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Uomo senza voce

Date post: 06-Apr-2016
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Racconto di Natale 2011
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Enrico Martinelli L’uomo senza voce Racconti di Natale - 2011
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Enrico Martinelli

L’uomo senza voce

Racconti di Natale - 2011

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A chi sa sognare anche nella fatica.A chi sa sorridere sognando.

Grazie di avermi fatto sorridere e sognare.

Enrico Martinelli

L’uomo senza voce

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I

Il rumore di stoviglie in frantumi lo destò di colpo da un sogno a sbalzi. Alto e magro, più del necessario, portò la sua barba

incolta a sporgersi dai lembi appena accostati della tenda. Come gli accadeva spesso, da un mese a quella parte, rifletté sull’assurdità della situazione. Già, dormiva in una tenda; una tenda ancorata alle antenne e alle brevi sporgenze di qualche mattone fuori quadra; una tenda che si adagiava sul tetto scrostato di una brutta chiesa post-moderna. Da 145 giorni - o 146 a seconda che fosse sera inoltrata o notte fonda, viveva su quel tetto più vicino al cielo di appena qualche metro.

Il parroco della chiesa, uomo svelto e talvolta eccessivamente sbrigativo sia nell’incedere che nel dar retta alle anime a lui affidate, aveva stretto un patto decisamente assurdo con l’uomo della tenda. Lo aveva visto solo un paio di volte solcare la navata della “sua” chiesa. Un cappotto di grisaglia incerto, quasi furtivo; una sciarpa anemica sotto cui pareva non esistesse il collo. Un giorno se lo era trovato alle spalle, dopo la messa delle 11 di uno dei tanti primi venerdì del mese. Stava sistemando i paramenti quando gli parve di udire una radio, dimenticata accesa in soffitta, che trasmetteva musica classica, forse una sinfonia. L’annunciatore aveva il tono fine e pacato di chi presenta un pezzo di Mozart. Quando, però, si rese conto di non possedere alcuna radio in canonica e, soprattutto, che non esisteva soffitta in quella chiesa di ferro e cemento, si voltò e lo vide. Non afferrò i motivi che inducevano quell’uomo a volersi piazzare sul tetto per qualche mese. Così, tra il diffidente e il preoccupato - ritardare il pranzo anche quel giorno significava condannarsi di nuovo alla pasta scotta della perpetua Luisa - il parroco fu sul punto di liquidare lo scocciatore (fedeli si diventa dopo una decina di comunioni e un paio di donazioni)... Si trattenne, però, quando il cappotto di grisaglia, con dentro il piccolo uomo, emise la sua flebile proposta: avrebbe pulito e tenuto in ordine la chiesa in cambio di ospitalità. Il Signor Parrocco cercava da tre mesi la perfetta “anima pia” da incastrare nel ruolo di sacrestano e, nel frattempo, toccava a lui far quel minimo di pulizia necessaria al decoro.

Stufo di sistemare panche, spazzare il marmo e lucidare i calici

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d’oro, accettò senza alcun indugio quella che considerava la più biz- zarra proposta mai udita. La sera stessa una tenda blu, nuova di zecca, sventolava fra i tetti arrabbiati della città.

Poche ore dopo, l’uomo magro dal grigio cappotto si rese conto che lo sconcerto del prelato aveva un suo qualche fondamento. Molti avrebbero considerato folle che lui si trovasse lì. Spolverando le mensole ormai vuote dei sui pensieri ritrovò il foglietto su cui aveva appuntato i motivi di quella scelta. Aldilà della strada, numero civico 23, scala B, piano quarto, ingresso in legno (che il Mainardi aveva preteso pitturare di bianco e, perciò, ora striato smog) viveva la sua famiglia. Sulla sedia in più, che apparteneva di diritto al salotto e che ora stazionava in cucina, vi si era seduto lui per 21 anni. Sul tavolo, nell’angolo destro, sostava la bottiglia d’acqua frizzante. L’abitudine di apparecchiarla proprio in quel punto l’aveva data lui. Pretendeva di averla sempre a portata di mano perché non beveva praticamente nulla per tutto il giorno e a cena si rifaceva. L’acqua svaniva e riappariva nel suo bicchiere quasi ad ogni boccone.

Per cena, quella sera, al di là della strada, venivano servite patatine fritte - la specialità di sua moglie. Le riconosceva anche da lontano e per un attimo gli parve di sentirne nel naso l’odore.

Era mangiando patatine simili a quelle che aveva chiesto a sua moglie di sposarlo. Nessuna dichiarazioni stentorea, solo un bisbiglio nelle orecchie, un “per sempre” sussurrato lento. Lei aveva sorriso con la dolcezza tipica di chi la notte sogna un bel sogno.

Ora lui se ne stava lì su quel tetto, appeso a quel ricordo, e con un ridicolo piatto Ikea, a pois blu, in mano. Lo sguardo era conficcato nelle finestre della cucina da cui, per anni, aveva distrattamente osservato la strada ed il suo traffico.

Si sentiva una consonante cascata in un concerto di vocali.

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II

Sua figlia:- I genitori di Caterina hanno avuto il coraggio di alzare la voce

con la prof- Ti sembra giusto non rispettare chi tenta di educarti?- Papà, la prof ha detto che tu... tu hai avuto «l’apprezzabile

coraggio di chiedere “garbatamente” spiegazioni del mio 4 in latino» - e ci ha tenuto a sottolineare quel “garbatamente”

- I colloqui sono fatti per...- No, aspetta. Non dire niente. Il problema è che tu sai che ho un

4 in pagella. Ma chi caz[...]- Parla beneSì certo. Chi credi conosca, padre mio, i voti dei propri figli?!

Gli altri genitori tra un po’ non sanno nemmeno che le pagelle esistono. Mi hanno preso per il culo per tutta l’ora per colpa tua.

Suo figlio:Come stai? Come è andata la giornata? - ...Il tuo amico Michele sta bene?- ...Suo figlio rappresentava l’equivalente di una stretta di mano

all’indifferenza. Volevi organizzare un viaggio nell’Apatia, lui era il perfetto tour operator a cui rivolgersi.

Sua moglie:- Non riesci neppure ad alzare la voce per ordinare un caffè e

quando ben hai chiesto “per favore” quello di fianco si è già fatto portare cappuccino, brioches e “vabbé, mi scaldi anche un panino che a pranzo non so se riesco a fermarmi”.

- Scusa? Che dici? È per questo, perché sono educato, che stiamo litigando?

In ufficio:Lui: in seidici anni solo due avanzamenti di carriera poiché i suoi

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progetti erano documentati e i PowerPoint curati nei contenuti e nella grafica e - sospettava - perché in riunione attendeva che gli altri terminassero di parlare.

Brazzoli (anche detto “Er Braciola”): 15 anni di meno, 4 e mezzo di anzianità nel settore, moltissimi “io di qua, io di là”, rumorosissimi “ma cazzo! è così che si lavora?! In quel posto io non ci metto piede, piuttosto pago io”, era già capo divisione e project manager di un’iniziativa di cui non conosceva né il nome né tantomeno lo scopo.

Questa la situazione aggiornata a circa quattro mesi prima, quando era stato invitato a non dormire più nella casa per cui aveva firmato il rogito. Ricordava ancora il freddo metallo della penna comprata per l’occasione in una mano e, nell’altra, la stretta delle fragili dita di una ragazza, un po’ svenevole, che lui adorava e che avrebbe sposato, ne era certo. Quella casa ora non era più sua. Così gli avevano comunicato.

La porta che gli si chiudeva alle spalle gracchiò, con voce di moglie: “Ogni volta che apri bocca non capisco cosa dici e mi fai venire un sonno incontenibile... Senza voce, senza palle”. Sbam.

Sbam, perché è sempre con suono secco che si chiudono le porte della vita. Sbam.

Uno dopo l’altro, i giorni avevano inanellato una catena parecchio lunga. Il blu della tenda sul tetto si era fatto meno inquietante, più sporco ma meno insolente. Diverse stoviglie giacevano sparse per terra come unico segno di disagio, rabbia e ribellione. Perfino i pois del piatto svedesemadeinchina sembrava lo infastidissero molto meno. E lui continuava a incunearsi fra i vetri intricati di quella finestra, avvolto nei riflessi a basso consumo di una lampadina da lui stesso avvitata il giorno di Natale dell’anno prima.

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III

Quello era il giorno. Per un anno intero tutti dissimulavano l’importanza che ad esso attribuivano. Però tutti, nessuno

escluso - che tirasse tempesta o aleggiasse brezza, che fossero nel pieno della salute o sbrecciati da qualche malanno - tutti, all’alba, percorrevano miglia e miglia di neve e vento per prepararvisi al meglio.

Quello era il giorno e quello doveva essere l’anno giusto per lei. Non arrivò troppo presto al punto convenuto per la partenza, ma non mancò di essere fra le prime. Non bisognava lasciar trasparire ansia, ma allo stesso tempo riteneva necessario giungere sul luogo con anticipo, assorbirne l’energia, violarne i segreti, chiudere la mente nel punto esatto in cui di solito la concentrazione va a nascondersi.

Il segnale di via era dato dal primo bagliore dell’alba. Può sembrare assurdo. Chiunque direbbe che è impossibile che due o più possano concordare l’inizio dell’alba solo osservando le luci all’orizzonte. Non è, per così dire, una convenzione oggettiva. Eppure loro sapevano quando ciò sarebbe accaduto. Nonostante quel giorno fosse il più importante dell’anno e quella gara riempisse di senso le loro vite, nessuno si sarebbe mai azzardato a barare o a fare il furbo. Non per timore di punizioni o ritorsioni, ma solo per il gusto, il sapore e la pace dell’essere onesti.

L’alba giunse scontata anche quella mattina e la colse lievemente distratta a verificare che la presa sul terreno ghiacciato fosse salda.

Scattò insieme ai compagni. Ognuno prese la sua direzione, tracciata sulla grande mappa di canapa attorno cui si erano soffermati qualche istante prima.

A lei era andata bene. Conosceva la rotta che le era stata assegnata. Avrebbe dovuto correre veloce, conservando e dosando fiato e forze, raggiungere e strappare il pezzo di stoffa rosso, quindi rilanciare la corsa, questa volta senza badare a risparmiarsi. Questa era la sua tattica prediletta: pragmatica nella prima fase, sconsiderata ed arrembante sul finale, quasi a costringere il corpo a non scendere a compromessi con lo sfinimento.

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Dopo un’ora e otto minuti - ottimo tempo, pensò - vide il lembo rosso annodato intorno al battente della campana di quella stranissima chiesa. Si sorprese a considerare quanto fosse brutta.

Ma cosa c’era per terra... No non poteva inciampare ora... Piatti? Erano piatti quelli sparsi su quell’orrendo tetto?! E quella è una padella, perfetta per due uova al tegamino. No, no. La padella no. Scivolò via come su un pattino da ghiaccio. No, no. Non quel giorno, non quell’anno. Quello doveva essere il giorno giusto. Doveva...

ll dolore fu fortissimo e immediato. Una spinta giù per lo strapiombo. La gamba anteriore sinistra si era sicuramente slogata. Sperava fosse solo slogata, anche se la serie di pugnali che sentiva andare e venire sotto pelle, le fecero temere qualcosa di peggio. Di sicuro non sarebbe tornata in tempo, non avrebbe vinto la gara e forse neppure partecipato alla Consegna. Che ricordasse, non era mai accaduto che qualcuno mancasse la Consegna prima di allora. Agitazione e ansia la avvolsero.

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IV

Era ragionevolmente sicuro di essere fuori asse in quel periodo assurdo della sua vita. Aveva avuto modo di osservare per

diverse ore il parco di pioppi a pochi metri dal tetto. Aveva avuto modo di paragonarsi ai giochi per bambini, deserti come lui per colpa del freddo. Aveva avuto modo di rimanere in silenzio, consapevole che, mesi prima, gli sarebbe venuto naturale cogliere l’affinità fra se stesso ed il tronco che sale e scende sotto le spinte energiche di due bambini. Alti e bassi. Grandi slanci alternati a lunghissime notti.

Oggi, accarezava con sguardo sconsolato lo scivolo, inesorabile simbolo della discesa verso l’assenza.

Nonostante fosse certo di essere in bilico, e di animo precario, era altrettanto convinto, però, di non essere assolutamente pazzo. Su quel tetto non beveva più del solito e men che meno si drogava - del resto non lo aveva mai fatto. Conduceva una vita bizzarra e raschiata dalla sofferenza, ma senza mai perdere lucidà.

Rifletté in tal senso non di sua iniziativa, bensì costretto da quanto gli si presentò davanti agli occhi quella mattina o sera o notte che fosse.

Il rumore di piatti in frantumi lo strappò di netto al sonno e, ciò che vide, scardinò la realtà nel profondo. Rimase sgomento, il fiato girava in gola, una pallina da flipper che non può sfuggire al gioco. Non lo sconvolse, ovviamente, la vista dei piatti a pois, spezzati e senza vita. Anzi ne fu quasi sollevato.

Quel che lo immobilizzò in una posa ridicola, tipo epica statua di sale, fu la renna adagiata a pochi passi da lui. Una renna!

Primo: cosa ci faceva una renna in città? Secondo: come era possibile che una renna fosse arrivata sul tetto di una chiesa? Terzo: Terzo: Tutto era così privo di senso che non riuscì a formulare il terzo quesito.

Azzerò le domande e, siccome non voleva più giudicare gli eventi con un eccesso di razionalità proprio mentre la vita si faceva beffe di lui, avvicinò l’animale con disinvoltura. Allungò una mano verso il fiato incalzante e poderoso, affinché lei potesse accettarlo

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come amico e non viverlo come una minaccia. Quindi iniziò ad accarezzarla. La osservò con cura e notò la zampa destra piegata in modo anomalo. Tornò alla tenda e raccolse il kit di pronto soccorso. Ovviamente non aveva alcuna idea di come curare un animale, tantomeno una renna, ma si impegnò con meticolosità e pazienza. La renna era agitata. Pareva sconvolta, e non solo per il dolore. Era come se una tragedia più grande si fosse abbattuta su di lei. Per un attimo la bocca si distorceva in una smorfia di sofferenza e l’attimo dopo gli occhi correvano ad osservare increduli i cocci dei piatti. Lui ebbe come la sensazione che si stesse chiedendo come mai quei dannati piatti fossero lì. Per tranquillizzarla, allora, iniziò a raccontarle la sua strana storia.

La voce calma e serena, profonda come l’annegare primordiale del tempo nei secoli, la sua voce la rasserenò fino a condurla tra le braccia estatiche del sonno.

In un primo tempo avrebbe voluto ripararla sotto la tenda, ma presto si rese conto che il peso lo avrebbe annichilito. Così raccolse tutte le coperte in suo possesso e le adagiò sul pelo lucido e fluente. Stranito tornò a dormire.

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V

Come l’alba, anche Natale giunse scontato un paio di giorni dopo. Gli elfi controllarono le finiture e assicurarono le briglia.

Le renne erano tutte in posizione. Solo una zoppiccava leggermente, senza che ciò intaccasse l’aura magica che avvolgeva, da sempre, quel momento. Sui pattini della slitta i riflessi dell’ultima luce parvero rincorrersi in una danza regale. Lui, Babbo Natale, lasciò il castello con il solito sbuffo di risa, accompagnato dall’ondeggiante saluto dei suoi amici. Tutto era pronto. La renna Saltarello aveva vinto la gara di quell’anno e, quindi, era alla guida del gruppo, pronta a strattonare la slitta con la prima sgroppata. L’onore più grande a cui ogni renna ambiva.

Santa Claus pareva allegro e sereno come al solito. In realtà, dentro di lui, si faceva largo una strana agitazione. I recenti Natale erano stati parecchio impegnativi. I bambini erano cambiati e anche parecchio. Sembrava che ognuno di quei teneri cucciolotti non solo desiderasse vedere Babbo Natale, ma volesse acchiapparlo. Forse solo per parlarci, anche se lui temeva che fosse per altri motivi. Lo volevano vedere non per la gioia di vivere la magia di un sogno, ma per confermare il loro scetticismo e smascherare gli impostori del caso. Forse alcuni ambivano diventare eroi di quelle strane cose che chiamavano Facebook e YouTube.

Questa nascente consapevolezza lo rattristò, mentre i suoi timori si confermarono in pieno. Quel Natale fu il più difficile della sua lunga e gioiosa carriera.

Il bambino Davide, per esempio, quello che aveva chiesto in dono una canna da pesca, aveva installato in soggiorno una serie di webcam collegate al computer. Tentava di registrare la consegna dei doni per pubblicare su Internet le immagini esclusive del Signore in Rosso, come recitava il titolo del suo blog. Babbo Natale fu costretto a portare con sé due renne, all’interno della villetta, che con le corna tranciarono i fili delle telecamere.

Monica, invece, aveva escogitato con le sue amiche qualcosa di vagamente inquietante. La mamma si era intenerita quando le aveva viste preparare i biscotti per Babbo Natale e con cura

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versare del latte in una tazza. Peccato che le piccole pesti si fossero premurate di aggiungere un potente sonnifero all’impasto versandone altrettanto nel latte. Per fortuna l’elfo, che da un paio d’anni Babbo Natale era costretto a portarsi dietro per contrastare i trucchetti dei bambini con qualche magia, aveva assagiato quei biscotti per primo, crollando sul pavimento con un piccolo tonfo. E, per fortuna, tutto ciò era accaduto dopo la visita alla via in cui abitava Piero.

Piero e i suoi amici, infatti, abitavano tutti in via Sarfatti. Si erano organizzati con cura: a turno uno di loro rimaneva di vedetta mentre gli altri rimanevano svegli giocando ad un video-game online sulla PlayStation.

Babbo Natale dovette posteggiare la slitta dietro l’angolo e chiedere all’elfo di renderlo invisibile, altrimenti la sua consueta divisa rossa lo avrebbe fatto scoprire in un batti baleno.

Carlotta, invece, aveva sparso e mimetizzato sotto il muschio fogli e fogli di potentissima carta moschicida. Ad essi aveva legato con una seie di fili un sacco di Barbie che, secondo il piano, le sarebbero dovute cadere in testa, svegliandola. Sfortuna volle che suo padre, dopo l’indigestione di panettone, si aggirasse per casa inquieto per ritrovarsi poi riverso sul parquet senza capire bene cosa fosse accaduto.

Il più astuto di tutti, però, fu Giovanni Carioli, di via Garbate 24 (Babbo Natale si era segnato con cura nome, cognome ed indirizzo. Dall’anno seguente aveva intenzione di far recapitare i regali al bimbo via posta ordinaria. Il giovanotto aveva rubato dall’officina del suo babbo un’enorme gabbia decorativa costruita per lo zoo del paese. L’aveva posizionata sopra l’albero di Natale in modo tale che si azionasse grazie a dei sensori di movimento. Quando Babbo Natale vi rimase imprigionato riuscì solo a pensare: “Ragazzino diabolico”. Per liberarlo le renne dovettero agganciare la gabbia alla slitta e scardinarla. Per fortuna Giovanni era considerato un geniaccio, ma anche un pigrone come i suoi genitori, per cui mentre il salotto veniva ribaltato, nessuno si accorse di alcunché.

Terminata la notte, Babbo Natale tonrò al castello stravolto e affranto. Erano finiti i tempi in cui i bambini che volevano conoscerlo, al massimo tentavano di rimanere svegli per poi

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addormentarsi profondamente sul divano. Lui rimboccava loro le coperte, assaggiava i dolci allo zenzero e proseguiva il giro.

L’anno successivo non avrebbe retto quello stress. Forse era giunto il momento di chiudere il Natale. Ne aveva già parlato con la Befana. Lei, ancora più vecchia e debole, era stufa di dover evitare trappole di ogni genere. L’anno prima un gruppo di ragazzini, particolarmente ferrati in aggeggi elettronici, aveva modificato un parabola della TV per trasformarla in un radar e avvistare così il volo della sua scopa. Anche la befana era stufa.

La renna zoppa sorprese Babbo Natale assorto in tali tristi pensieri e se ne preoccupò.

Il Natale non poteva chiudere. Non era mica un negozio che potesse semplicemente tirar giù la sarracinesca. Natale era un sogno.

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VI

L’idea emerse dalle onde della preoccupazione come la spuma sulla battigia. La renna trovò la soluzione per salvare il Natale. Si consultò con Santa Claus. Le ci vollero un paio d’ore, ma infine lo convinse a tentare. Nove mesi dopo, partì per la missione.

Trovò la tenda ancora al suo posto. Fece attenzione che non ci fossero altri piatti ad intralciare l’atterraggio, ma il tetto risultò sgombro. Probabilmente l’uomo aveva imparato la lezione e si era fatto più ordinato.

Lo svegliò infilando il muso fra i lembi dell’ingresso e colse il fastidioso odore di lana impolverata delle coperte. L’uomo non si stupì di rivederla, pareva l’aspettasse. Più difficile fu fargli capire che doveva montarle in groppa e seguirla.

Arrivarono al castello che era già calata la sera. La renna rallentò il volo così che lui avesse l’occasione di ammirare le magnifiche ed enormi vetrate, illuminate dalle dita scintillanti e sinuose delle candele. Sulle torri sventolavano lunghissimi stendardi bianchi incastonati di stelle, mentre le merlature ricurve, che correvano sul profilo arcuato della dimora, rendevano buffo e grazioso il colpo d’occhio. All’interno il manto di neve e i cumuli di ghiaccio, da cui sorgevano i pochi mobili in legno, lasciarono l’ospite di stucco. Ma lo stupore crebbe quando si spalancarono le porte del laboratorio dove venivano confezionati i giochi. Un enorme camino dominava la sala che si svolgeva sul retro del castello inoltrandosi nel fitto del bosco. Ampie volute accompagnavano i tavoli, tutti dipinti in vivaci colori a smalto e la luce riverberava su una moltitudine di specchi, calda e gialla come il tramonto.

Dopo la visita alle varie parti del castello, l’ospite incontrò Babbo Natale e scoprì il motivo per cui si trovava lì. Venne messo a parte del piano che la renna aveva escogitato.

I mesi successivi, che precedevano il Natale, servirono per mettere a punto il piano e prepararsi. Quindi giunse la sera del 24 dicembre.

Nervoso, Babbo Natale spinse i lucidissimi stivali di vernice nera su per gli scalini della slitta. Aveva deciso di cominciare il

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giro proprio da via Garbate, affrontando il minaccioso e temibile bambino Giovanni. Se il piano funzionava con lui, poi tutto sarebbe filato liscio.

Lasciò che la slitta volteggiasse nascosta fra le nuvole al di sopra della via ed attese che l’uomo senza voce, nel suo nuovo e luccicante soprabito di grisaglia, portasse a termine la sua missione.

All’inizio della strada, al centro della carreggiata innevata, si levò un refolo di vento. Un mucchio di neve cominciò a formarsi. Alto, sempre più alto. Quando raggiunse i due metri esplose in una delicata cascata di fiocchi di neve e l’uomo emerse come dal nulla. I primi passi lo stupirono. Non sentiva il terreno sotto di sé, come non sentiva il freddo. Le orme che lasciava nella neve brillavano dorate per qualche istante per poi svanire come non fossero mai esistite. L’uomo senza voce cominciò a raccontare storie antiche, fiabe e favole. La sua voce morbida e gentile, bassa e delicata, volteggiò e si intrecciò, fino ad unirsi, con i fiocchi di neve dell’esplosione. Raggiunse, così, le case dei bambini. All’udire quei racconti i piccoli si pacificarono scivolando in un sonno di gioiosa, ma quieta attesa.

Tutto era andato come previsto e le renne puntarono decise i tetti delle case. Babbo Natale sospirò. Quel silenzio e quelle luci spente erano un vero sollievo. Con gesto sicuro calò il sacco di iuta dietro le spalle e la Consegna ebbe inizio.

Quanti cumuli di neve abbiamo visto per le strade della nostra vita? Quanti uomini senza voce abbiamo incontrato? Ognuno di quei cumuli, ognuno di quegli uomini, potrebbe essere stato il segno di una magia che non avrà mai fine.

L’uomo senza voce chiese a Babbo Natale un solo regalo in cambio dell’aiuto. Poter ripetere quella magia tutte le sere e così far addormentare i suoi figli anche se da lontano, da un assurdo tetto in cemento consacrato.

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«Si sentiva una consonante cascata in un concerto di vocali»


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