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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE ED AZIENDALI “M.FANNO” CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA PROVA FINALE LO SVILUPPO DELLE PARTNERSHIP PER LA RICERCA DEL VANTAGGIO COMPETITIVORELATORE: CH.MO PROF. PUGLIESE AMEDEO LAUREANDO: CERON SILVIO MATRICOLA N. 1113017 ANNO ACCADEMICO 2017 2018
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE ED AZIENDALI

“M.FANNO”

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA

PROVA FINALE

“LO SVILUPPO DELLE PARTNERSHIP PER LA RICERCA DEL

VANTAGGIO COMPETITIVO”

RELATORE:

CH.MO PROF. PUGLIESE AMEDEO

LAUREANDO: CERON SILVIO

MATRICOLA N. 1113017

ANNO ACCADEMICO 2017 – 2018

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Indice

Introduzione 5

1. L’evoluzione storica del rapporto tra l’impresa e l’ambiente esterno. 7

1.1. La produzione di massa: lo sviluppo della grande impresa nel tentativo di dominare

l’ambiente esterno. 7

1.2. La Lean Production e il coinvolgimento degli attori esterni. 10

1.3. Le reti di imprese. 11

1.4. I distretti industriali quali promotori dello sviluppo reticolare. 14

1.5. La dimensione globale della rete. 16

1.6. I modelli più recenti di condivisione della conoscenza: la open innovation e le

tecnologie di social networking. 17

2. Gli strumenti a supporto delle alleanze – il contratto di rete. 19

2.1. I drivers delle diverse strategie di collaborazione. 20

2.2. Il contratto di rete: la disciplina, gli elementi strutturali, i vantaggi. 23

2.3. Una classificazione del modello reticolare. 24

2.4. La valutazione del partner. 26

2.5. Partnership Italia: l’esempio di successo delle rete tra tre imprese nel settore

vitivinicolo. 27

2.5.1. L’analisi dei risultati positivi ottenuti dalla partnership. 30

3. Enterprise Europe Network: la rete della Commissione europea a sostegno delle piccole e

medie imprese. 33

3.1. COSME, il programma europeo a supporto delle PMI. 34

3.2. Un esempio di successo della rete Enterprise Europe Network: il caso Rimac. 35

Conclusioni 37

Riferimenti bibliografici 39

Sitografia 41

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Introduzione

La capacità di adattamento ai cambiamenti dell’ambiente di riferimento è di fondamentale

importanza per la sopravvivenza di un’impresa. Ogni individuo è influenzato fortemente

dall’individualismo imprenditoriale, ma la capacità di andare oltre gli schemi tradizionali sta

proprio nel superamento di tale individualismo: la parole chiave è dunque collaborazione. Ne

deriva, allora, una visione non più settoriale, ma olistica, nel senso che i fenomeni e i problemi non

possono più essere visti, studiati e definiti attraverso un approccio riduzionistico: non esiste una

one best way, una soluzione valida per tutte le situazioni. Negli ultimi anni infatti la struttura

organizzativa imprenditoriale ha subito una profonda trasformazione che ha previsto l’attuazione

di progetti di partnership, fino alla realizzazione di reti d’imprese. Il presente lavoro cerca di

comprendere quali cambiamenti nei sistemi interni ed esterni abbiano portato le imprese a reagire

e passare da strutture organizzative individualistiche a modelli orientati alla collaborazione e

condivisione delle risorse e delle conoscenze. In particolare, nel primo capitolo l’analisi si

concentra sull’evoluzione avvenuta nell’arco temporale che va dall’espansione della Mass

Production, passando per la Lean Production, fino alla diffusione dei modelli reticolari che

caratterizza l’economia contemporanea del nostro Paese e dell’Europa più in generale. In uno

scenario frammentato, caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese – che costituiscono

il 99% delle imprese del continente – la Commissione Europea ha recentemente disciplinato alcuni

progetti volti a favorire lo sviluppo e la tutela di questi individui. L’obiettivo è quello di

promuovere la creazione di reti all’interno del tessuto di PMI, in modo da garantire l’accesso ai

finanziamenti necessari e rendere l’innovazione un traguardo più raggiungibile. Istituito per la

prima volta in Europa nel 2010 da parte del nostro Paese, il contratto di rete consente alle imprese

di cooperare mantenendo al tempo stesso il diritto alla propria autonomia. Questo strumento ha

ottenuto successo in tempi piuttosto ristretti: al 30 giugno 2017 si contano quasi 4 mila contratti di

rete che coinvolgono più di 19 mila imprese. Si conferma dunque una chance preziosa per le

imprese che intendono valorizzare sinergie con cui rispondere alla crisi. Il secondo capitolo di

questo elaborato si concentra sulla descrizione di questo fenomeno e cerca di capire come il

contratto di rete possa rappresentare una soluzione organizzativa valida per le PMI del nostro

Paese, portando a supporto un caso empirico di successo tra tre imprese del settore vitivinicolo che

hanno formalizzato la loro alleanza attraverso questo strumento. Un altro attore che ha assunto un

ruolo importante in questo contesto è la rete promossa dalla Commissione Europea, costituita nel

2008 col nome di Enterprise Europe Network, attraverso la quale piccole e medie imprese possono

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ottenere servizi di consulenza finalizzati ad aumentare la competitività. L’ultimo capitolo si

propone di dimostrare l’importanza che le partnership hanno assunto nel contesto europeo e in che

modo la Commissione Europea ne sostenga lo sviluppo, portando ad esempio il caso della società

tecnologica Rimac, la quale deve il suo successo proprio alla mediazione offerta dalla Rete

Enterprise Europe.

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1. L’evoluzione storica del rapporto tra l’impresa e l’ambiente esterno.

Nel nuovo paradigma produttivo emerso dopo il Duemila, la crescita dimensionale di

un’impresa viene inevitabilmente affiancata dalla crescita relazionale della stessa: l’ampliamento

dei confini proprietari va di pari passo con l’aumento, in numero o in valore, delle relazioni che

questa intrattiene con altre imprese o soggetti esterni. Un aspetto di notevole rilevanza strategica e

manageriale è il posizionamento della singola impresa all’interno della rete del valore: è importante

definire quali siano le entità dell’ambiente esterno con cui sarebbe opportuno che l’impresa focale

intrattenesse relazioni dirette o indirette e quale sia il ruolo che essa deve svolgere nella divisione

del lavoro, con riferimento alle sue specifiche funzioni e alle risorse in suo possesso. Questa serie

di decisioni che appaiono naturali e scontate sono in realtà un fattore che ha portato ad un enorme

cambiamento nel comportamento e nella struttura delle imprese rispetto agli anni passati. Questo

capitolo si pone l’obiettivo di spiegare perché le imprese oggi siano incentivate a intrattenere

relazioni con l’ambiente esterno e quali siano i fattori che hanno contribuito a questo cambiamento

nell’arco di tempo che va dai primi del Novecento fino ad oggi.

1.1. La produzione di massa: lo sviluppo della grande impresa nel tentativo di

dominare l’ambiente esterno.

Nel corso del Novecento, a opera di Frederick Winslow Taylor e Henry Ford, si sviluppò la

produzione di massa. Questo sistema di produzione, ampiamente studiato e analizzato dagli

economisti, venne attuato da grandi e grandissime imprese e prevedeva la realizzazione di prodotti

standard destinati al consumo di massa, ossia a un consumatore medio interessato più al risparmio

di costo che alla qualità. Il prodotto era infatti realizzato, mediante l’utilizzo di macchinari, con

l’impiego di materie prime a basso costo e attraverso procedure operative più rapide che precise. È

a Taylor che viene attribuita l’introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro (OLS),

ovvero di quell’approccio rivoluzionario che fa affidamento allo studio analitico dei tempi e dei

metodi di lavoro al fine di raggiungere la prestazione ottimale attraverso gli adeguati metodi di

ricerca scientifica: è questo il concetto della one best way (Costa, Gubitta, Pittino, 2014).

L’ambiente esterno non esercita alcun tipo di pressione sull’organizzazione idealizzata dalle teorie

classiche e i soggetti esterni non detengono un potere tale da influenzarne la capacità di pianificare

ogni aspetto in modo oggettivo e razionale.

Henry Ford mise in pratica questa visione deterministica attraverso l’innovazione

organizzativa basata sulla parcellizzazione del lavoro meccanico. Col fordismo nasce dunque la

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grande fabbrica, in cui la produzione diventa una sequenza di operazioni elementari, svolte in modo

ripetitivo da operai poco esperti, mentre la linea di produzione diventa una sequenza di macchine

specializzate. Il successo di questa scomposizione del sistema produttivo in una successione di

lavorazioni semplici si riscontra nell’incremento significativo della produttività, anche di prodotti

elaborati (in linea di principio tutto può essere prodotto a macchina). L’intero ciclo di lavorazione

del prodotto – dagli input al prodotto finito – viene gestito entro i confini della singola impresa.

L’organizzazione assume così una forma più complessa e, parallelamente alla scomposizione del

sistema di produzione in più unità elementari, nasce la necessità di progettare i legami tra macchine

e coordinare le interconnessioni tra i cicli nel tempo e nello spazio, sincronizzando i flussi di

materie prime e semilavorati con quello degli output. Cresce dunque l’importanza delle funzioni di

supporto alla produzione: l’imprenditore non può più gestire autonomamente l’intero sistema che

risulta troppo vasto e differenziato e, per questo motivo, vengono inseriti manager specializzati a

presidio delle diverse aree dell’organizzazione. La logistica, la Ricerca e Sviluppo, la finanza, la

distribuzione diventano tutte funzioni che permettono alle imprese di accrescere la propria

dimensione, creando però delle strutture organizzative via via sempre più articolate e costose da

porre in opera e pianificare che, a loro volta, spingono le imprese ad espandere il proprio potere di

coordinamento sull’ambiente esterno e ad instaurare con esso rapporti stabili e prevedibili.

L’impresa fordista, infatti, è caratterizzata da una scarsa capacità di risposta a eventi non previsti

o non programmati e presta attenzione a ciò che sta oltre i muri della fabbrica per il solo scopo di

ridurre i costi d’uso dell’organizzazione, generati anche da fattori immateriali (conoscenze,

relazioni), oltre che da fattori ben visibili quali macchinari, capannone e magazzino. Le risorse firm

specific delle organizzazioni della produzione di massa sono caratterizzate dalle conoscenze e dalle

competenze dei lavoratori interni all’impresa, che possono dunque essere trasferite a nuove

organizzazioni solo attraverso un training lungo e costoso e che non possono essere nemmeno

replicate facilmente dai lavori stessi quando questi si trovino ad operare in un contesto diverso. È

dunque un know how specifico molto costoso che rappresenta per questo un sunk cost che

irrigidisce l’impresa, impedendole di cambiare percorso qualora il contesto lo richieda, e la spinge

ad accrescere le vendite il più possibile per sfruttare al massimo le economie di scala e le economie

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di regolazione sistemica1. Due fattori del contesto esterno evidenziarono particolarmente come

l’impresa fordista fosse ormai in via di declino:

1. L’aumento smisurato dei volumi di produzione generò una maggiore concorrenza tra le

molte imprese che miravano ad aumentare le proprie quote di mercato, causando un eccesso

di offerta in rapporto alla crescita della domanda.

2. I prodotti standard non corrispondevano più alle esigenze dei consumatori che richiedevano

prodotti diversificati e di qualità.

Da qui la necessità di espandere il controllo e l’influenza anche all’esterno: fornitori, clienti

e finanziatori che, nel capitalismo precedente la produzione di massa, conservavano l’autonomia

di recedere dal rapporto, tendono sempre meno ad avere una posizione puramente esterna

all’impresa. Viene a crearsi un legame di dipendenza reciproca con questi soggetti esterni, la cui

convenienza sta, dal lato dell’impresa, nei costi e nei tempi di riadattamento che una nuova

relazione comporterebbe e, dal lato dei possessori di risorse esterne, nella minor produttività delle

loro risorse che un nuovo contratto comporterebbe (Tunisini, Pencarelli, Ferrucci, 2014). Con

l’intreccio d’interessi che lega le due parti l’identità dei soggetti esterni muta, trasformandoli in

stakeholder2, ma, allo stesso tempo, impresa e consumatori non sono ancora capaci di comunicare

e impresa e concorrenti esprimono poteri pienamente autonomi che cercano di incontrarsi

solamente sul piano delle reciproche convenienze. Al marketing viene affidato il compito di agire

sulla domanda, costruendo rapporti diretti con il consumatore, mentre, sul fronte interno, la

produzione e la Ricerca e Sviluppo cercano di aumentare la varietà di prodotti attraverso strategie

di differenziazione e di innovazione. Negli anni Sessanta e Settanta, con il fordismo maturo, la

fabbricazione non rappresenterà più il problema centrale: l’attenzione del management è rivolta

alle relazioni con l’ambiente esterno e viene dedicato maggiore impegno sul fronte dei servizi

immateriali.

1 Si generano dalla convenienza a centralizzare l’elaborazione delle informazioni e delle decisioni necessarie a gestire le connessioni tecnologiche e organizzative fra le attività sotto un unico centro manageriale e proprietario, per sfruttare il massimo di sinergie, di sincronismo e congiunzioni operative fra le parti. 2 Tutti i soggetti, individui od organizzazioni, attivamente coinvolti in un’iniziativa economica (progetto, azienda), il cui interesse è influenzato dal risultato dell’esecuzione, o dall’andamento, dell’iniziativa e la cui azione o reazione a sua volta influenza il completamento di un progetto o il destino di un’organizzazione.

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1.2. La Lean Production e il coinvolgimento degli attori esterni.

Nel corso degli anni Settanta la produzione di massa entrò definitivamente nella sua fase di

declino: il fordismo ha ormai assegnato alla fabbrica un ruolo di “ordinaria amministrazione” e

l’organizzazione assume un orizzonte strategico assai più vasto e complesso, impegnando il

management sul fronte delle relazioni con consumatori, concorrenti, fornitori e vari attori politici

e sociali presenti nell’ambiente. La fabbrica diventa sempre più meccanizzata, ma a essa si affianca

una crescita altrettanto rapida dell’importanza delle attività terziarie sia all’interno che all’esterno

del circuito della grande impresa (acquisiscono rilievo le figure degli addetti alle vendite, alla

contabilità, al management, ma anche le imprese e i professionisti autonomi che mettono a

disposizione dell’impresa i loro servizi complementari alla lavorazione materiale). Se però, con la

produzione materiale, il bene è trasferibile nel tempo e nello spazio dal produttore che lo offre

all’user, con i servizi (immateriali) viene a mancare questo link disgiuntivo tra domanda e offerta,

per cui la produzione deve avvenire “qui” (nello spazio), e “ora” (nel tempo). Di conseguenza, le

economie di replicazione di cui si può godere attraverso la meccanizzazione della produzione di

un bene materiale sono assai limitate con l’offerta di servizi, che devono mantenere una certa soglia

di qualità da garantire. Emersero inoltre nuove esigenze di qualità da parte dei consumatori, legate

ad aspetti pratici ed estetici (design), che i prodotti standard della produzione di massa non erano

più in grado di soddisfare. L’ambiente esterno, divenuto ormai troppo complesso e variabile per

essere dominato, costrinse le imprese a fronteggiare il cosiddetto productivity dilemma: la scelta

tra una produttività elevata associata a rigidità e una flessibilità della produzione con un sacrificio

di produttività. L’impresa della produzione di massa avrebbe dovuto essere pronta, infatti, ad

abbandonare gli standard sacrificando sunk cost non più sfruttabili.

Nel Giappone del dopoguerra, questi fattori portarono alla formazione di un modello

denominato Lean Production – o produzione snella – che, con una filosofia di adattamento al

contesto ambientale, si propose come alternativo a quello ormai superato della produzione di

massa. Questo modello non fu ideato “a tavolino”, ma la strategia fu per la maggior parte

emergente, fatta di prove ed errori, a partire da un insieme di “modi di fare” e attività svolte nei

diversi impianti produttivi. Nel tentativo di risolvere il problema del rapporto con l’ambiente

esterno, l’impresa della produzione di massa cercava di omologare gli interessi degli attori a quelli

generali da essa perseguiti, mentre le imprese giapponesi puntavano proprio sulla collaborazione

con i soggetti coinvolti a ogni livello dell’organizzazione, includendo anche quelli che agiscono

fuori dal perimetro aziendale in senso stretto (fornitori, concessionari e clienti). Sarà proprio il

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consumatore, ma quello post-fordista, a consentire la traduzione dei punti di debolezza relativi, in

confronto alla produzione di massa, in fonti di vantaggio competitivo. Nella Lean Production è la

domanda ad orientare la produzione: il consumatore diventa il driver del processo aziendale. La

Toyota fu una delle imprese pioniere in questo processo storico di innovazione e,

nell’automobilistico, fece scuola attraverso la sua politica di commercializzazione che attribuiva al

concessionario un doppio ruolo all’interno della rete di vendita: oltre a fornire le informazioni

dall’impresa al cliente, egli opera anche in senso inverso, trasferendo da valle gli ordini con le

specifiche di personalizzazione richieste. Tra l’azienda e il venditore si costruiscono relazioni a

lungo termine, in cui il secondo assume una rilevanza cruciale nel flusso di generazione del valore,

proponendosi come connettore tra l’acquirente e l’impresa. L’ingegnere di produzione della

Toyota, Taiichi Ohno, è considerato il padre di un’altra delle grandi innovazioni di questa impresa

giapponese: l’organizzazione produttiva Just In Time (JIT). Il fine di questa filosofia di produzione

è quello di scoprire e trattare i problemi che impediscono un flusso continuo e regolare per evitare

sprechi di tempo, di manodopera e di superficie: si tratta in pratica di un sistema di gestione delle

scorte ideale in cui tutto il materiale necessario viene reso disponibile “appena in tempo” per

soddisfare la domanda del cliente, ciò viene reso possibile attraverso un sistema produttivo che

conferisce ai consumatori a valle il ruolo di “attivatori” della produzione (logica pull).

Dunque, dalla rigidità della logica gestionale sistemica (appartenente alla grande fabbrica

fordista), si è passati ad una logica interattiva, che garantisce flessibilità attraverso un sistema di

relazioni intersoggettive con i fornitori e con le altre imprese della filiera: nella Lean Production, i

vantaggi della Mass Production vengono combinati con quelli del metodo artigianale, cercando di

evitare il costo eccessivo causato dalla personalizzazione del bene e, allo stesso tempo, di aggirare

le rigidità imposte dalla produzione di massa. Il modello giapponese ha dunque tracciato una strada

di superamento della produzione di massa, mostrando come i rapporti tra l’impresa e gli attori

esterni ad essa non debbano necessariamente essere di contrapposizione, ma, anzi, dimostra che la

cooperazione è uno strumento vantaggioso per sopravvivere in un ambiente competitivo.

1.3. Le reti di imprese.

Rigidità burocratica, lentezza decisionale, disponibilità di risorse eccedenti rispetto alle

effettive esigenze produttive, evoluzione dell’ambiente esterno, diffusione di nuove tecnologie e

globalizzazione dei mercati, rappresentano tutti fattori che hanno portato al passaggio da un

approccio transazionale a un approccio strategico nel quale il numero di livelli gerarchici tende a

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ridursi. Le linee di comunicazione orizzontali e le interazioni tra aziende, in alcuni settori e in

determinate circostanze, hanno garantito performance più soddisfacenti rispetto a quelle offerte da

strutture organizzative tradizionali, di tipo gerarchico. È chiaro come l’esigenza delle imprese sia

quella di ridisegnare i propri confini dando maggior peso alle relazioni interaziendali: questo

orientamento strategico garantisce la flessibilità necessaria ad operare in uno scenario

caratterizzato da elevata incertezza e, allo stesso tempo, permette di concentrare le risorse del core

business dell’azienda per rafforzare le competenze distintive e incrementare il vantaggio

competitivo. La dimensione ridotta delle imprese italiane ha inoltre accentuato la necessità che

queste si mettano “in rete” per contrastare l’accelerazione che l’internazionalizzazione ha avuto

negli ultimi anni e per fronteggiare la crisi finanziaria, creando una “massa critica”. Una rete di

imprese viene definita come un insieme di imprese giuridicamente autonome che, attraverso

reciproci impegni di cooperazione, realizzano in modo consapevole e finalizzato una coordinazione

produttiva, sfruttando gli aspetti di complementarietà tecnica ed economica delle rispettive gestioni

in vista del conseguimento di obiettivi economici congiunti, da cui ritrarre indirettamente dei

vantaggi individuali (Bastia, 1989).

Negli ultimi anni, in particolar modo in Italia, si è posta grande attenzione a questo fenomeno

che ha permesso di far fronte a tre dei maggiori problemi riguardanti le imprese: la necessità delle

PMI di rendersi più competitive, le esigenze delle imprese di internazionalizzarsi e la necessità di

rispondere alla grave crisi economico-finanziaria che ha colpito l’economia mondiale dal

2007/2008. Le PMI, per far fronte alla loro perdita di posizione e d’importanza all’interno di un

mercato sempre più dinamico ed eterogeneo, hanno dato vita a meccanismi di rete tesi alla ricerca

di nuovi partner, anche al di fuori dei confini locali, al fine di combinare risorse, conoscenze e

competenze per superare le problematiche legate alla limitata capacità di finanziamento, alla bassa

competitività e alla scarsa circolazione di conoscenza. Per quanto riguarda la necessità di

internazionalizzarsi da parte delle imprese, la causa può essere attribuita, oltre che al crescente

fenomeno delle globalizzazione, anche al continuo progresso tecnologico: questi due elementi

provocano un elevato incremento dei costi di transazione e rendono i mercati sempre più complessi.

Pur rappresentando un modello organizzativo che mira all’internazionalizzazione delle imprese, le

reti si distinguono dalle multinazionali poiché evitano l’integrazione proprietaria. La crisi

economico-finanziaria mondiale, inoltre, ha fatto emergere nuove esigenze a cui le piccole e medie

imprese (e non solo) sono costrette ad adattarsi: aumento della competitività e incremento

dimensionale rappresentano per molte imprese l’unica fonte di sopravvivenza. È dunque evidente

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come le reti d’impresa, attraverso le innumerevoli relazioni che mettono in atto, rappresentino uno

strumento efficiente ed efficace per accrescere il vantaggio competitivo sia della singola impresa

aderente alla rete sia dell’intero network. Una rete d’imprese non è comunque esente dai seguenti

rischi: comportamenti opportunistici dei partner; elevati e non quantificabili costi di transazione e

di gestione legati alla struttura di governo della relazione e alla distribuzione del potere decisionale;

possibili conflitti di interesse dovuti al fatto che le imprese, facenti parte del network, possono

avere interessi incompatibili; interdipendenza della redditività e della reputazione di ciascuna

impresa. Nel nostro Paese si riscontra la “doppia convergenza tra piccole e grandi imprese”: da un

lato, le grandi imprese ricorrono a collaborazioni interaziendali sempre più intense anche con le

PMI per esternalizzare parte della produzione (mediante subfornitura e outsorcing), dall’altro le

piccole e medie imprese hanno la necessità di ricorrere a rapporti di collaborazione e stipulare

accordi per gestire questo incremento di attività che prima era di competenza delle grandi imprese

(Ricciardi, 2009). La rete è dunque una modalità organizzativa finalizzata a consentire la

specializzazione, la condivisione e la propagazione dei saperi, usando le economie di scala del

grande sistema che essa consente di creare. Essa rappresenta infatti un modello organizzativo

attraverso cui si possono realizzare due obiettivi solo apparentemente dicotomici:

1. Le economie di scala, che sono proprie dei grandi sistemi;

2. Le economie di specializzazione e di flessibilità, che sono, invece, caratteristiche delle

micro-piccole imprese di produzione e del terziario.

Il “modello rete” si colloca, dunque, tra i due poli classici dell’organizzazione industriale: la

gerarchia e il mercato (Tunisini, Capuano, Arrigo, Bertani, 2013). Affinché avvenga un processo

di interazione dinamico tra due o più parti, solitamente sussiste almeno una fra le seguenti

condizioni: la presenza di asimmetrie informative tra i soggetti e la complessità degli obiettivi da

raggiungere, che spiega perché le imprese tendano a cooperare con soggetti dotati di alto valore

competitivo. Attraverso la cooperazione, queste criticità vengono inibite dall’ingresso di diversi

elementi: l’adattamento reciproco, la trasparenza informativa, la fiducia reciproca e l’impegno

(commitment) dei partner. Quest’ultimo concetto rappresenta la dimensione principale in una

relazione interorganizzativa, poiché costituisce a sua volta la base per il passaggio di informazioni

e conoscenze (trasparenza informativa) e misura la disponibilità reciproca a collaborare da parte di

due organizzazioni autonome.

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1.4. I distretti industriali quali promotori dello sviluppo reticolare.

I geographical clusters rappresentano un caso emblematico della tipologia di struttura

organizzativa (rete di imprese) appena descritta. Vengono definiti da Michael Porter (1998) come

“concentrazioni geografiche di imprese e istituzioni che operano nel medesimo campo di attività e

sono in relazione tra loro”. I distretti industriali sono una variante dei clusters che ha raggiunto un

livello molto elevato di presenza e sviluppo in Italia, costituendo un tratto caratteristico

dell’economia del nostro paese. L’aspetto peculiare di questo fenomeno risiede nel fatto che il

processo produttivo non è integrato verticalmente, ma si realizza sulla base della divisione del

lavoro tra imprese collegate nella supply chain, permettendo a ciascuna di specializzarsi in una

determinata fase della filiera produttiva. Gli elementi determinanti per lo sviluppo di un distretto

industriale sono i seguenti:

1. Un’attività dominante di natura industriale (come ad esempio le calzature nel distretto di

Montebelluna): l’attività deve configurare una specializzazione in una determinata

produzione di beni.

2. Una comunità locale costituita da una comunità di persone e da un parallelo sistema

istituzionale. La comunità delle persone deve incorporare un sistema omogeneo di valori

che si è formato nel corso del tempo e che esprime incentivi all’attività imprenditoriale e

all’introduzione di innovazioni; tale sistema di valori viene diffuso e trasmesso attraverso

il sistema istituzionale, ovvero il mercato, l’impresa, la famiglia, le amministrazioni

pubbliche, le associazioni politiche, sindacali e private.

3. Una popolazione di imprese, ciascuna specializzata in una singola fase (o in poche fasi) del

processo produttivo tipico del distretto, il quale si configura come un “caso di realizzazione

localizzata di un processo di divisione del lavoro”.

4. La specializzazione del distretto consiste in imprese che appartengono prevalentemente ad

uno stesso settore industriale, definito in modo da comprendere le ‘industrie ausiliarie’,

come le imprese che producono macchinari o che prestano servizi ad altre imprese, e che si

configura come filiera o settore verticalmente integrato.

All’interno del contesto distrettuale si intreccia un elaborato reticolo di relazioni che alimenta

la circolazione delle conoscenze: ogni nodo della rete distrettuale può fungere da relay cognitivo

per la trasmissione delle conoscenze anche tra due imprese che non sono collegate direttamente fra

loro, ma intrattengono relazioni con il medesimo terzo soggetto. La produzione di conoscenza

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costituisce infatti uno dei fenomeni che ha decretato il successo dei distretti industriali, capaci di

operare come sistemi locali di innovazione. I meccanismi di knowledge transfer più frequenti si

classificano in tre categorie: l’imitazione di un aspetto innovativo di un particolare prodotto; il

trasferimento attraverso relazioni verticali nella filiera produttiva o accordi orizzontali; la mobilità

delle risorse umane: le persone acquisiscono conoscenze tacite nel corso della loro esperienze e le

conservano quando cambiano luogo di lavoro. La capacità delle imprese di assorbire le conoscenze

estranee ad esse dipende dalla prossimità cognitiva delle aziende che operano nel medesimo

contesto distrettuale e dalla percezione di omogeneità socioculturale che accomuna le persone che

operano nelle imprese e nelle istituzioni locali.

I cluster territoriali, come tutte le modalità organizzative, presentano limiti e rischi: si fa

riferimento alla maggiore difficoltà nel controllo della qualità di processo e di prodotto, alla

possibile presenza di elevati costi di transazione e ai rischi connessi ad un’eccessiva dipendenza

dai partner che potrebbero assumere comportamenti opportunistici. La competitività di un sistema

economico infatti non dipende più solamente dai costi diretti di produzione (come si riteneva nel

primo capitalismo fordista), ma anche e soprattutto da fattori organizzativi, gestionali e di ricerca.

La qualità dei processi di governance dipende in particolare dalla capacità dell’impresa di acquisire

e gestire informazioni, generare conoscenza e processi innovativi. Dunque, un’organizzazione che

si trova ad interagire con altri soggetti, sia al proprio interno che all’esterno, deve gestire una

molteplicità di transazioni che comportano dei costi definiti appunto costi di transazione e, tra

questi, i costi d’uso del mercato, ovvero il complesso di oneri che un’impresa si trova a sostenere

per interagire, a vario titolo, con i soggetti esterni (gestione dei contratti con fornitori ed acquirenti).

Ronald Coase, Nobel per l’economia nel 1991, nell’articolo “The nature of the firm”, osservò

che la scelta di gestire relazioni economiche tramite il mercato o all’interno dell’azienda dipende

infatti dalla minimizzazione dei costi di transazione: la scelta della struttura organizzativa deve

essere basata sul confronto dei costi di transazione interni ed esterni3. Pertanto, le attività vengono

verticalmente integrate quando i costi necessari per organizzarle sono inferiori a quelli sostenuti

dall’impresa quando si rivolge al mercato (Coase, 1937). Williamson individuò i tre fattori

principali che influenzano i costi di transazione: il grado di specificità delle risorse investite nella

relazione (o idiosincrasia degli investimenti); la frequenza delle transazioni; l’incertezza legata sia

3 Sono interni quei costi che si riferiscono alla trasmissione delle informazioni tra i vari livelli gerarchici; sono esterni i costi sostenuti per la determinazione dei termini della transazione (costi di negoziazione) e i costi di ricerca relativi alle spese necessarie per ottenere informazioni.

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all’opportunismo degli attori coinvolti, sia alla complessità ambientale. Attraverso la combinazione

di questi fattori si possono verificare diverse situazioni in cui risulterebbe più efficace la gestione

dell’organizzazione secondo le modalità del mercato o della gerarchia: in situazioni di bassa

specificità degli investimenti e di elevata frequenza delle transazioni risulta più efficiente la via del

mercato poiché le relazioni non presentano livelli di complessità tali da richiedere sforzi per ridurre

i rischi di opportunismo, mentre l’elevata frequenza ripartisce il costo su una quantità estesa di

transazioni. Viceversa, in condizioni di incertezza, di investimenti specializzati e di transazioni

poco frequenti, il ricorso alla gerarchia risulterebbe più efficace per ridurre il rischio di

comportamenti opportunistici (Williamson, 1985).

1.5. La dimensione globale della rete.

I profondi mutamenti che hanno investito il sistema organizzativo delle imprese (legati, in

particolare, alla forte accelerazione dei processi di internazionalizzazione della produzione e alla

pressione competitiva dei Paesi di nuova industrializzazione) hanno fatto superare i modelli

organizzativi di tipo spontaneo basati sulla contiguità territoriale e sulla specializzazione settoriale.

Il processo di terziarizzazione, che ha riguardato anche i distretti, ha portato allo sviluppo di nuovi

cluster produttivi, spesso internazionalizzati. Nell’economia contemporanea, dunque, le imprese

più dinamiche non si limitano a collaborare con i partner situati nel medesimo contesto locale, ma

sono proiettate in una dimensione internazionale della competizione. La globalizzazione ha reso

sempre più ininfluenti le barriere geografiche alla circolazione delle merci, delle conoscenze, delle

persone e dei capitali, rappresentando al tempo stesso una minaccia per chi la subisce e

un’opportunità per coloro che assumono un comportamento attivo nei suoi confronti, definendo le

proprie scelte localizzative per ogni specifica attività della catena del valore. Lo spazio

internazionale rappresenta oggi il “normale” contesto in cui operano le imprese, le quali sono libere

di scegliere di operare in un determinato territorio se questo esprime un valore differenziale di

qualche tipo. Le imprese che decidono di entrare in un nuovo paese nell’ambito del proprio

sviluppo sul mercato internazionale si troveranno solitamente in una posizione di svantaggio

rispetto a quelle imprese che operano già da tempo sul mercato domestico. Queste ultime possono

infatti beneficiare di una migliore conoscenza del mercato, di relazioni con i clienti locali, di una

consolidata supply chain ecc. Per riuscire a superare questi ostacoli, un’impresa può costruire il

proprio vantaggio competitivo sulla base della configurazione internazionale della propria rete del

valore. Queste manovre di crescita vengono realizzate sempre più frequentemente mediante accordi

e reti d’imprese e sempre meno mediante investimenti diretti esteri, pianificati e realizzati

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all’interno di una singola impresa. I vantaggi che derivano da queste strategie di

internazionalizzazione possono essere riassunti nei seguenti punti:

1. Vantaggi di costo: costo del lavoro, costi di trasporto e di comunicazione, grado di

tassazione e incentivi per gli investimenti. Ad esempio, imprese statunitensi ed europee

delocalizzano in misura sempre maggiore le proprie attività in paesi in cui il costo del lavoro

è inferiore, a parità di competenze del singolo.

2. La disponibilità di capacità locali difficilmente riproducibili in altri contesti permettono di

realizzare rapporti di collaborazione e di condividere attività di ricerca.

3. Le caratteristiche del mercato nazionale possono consentire di sviluppare offerte

differenziate orientate verso segmenti di mercato diversi.

Uno specifico contesto locale non perde d’importanza per le “sue” imprese a causa della

globalizzazione, ma viene indubbiamente posta una notevole pressione nel rapporto tra impresa e

ambiente locale. Dunque, il contesto territoriale ha valore e può rappresentare una fonte di

vantaggio competitivo di entità maggiore quando è in grado di partecipare alla rete globale di

produzione, utilizzo e circolazione delle conoscenze (Tunisini, Pencarelli, Ferrucci, 2014).

1.6. I modelli più recenti di condivisione della conoscenza: la open innovation e le

tecnologie di social networking.

I ritmi accelerati di cambiamento tecnologico e le pressioni indotte dalle trasformazioni

globali hanno conferito alle relazioni tra attori un’importanza ancor più decisiva per la creazione e

l’utilizzo della conoscenza e la realizzazione di innovazioni, spesso con considerevoli impatti

competitivi e sociali (Costa, Gubitta, Pittino, 2014). La open innovation è un paradigma gestionale

secondo cui la capacità innovativa di un’impresa viene alimentata dall’impiego intenzionale di

flussi di conoscenza in entrata e in uscita, combinando idee sviluppate internamente con idee

sviluppate all’esterno e ha come scopo quello di accelerare il processo di creazione e

commercializzazione delle innovazioni. L’adozione di un modello così fortemente indirizzato

verso l’innovazione, richiede un significativo ripensamento dei processi organizzativi da parte di

un’impresa e pone maggiore attenzione sulla funzione interna di ricerca e sviluppo. È richiesta, da

parte dell’organizzazione, la capacità di saper utilizzare gli adeguati sistemi operativi per la

gestione della conoscenza che operino a livello interno, ma anche a livello di processi esterni,

consentendo di salvaguardare i canali di accesso alle conoscenze dei partner. Le conoscenze

acquisite vanno poi tradotte, sviluppate e conservate in innovazioni vere e proprie che possiedano

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un valore di mercato. Questo approccio aperto all’innovazione non è prerogativa delle grandi

imprese, ma viene praticato anche dalle aziende di piccola e media dimensione che, accedendo alle

risorse e competenze altrui, riescono a colmare lo svantaggio dimensionale nelle fasi di generazione

della conoscenza. Le relazioni di condivisione che si creano in questi contesti avvengono grazie

alle possibilità di connessione offerte dalle tecnologie web. Internet ha ridotto i costi di transazione,

rendendo possibile la condivisione dei beni su una scala infinitamente più grande rispetto al

passato. Un esempio molto significativo in questo senso sono i progetti open source4, caratterizzati

dalla presenza di un software che può essere aggiornato e migliorato da parte di programmatori

indipendenti, mediante l’applicazione di apposite licenze d’uso. Il movimento open source ha

favorito a sua volta lo sviluppo del fenomeno dell’open content5, di cui Wikipedia è un esempio.

La diffusione di questa filosofia ha trovato applicazione, in alcuni casi, in veri e propri modelli di

business in cui l’adesione all’organizzazione è aperta, quindi le dimensioni della comunità virtuale

possono essere molto più grandi rispetto a una rete d’imprese tradizionale: si tratta di gruppi di

persone che interagiscono attraverso le tecnologie della comunicazione e condividono idee,

esperienza e valori, consentendo elevati livelli di flessibilità e dinamismo a livello operativo.

4 Il termine open source significa letteralmente “codice sorgente aperto”. 5 Questo fenomeno si riferisce alla possibilità di disporre liberamente di contenuti editoriali quali testi, immagini, video e musica.

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2. Gli strumenti a supporto delle alleanze – il contratto di rete.

Nell’orizzonte di crescita, un’impresa che intrattiene relazioni collaborative con altri soggetti

esterni può scegliere di sviluppare il proprio campo d’azione espandendosi all’interno del settore

in cui già opera o in settori più o meno affini: le strategie che coinvolgono questo tipo di decisioni

vengono definite corporate strategies e si concretizzano nella scelta dei prodotti da realizzare e dei

mercati in cui essere presenti. Un’impresa può dunque crescere all’interno del settore in cui già

opera, sfruttando l’esperienza e le conoscenze acquisite all’esterno oppure può espandersi in altri

settori attraverso lo sviluppo di nuovi prodotti e/o mercati: le partnership rappresentano in ogni

caso uno strumento a supporto delle strategie corporate. Le reti d’imprese costituiscono un

fenomeno sempre più comune e vengono costituite attraverso i contratti di rete da parte di imprese

di ogni settore e ogni dimensione che intendono perseguire obiettivi strategici di crescita,

combinando relazioni di scambio, gerarchia e condivisione. Questo capitolo offre una panoramica

delle motivazioni che spingono le imprese a stringere accordi con i partner, concentrando

l’attenzione sulle reti di imprese e sul contratto di rete – introdotto per la prima volta in Europa

proprio dal nostro Paese –, che rappresenta uno strumento di grande rilevanza per le piccole e medie

imprese che intendono internazionalizzarsi o accrescere la propria competitività nel mercato di

riferimento. Il capitolo si conclude con un esempio pratico che dimostra come il contratto di rete

abbia avuto un esito positivo per tre aziende del settore vitivinicolo.

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2.1. I drivers delle diverse strategie di collaborazione.

Un’alleanza viene definita come un accordo tra due o più imprese istituzionalmente

indipendenti allo scopo di creare uno strumento di coordinamento congiunto (Costa, Gubitta,

Pittino, 2014). Questo termine generico identifica una vasta gamma di rapporti di collaborazione

che differiscono sotto diversi aspetti. In alcuni casi, le relazioni sono caratterizzate da una forte

interazione sociale tra le aziende partner, che può derivare dal fatto che i manager si conoscono o

hanno collaborato in precedenti occasioni. Sotto questa ipotesi, le imprese cooperano senza

formalizzare il loro rapporto: il rispetto degli obblighi si fonda sui legami fiduciari tra i partner e

sull’importanza della reputazione all’interno della rete di relazioni fra tutti i partecipanti. È evidente

come questo tipo di alleanza sia più adatta a governare situazioni che presentano elevati gradi di

instabilità e si proiettano in una prospettiva temporale di medio o lungo periodo. All’estremo

opposto, un rapporto di alleanza può prevedere un flusso esplicito di capitali tra i partner da cui si

genera un’organizzazione che assume una vera e propria indipendenza strategica e organizzativa

dalle aziende che l’hanno creata. In questo caso si tratta di alleanze in forma di cooperative equity:

la joint venture rappresenta la modalità tipica con cui si realizzano questo tipo di accordi. Nello

spazio intermedio tra queste due forme estreme di coordinamento, si collocano diversi strumenti di

tipo contrattuale i cui contenuti possono essere più o meno ampi riguardo alle attività coinvolte e

dettagliati sul piano delle regole concordate. Questi meccanismi di coordinamento coinvolgono

imprese di ogni dimensione: le grandi imprese tendono a fare affidamento sui partner che siano in

grado di fornire supporto sul piano produttivo e tecnologico, mentre le piccole imprese,

specialmente quelle operanti in mercati molto competitivi e che offrono prodotti altamente

specializzati, sono portate a sviluppare partnership con imprese che possano fornire risorse

intangibili, come servizi commerciali e di marketing o know how tecnologico.

Le motivazioni che possono spingere le imprese ad avviare accordi di collaborazione sono

varie e molteplici. Nel più comune dei casi, le imprese – soprattutto quelle di grande dimensione –

ambiscono ad una maggiore efficienza attraverso la realizzazione di più ampie economie di scala,

stipulando accordi orizzontali in ambito produttivo o verticali con fornitori disponibili a proporre

prezzi minori per volumi di produzione più elevati. In altre occasioni, le imprese sono spinte a

collaborare per avere accesso a risorse complementari (conoscenze innovative detenute da altre

imprese) in modo da rafforzare la propria posizione nel mercato e poter offrire prodotti differenziati

ai clienti. Nei settori ad alta tecnologia, come il settore informatico o farmaceutico, la realizzazione

congiunta di progetti di Ricerca e Sviluppo è un fenomeno di grande rilievo, che permette di

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condividere, allo stesso tempo, le conoscenze innovative e i rischi e i costi che derivano da tali

attività. Un’altra delle principali motivazioni può essere la volontà di espansione in un nuovo

mercato che può avvenire tramite un accordo con un’impresa che già opera all’interno del settore

di interesse e consente di affrontare minori barriere all’entrata. La necessità di accedere a un

mercato nuovo può anche riguardare l’inserimento in un mercato estero: in questo caso l’impresa

può attuare un’alleanza strategica con un partner locale che fornisca conoscenze relative al contesto

economico del luogo. In molti paesi, infatti, sono presenti particolari vincoli normativi che

influenzano le decisioni strategiche delle multinazionali.

Quando invece un’impresa è motivata dalla volontà di rafforzare la posizione nel proprio

mercato di riferimento per far fronte a un’intensità troppo elevata della competizione, i vantaggi

principali della cooperazione si riferiscono alle cinque forze competitive di Porter e possono essere

così riassunti:

1. Quando due imprese appartenenti allo stesso settore collaborano, aumentano il loro potere

contrattuale nei confronti dei fornitori, che tuttavia, a loro volta, beneficiano della riduzione

dei costi dovuta alla standardizzazione delle esigenze di approvvigionamento delle imprese

partner.

2. La cooperazione aumenta il potere contrattuale delle imprese nei confronti della clientela,

permettendo alle prime di mantenere o aumentare il livello dei prezzi, poiché sarà più

difficile per i clienti reperire altrove i beni o i servizi desiderati. Anche i clienti potrebbero

beneficiare di una riduzione dei costi causata della standardizzazione degli input che

permette loro di gestire il magazzino in maniera più efficiente.

3. I concorrenti che non partecipano all’accordo si ritroveranno in una posizione di svantaggio

competitivo.

4. I potenziali entranti, allo stesso modo, non beneficiano dei vantaggi derivanti dalla

cooperazione.

5. Gli incrementi di efficienza che derivano dalla cooperazione disincentivano i clienti a

cercare prodotti sostitutivi (Johnson, Whittington, Scholes, 2014).

Una volta stabilita la forma più idonea di collaborazione, è necessario provvedere alla

costituzione e manutenzione dell’alleanza, predisponendo adeguati sistemi operativi per la

distribuzione dei risultati e scegliendo i sistemi di integrazione e coordinamento opportuni, senza

tralasciare la definizione chiara ed esplicita dei meccanismi di risoluzione dei contrasti. Dirigere

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un’alleanza non è infatti un compito di facile gestione per il management, ma adottando una certa

cautela nell’amministrazione di alcuni punti critici, è possibile aumentare le probabilità di una

collaborazione di successo. Di seguito l’elenco di alcune precauzioni che il management dovrebbe

adottare:

1. Limitare la propensione alla replica organizzativa: è presente il rischio di appesantire le

funzioni operative quando l’alleanza assume una struttura organizzativa identica a quella

delle aziende che l’hanno promossa (parent);

2. Salvaguardare l’indipendenza dell’alleanza nella gestione delle risorse e nella

pianificazione delle proprie attività;

3. Garantire la ridondanza di risorse: l’alleanza deve poter disporre di risorse eccedenti il

fabbisogno operativo normale delle organizzazioni parent;

4. Individuare i meccanismi di coordinamento appropriati, in base alle forme di

interdipendenza che legano i partner.

A titolo esemplificativo è possibile individuare alcune tra le forme contrattuali più comuni a

supporto delle alleanze: il franchising, il licensing, il cartello, il consorzio, l’associazione in

partecipazione, l’associazione temporanea d’impresa e il contratto di rete. Il focus di questa analisi

verterà proprio su quest’ultimo, data la vasta diffusione di questo strumento, disciplinato in Italia

nel 2010 (per la prima volta in Europa). I risultati dell’indagine condotta nel 2014 dall’Eurostat, in

collaborazione con l’Istat, attestano che in Italia le imprese manifatturiere e di servizi superano di

poco la cifra di 3,7 milioni: per il 95% (ovvero 3.527.452) si tratta di microimprese con un numero

di addetti compreso tra 1 e 9. Le PMI, dunque, rappresentano il 99,9% del totale, rispetto alla

restante percentuale costituita dalle grandi imprese (cioè quelle con un numero di addetti superiore

a 250). Questi dati appoggiano la scelta effettuata dall’Italia nel maggio 2010 di approvare la

Direttiva Europea (adottata nel giugno 2008) sullo Small Business Act (SBA): si tratta di un

documento comunitario che invita i Paesi membri a favorire e tutelare le piccole imprese, creando

le condizioni favorevoli alla crescita di queste attraverso la semplificazione del quadro legislativo

e amministrativo dell’Unione Europea e degli Stati membri. Lo SBA è basato su dieci principi per

guidare la formulazione delle politiche comunitarie e nazionali e su misure pratiche per la loro

attuazione che vanno dagli interventi fiscali all’innovazione tecnologica, dall’accesso al credito

all’efficienza energetica, fino alla facilitazione delle PMI agli appalti pubblici. Lo Small Business

Act tende a garantire non soltanto una crescita in termini quantitativo-dimensionali (aumento degli

addetti, del fatturato, ecc.), ma soprattutto in termini qualitativo-relazionali (individuazione di

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nuovi mercati di sbocco, sperimentazione di nuovi prodotti, ecc.) al fine di sviluppare e creare reti

d’impresa. Con questo obiettivo infatti è stato istituito in Italia il contratto di rete, che ha permesso

di dare forma e vita ai network d’impresa, frutto della volontà di avviare collaborazioni su

programmi condivisi, monitorabili e verificabili. A otto anni dalla loro introduzione, i contratti di

rete continuano a diffondersi con grande rapidità all’interno del tessuto produttivo italiano. Al 30

giugno 2017 si contano quasi 4mila contratti di rete che coinvolgono più di 19mila imprese. Il

successo di questo fenomeno lo ha portato ad avere rilevanza anche sul piano macroeconomico:

nel 2015 le imprese in rete contavano 372mila addetti e generavano 89 miliardi di euro di fatturato.

2.2. Il contratto di rete: la disciplina, gli elementi strutturali, i vantaggi.

Con il contratto di rete due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più

attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca

capacità innovativa e la competitività sul mercato e a tal fine si obbligano, sulla base di un

programma comune di rete, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio

delle proprie imprese ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale,

commerciale, tecnica o tecnologica, ovvero ancora ad esercitare in comune una o più attività

rientranti nell’oggetto della propria impresa (Calabrese, Bosco, 2015). Può anche essere prevista

nel contratto l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune

incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto o di singole

parti o fasi dello stesso. Il contratto di rete può essere stipulato da imprenditori, purché iscritti

regolarmente nelle sezioni previste dal registro delle imprese, senza alcun limite di numero, settore,

tipologia o dimensione. Sono invece privati della possibilità di partecipare al contratto di rete i

liberi professionisti e le pubbliche amministrazioni nell’ambito delle ordinarie funzioni da esse

esercitate. Questo limite però non impedisce che una volta costituita una rete, questa non possa

convenzionarsi con possibili terzi professionisti o con la pubblica amministrazione (che

partecipano alla rete in via indiretta, senza beneficiare di agevolazioni fiscali e finanziarie). Il

contratto di rete deve contenere la definizione di un programma di rete che descriva in maniera

analitica i diritti e gli obblighi assunti da ciascun partner, la modalità di realizzazione dell’obiettivo

comune e, in caso sia presente un fondo patrimoniale comune, la misura e i criteri dei conferimenti

iniziali e degli eventuali contributi successivi, nonché le regole di gestione del fondo stesso. Il

programma di rete ha dunque lo scopo di gestire e governare la complessità dei rapporti tra le varie

parti, in modo tale da garantire la coerenza tra la struttura interna, l’innovazione del prodotto e la

competitività presente sul mercato. Il vantaggio maggiore che offre il contratto di rete per una

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impresa che ne fa parte è quello di beneficiare della cooperazione, conservando però al tempo

stesso il proprio diritto all’identità e all’autonomia: i partner continuano a svolgere la propria

attività imprenditoriale, sfruttando la collaborazione per svolgere solo determinate attività comuni,

con lo scopo di migliorare la capacità complessiva dei partecipanti. Le singole imprese si

garantiscono così il grande vantaggio di accedere alla conoscenza altrui e di poter entrare in nuovi

mercati, condividendo costi e strategie e fruendo dei vantaggi fiscali previsti dalla disciplina di

settore.

Tra il 2011 e il 2015, il contratto di rete ha avuto un impatto positivo e significativo sulla

performance delle imprese che vi hanno aderito, in un contesto caratterizzato da una profonda

recessione e da una consistente riduzione della base produttiva del paese: il vantaggio non si è

manifestato in un aumento del fatturato o dell’occupazione, ma in un calo meno marcato di quanto

sarebbe accaduto in assenza della rete. Elaborando i dati di InfoCamere e Istat emerge che a

distanza di un anno dall'entrata in Rete, il vantaggio in termini di variazione di addetti dell'impresa

è stato in media pari a +5,2 punti percentuali; +8,1 dopo due anni; +11,2 dopo tre anni. L'impatto

sulla dinamica del fatturato è altrettanto rilevante: per chi si è aggregato si registrano +7,4 punti

percentuali dopo un anno dall’ingresso in Rete, +6,6 dopo due anni, +14,4 dopo tre anni. Il contratto

di rete si scioglie nel momento in cui recede un partecipante la cui collaborazione è essenziale per

il raggiungimento dello scopo comune. Allo stesso modo, la sopravvenuta impossibilità di svolgere

il programma di rete, costituisce causa di scioglimento del contratto di rete. I dati evidenziano

come, mediante il contratto di rete, abbiano beneficiato le micro, le piccole e le grandi imprese,

mentre per le medie l’effetto è stato significativamente minore. Lo sfruttamento dei vantaggi

dell’adesione a una rete ha permesso alle imprese non solo di competere più attivamente nel

mercato in un periodo di crisi, ma di investire di più e di raggiungere maggiori livelli di efficienza

produttiva, adottando strategie più aggressive.

2.3. Una classificazione del modello reticolare.

Le reti di imprese assumono una tipologia di configurazione diversa in base alla natura delle

relazioni che sussistono tra le parti. È dunque possibile identificare modelli di coordinamento di

tipo contrattuale, giuridico, di mercato o sociale. Questa analisi si concentra su quelle forme

reticolari caratterizzate dalla presenza di imprese di piccole dimensioni e tra le quali non si

riscontrano partecipazioni di controllo. Una prima suddivisione è data dalla gerarchia dei rapporti

che si instaurano tra le imprese: si definiscono reti a “stella” quelle configurazioni caratterizzate

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dal coordinamento di un’impresa centrale rispetto alle altre, con le quali essa stipula accordi

bidirezionali; sono invece denominate reti “integrate” quei modelli in cui si riscontra un’intensità

più elevata delle relazioni tra tutti i nodi della rete (potrebbe comunque esistere un’impresa leader

per competenze e capacità di coordinamento). La stabilità dei rapporti e della gestione del

coordinamento da parte dell’impresa guida dipende necessariamente dalla qualità dei partner, che

vengono scelti secondo di criteri di efficienza economica e produttiva, capacità di innovazione,

problem solving e di relazione. In base alla formalizzazione dei rapporti, le reti vengono suddivise

in due tipologie: la rete burocratica fonda il proprio coordinamento su contratti di scambio o

associazione, che definiscono determinati obblighi e regole di controllo (ad esempio, il contratto

di franchising); la rete sociale, al contrario, basa le proprie relazioni sulla fiducia reciproca e sono

caratterizzate da scambi informativi e normativi non formalizzati contrattualmente. La descrizione

di questi modelli dimostra già da sé come la rete sia un sistema capace di mantenersi attivo e vitale

in un contesto caratterizzato da forte instabilità, ma, affinché tale sistema possa realizzarsi è

necessario che ogni impresa partecipante apporti un contributo effettivo e che la rete sia

caratterizzata da versatilità e sappia modificare la propria organizzazione in tempi molto rapidi.

Secondo l’art. 42, comma 2-bis, Legge n. 122/2010, le tipologie di reti d’impresa predisposte sono

tre e si distinguono per obiettivo e orientamento:

1. La rete di collaborazione si forma tra imprese che scambiano informazioni sul mercato per

lo svolgimento di un’attività economica comune, con l’intento di incrementare le vendite

(attraverso politiche di marketing comuni), ridurre i costi (condividendo infrastrutture e

attrezzature) e utilizzare al meglio le risorse.

2. La rete di scambio di informazioni e di coordinamento non prevede l’esistenza di fondi

comuni o di un organismo che gestisca le relazioni tra i partner, ma ha come solo scopo

l’apporto di competenze tra i singoli, ovvero di informazioni e prestazioni di tipo tecnico e

operativo.

3. La rete associativa che si costituisce per l’esercizio in comune di attività imprenditoriali si

caratterizza per la presenza di un contratto associativo e viene costituita da un fondo

patrimoniale, oltre che da organi di gestione comuni e denominazione propria (orientata

all’esercizio di un’attività imprenditoriale comune).

Inoltre, le reti d’impresa assumono strutture diverse in base al tipo di collaborazione che si

instaura tra le imprese partner, che, a sua volta, dipende dalla collocazione delle aziende all’interno

della filiera e dalle attività che queste svolgono. Possiamo dunque individuare collaborazioni tra

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imprese che operano nello stesso settore e svolgono la stessa attività (orizzontali pure) o svolgono

attività complementari (orizzontali spurie), collaborazioni tra imprese a monte e a valle della filiera

(verticali) o, in ultimo, collaborazioni trasversali, realizzate attraverso relazioni tra imprese e

organizzazioni di ricerca e formazione allo scopo di diversificare i prodotti e cogliere le opportunità

emergenti di mercato (Calabrese, Bosco, 2015).

2.4. La valutazione del partner.

La scelta del partner è una fase critica del processo di costruzione dell’alleanza: è una

decisione fondamentale per garantirne il successo e la stessa sopravvivenza, dato che la sostituzione

del partner comporta necessariamente la conclusione della collaborazione. Il partner deve essere

scelto sulla base della sua capacità cooperativa e di fornire risorse (tecnologiche, produttive,

finanziarie) e competenze (di mercato, di marketing, internazionali) necessarie alla costruzione di

un vantaggio competitivo, oltre che sulla base della sua importanza in termini di quota di mercato,

portafoglio clienti e capacità negoziale con le autorità locali. La capacità cooperativa viene

misurata in riferimento a elementi come: la predisposizione del partner a conferire le risorse

necessarie, il suo atteggiamento verso la collaborazione, l’apertura informativa, la reputazione e

l’affidabilità dimostrate anche nelle precedenti esperienze di collaborazione, la condivisione degli

obiettivi, della forma dell’alleanza e delle forme di governance. Un altro concetto chiave per la

valutazione è quello di compatibilità strategica, che presuppone la complementarità delle risorse e

delle competenze apportate dalle imprese alleate allo scopo di conseguire sinergie e vantaggi

competitivi sostenibili e di colmare le debolezze di ciascun partner, coniugando le rispettive attività

della catena del valore. Ciò avviene, ad esempio, quando un’impresa conferisce un prodotto

innovativo e l’altra un’adeguata forza di vendita o le conoscenze per entrare in un nuovo mercato.

È opportuno che la necessità di cooperare sia reciproca per non incorrere in situazioni scomode di

potere-dipendenza: ogni partner deve essere in grado di offrire qualcosa di cui l’altro ha bisogno.

Un altro elemento che va considerato è la compatibilità culturale, ovvero la sensibilità verso le

diversità culturali e l’attitudine di ciascun partner a comprendere la cultura dell’altro e la

predisposizione a trovare un compromesso tra le differenze culturali (Marchi, Vignola, 2013).

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2.5. Partnership Italia: l’esempio di successo delle rete tra tre imprese nel settore

vitivinicolo.

Il settore vitivinicolo italiano rappresenta una realtà assai frammentata e complessa di cui

fanno parte soggetti differenti, costituiti principalmente da aziende vitivinicole, cantine e

imbottigliatori, organizzati in alcuni casi in filiere. Nel periodo di interesse che va dal 2010 al 2014,

questo comparto si è mostrato capace di resistere alla fase di recessione: incrementando il fatturato

totale e le vendite all’estero (l’export è cresciuto del 7,7% nel 2013), ha registrato il suo picco

massimo nel 2011 con un tasso di crescita del fatturato di 9,1%6. L’industria vitivinicola

rappresenta in questo periodo uno dei settori più floridi e trainanti dell’economia italiana. Si è

tuttavia registrata una riduzione del numero di imprese pari al 51,5% tra il 2000 e il 2010 (da

791.000 a 384.000 aziende) e un ulteriore calo di 10.000 unità tra il 2010 e il 20147: la ragione può

essere ricondotta al fatto che le aziende vitivinicole di piccola dimensione e con una brand

awareness non ancora ben sviluppata, si siano trovate in difficoltà di fronte ad alcuni cambiamenti

nello scenario, dovuti principalmente alla riduzione della domanda nazionale di vino da parte dei

consumatori che si sono dimostrati più attenti agli aspetti salutistici e alla ricerca della qualità. È

inoltre diminuita la superficie totale dei vigneti in Italia del 18,4% (nel 2000 occupava 792.440

ettari a fronte di 646.485 nel 2013)8. Il rischio di uscita dal mercato è chiaramente forte per quelle

imprese che non sono introdotte nei mercati esteri e non possono sfruttare lo sbocco garantito

dall’export. La grande distribuzione moderna ha individuato opportunità di inserimento nel

mercato dei vini di qualità, attraverso l’aggiunta di un assortimento più ampio e profondo in

appositi reparti dedicati ai vini all’interno dei supermercati e ipermercati. Il consumatore ha iniziato

a consumare vino in casa in situazioni conviviali con amici, contro una riduzione delle uscite al

ristorante e dell’acquisto di vini in enoteca. Anche la tecnologia web 2.0 ha fatto l’ingresso in

questo scenario, permettendo alle start up del mondo online di sviluppare piattaforme su internet

per la consegna a domicilio di bottiglie di vino. Le aziende vitivinicole hanno così dovuto

fronteggiare una serie di decisioni di natura strategico-tattica. Spesso le aziende in questione sono

medio-piccole, carenti dal punto di vista strutturale e con una scarsa capacità finanziaria e di

dotazione di risorse manageriali. Per affrontare la complessità del mercato, la soluzione può dunque

essere individuata nello sviluppo di partnership in grado di aumentare la forza competitiva, creando

una massa unica di risorse e idee. Si pensi ad esempio alle attività di condivisione del processo di

6 Fonte: elaborazioni Ufficio Studi Mediobanca, 2014, (in sito Internet: www.mbres.it). 7 Fonti: UNIONCAMERE, Infocamere, Movimprese. 8 Fonte: Il Vino in Cifre, 2015, (in sito Internet: www.uiv.it).

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acquisto di materie prime (come le bottiglie di vetro) che consentono di sfruttare economie di scala

d’acquisto, o ancora alla possibilità di condividere le risorse finanziarie e le conoscenze in ambito

tecnologico e innovativo (Calabrese, Bosco, 2015).

Tre imprese italiane operanti nel settore vitivinicolo hanno colto questa opportunità e hanno

sviluppato una rete d’imprese, denominata “Partnership Italia”, per far fronte alla frammentazione

del settore e alla crisi delle vendite interne: si tratta dell’azienda toscana Barone Ricasoli, della

veneta Tedeschi e della piemontese Poderi Luigi Einaudi che sono specializzate rispettivamente

nella produzione del Chianti classico, dei vini della Valpolicella e del Barolo. Il progetto di

partnership è stato lanciato nel 2010 da parte dell’azienda Barone Ricasoli, il cui management si

rese conto, in seguito ad un’analisi delle condizioni di mercato, della necessità di dover attuare

delle nuove strategie per affrontare i cambiamenti in atto nel settore vitivinicolo. Di fronte ad uno

scenario di forte concorrenza, anche da parte dei canali più moderni di distribuzione, non era più

sufficiente puntare sulla qualità e sulla potenza del brand, ma il mercato (in particolare il canale di

distribuzione che rifornisce i punti vendita come ristornati, bar, hotel) richiedeva una rinnovata

flessibilità in termini di assortimento e di gestione delle forniture. La clientela voleva comprare

quantità minori e con minore frequenza (quando la scorta di vini era effettivamente terminata)

secondo la logica just in time, con l’obiettivo di ridurre al minimo il rischio di invenduto e di

appesantire il proprio cash flow. Di questo passo, le cantine che si consolidavano sul mercato erano

quelle che producevano vino ritenuto di più facile vendita, a scapito di altre aziende più deboli.

Con lo scopo di rafforzare il rapporto di collaborazione con la forza vendite, nel 2010 venne

coinvolta l’azienda Poderi Einaudi e, nel 2012 si aggiunse la veneta Tedeschi. Questo progetto di

rete d’imprese rappresenta una collaborazione orizzontale che vede cooperare tre aziende non

direttamente concorrenti (producendo vini di tre aree produttive differenti) nel tentativo di

accrescere la propria forza competitiva e di condividere i costi della gestione della supply chain.

La collaborazione è stata formalizzata nel novembre 2014 attraverso la sottoscrizione ad un

contratto di rete, il cui programma non ha previsto la costituzione di un fondo comune, ma ha

stabilito l’istituzione di un comitato di gestione, costituito da un rappresentante di ogni azienda

partner e da soggetti esterni. La rete prevede lo svolgimento in comune di attività che riguardano

la logistica e il marketing e in particolare le tre seguenti attività: la condivisione e la gestione della

rete vendite, la gestione degli ordini abbinati, la realizzazione di attività di co-marketing

(Calabrese, Bosco, 2015).

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La condivisione e la gestione della rete vendite si riferisce all’aspetto logistico: le tre aziende

partner si impegnano a espandere la propria forza vendite su tutto il territorio italiano, condividendo

gli agenti di commercio e i distributori allo scopo di garantire la presenza di ciascuna di esse nelle

varie zone d’interesse. L’obiettivo finale è infatti quello di coprire l’intero territorio nazionale con

un’unica rete vendite per acquisire una maggiore forza contrattuale e una proposta commerciale

più efficace. Il presidio della partnership e della stessa gestione della forza vendite è stato affidato

ad un management unico, che consente alle aziende di condividere i costi relativi al mantenimento

di questa figura professionale e, allo stesso tempo, di sfruttare al massimo le sinergie tra di esse.

La gestione degli ordini abbinati permette ai clienti professionali come ristoranti, enoteche,

bar, di acquistare i prodotti di tutte e tre le aziende partner con un unico ordine minimo (300 euro),

senza dover necessariamente acquistare i quantitativi minimi per ciascuna di esse. In questo modo

il cliente evita di accumulare ordini in magazzino che rischiano di restare invenduti e gestisce

meglio il proprio cash flow, garantendosi così tre qualità di vini differenti. La partnership prevede

un deposito centrale unico in cui vengono gestiti gli ordini abbinati di tutti e tre i vini che vengono

spediti al clienti con un’unica fattura e un unico documento di trasporto, mentre ciascuna azienda

gestisce autonomamente gli ordini diretti alle singole imprese. Per quanto riguarda lo stoccaggio e

la gestione degli ordini in abbinamento, i partner hanno stabilito che venisse adibito il magazzino

dell’azienda Barone Ricasoli, la quale dispone degli spazi e degli impianti adeguati alla gestione

di questo compito.

La realizzazione di attività di co-marketing si riferisce a quelle attività di divulgazione della

partnership – e dei vantaggi che essa offre al mercato – alla clientela (prevalentemente clienti

professionali quali ristoranti, enoteche, ecc.): le tre aziende organizzano periodicamente degli

eventi di degustazione dei propri vini e di presentazione dell’offerta e dei servizi ad essa collegati.

Viene inoltre svolta in comune l’attività di pubbliche relazioni e stampa, per cui le imprese partner

propongono frequentemente comunicati stampa relativi ai successi e alle novità del progetto. Tra

le politiche di marketing, è stata anche formulata una scontistica comune che stimola l’acquisto dei

vini in abbinamento da parte dei venditori.

I vantaggi della rete non si limitano alle operazioni precedentemente descritte, basti pensare

alle attività di acquisto di tutte quelle materie prime standardizzabili, come ad esempio le bottiglie

di vetro, i tappi di chiusura e gli imballi, ma anche quelle attività di servizi professionali (si pensi

ad una consulenza di lavoro), che possono essere commissionate congiuntamente. Unendo le forze

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aumenta anche il potere contrattuale nei confronti dei fornitori, con il vantaggio di poter ottenere

condizioni favorevoli per tutte le aziende partner, sia in termini di costo d’acquisto che di qualità

del prodotto/servizio (Calabrese, Bosco, 2015).

2.5.1. L’analisi dei risultati positivi ottenuti dalla partnership.

L’istituzione di un contratto di rete tra le tre aziende del settore vitivinicolo ha puntato, fin

dall’inizio, alla creazione di vantaggi competitivi realmente differenziati che permettessero a

queste tre piccole imprese di competere in uno scenario molto complesso e frammentato, attraverso

una proposta mirata soprattutto alla leva prezzo. L’abilità di coinvolgere la forza vendita (venditori,

agenti e distributori) all’interno del progetto rappresenta il punto di forza della partnership:

l’adozione di questa strategia ha permesso di espandere significativamente la rete vendite che, nel

2015, contava oltre ottanta collaboratori commerciali condivisi tra i partner, distribuiti su tutto il

territorio nazionale. L’obiettivo è quello di garantire una presenza capillare in ogni provincia

italiana. Nel 2015 il numero di province coperte complessivamente dalle tre aziende si attestava a

53, di cui 28 da tutti e tre i partner che insieme contavano 150 addetti per 3 milioni di fatturato sul

mercato italiano. Ad oggi le tre aziende coprono circa 100 zone in Italia, con agenti e distributori

specializzati, di cui oltre la metà gestite in condivisione. La partnership ha inoltre permesso ad

ognuna delle tre imprese di entrare nei mercati regionali di riferimento delle altre due aziende.

L’Azienda Agricola Tedeschi, ad esempio, è riuscita a superare le difficoltà nella presenza in

Piemonte grazie all’inserimento dell’agente in comune che la promuove insieme alle partner.

Osservando invece i risultati di vendita conseguiti dalla rete nei mesi successivi alla

formalizzazione del contratto di rete, appare chiarissima la tendenza all’incremento delle vendite

dovuto in particolare dall’aumento degli ordini abbinati e gestiti dal deposito centrale. Dal 2013 al

2015 gli ordini in abbinamento gestiti dalla rete sono cresciuti del 150%, viaggiando a quasi 200

ordini l’anno. Anche individualmente, per l’azienda Tedeschi, con una produzione di 500.000

bottiglie e un export all’85%, il bilancio è più che positivo. I partner commerciali che hanno

prodotto ordini in abbinamento sono passati da 24 nel 2013 a 40 nel 2015.

Ordini in abbinamento nel 2013 69

Ordini in abbinamento nel 2014 112

Ordini in abbinamento nel 2015 180

Fonte: Calabrese, Bosco, 2015

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L’importanza della realizzazione della rete d’impresa si riscontra nella produzione di risultati

tendenzialmente in crescita, sia per quanto riguarda l’abilità di coinvolgere un numero sempre

maggiore di partner commerciali, sia per l’aumento delle vendite in abbinamento. Questi risultati

positivi permettono alle tre imprese di estendere la loro presenza sul mercato, incrementando

ulteriormente il volume della clientela e aumentando il fatturato. Considerando invece la

valutazione dei risultati di tipo qualitativo, si evince come la collaborazione tra queste tre aziende

abbia avuto un impatto positivo sulla loro reputazione sul mercato. Gli aspetti innovativi del

progetto e la forte componente di servizio della proposta complessiva identificano le tre imprese

come realtà imprenditoriali molto dinamiche, attente alle esigenze della clientela e capaci di

soddisfare le esigenze del mercato. Il progetto di partnership che rappresenta un’esperienza

imprenditoriale unica in questo settore, prevede inoltre un futuro coinvolgimento di altre aziende

sinergiche agli obiettivi della rete.

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3. Enterprise Europe Network: la rete della Commissione europea a

sostegno delle piccole e medie imprese.

Le PMI costituiscono il 99% delle imprese dell’Unione Europea e creano l’85% dei posti di

lavoro nel settore privato. L’UE ha adottato svariati programmi d’azione per il sostegno e la tutela

delle piccole e medie imprese, tra questi lo Small Business Act, Horizon 2020 e il programma

COSME, tutti con lo scopo di aumentare la competitività e l’innovazione attraverso lo sviluppo di

partnership e migliorando l’accesso ai finanziamenti. Osservando i dati relativi agli anni passati si

può constatare come le PMI rappresentino una fonte essenziale di imprenditorialità e innovazione:

nel 2015, 23 milioni di piccole e medie imprese hanno prodotto un valore aggiunto pari a 3900

miliardi di euro e offerto lavoro a circa 90 milioni di persone. La politica europea mira infatti ad

aumentare l’attrattività dell’Europa come territorio in cui avviare un’attività commerciale. La più

grande rete di supporto è stata istituita nel 2008 e si tratta di Enterprise Europe Network, la cui

missione chiave è quella di promuovere l’informazione, la competitività l’internazionalizzazione,

l’innovazione e il trasferimento tecnologico delle PMI e, dal 2008 a oggi, più di 2,6 milioni di

imprese a livello globale, di cui più di 238mila in Italia, hanno usufruito dei servizi di questa rete.

EEN è presente in oltre 60 paesi, conta circa 3mila esperti e opera attraverso più di 600 punti di

contato, di cui 55 in Italia (attraverso camere di commercio, associazioni imprenditoriali, agenzie

di sviluppo, centri di ricerca, università, parchi tecnologici, autorità locali)9. La rete offre assistenza

gratuita e il supporto avviene attraverso strumenti molto semplici che garantiscono quello che viene

chiamato match-making, ovvero il contatto delle imprese con i partner più opportuni che

suggeriscono percorsi sicuri di finanziamento delle attività innovative. Le PMI Italiane necessitano

infatti, soprattutto nella fase di crescita iniziale, di un sostegno finanziario e richiedono

principalmente ad EEN di essere messe in contatto con finanziatori pubblici e privati che investano

nelle loro capacità innovative. Un sondaggio effettuato da Enterprise Europe Network su un

campione di 728 imprese europee ha dimostrato come la collaborazione porti a ottenere risultati

positivi. Per il 72% delle aziende che hanno siglato intese commerciali, il supporto della Rete ha

consentito l'ingresso su nuovi mercati esteri, mentre il 67% di quelle che hanno sottoscritto

partnership tecnologiche dichiara di aver sviluppato nuovi prodotti, processi e servizi, oltre

all'impiego di migliori tecnologie: le imprese ricorrono in maniera sempre più frequente ad EEN

per stipulare accordi con università e centri di ricerca che garantiscono l’accesso a tecnologie

all’avanguardia. Il 38% delle imprese che ha scelto un'alleanza nella ricerca ha invece ottenuto

9 Fonte: www.een-italia.eu

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l’accesso a dei programmi di finanziamento europei. Tra i vantaggi è anche compreso un impatto

positivo su fatturato e occupazione. Il 23% degli intervistati dichiara che gli accordi hanno portato

a un aumento dei ricavi tra 50 mila e 250 mila euro. Riflessi positivi anche sul fronte

dell'occupazione: un'impresa su tre dichiara di essere riuscita in questo modo a conservare o a

creare da uno a cinque posti di lavoro (Bussi, 2012).

3.1. COSME, il programma europeo a supporto delle PMI.

COSME (COmpetitiveness of enterprises and Small and Medium-sized Enterprises) è il

programma dell’UE per la competitività delle PMI per il periodo 2014-2020 e, con un bilancio di

2,3 miliardi di euro, si è prefisso di operare a sostegno delle stesse nei seguenti ambiti:

1. Agevolare l’accesso ai finanziamenti;

2. Sostenere l’internazionalizzazione e l’accesso ai mercati;

3. Creare un ambiente favorevole alla competitività;

4. Incoraggiare la cultura imprenditoriale.

Questo programma attua lo Small Business Act (SBA), in cui viene rispecchiata la volontà

politica della Commissione di dare il giusto riconoscimento al ruolo centrale delle PMI

nell’economia dell’UE. Uno degli obiettivi principali è quello di fornire alle PMI un migliore

accesso ai finanziamenti nelle diverse fasi del loro ciclo di vita. Per raggiungere quest’obiettivo,

l’UE agevola l’erogazione di prestiti e investimenti in capitale di rischio per le PMI attraverso due

strumenti:

1. Lo Strumento di garanzia sui prestiti permetterà di fornire garanzie e controgaranzie ad

intermediari finanziari (come società di garanzia, banche e società di leasing) affinché

possano erogare un maggior numero di prestiti alle PMI. Si prevede che COSME consentirà

ad un numero di PMI compreso tra i 220.000 e i 330.000 di ottenere finanziamenti per un

totale compreso tra i 14 e i 21 miliardi di euro10.

2. Attraverso lo Strumento di capitale di rischio per la crescita, il programma fornirà capitale

di rischio a fondi di investimento (prevalentemente di venture capital) destinati

principalmente a piccole e medie imprese che si trovano in fase di espansione e crescita. Lo

Strumento dovrebbe aiutare fino a 560 PMI a ricevere tali investimenti, per un volume

investito complessivo compreso tra i 2,6 e i 4 miliardi di euro.

10 Fonte: www.fondieuropei.eu

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COSME fornisce sostegno alle imprese europee affinché possano beneficiare del mercato

unico dell’Unione e delle opportunità offerte dai mercati al di fuori dell’UE. Esso finanzia anche

Enterprise Europe Network e altri strumenti web concepiti appositamente per lo sviluppo e

l’internazionalizzazione delle imprese attraverso le partnership. Il programma fornisce inoltre un

contributo finanziario al Centro per la cooperazione industriale UE-Giappone per promuovere tutte

le forme di cooperazione industriale, commerciale e d’investimento tra i due paesi, fornendo

informazioni sulle modalità di accesso al mercato giapponese ed agevolando gli scambi di

esperienze e di know-how tra le imprese europee e quelle giapponesi. COSME sostiene inoltre la

creazione di industrie competitive con potenzialità di mercato aiutando le PMI ad adottare nuovi

modelli imprenditoriali e ad integrarli in nuove catene del valore. Il programma va ad integrare le

azioni che gli Stati membri conducono in ambiti ad alto potenziale di crescita come ad esempio nel

settore del turismo. Esso promuove lo sviluppo di cluster di livello mondiale nell’Unione europea

incoraggiandone l’eccellenza e l’internazionalizzazione, con una particolare attenzione per la

cooperazione trans-settoriale e in particolare quella a sostegno delle industrie emergenti. Questo

tipo di relazioni accresce il know-how e incoraggia il trasferimento transfrontaliero di saperi ed

esperienze tra giovani imprenditori. COSME riserva un’attenzione particolare all’imprenditoria

digitale con lo scopo di aiutare le imprese europee a portare avanti la loro trasformazione digitale

e a beneficiare appieno delle nuove, grandi opportunità offerte dall’era digitale, che sono cruciali

per la competitività e la crescita.

3.2. Un esempio di successo della rete Enterprise Europe Network: il caso Rimac.

Una hypercar elettrica progettata, sviluppata e prodotta internamente mette una società

tecnologica croata sulla mappa globale. Con l'aiuto di Enterprise Europe Network per trovare le

giuste risorse finanziarie, la tecnologia alla base di questa innovazione viene fornita ai mercati di

tutto il mondo. Rimac sta riscrivendo le regole in Croazia, un paese senza tradizione di produzione

automobilistica e caratterizzato dalla presenza di poche aziende tecnologiche. Nel 2009, Mate

Rimac ha riunito un piccolo team per sviluppare Concept_One, una supercar elettrica progettata,

sviluppata e prodotta internamente. Da allora l'azienda si è trasformata in un fornitore leader di

tecnologia per i produttori automobilistici globali e continua ad essere in pole position per quanto

riguarda l'innovazione. La maggior parte delle entrate dell’azienda deriva dalla fornitura di

tecnologia come batterie e altri componenti elettronici per i sistemi di infotainment ai produttori

automobilistici. Rimac fornisce tecnologia ad un numero di OEM globali come Aston Martin,

Koenigsegg, Jaguar, Land Rover e molti altri. Ma per arrivare a questa posizione e penetrare in

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nuovi mercati, l'azienda aveva bisogno di raccogliere capitali e accedere ai finanziamenti. Data la

poca disponibilità di fondi di capitale di rischio in Croazia, la raccolta di capitali in Europa, al di

fuori dei confini nazionali, costituiva un punto chiave per la strategia di innovazione di Rimac.

La collaborazione con la rete Enterprise Europe Network Croatia è iniziata nel 2013, quando

la società ha ricevuto una garanzia di prestito dall'Agenzia croata per le PMI. Attraverso la

consulenza fornita dalla Rete, Rimac ha realizzato che lo strumento Horizon 2020, che supporta le

PMI ad alto potenziale per portare le loro innovazioni sul mercato, si adatta perfettamente agli

scopi e agli obiettivi dell'impresa. Nel 2015, Rimac è diventato il primo progetto della Croazia a

essere finanziato da Horizon 2020, permettendo all’impresa di effettuare un'ampia ricerca di

mercato che ha garantito un punto di partenza eccellente per l'espansione futura del business.

Quando il primo ciclo di investimenti è stato chiuso nel 2015, Rimac ha concluso con successo

numerosi contratti di alto profilo: l'azienda è stata in grado di espandere la propria forza lavoro da

20 persone nel 2014 a 60 entro la fine del 2015. Grazie in parte alla garanzia del necessario

finanziamento iniziale, Rimac opera ora a livello globale, con una presenza nella maggior parte

delle regioni del mondo, tra le quali una joint venture in Cina. Identificare con successo le

opportunità di mercato ha anche permesso all'azienda di continuare a crescere a un ritmo più

elevato. Attualmente la società conta più di 300 dipendenti altamente qualificati: la sfida è quella

di mantenere la cultura aziendale pur essendo in grado di soddisfare una domanda in costante

aumento. Nel prossimo futuro, Rimac prevede di concentrarsi sulla produzione in serie di

componenti, sulla produzione limitata di hypercar e sull'ulteriore sviluppo del proprio know-how

tecnico interno. La Croazia, che non ha mai avuto un'industria automobilistica valida, ora vanta un

leader mondiale nella tecnologia automobilistica.

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Conclusioni

La ricerca di nuove soluzioni per gestire il gioco competitivo è diventata la ragione essenziale

del management delle imprese, poiché solo attraverso una maggiore propensione all’interazione

con l’ambiente di riferimento sarà possibile garantire all’impresa performance adeguate. Per

governare le difficoltà e sfruttare le opportunità derivanti dal proprio agire sui mercati è di

fondamentale importanza ampliare la varietà della propria conoscenza in quanto l’approccio non

può più essere quello “efficientistico” della grande impresa fordista. Il management deve ricorrere

a forme di relazione innovative, sinergiche e profittevoli con gli attori che operano all’interno dello

scenario di riferimento. Le tecnologie di social networking basate su internet sono in continua

evoluzione e permettono di moltiplicare il potenziale valore delle relazioni, riducendo al minimo i

costi di transazione e ampliando la condivisione dei beni e delle conoscenze su una scala

infinitamente più grande rispetto al passato. Si è descritto il fenomeno relativo alle reti d’impresa

e al contratto di rete, uno strumento recentemente disciplinato in Italia per favorire l’ulteriore

diffusione del modello reticolare che, data la presenza di un tessuto economico costituito

prevalentemente da piccole e medie imprese, rappresenta una soluzione valida alla sopravvivenza

e allo sviluppo delle stesse. Lo scopo non è tanto quello di descrivere la peculiarità della “formula”,

ma di dimostrare come l’utilizzo di un approccio strategico slegato dai classici modelli

individualistici sia più adatto, in determinati contesti, a superare alcune difficoltà di adattamento ai

cambiamenti del mercato. Il contratto di rete rappresenta una forma contrattuale che fornisce alle

imprese una via alternativa alle classiche forme di collaborazione quali le joint venture, le fusioni,

o altre forme di partecipazione al capitale più vincolanti. Nel caso analizzato, questo strumento ha

permesso alle aziende Barone Ricasoli, Poderi Luigi Einaudi e l’Azienda Agricola Tedeschi di

condividere la forza vendite, offrendo al mercato la possibilità di effettuare ordini abbinati, di

sviluppare una logistica comune e di gestire congiuntamente le attività di marketing: le imprese si

erano infatti convinte che fosse necessario adottare nuove modalità organizzative per ottenere

risultati positivi all’interno di uno scenario in fase di cambiamento. Nella parte conclusiva di questo

elaborato è stata invece fornita una descrizione dei progetti adottati da parte della Commissione

Europea per sostenere le piccole e medie imprese. Recentemente l’UE ha infatti promosso svariati

progetti che supportano lo sviluppo di partnership, soprattutto internazionali, dimostrando come

esse costituiscano uno strumento efficace per accrescere la competitività delle PMI. Nell’esempio

proposto si evince come Enterprise Europe Network rappresenti uno strumento molto valido per

quelle imprese di piccole dimensioni, orientate all’innovazione, che necessitano di accedere ai

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finanziamenti nella loro fase di crescita iniziale. Rimac, nata come una piccola azienda croata che

operava all’interno dei propri confini nazionali, rappresenta ora una società leader nella produzione

di componenti tecnologici all’avanguardia per molte imprese del settore automobilistico a livello

mondiale11.

11 Totale parole: 12.429

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