n. 201/2011, che stabilisce i compiti dell’Autorità di
regolazione dei trasporti. Si segnala come la predetta Autorità abbia
pubblicato sul proprio sito internet un documento di “Consultazione sulle
questioni regolatorie sulle procedure di gara per l’affidamento in
esclusiva dei servizi di trasporto pubblico locale” al precipuo scopo di
stimolare l’acquisizione, da parte di tutti i soggetti interessati, di
osservazioni scritte sul tema (Comunicato n. 38 del 3 luglio 2014). Entro il
termine stabilito (5 agosto 2014) sono pervenute all’Autorità di
Regolazione dei Trasporti numerose osservazioni scritte (nel numero di
24), sempre consultabili online. Detta attività appare collegata alla
specifica competenza assegnata a detta Autorità con riferimento alla
definizione degli “schemi dei bandi delle gare per l’assegnazione dei
servizi di trasporto in esclusiva e delle convenzioni da inserire nei
capitolati delle medesime gare e a stabilire i criteri per la nomina delle
82 D.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (decreto convertito, con modificazioni, dall’art 1, comma 1, L. 17 dicembre 2012, n. 221), contenete “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”.
170
commissioni aggiudicatrici” e, in relazione ai servizi di trasporto
ferroviario regionale, all’attività di “verifica che nei relativi bandi di gara
non sussistano condizioni discriminatorie o che impediscano l’accesso al
mercato a concorrenti potenziali e specificamente che la disponibilità del
materiale rotabile già al momento della gara non costituisca un requisito
per la partecipazione ovvero un fattore di discriminazione tra le imprese
partecipanti” (art. 37, comma 2, lett. f), D.l. n. 201/2011);
Il comma 21 del già menzionato art. 34, D.l. n. 179/2012 dispone che “gli
affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto non
conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea devono essere
adeguati entro il termine del 31 dicembre 2013 pubblicando, entro la stessa
data, la relazione prevista al comma 20 [...]”. La norma da ultimo
menzionata ha formato oggetto di un successivo intervento normativo per
effetto dell’art. 13, primo comma, D.l. n. 150/2013, secondo cui, “in
deroga a quanto previsto dall’articolo 34, comma 21 del decreto-legge 18
ottobre 2012, n. 179, [...] al fine di garantire la continuità del servizio,
laddove l’ente responsabile dell’affidamento ovvero, ove previsto, l’ente di
governo dell’ambito o bacino territoriale ottimale e omogeneo abbia già
avviato le procedure di affidamento pubblicando la relazione di cui al
comma 20 del medesimo articolo, il servizio è espletato dal gestore o dai
gestori già operanti fino al subentro del nuovo gestore e comunque non
oltre il 31 dicembre 201483”;
l’art. 13, comma 25-bis, D.l. 23 dicembre 2013, n. 145, “gli enti locali
sono tenuti ad inviare le relazioni di cui all’articolo 34, commi 20 e 21,
del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni,
dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, all’Osservatorio per i servizi
pubblici locali, istituito presso il Ministero dello sviluppo economico
nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a
legislazione vigente e comunque senza maggiori oneri per la finanza
83 D.l. 30 dicembre 2013, n. 150 (decreto convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 27 febbraio 2014, n. 15), recante “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative”.
171
pubblica, che provvederà a pubblicarle nel proprio portale telematico
contenente dati concernenti l’applicazione della disciplina dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica sul territorio”;
a) L’art. 23, D.l. 24 aprile 2014, n. 66, sempre sul tema delle società
partecipate, dispone che “[...] il Commissario straordinario [...], entro il
31 luglio 2014 predispone, anche ai fini di una loro valorizzazione
industriale, un programma di razionalizzazione delle aziende speciali,
delle istituzioni e delle società direttamente o indirettamente controllate
dalle amministrazioni locali [...], individuando in particolare specifiche
misure: a) per la liquidazione o trasformazione per fusione o
incorporazione degli organismi sopra indicati, in funzione delle
dimensioni e degli ambiti ottimali per lo svolgimento delle rispettive
attività; b) per l’efficientamento della loro gestione, anche attraverso la
comparazione con altri operatori che operano a livello nazionale e
internazionale; c) per la cessione di rami d’azienda o anche di personale
ad altre società anche a capitale privato con il trasferimento di funzioni e
attività di servizi”.
4.3.7.1 Recenti interventi della Giurisprudenza
A talune delle incertezze originate dai frammentari interventi del legislatore a
proposito dell’individuazione delle specifiche modalità di affidamento del servizio
concretamente adottabili da parte dell’ente affidante si è recentemente (e
parzialmente) ovviato a cura della giurisprudenza amministrativa.
In particolare, degna di nota è la recentissima sentenza n. 4599 del 10 settembre
2014 con cui il Consiglio di Stato ha precisato che “per effetto [della pronuncia
della Corte Costituzionale n. 199/2012], i servizi pubblici locali di rilevanza
economica possono in definitiva essere gestiti indifferentemente mediante il
mercato (ossia individuando all’esito di una gara ad evidenza pubblica il
soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia
172
per mezzo di una società mista e quindi con una “gara a doppio oggetto” per la
scelta del socio o poi per la gestione del servizio), ovvero attraverso
l’affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo
formalmente è diverso dall’ente, ma ne che sostituisce sostanzialmente un diretto
strumento operativo, ricorrendo in capo a quest’ultimo i requisiti della totale
partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) analogo (a
quello che l’ente affidante esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da
parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con
l’ente o gli enti che la controllano. L’affidamento diretto, in house, costituisce
invece una delle tre normali forme organizzative delle stesse, con la conseguenza
che la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici
locali, ivi compresa quella di avvalersi dell’affidamento diretto, in house (sempre
che ne ricorrano tutti i requisiti così come sopra ricordati e delineatisi per effetto
della normativa comunitaria e della relativa giurisprudenza), costituisce frutto di
una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata
circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, come tale,
sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia
manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed
arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico
travisamento dei fatti (Cons. St., sez. V, 30 settembre 2013, n. 4832; sez. VI, 11
febbraio 2013, n. 762)”.
4.3.8 Considerazioni finali sul quadro normativo
Le leggi sopra esaminate definiscono il percorso verso la liberalizzazione del
mercato del trasporto nel suo complesso e con qualsiasi modalità (ferroviaria,
automobilistica). Pare evidente che nel corso degli anni ci sia stata una spinta del
legislatore alla fornitura dei servizi pubblici mediante le imprese con la finalità di
indurre maggiormente alla concorrenza nell’erogazione di servizi pubblici, tra i
quali il trasporto pubblico locale.
Una caratteristica che emerge in modo assai evidente è la presenza di grandi
173
incertezze normative per un comparto dove non si riesce a dare compiuta
attuazione ad una riforma prima che venga approvata la riforma successiva.
Comuni, Provincie e Regioni si trovano quindi con un quadro normativo non tanto
fluido, quanto soprattutto ricco di opportunità; nell’incertezza legata al proliferare
delle possibili interpretazioni, ciascuna amministrazione può legittimamente
ritenere di seguire una propria strada.
La messa in atto delle politiche di liberalizzazione ha generato la nascita di una
pluralità di imprese, che si muovono in tutti i settori di attività del trasporto
pubblico locale. Questi cambiamenti devono essere governati e sostenuti da un
forte sistema di regole, per evitare anche conseguenze ed effetti pesanti sul costo
del finanziamento dei servizi. La liberalizzazione, priva di regole, svilupperebbe
essenzialmente la concorrenza sulle differenze strutturali della definizione dei
costi, proprio per questo è utile adottare un criterio di controllo della spesa
pubblica.
In relazione al TPL vi è inoltre da osservare che i trasferimenti dello Stato alle
Regioni a statuto ordinario sono stati, negli ultimi anni, oggetto di riduzione. La
mancata assegnazione alle Regioni di queste risorse ha avuto pesanti ripercussioni
sul settore. Primo fra tutti l’incremento dei livelli tariffari al fine di compensare,
almeno in parte, la contrazione delle risorse; accompagnato da una drastica
riduzione dei livelli qualitativi e quantitativi del servizio offerto; non
dimenticando infine gli effetti occupazionali.
In questo quadro in continua evoluzione finanziario/normativo, le Regioni ed i
Comuni sono chiamati a scelte non semplici sia nella programmazione, sia nella
gestione e nel relativo controllo. In particolare si osserva come il processo di
pianificazione, non potrà finire con l’approvazione dei Piani Regionali dei
Trasporti, ma l’azione regionale dovrà programmare, amministrare e controllare in
modo dinamico il funzionamento del TPL. Le Regione dovranno dotarsi di un
efficace strumento di reporting individuando opportuni indici di prestazione per
governare i processi, verificare il raggiungimento degli obiettivi sociali ed
economici e rendere trasparente ai cittadini il ruolo di governo dell’ente.
174
CAPITOLO 5
PER UNA MOBILITÀ SOSTENIBILE: QUALI STRATEGIE?
5.1 La sostenibilità dei trasporti urbani
La sostenibilità del trasporto costituisce ormai uno dei principali obiettivi
perseguiti dall’operatore pubblico: essa viene definita in modo da comprendere
non solo connotazioni ambientali (inquinamento dell’aria, inquinamento acustico
ecc.), ma anche altre dimensioni quali la vivibilità dei centri urbani e l’utilizzo
degli spazi. Gli interventi per realizzare questo obiettivo non sono agevoli da
definire a causa delle varie interrelazioni tra il settore dei trasporti, le attività
economiche e il territorio. Ad esempio, nel caso dell’inquinamento atmosferico
dei centri urbani o dell’effetto serra, occorrerebbe considerare anche il
riscaldamento domestico e le attività industriali. Un ulteriore esempio è dato dalla
interrelazione tra attività di trasporto e uso del suolo: la disponibilità di
infrastrutture e servizi di trasporto influenza l’uso del territorio e quest’ultimo, a
sua volta, influenza la domanda di trasporto, per cui è il sistema territoriale nel
175
suo complesso che deve essere ripensato, anche in funzione di una minore
pressione sui centri urbani. In relazione a ciò, per salvaguardare la compatibilità
tra la qualità dei cittadini occorre non ridefinire l’offerta di trasporto, ma anche
contenerne la domanda, orientandola verso una mobilità a ridotto impatto
ambientale, verso cioè una mobilità sostenibile. In particolare, occorre agire sui
livelli di mobilità, sui mezzi di trasporto e sulle loro modalità d’uso e sulle
infrastrutture. Alcuni di questi interventi richiedono tempi di progettazione e di
esecuzione brevi mentre altri possono richiedere tempi lunghi. Gli interventi del
primo tipo sono accomunati dal fatto di prevedere una riduzione del traffico non
temporanea ma permanente e perseguita con gradualità. Le politiche di lungo
periodo, invece, sono volte soprattutto a migliorare l’offerta di mobilità e
consistono in azioni sul circolante, nell’espansione delle infrastrutture stradali, nel
miglioramento del trasporto pubblico e in tutte quelle soluzioni innovative in
grado di intervenire in modo automatico sul controllo della qualità.
5.2 Il controllo della mobilità
La sostenibilità urbana nel settore dei trasporti richiede che grande attenzione
venga data al controllo della mobilità. Sotto quest’ottica, nel corso degli ultimi
anni, la tariffazione dei parcheggi ha assunto una grande rilevanza, con una
diffusione generalizzata nei centri di una certa dimensione, e con la graduale
estensione in molte città delle aree a pagamento al di là delle zone centrali. In
questa direzione, la tariffazione dei parcheggi può rappresentare un meccanismo
importante per ridurre le inefficienze legate all’uso del veicoli, non solo
attribuendo un costo diretto all’occupazione dello spazio urbano, per lungo tempo
considerata risorsa gratuita, ma anche internalizzando i costi associati alla
mobilità privata. La potenzialità di questo strumento è accresciuta dal fatto che la
sua applicazione richiede ridotti investimenti iniziali e risulta generalmente più
accettata da parte delle collettività coinvolte, tanto da farlo ritenere da alcuni come
un’opzione più plausibile rispetto al road pricing. L’attuale applicazione della
sosta a pagamento, caratterizzata da una ridotta estensione delle aree coinvolte,
dall’adozione di tariffe mediamente contenute e da un elevato numero di categorie
176
esentate o non influenzabili con la leva economica, è resa difficilmente
utilizzabile come strumento di gestione della domanda di mobilità e di controllo
della congestione urbana. In genere, essa è stata configurata come strumento per
reperire gettito, utile per far pagare agli utenti provenienti dalla cintura
metropolitana e dalle aree più esterne per l’uso della rete urbana e di altri servizi
finanziati prevalentemente dai residenti (illuminazione, parcheggi d’interscambio,
verde pubblico, polizia municipale, ecc.), ma molto meno come meccanismo di
internalizzazione dei costi esterni associati alla mobilità privata.
Il superamento di queste criticità, può essere perseguito, in primo luogo attraverso
il perfezionamento delle applicazioni esistenti, al fine di estenderne l’influenza a
un numero maggiore di utenti. Le autorità locali, ad esempio, possono
incrementare il numero di stalli a pagamento sotto il proprio controllo, portandone
progressivamente la copertura fino ai margini dell’area urbana e,
contemporaneamente coinvolgendo quelle categorie di domanda qualificata che
risultano frequentemente esenti (residenti, carico e scarico, manutentori ecc.).
Ugualmente importanti, anche se certamente più problematici, risultano i tentavi
di coinvolgere gli spazi di sosta al di fuori del controllo delle autorità locali. In
questa direzione, i centri commerciali, le imprese e i datori di lavoro possono
essere incentivati sia per legge sia attraverso accordi in forma volontaria, a
rendere manifesto ai propri clienti/dipendenti il costo di fornitura degli spazi di
sosta, al fine di poter introdurre un incentivo all’utilizzo di alternative rispetto
all’auto privata. Interessante la soluzione adottata in Svezia dove il benefit
costituito dalla disponibilità di sosta gratuita sul posto di lavoro può essere
contabilizzato nella base imponibile del reddito personale, in modo che le aliquote
marginali della tassazione possano fungere da disincentivo per l’uso dell’auto da
parte dei pendolari per recarsi sul posto di lavoro84. Per quanto interessanti, questi
tentativi rimangono tuttora isolati e con risultati molto modesti, tanto che la
disponibilità gratuita di parcheggio sul posto di lavoro o presso attività
commerciali di una certa dimensione rappresenta la norma decisamente
dominante85.
84 JANSOON J. O. (2002), “Co-ordinated Urban Transport Pricing and Parking Policy: A Scandinavian Perspective”, (http://iei.uv.es/roadpricing/ponencias/owen.pdf).85 SHOUP D. C. (2001), Parking Cash Out, in EMCT, Managing Commuters’Behaviour: A New Role for Companies, European Conference of Ministers of Transport, Paris, pp. 41-173.
177
Un ulteriore intervento più avanzato riguarda l’applicazione del pedaggio urbano
in forma automatica. Questo sistema di tariffazione degli ingressi e, nelle
formulazioni più avanzate, della mobilità è in grado di commisurare in modo più
preciso le somme dovute al numero dei tragitti e alla loro collocazione spazio-
temporale, con l’ulteriore prospettiva di avere a disposizione nuove soluzioni
tecnologiche, come quella satellitare, che possono garantire un ulteriore
affinamento. Il pedaggio urbano permette di assoggettare al pagamento tutte le
categorie di utenti e spostamenti, compresi quelli che la tariffazione di parcheggio
non può e non riesce a cogliere: traffico d’attraversamento, utenti diretti verso
posti privati o aziendali, utenti che sostano regolarmente. L’affidabilità tecnica e
la sostenibilità finanziaria rendono possibile immaginare una progressiva
estensione del pedaggio al di là dei centri storici, in modo da coinvolgere una
quota maggiore di spostamenti e da costituire un adeguato strumento di gestione
della mobilità in tutta l’area metropolitana.
L’evoluzione verso questa fase è perseguibile solo su un arco di tempo allargato,
inserendo gli strumenti di prezzo in un quadro coordinato di interventi che ne
riesca a migliorare risultati e l’accettabilità.
5.3 Disincentivare l’uso dell’automobile
“Tra i costi esorbitanti per mantenere l’automobile e una crescente attenzione per
l’ambiente, gli automobilisti italiani iniziano a lasciare la macchina parcheggiata
a favore delle bici, autobus o a piedi. Anche se non supportate pienamente
soprattutto nelle grandi metropoli, le forme di mobilità sostenibile si stanno
espandendo”: è quanto sostiene la ricerca dell’osservatorio Mobilità Sostenibile
Airp, il quale, dopo avere aver rielaborato i dati Isfort (Istituto Superiore di
Formazione e Ricerca per i Trasporti), è giunto alla conclusione che nonostante le
tendenze in atto che portano verso un minore utilizzo, l’automobile resta
comunque il mezzo di trasporto di gran lunga più utilizzato dagli italiani (in auto
viene effettuato l’83% degli spostamenti con un mezzo motorizzato). È divenuto
ormai noto a tutti come il petrolio sia divenuto il principale combustibile utilizzato
nel settore dei trasporti, rendendo il settore dei trasporti il principale produttore di
emissioni. Il settore dei trasporti dipende quasi totalmente dal consumo di prodotti
178
petroliferi e combustibili fossili che causano la liberazione nell’atmosfera di
sostanze inquinanti e climalteranti riconducibili ai principali gas serra quali: CO2,
N2O e CH4. Secondo il rapporto dell’APAT (Agenzia per la Protezione
dell’Ambiente e per i servizi Tecnici) “La mobilità in Italia: indicatori su trasporti
e ambiente”, dati di sintesi del 2005, le emissioni nazionali di gas- serra dai
trasporti sono aumentate del 31,1% tra il 1990 e il 2004 e l’anidride carbonica
contribuisce per il 96% alle emissioni di gas-serra generate dal settore. Come si
rileva, inoltre, esiste un dato di consistente interesse per quanto riguarda la
mobilità veicolare urbana e che indica come oggi molta parte delle attività svolte
nel corso della giornata e l’accesso ai servizi di base presuppongano lo
spostamento con il mezzo privato. La richiesta del trasporto su strada è in crescita:
nel 1990 le Unità di Trasporto di passeggeri o merci erano 791 miliardi, nel 2002
erano 1027, e, il valore nel 2013 era di 1355, con un incremento costante
superiore al 3% annuo.
Ad oggi esistono numerosi studi volti a definire iniziative aventi l’obiettivo o di
decrementare la domanda di automobili ad esempio disincentivandola o di rendere
l’utilizzo di questo mezzo di trasporto più sostenibile e di conseguenza meno
inquinante o semplicemente di condividerne l’utilizzo. Alla prima categoria
appartengono le politiche di “road pricing”, alla seconda invece appartengono
iniziative volte a utilizzare combustibili alternativi al petrolio, mentre quando si
parla di condivisione dell’automobile ci si riferisce a sistemi di “car sharing” o
“car pooling”, due aree distinte ma cha hanno in comune sia l’obiettivo sia su un
concetto di base: l’obiettivo è quello di diminuire il numero di veicoli in
circolazione principalmente sulle strade dei centri urbani, principale causa, come
detto precedentemente, degli elevati livelli di inquinamento, mentre l’idea di base
è la condivisione da parte di più individui di un solo veicolo che sarà
caratterizzato da un tasso occupazionale maggiore. Ora verranno trattate tutte le
cinque aree della mobilità sostenibile legate all’automobile.
5.3.1 Il Mobility Management
179
Per risolvere gli effetti negativi causati dalle automobili, in Italia, con il Decreto
sulla mobilità sostenibile nelle aree urbane, è stata istituito il cosiddetto “mobility
management”, che si configura come un nuovo modo di affrontare i problemi
legati alla mobilità nelle aree urbane e metropolitane. Le attività promosse da tale
disciplina prendono in considerazione i problemi di mobilità in ambito urbano ed
extraurbano, con l’obiettivo principale di ridurre il numero delle vetture private
circolanti a favore dei mezzi di trasporto pubblico o alternativi (es: bicicletta, car
sharing, bike sharing etc.), migliorando in tale maniera l’accessibilità ai centri
urbani cittadini e diminuendo il grado di concentrazione delle sostanze inquinanti.
Il mobility management si basa su una serie di aspetti ritenuti fondamentali per
poter affrontare in modo efficiente problemi derivanti dalla mobilità, quali
l’informazione, la comunicazione, il coordinamento e l’organizzazione le cui
azioni non prevedono la realizzazione di nuove infrastrutture, ma si concentrano
su iniziative di persuasione, incentivazione, concessione e restrizione. Anziché
proporre il potenziamento dell’offerta, che normalmente richiede investimenti
notevoli e tempi di realizzazione lunghi, il mobility management si concentra,
quindi, sullo studio dei comportamenti degli utenti e sulla domanda di trasporto a
livello aggregato, in modo tale da individuare e dimensionare le possibili azioni
applicabili in ciascuna azienda, migliorando la mobilità dei lavoratori stessi. Il
mobility management tende a raggiungere mediante ogni attività i seguenti
obiettivi86:
� assicurare il soddisfacimento dei bisogni di mobilità delle persone e di
trasporto delle merci con il rispetto degli obiettivi di riduzione dei consumi
energetici e dei costi ambientali, sociali ed economici;
� migliorare l’accessibilità alla città/regione con particolare riguardo ai modi
“sostenibili”, quali il trasporto collettivo, il trasporto ciclo-pedonale e
quello combinato (intermodale);
� influenzare i comportamenti individuali incoraggiando l’utente a
soddisfare i bisogni di mobilità usando modi di trasporto ambientalmente e
86 PIERRI F. (1999), Linee guida per Mobility Managers: La redazione del Piano Spostamenti Casa-Lavoro, Direzione Centrale trasporti e viabilità, Milano, pp. 5-6.
180
socialmente sostenibili;
� ridurre il numero, la lunghezza e i bisogni degli spostamenti individuali
con il veicolo privato;
� incoraggiare gli individui, le imprese e le istituzioni a soddisfare i loro
bisogni di spostamento attraverso l’uso efficiente ed integrato dei mezzi e
dei sistemi di trasporto disponibili;
� migliorare l’integrazione tra i modi di trasporto e facilitare
l’interconnessione delle reti di trasporto esistenti, anche attraverso lo
sviluppo di specifici sistemi informativi e di comunicazione;
� aumentare l’efficienza economica di ogni singolo modo di trasporto.
Per raggiungere tali obiettivi, sono state introdotte le figure del mobility manager
aziendale e del “mobility manager d’area”. Il mobility manager aziendale, è una
figura che deve essere assunta obbligatoriamente da imprese ed enti pubblici di
grandi dimensioni nelle aree soggette a rischio di inquinamento atmosferico. In
queste zone, generalmente caratterizzate da forti flussi di traffico, imprese ed enti
pubblici con singole unità locali con più di 300 dipendenti ovvero con un numero
complessivo di 800 dipendenti distribuiti in sedi diverse o raggruppamenti di
aziende più piccole, di gruppi scolastici e di poli ospedalieri sono tenute ad
adottare un piano degli spostamenti casa-lavoro (P.S.C.L.), del proprio personale
dipendente. Il principale obiettivo di questo documento è quello di ridurre l’uso
del mezzo di trasporto privato individuale e migliorare l’organizzazione degli
orari per limitare la congestione del traffico. Il P.S.C.L. coinvolge le aziende ed i
lavoratori nella progettazione e gestione di soluzioni di trasporto alternative e
coinvolge i comuni nella sua attuazione. Questi ultimi sono infatti chiamati a
stipulare con l’impresa o l’ente pubblico proponente eventuali accordi di
programma per l’applicazione del piano e ad istituire, una struttura di
collegamento, supporto e coordinamento tra i responsabili della mobilità
aziendale, le amministrazioni comunali e le aziende di trasporto che faccia capo
ad un mobility manager d’area. L’applicazione del P.S.C.L. può consentire alle
181
aziende coinvolte di ottenere dei vantaggi, che possono essere sia di tipo diretto
che indiretto. Nel primo caso i dipendenti così come l’azienda, traggono delle
agevolazioni immediate e concrete. Nel secondo caso invece i guadagni, non
necessariamente sol0 economici, possono derivare dalle conseguenze del piano di
mobilità in un’ottica di medio periodo, come ad esempio la riduzione dello stress
da traffico per tutta l’area interessata.
Figura 5.1: I benefici diretti ed indiretti del P.S.C.L.
182
Fonte: PIERRI F. (1999), Linee guida per Mobility Managers: La redazione del Piano Spostmenti Casa-Lavoro, Direzione Centrale trasporti e viabilità, Milano.
Il mobilty manager d’area è una figura di coordinamento afferente all’ambito
territoriale dell’ente o degli enti locali presso cui opera. I compiti di questo ufficio
secondo il c.d. Decreto Silvestrini, consistono nel: promuovere azioni di
divulgazione, formazione e di indirizzo presso le aziende e gli enti interessati;
assistere le aziende nella redazione dei P.S.C.L.; favorire l’integra- zione tra i
P.S.C.L. e le politiche dell’Amministrazione comunale in una logica di rete e di
interconnessione modale; verificare soluzioni, con il supporto delle aziende che
gestiscono i servizi di trasporto locale, su gomma e su ferro, per il miglioramento
dei servizi e l’integrazione degli stessi, con sistemi di trasporto complementari ed
innovativi, per garantire l’intermodalità e l’interscambio, e l’utilizzo anche della
bicicletta e/o di servizi di noleggio di veicoli elettrici e/o a basso impatto
ambientale; favorire la diffusione e la sperimentazione di servizi di taxi collettivo,
di car-pooling e di car-sharing; fornire supporto tecnico per la definizione dei
criteri e delle modalità per l’erogazione di contributi e incentivi diretti ai progetti
183
di mobilità sostenibile; promuovere la diffusione di sistemi e mezzi di trasporto a
basso impatto ambientale; monitorare gli effetti delle misure attuate in termini di
impatto ambientale e decongestione del traffico veicolare.
5.3.2 Road Pricing
Nel corso degli anni si è sviluppato l’ormai noto “road pricing”, il quale prevede
l’istituzione di una tariffa d’uso dell’infrastruttura stradale e può flessibilmente
essere applicato in specifiche fasce orarie di maggior traffico (ore di punta) o in
situazione di congestione (congestion charging); questa iniziativa rappresenta in
ogni caso una politica punitiva e/o dissuasiva volta a disincentivare l’utente ad
utilizzare l’automobile per i propri spostamenti soprattutto quotidiani. Il road
pricing viene definito nella letteratura dell’Economia dei Trasporti come "la
tariffazione sull’uso dell’infrastruttura finalizzata a ridurre la congestione e ad
internalizzare le esternalità"87. L’utilizzo del road pricing, oggi applicabile con
tecnologie di tipo Telepass, presenta diversi vantaggi:
� consente di regolare il flusso veicolare con la massima elasticità: si può, ad
esempio, far pagare di più nelle ore di punta o nelle situazioni di maggiore
congestione;
� seleziona gli spostamenti secondo l’utilità economica, riportando le
decisioni decentrate in materia di mobilità nel contesto di valori e di scelte
proprio dell’economia di mercato;
� spinge ad ottimizzare l’uso dei veicoli, presentando specifiche sinergie con
il car pooling;
� incrementa le entrate della pubblica amministrazione consentendo di
autofinanziare interventi sul sistema dei trasporti;
� può essere utilizzato anche con finalità ambientali, di riduzione degli
87 TDM Encyclopedia, 2012.
184
effetti inquinanti (per esempio, prevedendo esenzioni o riduzioni in
funzione dell’energia utilizzata, oppure commisurando la tariffa al livello
di inquinamento rilevato in quel momento).
Esistono varie tipologie di road pricing: “Road Tolls”, “Congestion Pricing”,
“Cordon (Area) Tolls, HOT Lanes”, “Vehicle Use Fees” e “Road Space
Rationing”.
Road Tolls. I pedaggi sono un modo comune per finanziare i miglioramenti
autostradali e infrastrutturali: sono pedaggi cosiddetti “fee-for-service”, i cui
ricavi vengono utilizzati per sostenere i costi del progetto. Questo è considerato
una modalità di finanziamento dei miglioramenti stradali più equo ed
economicamente più efficiente rispetto ad altre opzioni, che non prevedono un
aiuto economico proveniente dagli utenti utilizzatori. La riscossione dei pedaggi è
spesso proposto in collaborazione con la privatizzazione stradale (ad esempio, le
autostrade vengono costruite da imprese private e finanziate con i pedaggi). I
pedaggi sono spesso strutturati in modo da massimizzare i ricavi e il successo si
misura in termini di recupero del costo del progetto.
Congestion Pricing. Il Congestion Pricing, anche noto come “Value Pricing”, fa
riferimento a pedaggi variabili (prezzi più elevati in condizioni di intensa
congestione e prezzi più bassi in località meno congestionate), destinati a ridurre a
livelli ottimali il periodo di picco dei volumi di traffico. I pedaggi possono variare
sulla base di un programma fisso, oppure possono essere dinamici, il che significa
che i prezzi variano a seconda del livello di congestione esistente in un
determinato momento.
Cordon (Area) Tolls. Questi sono tasse pagate dagli automobilisti per guidare in
una determinata zona, di solito un centro della città: alcuni pedaggi cordone si
applicano solo nei periodi di punta, come nei giorni feriali. Ciò può essere fatto
semplicemente richiedendo un pedaggio all’entrata in una certa zona.
185
HOT Lanes. Le corsie HOT (High Occupancy Toll) sono corsie HOV (High
Occupancy Vehicle), le quali consentono anche a veicoli a bassa occupazione di
poterle utilizzare a fronte del pagamento di un pedaggio. Le corsie HOT vengono
spesso proposte come un compromesso tra le corsie HOV e i pedaggi stradali.
Vehicle Use Fees. Le spese di chilometraggio possono essere utilizzate per
finanziare la realizzazione o il miglioramento delle strade o ridurre gli impatti del
traffico, tra cui la congestione, l’inquinamento e il rischio di incidenti. Nel 2002 è
stata avanzata una proposta da parte della Commissione britannica per la gestione
integrata dei trasporti, secondo la quali le tasse di immatricolazione dei veicoli
esistenti e le tasse sui carburanti venissero sostituite da una tassa per gli utenti
della strada variabile utilizzando il metodo di tariffazione basato sul GPS; secondo
la Commissione, infatti, questo avrebbe potuto essere un modo per ridurre la
congestione del traffico e riflettere in modo più equo i reali costi di carreggiata di
ciascun veicolo.
Road Space Rationing. Un’ultima tipologia di road pricing è quella di
considerare nei periodi di picco (della congestione) il numero di viaggi per veicoli
o il numero di chilometri per veicolo con un sistema di conteggio particolare: ad
esempio, ogni residente in una certa regione potrebbe ricevere dei crediti per ogni
100 chilometri che percorre nel periodo di picco. I residenti possono utilizzare i
crediti stessi, o scambiandoli con altre persone o addirittura vendendoli. Il
risultato è una forma di tariffazione della congestione, in cui vengono catturati i
benefici da parte dei residenti piuttosto che proprietari di strade o governi.
Nella tabella seguente vengono riepilogate le differenti tipologie esistenti di road
pricing.
186
Tabella 5.2: differenti tipologie di Road Pricing
Sono richieste delle azioni e manovre politiche per incentivare le persone a
scegliere modalità di spostamenti alternativi all’uso della propria automobile, in
Road Pricing Descrizione Obiettivo
Road TollsUna tassa fissa per la guida su una strada particolare
Aumentare le entrate
Congestion Pricing
Una tassa che è maggiore in condizioni di congestione significativa, volta a spostare parte del traffico dei veicoli ad altri percorsi, in altri tempi e in modalità alternative
Aumentare le entrate e ridurre la congestione del traffico
Cordon (Area) TollsTariffe applicate per la guida in una particolare area
Ridurre la congestione nei maggiori centri urbani
HOT Lanes
Una corsia per veicoli ad alta occupazione che ospita un numero limitato di veicoli a bassa occupazione a pagamento
Aumentare le entrate rispetto ad una corsia HOV
Vehicle Use FeesUna tassa di utilizzazione del veicolo in base a quante miglia il veicolo ha percorso
Aumentare le entrate e ridurre vari problemi legati al traffico
Road Space Rationing
Entrate/crediti utilizzati per razionare i periodi di picco della congestione rispetto alla capacità stradale
Ridurre la congestione nei maggiori centri urbani
187
quanto è condivisa l’idea che il primo passo per raggiungere l’obiettivo di
mobilità sostenibile sia proprio quello di abbattere la domanda di trasporto su
strada e quindi incentivare le persone a soddisfare i propri bisogni di mobilità
utilizzando modalità sostenibili da un punto di vista prima di tutto ambientale.
Una tattica utilizzata spesso per disincentivare l’uso dell’auto privata è appunto
quella di definire diverse forme di tassazione indiretta o il caricamento della
distanza basato sulla tecnologia del “Global Positioning System”, dove gli
automobilisti pagano in base al consumo del veicolo a seconda del percorso scelto
e del momento della giornata. Tuttavia, un regime di imposizione indiretta spesso
risulta molto impopolari e l’accettabilità da parte del pubblico può essere bassa a
meno che non sia dimostrato che il fatturato venga reinvestito in modo
appropriato.
5.3.3 Combustibili alternativi al petrolio
Esiste ad oggi una miriade di opzioni e alternative al petrolio come i
biocarburanti, il gas naturale, vetture ad idrogeno e i motori elettrici, i quali sono
da prendere seriamente in considerazione e su cui è necessaria un’attenta analisi di
costi/benefici, considerando non solo l’aspetto prettamente economico, ma anche
e soprattutto ambientale. Tuttavia vi è la necessità per i governi di finanziare la
ricerca e lo sviluppo di carburanti alternativi, pur utilizzando politiche fiscali che
consentano il passaggio a carburanti con basso utilizzo di risorse primarie (per
esempio il petrolio).
Le alternative ad oggi realizzate sono qui sintetizzate relative sia alle tipologie di
combustibili che di veicoli:
� veicoli con motore a combustione interna: in questo veicolo la
combustione che avviene nel motore viene modificata al fine di poter
utilizzare i biocarburanti, combustibili liquidi per trasporto prodotti a
partire da oli vegetali riciclati/amido e piante di zucchero; molti veicoli
possono funzionare con una miscela di petrolio costituito solamente dal
188
5% di biodiesel o bioetanolo (l’equivalente della benzina) con una ridotta
modifica del motore e non sono richieste infrastrutture specialistiche; lo
svantaggio economico riguarda l’elevato costo ad oggi dei biocarburanti
rispetto ai combustibili convenzionali;
� veicoli con motore a combustione interna possono in alternativa essere
modificati per utilizzare combustibili gassosi come l’Autogas o gas di
petrolio liquido (stoccati in forma compressa o liquefatta). Il sostanziale
vantaggio è che il gas naturale è il combustibile migliore dal punto di vista
economico al momento conosciuto;
� i veicoli a celle combustibili utilizzano l’idrogeno, l’elemento più
abbondante presente in natura ed è stato usato spesso come combustibile
per i viaggi nello spazio; il sostanziale vantaggio di tale tecnologia è la
possibilità di ottenere un’energia pulita eventualmente convertibile in
elettricità;
� i veicoli elettrici a batteria utilizzano celle combustibili per convertire
l’energia chimica in energia elettrica; il principale vantaggio è l’assenza di
emissioni di tali veicoli, i motori elettrici aumentano l’efficienza del 20%
mediante un collegamento diretto alle ruote;
� i veicoli elettrici ibridi rappresentano una soluzione intermedia tra quelli
a combustione interna e i motori elettrici88, in cui è previsto un sistema di
gestione dell’energia al fine di ottimizzare il risparmio di carburante di
entrambi i motori, in quanto i motori elettrici e quelli a combustione
lavorano meglio in situazioni di guida differenti.
5.3.3.1 Mercato europeo delle auto elettriche
Nel corso del 2014,89 in Europa sono state vendute 29.000 auto elettriche più che
88 ORTMEYER H. T., PILLAY P. (2001), “Trends in transportation sector technology energy use and greenhouse gas emissions”, Proceedings of the IEEE-PIEEE, Vol. 89, No. 12.89 COMUNELLO D. (2014), “La classifica europea delle vendite: Italia all’ottavo posto”,
189
negli Stati Uniti, fermi a 25.300. L’aumento rispetto al 2013 è consistente, pari al
77 per cento, ma si concentra soprattutto in Norvegia, paese che ha registrato un
vero e proprio boom grazie agli enormi incentivi: le elettriche, infatti, non pagano
i parcheggi, pedaggi e possono usare le preferenziali. In Norvegia, le
immatricolazioni del primo semestre sono state 9.950, praticamente un terzo del
totale e quattro volte le vendite registrate nel 2013.
Diversa, invece, la situazione nel resto d’Europa con la Francia al secondo posto
avendo registrato 6.405 vendite e un calo del 12 per cento rispetto al 2013.
Numeri ancora più contenuti per la Germania (4.230) e Regno Unito (2.570), dove
tuttavia il mercato elettrico è quasi raddoppiato90. Al quinto posto c’è l’Olanda con
1.149 vendite, poi la Svizzera (867), Austria (709) e infine all’ottavo posto l’Italia
con 648 elettriche vendute.
Per il nostro paese, i numeri sono contenuti, anzi quasi impercettibili se messi a
confronto con il mercato automotive nel suo complesso, ma diventano più
interessanti se si confrontano con i dati di Rse (Ricerca sul sistema energetico) su
gli ultimi anni: in Italia, infatti, sono state vendute 114 elettriche nel 2010, 302 nel
2011, 520 nel 2012 e 870 nel 2013, Con 648 immatricolazioni in sei mesi, è quasi
sicuro che il 2014 farà registrare un sensibile aumento91 (Figura 5.3).
Figura 5.3: Andamento dei dati di vendita delle auto elettriche in Italia
Quattroruote.90 Op. cit, 65.91 Op. cit, 65.
190
Fonte: www.mondoelettrico.blogspot.it
5.3.3.2 Considerazioni sullo sviluppo dell’auto elettrica
Ad oggi, gli operatori del settore ritengono il mercato ancora troppo statico e
sicuramente non in grado di raggiungere gli obbiettivi definiti dall’Unione
Europea (125000 vetture nel 2020 in Italia) a causa di gravi problemi quali:
� il ritiro per manutenzione straordinaria di molti modelli ha scoraggiato
l’acquisto di auto elettriche perché ritenute non sicure;
� il prezzo molto alto delle batterie (circa 400 €/kw) incide per il 60% sul
prezzo totale del prodotto, rendendolo poco appetibile nei confronti di
un’automobile tradizionale;
� ansia da ricarica. Lo sviluppo non ancora massivo e capillare della rete di
ricarica non consente di attenuare la paura dell’utilizzatore di rimanere
senza energia per tornare a casa o alla prima stazione di ricarica;
191
� l’auto elettrica è mal vista poiché l’utilizzatore la confronta erroneamente
con una macchina tradizionale per effettuare tragitti superiori ai 500-600
chilometri. A causa di una incapacità di far cambiare mentalità ai possibili
utilizzatori, i produttori di auto elettriche non riescono a far percepire alle
persone che l’auto elettrica è destinata, ad oggi, al solo utilizzo urbano;
� il sistema incentivante è fatto per sviluppare il mercato dell’auto elettrica
ma viene condiviso con le forme ibride a metano e GPL che, godendo di
mercati ben più solidi e strutturati, esauriscono l’incentivazione in tempi
molto brevi (nel 2013 circa due settimane) compromettendo le vendite del
settore elettrico durante il periodo dell’anno non incentivato;
� non si riesce a far percepire il vantaggio economico che una vettura è in
grado di portare ad un utilizzatore lungo il suo intero ciclo di vita;
� le batterie sono percepite erroneamente poco sicure e con una perdita di
carica troppo repentina. Questi “miti” risultano essere difficilmente
removibili poiché le persone comuni si concentrano sul litio e non sui
numerosi test sostenuti da questa tecnologia prima di essere proposta al
mercato e sulla ignoranza riguardante la vita utile di una batteria e la
componentistica elettronica di bordo delle vetture.
A vantaggio di questo mercato ci sono però i seguenti aspetti:
� l’economicità del veicolo elettrico, in quanto una volta percepita dal
cliente, riesce ad essere un driver di scelta rilevante;
� la percezione della sostenibilità ambientale da parte delle persone è in
continua crescita;
� si stanno stipulando accordi commerciali tra le società automobilistiche e
le aziende presenti sul territorio per elettrificare il proprio parco auto
192
senza pesare direttamente sul lavoratore. Questo potrebbe portare ad una
più rapida crescita della rete infrastrutturale e ad una maggior
sensibilizzazione sulla mobilità elettrica delle persone;
� le case automobilistiche stanno promuovendo forme di noleggio della
batteria per evitare di accrescere eccessivamente il prezzo dell’automobile
rispetto a quello delle vetture termiche. Questo viene fatto anche per
consentire una sostituzione della batteria in caso di malfunzionamento
senza gravare ulteriormente sull’acquirente;
� la diffusione delle vetture elettriche abbatterebbe l’emissione di CO2 nelle
città consentendo di evitare il blocco del traffico che saltuariamente viene
effettuato;
� essendo veicoli privi di rumore, consentono di effettuare spostamenti con
la percezione di una maggiore rilassatezza durante il viaggio;
� l’abbattimento di CO2 porta a sensibili risparmi sulla spesa sanitaria
nazionale e conseguentemente una possibile riduzione della pressione
fiscale.
5.3.4 Car Sharing
Il car sharing (dall’inglese auto condivisa o condivisione dell’automobile) è un
servizio che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola e
riportandola in un parcheggio vicino al proprio domicilio, e pagando in ragione
dell’utilizzo fatto. Questo servizio viene utilizzato all’interno di politiche di
mobilità sostenibile, per favorire il passaggio dal possesso del mezzo all’uso dello
stesso (cioè all’accesso al servizio di mobilità), in modo da consentire di
rinunciare all’automobile privata ma non alla flessibilità delle proprie esigenze di
mobilità. Il car sharing è nato nei Paesi dell’Europa Centrale come bene condiviso
da privati nella forma di cooperativa di consumo, utilizzando veicoli in
193
multiproprietà; il sistema si è poi trasformato in un servizio di trasporto vero e
proprio, curato da una società di gestione e con un proprio mercato di riferimento.
L’auto, in questo modo, passa dall’ambito dei beni di consumo a quello dei
servizi. Tipicamente si tratta di un servizio commerciale erogato da apposite
aziende, spesso con l’appoggio di associazioni ambientaliste ed enti locali e
permette l’uso plurimo di uno stesso veicolo affittato dall’utente per uno specifico
spostamento, tende ad incidere sulla considerazione di vantaggio nell’uso e non
nel possesso dell’autovettura.
Gli attori di questo sistema sono:
� la società di gestione, che appunto gestisce il parco dei veicoli, riceve e
soddisfa le richieste di prenotazione, registra le modalità di utilizzo e ne
fattura il corrispettivo;
� l’associato, che paga una quota per partecipare all’utilizzo del servizio e lo
può utilizzare effettivamente dietro prenotazione, pagandone il
corrispettivo.
Il car sharing, promosso e supportato a livello normativo già dal 2005 va
considerato quale nuova “etica” dello spostamento urbano e polarizza su di se una
nuova attenzione degli amministratori, operatori e studiosi della città anche in
forza dell’adozione di nuove tecnologie adottate nei protocolli d’uso dei veicoli
messi a disposizione degli utenti urbani. Il sistema, introdotto per la prima volta in
Svizzera alla fine degli anni Ottanta, consente di effettuare spostamenti atipici, in
qualsiasi ora e con la massima flessibilità rispetto alle esigenze dell’utente. In
generale l’utente del car sharing paga una quota annua di affiliazione alla società
di gestione ed, in alcuni casi, una caparra rimborsabile come costi fissi relativi al
servizio; per quanto riguarda il costo variabile esso è connesso con l’uso che si fa
del veicolo e prevede una quota relativa al tempo d’uso ed una seconda
riconducibile alla percorrenza in chilometri. Il servizio è on demand per cui
194
l’utente prenota, anche via Internet, l’auto di cui intende servirsi presso il più
vicino parcheggio di auto car sharing. Successivamente, utilizzando la propria
card dotata di chip, si reca al parcheggio ed accede all’auto semplicemente
avvicinando la card al parabrezza. Il computer di bordo riconosce l’utente, sblocca
le portiere ed, attraverso la digitazione del codice personale, attiva tutte le
funzioni per consentire lo spostamento veicolare. In molti casi nell’affiliazione al
servizio si hanno vantaggi e sconti per l’uso dei mezzi pubblici, per
l’autonoleggio esterno in caso di lunghe percorrenze ed, in generale, il parcheggio
all’interno delle strisce blu è gratuito. Dopo l’uso è possibile lasciare il veicolo in
un altro dei parcheggi car sharing distribuiti sul territorio cittadino.
Fra le recenti esperienze internazionali di maggior interesse vanno segnalate le
nuove istituzioni di gruppi non-profit di car sharing che forniscono il servizio in
collaborazione con le amministrazioni locali, le società di trasporto pubblico, le
università, ecc.: tra le più attive negli USA vi sono Austin in Texas e San
Francisco in California ove esistono tre società di car sharing di cui due for-profit
ed una non-profit. In Europa sono numerose le esperienze di successo a partire da
quella svizzera, ove già dal 1948 erano state avviate le attività della cooperativa
Sefage a Zurigo e che oggi con la Mobility CarSharing Switzerland conta più di
1.300 auto disponibili, a quella tedesca di Berlino con la Stadtauto Drive che
vanta circa 9.000 affiliati, a quella relativa al programma Praxitele in Francia che
nel 1997 avviò la sperimentazione con 50 auto Renault elettriche ubicate in 11
aree di parcheggio (Praxiparcs) nelle vicinanze di stazioni o grandi uffici; inoltre
è importante segnalare che interessanti iniziative sono state portate avanti in
questi anni e sono tutt’ora attive anche in tutto il Regno Unito e nei Paesi Bassi
dove esiste da tempo una diffusa cultura dell’autonoleggio. Volendo scendere
ancora in dettaglio, in Italia, ove esiste un programma nazionale: “Iniziativa Car
Sharing”, al quale aderiscono numerose città, fra le esperienze più significative, è
possibile individuare numerose centri urbani in cui è ad oggi attivo un servizio di
questo tipo; nella tabella seguente vengono elencate tali città, con anche le
informazioni relative alla data di attivazione il numero di vetture a disposizione, il
totale degli utenti iscritti e le aree di parcheggio disponibili.
195
Tabella 5.4: Iniziative di car-sharing nei centri urbani italiani
196
Fonte: http://www.icscarsharing.it
Considerando la data di attivazione, le facilities offerte, il numero di auto della
flotta ed il numero di aree parcheggio dislocate sul territorio nazionale, vanno
citate quelle di Milano, Torino e Genova: Milano è stata la prima città italiana ad
implementare il car sharing su scala urbana realizzando una joint venture con
Legambiente. Torino invece ha da tempo sperimentato car sharing anche con le
auto elettriche ed attualmente esiste nella città piemontese la più elevata offerta
nazionale di auto ed aree di parcheggio gestita da una società mista, la Car City
Club, della quale fanno parte per il 51% la ATM (Azienda Torinese di Mobilità),
per il 33% la Savarent (società di Fiat Auto che opera nei settori del noleggio
autoveicoli e della gestione di flotte) e per il 16% la Capi (cooperativa attiva nel
settore della gestione dei servizi di trasporto). In ultima analisi vi è Genova, città
che ha attivato il servizio nel luglio del 2004 e si è subito distinta per la vasta
offerta di aree di parcheggio all’interno della città. Il numero e la distribuzione dei
parcheggi car sharing all’interno del territorio urbano rappresentano fattori
strategici per l’appetibilità e la diffusione del servizio.
Città Data Inizio N. auto N. utenti N. parcheggi
Bologna Agosto 2002 39 1159 28
Firenze Aprile 2005 16 613 16
Brescia Febbraio 2010 6 120 5
Palermo Marzo 2009 46 1104 44
Genova/SavonaLuglio 2004/Giugno 2009 55 2339 45
Milano Settembre 2001 137 6530 75
Modena Aprile 2003 17 223 13
Parma Febbraio 2007 10 372 10
Roma Marzo 2005 115 3313 78
Torino Novembre 2002 121 2420 76
197
Anche le stesse università (Politecnico di Milano, Cattolica) erogano servizi di
questo tipo, facilitando gli spostamenti dei propri studenti avendo un occhio di
riguardo agli aspetti legati alla sostenibilità ambientale, economica e sociale.
Il concetto di car sharing si basa sulla distinzione tra accessibilità automobilistica
e la proprietà, in particolare esso separa la nozione di uso dell’automobile dalla
proprietà, fornendo agli individui la possibilità di aver accesso in modo comodo
ad una flotta comune di veicoli, piuttosto che ad una sola di proprietà privata. In
questo senso, il car sharing è un esempio del crescente numero di alternative alla
proprietà privata in quello che Katzev chiama “l’età di accesso”: egli suggerì che
“ci stiamo muovendo da un mercato basato su un’economia a quello in cui beni
privati non sono più tanto importanti quanto avere accesso ad essi92”; attrezzature
acquistate con metodologia leasing e le cooperative agricole sono esempi di
questa crescente tendenza.
La letteratura si è focalizzata nello studio della tematica con lo scopo ultimo di
definire delle “best practise” che le amministrazioni locali potrebbero considerare
per eventualmente implementare nell’area di loro pertinenza. Huwer avanzò
alcune proposte93 circa azioni che nel breve potrebbero essere implementate,
partendo dalla convinzione che la preoccupazione delle imprese di trasporti
pubblici relativa al fatto che il car sharing possa erodere il loro business sia
completamente infondata:
� integrazione del car sharing con il sistema di trasporto urbano, per esempio
aggiungendo la possibilità di usufruire a prezzi agevolati del servizio di car
sharing a tutti gli utenti detentori di un abbonamento annuale dei mezzi
pubblici; rendendo disponibili le informazioni relative al car sharing nei
centri clienti attualmente a disposizione unicamente del trasporto pubblico;
definendo un numero verde unico;
92 KATZEV R. (2003), “Car Sharing: A New Approach To Urban Transportation Problems”, Analyses of Social Issues and Public Policy, Vol. 3, No. 1, pp. 65-86.93 HUWER U. (2003), “Public transport and car-sharing: benefits and effects of combined services”, Transport Policy, Vol. 11, No. 1, pp. 38-43.
198
� campagne promozionali, anche prevedendo di pubblicizzare la tematica su
giornali locali, newsletter;
� offrire la possibilità ai potenziali utenti di testare in prima persona il
servizio in modalità completamente gratuita.
I riflettori accesi sul car sharing e sull’importanza di pubblicizzarne gli effetti che
il suo sviluppo potrebbe generare in termini di impatti ambientali e sociali in
generale, ma anche a livello individuale i vantaggi ottenibili anche in termini
economici è ormai una questione ampiamente condivisa da molti autori. E’
convinzione di molti che il car sharing, se ampiamente sfruttato, possa
decrementare la problematica della congestione e dei livelli di inquinamento nei
centri urbani, tutti obiettivi raggiungibili in quanto questo è un servizio che
permette la diminuzione del chilometraggio individuale, un notevole risparmio di
carburante, una riduzione del numero di mezzi privati circolanti sulla strada che
avrebbe come impatto la diminuzione dei livelli di emissioni e un decremento
significativo del numero di incidenti.
Il sistema del car sharing è particolarmente vantaggioso per gli automobilisti che
utilizzano occasionalmente l’auto, in quanto si può disporre nei momenti di
necessità, di un mezzo individuale senza dover sostenere gli alti costi fissi di
esercizio legati al possesso dell’auto che alle basse percorrenze hanno
un’incidenza rilevante sul costo complessivo. I vantaggi per gli utenti possono
essere così sintetizzati:
� risparmio di tempo: l’utente usa il mezzo quando ne ha la necessità
eliminando anche la ricerca di un parcheggio dopo l’uso;
� eliminazione dei costi di manutenzione;
� risparmio economico tanto maggiore quanto minori sono i chilometri
annui percorsi. Il valore al di sotto del quale risulta vantaggioso usufruire
di questo servizio è stimato intorno agli 8000-10.000 km/anno;
� scelta della vettura più adatta alle finalità del singolo spostamento.
199
Un altro beneficio molto importante è la riduzione delle emissioni inquinanti,
principalmente per due motivi:
� la flotta del car sharing è composta da mezzi con le più basse emissioni
possibili nelle proprie classi di veicolo. Inoltre spesso le vetture viaggiano
a metano;
� i clienti del car sharing riducono in maniera significativa il numero di
chilometri viaggiati in auto, in quanto compiono scelte di viaggio più
razionali.
A questi vantaggi per il singolo utente sono da aggiungere i benefici legati al
risparmio energetico e al contenimento delle emissioni, nonché alla riduzione
della richiesta di parcheggi per la sosta. Ma è necessario anche analizzare l’altra
faccia della medaglia: è particolarmente conosciuto nel nord Europa e in America
dove l’utilizzo dell’automobile condivisa è già entrata a far parte delle abitudini
comuni. Nel nostro Paese il car sharing si sta progressivamente affermando nelle
grandi città, anche se i numeri sono tuttavia ancora bassi, talvolta i costi troppo
alti e sono ancora pochi i centri car sharing nelle città italiane; inoltre un ulteriore
svantaggio è legato alla burocrazia, in quanto, almeno all’inizio, occorre tempo
per compilare moduli e iscriversi al servizio; inoltre la distanza dei parcheggi
(l’auto condivisa deve essere sempre lasciata presso lo stesso parcheggio del
gestore da cui è stata presa in consegna), l’obbligo di prenotare preventivamente
gli orari di utilizzo, la rigidità significativa in caso si desideri cambiare
programma in corsa e, non da ultimo, la condivisione del mezzo con altri
utilizzatori completano il quadro dei vantaggi e svantaggi legati allo sfruttamento
di un servizio di car sharing.
5.3.4.1 Prospettive di sviluppo del car sharing in Italia
Le prospettive di sviluppo in Italia nei prossimi anni riguardano:
una maggiore copertura geografica delle città in cui il car sharing è già
200
erogato, con l’aumento dei veicoli e delle aree di sosta a loro disposizione;
una maggiore sinergia con le aziende di TPL in modo da concorrere alla
realizzazione di un nuovo modello di mobilità via via meno basato sulla
necessità de auto privata;
l’avvio del servizio in nuove realtà, sia in aree metropolitane limitrofe a
quelle già servite, sia in altre citta da parte di nuovi gestori, che si possano
inserire nel circuito Ics anche collaborando con gestori già operativi;
l’integrazione dei servizi locali meno redditizi all’interno di realtà
imprenditoriali in grado di raggiungere livelli di attività sostenibili;
un aggiornamento del sistema tecnologico impiegato e un ampliamento
delle offerte tariffarie, con particolare riguardo alle aziende e alla mobilità
non costituita da turisti o utenti occasionali che sempre più scelgono il car
sharing nei weekend o durante le vacanze;
l’effettuazione di azioni informative e promozionali più mirate a
determinati target di utenza, attraverso attività di ufficio stampa Ics-
Ministero-Amministrazioni locali finalizzate ad evidenziare i vantaggi
economici e sociali del car sharing e ad aumentare così la diffusione a
livello nazionale e soprattutto locale;
un maggiore coinvolgimento degli Enti Pubblici locali attraverso la
sottoscrizione di contratti per l’utilizzo di flotte di auto car sharing
dedicate, poiché la loro partecipazione è necessaria per aumentare il
bacino di utenza aziendale.
5.3.5 Car pooling e Ride sharing
Il termine inglese “car pooling”, corrispondente in italiano ad auto di gruppo,
indica una modalità di trasporto che consiste nella condivisione di automobili
201
private tra un gruppo di persone, con il fine principale di ridurre i costi del
trasporto e anche questo è un ambito di intervento della mobilità sostenibile. Nello
specifico, uno o più dei soggetti coinvolti mettono a disposizione il proprio
veicolo, eventualmente alternandosi nell’utilizzo, mentre gli altri contribuiscono
con adeguate somme di denaro a coprire una parte delle spese sostenute dagli
autisti: tale modalità di trasporto è diffusa in ambienti lavorativi o universitari,
dove diversi soggetti, che percorrono la medesima tratta nella stessa fascia oraria,
spontaneamente si accordano per viaggiare insieme.
La pratica del condividere l’auto è maggiormente diffusa nei paesi del nord
Europa e negli Stati Uniti d’America dove esistono associazioni specifiche e dove
la pratica è prevista anche nella segnaletica stradale, mentre trova tuttora moderata
applicazione in Italia. Cominciano però a svilupparsi alcune iniziative specifiche
che trovano spazio anche sui quotidiani nazionali: il giornalista Paolo Scandale, il
17 Dicembre 2008 pubblicò su La Repubblica un articolo il cui obiettivo era
quello di diffondere ed elogiare un’iniziativa intrapresa da un’università milanese,
la Cattolica, incentrata sulla realizzazione di un portale (www.unicattit/mobility)
che i dipendenti dell’Ateneo avrebbero potuto utilizzare previa registrazione per
sfruttare il servizio di car pooling. Nel 2009 è stata pianificata anche un’iniziativa
ufficiale da parte di Autostrade per l’Italia per l’incentivazione al car pooling, che
prevedeva sulle autostrade A8 e A9 una riduzioni sull’importo del pedaggio
autostradale. Secondo uno studio pubblicato nel febbraio 2011 da uno dei
principali portali di car pooling in Italia [postinauto.it, 2012], a praticare il car
pooling sarebbero essenzialmente i giovani: il 31% degli utenti sarebbero
compresi nella fascia 18-24, il 29% in quella dai 25 ai 34 anni. Le donne
sarebbero meno propense rispetto agli uomini a condividere l’auto, ma
rappresenterebbero comunque il 38% dei “car pooler”. Secondo lo studio
pubblicato a maggio 2012 da uno dei principali portali di Social Carpooling in
Italia (Bringme Social Carpooling), il pubblico femminile ha ottenuto una crescita
del 48% nei primi cinque mesi del 2012. Il car pooling sembra essere
particolarmente amato dagli studenti, ma anche dai membri dell’esercito e delle
forze dell’ordine. A livello di distribuzione geografica, il car pooling sarebbe
praticato maggiormente nelle aree metropolitane e nel Nord Italia, con Milano,
202
Roma, Torino, Como, Verona, Vicenza e Pistoia in testa, mentre al Sud e
soprattutto in Sardegna stenta ancora a diffondersi; unica realtà del Sud a fornire
tale servizio è il comune di Salerno, dal 25 gennaio 2012.
Questo servizio presenta indiscutibili vantaggi legate al fatto che, per esempio,
essendo le autovetture progettate per un minimo di 4 o 5 occupanti e solitamente
utilizzate dal solo guidatore, la condivisione potenzialmente potrebbe migliorare
la congestione del traffico riducendo il numero di veicoli in circolazione e senza
abbisognare di investimenti in nuove infrastrutture; conseguenza diretta di
quest’ultimo aspetto, proprio perché in circolazione si avrebbe un minor numero
di mezzi, sarebbe la riduzione dei livelli di inquinamento urbani. Una condizione
sicuramente necessaria ma non sufficiente che ha permesso lo sviluppo del car
pooling è da attribuire allo sviluppo parallelamente e diffusione di numerose
piattaforme Web che consentono, a chi cerca un passaggio ed a chi lo offre, di
incontrarsi e definire al meglio i dettagli organizzativi del viaggio, sia di natura
occasionale che continuativa; piattaforme che consentono di superare il principale
ostacolo del car pooling, ossia la comprensibile diffidenza nel condividere un
viaggio in auto con degli sconosciuti. Grazie ad un sistema di commenti presente
sulla maggior parte di queste piattaforme è possibile infatti conoscere in anticipo
il comportamento abituale del proprio eventuale compagno di viaggio, facilitando
il superamento della diffidenza e l’accettazione della condivisione dello
spostamento. L’uso collettivo dell’automobile può essere incentivato specialmente
nelle aziende, tra coloro che lavorano in uno stesso luogo ed abitano in zone
vicine o molto prossime. Il car pooling può infatti essere organizzato attraverso
una centrale operativa dotata di uno specifico software che gestisca la banca dati e
organizzi gli equipaggi anche attraverso bacheche virtuali (i cosiddetti
newsgroup). I vantaggi per un’amministrazione comunale che intenda promuovere
questo tipo di mobilità sostenibile sono:
� riduzione dell’inquinamento atmosferico,
� riduzione della congestione stradale,
203
� riduzione dei tempi di trasporto e
� maggiore efficienza del trasporto pubblico.
Mentre i vantaggi per l’utente sono:
� minori costi di trasporto e diminuzione del rischio di incidenti,
� contribuire alla tutela dell’ambiente e della salute umana e
� socializzazione tra colleghi o nuovi compagni di viaggio.
Il “ride sharing”, invece, è la pratica di condividere con altre persone un viaggio
lungo, ponendo l’enfasi quindi, non sull’auto messa in comune tra un gruppo di
persone che percorrono regolarmente la stessa tratta, ma sull’iniziativa del singolo
automobilista che percorre una tratta in auto e, tramite siti dedicati come
BlaBlaCar, “affitta” i propri posti liberi e riesce così a trovare dei compagni di
viaggio che contribuiscono alle spese. Una sorta di moderno autostop, dove
tuttavia gli utenti sono più o meno monitorati, a seconda della piattaforma, e ci si
accorda sul web prima dell’inizio del viaggio. Sulla problematica legata alla
resistenza degli utenti allo sviluppo del ride sharing, in termini di diffidenza nel
condividere per un intero viaggio l’automobile con estranei, si sono sviluppate
appunto numerose piattaforme che hanno l’obiettivo di raccogliere tutti i
commenti relativi ad esempio al loro grado di soddisfacimento circa un viaggio
con uno specifico guidatore, commento che, essendo spontaneo, avrà lo stesso
peso di una vera e propria raccomandazione. Un esempio è BlaBlaCar, primo
operatore europeo del ride sharing, che si impegna a offrire un servizio il più
sicuro possibile. Esso, è una piattaforma online che mette in contatto automobilisti
con posti liberi a bordo delle proprie auto con persone in cerca di un passaggio
che viaggiano verso la stessa direzione. La piattaforma, verifica l’identità dei suoi
iscritti, ad esempio controllando la veridicità del numero di cellulare, disponendo
anche di un servizio di assistenza dedicato alla community. La fiducia è alla base
204
di tutte le community e BlaBlaCar grazie ai commenti di feedback rilasciati dagli
utenti che hanno condiviso l’auto, costruisce la loro reputazione. In questo modo,
prima di contattare un utente per condividere un viaggio con lui, è possibile
leggere i commenti che lui ha ricevuto da altri utenti, beneficiando così della loro
esperienza.
BlaBlaCar, dunque non è solo un servizio di ride sharing ma anche un fenomeno
mediatico e sociale, virale, che affonda le proprie radici proprio nelle reti di
persone che da anni sono connessi grazie ad Internet. L’interfaccia del sito
permette subito di cercare in pochi secondi un passaggio: basta inserire un punto
di partenza e destinazione per trovarsi davanti ad una folta lista di eventuali
accompagnatori. Successivamente, è anche possibile migliorare i risultati
impostando alcuni criteri, come la data di partenza o il prezzo che si intende
spendere. Ovviamente non è gratuito; chi offre un passaggio è libero di chiedere la
cifra che vuole per coprire le spese di viaggio. La transazione non avviene sul sito
e di conseguenza BlaBlaCar non ci guadagna nulla dalla stessa, anche se in realtà
in altri paesi come la Francia è possibile usufruire del servizio soltanto
anticipando il pagamento con carta di credito ed in un secondo momento
contattare il conducente. In questo modo, il sistema garantisce più tutele per i
conducenti, ma al contempo, oltre alle spese del tragitto, si pagano delle
commissioni alla piattaforma online.
Di BlaBlaCar ne sono presenti anche le versioni mobile, sia sotto forma di app per
iOS e Android, sia come sito ottimizzato per telefoni.
Grazie, così al connubio perfetto di feedback, integrazione Facebook e buona
volontà degli utenti, questo servizio sta crescendo sempre più, offrendo quindi
passaggi in ogni direzione e ad ogni prezzo, fornendo un servizio finale non
indifferente.
5.3.5.1 Uber: un innovativo servizio a metà tra il carpooling e il noleggio auto
Uber è il servizio di autonoleggio con autista low-cost disponibile ora a Milano,
Roma, Torino, Genova ed in centinaia di città nel mondo che fornisce un servizio
di trasporto automobilistico provato attraverso un’app mobile. Ti permette di
205
prenotare in pochi istanti un’auto privata low-cost tramite un’app scaricabile dallo
store del tuo cellulare (Appstore, Playstore o Windows Store).
Utilizzare Uber è davvero molto semplice:
1. bisogna scaricare ed installare l’app “UBER” dallo store del proprio
smartphone;
2. inserire il proprio nome;
3. inserire il luogo di partenza/arrivo per visualizzare in anticipo il
preventivo;
4. se il preventivo aggrada l’utente, quest’ultimo può confermare la sua auto
e visualizzarla sulla mappa del proprio cellulare mentre si avvicina.
Negli ultimi anni Uber, sembra davvero inarrestabile. Nonostante i vari problemi
che il servizio continua ad avere, con lo stato americano del Nevada che ha
bloccato le operazione dell’app di noleggio con conducente, Uber continua a
crescere espandendosi verso nuovi mercati e proponendo sempre nuovi servizi.
Nel novembre del 2014, è emersa, infatti, la notizia dell’alleanza tra Uber e
America Movil, il principale operatore di telefonia del Sud America che vanta
oltre 270 milioni di clienti abbonati e che ha deciso di appoggiare Uber con un
piano di servizi dedicato, portando ad una espansione sudamericana dell’app.
Questo a partire dal Messico dove Uber sarà segnalata come app in evidenza su
tutti gli smartphone di Telcel, l’operatore locale controllato da Amerca Movil, con
tutti gli abbonati che, per essere invitati ad utilizzare i servizi di Uber, riceveranno
un buono di 150 pesos, circa10 dollari, da spendere nella loro prima corsa. I
vantaggi però non si limitano soltanto ai clienti; anche i guidatori di Uber
messicani potranno godere di una paticolare scontistica sui servizi mobile offerti
da Telcei, così da far ampliare nel contempo il giro d’affari sia di Uber, sia di
America Movil. Tutto questo in un periodo in cui Uber è sul tetto del mondo
economico pur non essendo quotata in Borsa. Sembra infatti sempre più vicino
206
l’obiettivo di raggiungere un valore di 41 miliardi di dollari grazie ad una nuova
raccolta di capitali che presto dovrebbe portare nelle casse dell’app oltre 1.294
miliardi per quanto riguarda la rivalutazione ed altri 600 milioni di dollari come
fondi ricevuti da alcuni investitori.
In Italia, invece, sono sorte problematiche con i tassisti che ritenevano, che l’app
violasse i loro diritti, in quanto i driver di Uber non necessitano della licenza per
lavorare. Come spesso accade nel nostro Paese, le leggi e la politica sono apparsi
inadeguati ed incapaci a governare un fenomeno figlio dell’innovazione e del
progresso ed hanno dato vita ad una serie di ordini, divieti e manifestazioni di
piazza dei tassisti. A Torino, ad esempio, la Polizia Municipale ha ritirato le
patenti e sequestrato i mezzi a tre autisti di Uber, iscritti al servizio “Uber Pop”.
Tuttavia qualcosa sta cambiando e negli ultimi mesi del 2014, l’Unione Radiotaxi
d’Italia, a lungo tra i principali oppositori di Uber, ha annunciato il lancio di It
Taxi, un’app che permetterà ai clienti di prenotare un taxi semplicemente
cliccando su una mappa proprio come si fa con le auto di Uber e di pagare persino
via Pay Pal. È questa la miglior risposta possibile a chi, davanti alle innovazioni,
piccole e grandi, rivoluzionarie o meno che siano, preferisce sempre cercare
rifugio in regole e leggi scritte da chi ha vissuto un’epoca lontana anni luce
dall’era digitale e dell’accesso che stiamo oggi vivendo.
5.4 Il rilancio del trasporto pubblico
94 MAGNI M (2014), “A Torino i vigili sequestrano i veicoli di tre autisti Uber”, Autoblog MOTORI.
207
La crescita della mobilità privata nelle aree urbane è avvenuta a scapito delle
modalità alternative, in particolare del trasporto collettivo. Si è registrato il
declino dei chilometri percorsi con gli autobus, solo parzialmente compensati
dall’incremento di quelli percorsi su metropolitana e sui tratti di ferrovia che
operano nelle aree metropolitane. La crisi del trasporto collettivo è aggravata dalla
concomitante riduzione dei rapporti ricavi/costi, riscontrabile nella maggioranza
delle aziende di trasporto pubblico locale, a testimonianza di una generale
incapacità di assicurare tassi d’occupazione elevati ai mezzi in circolazione.
Questo trend negativo è attribuibile alla scarsa capacità dell’offerta di adeguarsi
alle nuove caratteristiche della domanda e di garantire servizi qualitativamente
attraenti. Si pone così l’esigenza che il trasporto pubblico evolva in una direzione
volta a soddisfare non solo le esigenze di spostamento delle persone meno
abbienti o di particolari categorie deboli ma anche a risolvere i problemi più
generali della mobilità e della sostenibilità urbana. L’attrattività dei trasporti
collettivo richiede di realizzare due strategie: la prima è costituita dagli interventi
volti a migliorare la qualità dei servizi esistenti e renderli maggiormente
competitivi, la seconda è costituita dalle iniziative volte al potenziamento
dell’offerta.
Dal punto di vista del rilancio qualitativo, risultano importanti le azioni volte a
ridurre gli elementi di discontinuità caratterizzanti il sistema complessivo dei
trasporti, soprattutto una crescente integrazione fisica e tariffaria tra le diverse
componenti della filiera dell’offerta.
Per quanto riguarda l’integrazione fisica, occorre un migliore coordinamento tra le
diverse forme e tipologie di trasporto pubblico, in modo che il servizio
complessivo offerto sia in grado di soddisfare adeguatamente il bisogno di
mobilità e sappia fornire un’idea di unitarietà organizzativa e funzionale
dell’utenza. L’integrazione fisica può riferirsi al sistema di trasporto pubblico in
sé, ovvero all’integrazione di quest’ultimo con altre forme di trasporto. Ad
esempio l’integrazione della metropolitana con i servizi di autobus, nodi di
interscambio.
L’integrazione tariffaria può essere realizzata mediante l’introduzione di una
travel card che consenta ai possessori di compiere un numero illimitato di
trasferimenti entro una zona definita e in un dato periodo, o l’introduzione di
208
smart cards, già diffuse nel Comune di Torino e utilizzate non solo per il
pagamento del servizio del trasporto ma, ad esempio, anche per altri servizi o per
il pagamento dei parcheggi di interscambio.
Importanti risultano anche l’incremento delle frequenze, della velocità
commerciale e della flessibilità dei servizi, perseguiti attraverso l’introduzione di
modalità e mezzi meno ingombranti e meno legati a itinerari fissi e l’attribuzione
di crescenti forme di prioritarizzazione ai mezzi pubblici. È notevole lo sforzo
attualmente in corso per superare la rigidità tipica dei trasporti pubblici e per
renderli maggiormente adatti a una domanda di mobilità sempre più caratterizzata
da profili spaziali e temporali diversi. Sono in questa direzione partiti i primi
servizi di bus a chiamata e taxi collettivo, che potrebbero divenire uno strumento
essenziale per coprire tutto il territorio senza dover provvedere a linee
eccessivamente costose. Questo tipo di servizio pubblico sono costituiti da alcuni
peculiarità del trasporto privato (flessibilità, confort, puntualità, affidabilità,
capillarità) che si attiva solo su specifica richiesta degli utenti, tramite
prenotazione telefonica preventiva95. Per quanto si tratti di iniziative ancora allo
stato embrionale, i risultati incoraggianti sinora ottenuti, ad esempio il caso di
Parma, aprono la strada a interessanti sviluppi futuri.
Accanto al rilancio qualitativo dei servizi, un ruolo importante può essere
ricoperto dall’incremento della capacità di trasporto. Le potenzialità e gli sviluppi
futuri delle diverse modalità sembrano avere prospettive diverse, con un ruolo
particolare per i modi che operano in sede fissa. Le esigenze di rilancio e di
sviluppo del trasporto pubblico non possono essere perseguite indipendentemente
dalla loro sostenibilità economica. In particolare, occorre cercare di:
migliorare l’efficienza economica dei servizi. Qualsiasi politica di rilancio
e potenziamento dell’offerta deve essere subordinata a una maggiore
sostenibilità economica del servizio, in modo da aumentare i livelli di
copertura dei costi complessivi;
realizzare reti metropolitane in sede propria. La politica tendente a
95 http://www.spaziodelta.com
209
incrementare l’offerta, soprattutto nella versione di metropolitane leggere
di superficie, sembra avere arrestato la diminuzione dei passeggeri
trasportati. A ciò va aggiunto che il rapporto proventi/costi è migliore
rispetto al trasporto su gomma;
potenziare l’offerta ferroviaria nazionale e la rete in concessione e in
gestione governativa. Importante può infatti risultare il ruolo del traffico
ferroviario a livello di trasporto urbano e di trasporto pendolare da e verso
la città.
5.5 Il miglioramento delle infrastrutture
Ulteriori interventi atti a incidere sulla mobilità riguardano il miglioramento delle
infrastrutture. Di solito, queste politiche puntano sostanzialmente in due direzioni:
l’incremento della dotazione infrastrutturale per quanto riguarda viabilità e
parcheggi e gli interventi di fluidificazione della circolazione.
Secondo alcuni, l’aumento delle infrastrutture potrebbe fare incrementare la
domanda di mobilità sottraendola ulteriormente al trasporto pubblico, per contro,
altri ritengono che vi possa essere spazio per migliorare le infrastrutture esistenti,
in modo che il problema della mobilità possa essere risolto intervenendo sia sulla
domanda, cercando di ridurla, sia sull’offerta, migliorandone la qualità o
espandendola. A riguardo tre elementi sembrano meritare attenzione in relazione
all’azione svolta nelle singole aree urbane.
1. La realizzazione di piste ciclabili. La mobilità su bicicletta può costituire,
soprattutto sui tragitti di breve raggio, una valida alternativa al traffico
motorizzato. La realizzazione della mobilità ciclo-pedonale richiede forme
di protezione e di riqualificazione delle sedi stradali. Una politica di
incentivazione dell’uso della bicicletta può consentire di coprire qualche
punto percentuale della domanda di mobilità urbana. Un paese come la
Gran Bretagna, che poi l’Italia parte da valori molto bassi, si è posta
l’obiettivo di triplicare al 2015 la quota di pista di spostamenti in bicicletta
210
e conta di avere una rete di 18.000 km di piste ciclabili entro il 2020.
2. Interventi di traffic calming. Un numero crescente di città ha adottato
misure volte a ridurre la velocità delle automobili e a regolamentarne la
presenza nei centri urbani (traffic calming), cercando di privilegiare forme
alternative di mobilità. Le misure riguardano la realizzazione di passaggi
pedonali rialzati che obbligano le automobili a rallentare, fasce
spartitraffico centrali, slarghi dei marciapiedi, rotatorie con precedenza
all’anello. L’effetto di allungamento dei tempi di percorrenza provocato da
questi provvedimenti può indurre a un certo spostamento della preferenza
degli utenti verso altre modalità.
3. La politica dei parcheggi. Si va facendo strada una concezione delle
politiche di parcheggio più avanzata, non come risposta alla domanda di
sosta, ma come strumento per modificarla. In questa prospettiva essi
possono costituire un elemento essenziale del quadro degli interventi e,
contemporaneamente, un punto d’arrivo dell’insieme delle politiche di
gestione della mobilità. Per evitare che l’offerta dei parcheggi si traduca in
un ulteriore aumento della mobilità è necessario che l’ubicazione dei nuovi
posti auto risulti esterna ai centri urbani e ben coordinata con gli altri
strumenti di gestione del traffico (trasporto pubblico, disincentivi di
prezzo, integrazione tariffaria). La costruzione dei parcheggi deve essere
realizzata in strutture separate dalla sede viabilistica. Questa soluzione
offre notevoli vantaggi in termini di occupazione degli spazi, di
miglioramento dell’accessibilità. Contemporaneamente alla realizzazione
di parcheggi in struttura, occorre ridurre la disponibilità di posti in strada, i
modo che l’incremento netto di offerta sia contenuto e, soprattutto, siano
massimizzati i vantaggi legati alla nuova ubicazione. Tuttavia, gli
interventi sulle infrastrutture, devono essere in grado di salvaguardare la
competitività economica e nel contempo evitare che avvengano a scapito
dell’ambiente.
211
CAPITOLO 6
MOBILITÀ PEDONALE E CICLABILE: IL CASO DELLA NANOO
6.1 Traffico Lento (TL)
Sinteticamente, con il termine traffico lento ci si riferisce all’insieme della
mobilità pedonale e della mobilità ciclabile, in quanto nella letteratura con tale
termine si intende, infatti, la locomozione a piedi, su ruota o rotelle, prodotta dalla
forza muscolare umana; nel mondo del marketing si utilizza, come sinonimo di
traffico lento, la nozione di “human powered mobility”. La mobilità pedonale e
ciclabile rappresentano due livelli base della mobilità sostenibile in quanto sono
un sistema di spostamento naturale, democratico e universale, se si pensi che
l’atto stesso del camminare è la prima modalità di spostamento dell’uomo, in tutte
le età e le categorie sociali; il camminare e l’andare in bicicletta rappresentano una
soluzione ecologica a “zero emissioni” per il trasporto personale e sono
diffusamente individuati come forme di mobilità “dolce”, nota come “soft
mobility”. Il traffico lento, oltre che con piste e percorsi ciclabili, o con percorsi
pedonali, può esprimersi secondo un’altra modalità che è quella della
moderazione del traffico. Questa può essere attuata in diversi modi:
� un primo metodo è attraverso quelle che in Italia vengono definite Isole
Ambientali ed in Europa Zone30. Le isole ambientali sono quelle aree con
ridotti movimenti veicolari, da cui è escluso il traffico di attraversamento e
che sono “finalizzate al recupero della vivibilità degli spazi urbani”. Sono
state istituite nel 1995 dalle Direttive per la redazione dei PUT e nel 1996
è stato introdotto il segnale stradale specifico (zone a limitazione di
velocità);
212
� un secondo modo è costituito dall’introduzione delle zone a traffico
limitato: ZTL. In generale quindi le zone a traffico controllato (ZTL, aree
pedonali, ZTM) corrispondono ad aree urbane contrassegnate da specifici
segnali fisici e normativi di ingresso e di uscita, all’interno delle quali si
persegue l’obiettivo di integrare le diverse componenti del traffico e di
riqualificare le peculiarità funzionali, architettoniche, storiche e culturali
del luogo.
L’impiego di zone per la moderazione e di limitazione del traffico consente di
raggiungere i seguenti obiettivi:
creare zone libere dal traffico (ZTL) o eliminare il traffico di
attraversamento (ZTM);
favorire la condivisione dello spazio stradale tra le diverse utenze della
strada;
utilizzare interventi di limitato impatto economico e visivo;
riorganizzare la classificazione stradale;
regolamentare la sosta;
riqualificare i luoghi liberando aree prima assegnate al traffico di
attraversamento o alla sosta;
garantire una maggiore sicurezza, soprattutto per le utenze deboli.
Attraverso l’introduzione di strumenti atti ad interrompere o deviare il traffico di
attraversamento, si offre la possibilità di un riutilizzo degli spazi stradali di queste
zone, eliminando quella parte di traffico incompatibile con gli obiettivi di
recupero della qualità ambientale e di miglioramento delle condizioni di sicurezza.
Tale spazio potrà essere ridistribuito fra tutte le altre funzioni che si svolgono sulla
strada. Inoltre il traffico lento crea le condizioni affinché sia possibile una reale
condivisione dello spazio stradale, una riqualifica dei luoghi urbani e venga
garantita una maggior sicurezza per tutti gli abitanti del contesto urbano. La
213
necessità di liberare queste zone dal traffico di attraversamento, convogliandolo su
determinate strade esterne ad esse, è il principio fondamentale che conduce alla
riorganizzazione della gerarchia stradale. In particolare l’estensione delle singole
zone deve essere sufficientemente ampia da contenere al suo interno un adeguato
numero di servizi e sufficientemente limitata per rendere possibili la maggior
parte degli spostamenti interni a piedi.
Esistono numerosi esempi di città che hanno implementato politiche di questo
tipo, tra cui Zurigo, Nantes e anche molti centri italiani come Firenze o Siena. In
generale le zone urbane liberate dalle auto sono accessibili tramite un sistema di
mezzi pubblici come il tram (nel caso di Nantes e Friburgo) o da mezzi pubblici
su gomma (come ad esempio la ZTL BUS di Venezia) e da veicoli autorizzati in
alcune ore del giorno (residenti o veicoli commerciali).
Ad esempio a Torino, dalle 7.30 alle 10.30 di tutti i giorni feriali, sono vietate la
circolazione e la sosta all’interno dell’area denominata ZTL Centrale e durante il
divieto possono circolare soltanto i veicoli autorizzati. L’accesso in ZTL è
controllato con telecamere in 35 punti della città; la targa di ogni veicolo che entra
nella Zona a Traffico Limitato è fotografata e confrontata con quelle autorizzate a
circolare in quanto inserite in un’apposita banca dati al momento del rilascio del
permesso96.
L’approccio che è alla base delle strategie messe in atto, considera il camminare e
l’andare in bicicletta come due dei principali modi di trasporto della mobilità
urbana, restituendo al mondo pedonale e ciclabile un ruolo essenziale nel sistema
multimodale di trasporto. In termini operativi questo si traduce nel dare priorità ai
pedoni nella pianificazione urbana e dei trasporti creando una rete pedonale densa
e continua, connessa al sistema di trasporto pubblico.
In Europa, nel corso degli ultimi decenni, lo spostamento pedonale in ambito
urbano è stato progressivamente rivalutato e si è affermata la necessità di dotare le
città di spazi attrezzati, qualificati e sicuri.
A partire dagli anni Settanta la mobilità pedonale e ciclabile sono state rilanciate
96 http://www.comune.torino.it/trasporti/ztl
214
attraverso una pluralità di iniziative che perseguono obiettivi molteplici: dalla
sostenibilità dello sviluppo alla riqualificazione dei tessuti degradati; la riduzione
delle emissioni inquinanti; la sicurezza stradale; la protezione degli utenti più
deboli (anziani, bambini, portatori di handicap) alla promozione di forme di
spostamento più rispettose dell’ambiente. Già alla metà degli anni Novanta, il
Documento sottoscritto dalle città europee per promuovere un modello urbano
sostenibile, la Carta di Aalborg (1994), individuava tra i principi chiave per
riorientare lo sviluppo urbano, quello di favorire forme di mobilità sostenibile,
privilegiando gli spostamenti a piedi, in bicicletta e mediante mezzi pubblici
assegnando priorità a mezzi di trasporto ecologicamente compatibili. Tra la fine
degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, numerose sono state le iniziative
europee volte a contrastare la diffusione delle auto attraverso sistemi coordinati di
azioni volte all’innovazione e al potenziamento del trasporto pubblico, in
particolare su rotaia e, all’incentivazione degli spostamenti a piedi e in bicicletta.
Nel 2007 l’Unione Europea ha ulteriormente intensificato il proprio impegno per
una riduzione dei costi ambientali della mobilità urbana: il Libro Verde sul
Trasporto Urbano, il Patto dei Sindaci mirato a coinvolgere attivamente le città
europee nel percorso verso la sostenibilità energetica ed ambientale ed ancora, il
più recente Libro Bianco sui Trasporti del 2011.
L’insieme dei documenti menzionati evidenzia che, a partire dalla seconda metà
degli anni Novanta, si sia affermata in ambito europeo la necessità di improntare a
criteri di sostenibilità la mobilità urbana, assegnando centralità agli spostamenti
pedonali e ciclabili.
Un esempio virtuoso nel contesto europeo è rappresentato dal Gran Ducato del
Lussemburgo che promuove il traffico lento attraverso un “Plan d’action national
pour la mobilité douce” presentato nel settembre. Tra gli obiettivi del piano è
l’incremento degli spostamenti lenti dal 18% al 25% di quelli totali entro il 2020.
Nei contenuti il piano definisce programma di azioni relativo ai differenti settori
di applicazione del traffico lento (informazione; comunicazione; pianificazione
del territorio; legislazione; infrastrutture di trasporto) e finalizzato a diffondere la
mobilità dolce come stile di vita per il miglioramento delle condizioni di salubrità
215
dell’ambiente naturale ed urbano.
La situazione italiana si distingue invece per il ritardo con il quale risponde alla
diffusa attenzione verso la promozione della mobilità dolce come stile di vita. Nel
report di ricerca sulla “Mobilità sostenibile in Italia: l’indagine sulle 50 principali
città” (2008) elaborato dal Euromobility si mette in evidenza sia la disparità
interna tra le regioni italiane in tema di promozione e sostegno alla mobilità
sostenibile, sia le condizioni di una ancora accentuata dipendenza dall’auto (il
tasso di motorizzazione è tra i più alti di Europa: 62 veicoli ogni 100 abitanti) da
parte degli italiani anche per gli spostamenti brevi e/o legati al tempo libero. Le
iniziative si concentrano essenzialmente sulle misure di limitazione del traffico
veicolare in città e sulla promozione di iniziative di sensibilizzazione attraverso la
promozione delle “Domeniche Ecologiche” o della “Giornata senza auto” durante
le quali è possibile da parte della popolazione di riappropriarsi di spazi della città
momentaneamente liberati dal traffico veicolare.
Tuttavia, nonostante ci siano stati notevoli sforzi volti ad incentivare lo sviluppo a
zero emissioni, sia la mobilità a piedi che in bicicletta sono diminuite
significativamente nel corso degli ultimi 20 anni. Questo declino riflette
fortemente la crescita e la convenienza dell’automobile legata ad una serie di
fattori psicologici e sociologici, che spaziano da un livello generale di scarsa
idoneità fino alla paura della criminalità ed eventuali condizioni meteorologiche
avverse. Sono essenziali programmi di cambiamento comportamentale volti a
ridurre il traffico, non solo per ridurre l’impatto ambientale ma anche per rendere
la società più sana nel suo complesso. Al fine di rendere la mobilità pedonale e il
cycling, alternative per i viaggi locali realizzabili non solo nella teoria, ogni ente
locale, le imprese e la scuola dovrebbero prendere in considerazione misure “soft”
della politica dei trasporti per incoraggiare tali spostamenti.
Anche in questo ambito, si sono sviluppati numerosi studi ed analizzati diversi
contesti al fine di individuare quali potrebbero essere delle “good practises” da
proporre alle Pubbliche Amministrazioni. Alcuni studiosi sono convinti che un
216
mezzo sicuramente efficace per infondere nelle singole persone la volontà di
scegliere, tra le alternative modalità di spostamento il walking o il cycling, siano
le campagne promozionali rivolte a particolari targets di individui. Ulteriori
iniziative e programmi educativi hanno dimostrato attraverso dei sondaggi che,
nei giorni successivi ad un opening day di una campagna volta ad incentivare le
persone nell’uso della bicicletta o delle proprie gambe, sono successivamente
incrementate le percentuali relative. Esistono semplici miglioramenti che possono
essere implementati quali il sempre più popolare “walking buses” in alternativa al
motorizzato e al tradizionale “school run”. Molti autori sostengono che la
strategia di riallocazione dello spazio sia fondamentale per aumentare la sicurezza
dei viaggi a zero emissioni; ciò significherebbe la progettazione di una rete di
piste ciclabili e aree pedonali collegata con incroci stradali e con raccordi sicuri.
Tuttavia, le misure locali costituiscono solo una parte dell’intera soluzione per
rendere davvero implementabile e usufruibile da tutti la modalità pedonale e
ciclabile. Uno dei fattori principali causa di un declino del numero di viaggi “soft”
è da individuarsi nel fatto che sono sempre meno il numero di destinazioni
raggiungibili a piedi o in bicicletta data l’elevata distanza.
Quindi, le carenze nella scelta intermodale sono in realtà parte della sfida che lo
sviluppo sostenibile richiede.
Negli ultimi anni, i problemi crescenti della congestione e di inquinamento da
traffico urbano, hanno riportato l’attenzione sulle modalità di spostamento
ciclabile. Nonostante si faccia maggior ricorso alla bicicletta nei piccoli centri,
questo mezzo sta guadagnando spazio anche nelle città medio-grandi poiché,
specie nei brevi tragitti in ambito urbano, si dimostra più rapido dell’automobile.
(Figura 6.1).
Figura 6.1: Relazione minuti/km percorsi: confronto tra i vari mezzi di trasporto
217
Fonte: BERUCCIO L., PASCALIZI F., CAFARELLI E., MORICCI F., PARMAGNANI F. (2011), “La mobilità in Italia. Rapporto sulle principali 50 città”, Euromobility, p.50.
Focalizzandosi sempre sulla bicicletta, ogni viaggio confrontato rispetto all’auto,
genera risparmi significativi con notevoli vantaggi sia per l’individuo che per la
comunità urbana:
� assenza di impatto sulla qualità della vita urbana - nessun rumore, nessun
inquinamento;
� conservazione dei monumenti e degli spazi verdi;
� meno necessità di territorio, sia per spostarsi che per il parcheggio e di
conseguenza, un incremento della redditività del suolo;
� minore deterioramento della rete stradale e riduzione dei programmi di
nuove infrastrutture;
� il centro urbano diventa più attraente - negozi, cultura, attività ricreative,
vita sociale;
� riduzione della congestione e delle perdite economiche che queste
218
generano;
� miglioramento del flusso di traffico automobilistico;
� trasporto pubblico più conveniente;
� notevole risparmio di tempo per i ciclisti nei percorsi brevi e di media
distanza;
� risparmio di spazio - strada e parcheggio - con riduzione degli investimenti
in vie di circolazione e la possibilità di reinvestire in luoghi pubblici per
aumentare l’attrattività del centro urbano.
In conclusione il traffico lento costituisce un potenziale notevole, attualmente
inutilizzato, per il miglioramento del sistema complessivo del traffico viaggiatori
e contribuisce a preservare l’ambiente (aria, inquinamento fonico, energia) e a
promuovere un modello di vita più sano; inoltre sostiene il turismo dolce e
contribuisce al risparmio nell’ambito della spesa, sia pubblica che privata, per i
trasporti. La mobilità pedonale e ciclabile sono dunque, due realtà sostenibili che
possono davvero dare un’enorme contributo al raggiungimento degli obiettivi per
la realizzazione di un sistema di trasporto sostenibile.
219
6.1.2 I vantaggi dell’andare in bicicletta
L’uso quotidiano della bicicletta come principale mezzo di trasporto sostenibile in
città non è ancora rientrato nelle nostre abitudini, sia per cultura, sia per pigrizia, o
perché l’uso della bici è ostacolato da alcuni pregiudizi. La bicicletta resta in ogni
caso la scelta ecosostenibile per eccellenza che ricoprirà ruoli sempre meno
trascurabili per risolvere i problemi legati alle aree urbane. Senza una rete
razionale di piste ciclo–pedonali, il potenziale utente è meno incentivato
all’acquisto di una bici.
Tuttavia i suoi vantaggi sono evidenti già oggi, e sono tutt’altro che irrilevanti:
� ecologico: abbattimento delle emissioni nocive, con una distinzione tra gli
effetti locali a breve termine e gli effetti planetari a lungo termine;
� economico: diminuzione della cospicua spesa di bilancio delle
famiglie dedicata all’automobile, riduzione delle ore perse negli ingorghi
sprecando tempo e carburante, riduzione dei costi legati alla manutenzione
del manto stradale, riduzione dei costi del sistema sanitario;
� energetico: massima efficienza nel rapporto tra esigenze soddisfatte e
risorse impiegate (spostamenti senza bruciare nemmeno una goccia di
petrolio);
� politico: riduzione della dipendenza energetica, risparmio di risorse non
rinnovabili, e di conseguenza maggiore credibilità internazionale;
� sociale: maggiore benessere grazie ad individui più sani e meno
sovrappeso, democratizzazione della mobilità.
A livello strettamente urbano, i vantaggi della bicicletta per l’individuo e per la
collettività sono:
� riduzione diretta della congestione del traffico riducendo il numero di
automobili in circolazione (scelta della bicicletta come mezzo di trasporto
prevalente);
� riduzione indiretta della congestione del traffico aumentando l’attrattiva
220
dei trasporti pubblici per i pendolari grazie alla combinazione trasporti
pubblici–bicicletta come accade per esempio in Svezia (e dunque una
redditività degli investimenti in trasporti pubblici);
� minore inquinamento e di conseguenza niente più blocchi del traffico o
targhe alterne per sforamento delle emissioni;
� economia di spazio (carreggiate e aree destinate al parcheggio);
� riduzione degli investimenti per le reti stradali con la possibilità di
reinvestire nei luoghi pubblici aumentando l’attrattiva del centro città -
abitazioni, negozi, cultura, sport e tempo libero;
� miglioramento della qualità della vita in città - inquinamento
atmosferico, inquinamento acustico, maggior fruibilità dei luoghi pubblici,
sicurezza dei bambini;
� migliore attrattiva abitativa, in particolare per le abitazioni familiari con
riduzione di strade ipertrafficate, inquinate e rumorose;
� minore deterioramento del patrimonio storico e monumentale e
conseguenti costi di manutenzione ridotti.
6.2 L’integrazione modale tra bicicletta e mezzi pubblici di trasporto
Ogni mezzo di trasporto ha un ambito in cui il suo utilizzo si rivela ottimale.
Soltanto l’automobile pretende di soddisfare da sola ogni esigenza di
spostamento, finendo con l’imporre una “cultura totalizzante” da cui sono
fortemente condizionate le abitudini della maggior parte dei nostri concittadini.
Per opporre una valida alternativa in termini di mobilità sostenibile all’attrazione
fatale esercitata dalle quattro ruote, è necessario che l’uso della bici si integri con
quello dei vettori di trasporto pubblico. Questo vale soprattutto per i mezzi a guida
vincolata: treni, metropolitane, tram moderni, che, potendo contare su una sede
propria indipendente dalla viabilità ordinaria, possono offrire prestazioni migliori
in termini di tempi di percorrenza. Purtroppo, a volte non permettono di coprire
comodamente l’intero tragitto, quando il punto di partenza o la destinazione finale
sono distanziati dalla stazione o dalla fermata. La bici può colmare efficacemente
l’anello mancante nella catena dei trasferimenti, specie per quanto riguarda le
distanze comprese tra i 500 metri ed i 5 chilometri, ambito nel quale costituisce la
221
risorsa migliore in fatto di velocità e facilità di penetrazione. Interessante è la
possibile sinergia con gli autobus, sia per le caratteristiche del veicolo, che si
presta facilmente al trasporto di molte bici - nel caso queste siano pieghevoli - sia
per i trasferimenti a lungo raggio sulle linee inter regionali riservate ai pendolari.
Tradizionalmente si possono individuare tre possibili sinergie: il trasporto della
bici sul treno o metropolitana, il park and ride nelle stazioni o fermate, il noleggio
di bici in punti facilmente accessibili per chi arriva in treno. Riguardo il primo
punto, la situazione presenta luci ed ombre. Infatti, da un lato è cresciuta la
sensibilità nei confronti dell’utenza dei ciclisti da parte delle Ferrovie dello Stato,
in particolar modo della Divisione Trasporto Regionale. Ne sono derivati
provvedimenti importanti, quali l’estensione a tutti i “treni verdi” - quelli
accessibili a prezzo dimezzato per i portatori della “Carta Amicotreno” - della
possibilità di trasportare la bici al seguito del passeggero. Ne consegue una
notevole estensione del servizio, specie nei fine settimana, senza rischi di conflitto
con l’utenza abituale, visto che sono esclusi dal novero dei “treni verdi” quasi tutti
i treni regionali a maggior utilizzo da parte dei pendolari che comporterebbero
difficoltà di accesso per le bici. In alcune città, come a Milano, grazie alla
pressione esercitata da Ciclobby, con il sostegno delle altre associazioni della
mobilità, di consumatori e ambientaliste, l’esperienza è stata estesa ormai da
alcuni anni alle linee della metropolitana e alle tranvie della Brianza, sempre al di
fuori delle ore di maggior frequentazione, ovvero nei fine settimana e alla sera,
senza creare alcun problema agli altri utenti. Tutto ciò ha favorito una certa
diffusione del cicloturismo abbinato all’uso della rotaia, di cui si è fatta interprete
in più occasioni, anche con proposte mirate di itinerari e convenzioni, la rivista
“Amicotreno” della Divisione Regionale FS, nel cui Comitato dei Garanti sono
rappresentate le associazioni della Mobilità Sostenibile - Fiab, Utenti del
Trasporto Pubblico e Camminacittà - che ne firmano anche l’editoriale.
A fronte di queste iniziative incoraggianti bisogna, però, riscontrare le difficoltà
determinate da alcune scelte strategiche operate dalle Ferrovie dello Stato. La
riduzione dei costi di produzione del servizio, quali la disabilitazione di molte
stazioni minori con l’eliminazione dei depositi bagagli, ha reso problematico l’uso
222
della bici, specie per quanto riguarda i collegamenti a lungo percorso.
Inoltre, la diminuzione del personale a presidio delle stazioni aveva comportato
negli anni passati anche l’eliminazione di parecchi parcheggi per biciclette
tradizionalmente posti all’interno delle stazioni. Ultimamente si è diffusa la
consapevolezza che la facilità di collocare la bici presso le stazioni comporti un
maggiore utilizzo del treno da parte dei pendolari. C’è da dire che in molte città
della pianura Padana l’abitudine al park and ride ciclistico è sempre stata diffusa,
basti pensare all’enorme parcheggio di biciclette adiacente alla stazione di
Bologna, Ferrara e Pavia. In questi casi si tratta di sensibilizzare sia i responsabili
FS e le autorità comunali per individuare collocazioni idonee ai parcheggi
destinati alle bici, magari all’interno degli scali merci dismessi, come del resto è
già avvenuto in diverse regioni. Anche in ambito urbano si possono individuare
valide soluzioni di interscambio, specie in prossimità delle stazioni periferiche
della metropolitana. Qualche passo in questa direzione è stato compiuto a Milano
(San Donato, Melchiorre Gioia etc.) ed altri interventi potrebbero derivare dal
futuro ridisegno delle principali fermate della rete di superficie.
C’è infine una terza possibilità di collaborazione tra la rotaia e le due ruote, ancora
poco praticata in Italia che potrebbe conoscere sviluppi interessanti, nel campo del
cicloturismo e non solo. Il grande pubblico non è composto da amatori della bici,
interessati a spostarsi con il proprio mezzo in giro per l’Italia o all’estero, ma
sarebbe forse disponibile a puntare sulle due ruote come mezzo di fruizione
intelligente in una città o in una porzione di territorio rurale. Questa possibilità è
molto apprezzata proprio nei paesi a maggior vocazione ciclistica, dove sono
proposte anche forme di “drop-off”, ovvero il noleggio della bici in una stazione e
la riconsegna in un’altra, evitando così di dover tornare al punto di partenza -
costrizione imposta, invece, a chi si sposta in auto con la bici al seguito. Anche se
per ora è ancora prematuro pensare ad una rete di noleggio così capillare e
sofisticata, tipo quella presente in Svizzera, nondimeno si devono registrare
alcune iniziative interessanti, come quella recentemente proposta a Mantova.
Dunque, per ottenere spostamenti razionali ed efficienti, nelle città e tra centri
urbani, è indispensabile realizzare un elevato tasso di integrazione modale:
223
significa offrire opportunità al cittadino affinché possa utilizzare la bicicletta
(propria o a noleggio) anche su medie e lunghe percorrenze, integrandola
all’utilizzo del trasporto pubblico. Questo sistema integrato permette di
raggiungere pedalando la stazione o la fermata, parcheggiare la bici, proseguire il
viaggio con il mezzo pubblico. Occorre rendere, però agevole la movimentazione
delle bici all’interno delle stazioni (ascensori, canaline lungo le scale), chiedendo
alle Istituzioni o ai gestori del pubblico trasporto di favorire e massimizzare
l’accesso delle biciclette sui treni e sul trasporto pubblico locale, sia mediante
l’individuazione di idonei spazi sulle carrozze e sia mediante agevolazioni
tariffarie. L’intermodalità assume quindi un’importanza rilevante a livello di
servizi pubblici, con la prospettiva di riuscire ad organizzare una rete integrata che
sfrutti appieno le interconnessioni tra le diverse realtà del trasporto collettivo.
Negli spostamenti urbani, in Italia, si registra, infatti da qualche anno una
tendenza alla crescita dei viaggi effettuati utilizzando più di una modalità di
trasporto. La quota di tragitti in cui si combinano diversi vettori è salita nel 2012
al 4,3% contro il 3,7% del 2011 e il 3,2% del 200797. Focalizzando l’attenzione sul
solo segmento delle città con oltre 100mila abitanti (Figura 5.6), la quota
dell’intermodalità raddoppia attestandosi all’8,2% di tutti gli spostamenti, in
decisa crescita rispetto al 2011 (7,1%), al 2007 (6%) e al 2005 (3,6%). I cittadini
quindi sembrano essere più disponibili a sopportare “interruzioni” nel loro
viaggio, se questo aggravio di scomodità è funzionale a risparmiare tempo e
denaro per raggiungere la destinazione finale. Negli spostamenti extraurbani,
queste dinamiche vengono meno per effetto della dispersione territoriale, così che
il potenziale di crescita dell’intermodalità è molto meno scontato. In effetti, nella
mobilità extraurbana non c’è una tendenza chiara alla crescita dell’intermodalità
ed anzi si può dire che almeno nell’ultimo biennio questa potenziale opzione
abbia subito una battuta d’arresto.
97 Isfort, Oservatorio Audimob.
224
Figura 6.2: Quota spostamenti intermodali (sul totale spostamenti motorizzati)
Fonte: Isfort, Osservatorio Audimob sulla mobilità degli italiani, 2013.
6.2.1 Alcune esperienze internazionali
Nei Paesi Bassi, il 23% dei passeggeri di treni delle quattro più grandi città
arrivano alla stazione in bicicletta e ne hanno a disposizione un’altra parcheggiata
in prossimità della loro destinazione.
L’autorità nazionale di treni, possiede quasi 200.000 parcheggi, mentre gli
operatori privati ne hanno migliaia in più. Inoltre, per i prossimi sette anni, il
Ministero dei Trasporti olandese ha stanziato circa 200 milioni di euro per
225
migliorare ed espandere le strutture per i parcheggi delle biciclette dentro e nei
pressi delle stazioni ferroviarie.
In Giappone, circa tre milioni di biciclette sono parcheggiate presso le stazioni
ferroviarie, il cui servizio è privato o pubblicamente gestito.
Nella provincia di Voralberg, Austria, quindici comuni, dove abitano circa
200.000 persone, hanno messo in atto una campagna di sovvenzione per
l’acquisto di carrelli fissati alla parte posteriore della bicicletta, per il trasporto di
bambini.
A Trondheim, Norvegia, è stato installato un ascensore per biciclette nel centro
città, in modo da facilitare l’accesso alla collina Brubakken, a 150 metri di
dislivello. Se l’esperienza viene valutata come un successo, probabilmente il
comune imporrà una tassa per il suo utilizzo.
Amsterdam è conosciuta come la città ciclistica per eccellenza, ma questo non
significa che non sia necessario concepire alternative per migliorare le loro
prestazioni. Il sistema di trasporto pubblico è ancora insufficiente in alcune zone,
persone provenienti dalle periferie fino ad ora non sempre raggiungono facilmente
il centro della città in bicicletta, perché è troppo lontano o complicato entrare in
città con la bici. Il sistema DEPO è stato definito come un mezzo di trasporto
pubblico individuale, basato sul principio di depositi, DEPO è una rete di dispense
di “biciclette bianche”. Chiunque può affittare una bicicletta da uno dei depositi.
Per liberare questa, viene utilizzata una moneta, che è rimborsata al momento del
deposito della bicicletta in un altro deposito. La “bicicletta bianca” è stata
progettata appositamente per i viaggi brevi, ha pneumatici di grandi dimensioni
che non vengono perforati, un telaio standard e borse laterali accessibili a tutti gli
utenti, luce a batteria e modo di identificazione. I depositi stessi sono parcheggi di
biciclette appositamente progettati, che non richiedono personale qualificato.
Copenhagen, ha una lunga storia quanto a città delle biciclette e queste negli ’50
hanno dominato l’immagine rappresentativa della città. L’utilizzo della bicicletta
come mezzo di trasporto oggi è molto frequente; il 30% della popolazione ne fa
226
uso come mezzo di trasporto per recarsi al lavoro indipendentemente dalle
condizioni atmosferiche. Le strade più importanti sono dotate di piste e strisce blu
per i ciclisti utilizzate in molte intersezioni.
Altro punto cruciale è l’integrazione della bici con l’autobus, che è stata al centro
di un piano della società dei trasporti pubblici di Copenhagen denominata “Ht”,
secondo la quale, l’unione fra il treno, l’autobus e la bicicletta può dar vita ad
un’alleanza strategica per il trasporto sostenibile. Nel complesso, secondo quanto
emerge dal progetto, l’alleanza virtuosa treno-autobus-bici, comprensiva di
infrastrutture adeguate, rafforza il sistema di trasporto collettivo perché accresce
notevolmente la sua forza attrattiva nei riguardi degli automobilisti. La bici può
avere un ruolo centrale nella riduzione dei tempi complessivi di percorrenza dei
mezzi pubblici e dunque rafforzare questi ultimi al confronto con l’automobile.
Secondo le indagini svolte in Danimarca, gli utenti valutano più in termini di
tempo che di distanza fisica la collocazione delle fermate. Per questo la Ht ha
deciso di favorire l’alleanza con la bicicletta, favorendo un contesto nel quale si è
abbandonata la visione dei soggetti nel traffico come entità separate, ciclisti,
automobilisti, utenti dei mezzi pubblici sostituendola con una figura di
viaggiatore integrato che meglio rispecchia la realtà e le potenzialità di
miglioramento della mobilità collettiva.
Infine, sia in Canada che negli Stati Uniti, hanno introdotto l’uso di portabiciclette
montate sulla parte anteriore degli autobus; un servizio considerato un importante
complemento.
6.3 La bicicletta ibrida
Oggigiorno si sente parlare molto spesso di auto ibride, ovvero di tecnologie che
permettono il recupero e l’ottimizzazione delle forze cinetiche in gioco. Si tratta di
una forma di tecnologia intelligente, in quanto effettivamente non fa altro che
ridurre gli sprechi di energia dovuti alle frenate (KERS), riconvertendo
quest’ultima potenziale per essere utilizzata. Ora sembra che questa soluzione
227
possa essere adottata anche da un veicolo che già di per sé è estremamente
efficiente quale la bicicletta.
Nel 2010, a Copenhagen è stata presentata la “Copenhagen Wheel”, un
concentrato di tecnologia in grado di trasformare qualsiasi bicicletta in un’elettrica
a pedalata assistita, senza alcuna predisposizione necessaria per quanto riguarda la
bici in questione, ma solamente attraverso il montaggio di una particolare ruota
posteriore98. La ruota (Figura 5.7) messa a punto dal MIT (Massachussets Institute
of Technology) di Boston in collaborazione con Ducati Energia e con il supporto
del Ministero dell’Ambiente italiano, può essere considerata davvero il primo
esempio di bicicletta ibrida.
Figura 6.3: La Copenhagen Wheel
98 https://www.superpedestrian.com
228
Fonte: https://www.superpedestrian.com
Apparentemente il disco rosso all’interno non ha niente di particolare rispetto alle
normali ruote. Ma è in quell’unico mozzo color rubino che è contenuta tutta la sua
innovazione: dalla batteria elettrica in grado di accumulare l’energia passiva
prodotta dalla pedalata per poi rilasciarla quando necessario, come ad esempio in
salita, al chip bluetooth per lo scambio delle comunicazioni; ai sensori ambientali
che interagiscono con lo smartphone, all’elettronica di controllo.
Grazie alla Copenhagen Wheel ed attraverso gli speciali sensori collegati via
bluetooth allo smartphone collocato sul manubrio, il ciclista riceve informazioni
dalla strumentazione on board, dal web, sulla velocità, sulla distanza percorsa,
sullo stato del traffico e sui percorsi da preferire (sfruttando il GPS dello
smartphone). Può informarsi addirittura sulla prossimità di amici in zona o sul
livello di inquinamento urbano in quel preciso punto. Tutti dati che il ciclista può
decidere di trasmettere esso stesso al web server del Comune per aggiornamenti in
tempo reale. L’iterazione tra la ruota posteriore e lo smartphone è costante e oltre
229
all’elaborazione delle varie informazioni, il sistema funge da ausilio al ciclista
permettendogli di scegliere tra una serie di comandi e sette differenti modalità di
pedalata.
Dunque, è un ritorno alla bici, ma in modalità 2.0 con la tecnologia che facilita e
assiste la guida e consente nuove esperienze d’uso. La missione contenuta nel
progetto “Copenhagen Wheel”, infatti, è quella di estendere l’uso della bici anche
a quel target di utenti che oggi esclude a priori il concetto di andare al lavoro
pedalando.
6.4 Le folding bike
Le folding bike, ovvero le biciclette pieghevoli, sono diventate un mezzo ideale
per il trasporto di varie tipologie di persone.
In primo luogo è un perfetto esempio di mezzo intermodale, potendo trasportarla
su un qualsiasi mezzo pubblico con grande facilità e senza comportare l’aggiunta
di costi aggiuntivi.
Diventa anche una soluzione perfetta per i pendolari che ogni giorno arrivano
nella città in cui lavorano in treno e dovrebbero prendere altri mezzi pubblici per
arrivare in ufficio. Nel loro caso, la bici pieghevole può essere comodamente
posizionata sotto o tra i sedili del vagone durante il viaggio e trasportata e fatta
scorrere come un trolley - visto il particolare sistema di chiusura di particolari
modelli presenti sul mercato - all’uscita della stazione.
Anche coloro che si spostano volentieri in città sulla bicicletta per lavoro o per
svago ma non hanno a disposizione un box sotto casa oppure temono i furti, l’idea
di ripiegare la bicicletta e portarla a casa è semplicemente geniale. Per non parlare
delle gite fuori porta o delle vacanze estive quando una o più biciclette possono
comodamente essere stivate nel bagagliaio.
Si tratta, infatti di bici studiate tenendo bene in conto alcuni criteri, quali
la leggerezza e la compattezza. Spesso e volentieri infatti si resta al di sotto dei
230
10-12 kg e questi mezzi, una volta piegati, sono sufficientemente compatti da
entrare tranquillamente tra i sedili di un treno o nel bagagliaio di una piccola
utilitaria.
Figura 6.4: Biciclette pieghevoli
Fonte: www.greenme.it
Oltre che essere ovviamente un mezzo di trasporto “green” e dalla spesa
velocemente ammortizzabile, la folding bike è un modo di spostarsi estremamente
comodo, che fa risparmiare tempo prezioso e lascia totale libertà di movimento;
inoltre permette di fare regolarmente un po’ di attività fisica a costo zero.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le biciclette pieghevoli delle
migliori marche sono molto robuste e resistenti, nonostante la loro esile struttura.
Il pericolo per il ciclista non deriva tanto dal mezzo a pedali su cui si sposta ma
dai ben noti problemi per i ciclisti in città: l’indisciplina degli automobilisti che
lasciano le macchine parcheggiate in doppia fila, la mancanza di piste ciclabili e
l’inquinamento da polveri sottili contro cui è essenziale indossare una mascherina
protettiva di ultima generazione.
Il sistema di chiusura di una folding bike è fondamentale perché trasforma un
semplice mezzo di trasporto in un sofisticato accessorio compatto e trasportabile,
quindi con un valore aggiunto molto più alto. Trattandosi di un mezzo suddiviso
in diverse parti collegate tra di esse con cerniere, i materiali devono essere
231
particolarmente robusti e affidabili. Si parla dunque, solo di materiali nobili quali
l’acciaio e l’alluminio.
6.4.1 Lo sviluppo di una folding bike innovativa: la Nanoo
Nel 2010, con l’idea di utilizzare la bicicletta pieghevole per l’intermodalità e
quindi permettere a chiunque viaggiasse con i mezzi pubblici di trasportare in
modo semplice la propria bicicletta e raggiungere il proprio posto di lavoro dalla
stazione all’ufficio, nasce la folding bike Nanoo. La Nanoo, si sviluppa in seguito
alla collaborazione stilistica e progettuale tra Advanced Mobility S.r.l, un’azienda
torinese e JAB, costruttore taiwanese specializzato da 30 anni nella realizzazione
di telai unici per le loro soluzioni tecniche d’avanguardia, unitamente al design e
cura nei dettagli su prodotti destinati prevalentemente al mercato giapponese.
Il titolare di Advanced Mobility S.r.l., il Dott.re Maurizio Tomalino e il Direttore
commerciale, il Dott.re Pier Giorgio de Leone, sostengono che gli spostamenti
siano fondamentali nel nostro vivere quotidiano e il miglioramento delle modalità
di trasferimento in città con mezzi meno impattanti dal punto di vista ambientale
costituisca l’obiettivo principale di Advanced Mobility. La continua ricerca di
soluzioni innovative e compatibili ad un’ottimizzazione dello stile di vita hanno
determinato così una gamma di prodotti nuovi e gradevoli sia nell’apparenza che
nel loro utilizzo.
Advanced Mobility, oltre a porre la massima attenzione all’innovazione,
232
all’affidabilità e alla funzionalità dei propri prodotti, considera fattore altamente
importante il gradimento estetico attraverso design all’avanguardia e in sintonia
con le tendenze in atto.
La bicicletta pieghevole è un prodotto che racchiude in sé un concetto di mobilità
sostenibile e funzionale per un vivere quotidiano semplificato. Advanced
Mobility, ha così progettato modelli che ottimizzassero questi concetti e che
esprimessero un forte gradimento per la loro apparenza.
Figura 6.5: La Nanoo versione 12
233
Fonte: www.nanoo.biz.it
Con il progetto Nanoo, è stata rivoluzionata la concezione di chiusura classica del
telaio definendo nuovi standard per la mobilità e praticità di utilizzo in città. La
Nanoo è interamente in alluminio, richiudibile in 10 secondi e trasportabile sulle
proprie ruote, caratteristica che la rende unica nella categoria in modalità richiusa.
Grazie all’architettura del telaio, il trasporto della bici in modalità ripiegata
avviene senza fatica, sostituendo al tipico sollevamento degli altri modelli della
categoria il facile scorrimento sulle proprie ruote con il semplice appoggio di una
mano sul manubrio. Ne deriva così la possibilità di portarla con sé ovunque:
appartamento, ufficio, negozio, mercato, ristorante, etc, senza rischiarne il furto.
Lo slogan della bici, infatti, presto diventa il seguente: “Nanoo è sempre con te!”.
È da sottolineare il limite strutturale dei telai delle bici pieghevoli presenti sul
mercato che creano non poche difficoltà in termini di volumi occupati quando
sono in modalità di chiusura perché diventano ingombranti e non è semplice
trasportarle. Il modello Graziella disegnato nel 1964 da Renato Donzelli, è il
capostipite dal quale hanno tratto ispirazione tutti gli attuali costruttori di
biciclette pieghevoli con la classica chiusura “a libro”. Questo tipo di chiusura
comporta obbligatoriamente il sollevamento della bici in quanto le ruote si
trovano affiancate in maniera disallineata non permettendone il comodo
234
scorrimento.
Alcune di esse, per sopperire a questo inconveniente, propongono soluzioni di
trascinamento su piccole ruote di plastica montate su portapacchi agganciati al
telaio rendendole a tutti gli effetti trolley instabili che provocano intralcio in caso
di trascinamento in aree affollate. Il trascinamento su terreni accidentati è
pressoché impossibile.
La Nanoo, invece, grazie a questa nuova concezione di chiusura che ne permette il
perfetto scorrimento, ha la particolarità di poter restare in piedi sul proprio
cavalletto sia quando è in posizione aperta che in posizione chiusa a differenza
della totalità delle concorrenti che non permettono tale opportunità, obbligando
l’utente ad appoggiare la bici ripiegata a terra oppure ad un appoggio fortuito. Il
cavalletto ha anche la funzione con la sua particolare forma di fungere da blocco
della bici appoggiandoci un piede sopra, utilissimo soprattutto quando si viaggia
su mezzi di trasporto quali bus, metro, treno.
235
Figura 6.6: Nanoo pensata per l’intermodalità
236
Fonte: www.nanoo.biz.it
La regolazione del manubrio e della sella anatomica in gel fanno sì che la Nanoo
sia una bicicletta adattabile per le diverse stature, da 140 cm a 205 cm e fino a 110
Kg di portata. Grazie alle sue ridotte dimensioni e al peso contenuto – 12 Kg per
la versione meccanica e 16 Kg per la versione elettrica - Nanoo è infatti comoda
da trasportare sia su mezzi pubblici quali treno, metropolitana e bus, sia su
autovetture, camper e barche. I cerchioni in alluminio da 12” con copertoni a
sezione larga la rendono sicura su qualunque terreno e confortevole nella guida
come una comoda city bike.
237
La Nanoo, dunque, si differenzia dai competitors per diversi aspetti:
1. l’utilità: determinata dal fatto che la bici una volta chiusa, può essere
trasportata istintivamente sulle proprie ruote come un trolley senza uno
sforzo fisico;
2. la praticità: la facilità di apertura e chiusura della Nanoo;
3. la comodità: la possibilità di portarla sempre con sé in qualunque luogo;
4. la guidabilità: l’utente quando prova la bicicletta ha una sensazione di
leggerezza e di fluidità del prodotto. La diffidenza inziale per la presenza
delle ruote piccole viene vinta proprio nel momento in cui si testa il
prodotto;
5. il design: la Nanoo riesce a catturare l’attenzione del pubblico per il suo
design innovativo e accattivante. È un oggetto che risalta agli occhi e nella
sua forma esprime una certa essenzialità tecnologica e compattezza con
grandi possibilità di affidabilità e di utilizzo. Questo aspetto della
bicicletta, che indubbiamente costituisce un altro fattore di successo, ha
fatto sì che la Nanoo potesse essere utilizzata anche come un oggetto
trasversale di moda in molte vetrine di negozi di abbigliamento e di
arredamento, concept store (Fig. 6.7), nelle principali città italiane ed
europee, per attirare l’attenzione.
238
Figura 6.7: La Nanoo all’interno del punto vendita Emporio Armani, Milano.
Fonte: www.nanoo.biz.it
Relativamente al mercato, prima del lancio del prodotto, è stata fatta un’analisi dei
239
principali competitor e quindi anche un “benchmarking” non tanto sotto il profilo
tecnologico ma riguardo al posizionamento della Nanoo sul mercato.
I principali player di cui la Nanoo deve tener conto sono:
a) Brompton: leader inglese nel settore da 27 anni con un modello di
bicicletta concepita come un prodotto che aumenta l’indipendenza e la
libertà delle persone. La Brompton, rispetto alla Nanoo ha un’estetica più
retrò e tradizionale con un’ottima affidabilità e compattezza ma ha il
problema della trasportabilità come già accennato, dovendo caricarla e
trasportarla di peso;
b) Strida: le biciclette di questo brand inglese, hanno un design tecnico a
forma triangolare in cui la sella scorre sull’ipotenusa di questo triangolo. È
una bici molto accattivante dal punto di vista del design e meno efficiente
dal punto di vista della guidabilità a causa della sella che scorrendo
sull’ipotenusa, crea problemi per le persone alte. La bicicletta quando
viene ripiegata, si presenta come un lungo bastone con le ruote affiancate
comportando una trasportabilità che affatica il polso di chi la utilizza;
c) Dahon: brand americano presente sul mercato da oltre quarant’anni, che ha
creato un modello di biciclette pieghevoli con un sistema di piegatura
tradizionale “a libro”, come la Graziella, presenta un’ottima affidabilità ma
meno efficiente da un punto di vista di trasporto passivo intermodale a
causa del suo sistema di chiusura;
d) Tern: brand taiwanese, creata dal figlio del proprietario della Dahon,
sviluppando una bicicletta simile a quest’ultima rendendola più
accattivante da un punto di vista del design. È una bicicletta bella
esteticamente, affidabile ma sconta le stesse problematiche in termini di
trasportabilità passiva e di ingombro della Dahon;
e) Mobiky: brand francese che ha caratteristiche similari alla Nanoo per il
sistema di piegatura “ad ombrello”, con scorrimento sulle proprie ruote
quando è chiusa anche se è più ingombrante. La Mobiky, inoltre ha una
240
maneggevolezza inferiore rispetto alla Nanoo poiché il telaio non è così
rigido a smorzare le oscillazioni lungo l’asse e la sensazione provandola è
quella di avere un serpentone che si muove e oscilla sotto la sella
soprattutto affrontando le curve;
f) Pacific: azienda taiwanese che ha realizzato un paio di modelli di bici
pieghevoli la più conosciuta è il modello “Carry Me”, una bicicletta con le
ruote molto piccole da 8”, stabile adatta per le brevi distanze;
g) Di Biasi: brand italiano, costruttore siciliano che ha creato un modello di
bici caratterizzato da un interessante sistema di piegatura ma in termini di
trasportabilità sconta gli stessi problemi della Brompton.
Dunque, la Nanoo è un prodotto con caratteristiche specifiche, posizionato su un
mercato di nicchia, che sconta il problema di far capire al pubblico l’essenza
stessa della bicicletta pieghevole e di spiegare in ogni piccolo particolare l’utilità
di un prodotto del genere. Spesso, succede che l’utente, non sia informato e non
conosca esattamente il significato di biciclette pieghevoli; non abbia ben chiaro
l’idea sull’utilizzo di una folding bike ma, soprattutto dimostra la necessità di
vincere quella diffidenza inziale che può sorgere vedendo un mezzo con le ruote
piccole.
Inoltre, da un’attenta analisi del target da parte dell’azienda, sono venuti fuori due
comportamenti tipici dei consumatori in questo settore:
1) un comportamento compulsivo, cioè una reazione di immediatezza che il
potenziale acquirente ha nei confronti del prodotto appena lo vede e se ne
innamora; 2) un comportamento ragionato dettato da chi vuole scientificamente
essere certo che quello è il prodotto che fa per lui e quindi si è informato,
raccogliendo tutte le possibili nozioni oltre che aver voluto provare e testare la
bicicletta. La crisi economica, ovviamente, ha frenato il primo gruppo di possibili
acquirenti con una percentuale del 25% contro il 75% della seconda tipologia, in
quanto la Nanoo, trattandosi di un prodotto di fascia medio-alta ha dei prezzi che
241
non sono alla portata di tutti e quindi non possono permettersela pur essendone
attratti.
Tutto ciò, ha spinto i due titolari di Advanced Mobility S.r.l., a realizzare
un’analisi dei canali commerciali del settore delle bici pieghevoli pur sapendo di
essere in un contesto molto particolare. Infatti, dopo circa un anno di analisi dei
vari canali, focalizzandosi soprattutto sui rivenditori ufficiali delle biciclette, è
emerso che tutti questi operatori non fossero preparati e capaci di rispondere
all’esigenza di saper proporre un tale modello di bicicletta.
Da questa problematica, è stato necessario selezionare chi fosse in grado di
proporre la Nanoo, di farla provare, di spiegare in tutte le sue caratteristiche il
prodotto e di avere uno stile di vita decisamente interessante, appagante e sano
proprio perché la Nanoo offriva delle possibilità che una bicicletta normale non
aveva. L’obiettivo quindi, di Advanced Mobility, è stato quello di presentare e
sviluppare la Nanoo come un prodotto innovativo ed originale e allo stesso tempo
spiegare e far conoscere le componenti innovative del prodotto sfruttando anche la
Rete e quindi Internet. Difatti, oggigiorno, la comunità di persone che ha un
approccio verso l’intermodalità e verso uno stile di vita volto ad utilizzare anche
la bicicletta pieghevole quotidianamente, è un pubblico che sente il bisogno di
utilizzare Internet per acquisire le informazioni. Per la Nanoo, è stato importante
avere delle buone recensioni e riscontri positivi sulla Rete per far sì che i
potenziali clienti della seconda tipologia - quelli con un comportamento ragionato
- trovassero tali informazioni positive su Internet.
Ad oggi, quindi, le strategie di marketing e di comunicazione dell’azienda si
concentrano su questa strategia, soprattutto sui Social network, che sono una parte
importante e fondamentale per diffondere ancor di più la presenza sul Web e in
più su alcuni eventi di interesse per far toccare con mano il prodotto.
Figura 6.8: Esempi di campagne marketing della Nanoo sui social network
242
Fonte: www.nanoo.biz.it
Si è pensato anche ad eventi non attinenti il mondo delle bici ma a situazioni in
altri ambiti come la recente esposizione delle Nanoo al Salone del Gusto lo scorso
ottobre, l’esposizione all’ultima edizione della Biennale di Venezia-Architettura
2014, catturando l’attenzione dei visitatori proprio per l’originalità del design in
un contesto del tutto differente da quello delle biciclette.
In conclusione, la Nanoo, si presenta come un prodotto davvero innovativo, utile e
versatile, capace di migliorare la vita delle persone ribaltando positivamente a
proprio favore le inefficienze e i problemi della viabilità in ambito urbano come
opportunità e stimolo per sviluppare un buon marchio aziendale, non solo a livello
nazionale ma anche oltre i confini del nostro Paese.
243
CAPITOLO 7
L’ESPERIENZA DEL BIKE SHARING
7.1 Le origini del Bike Sharing: tre generazioni a confronto
Il “bike sharing” (traducibile come "condivisione della bicicletta", talvolta
indicato come servizio di biciclette pubbliche) è uno degli strumenti di mobilità
sostenibile a disposizione delle amministrazioni pubbliche che intendono
aumentare l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici (autobus, tram e
metropolitane), integrandoli tra loro (trasporto intermodale) e integrandoli
dall’utilizzo delle biciclette condivise per i viaggi di prossimità dove il mezzo
pubblico non arriva o non può arrivare: è quindi una possibile soluzione al
problema noto con il nome di “ultimo chilometro”, cioè quel tratto di percorso che
separa la fermata del mezzo pubblico alla destinazione finale dell’utente.
È necessario tuttavia fare attenzione alla distinzione che intercorre tra i sistemi di
bike sharing e quelli di noleggio biciclette. Contrariamente a quanto si pensa
comunemente, la differenza non sta nella gestione: privata nel noleggio biciclette
e pubblica nel bike sharing. Ci sono non pochi casi in cui il bike sharing viene
gestito da privati. Il vero tratto caratteristico dei sistemi di bike sharing va
ricercato nel fatto che questi sono dei servizi che non prevedono la stipula di un
contratto per ogni volta che è usata la bicicletta. Noleggiando la bicicletta, invece,
si deve passare, ogni volta per un front-office, rendendo la procedura più
macchinosa. A ciò va aggiunto il discorso legato all’uso condiviso, che viene ben
riassunto con il termine inglese “sharing”. Si deve all’americano Paul DeMaio,
fondatore della società di consulenza per il bike sharing “MetroBike LLC”, il
primo tentativo di sistematizzare l’argomento. DeMaio distingue tre generazioni
di sistemi di bike sharing, caratterizzate dalla tecnica e dalla tecnologia di
condivisione. In ciascuna di queste tre generazioni, i servizi di bike sharing si
sono poi potuti differenziare, in particolare per le soluzioni adottate nella fornitura
244
del servizio.
Prima generazione: Amsterdam. Nel 1967, ad Amsterdam, Luud
Schimmelpennink, un ingegnere industriale e membro attivo dei Provos, fu uno
dei primi fautori dell’idea della bici come strumento per il trasporto sostenibile.
Fu sua l’idea di dipingere le biciclette di bianco e di offrirle alla comunità per una
maggiore diffusione delle bici stesse, sostenendo di fatto l’idea di una nuova
mobilità, non inquinante, sicura e rispettosa del contesto in cui si sviluppa.
L’iniziativa ebbe subito un discreto successo, tanto che, oltre alle biciclette che
erano recuperate dai Provos tra quelle gettate via, ce ne furono altre regalate da
cittadini desiderosi di contribuire all’iniziativa. Si
arrivò ad avere, in città, qualche centinaio di
biciclette bianche, che potevano venire usate da
chiunque e poi rilasciate sulla strada .
Il bianco simboleggiava il colore della purezza contro lo sporco della società
moderna che avanzava.
Seconda generazione: i sistemi meccanici danesi. Nonostante l’entusiasmo dei
promotori delle “biciclette bianche” e nonostante il senso civico degli olandesi, i
comportamenti antisociali ebbero il sopravvento. Si comprese allora che era
necessario fornire almeno un incentivo per la restituzione del mezzo fornito in
uso. Su questa intuizione sono nati i sistemi di seconda generazione.
Nel 1974, nella città francese di La Rochelle, fu lanciato per la prima volta dopo il
periodo dei Provos in Olanda, un programma regolamentato, dove delle bici gialle
potevano essere utilizzate dalla comunità in maniera libera e gratuita. Questo
avvenimento è oggi considerato tra i primi successi di una forma di bike sharing.
Nulla di significativo successe fino al 1993,quando in Danimarca, nella città di
Nakskov nacque un programma che, seppur di piccola portata, dimostrò al mondo
intero che il bike sharing poteva essere una realtà funzionante e di sicuro beneficio
per la città. Naturalmente si trattò di iniziative di proporzioni modeste, ma
indubbiamente donarono una certa popolarità al servizio, che si trasformò in
qualcosa di più concreto ed utile alla comunità. Questo sistema ebbe un buon
245
successo, al punto che fu decisa una sperimentazione nella capitale Copenhagen.
Nacque così, nel 1995 il sistema “City Bikes Bycyklen”, con circa 1000 biciclette
in 120 stazioni nel centro di Copenhagen. Le biciclette di Copenaghen furono per
la prima volta appositamente progettate per l’intenso uso utilitario: montavano
pneumatici in gomma piena e parti che presentavano targhe pubblicitarie.
Potevano essere recuperate e riconsegnate in luoghi specifici racchiusi all’interno
del centro della città, attraverso un semplice deposito su cauzione in denaro
contante.
Le City Bikes sono delle biciclette studiate per l’uso urbano, con telai
riconoscibili non solo per i colori ma anche per la loro forma: questo dovrebbe
scoraggiare eventuali malintenzionati dal rivenderle o dall’usarle in modo privato.
Esse hanno inoltre gomme piene per minimizzare le forature. La manutenzione
delle “Bycyklen” è affidata a degli ex-carcerati che facendo pratica sulle City
Bikes possono avere la possibilità di un reinserimento nel mondo del lavoro.
Il successo di Copenhagen è stato esportato in altre realtà: se la sperimentazione
ad Helsinki e ad Århus ha dato risultati comparabili a quelli di Copenhagen, non
si può dire la stessa cosa per Vienna, dove il sistema di bike sharing di seconda
generazione simile a quello danese è stato sospeso, a causa del numero di
biciclette rubate e danneggiate nettamente superiore a quanto preventivato99,
appena pochi mesi dopo essere stato lanciato, nel 2002.
I sistemi attuali: la terza generazione. Il primo esempio di programma di terza
generazione si sperimentò nel 1996 nell’ateneo dell’Università di Portsmouth, in
Inghilterra, dove gli studenti poterono per la prima volta utilizzare una carta a
banda magnetica per prelevare una bicicletta. Potrebbe apparire un’innovazione di
piccola portata ma in realtà, proprio grazie alla possibilità di identificazione
dell’utente si potè abbattere il tasso di furti che descriveva la precedente
generazione di bike sharing. Questa e le manifestazioni successive del servizio
furono sviluppate e potenziate grazie all’introduzione di nuove tecnologie che
permisero un miglioramento globale del servizio esistente ed introducendone altri
inediti. Basti pensare al bloccaggio elettronico delle sedi delle biciclette, i sistemi 99 http:/ow.ly/UqEu
246
di telecomunicazione, le smartcard, l’accesso a sistemi che funzionano attraverso
la telefonia mobile e on-board attraverso il computer.
Il servizio di bike sharing maturò costantemente negli anni successivi, con uno o
due programmi lanciati con cadenza annuale; si pensi al primo servizio francese, a
Rennes, il “Vèlo à la Carte”, inaugurato nel 1998 o a Monaco e al suo “Call a
Bike” del 2000. Call a Bike è un servizio fornito dalle ferrovie
tedesche Deutsche Bahn AG, che permette, agli utenti registrati, di liberare una
bicicletta attraverso un codice a quattro cifre che è fornito, via SMS, sul cellulare
dell’utilizzatore.
Ogni bicicletta è identificata attraverso un numero ed ha un lucchetto che può
essere sbloccato telefonando a questo numero ed inserendo, in un microcontroller
LCD, il codice ricevuto via SMS. Ma fu il 2004 l’anno della definitiva
consacrazione del bike sharing, attraverso l’avviamento del programma “Velo’v”,
a Lione, con 1.500 biciclette fornite dalla società JCDecaux. Si trattava del
servizio più imponente che si fosse mai visto ed ancora oggi il suo impatto è
notevole. Il sistema lionese fu il primo ad essere concesso “in fornitura” e a non
essere pagato direttamente: l’accordo con JCDecaux, infatti, ha stabilito la
cessione di spazi pubblicitari tra le mura cittadine in cambio della fornitura e
gestione completa del servizio da parte di Ciclocity, la società figlia di JCDecaux
che si occupa del bike sharing. Due anni dopo, Parigi avviò il proprio servizio di
bike sharing, il Vélib’ con un massiccio utilizzo di risorse: ben 7.000 biciclette,
che furono quasi immediatamente portate a 23.600 unità tra città e sobborghi.
Questo massiccio impegno e l’ancor migliore risposta da parte del pubblico, che
ne decretò un successo quasi insperato, cambiò il corso della storia del bike
sharing e generò un enorme interesse per questa modalità di transito in tutto il
mondo.
Al di fuori dell’Europa, il bike sharing ha cominciato a prendere piede solamente
nel 2008, con nuovi programmi in Brasile, Cile, Cina, Nuova Zelanda, Corea del
Sud, Taiwan e negli Stati Uniti, dove per ogni singolo stato il servizio partiva
247
direttamente dai presupposti del bike sharing di terza generazione. Verso la fine
del 2007 vi erano 60 programmi di bike sharing a livello mondiale. Entro la fine
del 2008, ce n’erano circa 92. Attualmente, esistono circa 120 programmi, come
mostrato nella mappa (figura 6.1) di Google Maps a cura di Paul DeMaio, con
programmi di terza generazione indicati con l’icona di un ciclista e programmi
previsti a breve rappresentati con un’icona con il punto interrogativo.
Figura 7.1: Mappa di bike sharing nel mondo
Fonte: GOOGLE MAPS, DEMAIO P. (2009), (a cura di), “Bike-sharing: Its History, Models of Provision and Future”, Velo-city Conference, Washington, pp. 1-12.
248
7.2 Il bike sharing in Italia
Negli ultimi anni il servizio di condivisione delle biciclette ha contagiato i comuni
d’Italia desiderosi di garantire un sistema di mobilità alternativo ed utile ai
cittadini, ma nonostante il grande successo, sono molti i problemi legati alla
ricerca di una soluzione che, se trovata, spingerebbe ancora più su l’uso della
bicicletta per brevi distanze.
Negli ultimi anni le città italiane, hanno investito denaro ed energie in metodi
alternativi alla mobilità privata, nella speranza di liberare i centri urbani
dall’assedio delle autovetture incentivando i cittadini a muoversi con mezzi
ecologici o usando i servizi pubblici. Ed uno degli strumenti sicuramente più
interessanti è il bike sharing, visto come un metodo ecologico ed economico per
migliorare la mobilità privata. La mobilità su bicicletta sembra abbia avuto un
incredibile incremento negli ultimi anni anche se il servizio, sembra non
raggiungere gli standard europei. Ad oggi, in Italia il bike sharing è presente in
188 città, con una prevalenza al nord e al centro rispetto al sud. Le tipologie di
servizio sono due, a chiave ed a scheda magnetica. Nel primo caso la bicicletta
viene liberata da una chiave che la identifica e può essere presa o restituita a
qualsiasi orario, a patto di ritirarla e consegnarla nell’apposito alloggiamento.
La chiave può essere usata in città diverse ed in questo modo si garantisce un
utilizzo più capillare. Il sistema a scheda magnetica, invece, appare utile nel caso
di un utilizzo a breve periodo a causa della regolazione tariffaria a tempo. A
differenza del servizio a chiave, in questo caso il mezzo può essere restituito
ovunque, con il pagamento che viene effettuato con carta di credito o messaggio
telefonico. L’utilizzo dell’una o dell’altra tipologia di bike sharing in Italia
dipende dalla divisione del mercato tra due sole aziende fornitrici:
� C’entro in bici per il sistema a chiave;
� Bicincittà per il sistema a scheda.
Su circa 188 sistemi attivi ad oggi, 2/3 sono a chiave e 1/3 a scheda, con una
distribuzione territoriale molto legata alla localizzazione d’origine e alla
249
conseguente penetrazione commerciale delle due aziende fornitrici.
“C’entro in bici”, che ha sede a Ravenna, è prevalente nelle zone dell'Emilia e del
Veneto, mentre "Bicincittà" è di Torino e ha la prevalenza nel Nord Ovest;
Bicincittà è inoltre presente anche sul mercato internazionale con i sistemi di
Pamplona e Losanna. Questa forma di duopolio legato a una partizione territoriale
tra sistemi tecnicamente diversi è sintomo di come il bike sharing in Italia sia
ancora giovane e debba ancora evolvere verso una molteplicità di offerta
caratteristica di un mercato più maturo.
Unica eccezione a questa partizione rigida del mercato fra due aziende, ciascuna
con la propria differente tecnologia, è rappresentata dal Comune di Milano, che
utilizza il sistema sviluppato dalla società americana Clear Channel. Milano è
attualmente il sistema italiano di maggiori dimensioni: denominato BikeMi, è
stato inaugurato nel Novembre 2008, prevede 3.010 biciclette distribuite lungo
tutta la città e le stazioni attive nella cerchia urbana hanno raggiunto quota 173,
con un’aggiunta di 53 stazioni grazie ad un investimento di tre milioni di euro
proveniente da Area C, con l’obiettivo di arrivare a 200 stazioni nei prossimi
mesi100. BikeMi è l’esempio lampante del progetto di condivisione di biciclette a
breve periodo, visto che com’è specificato sul sito, il tempo massimo d’uso è di
due ore ed è conveniente se usato in correlazione con la rete dei mezzi pubblici
Atm.
Una nota particolare meritano i sistemi di Genova e Siracusa in quanto
rappresentano in assoluto le prime esperienze di utilizzo di biciclette a pedalata
assistita su veri e propri sistemi di bike sharing, mentre già se ne potevano trovare
su tradizionali ciclonoleggi.
Il sistema di Genova, inaugurato nell'Aprile 2009, è denominato MOBIKE,
dispone di 55 bici distribuite su 6 stazioni ed è stato realizzato grazie a un
contributo del Ministero per l'Ambiente a favore della mobilità elettrica. E'
realizzato e gestito direttamente da Bicincittà. L'utilizzo delle biciclette assistite
può essere indicato in una città come Genova che presenta molte parti collinari,
100 https://www.bikemi.com
250
anche se le postazioni realizzate ad oggi, collocate lungo l'arco del vecchio porto e
nelle zone centrali, presentano un dislivello fra loro inferiore a 50 metri,
decisamente accettabile anche per una bici tradizionale. L'utilizzo del bike sharing
genovese risulta comunque fortemente penalizzato dalla quasi totale mancanza di
percorsi protetti per le bici. Analogamente il sistema di Siracusa, aperto poco
dopo Genova, si basa sulla tecnologia di Bicincittà e utilizza un finanziamento
dato dal Ministero per l'Ambiente in occasione del G8. Il sistema è in questo caso
di tipo misto con la previsione a regime di 200 bici tradizionali e 50 assistite,
distribuite su 15 stazioni.
In particolare, con riferimento al numero di biciclette previste, i sistemi in Italia
numericamente più consistenti101 dopo Torino e Milano sono:
� Brescia (200)
� Ravenna (140)
� La Spezia (135)
� Bergamo (120)
� Trento (88)
Rapportando il numero di bici al numero di abitanti102, tra i migliori rapporti
risultano:
� Modena (1/900)
� Milano (1/1000)
� Cuneo (1/1100)
Siamo dunque ben lontani da valori tali da rappresentare un significativo
contributo alla mobilità urbana, come quelli che troviamo ad esempio in grandi
città francesi quali Parigi (1/100) o Lione (1/160). In generale quindi l'Italia si
101 www.bicincitta.com102 Op. cit, 79.
251
caratterizza per un elevato numero di sistemi prevalentemente di piccolissima
dimensione. Si può inoltre ragionevolmente supporre che questa tendenza
aumenterà nei prossimi anni con il prevedibile estendersi dell'interesse per il bike
sharing nelle città del Centro e del Sud. La diffusione di sistemi di piccolissima
dimensione è una tipicità italiana che può dipendere dalla conformazione del
nostro territorio, caratterizzato da un'urbanizzazione diffusa, con molte città medie
o piccole. Le dimensioni limitate delle città probabilmente non consentono di
innescare livelli di redditività tali da consentire la realizzazione da parte di privati
di sistemi di bike sharing in cambio della concessione di spazi pubblicitari, come
invece avviene altrove. Ne deriva quindi la necessità, da parte delle
Amministrazioni locali, di rivolgersi quasi esclusivamente a fondi pubblici, con la
conseguenza di avere finanziamenti limitati, tempi incerti e prospettive non sicure
circa il mantenimento del servizio. Non è da sottovalutare inoltre l'ostacolo alla
creazione di sistemi numericamente importanti rappresentato dalla arretratezza
italiana nella realizzazione di infrastrutture ciclabili.
Lo sviluppo del bike sharing può avvenire se coordinato con altre azioni aventi
come obbiettivo la ciclabilità, così come accade se le Amministrazioni si dotano
di un apposito Biciplan che, oltre al bike sharing, preveda percorsi, facilitazioni
per chi va in bici quali rastrelliere o scivoli, promozione e informazione,
manutenzione dell'esistente. Ad oggi in Italia sono pochi gli studi o le ricerche sul
fenomeno del bike sharing e non esiste una approfondita analisi di carattere
generale su di esso.
252
7.2.1 Il caso della città di Torino: il [TO]Bike
Il servizio di bike sharing nel capoluogo piemontese, è stato lanciato il 6 Giugno
2010 e rappresenta il primo servizio metropolitano di condivisione di biciclette in
Italia103. Il caso della città di Torino, inoltre, è interessante poiché qui si è
verificato un fenomeno opposto a quello verificatosi nelle grandi città europee
dotate di un sistema di bike sharing: se a Parigi e Lione il servizio che è nato
all’interno della città si è ampliato oltre i confini amministrativi fino ad interessare
anche i territori immediatamente prossimi, a Torino il bike sharing è nato prima in
alcuni comuni della prima e della seconda cintura (Patto Zona Ovest, Nichelino,
Settimo Torinese).
Il servizio, nonostante le prime diffidenze degli utenti torinesi, ha conquistato un
ruolo importante all’interno della mobilità di Torino. Partito tra mille scetticismi,
il servizio di bike sharing TOBike (Fig. 7.2), ha superato le più rosee previsioni;
in poco meno di un anno e mezzo i velocipedi gialli con le strisce blu, sono ormai
entrati nel panorama delle strade cittadine, soprattutto all’interno del centro
storico, zona a traffico limitato. Le stazioni del bike sharing più gettonate sono
quelle delle stazioni ferroviarie di Porta Nuova e Porta Susa e quella di Cernaia.
L’orario preferito è dalle 8 alle 9 e dalle 18 alle 19, in corrispondenza con
l’ingresso e l’uscita dall’ufficio; segno che il bike sharing sta diventando un
mezzo alternativo per i pendolari che arrivano in treno e in metrò e invece di salire
sul tram prendono una delle tante biciclette condivise e pedalano fino al posto di
lavoro. Si tratta di un mezzo molto amato dai torinesi, che ne hanno di fatto
decretato il successo permettendone il continuo miglioramento della qualità del
servizio.
103 www.tobike.it
253
Figura 7.2: [TO]Bike. Il sistema di bike sharing nella città di Torino
Fonte: www.tobike.it
Ad oggi il, il servizio conta 105 postazioni attive in città cui si aggiungono le 30
stazioni distribuite sui comuni dell’area metropolitana104 (Alpignano, Collegno,
Druento, Grugliasco e Venaria Reale). Oltre 22.000 abbonamenti annuali attivi
utilizzano con grande costanza il servizio che si attesta sui 7.000 prelievi medi
giornalieri, registrando nelle giornate di maggior utilizzo oltre i 10.000 prelievi.
Tuttavia, se da una parte crescono gli abbonati al TOBike, dall’altra crescono
anche le lamentele di chi lo utilizza. Spesso, infatti, il vero problema è quello di
prelevare e consegnare il mezzo, soprattutto nelle ore di punta e questo, per un
sistema che fa dell’agilità di spostamento la sua mission, rischia di essere un guaio
grosso. Gli utenti lamentano che al mattino, quando migliaia di pendolari danno
l’assalto alle rastrelliere periferiche, in particolare a quelle collocate nei pressi
delle stazioni ferroviarie, spesso accade di trovarle sguarnite. Alla sera, invece,
quando si torna in bici alle rastrelliere si trovano tutti i posto occupati e per
104 Op. cit, 81.
254
riuscire a riconsegnare il mezzo per evitare di incorrere nelle sanzioni bisogna
peregrinare da una stazione all’altra. Cosa è accaduto?
Semplicemente, all’innalzamento della domanda non ha fatto in tempo a
corrispondere un innalzamento dell’offerta. Il problema non è aumentare il
numero delle biciclette disponibili quanto i posti sulle rastrelliere. Una rastrelliera
è un oggetto tecnologico piuttosto avanzato, che deve essere collegato agli
impianti sotterranei e tramite loro ai cervelloni informatici che monitorano il
traffico delle bici gialle.
La manutenzione delle biciclette sta affrontando in questo periodo il principale
problema lamentato dagli utenti: quello dell’altezza dei sellini, che spesso è
difficile da regolare perché i meccanismi di fermo non funzionano bene. TOBike
sta provvedendo a sostituire le leve di blocco con un nuovo modello più lungo che
dovrebbe rendere più facile bloccare il sellino all’altezza prescelta.
Tutti gli utenti, per usufruire del servizio, devono essere dotati di una
tessera RFID ricaricabile, che, in base all'abbonamento scelto, varia di prezzo.
Sono disponibili formule giornaliere, settimanali e annuali; qualunque sia la
soluzione scelta la tessera è rilasciata presso l'ufficio di Torino, oppure spedita
dopo la sottoscrizione e il pagamento su internet. L'abbonamento può essere
caricato anche sul BIP, la tessera unica dei trasporti della Regione Piemonte.
Il 30 Maggio 2014, è stata lanciata anche la prima app per smartphone del
servizio, che calcola il percorso più veloce e conveniente in bicicletta, con
l’obiettivo di andare incontro alle esigenze dei cittadini, sempre più propensi a
spostarsi sulle due ruote. L’applicazione che fa parte del progetto di “Torino Smart
City”, è stata finanziata dalla divisione Ambiente del Comune di Torino ed è attiva
in tutta l’area metropolitana. Chi si muove grazie a TOBike può sempre sapere in
ogni momento dove sono le varie stazioni e quante biciclette sono disponibili; un
aiuto, dunque, a tutte quelle persone intenzionate a sfruttare il servizio, ma che
hanno dovuto desistere perché il servizio non offre la garanzia totale di trovare il
mezzo sempre disponibile.
255
Inoltre, grazie ad un’alleanza “ecologica” che vede in campo Italo, il treno ad alta
velocità e a basso consumo energetico di Ntv e il TOBike, la città piemontese
lancia la mobilità “verde”, diventando la capitale del trasporto integrato di
persone. Nel dettaglio, gli iscritti al programma fedeltà ItaloPiù possono accedere
alle bici del TOBike, con una riduzione di 5 euro per chi sottoscrive un
abbonamento annuale, comprensivo di prima ricarica e assicurazione RCT. Allo
stesso modo, gli abbonati del TOBike che viaggiano con Italo possono fruire di un
voucher di 10 euro utilizzabile con le offerte Base ed Economy per i viaggi Ntv
con origine o destinazione Torino105.
Una particolarità del bike sharing torinese rispetto al panorama regionale è
proprio la concessione di spazio pubblicitario in cambio della fornitura del
servizio: un modello già presente in Europa (Rennes, Lione e Parigi) ed in Italia
(Milano). Il bike sharing torinese fornisce anche alcuni servizi complementari:
� un servizio di movimentazione delle biciclette, effettuato tramite veicoli
ecologici (elettrici, ibridi oppure funzionanti a metano o gpl);
� un servizio di assistenza alla clientela con un Numero Verde dedicato, per
la raccolta di segnalazioni e richieste da parte degli utenti;
� un servizio di riparazione delle biciclette, installato nel territorio
comunale.
Complessivamente, i velocipedi scelti per l’esperimento di TOBike hanno dato
buona prova di sé: sono indubbiamente pesanti ma compensano questo difetto con
una robustezza che, per mezzi destinati ad essere un po’ maltrattati dagli utenti, è
un requisito fondamentale.
7.3 L’impatto del bike sharing
105 http://www.ntvspa.it
256
Il bike sharing ha avuto un apporto fondamentale alla creazione di una enorme
comunità di ciclisti, incrementando ed incentivando l’uso della bicicletta e, di
conseguenza, concorrendo ad una riduzione dei gas a effetto serra ed un globale
miglioramento dell’ambiente urbano in termini di sanità pubblica e non solo.
Non è facile, comunque, misurare il successo di un progetto di bike sharing, in
quanto esso dipende molto dal punto di vista dei differenti stakeholders. In termini
di livello di utilizzo per bicicletta, Dublino è probabilmente la regina con tredici
prelievi giornalieri a bicicletta. Per qualità del servizio, Vélo’v a Lione è stato
recentemente riconosciuto come il migliore tra quaranta sistemi europei di bike
sharing in diciotto Paesi europei.
L’incremento del transito delle bici nelle città attraverso il bike sharing e ai nuovi
percorsi disegnati dall’utilizzo delle bici stesse ha migliorato la connettività di
altre modalità di transito: grazie alla disposizione delle stazioni di bike sharing
viene migliorato anche il problema dell’interconnettività tra i diversi mezzi di
trasporto, riducendo al minimo gli spostamenti effettuati con veicoli privati. Con
l’utilizzo intensivo del bike sharing si concretizza un altro fenomeno interessante:
il numero di spostamenti effettuati in bicicletta va a sostituire e ridimensionare il
numero di spostamenti che in precedenza venivano effettuati attraverso mezzi
motorizzati quali automobili e motociclette. Allo stesso tempo però, il servizio di
trasporto pubblico non soffre in nessun modo dello stesso calo d’utenza, in quanto
molti utenti rimangono titolari di una tessera di trasporto pubblico. Parigi, ad
esempio, ha segnalato che sono stati effettuati ben 50 milioni di viaggio con il suo
Velib’ solamente nei primi due anni di servizio.
Inoltre, gli organizzatori e pianificatori di molti programmi di bike sharing si
dichiarano fieri del proprio contributo alla causa ambientale e della
riqualificazione del territorio. Il servizio Bixi di Montreal afferma con orgoglio
che il proprio programma ha permesso di evitare l’emissione di più di un milione
e mezzo di kg di gas ad effetto serra dall’avvio del programma, nel maggio del
2009. Ad ogni modo, i benefici derivanti dall’utilizzo del bike sharing devono
essere ancora analizzati e quantificati approfonditamente ma d’altro canto l’utilità
ed i vantaggi dell’utilizzo della bicicletta sono noti da sempre, sia a livello
257
individuale, sia a livello globale.
7.4 I modelli di funzionamento
Il sistema a chiave meccanica prevede l’utilizzo di una chiave, data all’atto
dell’abbonamento al servizio all’utilizzatore, per prelevare e riconsegnare le
biciclette presso le stazioni. La chiave, generalmente consegnata presso gli uffici
comunali competenti, è dotata di codice univoco di identificazione e consente il
rilascio di una qualsiasi bicicletta del servizio. Al momento dello sgancio del
mezzo, la chiave rimane inserita nell’alloggiamento; l’estrazione della chiave è
consentita solo rialloggiando la bicicletta presso il medesimo posteggio da cui è
stata estratta. Questo impedisce automaticamente la riconsegna presso una
stazione diversa da quella di prelievo; il codice identificativo, dal punto di vista
del gestore, consente di risalire all’utente che per ultimo ha fatto uso della
bicicletta, in caso di mancata riconsegna. Il servizio è usufruibile a seguito di
un’iscrizione, in alcuni casi sottoscrivendo un abbonamento a pagamento, in
genere di durata annuale, in altri casi solo versando una cauzione. Il regolamento
d’uso specifica però gli orari di funzionamento del servizio: generalmente la
restituzione della bicicletta al di fuori degli orari prestabiliti esclude l’utente dal
servizio per un certo periodo di tempo. I sistemi a chiave meccanica, per quanto
detto finora, agevolano e consentono gli spostamenti pianificati: qualsiasi sia il
percorso, l’utente deve necessariamente considerare a priori la riconsegna della
bici presso la medesima stazione di prelievo. Tra gli spostamenti di questo tipo
possono annoverarsi, ad esempio, i percorsi dei pendolari con scambio
intermodale treno-bici presso la stazione ferroviaria piuttosto che i percorsi di
carattere turistico – ricreativo ad anello: ad esempio, parcheggio presso il parco,
ingresso a piedi, giro in bicicletta nel parco, restituzione della bicicletta e ritorno.
Un altro punto di forza dei sistemi a chiave meccanica è la semplicità del sistema
di gestione: non sono necessari né controlli sulla posizione delle biciclette né
riallocazione. L’obbligo di restituzione presso la stazione di prelievo comporta
chiaramente alcune limitazioni in termini di flessibilità nelle origini e nelle
destinazioni dei percorsi e non incentiva il ricambio tra gli utenti (l’utente tende a
258
trattenere la bicicletta per tutta la durata consentita); inoltre il sistema non può
prevedere meccanismi di miglioramento della localizzazione delle stazioni
presenti sul territorio in quanto non raccoglie informazioni sulle soste degli utenti.
La novità introdotta dai sistemi a carta è la tipologia di chiave per il prelievo, che
da meccanica diviene elettronica e non deve più rimanere alloggiata nelle strutture
di deposito delle biciclette in sosta, garantendo una maggiore flessibilità all’utente
nei suoi spostamenti. Il sistema offre la possibilità di prelevare la bicicletta in una
qualsiasi rastrelliera e di depositarla ovunque si trovi un alloggio libero, senza
“tenerla impegnata” nelle soste di lunga durata (per esempio in orario di lavoro o
durante le lezioni in università). Per prelevare la bicicletta occorre accostare al
dispositivo di lettura ottica la tessera elettronica, che permette l’apertura
dell’elettroserratura registrando i dati dell’utente; analogamente una volta
raggiunta la destinazione è necessario accostare la tessera al lettore per
riagganciare la bicicletta. Ogni azione viene immediatamente trasmessa, via radio,
ad una centrale operativa. In ogni momento, quindi, il sistema fornisce la
disponibilità effettiva di biciclette per ogni stazione; gli utenti possono verificare
la disponibilità di bicicletta accedendo ad un portale web dedicato. Laddove
un’unità risulti in avaria, un sistema di sblocco da remoto consente di riportare in
piena efficienza l’intera stazione di distribuzione. Il sistema, inoltre, registrando
punto di partenza, di arrivo, tempo di utilizzo, permette di elaborare un dettagliato
quadro statistico delle abitudini di spostamento degli utenti e di ottenere le
informazioni necessarie per ottimizzare il sistema. Il principale punto di forza di
questa modalità di gestione del servizio di bike sharing è la flessibilità che
consente ad un mezzo di essere utilizzato da più persone nell’arco della giornata e
non richiede di tornare al termine dell’utilizzo al punto di prelievo da cui si è
partiti. La flessibilità rappresenta anche il principale punto di debolezza: se
l’utente intende utilizzare la bicicletta per ritornare al punto di partenza non ha la
certezza di trovarne una ad una stazione a distanza utile per minimizzare il suo
tempo di percorrenza (quella che aveva utilizzato per il primo spostamento
potrebbe nel frattempo essere stata prelevata da un altro soggetto), oppure
potrebbe non trovare una colonnina libera in corrispondenza del punto di arrivo.
Inoltre dal punto di vista del gestore vi è lo svantaggio di dover gestire la
259
riallocazione delle biciclette. La possibilità di poter mappare in tempo reale
l’utilizzo di ogni bicicletta consente anche l’introduzione di tariffe a tempo per
l’utilizzo.
7.5 Fattori critici di successo
Il successo di un bike sharing dipende dagli stakeholders coinvolti e la continuità
nel tempo, la sopravvivenza, è l’obiettivo generale a cui deve mirare un
programma di bike sharing. Più gli indicatori di successo si evolvono in una
direzione positiva e più gli stakeholders sono soddisfatti, più lunga sarà la vita del
sistema. Dal punto di vista della continuità nel tempo dei bike sharing, gli aspetti
più importanti di cui tener conto possono essere riassunti in alcune categorie:
1. Infrastrutture per la mobilità ciclistica in città: all’interno di questa
categoria, può assumere un’importanza rilevante l’approvazione di un Bici
Masterplan, che disciplini la realizzazione e la manutenzione di piste o
corsie ciclabili, la segnalazione per i percorsi ciclabili più lunghi,
particolari misure di sicurezza da adottare nei punti d’interazione con il
traffico veicolare e con i pedoni.
2. Accessibilità al servizio da parte degli utenti: adottare alcune misure per
rendere il sistema facilmente accessibile, sia in termini spaziali che
temporali. Tra queste possono essere considerate: la fluidità del processo
d’iscrizione, in modo che sia semplice interfacciarsi la prima volta; la
densità delle stazioni o, in caso di sistemi senza stazioni, la densità di
biciclette nei luoghi in cui ci sia più domanda; le modalità di prelievo delle
biciclette nelle stazioni e di riconsegna nei luoghi di destinazione; la
velocità di riparazione di guasti alle stazioni e delle biciclette; gli orari di
apertura durante il giorno e i periodi in cui è in funzione il sistema durante
l’anno. Su questi aspetti è possibile adottare numerosi indicatori:
260
� sistemi con stazioni/senza stazioni,
� densità delle stazioni nell’area effettivamente coperta dal sistema,
� media del numero di posteggi per singola stazione,
� numero di ore di apertura al giorno,
� numero di giorni di apertura all’anno,
� numero di riparazioni diviso per il numero di utilizzi totali,
� numero di casi in cui è stato segnalato di non aver trovato una
bicicletta presso la stazione o il numero di casi in cui non è stato
possibile effettuare la riconsegna nel punto di destinazione
prescelto, a causa ad esempio del fatto che la stazione era piena.
3. Sicurezza: Molti parametri di sicurezza sono applicabili alle
infrastrutture ciclistiche nel loro complesso, ma alcune sono peculiari del
bike sharing come, per esempio, i luoghi dove sono posizionate le stazioni
o il grado di visibilità e di funzionalità delle biciclette offerte dal sistema
(luci, freni, modalità di parcheggio, ecc.). Il posizionamento delle stazioni
dovrebbe essere effettuato tenendo conto delle esigenze di sicurezza e
senza introdurre elementi di disturbo per gli altri utenti della strada o i
pedoni. Le stazioni non dovrebbero nemmeno interferire con altri
utilizzatori di spazi pubblici come, ad esempio, i veicoli per la pulizia e chi
interviene per rimuovere la neve, oltre a non ostacolare gli accessi per
disabili, etc.
4. Design di biciclette e stazioni: Una caratteristica importante delle
biciclette e del sistema di aggancio presso le postazioni di prelievo è una
robustezza sufficiente a scoraggiare atti vandalici e furti, ma tale da non
pregiudicarne la maneggevolezza e il peso. Le biciclette dovrebbero
inoltre avere un look coordinato e ben caratterizzato, per essere visibili nel
traffico, proprio come avviene con altri mezzi di trasporto pubblico,
261
rafforzare l’immagine identitaria del sistema ed aumentarne la sicurezza.
La robustezza delle biciclette del bike sharing le rende più pesanti, e
questo può comportare una difficoltà per l’utente che non potrà
raggiungere la velocità di chi possiede una bicicletta ad alte prestazioni.
5. Integrazione con il sistema dei trasporti e Information Technology:
L’integrazione del bike sharing con altre modalità di trasporto in
condivisione (trasporto pubblico, car sharing, park-and-price, traghetti) in
termini d’iscrizione, pagamenti, smart card uniche d’accesso ai servizi, etc,
consente agli utenti di combinare tra loro più modalità di trasporto ed è
d’aiuto affinchè i viaggi diventino più convenienti ed efficienti. Ciò è
particolarmente importante in città dove non c’è un unico operatore, ma
più soggetti che effettuano servizi di trasporto pubblico; in tal caso un
clima di collaborazione sarebbe necessario. Si possono ottenere degli
importanti risultati anche dall’utilizzo delle nuove tecnologie di
comunicazione ed informazione: mappatura sul cellulare delle stazioni ed
indicazione della presenza di biciclette; segnalazione delle possibili
connessioni intermodali alle fermate del trasporto pubblico; valutazione in
tempo reale dei tempi di viaggio a seconda del tipo di mezzo o delle
diverse combinazioni intermodali a cui si può fare ricorso, nuovi telefoni
cellulari che funzionano anche come smart card, etc. In realtà, potrebbe
essere difficile investire in questa direzione, se il sistema di bike sharing
dipendesse da grossi finanziamenti; tuttavia, alcuni sistemi di bike sharing
che operano su scala ridotta fanno già affidamento sulla tecnologia
“mobile”.
6. Attività di ridistribuzione delle biciclette: Per mantenere il livello
qualitativo del servizio e rispondere in modo istantaneo alla domanda del
territorio di biciclette presso le stazioni, è necessaria una costante
ridistribuzione di biciclette dai punti di destinazione a quelli di origine.
262
Normalmente, i punti di origine e destinazione si scambiano di ruolo
durante l’arco della giornata, quando il flusso di pendolari cambia
direzione. Per i bike sharing pensati per i turisti, tutto potrebbe avvenire in
modo diverso ma, in questi casi, si hanno probabilmente alcuni o più punti
d’interesse che fungono da luoghi di destinazione durante il giorno, per
trasformarsi in punti di partenza nel pomeriggio. I furgoni per la
ridistribuzione, inoltre non sono gli unici veicoli utilizzati per far
funzionare il sistema; vi sono, infatti, anche diversi tipi di furgoni e auto di
servizio, utilizzati, ad esempio, per gestire le stazioni.
7.6 I benefici di un sistema di bike sharing
Le ragioni per l’attuazione di un programma di bike sharing sono spesso
incentrate sugli obiettivi di aumentare il ciclismo, ridurre la congestione,
migliorare la qualità dell’aria e offrire ai residenti la possibilità di una mobilità
attiva. Il bike sharing ha due principali vantaggi rispetto ad altri progetti di
trasporto:
1. i costi di implementazione sono relativamente bassi;
2. i tempi di implementazione anch’essi bassi. È possibile, infatti, pianificare
e implementare un sistema in un arco temporale breve (dai due ad un
massimo di quattro anni), il che significa che i benefici per il pubblico
maturano prima rispetto alla maggior parte dei progetti di trasporto.
Un sistema di bike sharing può apportare numerosi benefici in una città, attraverso
vari modi:
riduce la congestione e migliora la qualità dell’aria: il bike sharing,
infatti, offre una mobilità alternativa per i viaggi brevi che diversamente
potrebbero essere svolti con la macchina;
aumenta l’accessibilità: l’implementazione di un SBS fornisce agli utenti
locali un maggiore accesso a luoghi che sono oltre la loro portata a piedi;
263
migliora l’immagine del ciclismo: un sistema di bike sharing proietta
un’immagine moderna della cultura ciclistica, aiutandola a svilupparsi
all’interno di una città;
fornisce un servizio complementare ai trasporti pubblici: il bike sharing
offre un’alternativa per i viaggi brevi che diversamente le persone
potrebbero compiere con gli autobus;
migliora la salute dei residenti: un SBS offre una scelta di trasporto attivo,
fornendo vantaggi sia per la salute fisica che mentale. Alcuni studi, infatti,
hanno dimostrato che, spendere venti minuti al giorno su una bicicletta, ha
un impatto positivo sulla salute mentale106;
attrae nuovi ciclisti: un sistema di bike sharing offre la possibilità di
utilizzare una bicicletta anche a quegli utenti i quali, in passato, non hanno
potuto usufruirne per mancanza di accesso al servizio o per parcheggi
inesistenti all’interno delle città. Ad esempio, Lione, ha registrato un
aumento del 44% del ciclismo durante il primo anno di lancio del suo
sistema di bike sharing, Velo’v;
migliora l’immagine e il brand della città: il ciclismo è una forma di
mobilità sostenibile ed una città in grado di sviluppare un sistema di bike
sharing potrebbe rafforzare la propria immagine di città “green” e
innovativa;
crea investimenti nelle industrie locali: il bike sharing, infatti, ha il
potenziale per stimolare lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi attraverso
la domanda di software e hardware, così come la fornitura di operazioni.
Il bike sharing, inoltre, può anche attirare utenti che possiedono biciclette proprie
ma che decidono di usufruire del servizio per la sua convenienza e praticità. La
ITDP Cina, ha condotto un sondaggio sugli utenti del bike sharing a Guangzhou,
106 INTELLIGENT ENERGY EUROPE (2011), Ottimizzare i Sistemi di Bike Sharing nelle città europee, Obis, p. 41.
264
in Cina, dimostrando che il 16% degli utenti erano precedentemente al servizio,
utenti di biciclette private.
Le città che hanno implementato e sviluppato un SBS, hanno scoperto che i
benefici si fanno sentire da una vasta gamma di utenti, generazioni, classi, etnie in
vari periodi dell’anno107.
7.7 Dal “concept” alla realtà
L’implementazione di un sistema di bike sharing è un’iniziativa fattibile per la
maggior parte delle città grandi e per aver successo, esso dev’essere preparato
accuratamente predisponendo soprattutto di una strategia di pianificazione dei
trasporti. Solitamente, il “concept” di un sistema di bike sharing, è composto da
tre fasi: la Preparazione, l’Implementazione e l’Operazione. Gli aspetti chiave del
primo step sono costituiti da:
� Le dimensioni della città: molti professionisti del settore, affermano che
una media di almeno 200.000 abitanti dovrebbe essere una prerogativa in
fase di preparazione per creare successo nel servizio.
� La topografia e il clima: una tipografia collinare della città potrebbe
costituire una barriera all’introduzione, ma potrebbe incentivare l’utilizzo
di biciclette elettriche. Il clima, invece, non sembra giocare un ruolo
rilevante per il successo nei sistemi di bike sharing.
� Creazione di condizioni favorevoli per la ciclabilità urbana: un sistema
di bike sharing può diventare un’opportunità per promuovere la mobilità
ciclabile in citta. Gli utenti, però, possono utilizzare la bicicletta solo se è
sicura, conveniente e veloce per spostarsi; perciò le città devono presentare
un minimo di infrastrutture sicure e una strategia integrata per promuovere 107 GAUTHIER A., HUGHES C., KOST K., LI S., LINKE C., LOTSHAW S., MASON J., PARDO C., RASORE C., SCHROEDER B., TREVINO X. (2013), The Bike-share Planning Guide, Institute for Transportation & Development Policy, New York, p. 16.
265
tale mobilità, offrendo delle buone condizioni per l’implementazione di un
servizio di bike sharing. Ciò significa includere misure come moderatori di
traffico, parcheggi sicuri, informazioni, marketing ed educazione ad una
corretta mobilità. Tutto questo è necessario prima di introdurre un bike
sharing per facilitare l’accettazione del “concept” da parte del
consumatore.
� Individuazione del giusto target: è necessario identificare il principale
target conforme al “concept” di un sistema di bike sharing. Ad esempio,
Call a bike, il bike sharing in Germania, è un sistema altamente flessibile
per il centro città che può essere usato sia dai pendolari sia dai turisti per
viaggi brevi utilizzando lo smartphone per usufruire del servizio.
Analizzando, inoltre le abitudini dei ciclisti e il target è necessario
determinare anche se il servizio deve essere gratis per promuovere la
mobilità ciclabile in città o se gli utenti sono disposti a pagare per
usufruire delle biciclette pubbliche.
� Pianificazione di risorse e spazio che garantiscano la disponibilità
sufficiente delle biciclette: fondamentale per un successo nel bike sharing
è la facilità con cui gli utenti possono trovare le bici in posti convenienti
con una disponibilità sufficiente. Ciò significa anche, pianificare un
sistema con un elevato numero di biciclette e stazioni di raccolta che sono
facilmente visibili all’interno della città.
� Valutazione di un business model e delle possibili implicazioni
finanziarie: nella maggior parte dei casi, un sistema di bike sharing non
sono finanziariamente autosufficienti, richiedendo grossi investimenti
soprattutto nella fase iniziale. Ci sono differenti opzioni di finanziamento,
che coinvolgono sia il settore privato che il settore pubblico. Un’autorità
locale potrebbe considerare di utilizzare un processo che tende a
comparare i costi e la qualità del servizio offerto dai differenti fornitori. In
266
aggiunta, le autorità locali hanno bisogno, di sviluppare anche delle attività
complementari tali come l’implementazione di condizioni favorevoli al
ciclismo e attività di marketing.
A titolo di esempio, Vélo à la Carte, è il sistema di bike sharing sviluppato
tramite una partnership tra la città di Rennes, in Francia, e la compagnia
pubblicitaria Clear Channel Adshell. La compagnia, offre il sistema di
condivisione delle biciclette alle autorità locali che possono usare anche
altri servizi della stessa compagnia, quali punti di informazione o le
pensiline degli autobus. I servizi sono pagati attraverso le pubblicità che
sono esposte sulle forniture esterne dei velocipedi, finanziando così il bike
sharing.
La seconda fase, l’Implementazione del “concept” di un sistema di bike sharing,
rappresenta l’elemento chiave per assicurare un successo nel lungo periodo. I suoi
aspetti chiave sono:
� Scelta del giusto momento per l’implementazione: è raccomandabile
iniziare un programma di bike sharing in primavera o all’inizio dell’estate
quando le persone possono godere del bel clima. Oppure è consigliabile
iniziarlo in concomitanza con un altro evento, ad esempio un festival del
ciclismo, che ponga una maggiore attenzione al servizio di bike sharing.
� Una distanza accettabile per l’utente e posti visibili: le stazioni dove le
biciclette pubbliche possono essere trovate nel centro città dovrebbero
essere facilmente visibili dagli utenti; generalmente, le stazioni non
dovrebbero essere diffuse per più di 300-500 metri lontane da fonti di
traffico urbano. Sotto quest’ottica, potrebbe essere utile un app apposita,
scaricabile tramite tablet o smartphone che indichi all’utente quale
stazione di raccolta sia la più vicina a lui.
� Semplicità d’uso: al fine di ottenere un buon feedback dall’utenza, è
necessario che il sistema di bike sharing sia il più semplice possibile. La
267
procedura di registrazione e la tecnologia di accesso dovrebbero essere
pensate nel modo giusto, per esempio attraverso l’utilizzo di smart cards,
ritenute più convenienti rispetto a quei sistemi basati sull’utilizzo degli
smartphone per il pagamento. I moderni programmi di bike sharing,
richiedono tutti una registrazione al service e ciò dovrebbe esser fatto nella
maniera più semplice e veloce possibile, offrendo ulteriori servizi come
l’uso di una carta di credito nelle stazioni di raccolta. In generale le
procedure di registrazione e di noleggio dovrebbero essere intuitive e
comunicate chiaramente dal fornitore del servizio.
� Educazione al traffico: specialmente nelle città dove la mobilità ciclabile
non è ancora ben conosciuta, è consigliabile lanciare campagne di
educazione per incoraggiare il rispetto reciproco tra ciclisti, pedoni e
automobilisti. Nella fase di introduzione di un sistema di bike sharing,
spesso si verificano problemi fra i pedoni e i ciclisti, ma anche con gli
automobilisti i quali non sono abituati a vederli in strada. Per le persone
che utilizzano sporadicamente la bicicletta, programmi di educazione,
dovrebbero essere svolti per migliorare le proprie abilità sui velocipedi.
� Marketing e comunicazione: è molto importante per una diffusione del
bike sharing promuovere il sistema sui media, sui cartelloni pubblicitari e
attraverso testimonial. Le biciclette pubbliche e le stazioni dovrebbero
essere ben visibili in spazi pubblici e comunicare un brand unico. Ad
esempio, un design attraente e un’immagine high-tech delle biciclette,
potrebbero aiutare ad incrementare la coscienza delle persone e farle
percepire come mezzi alla moda.
La terza ed ultima fase è rappresentata dall’Operazione, ovvero quello step
necessario a monitorare costantemente il sistema e a svilupparlo in linea con il
mercato. I suoi aspetti chiave sono i seguenti:
� Monitorare e mantenere la qualità del sistema: è cruciale monitorare
268
costantemente l’uso, l’accettazione e la qualità di un sistema di bike
sharing, utilizzando feedback o dati degli utenti per ottimizzare la
distribuzione delle biciclette e assicurare una buona disponibilità e qualità
al consumatore.
� Marketing virale: dopo aver pubblicizzato l’introduzione di un sistema di
bike sharing, l’interesse dell’utenza potrebbe diminuire e perciò è
fondamentale ricordare alle persone i benefici di un servizio del genere,
incoraggiando il suo uso per raggiungere un numero stabile e crescente di
utenti. Il marketing, dovrebbe puntare ad incoraggiare le persone che
rivalutato la mobilità ciclabile attraverso questo servizio per prendere le
proprie biciclette e usarle quotidianamente o nel tempo libero. Tutto ciò
può aiutare ad incrementare la mobilità ciclabile in citta.
� Una strategia finanziaria a lungo termine: un elemento chiave per il
successo in questo campo è lo sviluppo di una strategia ben pianificata. In
molti casi, il finanziamento nella fase iniziale da parte del settore pubblico
potrebbe essere disponibile ma dopo questa fase potrebbero essere
sviluppate altre idee. Nella maggior parte dei casi, ad esempio, le entrate
pubblicitarie possono rappresentare un elemento importante del
finanziamento; oppure quando il “concept” di un sistema di bike sharing è
stato ampiamente accettato dall’utenza e la cultura della bicicletta si è
diffusa a macchia d’olio, potrebbe sembrare opportuno introdurre delle
tariffe moderate per usufruire del sistema. Tuttavia, quest’ultime devono
rimanere su un livello economico per evitare la diminuzione degli utenti.
7.8 Politiche di marketing a sostegno del bike sharing
Un sistema di bike sharing, ha bisogno di avere un’identità chiara e consistente,
un forte brand, che presenti un’immagine professionale, moderna e che si
distingui dagli altri mezzi di trasporto urbano. Ci sono vari elementi di
identificazione, come il logo, il nome del programma, lo slogan etc. ma in
269
particolare, un uso consistente degli elementi della “core identity”, possono
migliorare l’accettazione da parte dell’utente.
Il brand del sistema dovrebbe essere facilmente utilizzato in diversi tipi di media e
costituito generalmente dai seguenti elementi:
� una sola parola, breve e concisa;
� trasmettere una connotazione positiva;
� facilmente ricordabile.
Riguardo al sito del programma, invece, si raccomanda che qualsiasi sistema di
bike sharing in corso di attuazione da parte del Comune, inizi a promuovere e a
registrare sul proprio sito le prime stazioni di distribuzione. Il sito web, infatti
dovrebbe rappresentare un luogo centrale dove l’utente può trovare qualsiasi tipo
di informazione sul servizio e a tal fine, prima del lancio del programma, il “buzz”
creato dalle persone, dovrebbe spingere gli utenti a visitare il portale web
iscrivendosi come membri a lungo termine.
Qui di seguito sono elencate le possibili strategie di marketing per aiutare a
promuovere un programma di bike sharing:
Partnership e Co-promotion: la creazione di partnership e co-promotion
con le organizzazioni e le istituzioni locali rappresenta un modo
fondamentale per promuovere un nuovo servizio di biciclette condivise,
creando delle associazioni positive di diversi gruppi di utenti. Le co-
promotion, possono essere sviluppate anche con altre aziende o
organizzazioni come le università, ospedali, società di car sharing,
offrendo incentivi per questi enti ad associarsi al sistema di bike sharing e
promuoverlo.
Pubblicità per i turisti: i visitatori e l’uso turistico del bike sharing, sono
una componente molto importante per la sua sostenibilità finanziaria,
anche se attualmente in diverse città italiane, questo tipo di pubblicità non
viene effettuata in modo coerente con gli atri sistemi europei a causa degli
270
elevati costi. Alcune strategie per raggiungere questo target di utenza, si
concentrano soprattutto sull’informazione e sull’educazione alla mobilità
ciclabile, con le co-promotion che possono svolgere un ruolo interessante
anche in questo campo. Ad esempio, le città dovrebbero accordarsi
insieme agli alberghi situati all’interno dell’area del servizio proposto,
distribuendo ai clienti brochures ed educandoli al servizio di bike sharing.
Un altro tipo di alleanza potrebbe vedere in campo il Comune con le
Università e gli ospedali, distribuendo materiale promozionale ed
informativo alle famiglie e agli studenti. Queste informazioni devono
focalizzarsi, soprattutto, sulle caratteristiche di un sistema di bike sharing,
promuovendolo come un mezzo di trasporto alternativo alla mobilità
motorizzata.
7.8.1 Strategie di marketing “buzz” per il bike sharing
L’esperienza dei precedenti sistemi di bike sharing, ha dimostrato che per
aumentarne la notorietà riguardo una prima implementazione del programma,
bisognerebbe creare un “buzz”, ovvero un passaparola o dare alle persone motivo
di parlare del servizio.
Diverse strategie per la creazione di un “buzz” sul bike sharing sono iniziative
offerte dalla combinazione di elementi di PR, tali come eventi promozionali e
media digitali (social media e blog).
Gli attuali sistemi di bike sharing, hanno trovato molti modi creativi per
incrementare la diffusione di strumenti di PR ( giornali, spot pubblicitari,
comunicati stampa etc.), che hanno reso possibile creare un passaparola senza
utilizzare i tradizionali mezzi di comunicazione a pagamento tali come la
televisione, le radio commerciali, pubblicità sui giornali, cartelloni pubblicitari e
molti altri ancora. Le possibili strategie per aumentare il passaparola possono
essere le seguenti:
Il lancio del sito web attraverso un’espediente pubblicitario: in
271
occasione del lancio del sito web, sarebbe strategico creare un “trucco”
pubblicitario attraverso i social media per attirare una maggiore attenzione.
Un esempio potrebbe essere quello di far guidare le biciclette condivise
all’interno della città da un gruppo di ciclisti per creare curiosità e
passaparola tra le persone presenti all’evento.
Eventi nei quartieri: piccoli eventi nei quartieri possono creare
pubblicità e portare notorietà al programma. Eventi come il “taglio del
nastro” ad opera dei politici locali in particolari stazioni, rappresenta uno
dei modi per favorire la proprietà di un sistema di bike sharing su un
livello locale.
Social Media: la crescita dei social network come Facebook, Twitter può
aiutare ad aumentare il “word of mouth”, ovvero il passaparola sul bike
sharing. Altri sistemi hanno dimostrato come i social media possano
favorire la promozione del programma, incentivando anche la promozione
di sconti o eventi relativi al bike sharing. Le partnership e le co-promotion
trattate precedentemente, possono ulteriormente diffondere il passaparola
attraverso i social network. Inoltre, il contributo fornito anche da
giornalisti influenti, bloggers, editori e dai media locali è fondamentale per
creare il giusto tipo di “buzz” per tale servizio.
Concorsi: i concorsi gestiti da un sistema di bike sharing sono in grado di
accrescere il passaparola sia sui social media sia su altri mass media. Per
esempio, potrebbe essere interessante un concorso che aiuti a promuovere
e ad accrescere l’uso del sistema durante i mesi invernali, quando l’utenza
tende ad essere più bassa a causa del tempo.
La divisione PR del Comune: l’attenzione dei media si basa molto sul
sostegno della divisione PR della città. Infatti, non importa quanto buono
sia il contraente, gli sponsor o il team di implementazione ma sono
importanti il supporto e gli annunci del Comune, molto più di una
qualsiasi società privata. A tal fine, è giusto che la città sfrutti attività di
pubbliche relazioni esistenti in tutti i suoi dipartimenti per contribuire a
272
promuovere un sistema di bike sharing.
7.9 Sviluppi futuri del bike sharing
Come sarà e come si configurerà la prossima generazione del bike sharing?
Se la terza generazione ha introdotto nuovi elementi come carte magnetiche,
l’utilizzo di smartphones, schermi interattivi di interfaccia con l’utente, la quarta
generazione migliorerà l’efficienza del servizio, la sostenibilità e l’usabilità.
Questo diventerà possibile grazie ad un miglioramento globale della distribuzione
delle biciclette, dei luoghi d’installazione delle stazioni d’interscambio, una nuova
modalità di tracking, nuove biciclette anche con la pedalata assistita e nuovi
modelli di business.
Tuttavia, delineare una generazione futura di bike sharing, è molto difficile in
quanto si tratta di un fenomeno che deve ancora compiersi in ogni sua parte; si
potrà, tutt’al più, analizzare le tendenze, le scelte e le politiche che vengono
attuate nelle numerose esperienze e servizi sperimentali, fino a quando
appariranno chiare le logiche che maggiormente aiutano il servizio. Naturalmente,
andranno considerate anche le realtà locali e le diversità culturali e sociali che
potranno influire sul successo o meno di un servizio di bike sharing.
Le introduzioni possibili in una quarta generazione di bike sharing potranno
essere le seguenti:
� migliore distribuzione delle stazioni: la buona distribuzione delle
stazioni e delle biciclette migliora notevolmente un servizio di bike
sharing, rendendolo più efficiente ed ambientalmente compatibile. I
programmi dovranno quindi valutare accuratamente a monte i flussi, la
domanda ed il volume di biciclette utilizzate, mete preferite, etc. per creare
stazioni maggiormente propense a svincolare le bici ed altre invece più
orientate a ricevere i flussi di biciclette. Queste valutazioni, porteranno
benefici in termini di tempo, denaro e risosrse.
273
Analizzando ad esempio il sistema parigino, il Velib’, si può notare come
molti di questi accorgimenti siano stati concretizzati con il lancio del
progetto “V+”. Partendo dalla considerazione che per gli utilizzatori del
servizio a livello fisico è maggiormente provante raggiungere le stazioni
localizzate sulle colline o in generale su zone che presentano delle salite, il
progetto “V+” prevede una proroga di 15 minuti nell’utilizzo della
bicicletta per accedere a tutte queste zone. Il tempo extra concesso ha
implementato ed incoraggiato in maniera sorprendente l’utilizzo di queste
stazioni. Questo quarto d’ora di bonus può anche esser salvato,
memorizzandolo nel software del sistema, quando non viene utilizzato nei
percorsi previsti, per poter esser poi successivamente impiegato nei tragitti
ordinari. L’installazione di una stazione richiede però del tempo, risorse
umane ed economiche: la rimozione dell’asfalto o del pavè, le variabili
legate al sottosuolo come tubature e cavi elettrici e l’impiego di materiali
da costruzione implicano uno dispendio di energie non trascurabile. Alcuni
sistemi hanno limitato questi costi con una sorta di piattaforma tecnica, la
quale rappresenta la base per la stazione di scambio del bike sharing e
dove vengono alloggiati basamenti, supporti e cavi per lo stoccaggio delle
bici e per la colonnina utilizzata per i pagamenti. È il caso, ad esempio, del
sistema del bike sharing di Montreal, Bixi, in cui la zona di fermo delle
bici e la parte tecnica sono installate senza interventi invasivi e perciò
anche di facile reversibilità.
� Stazioni autoalimentate: questo tipo di stazioni sono servite da un
cablaggio sotterraneo che le collega alla fonte elettrica più vicina per
dotarle di funzionalità quali il pagamento in loco, il tracking delle
biciclette ed altri servizi. Questa soluzione, tuttavia, si rivela costosa,
lunga e determinante sulla possibilità di installare o meno una stazione in
una certa zona a seconda della possibilità d’esser servita o meno dalla
fonte elettrica. Così si sta pensando ad un sistema che incorpori alcuni
pannelli solari per evitare la necessita di creare ad hoc un allacciamento
sotterraneo alla rete elettrica.
274
� Tracking e connettività: un miglioramento del sistema di tracking
attraverso dispositivi di posizionamento (GPS) consentiranno una raccolta
dati utile per determinare quali siano i percorsi preferiti degli utenti e una
quantificazione dei chilometri percorsi. Attualmente, molti sistemi
raccolgono dati in linea d’aria, che rappresentano una linea retta dal luogo
d’origine alla destinazione e quindi difficilmente attendibili
nell’applicazione di circostanze reali. Inoltre, il GPS potrebbe rivelarsi
utile per fronteggiare il fenomeno dei furti.
� Biciclette elettriche o a pedalata assistita: in determinate aree,
caratterizzate da numerosi saliscendi o salite impegnative, l’utilizzo della
bicicletta potrebbe rivelarsi fisicamente proibitiva. L’uso di sistemi che
prevedono l’impiego di bici a pedalata assistita può essere utile per le
categorie più svantaggiate da tale contesto. Proprio come nel caso degli
autobus, muniti di dispositivi che possono permettere l’accesso al servizio
pubblico da parte degli utenti relegati su sedie a rotelle, il sistema a
pedalata assistita apre la possibilità d’utilizzo per le categorie svantaggiate.
Un servizio di bike sharing di questo genere non deve necessariamente
esser interamente composto da una flotta di biciclette elettriche ma
piuttosto in una percentuale di velocipedi nella misura minima in cui possa
esser effettivamente utile per gli utilizzatori potenziali.
In conclusione, il futuro del bike sharing è chiaro: ci saranno sempre maggiori
servizi e maggiore richiesta. Il bike sharing, ormai si sta affermando
nell’immaginario collettivo come una realtà cittadina forte e sempre più concreta,
configurandosi come la forma di transito maggiormente interessante e moderna,
capace di sensibilizzare le masse alle questioni ambientali e generando così un
circolo virtuoso108 che porta nuovi utenti e servizi.
108 DE MAIO P. (2009), “Bike-sharing: Its History, Models of Provision, and Future”, Velo-city Conference, Washington D.C, p. 10.
275
I continui incrementi del prezzo del carburante, congestionamento del traffico
motorizzato, la crescita delle popolazioni urbane ed un globale peggioramento
della qualità di vita delle metropoli dovrebbe convincere i leader a trovare nuove
modalità di trasporto che possano meglio adattarsi alle esigenze di oggigiorno,
quali una maggiore vivibilità e minori emissioni inquinanti. Fortunatamente, un
sistema di bike sharing si adatta a queste esigenze, identificandosi come un mezzo
complementare di trasporto e come l’unica vera risposta concreta in un periodo di
crisi economica come quella attuale.
276
CONCLUSIONI
Il problema dell’insostenibilità del trasporto è presente in tutte le città europee e
anche in quelle più sviluppate dell’Asia, del Centro e Sud America anche se
l’intensità di questo problema si presenta persino in aree rurali o marginali
ritenute spesso non investite dai problemi della mobilità in connessione con lo
sviluppo.
Il criterio di valutazione di tali problemi di mobilità è diverso da territorio a
territorio, da paese a paese e le soluzioni connesse devono essere distinguibili non
solo in termini astratti ma anche in termini concreti per promuovere il
raggiungimento di livelli standard di accettabilità della qualità della vita, nonché
l’adozione di strategie di lungo periodo che involvano anche il tema dello
277
sviluppo del territorio.
Migliorare, razionalizzare e favorire il trasporto pubblico (e contemporaneamente
la metanizzazione delle flotte del trasporto pubblico) che è una delle alternative
all’auto, è una delle strade che si possono percorrere, ma anche altre si possono
battere. Si potrebbe anche introdurre ad esempio il concetto di capacità ambientale
delle strade: un strada può tollerare un certo flusso di traffico, oltre il quale i limiti
di inquinamento acustico e dell’aria vengono superati, per cui il traffico veicolare
dovrebbe essere sospeso. Limitare l’accesso alle aree urbane in base ad un monte
ore annuale per ogni possessore di autovetture: un sistema come il Sirio di
Bologna, anziché in forma repressiva, potrebbe essere usato in chiave preventiva.
Introdurre tecnologie che riducano l’impatto ambientale, o sfruttare maggiormente
quelle già esistenti sarebbe auspicabile. Non dobbiamo perdere di vista il fatto che
l’intermodalità tra mezzi di trasporto e tra pubblico è privato è fondamentale per
diminuire l’impatto della mobilità sulla qualità della vita.
E soprattutto dobbiamo ricordare che c’è un modo di diminuire gli effetti della
mobilità inquinante: diminuire la mobilità. Come? Con divieti? No,
semplicemente diminuendo la domanda di mobilità, progettando città, quartieri
vivibili anche senz’auto. In tutto questo la bicicletta può giocare un ruolo
strategico, se opportunamente favorita ed integrata agli altri mezzi di trasporto.
Certo non si può continuare com’è stato fatto fino ad ora, considerandola
secondaria, quasi ad umiliarla, perché nell’ambito urbano, in città con un territorio
piatto e in zone con un clima mite, il margine di miglioramento che questo mezzo
potrebbe contribuire a dare alla circolazione è notevole. Pensiamo a quanto
avviene in Olanda, che certo non gode del nostro clima. Come a Ferrara, così
anche nei centri urbani limitrofi la bicicletta è usata largamente come mezzo di
trasporto.
In conclusione, da quanto emerso dalla ricerca svolta, risulta chiaro che molte
sono le strade percorribili nel raggiungimento di una mobilità sostenibile,
puntando non solo sulle politiche dirette ai trasporti, ma anche sugli altri aspetti
correlati alla mobilità e una ridefinizione dello spazio urbano che privilegi gli
278
spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari sicuri e piacevoli e perché no,
belli.
BIBLIOGRAFIA
� AA. VV. (2006), “Il trasporto pubblico locale”, Dossier informativo per I
consiglieri regionali del Consiglio Regionale del Piemonte, pp. 36-38.
� ADNKRONOS 2014, “Dal car sharing al km zero, italiani promotori di
innovazione sociale”, Milano.
� AKINYEMI E., ZUIDGEEST M. (2002), “Managing Transportation
Infrastructure for Sustainable Development”, Computer-Aided Civil and
Infrastructure Engineering, Vol. 3, No. 17, pp. 148-161.
279
� BALDASSARRI G. (2000), “La riforma del trasporto pubblico”, Proteo,
No. 1998-3.
� BANISTER D. (2008), “The sustainable mobility paradigm”, Transport
Policy, Vol. 15, No. 2, pp. 73-80.
� BANISTER D., (2007), “Cities, mobility and climate change”, Journal of
Industrial Ecology, Vol. 11, No. 2, pp. 7-10.
� BERUCCIO L., PASCALIZI F., CAFARELLI E., MORICCI F.,
PARMAGNANI F. (2011), “La mobilità in Italia. Rapporto sulle principali
50 città”, Euromobility, p. 50.
� BLUMENTHAL D., GLUCK M., LOUIS KS., WISE D. (1986),
“Industrial Support of University Research in Biotechnology”, Science,
Vol. 231, No. 4735, pp. 242-246.
� BELLEZZA M. (2014), “Car pooling: tentative di regolamentazione in
corso”, Wired.
� BIGNAMI M, “Start up innovative: le deroghe alla disciplina delle s.r.l”,
Il Sole 24 Ore.
� BOLOGNA G. (2005), Manuale della Sostenibilità, Edizioni Ambiente,
Milano.
� CABIANCA A. (2010), “Il trasporto pubblico locale alla difficile ricerca di
un centro di gravità, tra disciplina di settore, servizi pubblici locali e
normativa comunitaria”, GiustAmm.
� CASTRATARO D., PAIS I. (2012), “Le piattaforme di crowdfunding in
Italia e nel mondo”, Crowdfuture Blog.
� CHESBROUGH H., VANHAVERBEKE W., WEST J. (2014), New
Frontiers in Open Innovation, Oxford University Press, Oxford.
� CHESBROUGH H. (2012), “Open Innovation. Where We’ve Been and
Where We’re Going”, Research Technology Management, Vol. 55, No. 4,
pp. 20-27.
� CHESBROUGH H., VANHAVERBEKE W., WEST J. (2006), Open
280
Innovation: Researching a New Paradigm, Oxford University Press, New
York.
� CHESBROUGH H. (2003), Open Innovation: The New Imperative for
Creating and Profiting from Technology, Harvard Business Review Press,
Boston.
� CHESBROUGH H. (2003), “The Era of Open Innovation”, MITSloan
Management Review, Vol. 44, No. 3, pp. 77-82.
� CLARONI A (2011), “La disciplina del trasporto pubblico locale: recenti
sviluppi e prospettive”, Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche,
Trento.
� Commissione delle Comunità Europee (2009), Libro Verde – Ten-t:
riesame della politica. Verso una migliore integrazione della rete
transeuropea di trasporto al servizio della politica comune dei trasporti,
COM, Bruxelles.
� COMUNELLO D. (2014), “La classifica europea delle vendite: Italia
all’ottavo posto”, Quattroruote.
� DAHLANDER L., GANN D.M. (2010), “How open is innovation?”,
Research Policy, Stanford University, USA, Vol. 39, pp. 699-709.
� D’AVENI R. (1995), “Ipercompetizione”, Il Sole 24 Ore.
� DEL CASTRO M (2009), Mobilità sostenibile. Approcci, metodi e
strumenti di governance, Edizioni Altravista.
� DEMAIO P. (2009), (a cura di), “Bike-sharing: Its History, Models of
Provision and Future”, Velo-city Conference, Washington, pp. 1-12.
� DE MITRI M. (2012), “Le Smart City: città intelligenti, digitali ed
inclusive. Cosa sono veramente?”, Blog.
281
� DI MARTINO S., CLEMENTE G., GALIERO R. (2011), “A rich cloud
application to improve sustainable mobility”, Personnel Review, Vol. 41,
No. 1, pp. 109-123.
� ETZKOWITZ H., LEYDESDORFF L. (2000), “The dynamics of
innovation: from National System and “Mode 2” to a Triple Helix of
university-industry-government relations”, Research Policy, Vol. 29, No.
2, USA, pp. 109-123.
� ETZKOWITZ H. (2003), “Innovation in innovation: The Triple Helix of
University-Industry-Government relations”, Social Science, SAGE
Publications, Vol. 42, No. 3, London, pp. 293-337.
� FAGERBERG J., MOWERY D.C., NELSON R.R. (2005), (a cura di), The
Oxford handbook of Innovation, Oxford University Press, Oxford e New
York.
� FONDAZIONE CARACCIOLO F. (2014), “Muoversi meglio in città per
muovere l’Italia”, ACI.
� FORNENGO G., OTTOZ E. (2005), “La riforma del trasporto pubblico
locale: effetti sulla struttura e l’efficienza delle imprese pubbliche e private
nel caso del Piemonte”, Hermes.
� FREGONARA E. (2013), La start up innovative. Uno sguardo
all’evoluzione del sistema societario e delle forme di finanziamento,
Giuffrè, Milano.
� FRIEDL B., STEININGER K. W., (2002), “Environmentally Sustainable
Transport: Definition and Long-Term Economic Impacts for Austria”,
Kluwer Academic Publishers, Vol. 29, No. 2, pp. 163-180.
� GAULE A. (2006), Open Innovation in Action: How to be strategic in the
search for new source of value, H-I Network, London.
� GAUTHIER A., HUGHES C., KOST K., LI S., LINKE C., LOTSHAW
282
S., MASON J., PARDO C., RASORE C., SCHROEDER B., TREVINO
X. (2013), The Bike-share Planning Guide, Institute for Transportation &
Development Policy, New York.
� GEIGER D., SEEDORF S., NICKERSON R., SCHADER M., SHULZE
T. (2011), “Managing the Crowd: Towards a Taxonomy of Crowdsourcing
Processes”, Business Rreview, Detroit, pp. 1-15.
� GIORDANO A., ZOPPI G. (2000), Il nuovo trasporto pubblico regionale
e locale dalla legge 151/81 ai d.leg.n.422/97 e n.400/99, Giuffrè, Milano.
� GUDMUNDSSON H., HISJER M., (1996), “Sustainable development
principles and their implications for transport”, Ecological Economics,
Vol. 3, No. 19, pp. 269-282.
� HAUSCHILDT J., SALOMO S. (2011), Enabling Innovation, Springer,
Berlin.
� HENDERSON R.M., CLARK K.B. (1990), “The Reconfiguration of
Existing Product Technologies and the Failure of Established Firms”,
Administrative Science Quarterly, Vol. 35, No. 1, pp. 11 ss.
� HOPKINS R., SLOANE P. (2011), “A Guide to Open Innovation and
Crowdsourcing”, Kogan Page, London.
� HOWE J. (2008), Crowdsourcing: Why the Power of the Crowd is Diving
the Future of Business, Three Rivers Press, New York.
� HOWE J. (2010), Crowdsourcing. Il valore partecipativo come risorsa per
il futuro del business, Edizione Sossella.
� HUWER U. (2003), “Public transport and car-sharing: benefits and effects
of combined services”, Transport Policy, Vol. 11, No. 1, pp. 38-43.
283
� IAIONE C. (2008), La regolazione del Trasporto pubblico locale, Jovene
editore.
� INTELLIGENT ENERGY EUROPE (2011), Ottimizzare i Sistemi di Bike
Sharing nelle città europee, Obis.
� KATZEV R. (2003), “Car Sharing: A New Approach To Urban
Transportation Problems”, Analyses of Social Issues and Public Policy,
Vol. 3, No. 1, pp. 65-86.
� LAZZAROTTI V., MANZINI R. (2009), “Different modes of open
innovation: a theoretical framework and an empirical study”, International
Journal of Innovation Management, Università Carlo Cattaneo,
Castellanza, Vol. 13, No. 4, pp. 615-636.
� MAGNI M (2014), “A Torino i vigili sequestrano i veicoli di tre autisti
Uber”, Autoblog MOTORI.
� MOLLICK E. (2014), “The dynamics of crowdfunding: An exploratory
study”, Journal of Business Venturing, The Wharton School Of the
University of Pennsylvania, USA, Vol. 29, No. 1, pp. 1-16.
� MUMFORD L. (1961), The City in History: Its Origins, Its
Transformation, and Its Prospetcts, Harcourt, Brace & World, New York.
� MURRAY R., CAULIER GRICE J., MULGAN G. (2010), The Open
Book of Social Innovation, The Young Foundation, NESTA.
� OECD (2005), Oslo Manual 3rd edition Guidelines for Collecting and
Interpreting Innovation Data, OECD Publishing, Parigi.
� ORTMEYER H. T., PILLAY P. (2001), “Trends in transportation sector
technology energy use and greenhouse gas emissions”, Proceedings of the
IEEE-PIEEE, Vol. 89, No. 12.
� PANELLA G., ZATTI A. (2007), Città: per uscire dal labirinto, Carocci
284
Editore, Università degli studi di Pavia e Assessorato alla Tutela
Ambientale della Provincia di Pavia.
� PIERRI F. (1999), Linee guida per Mobility Managers: La redazione del
Piano Spostamenti Casa-Lavoro, Direzione Centrale trasporti e viabilità,
Milano.
� PODMETINA D., SMIRNOVA M. (2013), “R&D Cooperation with
External Partners and Implementing Open Innovation”, Journal of
Innovation Management, Vol.1, No. 2.
� PORCELLUZZI S, RAFFAINI A., TESTA M. (2013), Mobilità
Sostenibile – primi passi per spostarsi responsabilmente, Collana Percorsi
di Sostenibilità.
� PROCOPIO M. (2013), Il trasporto pubblico locale: La ricerca
dell’efficienza attraverso le riforme, FrancoAngeli.
� QUARANTINO L., SERIO L. (2009), “L’innovazione aperta: La
prospettiva dell’innovazione aperta e le nuove logiche organizzative e
manageriali”, Progetto Matri, Commissione europea.
� RANGONE N. (2003), I trasporti pubblici di linea, Trattato di diritto
amministrativo, a cura di S. CASSESE Parte speciale, Vol. 3, Milano; L.
GIANI, A. POLICE (2008), Le funzioni di regolazione del mercato, in
Diritto Amministrativo, a cura di F.G. SCOCA, Torino.
� RICHARDSON BARBARA C. (2005), “Sustainable transport: analysis
frameworks”, Journal of Transport Geography, Vol. 13, No. 1, pp. 29-39.
� ROZGA R. (1999), Entre globalición tecnológica y context nacional y
regional de la innovación, un aporte a la discussion de la importancia de
lo global y lo local para la innovación tecnológica, V Seminario
Internacional, Toluca, Mexico.
285
� SHOUP D. C. (2001), Parking Cash Out, in EMCT, Managing
Commuters’Behaviour: A New Role for Companies, European Conference
of Ministers of Transport, Paris.
� SCHUMPETER J.A. (1911), Teoria dello sviluppo economico, ETAS,
Milano.
� SCHUMPETER J.A. (1911), Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung,
Duncker&Humblodt, Berlin. Versione in inglese, The Theory of Economic
Development, Harvard University Press, (1934), Cambridge; MASS e
SHUMPETER J.A., (1942), Capitalism, Socialism and Democracy,
Harper, New York e Londra. Versione italiana, Socialismo e Democrazia,
ETAS, Milano, (2001).
� SMERALDI M., Riforma amministrativa, sussidiarietà concorrenza nella
regionalizzazione del trasporto locale, in Dir. trasp.,199, fasc. 1.
� SOCCO C. (2009), Il piano urbano di mobilità sostenibile, Alinea editrice.
� SPINELLI C. (2012), “Il crowdfunding: tra autoproduzione e social
commerce, storia dello strumento che potrebbe cambiare le regole del fare
impresa”, Tafter Journal, No. 48.
� SUROWIECKI L. (2005), The Wisdom of Crowds, Knopf Doubleday
Publishing Group, New York.
� TORDERA I. (2013), “Le rose hanno le spine: breve esplorazione dei
limiti e dei rischi del Crowdfunding”, Italian Crowdfunding Network –
Blog.
� TUCCI C. (2012), “Crowdsourcing as a solution to distant search”,
Academy of Management Review, Vol. 37, No. 3, pp. 355-377.
� VANHAVERBEKE W., DUVSTERS G. M., NOORDERHAVEN N. G.
(2002), “External technology sourcing through alliances or acquisitions: an
analysis of the application-specific integrated circuits industry”,
286
Organization Science, Vol. 13, No. 6, pp. 714-733.
� VON HIPPEL E. (2006), Democratizing Innovation, The Mitt Press,
Cambridge, MA.
� WEST J., BOGERS M. (2012), “Managing Distributed Innovation:
Strategic Utilization of Open and User Innovation”, Creativity and
Innovation Management, Vol. 21, No. 1, pp. 61-75.
� WEST J. (2008), “Getting Clear About Communities in Open Innovation”,
Industry&Innovation, Vol. 15, No. 2, pp. 223-231.
� WEST J., GALLAGHER S. (2006), “Challenge of Open Innovation: the
Paradox of Firm’s Investment in open Source Software”, R&S
Management, Vol. 36, No. 3, pp. 319-331.
� WIEGMANS B., BEEKMAN N., BOSCHKER A., VAN DAM W.,
NIJHOF N. (2003), “ICT and Sustainable Mobility: From Impacts to
Policy”, Growth and Change, Vol. 34, No. 4, pp. 473-489.
287
SITOGRAFIA
� www.aci.it
� www.altalex.com
� www.bicincittà.com
� www.bicipieghevole.org
� www.bikemi.com
� www.clamsitel.pbworks.com
� www.comunetorino.it/trasporti/ztl
� www.fiscoetasse.com
� www.greenme.it
� www.icscarsharing.it
� http://iei.uv.es/roadpricing/ponencias/owen.pdf
� www.indiegogo.com/about/our-story
� www.italiancrowdfunding.org
� http://it.wikipedia.orh/wiki/Kickstarter
� http://milanofoldingbikers.blogspot.it
� www.mondoelettrico.blogspot.it
� www.nanoo.biz.it
� www.nortonrosefulbright.com
� www.ntvspa.it
� http://ow.ly/UqEu
� www.ridble.com/blablacar/
� www.smartinnovation.forumpa.it
� www.soloecologia.it
� www.spaziodelta.com
288
� www.superpedestrian.com
� www.tobike.com
RINGRAZIAMENTI
Ringrazio mia madre per aver creduto sempre in me durante il corso di laurea
magistrale e per avermi trasmesso tutta la forza necessaria.
Mio fratello per i suoi consigli preziosi e la mia famiglia il cui supporto è sempre
stato fondamentale.
Martina per la sua inesauribile pazienza e per essermi stata sempre accanto nel
raggiungimento di questo importante traguardo.
289