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VALUTARE NEL SERVIZIO SOCIALE OGGI. RISC: UN...

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Corso di Laurea Triennale in Sociologia e Politiche Sociali Classe L-39 in Servizio sociale Tesi di laurea in Tecniche e strumenti del servizio sociale VALUTARE NEL SERVIZIO SOCIALE OGGI. RISC: UN PROTOCOLLO OPERATIVO-METODOLOGICO EFFICACE Relatore: Simona Guerrini Candidato: Romina Niccolai Anno Accademico 2012/2013
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Corso di Laurea Triennale in Sociologia e Politiche Sociali

Classe L-39 in Servizio sociale

Tesi di laurea

in

Tecniche e strumenti del servizio sociale

VALUTARE NEL SERVIZIO SOCIALE OGGI.

RISC: UN PROTOCOLLO OPERATIVO-METODOLOGICO

EFFICACE

Relatore: Simona Guerrini Candidato: Romina Niccolai

Anno Accademico 2012/2013

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INDICE

INTRODUZIONE pag. 2

CAPITOLO 1 pag. 5

1.1. L’oggetto pag. 5

1.2. Una panoramica storica pag. 5

1.3. La valutazione in Italia dagli anni novanta ad oggi pag. 9

e la normativa nazionale di riferimento

CAPITOLO 2 pag. 18

2.1. Prima della teoria pag. 18

2.2. La teoria pag. 22

2.3. Teoria e valutazione pag. 23

2.3.1. Alcune teorie quantitative pag. 23

2.3.2. Alcune teorie qualitative pag. 28

CAPITOLO 3 pag. 36

3.1. Il progetto RISC: rischio per l’infanzia e soluzioni per pag. 36

contrastarlo

3.2. L’inquadramento normativo toscano del progetto RISC pag. 36

3.3. Perché il RISC pag. 38

3.4. La ricerca-azione pag. 39

3.5. Lo strumento: il protocollo operativo-metodologico pag. 41

CONCLUSIONI pag. 50

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INTRODUZIONE

La scelta di trattare il tema della valutazione nel servizio sociale nasce dall’aver partecipato,

come tirocinante, a una fase del lavoro svolto da alcuni operatori appartenenti alla SdS

Fiorentina Sud-Est, dopo la fine della seconda annualità di sperimentazione del Progetto

RISC (rischio per l’infanzia e soluzioni per contrastarlo). Alla fine del 2008 il Ministero del

Lavoro e delle Politiche Sociali ha commissionato alla Fondazione Emanuela Zancan onlus

uno studio sul rischio di allontanamento dei minori dalla famiglia d’origine, in cui sono state

coinvolte sei regioni italiane, tra cui la Toscana. E’ in questo contesto che ho sentito molto

parlare di “valutazione di efficacia” e che sono entrata in contatto con strumenti professionali

innovativi. Nello specifico ho osservato la fase della disseminazione dei risultati ottenuti con

l’impiego del protocollo operativo-metodologico di presa in carico e valutazione, ed ho visto

gli operatori utilizzarlo nei casi di minori a rischio di allontanamento dalle famiglie.

Il tema della valutazione non è nuovo a chi studia servizio sociale, è parte integrante del

processo metodologico che l’assistente sociale mette in atto ogni volta che si pone come

professionista di fronte ad un caso, un servizio, una politica che abbia come obiettivo quello

del benessere, sia esso di un singolo, un gruppo o di una comunità. Il codice deontologico

dell’assistente sociale1 definisce chiaramente quali sono le responsabilità del professionista

infatti, al Titolo III (Responsabilità dell’assistente sociale nei confronti della persona utente e

cliente), Capo I (Diritti degli utenti e dei clienti), art. 11 individua come elemento

fondamentale per l’instaurarsi di un rapporto fiduciario con l’utente/cliente un “costante

processo di valutazione”, mostrando la centralità della valutazione nel lavoro dell’assistente

sociale.

D’altra parte gli operatori, soprattutto quelli che lavorano all’interno degli enti pubblici,

devono riuscire a far convivere nella loro attività quotidiana il mandato istituzionale con

quello professionale, ed anche in questo caso il codice deontologico2 è di aiuto quando

dichiara che il professionista deve chiedere all’organizzazione per cui lavora il rispetto del suo

profilo e della sua autonomia, e allo stesso tempo contribuire con la sua professionalità al

miglioramento della politica e delle procedure dell’organizzazione. Lo scopo è di migliorare

l’efficacia, l’efficienza, l’economicità e la qualità degli interventi e delle prestazioni

professionali. I concetti che qui credo possa essere interessante provare ad approfondire sono

due: qualità ed efficacia.

1 Codice deontologico degli assistenti sociali, testo approvato dal Consiglio Nazionale nella seduta del 17 luglio

2009. 2 Codice deontologico degli assistenti sociali, Titolo VI, Capo I, artt. 44 e 45, testo approvato dal Consiglio

Nazionale nella seduta del 17 luglio 2009.

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Il primo è un concetto che è descritto come:

• “relativo e non assoluto, in quanto l’attribuzione di valore è un atto profondamente

influenzato dal contesto socioculturale organizzativo nel quale avviene”;

• complesso, “per la complessità del concetto (…) di benessere, influenzato da un lato

da fattori storici, culturali, sociali e, dall’altro, dalla consistenza e competenza delle

risorse disponibili per promuoverlo e attuarlo”;

• “multidimensionale, in quanto concorrono alla sua definizione più variabili”

(Civenti, pp. 53-69).

Il secondo concetto ci permette di andare oltre la qualità, cioè di capire se quello che è stato

fatto, oltre ad essere stato fatto bene, è stato utile ed ha accresciuto il benessere del soggetto o

dei soggetti a cui l’intervento, il servizio, la politica erano rivolti.

La valutazione d’efficacia è quindi fondamentale al lavoro del professionista che voglia

innescare un cambiamento a tutti i livelli d’intervento e, la qualità del processo permette di

aumentare le probabilità che il cambiamento desiderato si realizzi. Le indicazioni del codice

deontologico ricordano agli operatori che, il lavoro che svolgono è importante, e proprio per

questo motivo è necessario che le loro azioni siano sostenute da una metodologia, e da

strumenti in grado di aiutarli nella valutazione del loro operato, come anche nel compito di

divulgazione dei valori e contenuti scientifici e metodologici della professione, affinché ci sia

una crescita degli operatori e della professione stessa.

Nell’intento di scrivere questa introduzione ho dovuto mettere in atto un processo di

attribuzione di significato alle impressioni e alle curiosità che l’argomento aveva stimolato in

me durante il tirocinio, ho creato delle connessioni tra le idee e il codice deontologico, e le

idee hanno iniziato a prendere forma, distaccandosi dal mio vissuto personale, fino ad

acquistare chiarezza e una propria consistenza. Adesso sono pronte a fare da trampolino a una

riflessione più ampia che proverò a sviluppare nei tre capitoli che compongono l’elaborato.

Nel primo capitolo è delineato il contesto storico-culturale e professionale dal quale emerge

l’esigenza di ricorrere alla valutazione nel servizio sociale, a partire dalle riflessioni di

Donald Schön sulle professioni e sull’attività riflessiva, per passare poi al ruolo svolto dal

servizio sociale nell’Italia democratica. Una particolare attenzione è riservata agli anni

novanta e seguenti, ricordati per l’emanazione della legge 285/1997 e della legge quadro

328/2000.

Il secondo capitolo affronta il complesso tema delle teorie sulla valutazione. Sono riprese

alcune riflessioni di Schön e di altri autori cercando di capire cosa ci sia prima della teoria, in

altre parole chi sia effettivamente colui che valuta. Si passa poi ad affrontare la teoria

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distinguendo tra teorie qualitative e quantitative, ed analizzandone alcune di entrambe le

categorie.

Il terzo capitolo introduce sinteticamente la ricerca-azione nazionale denominata RISC

(rischio per l’infanzia e soluzioni per contrastarlo) con riferimenti alle norme regionali che

hanno definito la partecipazione della Toscana al progetto, e che hanno spinto i decisori

politici verso importanti scelte per i servizi sociali integrati regionali. Il capitolo termina con

la descrizione del protocollo operativo-metodologico, utilizzato per la presa in carico dei

minori inseriti nella sperimentazione e, per la valutazione di efficacia degli interventi attuati.

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CAPITOLO 1

1.1. L’oggetto

“La valutazione è parte integrante della vita, un’azione che svolgiamo più volte nell’arco

della giornata in modo abbastanza inconsapevole, e che ci è necessaria per affrontare la vita

quotidiana. In ambito professionale, l’atto di valutare assume la connotazione di una

puntuale attività guidata da un buon grado di consapevolezza, dall’utilizzo di un metodo e di

strumenti precisi, nonché da un certo grado di razionalità e di mentalizzazione, che tuttavia

coinvolge anche intuito ed emozioni”(Casartelli, Bertotti, pp.71-86).

Il concetto di valutazione, così definito, mi è sembrato quello più adatto a introdurre

l’argomento della valutazione nel servizio sociale. Le autrici partono dall’evidenziare come

ciascuno di noi nella propria vita quotidiana si trovi a dover valutare, situazioni, persone,

relazioni, come anche, aggiungo io, a essere valutato da altri. Se però parliamo di una

valutazione professionale, quest’azione quasi inconsapevole della vita quotidiana diventa

puntuale, consapevole e guidata da un metodo che si avvale di strumenti precisi. Si passa così

da un livello di valutazione informale a uno di valutazione formale e strategica.

La funzione valutativa si ritrova in molte fasi del processo metodologico impiegato dagli

assistenti sociali, spesso in letteratura si distingue tra valutazione ex ante, in itinere, ex post3,

ma le classificazioni variano al variare del contesto professionale o del livello di azione del

professionista, e soprattutto, il significato che viene attribuito a questa funzione nasce dal

contesto storico, culturale e sociale di riferimento. Credo perciò che possa essere utile

ripercorrerne l’evoluzione in Italia dal secondo dopoguerra.

1.2 Una panoramica storica

La veloce crescita economica che caratterizza il secondo dopoguerra coinvolge sia gli Stati

Uniti sia l’Europa in uno sviluppo che porta i paesi verso la democrazia e verso la nascita di

un moderno stato sociale, il cui obiettivo primario è quello di creare e diffondere benessere

per e tra i cittadini. Le moderne democrazie devono costruire da zero il nuovo welfare state e

3 Claudio Bezzi (2007), Glossario della ricerca sociale e valutativa, versione 5.1, definisce i tre tipi di

valutazione sopraelencati.

Ex ante: valutazione su attività progettate ma non realizzate, è la valutazione svolta prima dell’approvazione e/o

della successiva implementazione di un progetto.

In itinere: valutazione che si realizza mentre il processo valutato è ancora in corso, al fine di conseguire

l’adattamento e la correzione di eventuali deviazioni del progetto originario, a causa di errori di progettazioni o

di modificazioni del contesto.

Ex post: valutazione che viene effettuata al termine di un intervento, dopo cioè che è stato completato.

L’obiettivo della valutazione ex post è di studiare se e come il progetto abbia raggiunto gli obiettivi prefissati ed

eventuali risultati ulteriori nonché immaginare soluzioni adeguate per analoghi interventi in futuro.

Nella valutazione ex post si considerano tre momenti distinti: output (se gli interventi, i servizi o le politiche

sono stati fatti); outcome (se gli interventi, i servizi o le politiche siano stati fatti bene); impatto (se gli

interventi, i servizi o le politiche servano, oppure no, per i loro destinatari)

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per farlo devono conoscere i problemi della società, acquisire una metodologia per affrontarli,

fondata su paradigmi teorici, appropriarsi o costruire strumenti di raccolta e analisi delle

informazioni, che rendano possibile la valutazione degli interventi, della loro efficacia ed

efficienza4. Le professioni sembrano essere lo strumento ideale per compiere questa

trasformazione sociale.

Annamaria Campanini (2006, pp. 19-38) colloca la nascita della valutazione, negli Stati Uniti

degli anni sessanta. Il dibattito che si sviluppa negli USA fa riferimento a una “seconda

rivoluzione scientifica”, generatrice di una società intelligente, attiva, post-industriale,

organizzata intorno alle competenze professionali, tanto che, per la prima volta, alla

valutazione viene attribuito un campo d’azione e vengono definite le basi, teoriche e

metodologiche, di questa nuova disciplina professionale. La grande fiducia nei confronti dei

professionisti, detentori di una conoscenza straordinaria su questioni di rilevanza sociale, si

trasforma molto presto in riconoscimento sociale e privilegi.

Donald Schön apre il suo libro Il professionista riflessivo (1993, nella traduzione italiana di

Barbanente A.) esaminando la crisi di fiducia nelle conoscenze professionali, in atto negli

Stati Uniti verso gli anni settanta: il dilemma che affligge le professioni non dipende dalla

scienza in sé, ma dalla visione positivistica della scienza che la Razionalità Tecnica incarna

senza, tra l’altro, riuscire a dimostrare “praticamente” la propria efficacia. Tale modello, che

“consiste nella soluzione strumentale di problemi resa rigorosa dall’applicazione di teorie e

tecniche a base scientifica” (Schön, 1993, nella traduzione italiana di Barbanente A.)

individua due fondamenti della specializzazione di un professionista:

• il reale campo di conoscenza che il professionista dichiara di dominare;

• la tecnica di produzione/applicazione di conoscenze che il professionista rivendica.

Tre sono gli elementi necessari del modello: la scienza di base, in altre parole la teoria che

produce la scienza applicata che, a sua volta, producendo tecniche diagnostiche e soluzioni ai

4 Graziella Civenti, nel suo articolo Approcci alla valutazione e funzioni professionali, pp. 53-69, in De

Ambrogio U., Bertotti T., Merlini F., L’assistente sociale e la valutazione (2007), Carocci, Roma, evidenzia

come il termine efficacia abbia significati diversi in ambito sanitario e socio assistenziale. Nel primo caso

significa capacità dell’intervento in esame di migliorare la condizione in esame, dove l’oggetto della valutazione

solitamente è lo specifico metodo di azione impiegato e, l’efficacia viene considerata un aspetto a sé della

valutazione di qualità; nella letteratura sulla valutazione sociale invece, l’efficacia è una dimensione della qualità

e l’attenzione viene posta sui servizi, i processi produttivi, i programmi, le politiche. Claudio Bezzi nel Glossario

della ricerca sociale e valutativa (2007), versione 5.1, definisce così la valutazione di efficacia (efficiency

assessment): efficacia interna (o gestionale), intesa come la capacità di raggiungere gli obiettivi o i risultati

attesi fissati a priori dall’Ente pubblico; efficacia esterna (o sociale), intesa come “la capacità del

prodotto/servizio offerto dall’Ente di soddisfare i bisogni degli utenti”. Per quanto riguarda invece la

valutazione di efficienza la definisce una “ricerca valutativa che risponde a problemi relativi ai costi del

programma comparati col valore monetario dei benefici prodotti, oppure al valore monetario della loro efficacia

in termini di cambiamenti sociali prodotti”.

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problemi, spinge i professionisti ad applicarle alle situazioni concrete, con perizia e attitudine.

La standardizzazione è particolarmente importante secondo questo modello, perché fa da trait

d’union tra teoria e pratica professionale. Una rivisitazione più recente del modello distingue

tra professioni maggiori, disciplinate da un fine non ambiguo, fondate su conoscenze

sistematiche (specialistiche, solidamente definite, scientifiche, standardizzate), delle quali il

sapere scientifico rappresenta il prototipo, e professioni minori, che risentono di fini mutevoli

e perciò incapaci di sviluppare una conoscenza rigorosa. La professione di assistente sociale è

inserita tra quelle minori ma, appare forte la volontà dei professionisti di non farsi definire dal

“sistema”, cercando sostegno nelle tecniche, negli strumenti e nelle teorie più solide, da

applicare alla pratica quotidiana.

Nelle attività sociali, l’attenzione rivolta alla valutazione d’efficacia degli interventi, si mostra

fin da subito difficile da attuare, gli strumenti e le tecniche professionali non riescono a

sopperire alle difficoltà legate alla complessità e all’instabilità delle situazioni con cui i

professionisti si confrontano. Si sviluppa e diffonde negli anni settanta una sorta di

movimento interno alle professioni, che compie un percorso di riflessione arrivando a

concludere che la complessità, l’incertezza, l’instabilità, l’unicità e i conflitti di valore che

caratterizzano le professioni, non sono governabili attraverso la conoscenza professionale

tradizionale. L’acquisizione di consapevolezza dà il via a quello che è in seguito

definito pluralismo professionale, caratterizzato da visioni numerose e contrastanti del ruolo

del professionista, e da un senso di confusione e smarrimento tra gli operatori che, con gli

strumenti e le conoscenze tradizionali, non riescono più a render conto o descrivere le proprie

competenze. L’attenzione si sposta quindi dagli effetti ai processi5, all’interno dei quali si

vogliono individuare i fattori che generano i problemi, per poter intervenire tempestivamente

e cambiare il corso degli eventi.

In Italia, la professione di assistente sociale, anche se non formalmente, nasce

contestualmente allo Stato democratico e i valori e principi che la ispirano sono racchiusi

nella Carta costituzionale. Gli assistenti sociali partecipano attivamente al rinnovamento in

senso democratico del paese, svolgendo il proprio ruolo il più delle volte dall’interno delle

5Claudio Bezzi (2007), Glossario della ricerca sociale e valutativa, versione 5.1, definisce così la valutazione di

processo (Process evaluation, o Implementation assessment, o Assessment of program process):

-la congruenza tra gli obiettivi indicati ex ante e quelli perseguiti in fase di attuazione (rilevante se gli

attuatori sono soggetti diversi dai decisori);

-il grado di cooperazione tra i vari soggetti coinvolti nella definizione ed attuazione delle politiche;

-il modo in cui vengono raggiunti i destinatari delle politiche;

-le procedure di partecipazione adottate;

-le risorse impiegate (stanziate ed effettivamente utilizzate) per realizzare l’intervento;

-gli ostacoli o facilitazioni incontrati nell’implementazione dell’intervento;

-gli impatti rilevabili dell’intervento

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organizzazioni pubbliche. Già negli anni cinquanta si occupano di sviluppo di comunità,

caratterizzato da studi di ambiente e della realtà sociale, compiono una prima forma di quella

che oggi è chiamata analisi del contesto. Tra le azioni che più rappresentano l’impegno

profuso da questi professionisti, per lo sviluppo del paese e di una nuova classe di cittadini

attivi e consapevoli, c’è la battaglia per la de-istituzionalizzazione dei numerosi enti, nati in

epoca fascista e incapaci di rispondere in maniera personalizzata alle esigenze degli

utenti/clienti.

Mentre il periodo di rinascita del paese vede gli assistenti sociali compiere interventi di

promozione, tra gli anni sessanta e settanta il focus dei servizi diventa il caso singolo, con un

problema conclamato, in un’interazione a due che vede l’utente bisognoso di aiuto e il

professionista pronto a intervenire per modificare la sua situazione.

L’avvento degli anni ottanta è segnato dal proliferare di riforme e tagli nel settore pubblico e

anche la valutazione ne subisce le conseguenze, acquisendo un orientamento top-down che

pone sempre più attenzione agli standard e al controllo delle procedure e dei budget. L’utente

diventa cliente6 in grado di autodeterminarsi, il focus dell’intervento si sposta dal caso singolo

al gruppo, dalla cura alla prevenzione e il professionista/valutatore diventa promotore di

empowerment. In questa fase si vogliono creare servizi, prevenire il rischio attribuito ai

gruppi più vulnerabili all’interno della società; il parametro fondamentale dell’assistente

sociale nell’atto di valutare rimane la persona e il suo sviluppo nel proprio ambiente, culturale

e sociale, e i servizi hanno come obiettivo la tutela di spazi di crescita personale e collettiva.

Che si parli di valutazione di un intervento, di un servizio o di una politica, il professionista

non può più prescindere dal porsi di fronte all’oggetto di studio secondo un’ottica trifocale,

che consideri la persona, la comunità e il territorio, quest’ultimo inteso come tessuto sociale,

formale ed informale, da cui attingere risorse per sostenere e promuovere il benessere dei

cittadini in difficoltà.

A metà degli anni ottanta in Italia appaiono le prime pubblicazioni sulla metodologia del

servizio sociale, si parla di processo d’aiuto alla persona e della sua articolazione in fasi,

secondo uno schema procedurale che si struttura a partire da influenze scientifiche e culturali.

Il servizio sociale come professione nasce negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento

grazie all’attività di Mary Richmond che, per prima, parla di diagnosi sociale come risultato

6 Elena Allegri, Valutazione e qualità nel servizio sociale, pp. 39-58, in (a cura di) Campanini A. (2006), La

valutazione nel servizio sociale. Proposte e strumenti per la qualità dell’intervento professionale, Carocci,

Roma, spiega i significati dei due diversi termini usati per indicare coloro che si rivolgono ai servizi. Il termine

utente indica il cittadino che fa un uso abituale di beni e servizi pubblici, in quanto portatore di diritti soggettivi,

ma senza poter scegliere il proprio interlocutore. Il cliente è invece il cittadino che partecipa attivamente alla

produzione dei beni e dei servizi, scegliendo l’interlocutore all’interno di una rete, sia pubblica sia privata, ed

esprimendo un giudizio sulla funzionalità del servizio.

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di un processo scientifico, che si serve dei fatti per verificare le ipotesi. Tale processo è

composto di tre fasi: lo studio, la diagnosi, il trattamento, con chiara influenza della

razionalità medico-scientifica. Nei decenni successivi, sempre negli USA, il movimento

psicoanalitico introduce nuove teorie e metodi d’intervento, restando fedele però al paradigma

precedente, che rimane un punto di riferimento utile per determinare la “scientificità”

dell’intervento sociale.

Un discorso approfondito sulle teorie e sui modelli teorici di riferimento per i professionisti

del sociale, sarà fatto nel secondo capitolo, qui l’accenno ha lo scopo di evidenziare

l’evoluzione, rispetto al modello originario di derivazione medico-scientifica, dell’impianto

del processo metodologico che negli anni ottanta si diffonde in Italia, e che vede aggiungersi

alle tre fasi originarie, la valutazione e, recentemente, l’assessment, segnando il

riconoscimento “esplicito” dell’importanza della funzione valutativa nel lavoro sociale.

Il concetto di valutazione con cui ho aperto il capitolo si amplia: la valutazione è

un’attribuzione di valore a qualcosa, quindi chi valuta esprime un giudizio a cui arriva

attraverso un processo di costruzione di significato, mantenendo un’ottica progettuale e

strategica. L’assessment consiste nella raccolta di informazioni e nell’analisi che il

professionista compie rispetto alla situazione di una singola persona o di una famiglia.

Significa valutazione e accertamento di fatti e situazioni in vista di un giudizio discrezionale e

di una successiva presa di decisione ponderata (Merlini, Bertotti, Filippini, pp. 115-138). Ad

esempio può riferirsi a un atto in sé concluso come una valutazione per il tribunale, ma anche

a un momento preliminare alla presa in carico o quella che di solito è chiamata analisi dei

bisogni.

1.3. La valutazione in Italia dagli anni novanta ad oggi e la normativa nazionale di

riferimento

Gli anni novanta sono quelli che più di altri vedono in Italia il settore socio assistenziale in

fermento, ai tagli si affiancano tentativi di rinnovamento. Con la legge 84/1993 è istituito

l’Ordine degli assistenti sociali, un passo formale che “riconosce” il lavoro svolto ormai da un

po’ di tempo dagli operatori, stimolandoli a crescere e a riappropriarsi di spazi e competenze.

Uno dei motivi principali del tardivo riconoscimento della professione è rintracciabile nella

sovrapposizione del mandato professionale e, di quello istituzionale dell’ente di appartenenza,

che ha spesso depotenziato la capacità innovativa degli operatori. Fondamentale, quindi, è la

successiva realizzazione del codice deontologico, basato su principi e valori propri della

professione che, già nella sua prima versione, enuncia al Titolo I (Principi), art. 5:

“Nell’esercizio delle sue funzioni l’assistente sociale non esprime giudizi di valore sulle

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persone in base ai loro comportamenti”. Gli assistenti sociali valutano le situazioni e

formulano proposte competenti, attraverso un rapporto fiduciario con l’utente/cliente

finalizzato a offrire aiuto professionale.

Paola Rossi (pp. 21-32), già Presidente Nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali, riporta

un’esperienza vissuta in prima persona presso il Tribunale Civile di Roma, e risalente al 1988.

Ancora non era stato istituito l’albo professionale e la sua richiesta d’iscrizione all’albo dei

consulenti tecnici d’ufficio del Tribunale (CTU) fu respinta; fu necessario dimostrare, tramite

un legale, la lunga esperienza in ambito valutativo della richiedente, affinché la domanda

d’iscrizione fosse accolta dalla Corte di Appello. Il riconoscimento professionale del tribunale

fu importante per la professione tutta, poiché la funzione di consulente tecnico d’ufficio

“consiste” nel valutare situazioni complesse, che esigono competenze e responsabilità

professionali. All’interno dello stesso articolo, l’autrice descrive la peculiarità della

valutazione compiuta da un assistente sociale come CTU:

• capacità di evidenziare la realtà a tutto campo e di evidenziare le interconnessioni tra

più elementi;

• capacità di fotografare la realtà hic et nunc, in un’ottica prospettica;

• consapevolizzazione delle persone e promozione del cambiamento;

• coinvolgimento degli attori;

• attitudine alla mediazione;

• capacità di confrontarsi con altri professionisti, in un clima collaborativo e

nell’interesse di tutti i protagonisti;

Negli anni novanta le politiche sociali affrontano una continua tensione tra bisogni, attese

sociali e risposte. Bisogni e attese sono in continua espansione, sia quantitativa sia qualitativa,

mentre le risposte, cronicamente inadeguate, sono giustificate dai decisori politici come

conseguenza di limitazioni e vincoli, nazionali e internazionali. E’ vero che i vincoli

internazionali ci sono, ma i singoli paesi mantengono spazi decisionali, che però sono

influenzati dalle dinamiche sociali interne, con gli stakeholders che si contendono spazi e

legittimazione. In questa dinamica i gruppi sociali portatori di bisogni sono minoritari e

marginali, quindi né forti né organizzati a sufficienza per indirizzare le decisioni. Il termine

“scarsità” diventa una specie di mantra per i decisori politici, che porta a favorire il risparmio

economico e i progetti in grado di combinare efficacia, qualità ed economicità. La

valutazione, secondo i criteri di selezione dei progetti, assume funzioni diverse: talvolta è

un’occasione per selezionare le azioni più efficaci, in altri casi è utilizzata per giustificare le

esternalizzazioni e l’istituzionalizzazione delle pratiche già in atto, eliminando la possibilità di

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una vera analisi dei bisogni sociali e quindi di risposte che non siano solo emergenziali. Con

le esternalizzazioni aumentano gli attori in campo e si può parlare di quasi-mercati7 anche nel

settore socio assistenziale, nei quali la valutazione riveste una funzione di regolamentazione e

stimolo ad una corretta competizione, che tiene in considerazione la qualità.

Tabella 1.1. Linee di sviluppo delle politiche sociali in Italia (Ranci Ortigosa, pp. 33-46)

Focalizzazione Oggetto Target Attore

prevalente

Anni

sessanta/settanta

Assistenza al caso

singolo

Problema

conclamato

Utente singolo Singolo

professionista

Anni

ottanta/novanta

Prevenzione Rischio Gruppo a

rischio

Servizio

Anni

novanta/duemila

Promozione Disagio

diffuso

Fascia di

popolazione

Rete

La tabella 1.1., realizzata da Emanuele Ranci Ortigosa, riassume le linee di sviluppo delle

politiche sociali in Italia. L’autore tiene a precisare che il passaggio del focus dell’azione

professionale dal caso singolo alla prevenzione, e poi alla promozione in un’ottica di rete, non

significa che non continui a essere posta attenzione al lavoro col singolo utente/cliente o con i

gruppi sociali a rischio. Si tratta di “assunzione di ulteriori attenzioni e responsabilità nelle

politiche istituzionali e nelle indicazioni da esse date ai servizi e alle professioni operanti nel

sociale”.

La legislazione nazionale inizia a occuparsi di valutazione con la legge 502/1992, Riordino

della disciplina in materia sanitaria, che prevede l’adozione del metodo di verifica e

controllo della quantità e della qualità8 delle prestazioni, e del loro costo. La norma che però

7 Bartlett, W., J. Le Grand (1993), Quasi-markets and Social Policy, Palgrave Macmillan, nella traduzione di

Elisabetta Marafioti per il suo documento di lavoro in occasione del CRISP day (Centro di ricerca

interuniversitario per i servizi di pubblica utilità) di Arona del 15/01/2010, definiscono I quasi-mercati dei

“modelli di erogazione di servizi caratterizzati dalla presenza di diversi fornitori e di utenti finali il cui potere

d’acquisto dipende dall’ente pubblico”. Aggiungo io che, la novità, sta nella presenza di attori pubblici e privati

in concorrenza, e di clienti che scelgono autonomamente il fornitore, cui l’ente pubblico poi corrisponderà il

prezzo del servizio. 8 Nel 1980, negli Stati Uniti, Avedis Donabedian pubblica un lavoro pionieristico sul concetto di qualità nel

settore sanitario, The definition of quality and approaches to its assessment, in cui individua tre parametri su cui

basarsi per valutare la qualità delle prestazioni. Traduzione italiana di Bruna Zini (1990), La qualità

dell'assistenza sanitaria : principi e metodologie di valutazione, Nuova Italia Scientifica, Roma. L’autrice riporta i concetti fondamentali del testo originale. Struttura:”con il termine "struttura" intendo le

caratteristiche, relativamente stabili, degli amministratori e operatori sanitari, degli strumenti e delle risorse di

cui dispongono e degli ambienti fisici e organizzativi in cui operano. Il concetto di struttura include le risorse

umane, fisiche e finanziarie necessarie all'erogazione dell'assistenza sanitaria. (...) La struttura comprende

l'organizzazione del personale ospedaliero, medico ed infermieristico”.

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investe direttamente l’ambito dei servizi sociali è la legge 285/1997, Disposizioni per la

promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza. Viene istituito il fondo

nazionale per l’infanzia e l’adolescenza “finalizzato alla realizzazione di interventi a livello

nazionale, regionale e locale per favorire la promozione dei diritti, la qualità della vita, lo

sviluppo, la realizzazione individuale e la socializzazione dell'infanzia e dell'adolescenza ….

in attuazione dei princìpi della Convenzione sui diritti del fanciullo” siglata a New York il 20

dicembre 1989.

Oltre all’importante novità di un fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, la norma apre

a temi fino a quel momento poco trattati e istituisce un servizio d’informazione, promozione,

consulenza, monitoraggio e supporto tecnico per la realizzazione della legge. All’art.9 si parla

di valutazione di efficacia e di spesa e, la valutazione dell’impatto degli interventi sulle vite

dei minori viene richiesta esplicitamente agli enti locali: le Regioni e le Province devono

presentare ogni anno una relazione al Ministro per la Solidarietà sociale, nella quale devono

indicare lo stato di attuazione degli interventi previsti dalla legge, la loro efficacia, l’impatto

sui minori e sulla società nel suo complesso.

Parlare d’impatto è sicuramente una novità nell’Italia degli anni novanta, Ugo de Ambrogio

(pp. 23-68) precisa però che allora, come in parte ancora oggi, gli interventi sociali non erano

né valutati né controllati, e l’idea di valutazione era riconducibile al concetto di controllo della

quantità d’interventi attuati.

La legge non indicava come procedere alle varie forme di valutazione richieste, né dava gli

strumenti necessari per farlo, inoltre l’interesse verteva sulla valutazione in itinere ed ex post,

ma tralasciava completamente la valutazione ex ante dei progetti da finanziare, delegando

questo compito ai successivi manuali attuativi, pubblicati tra il 1998 e il 2000, dal

Dipartimento affari sociali insieme al Centro nazionale per l’infanzia e l’adolescenza.

Altra riforma che ha offerto spunti di riflessione sul tema della valutazione è il d.lgs.

229/1998, Riforma sanitaria ter, che rilancia il tema dell’integrazione sociosanitaria. Il

decreto contiene riferimenti alla valutazione della qualità rimandando, per gli indicatori da

utilizzare nella verifica dei livelli di assistenza effettivamente assicurati ai cittadini, al Piano

sanitario nazionale; parla di valutazione dei servizi sanitari a livello regionale, aziendale e

distrettuale; definisce, tra gli obiettivi del programma di ricerca sanitaria, l’individuazione di

strumenti di verifica dell’impatto, dell’efficacia, dell’appropriatezza9 e della congruità

Processo: “comprende tutti gli aspetti delle attività di assistenza”.

Esito: “userò il termine "esito" per indicare un cambiamento nello stato di salute corrente e futuro del paziente

che può essere attribuito a un precedente intervento di assistenza”. 9 La Società Italiana di Gerontologia e Geriatria definisce l’appropriatezza come “Erogazione di interventi di

dimostrata efficacia, con la giusta indicazione, al momento giusto e nella giusta quantità” in Salvia A., Rebella

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economica delle procedure e degli interventi; vuole favorire l’autovalutazione degli operatori.

Quello che emerge invece, secondo Ugo de Ambrogio (pp. 13-22) è, “non aver colto la

complessità del tema, e, soprattutto, non aver percezione della distanza culturale tra le

procedure di valutazione, meglio sarebbe dire di controllo, oggi applicate nell’ambito delle

politiche sociali e gli strumenti proposti”.

La legge di portata storica che ha segnato il recente assetto dei servizi sociali in Italia è la

328/2000, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi

sociali. L’ultima norma che aveva avuto un simile impatto risaliva al 1890 (Legge Crispi),

quando le Opere Pie furono trasformate in IPAB (Istituti pubblici di assistenza e

beneficienza).

Il passaggio storico della legge è principalmente di tipo culturale infatti, si passa da un

sistema “assistenzialista” ad un welfare orientato alla cura, alla prevenzione e alla

promozione del benessere. All’art. 1, comma 1, si dice: “La Repubblica assicura alle

persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi

per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di

cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio

individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di

non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione”.

All’articolo 1 della legge vengono quindi individuati gli obiettivi e i principi di riferimento,

mentre nel resto della norma vengono specificate le modalità e i soggetti responsabili delle

varie azioni, secondo il principio di sussidiarietà, verticale e orizzontale.

Ugo de Ambrogio (pp. 117-172) spiega il concetto di sussidiarietà nel seguente modo : “tanto

la funzione di governo delle politiche e del sistema dei servizi, come quella di produzione di

servizi ed interventi, come infine quella di promozione e tutela dei diritti degli utenti sono

distribuite fra diversi attori, chiamati ad esercitarle spesso in concorso fra loro. Chiamati

tutti quindi ad attrezzarsi per acquisire competenze valutative”.

Enti locali, Regioni e Stato sono responsabili della programmazione e organizzazione del

sistema integrato dei servizi sociali, e a loro spetta la verifica sistematica dell’efficienza,

dell’efficacia delle azioni messe in atto, inoltre nella norma è evidente il costante riferimento

alla partecipazione del Terzo settore, delle associazioni di volontariato e delle Fondazioni

nella progettazione e nella realizzazione degli interventi, quindi anche potenzialmente nella

valutazione (sussidiarietà orizzontale).

I livelli di governo (sussidiarietà verticale) sono interessati come di seguito indicato.

V., Papalia F., Amato S., Appropriatezza e qualità delle prestazioni riabilitative, Direzione Sanitaria

Fondazione Santa Lucia IRCCS, Roma. Estratto dal sito web sigg.it

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• I Comuni sono incaricati di definire i parametri di valutazione delle condizioni di

accesso alle prestazioni e, l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza dei servizi

sociali e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale.

Tra le possibilità che il sistema integrato dei servizi offre ai Comuni, c’è quella di fare

ricorso a varie forme di gestione dei servizi, tramite il contracting out

(esternalizzazioni a soggetti privati o del privato sociale), e l’accreditamento

(controllo ex ante dei requisiti dei futuri erogatori dei servizi). Nel primo caso ai

gestori è affidato il compito della progettazione e, ai Comuni la realizzazione di una

gara d’appalto, che sembra essere il modo per garantire maggior trasparenza nei

confronti della collettività.

Per quanto riguarda l’accreditamento, da molti è stato ritenuto uno strumento per

semplificare le procedure di selezione delle offerte, definendo all’origine i livelli di

qualità che i servizi devono assicurare ai cittadini.

L’accreditamento cui fa riferimento la legge 328/2000 è di tipo “istituzionale”, cioè

“orientato a regolare i rapporti tra una pubblica autorità e i soggetti privati, rispetto

ai quali viene dichiarato il possesso di requisiti di qualità e il conseguente diritto di

erogare servizi a carico del SSN o, nel caso dei servizi assistenziali, del Comune

accreditante”. (De Ambrogio, pp. 23-68). In questo tipo di accreditamento convivono

due anime, una certificatoria e l’altra equiparatoria, che parifica tutti i soggetti

erogatori e che la norma vuole chiaramente valorizzare.

Possiamo dire che i Comuni sono incaricati di compiere gran parte della valutazione

ex ante rispetto all’offerta dei servizi territoriali, perché ritenuta importante ai fini

selezionatori in fase di distribuzione di fondi, ma anche per la sua rilevanza nello

sviluppo della consapevolezza dei vari attori sociali incaricati, ad esempio, della

programmazione del piano di zona (l 328/2000), o del piano territoriale per l’infanzia

e l’adolescenza (l 285/1997)10

.

I Comuni devono anche adottare strumenti atti a valutare l’efficienza, l’efficacia e i

risultati delle prestazioni, e garantire ai cittadini i diritti di partecipazione al controllo

di qualità dei servizi, secondo modalità previste dagli statuti comunali.

10

Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi Sociali 2001-2003 “ La predisposizione del PdZ assume un

significato strategico ai fini della precisazione delle condizioni da garantire su tutto il territorio. In tale contesto,

vanno valorizzate le esperienze programmatorie degli enti locali, realizzate sia in occasione dell'attuazione della

legge 285/97 sia nei limitati (ma significativi) casi di predisposizione di documenti analoghi, laddove previsti

dalle normative regionali (…)particolare attenzione deve essere riservata, sin dalle prime fasi della

programmazione, alle condizioni tecniche e metodologiche che consentono di effettuare (successivamente)

valutazioni di processo e di esito”.

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15

L’art. 13 della l 328/2000, comma 2, parla di uno specifico strumento chiamato carta

dei servizi sociali. “ Nella carta dei servizi sociali sono definiti i criteri per l'accesso

ai servizi, le modalità del relativo funzionamento, le condizioni per facilitarne le

valutazioni da parte degli utenti e dei soggetti che rappresentano i loro diritti, nonché

le procedure per assicurare la tutela degli utenti. Al fine di tutelare le posizioni

soggettive e di rendere immediatamente esigibili i diritti soggettivi riconosciuti, la

carta dei servizi sociali, ferma restando la tutela per via giurisdizionale, prevede per

gli utenti la possibilità di attivare ricorsi nei confronti dei responsabili preposti alla

gestione dei servizi”’.

Per trasformare il contenuto dell’articolo in un percorso di valutazione democratica11

è

necessario uno sforzo dei Comuni nel percorso di costruzione della carta stessa, che

preveda l’individuazione di standard di qualità dei servizi per e con la cittadinanza, a

cui venga riconosciuto un ruolo attivo nel processo di valutazione continua.

• Le Province concorrono alla programmazione del sistema integrato, raccolgono dati

per conoscere bisogni e risorse locali, concorrono alla realizzazione del sistema

informativo dei servizi sociali (in cui sono coinvolti tutti i livelli di governo), quindi

non compiono direttamente valutazioni, ma agevolano in questo compito gli altri

livelli di governo.

• Le Regioni programmano, coordinano e verificano gli interventi sociali e la loro

attuazione (efficacia, efficienza), promuovono cioè metodi e strumenti per la

valutazione di politiche e interventi in termini di efficienza, efficacia e qualità infatti, a

loro spetta il compito di legiferare sulle gare per l’affidamento dei servizi socio

sanitari.

• Lo Stato determina gli obiettivi e i principi di politica sociale attraverso il Piano

nazionale degli interventi e dei servizi sociali, fissa i requisiti minimi dei servizi, delle

strutture residenziali e semi-residenziali, i requisiti e i profili per le figure professionali

sociali. Per la professione di assistente sociale è stato rilevante il decreto del Ministro

dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica 3 novembre 1999, n. 509, col

quale è stato istituito il corso di laurea in servizio sociale.

Molteplicità di attori significa anche pluralità di punti di vista, quindi è necessario prevedere

una fase di formazione per tutti gli attori coinvolti, che dia loro gli strumenti necessari per

considerare la funzione valutativa come una normale dimensione della professione e del

11

Claudio Bezzi nel Glossario della ricerca sociale e valutativa (2007), versione 5.1, definisce la valutazione

democratica un “approccio valutativo vocato all’aumento della trasparenza e del dibattito democratico fra le

parti coinvolte (…) relegando il valutatore professionista a puro facilitatore”.

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lavoro nelle organizzazioni e, che permetta loro di confrontarsi in modo chiaro ed esplicito

per arrivare a decisioni il più possibile condivise.

Il percorso innovativo della legge quadro 328/2000, ha fatto da spartiacque tra due fasi

storico-culturali: quella precedente la sua emanazione, fatta di norme disomogenee e non

coordinate tra loro, quella che l’ha seguita, ancora da “fare” ma ricca di speranze.

Lo strumento attuativo della legge quadro è stato il Piano Nazionale dei Servizi Sociali

approvato nell’agosto 2001-200312

, nel quale si è parlato molto di valutazione di qualità,

intesa anche, ma non solo, come valutazione dei risultati. A tal fine “In coerenza con la legge

328/2000, il Piano Nazionale Sociale 2001-2003 promuove lo sviluppo del Welfare delle

responsabilità, ovvero di un Welfare che può essere definito plurale, perché costruito e

sorretto da responsabilità condivise, in una logica di sistema allargato di governo, che

valorizzi il federalismo solidale in cui: tutti livelli di governo, Comuni, Province, Regioni e

Stato, ognuno nell'ambito delle proprie competenze, concorrono a formulare, realizzare e

valutare le politiche sociali; le organizzazioni sindacali e le associazioni sociali e di tutela

degli utenti partecipano a formulare gli obiettivi di ben-essere sociale e a valutarne il

raggiungimento”.

De Ambrogio (pp. 23-68) evidenzia come la normativa nazionale, nel tempo si sia

contraddistinta per un interesse crescente verso la valutazione, insistendo soprattutto sui

servizi e le politiche e lasciando la valutazione dei singoli interventi quasi totalmente ai

professionisti.

A distanza di più di un decennio dalla riforma del sistema integrato dei servizi e degli

interventi sociali, alcuni studiosi iniziano a valutarne gli effetti. Tra questi, Emanuele Ranci

Ortigosa (pp. 33-46) evidenzia soprattutto il forte contenimento delle risorse pubbliche

destinate alle politiche sociali e, l’evidente preferenza per le prestazioni economiche piuttosto

che per la promozione dei servizi. Parla, infatti, di un ritorno a una forma di welfare centrata

sui singoli casi in grave difficoltà che definisce neoassistenzialismo. Le cause del fallimento

della riforma sono rintracciabili in alcune resistenze presenti nella società e nei servizi sociali

12

Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi Sociali 2001-2003 “La realizzazione del sistema integrato di cui

alla legge 328/2000 richiede l'avvio di un profondo cambiamento culturale nella società intera. La legge

328/2000 propone un sistema in cui: il cittadino non è solo utente, le famiglie non sono solo portatrici di bisogni,

la rete non si rivolge solo agli ultimi (o ai penultimi), l’assistenza non è solo sostegno economico, l’approccio

non è solo riparatorio, il disagio non è solo economico, il sapere non è solo professionale, gli interventi sociali

non sono opzionali. Al contrario, il sistema integrato di interventi e servizi sociali deve essere progettato e

realizzato a livello locale: promuovendo la partecipazione attiva di tutte le persone, incoraggiando le esperienze

aggregative, assicurando livelli essenziali in tutte le realtà territoriali, potenziando i servizi alla persona,

favorendo la diversificazione e la personalizzazione degli interventi, valorizzando le esperienze e le risorse

esistenti, valorizzando le professioni sociali, valorizzando il sapere quotidiano, promuovendo la progettualità

verso le famiglie, prevedendo un sistema allargato di governo, più vicino alle persone”.

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stessi. La società dei primi anni duemila è caratterizzata da una forte spinta alla

frammentazione e alla competizione che nei servizi sanitari prende la forma

dell’aziendalizzazione, con ciò che comporta in quanto a enfatizzazione sui temi

dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità. Nei servizi sociali prendono campo tendenze

“tradizionaliste” mai sopite che propongono un ritorno al lavoro sul caso, “riverniciato” da

attenzione al singolo individuo, alla famiglia e alla libertà di scelta, che evitano a molti

operatori lo sforzo di rimettersi in discussione in termini di responsabilità e competenze

professionali.

Secondo Ranci Ortigosa (pp. 33-46) storicamente è possibile rintracciare la presenza di un

approccio assistenzialistico almeno in tre modelli culturali che hanno inciso sulle professioni

sociali:

• il modello della beneficienza, “che pone al centro il benefattore per il bene che fa al

beneficato, che è (e deve essere) destinatario passivo, onesto e consenziente (a volte

persino obbediente, appunto per il suo bene). Non c’è tanto da capire perché quello

che conta è fare, fare il massimo possibile, grazie alle capacità umane e professionali

dei singoli operatori”;

• il modello burocratico-amministrativo, “che deriva il suo paradigma dalle originarie

connotazioni del sistema burocratico”, e impiega come criteri di lettura della realtà

solo le espressioni della legge e perciò, per comprendere la realtà sociale nella sua

complessità, la “scompone”, da qui il proliferare di molti enti, uno per ogni tipologia

di disagio. Questo modello è caratterizzato dalla mancanza di flessibilità e

dall’autoreferenzialità che rischia di non considerare l’interlocutore;

• il modello clinico-sanitario, “che ha le sue origini e il suo punto di forza nella

professione medica, e considera il malato incompleto, solo il medico lo può

ricondurre all’integrità. E’ una visione fortemente paternalistica.

Parlare di assistenzialismo o neoassistenzialismo perciò significa riconoscere nell’assetto del

sistema, e nelle professioni sociali, la perdurante influenza dei tre modelli (approccio

beneficenziale, paternalismo medico, riduzione burocratica dei bisogni), che sono il risultato

dell’involuzione di fattori originari importanti, come: altruismo, etica medica, tutela

amministrativa della legalità.

Dopo questa breve panoramica storica e normativa sulla valutazione, il secondo capitolo

tratterà delle teorie di riferimento per i professionisti che si occupano di valutazione nel

settore sociale.

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CAPITOLO 2

2.1. Prima della teoria

Prima della teoria, è la persona che riconosce l’inadeguatezza delle forme rispetto al contesto,

pur non conoscendo le regole che esse hanno violato. E’ la persona che conosce tacitamente la

realtà che la circonda attraverso le sensazioni. Donald Schön (1993, nella traduzione italiana

di Barbanente A.) afferma che l’atto di conoscere è nella nostra azione quindi, sia il

professionista sia la persona qualunque, nella pratica quotidiana “formula innumerevoli

giudizi di qualità per i quali non è in grado di definire criteri adeguati e mostra capacità per

le quali non è in grado di definire regole e procedure”. Da questo processo riflessivo, che è

un “comportamento spontaneo proprio della pratica esperta” in cui “riveliamo un tipo di

attività cognitiva che non deriva da una precedente operazione intellettuale” (Schön, 1993,

nella traduzione italiana di Barbanente A.), emergono alcune proprietà che si possono così

sintetizzare:

• “vi sono azioni, riconoscimenti e giudizi che sappiamo spontaneamente come

effettuare; non dobbiamo pensarci sopra prima o durante il loro svolgimento;

• siamo spesso inconsapevoli di aver imparato a fare queste cose; semplicemente ci

troviamo a farle;

• in alcuni casi, eravamo un tempo consapevoli di comprensioni che erano

susseguentemente interiorizzate nella nostra sensibilità per la sostanza dell’azione. In

altri casi, non avremmo mai potuto esserne consapevoli. In entrambi i casi,

comunque, siamo di solito incapaci di descrivere l’attività cognitiva rivelata dalla

nostra azione.”

Se pensiamo alla definizione di valutazione con cui ho aperto il primo capitolo, ci rendiamo

conto di come riflessione e valutazione siano irrimediabilmente connesse. Per un

professionista la riflessione nel corso dell’azione può servire da correttivo al ripetersi della

pratica quotidiana, ed essere d’aiuto nell’attribuzione di nuovi significati alle situazioni che si

presentano. La riflessione nel corso dell’azione confonde e allo stesso tempo spinge a cercare

un modo per uscire dalla confusione. Dipende dall’esperienza della sorpresa, provocata dagli

esiti dell’azione, e dal conoscere implicito nell’azione, ma per spiegare tutti questi processi

inconsapevoli, è necessario che il conoscere nell’azione venga trasformato in conoscenza

nell’azione, la teoria.

Il professionista deve conoscere il maggior numero di metodi pur sapendo che ciascuno di

essi è parziale e che quindi il metodo migliore è quello che meglio risponde alle difficoltà

incontrate in ciascuno specifico caso. Affrontare il problema del metodo significa porsi in

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un’ottica di analisi e di ricerca degli elementi fondanti la professione, significa muoversi

all’interno delle diverse dimensioni guidato dai principi che sostengono il lavoro in ogni tipo

di valutazione. Due di essi mostrano come sia difficile marcare nettamente il confine tra

valutatore e valutato: il principio di autovalutazione permette a ciascun soggetto coinvolto

di sentirsi responsabile e primo utilizzatore della propria valutazione, e perciò parte attiva nel

processo di apprendimento che la valutazione stessa stimola, e il principio dei diversi livelli

di valutazione, evidenzia come tutti i soggetti siano coinvolti nell’attività valutativa, seppur

in misura diversa. Se passiamo al terzo, quello di autoreferenzialità, emerge la necessità di

agire in conformità ai dati oggettivi provenienti da più fonti. De Ambrogio e Civenti (pp. 89-

107), per comprendere meglio in quale accezione sia possibile parlare di oggettività

nell’ambito sociale, descrivono la funzione asintotica dell’oggettivazione di Francis Alföldi,

educatore specializzato, dottore in scienze dell’educazione e consulente in metodologia della

valutazione13

. Si tratta di una dimostrazione grafica di come nella valutazione, da una

situazione di totale soggettività, il valutatore tenda ad avvicinarsi all’oggettività senza

raggiungerla mai (si parla perciò di oggettivazione), perché professionista che opera

nell’ambito dei servizi alla persona. Il quarto è il principio di confrontabilità, che s’interessa

dei criteri di giudizio e dei metodi utilizzati, necessariamente omogenei, per permettere

confronti sia nel corso del tempo sia fra più esperienze. Infine c’è il principio di

trasparenza, che ricorda ai vari attori che le attività devono essere sempre chiare, esplicite e

documentate. In coerenza con tali principi dovrebbero essere utilizzati accorgimenti quali il

coinvolgimento degli attori, la costruzione di percorsi e di strumenti riproducibili nel corso

del tempo e a più livelli.

I livelli di azione di un assistente sociale sono principalmente tre: gli interventi sui singoli

casi; i servizi, rivolti a gruppi di destinatari, attraverso prestazioni coordinate e continue messe

in atto per soddisfare un bisogno comune a più persone; le politiche, rivolte a settori e fasce di

popolazione, attraverso interventi e servizi integrati pensati strategicamente, in relazione ad

un determinato territorio. Per conoscere gli obiettivi della valutazione che il professionista

riflessivo compie, ci vengono in aiuto Ugo de Ambrogio e Graziella Civenti (pp. 89-107),

quando scrivono che gli interventi si valutano per conoscere la qualità, l’efficacia e

l’efficienza delle risposte fornite ai cittadini/utenti, e per poterle eventualmente migliorare in

corso d’opera. I servizi invece sono valutati per “analizzare le capacità di risposta al gruppo

dei destinatari e per fornire risposte omogenee, in termini di qualità, efficienza ed efficacia”.

13

Per approfondimenti, De Ambrogio U., Civenti G., Attenzioni metodologiche e passaggi chiave nello

svolgimento delle funzioni valutative, pp. 89-107. in De Ambrogio U., Bertotti T., Merlini F.(2007),

L’assistente sociale e la valutazione, Carocci, Roma, si riferiscono al testo di Alföldi F. (1999), L’évaluation en

protection de l’enfance, Dunod, Paris.

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Per quanto riguarda le politiche, si valutano “le risposte fornite alle domande e ai bisogni

emergenti da una determinata comunità territoriale valorizzandole o riorientandole per

offrire opportunità sempre più consone all’evolversi dei bisogni sociali”.

Fino a qui ho usato più volte i termini riflessione e valutazione, ma è importante capire quale

significato il professionista attribuisca a essi, poiché ve ne sono molti possibili. Alcune tra le

definizioni più interessanti del concetto di riflessione, adatte al lavoro che l’assistente sociale

svolge, sono quelle di Locke e Husserl. “Locke considera la riflessione, o “senso interno”,

come una delle due fonti delle nostre idee: attraverso la sensazione abbiamo le idee che ci

vengono dall'esterno, con la riflessione abbiamo le idee delle nostre operazioni mentali,

come percepire, dubitare, credere, ragionare, volere, desiderare ecc. Per Husserl, la

riflessione è identificata con la coscienza; e quindi si devono distinguere la riflessione

“naturale”, prefilosofica, e la riflessione “fenomenologica”, la quale presuppone

l'astensione del giudizio sulle cose e sui fatti (in greco epoché) come sua condizione.

(Dizionario filosofico, sito web Riflessioni.it).

Alessandro Sicora (pp. 59-75) ha cercato di comprendere la possibile relazione tra riflessione

e autovalutazione, intesa come “quella forma di valutazione operata dal soggetto agente

nell’ambito di un processo d’azione finalizzato”, ed è riuscito a rendere l’idea di quali siano i

punti che legano e differenziano i due concetti. Se prendiamo a riferimento le definizioni di

valutazione implicita, valutazione spontanea e valutazione formale14

, che si trovano nel

Glossario della ricerca sociale e valutativa, per l’autore “la riflessività sembra potersi

collocare a cavallo tra sommerso e informalità su una posizione determinata in rapporto al

grado di consapevolezza e di sistematicità assunto dalle modalità di autovalutazione

utilizzata”. L’autore, consapevole del fatto che nell’ambito del servizio sociale ancora non è

realmente iniziato uno studio riguardante il tipo di riflessione di cui ho parlato finora,

individua alcuni fattori che comunque potrebbero agevolarla. Primo fra tutti un ambiente di

lavoro in cui sia tollerato un certo grado di errore, considerato anche come opportunità di

approfondimento delle strategie usate, e sul perché non abbiano funzionato; situazioni in cui i

14

Claudio Bezzi (2007), Glossario della ricerca sociale e valutativa, versione 5.1, definisce i tre tipi di

valutazione sopraelencati.

Valutazione implicita (o sommersa): “la spontanea formulazione di giudizi operata dagli individui nella loro

vita quotidiana. Non ha alcuna dimensione scientifica ed è farcita di pregiudizi, a differenza della valutazione

spontanea e di quella formale”.

Valutazione spontanea (o informale): “una forma di valutazione informale operata dagli individui senza criteri

di scientificità (a differenza della valutazione formale), ma con esplicitazione delle argomentazioni (a differenza

della valutazione implicita)”.

Valutazione formale (o istituzionale): “ogni forma di valutazione esplicita e programmata, basata su regole e

modalità tecniche e scientifiche, finalizzata alla redazione di un rapporto valutativo (a differenza delle

valutazioni‘implicite’ e ‘spontanee’)”.

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professionisti, attraverso giochi di ruolo o altre tecniche, possano sperimentare nuovi modi di

azione; ogni lavoro sulle proprie emozioni poiché orientative dell’azione; vari tipi di lavoro

sull’accrescimento della consapevolezza.

L’attività riflessiva del professionista del sociale è finalizzata all’operatività che, nella società

contemporanea, riguarda situazioni caratterizzate per lo più da complessità, incertezza,

instabilità, unicità e conflitti di valore. In un simile ambiente la riflessione sulla propria

esperienza aiuta a dare significato alle azioni già svolte e agli eventi, ma per il professionista

diventa centrale soprattutto individuare strumenti e metodologie che lo rendano sempre più

abile nella professione, proprio come un artigiano, che sa a cosa serve ogni singolo attrezzo

del mestiere ma è anche capace, all’occorrenza, di riadattarlo o costruirne di nuovi. Perciò la

valutazione/riflessione non riguarda solo gli effetti , ma anche la riproducibilità dell’azione

stessa. Schön (1993, nella traduzione italiana di Barbanente A.) ci ha descritto un

professionista competente, in quanto:

• conosce nell’azione

• riflette sull’azione (reflection-on-action), cioè “compie quell’attività retrospettiva di

pensiero attivo che si sviluppa sulla pratica professionale, ma che si colloca

esternamente a questa, ovvero in un momento diverso”, successivo, per permettere di

migliorare il cammino intrapreso

• riflette nel corso dell’azione (reflection-in-action), compie cioè una forma di

riflessione legata all’intuito e alla capacità di valutare nel corso dell’azione, propria

degli “intenditori”.

Nell’ambito della ricerca valutativa e della formazione la questione è molto sentita, Sicora

(pp. 59-75) nel suo articolo cita Ferrario a riguardo: “L’esigenza che oggi va prioritariamente

colta e fronteggiata riguarda la teoria della pratica, che si produce attraverso l’analisi, la

sistematizzazione dell’agire, il tentativo di costruire generalizzazioni (…) per passare poi (…)

alla teoria per la pratica, attraverso la docenza, le letture critiche”. Secondo l’autore, la

formazione permanente è una delle possibilità che gli assistenti sociali hanno per riflettere

sull’azione. Viene, infatti, interrotta temporaneamente l’attività lavorativa ed è possibile,

tramite il rapporto tra formatori e partecipanti, la condivisione di conoscenza utile alla

professione. La supervisione è un altro importante contesto in cui riflettere sull’azione,

caratterizzato dallo scambio di esperienze e conoscenze tra pari, sostenuti da un conduttore

che di solito è un professionista del sociale. In entrambi i casi è utile far convergere la

riflessione sulla documentazione professionale, nella quale si possono rintracciare molte

informazioni importanti sulle teorie sottese all’azione, legate alla visione del mondo dei

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singoli operatori. L’articolo di Alessandro Sicora ha colto il mio interesse perché il lavoro

sulla documentazione che l’autore propone, apre una finestra sull’importanza di una

riflessione sulla “comprensibilità” del lavoro svolto, perché, affinché il cambiamento si metta

in moto, è necessario che tutti i soggetti coinvolti nella riflessione/valutazione, condividano

uno stesso linguaggio. Il linguaggio usato dagli operatori nelle relazioni professionali, per

esempio, ha spesso uno stile narrativo che evidenzia ciò che viene “riconosciuto” come

necessario, ma anche molti elementi che il singolo operatore coglie perché legati alla propria

cultura. Il modo di esporre tali elementi può essere causa di fraintendimenti se il lettore non

condivide la stessa cultura, quindi è attraverso la riflessione su ciò che è stato scritto che è

possibile far emergere ciò che era rimasto sommerso, dando così un senso completo e

condiviso al testo e al lavoro svolto nella pratica quotidiana.15

Potremmo allora affermare che

la riflessività nel servizio sociale è una forma di metariflessione informale, quando si avvale

di strumenti non razionali come metafore e immagini, allo scopo di aiutare il professionista a

migliorare la propria abilità a livello operativo (autovalutazione); invece, quando si lega alla

supervisione, stiamo parlando di riflessione sull’azione. In entrambi i casi ben si adatta al

modello prassi-teoria-prassi che caratterizza il lavoro dell’assistente sociale.

2.2. La teoria

Teoria: “Formulazione sistematica di principi generali relativi a una scienza, arte o branca

del sapere, e anche delle deduzioni che da tali principi si possono ricavare per via puramente

logica”. (Campanini, 2002).

Annamaria Campanini (2002), a chiunque voglia addentrarsi nella miriade di teorie esistenti,

propone una riflessione riguardante i presupposti di scientificità dell’agire professionale, e a

riguardo cita alcune parti del resoconto di un importante convegno, svoltosi a Siena nel 1983,

in cui si affronta il tema del servizio sociale come “una teoria operativa (…), che cresce come

capacità di riflettere sulla realtà sociale e sul lavoro, in base a certi principi e indicazioni di

metodo, in rapporto all’evoluzione della società e dei suoi bisogni, alla storia delle

istituzioni, allo sviluppo delle teorie di riferimento”. La teoria fornisce i presupposti su cui è

possibile costruire un modello che serva da schema di riferimento per analizzare le situazioni

che gli operatori devono affrontare, trovando in esso una giustificazione alle scelte operative.

La teoria deve sempre essere in sintonia con i principi della professione.

15

Per approfondimenti Alessandro Sicora, Riflessività e autovalutazione nel servizio sociale, pp. 59-75, in (a

cura di) La valutazione nel servizio sociale. Proposte e strumenti per la qualità dell’intervento professionale,

Annamaria Campanini (2006), Carocci, Roma, parla dell’analisi testuale sui nodi della comprensione di

Lumbelli rimandando al testo Fenomenologia dello scrivere chiaro (1989), Editori Riuniti, Roma.

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23

2.3.Teoria e valutazione

I paradigmi teorici da cui si è sviluppata la valutazione nell’ambito del servizio sociale e che

la orientano attualmente sono variegati. Ciascuno di essi affronta principalmente tre aspetti:

• la questione ontologica (forma e natura della realtà);

• la questione epistemologica (relazione tra ricercatore/valutatore e oggetto della ricerca

/valutazione);

• la questione metodologica (scelta delle procedure per raggiungere la conoscenza)

(Campanini A., pp. 19-38).

I vari paradigmi possono essere alla base di modelli applicabili, sia alla valutazione compiuta

dall’interno, caratterizzata da approfondita conoscenza del contesto, allo scopo di

implementare l’attività complessiva dei servizi; sia a quella compiuta dall’esterno, più

limpida, perché meno esposta alle dinamiche presenti nell’organizzazione. In entrambi i casi

ci sono vantaggi e svantaggi, in base agli obiettivi che i promotori si pongono. La valutazione

esterna è strettamente connessa alla ricerca, tanto che i confini tra i due ambiti rimangono

sfumati e i metodi usati sono spesso comuni o comunque adattabili a entrambi i contesti.

La prima distinzione importante da fare è quella tra teorie quantitative e teorie qualitative.

2.3.1. Alcune teorie quantitative

Una delle classificazioni che ci permette di avvicinare le teorie quantitative è quella di Guba e

Lincoln16

distinguendo positivismo e post-positivismo sulla base delle tre variabili sopra

citate (Campanini, pp. 19-38).

Tabella 2.1.

DIMENSIONE

ONTOLOGICA

DIMENSIONE

EPISTEMOLOGICA

DIMENSIONE

METODOLOGICA

PO

SIT

IVIS

MO

Sorta di realismo ingenuo in

cui si suppone l'esistenza di

una realtà affidabile governata

da leggi naturali e immutabili.

Il ricercatore oggettivo crede

di poter conoscere la realtà

per come "veramente" è.

Verifica d’ipotesi attraverso

un'attività di

sperimentazione/manipolazione.

16

Per approfondimenti Annamaria Campanini, La valutazione nel servizio sociale, pp. 19-38, in La valutazione

nel servizio sociale. Proposte e strumenti per la qualità dell’intervento professionale,Carocci, Roma, rimanda al

testo di Guba E.G., Lincoln Y.S. (1994), Competing paradigms in qualitative research, in Denzin N.K., Lincoln

Y.S. Handbook of qualitative research, Sage Publications, Thousand Oaks (CA).

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DIMENSIONE

ONTOLOGICA

DIMENSIONE

EPISTEMOLOGICA

DIMENSIONE

METODOLOGICA

PO

ST

-

PO

SIT

IVIS

MO

Sorta di realismo critico, che

assume una realtà oggettiva,

che può essere conosciuta solo

in maniera imperfetta.

Il ricercatore avvicina la

realtà ma non la comprende

totalmente.

Approccio sperimentale che prevede

anche l'impiego di tecniche

qualitative. Più orientata a falsificare

le ipotesi piuttosto che a verificarle.

Un filosofo che ha segnato il passaggio dal positivismo al neopositivismo è Karl Popper. Dal

punto di vista epistemologico, Popper cerca un criterio che segni il limite tra scienza e non-

scienza, tra le asserzioni delle scienze empiriche e quelle di tutte le altre scienze. La realtà

non è immobile, bensì è costantemente sottoposta a mutazioni, quindi le teorie sono realizzate

per fare previsioni e verificarle in rapporto all’esperienza. “La conoscenza scientifica non può

dunque essere certa, ma approssimativamente d’accordo con l’esperienza” (De Domenico).

Il punto di partenza di questa nuova epistemologia scientifica è la critica alla metafisica, che

pretende di dimostrare la realtà di là dall’esperienza. Se quindi la scienza è costruita su teorie

fallibili, è necessario costruire un metodo che stabilisca i limiti della conoscenza scientifica.

Popper passa quindi dal metodo della verifica delle ipotesi, caro ai positivisti, a quello della

falsificazione. Dato che è impossibile verificare tutte le ipotesi e, che una sola smentita può

far crollare un’intera teoria, una teoria o un’asserzione-base17

possono essere falsificate solo

se esiste quello che lo scienziato chiama potenziale falsificatore: cioè un asserto di base

logicamente in conflitto con una di esse. Più numerose sono le possibili falsificazioni, più

ricco è il contenuto scientifico e la conoscenza che ne può derivare. Secondo il criterio della

falsificabilità una teoria è scientifica nella misura in cui essa può essere smentita

dall’esperienza. L’errore è considerato un momento strutturale del procedere della scienza,

tanto che fare scienza significa errare ed imparare dai propri errori (De Domenico).

Tra gli autori che hanno sviluppato un’applicazione di questa teoria (detta anche realismo

scientifico) alla valutazione nel servizio sociale, troviamo Kazi. Egli propone un “percorso

circolare che parte dalla considerazione dei modelli d’intervento usati dai professionisti,

analizzando quanto questi riflettono la realtà e come possono essere implementati per

rispondere in maniera più efficace ai bisogni dei cittadini” (Campanini, pp. 19-38). Si crea

quella che è chiamata interazione circolare (realist effectiveness cycle), in cui operatori e

17

Secondo Karl Popper l’asserzione-base è un enunciato elementare sulla cui accettazione esiste un accordo tra

gli osservatori scientifici “Se un giorno gli osservatori scientifici non potessero più mettersi d’accordo sulle

asserzioni-base ciò significherebbe un fallimento del linguaggio come mezzo di comunicazione universale (…)

la ricerca scientifica sarebbe ridotta all’assurdo (…)”, in De Domenico M., La conoscenza scientifica secondo

Karl Popper, Università degli studi di Catania. Testo rintracciabile sul sito web fisicict.altervista.org

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valutatori sono allo stesso tempo docenti e discenti. Lo scopo di questo tipo di valutazione è

di accrescere l’efficacia dei programmi in termini di contenuto e di target, di sviluppare la

teoria, di arricchire le tecniche di raccolta dati, e di riprodurre gli interventi che sono risultati

efficaci. Attraverso quest’approccio teorico si cerca di entrare in quella che è chiamata white

box, e di rendere espliciti i meccanismi per cui le persone cooperano e riescono a far

funzionare gli interventi attraverso l’assunzione di responsabilità. Lo stesso Kazi18

ha

realizzato una classificazione, che si fonda sull’analisi di alcune tra le maggiori pubblicazioni

uscite in Gran Bretagna nella seconda metà degli anni novanta, da cui emergono due approcci

quantitativi: la pratica empiricamente fondata (empirical practice) e, il pragmatismo o

pluralismo metodologico.

Storicamente Mary Richmond è stata la prima ad avere parlato di diagnosi sociale come

prodotto di un processo scientifico negli interventi sui singoli casi (casework). La Richmond

raccomandava agli operatori di “accertare se le manifestazioni di anormalità aumentino o

diminuiscano di intensità” (Reid, Zettergren, pp. 55-80) e, il suo approccio fu in seguito

portato avanti dai sostenitori della teoria psicanalitica. In entrambi i casi si parlava di scienza

come attività di problem solving razionale e sistematica e, anche se i paradigmi dell’epoca

non erano raffinati come quelli attuali, ne posero le basi.

Negli anni sessanta la pratica empiricamente fondata si affermò soprattutto in ambito

accademico e fu sviluppata con l’aiuto dei nuovi metodi comportamentisti, s’iniziò a parlare

di misurazione dei trattamenti e di variabili di esito, ma soprattutto fu impiegata una

metodologia sia per guidare, che per valutare gli interventi. La metodologia più comune

divenne il disegno di ricerca a sistema singolo (DSS), che aveva tra le sue funzioni quella di

determinare l’efficacia del lavoro sociale tout court e dimostrare il lavoro svolto dagli

operatori. Il movimento dell’empirical practice negli Stati Uniti si affermò come una

complessa interconnessione tra modi di lavorare e modi di fare ricerca sul campo ,

impiegando le tecnologie di misurazione del comportamentismo, senza però aderire alle idee

di trasformazione del comportamento. In Gran Bretagna l’attenzione fu posta maggiormente

sui modelli empiricamente orientati, come l’intervento basato sulla ricerca, mentre l’impiego

del DSS nella valutazione dei casi o la riflessione sul ruolo dell’operatore /ricercatore, come

generatore di conoscenza (learning), divenne secondario. Altri autori, soprattutto in Gran

Bretagna, sostennero la tesi che la pratica empiricamente fondata tendesse, volutamente o no,

18

Per approfondimenti Annamaria Campanini, La valutazione nel servizio sociale, pp. 19-38, in La valutazione

nel servizio sociale. Proposte e strumenti per la qualità dell’intervento professionale, Carocci, Roma, rimanda

al testo di Kazi M.A.F. (2000), Contemporary perspective in the evaluation of practice, in British Journal of

Social Work, vol. 30, pp.755-68.

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a indirizzare l’attenzione dell’assistente sociale sugli aspetti comportamentali, tralasciando

l’influenza dell’ambiente e del sistema sociale di riferimento. La conseguenza fu la nascita e

lo sviluppo di due movimenti, strettamente legati alle metodologie impiegate.

• Disegno sperimentale a sistema singolo

Si tratta di “una metodologia di ricerca che permette agli assistenti sociali di

tracciare i loro progressi con i clienti (…) acquisire conoscenze sull’efficacia

dell’intervento di servizio sociale” (Campanini, pp. 19-38). Questa metodologia

prevede una verifica continua dei progressi del cliente, ma non si occupa delle loro

connessioni con l’intervento attuato dall’operatore. La versione più semplice è

chiamata AB design, e considera come target dell’intervento il comportamento da

modificare. L’operatore raccoglie informazioni sul target nella fase A e individua i

cambiamenti in esso avvenuti dopo l’intervento (fase B).

La versione più complessa si chiama ABC design (o successive intervention design)

che, rispetto ad AB, prevede un ulteriore intervento e la conseguente misurazione del

comportamento target (fase C).

Esiste una terza tipologia, reversal design (ABAB): si definiscono le caratteristiche del

target (A), è fatta una prima misurazione in concomitanza dell’intervento (B),

un’ulteriore raccolta di informazioni in assenza dell’intervento e, una successiva

raccolta in presenza dell’intervento ripetuto. E’ utilizzata per misurare l’impatto.

Infine Campanini presenta il Multiple Baseline Design (MBD), strumento di

valutazione che permette di comparare due diversi interventi ed esaminarne l’efficacia

con maggior sicurezza rispetto al DSS.

Tra i potenziali effetti negativi, il DSS ha quello di rischiare di generare confusione tra

gli interessi dell’utente e gli obiettivi dello studio. In realtà nella pratica i disegni

controllati prima descritti sono impiegati molto raramente.

• Prove controllate ripartite con scelta casuale (Randomized Controlled Trials –

RCTS)

Tentativo di stabilire collegamenti di causa-effetto tra intervento e condizione dei

clienti. Il risultato, basato sul confronto tra gruppo di controllo e gruppo sperimentale,

non considera a sufficienza l’ambiente sociale di riferimento e quindi i risultati non

possono essere utilizzati al di fuori del contesto di ricerca.

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E’ quindi corretto dire che il movimento dell’empirical practice si caratterizza per la presenza

di tre aspetti:

• la specificazione dei problemi di target e le finalità;

• la descrizione degli scopi in termini misurabili;

• il monitoraggio dei cambiamenti degli utenti nel corso del tempo (Reid, Zettergren,

pp. 55-80).

Campanini (pp. 19-38) evidenzia come nell’immaginario collettivo l’approccio dell’empirical

practice sia assimilato al positivismo, ma ci dice anche che nel servizio sociale il positivismo

è considerato una metodologia e quindi, il DSS (o SSD, Single System Design) può essere

impiegato da operatori che usano modelli teorici di riferimento diversi.

Secondo Reid e Zettergren (pp. 55-80) è possibile utilizzare il DSS, se lo consideriamo

neutrale teoricamente, in interventi che si basano sull’approccio umanistico (rogersiano),

senza violarne i principi base, oppure nell’ambito di approcci di ricerca partecipativa, o nella

ricerca-azione19

. La pratica empiricamente fondata, secondo i due studiosi, è molto

dispendiosa e i suoi effetti sono incerti, ma nell’ambito del servizio sociale potrebbe aiutare a

promuovere la responsabilità degli operatori. Le varie funzioni attribuite alla valutazione,

sono raccolte sotto due voci: rendicontazione (accountabillity) e apprendimento (learning). Se

ci fermiamo al significato che l’empirismo attribuisce alla prima delle due, si tratta di rendere

possibile il controllo dello specifico contributo degli operatori in un intervento, all’interno del

cambiamento misurato. Se si va oltre questa cornice teorica, può significare anche

responsabilità nei confronti degli utenti oppressi, e messa in discussione delle varie forme di

oppressione esistenti nella società (perciò si lega anche al learning).

L’approccio teorico chiamato pragmatismo o pluralismo metodologico, manifesta una certa

insofferenza per le disquisizioni puramente epistemologiche che caratterizzano l’empirical

19

“Il termine ricerca azione o ricerca intervento nasce dall’ autore inglese Kurt Lewin, psicologo sociale, il

quale coniò la parola action research. Lewin si pose il problema della Action Research quando iniziò a lavorare

nel campo delle scienze sociali, in particolar modo sui problemi delle minoranze etniche degli Stati Uniti negli

anni 40. Ciò che rappresentò un'autentica innovazione nel metodo e nel processo di ricerca da parte di Lewin, fu

la progressiva scoperta, del fatto che il processo conoscitivo finiva con il divenire un'azione sociale proprio nel

momento in cui la popolazione veniva coinvolta. Lewin pensò allora di enfatizzare questo aspetto e di attribuire

alla popolazione capacità e competenze conoscitive, coinvolgendola nel processo di ricerca stesso. Si scoprì così,

oltre al fatto che il processo di conoscenza aveva già le caratteristiche dell'azione, che la conoscenza più

efficacemente utilizzabile ai fini dell'azione sociale era proprio quella che emergeva nel processo conoscitivo.

L'Action Research guarda in maniera costruttiva ai principi che ne verificano la validità. Essa prende origine dal

riconoscimento, attraverso la ricerca nelle scienze psicologiche, della contingenza di azione e conoscenza nei

processi di apprendimento. Lewin per primo ha indicato le procedure salienti della ricerca-azione distinguendole

in pianificazione, azione,osservazione e riflessione con il fine di migliorare i sistemi sociali. Nel 1948 sosteneva

già che la ricerca azione fosse un metodo necessario per la realizzazione di programmi per gruppi minoritari nel

sociale. Da qui si deduce il carattere pratico di questa metodologia. Questi stadi sono stati successivamente

ampliati nel 1976 da Cunnigham, il quale prevedeva per ogni fase un momento di valutazione che serviva a

decidere se proseguire o meno verso la fase successiva”. Estratto dal sito web tecnoteca.it

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practice, perché rischiano di bloccare i processi valutativi. Il suo obiettivo primario è quello

di procedere sulla strada della ricerca riguardante l’efficacia del lavoro sociale. Campanini

(pp. 19-38) cita una serie di autori che, parlando del pluralismo metodologico, evidenziano

come la combinazione di più metodi, sia quantitativi sia qualitativi, aiuti ad avvicinarsi alla

realtà, e sia quindi utilizzabile anche nella valutazione: interviste, questionari, scale, griglie di

analisi, ecc… In questo modo non si considerano solo gli effetti della misurazione degli

interventi, ma anche il loro contenuto e ci si addentra maggiormente nella complessità della

realtà sociale. Questa metodologia è adatta a fornire valutazioni sulla pratica già realizzata.

2.3.2. Alcune teorie qualitative

Vista la complessità dell’argomento, sento la necessità di partire da una definizione condivisa

di cosa s’intenda nella “comunità” degli scienziati sociali, col termine valutazione qualitativa.

Possiamo dire che “la valutazione qualitativa, in prima battuta, potrebbe essere intesa come

espressione di tutto ciò che può essere conosciuto tramite l’analisi dei discorsi, dei testi o dei

comportamenti osservabili. Ciò che essa tenta di fare è interpretare e scoprire il significato di

questi fenomeni, così da arrivare a formulare un giudizio su un dato intervento”(Gould, pp.

81-100). Un esempio utile a comprendere ciò che è stato appena detto è quello di un assistente

sociale che, nell’ambito della tutela minorile, per verificare l’andamento o l’esito delle attività

svolte, rielabora la documentazione professionale sul caso (diari, relazioni, ecc..).

I membri della “comunità” cui ho accennato sopra, hanno svolto un lavoro che ha permesso lo

sviluppo di una ricerca qualitativa in campo sociale, seguendo tre diversi percorsi:

• gli scienziati sociali hanno assunto il lavoro sociale come settore d’indagine, seguendo

in questo processo l’evoluzione teorica e metodologica delle discipline di

appartenenza;

• i ricercatori sociali hanno impiegato i metodi qualitativi per comprendere i problemi

che incontrano gli operatori;

• i professionisti del lavoro sociale (ricercatori e operatori) si sono occupati dello

sviluppo di forme qualitative di valutazione applicabili alla pratica professionale

(Gould, pp. 81-100).

Rispetto alle teorie quantitative sulla valutazione, l’orientamento qualitativo ancora oggi non

si è altrettanto sviluppato né affermato, ma secondo Gould (pp. 81-100), è possibile

individuarne gli assunti principali:

• il processo d’indagine e di valutazione è ciclico piuttosto che lineare;

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• non c’è distinzione tra osservazione e azione e, i ricercatori assumono un

atteggiamento riflessivo nei confronti delle proprie azioni;

• la metodologia dipende dal flessibile adattamento degli strumenti, che risultano

appropriati per ogni specifico contesto.

Secondo Campanini (2006, PPT) le teorie qualitative possono essere definite anche paradigmi

interpretativi, giacché non si propongono di spiegare la realtà bensì la vogliono comprendere.

La realtà è una costruzione soggettiva, oppure sociale, ma in entrambi i casi mai immutabile e

comunque differente tra le varie culture. Non ne esiste una universalmente condivisa. La

metodologia prevede l’interazione tra studioso e studiato, perché solo in questo modo è

possibile comprendere il significato attribuito dal soggetto alla propria azione. Le tecniche

sono quindi qualitative e soggettive e il metodo usato è quello dell’induzione. “L’elemento

centrale di questi paradigmi sta nell’utilizzo di un approccio dialogico che aiuta i

partecipanti ad acquisire una maggiore consapevolezza e capacità di autoriflessione,

offrendo un modello di valutazione trasformativa” (Campanini, 2006, PPT). La società

attuale si fonda sul concetto di complessità, nel senso di relatività della conoscenza e della

realtà, quest’ultima considerata frutto di costruzione relazionale. Secondo la prospettiva

socio-costruzionista, applicata alla valutazione nel servizio sociale, la co-costruzione dei

significati tra i vari stakeholders e quindi anche l’operatore, è segno di qualità del processo

valutativo. Se parliamo di costruttivismo “tout-court”, ci riferiamo alla costruzione dei

significati come processo prevalentemente individuale, col termine costruzionismo sociale, la

costruzione del significato viene considerata invece un processo sociale, linguistico, culturale.

“La conoscenza è frutto di costruzione condivisa da diversi soggetti, appartenenti alla

medesima comunità culturale, in interazione tra loro” (Castiglioni). L’elaborazione da parte

di Donald Schön di quella che lui chiama pratica riflessiva ha influenzato molto lo sviluppo

recente delle teorie qualitative, soprattutto, ha inciso la sua idea di pratica professionale come

forma costante d’indagine e valutazione, produttiva di nuove conoscenze. A livello operativo

la pratica riflessiva dell’assistente sociale parte da un’esperienza concreta, che prevede le fasi

della presa in carico e dell’assessment, il cui obiettivo è di analizzare la situazione,

individuare il problema e, condividerlo con l’utente (riflessione nel corso dell’azione). Segue

poi l’osservazione riflessiva (riflessione sull’azione), caratterizzata dall’assimilazione e dalla

sintesi delle informazioni. A questo punto c’è una prima concettualizzazione del problema,

che deve servire a suggerire forme concrete ed efficaci d’intervento. Infine le nuove

prospettive aperte dalle fasi precedenti, si traducono in indicazioni operative da testare nella

pratica (Gould, pp. 81-100). Se la pratica riflessiva aiuta gli operatori a stanare i propri

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pregiudizi, la riflessività diventa critica solo quando i pregiudizi, ormai svelati, aiutano a

comprendere i giochi di potere che influenzano le relazioni sociali, e gli ambienti in cui si

sviluppano e crescono. Un processo riflessivo, che sia veramente critico, deve quindi svolgere

una funzione emancipatoria e antioppressiva. La valutazione e la ricerca valutativa, per essere

legittimate devono “esplicitare il proprio intento, manifestare i propri valori e utilizzare un

approccio sistematico per la raccolta dei dati”(Milner, O’Byrne, 2005) utilizzando strumenti

qualitativi attendibili. Fondamentale rimane comunque la preparazione del

ricercatore/valutatore, perché inevitabilmente influenzato dalla propria visione della realtà. Le

vere potenzialità della ricerca e della valutazione qualitativa stanno nella forma estesa e

dettagliata propria dei dati qualitativi.

Le tradizioni valutative più in sintonia con l’ambito del servizio sociale sono quelle che

promuovono la partecipazione dei destinatari dei servizi. Sapendo di non poterle descrivere

tutte in maniera adeguata, ho scelto di presentarne due tra quelle che, a mio parere,

inseriscono il lavoro dell’assistente sociale nel più ampio processo di mutamento sociale,

offrendo una visione insolita dell’intervento socio assistenziale. Si tratta della ricerca

partecipativa e della ricerca di matrice femminista.

“La ricerca partecipativa è uno strumento d’indagine democratico che si focalizza sui fattori

sociali, politici ed economici che sostengono le forme di oppressione in essere” (Dullea,

Mullender, pp. 101-126). L’azione di comunità e la ricerca partecipativa, sono eticamente

connotate e cercano di valorizzare e sviluppare le capacità delle persone allo scopo di far loro

assumere il controllo della propria vita, comprendendo e fronteggiando le cause di

oppressione e ingiustizia che determinano le loro vite. Il servizio sociale non è estraneo al

sistema di conoscenza calata dall’alto che caratterizza la società, anche quando offre al

cittadino molte opportunità tra cui scegliere. La valutazione, come ho in parte accennato nel

capitolo precedente, è spesso di orientamento top-down. Ricerca e valutazione partecipativa

cercano di andare nella direzione opposta (approccio bottom-up), attraverso un processo che

può essere sintetizzato in tre punti:

• cercare di promuovere una coscienza critica;

• migliorare le condizioni di vita dei partecipanti;

• trasformare i rapporti e le strutture sociali (Dullea, Mullender, pp. 101-126).

Il ricercatore, secondo quest’ottica, lavora con la gente, condividendone timori e aspirazioni,

in un rapporto da soggetto a soggetto. Deve essere pronto a mettersi in discussione e,

soprattutto, deve credere nella capacità delle persone di prendere in mano la propria vita. La

ricerca partecipativa è in realtà ricerca-azione partecipativa, e per questo richiede

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familiarizzazione con il contesto e con i partecipanti e un metodo circolare: informazione-

azione-riflessione, anche definito come indagine-intervento-valutazione. La rilevanza

dell’operatività, necessaria per raggiungere la conoscenza, non mina la legittimità del metodo

di ricerca, con cui è possibile sia la raccolta sia l’analisi delle informazioni, utili a produrre

nuove conoscenze dal basso. La ricerca partecipativa si fonda sulla convinzione che anche le

persone comuni possano fare ricerca, una volta comprese le condizioni d’ingiustizia che le

opprimono e dopo aver raccolto e analizzato i dati utili.

Due sono le questioni da considerare per i ricercatori/valutatori che si vogliano avventurare in

un’esperienza simile: i possibili conflitti d’interesse e, che cosa s’intenda per

ricerca/valutazione partecipativa. Per quanto concerne i conflitti d’interesse, gli operatori

sociali sono spesso in bilico tra la volontà di restituire potere ai cittadini, e la necessità di

rendicontare ai propri superiori gli esiti dei loro interventi, dimostrando di essere in linea con

la mission dei servizi. In questo caso il ricercatore/valutatore deve essere il primo capace di

modificare, a vantaggio del proprio scopo professionale, le strutture burocratiche di cui è

parte. La questione del livello di partecipazione degli stakeholders, in primis il

ricercatore/valutatore, è legata alla sincera adesione dell’interessato ai valori anti-oppressivi e

alla riflessività della ricerca. Le relazioni devono essere improntate alla comprensione

reciproca, tramite un linguaggio comune e la condivisione del significato che il progetto

assume nell’esperienza dei diversi attori. Nel caso del servizio sociale, gli operatori devo

essere in grado di socializzare le proprie mansioni e competenze con gli utenti, proprio perché

consapevoli di occupare una posizione di potere. Perciò la pratica valutativa può realizzarsi

soltanto attraverso la socializzazione dei criteri di efficacia, successo e desiderabilità dei

risultati attesi. Questo modello valutativo si colloca alla base di un servizio sociale che voglia

essere antidiscriminatorio.

A tale proposito è ampio il contributo giunto, alla ricerca partecipativa, da parte

dell’approccio femminista. Entrambe le prospettive si basano su ideali comuni che possono

tradursi in pratica valutativa favorevole all’empowerment20

:

• innanzitutto la conoscenza è considerata potere, quindi è fondamentale apprendere

l’uso del pensiero critico e ammettere da subito che entrambe le prospettive non

20

Per una comprensione del concetto di empowerment nell’ambito della ricerca valutativa riferirsi a Claudio

Bezzi (2007), Glossario della ricerca sociale e valutativa, versione 5.1, in cui l’autore definisce il termine

Empowerment evaluation: “Una strategia di ricerca valutativa fortemente partecipata che delega ai partecipanti

a un programma il controllo e la responsabilità della conduzione della valutazione allo scopo di produrre risultati

emancipativi, di democratizzazione, di aumento della conoscenza, etc. ai beneficiari; si potrebbe tradurre, in

italiano, con ‘valutazione emancipativa”.

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32

saranno mai politicamente neutre. Analizzare le strutture sociali considerandole

oppressive rappresenta di per sé una presa di posizione precisa;

• fondamentale è il mutamento sociale, inteso come trasformazione personale e sociale;

• c’è in entrambi i tipi di ricerca la volontà di colmare il divario esistente tra ricercatore

e oggetto della ricerca che, infatti, diventa “soggetto” (partnership di ricerca);

• la riflessività dei vari attori produce dati preziosi;

• la ricerca partecipativa e quella femminista assumono connotazioni non manipolative,

né gerarchiche;

• è importante la soggettività dei partecipanti nella ricerca delle informazioni;

• l’organizzazione è collettiva;

• l’azione diretta è inclusa nel processo di ricerca (ricerca partecipativa femminista);

• in una pratica valutativa che voglia davvero definirsi “emancipatoria” non possono

essere ignorate le varie forme di discriminazione presenti nella società.

Tra le femministe è ampiamente condivisa l’idea che non esista uno specifico metodo

femminista, l’elemento distintivo di questa forma di ricerca è piuttosto quello di “descrivere

le reali dinamiche della ricerca a partire da una chiave d’interpretazione femminista”

(Humphries, pp. 149-166), che si fonda su alcuni principi base. Innanzitutto quello della

consapevole parzialità nei confronti dell’oggetto di studio, che consiste in una parziale

identificazione con esso (essere donne è una comune esperienza che espone a una comune

forma di oppressione). La comunità scientifica non considera questa parzialità come positiva

ai fini di una legittimazione, ma le ricercatrici di matrice femminista non accettano l’idea che

l’oggettività sia prerogativa dei soli metodi quantitativi. Il concetto di parzialità mette in

discussione l’idea che la scienza sia libera dall’influenza dei valori, ma non nega l’importanza

dei metodi scientifici rigorosi e, infatti, ci sono correnti femministe che si rifanno

maggiormente all’empirismo. Secondo principio è quello della visione dal basso, nello

specifico con essa si sostiene la necessità di dare voce alle donne, ma anche a tutte le altre

categorie sociali minoritarie, riconoscendo che non esiste una posizione femminista

universale, rappresentativa di tutte le condizioni. Terzo principio è quello dell’orientamento

alla prassi, perché “è dall’esperienza e dall’azione contro ciò che viene percepito come

oppressione, che trae vita una peculiare ontologia femminista; è dall’esplorazione analitica

dei parametri da questa assunti nel processo di ricerca, che deriva l’espressione di una

specifica epistemologia femminista” (Humphries, pp. 149-166). Da qui poi si costruisce una

prassi femminista, o metodologia, di cui valutazione e ricerca diventano componenti

essenziali. Altro principio fondamentale è quello del mutamento dello status quo, che

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33

costituisce il punto di partenza per questo tipo di valutazione. Maria Mies (Humpries, pp.

149-166) prevede infine il principio della coscientizzazione, mutuato dall’opera del

pedagogista brasiliano Paulo Freire, che vede la valutazione e la ricerca come occasioni per

incoraggiare i partecipanti a mettere in discussione i rapporti di dipendenza esistenti

(coscienza critica), ma anche come opportunità, per gli operatori, di focalizzare l’attenzione

sulle potenzialità degli utenti piuttosto che sui loro punti di debolezza.

La partecipazione degli utenti è un elemento chiave dei servizi sociali odierni, e si basa

sempre più sull’idea che l’expertise sia qualcosa che appartiene sia agli operatori professionali

sia agli utenti. Più che come pura conoscenza esperta, l’expertise potrebbe essere

riconcettualizzata come promozione, insieme agli utenti, dell’assessment dei problemi che

essi hanno di fronte; capacità di assistere le persone nella costruzione dei piani di intervento

assistenziale; attivazione di abilità demistificatorie, fornendo informazioni appropriate e

promuovendo praticamente il diritto degli utenti a partecipare ai processi decisionali che li

riguardano. L’assessment “si riferisce alla raccolta di informazioni e all’analisi effettuate

dall’operatore sociale rispetto alla situazione di una singola persona o famiglia. Più

estensivamente, si potrebbe parlare di assessment anche in riferimento alla situazione di un

gruppo o di una comunità locale - anche se di solito – in letteratura – questa dizione viene

riferita per lo più alla dimensione del caso singolo”(Raineri, pp. 9-22). Il termine italiano che

più si avvicina all’assessment è valutazione, ma non è ad esso sovrapponibile, in quanto la

valutazione di cui l’assessment si interessa è principalmente quella del bisogno, che si pone in

una fase iniziale della relazione d’aiuto, quindi talvolta può indicare la valutazione iniziale

(valutazione dei bisogni, valutazione del rischio, valutazione di accesso alle prestazioni), ma

non una valutazione di processo o di esito.

Solitamente l’assessment è impiegato nel lavoro sul singolo caso (casework), ma di recente si

è sviluppato in una forma che si avvicina alla valutazione della capacità d’azione nell’ottica di

rete, e quindi si ricollega al tema della ricerca partecipativa: l’agency assessment. Esso può

contenere vari approcci teorici alla valutazione, allo scopo di valutare le capacità che le

persone possiedono per fronteggiare un problema. Attraverso l’attivazione di dinamiche

relazionali incentrate sulla reciprocità, l’operatore aiuta la comunità nello sviluppo

dell’empowerment, sostiene la necessità di un intervento sociale. Egli considera le difficoltà

degli utenti esterne a essi, e influenzate da variabili di portata sociale. Potremmo

schematizzare questo processo come segue:

• conoscere la composizione della rete di fronteggiamento naturale del problema ( chi si

rende conto che qualcosa non va), e sapere chi è coinvolto nel fronteggia mento (chi

sta già facendo qualcosa e con quali esiti);

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• individuare chi potrebbe essere disponibile (o tenuto), fra quanti ancora non sono

coinvolti, a dare un contributo (Raineri, pp. 9-22).

Per terminare la riflessione sulle teorie è necessario affrontare, seppur brevemente, la

questione dei modelli teorici che guidano gli assistenti sociali nella pratica professionale.

Dal Pra Ponticelli (2005) parte da una definizione di modello teorico in relazione al lavoro

sociale, dicendo che “Nelle scienze sociali si usa intendendolo come schema di riferimento,

un insieme di assunti fondamentali necessari a delimitare e determinare ciò che è più

rilevante in una scienza o in una teoria. I modelli sono strumenti necessari all’indagine;

mettono in rilievo certi problemi, suggeriscono i dati necessari e il modo in cui devono essere

raccolti, indirizzano verso i metodi con cui i dati devono essere analizzati”.

La riflessione teorica nel lavoro sociale non è mai fine a se stessa, non si conosce per

conoscere, ma piuttosto per capire la realtà e poterci interagire. Gli autori anglosassoni ne

parlano come di teoria della pratica,” che si fonda su processi osservativi-induttivi che

originano una serie di enunciati ricavati da generalizzazioni. E’ il sapere che si ricava dalla

descrizione della realtà operativa” e, come teoria per la pratica, che “si colloca al livello

normativo del sapere, si costruiscono modelli di analisi e di intervento per la pratica

attraverso un confronto con le teorie idiografiche21

delle scienze sociali” (Dal Pra Ponticelli).

Le variabili di cui si deve tener conto nel processo di elaborazione di un modello teorico per il

servizio sociale sono essenzialmente tre:

• I principi e i valori del servizio sociale;

• Le teorie delle scienze sociali (nomotetiche22

e idiografiche);

• Le teorizzazioni della prassi (teoria della pratica).

La prima fase del processo prevede la mediazione tra la prima e la seconda variabile, infatti,

un assistente sociale deve potersi riferire ad assunti teorici provenienti da altre scienze sociali,

rimanendo coerente con i principi che ispirano la professione, per poi arrivare a formulare

un’ipotesi. La coerenza riguarda soprattutto la corrispondenza tra l’orientamento scelto e le

indicazioni metodologiche usate, che non possono avere fondamenti opposti (ad esempio non

si può impiegare un approccio che si fonda sulla causalità circolare e poi usare metodologie

operative tratte da orientamenti che postulano la causalità lineare) infatti, l’operatore deve

21

Per scienze idiografiche si intendono quelle “scienze storiche, per le quali solo il particolare conta, posto che

i fatti storici e i loro protagonisti sono irripetibili. L’altra caratteristica metodologica delle scienze idiografiche o

storiche è la relazione al valore, senza la quale non si comprendono i reali motivi che spingono gli uomini

all’azione”. Estratto dalla Enciclopedia Treccani sito web treccani.it. 22

Le scienze nomotetiche “sono le scienze della natura (…). Esse vanno alla ricerca di leggi generali sotto le

quali il particolare viene completamente assorbito perdendo ogni carattere specifico”. Estratto dalla Enciclopedia

Treccani sito web www.treccani.it.

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35

essere consapevole dei presupposti teorici sulla cui base opera. La coerenza deve riscontrarsi

nel procedimento metodologico, corretto e sistematico, necessariamente tale per non creare

confusione tra valori, teoria, operatività. Possiamo allora dire che il modello teorico offre

all’operatore i contenuti, le prassi operative, le tecniche e gli strumenti da impiegare nelle

varie fasi del processo metodologico, e che quindi i due elementi sono inscindibili e solo

insieme offrono una possibile base scientifica all’agire professionale. Il processo

metodologico si sviluppa secondo una logica circolare a spirale, in cui le varie fasi sono

collocate una di seguito all’altra, la circolarità è l’elemento che permette di ritornare su

ciascuna fase a più riprese, se necessario. La scansione in fasi è sempre stata presente nel

servizio sociale, ma adesso si può parlare di un metodo unitario che permette di agire in

maniera globale e promozionale, piuttosto che curativa. L’agire globale dell’assistente sociale

include anche la conoscenza, intesa come processo che è insieme espressivo, razionale,

simbolico, guidato dalla ragione ma in grado di fare spazio all’empatia. La principale

differenza operativa tra interventi, servizi e politiche, riguarda più che altro le attività e agli

strumenti che si scelgono di utilizzare. E’ corretto quindi dire che il processo metodologico

impiegato dall’assistente sociale è “una forma mentis che l'operatore utilizza sempre,

qualunque sia il tipo di intervento che deve fare e con qualunque tipo di interlocutore, sia

esso una persona o una famiglia, un gruppo, una comunità, e qualunque sia il suo obiettivo”

(Vancheri A. D., 2011). La coerenza di cui parlavo poc’anzi non è semplice da attuare, quindi

mi sento di considerarla una delle sfide che la professione deve affrontare per rimettersi in

gioco nella società attuale. Insieme, anche, a un impegno nel trovare luoghi e tempi da

dedicare all’elaborazione di nuovi modelli, in sintonia con gli obiettivi del servizio sociale

contemporaneo, così da evitare quel ritorno a nuove forme di assistenzialismo cui accennavo

nel primo capitolo attraverso le riflessioni di Emanuele Ranci Ortigosa (pp. 33-46).

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36

CAPITOLO 3

3.1. Il progetto Risc: rischio per l’infanzia e soluzioni per contrastarlo

Dopo aver ripercorso insieme parte della storia e della legislazione nazionale relativa al

servizio sociale, nello specifico riguardo la valutazione, ed aver presentato alcune teorie di

riferimento per gli operatori e i ricercatori che si occupano di valutazione, vado a presentare

una recente esperienza di ricerca-azione nazionale, a cui la Regione Toscana ha aderito e che

ho potuto seguire, seppur in minima parte, nel corso del tirocinio che ho svolto presso il

S.A.A.S. (Servizio Associato di Assistenza Sociale), che comprende i Comuni di Pelago,

Rufina, San Godenzo, Londa e Pontassieve, con sede operativa in quest’ultimo comune.

A gennaio 2013 ho iniziato il mio tirocinio formativo affiancando un assistente sociale che era

referente sociale della Società della salute Fiorentina Sud-Est per il progetto RISC. Mi sono

accorta da subito di avere una grande opportunità, quella di osservare dall’interno la

realizzazione di un progetto che affrontava un tema di rilevanza per i servizi sociali e nello

specifico per chi si occupa di minori: il problema dell’allontanamento dei minori dalle

famiglie d’origine. Ho riconosciuto da subito il valore di questa esperienza che avrebbe

costituito una grande opportunità di crescita professionale e che mi suscitava un profondo

interesse. Rifacendomi a Schön e al concetto di riflessione nel corso dell’azione, potrei dire

che lo stupore per l’entusiasmo provato mi ha spinta a riflettere su che cosa avesse realmente

colto il mio interesse, e quindi stimolata ad ascoltare con maggiore attenzione gli operatori

discutere del progetto RISC, a osservarli mentre utilizzavano il software S-P appositamente

costruito, al fine di conoscere lo strumento, dando il via a un processo di apprendimento che

anche adesso, nel momento in cui scrivo, prosegue. Mi accingo quindi a presentare il RISC,

consapevole che questa esperienza è un’importante fonte di crescita per il servizio sociale

come professione e come scienza teorico-pratica.

3.2. L’inquadramento normativo toscano del progetto Risc

Alla fine del 2008 il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha commissionato alla

Fondazione Emanuela Zancan onlus uno studio nazionale sul rischio di allontanamento dei

minori dalla famiglia di origine, allo scopo di valutare il grado di applicazione delle norme

nazionali 184/1983 (poi modificata con legge 149/2001) e 285/199723

, e di ottenere alcuni

dati relativi all’efficacia degli interventi messi in atto dai servizi, per tradurre nel concreto il

23 Legge 184/1983 "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori"; legge 149/2001 “Modifiche alla

legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori», nonché al titolo

VIII del libro primo del codice civile; legge 285/1997 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità

per l'infanzia e l'adolescenza”

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diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nella propria famiglia. La ricerca ha

trovato l’adesione di sei regioni italiane, tra cui la Toscana, che lo ha fatto con l’obiettivo di

“sperimentare e diffondere tra i servizi sociali e socio sanitari del sistema integrato regionale

una metodologia di presa in carico basata sulla misurazione e il monitoraggio degli

interventi e sulla valutazione di outcome”24

, a fronte di dati25

che dimostrano un trend in

crescita per quanto riguarda la fragilità delle famiglie e rimanendo, al contempo, in linea con

le indicazioni della lrt 41/2005 e del Piano integrato sociale regionale 2007-2010, in vigore

fino al 31/12/2011. Nel primo anno hanno partecipato la Società della Salute Valdarno

Inferiore e il Comune di Firenze. Il secondo anno di sperimentazione26

si sono aggiunte le

SdS Mugello, Alta Valdelsa, Fiorentina Sud-Est e Pisana e, in un secondo momento, la SdS

Fiorentina Nord-Ovest e quella Empolese. L’obiettivo specifico delle istituzioni è stato quello

di “proseguire ed estendere il percorso avviato con la ricerca-azione RISC per realizzare una

sistematica valutazione di efficacia degli interventi e dare l’opportunità agli operatori di

spiegare e determinare gli indici di efficacia conseguiti e le condizioni per ottenerli”27

. Di

non minore rilievo è stata la possibilità di verificare il rapporto costo/efficacia, prevista dalla

sperimentazione, e considerata dalla Regione come un’occasione per riuscire a erogare livelli

essenziali di assistenza a costi sostenibili. La Toscana ha avuto, a livello nazionale, il maggior

numero di adesioni e l’interesse dei servizi è andato di pari passo con quello dimostrato dalle

istituzioni. Per il primo anno di ricerca sono stati prenotati 72.000 euro dal Bilancio regionale,

se ne sono poi aggiunti altri 52.200 all’anno per le annualità 2012, 2013, 2014, finalizzati ad

attuare le linee d’intervento per la diffusione del protocollo operativo metodologico sul

territorio toscano, ad opera della Fondazione Zancan. Come detto sopra, ho

vissuto l’esperienza della ricerca-azione solo dopo la fine del biennio di sperimentazione

quindi, più che seguire l’esperienza degli operatori coinvolti nelle varie fasi, formative e di

restituzione delle conoscenze, ho avuto modo di vedere l’implementazione dello strumento

operativo-metodologico utilizzato per la presa in carico integrata dei minori a rischio di

allontanamento. E per questo ho scelto, in questa sede, di presentarlo.

24

DGR Toscana 668/2011 25

Monitoraggio annuale realizzato dal centro regionale di documentazione su infanzia e adolescenza di cui alla

legge regionale 31/2000 26

DGR Toscana 227/2012 e allegato A “Linee d’intervento e implementazione del progetto nazionale Rischio

per l’infanzia e soluzioni per contrastarlo – RISC”. 27

Id.

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38

3.3. Perché il Risc

Il progetto RISC è stato realizzato in un momento storico preciso per i servizi sociali e per le

politiche sociali in generale. Dopo l’attenzione degli anni novanta nei confronti dell’infanzia e

dell’adolescenza, che ha portato all’emanazione della legge 285/1997, i decisori politici si

sono concentrati maggiormente su altre questioni, come ad esempio la non autosufficienza,

rallentando, se non proprio bloccando, un processo che aveva preso il via grazie soprattutto

alla partecipazione degli operatori del settore. Per quanto riguarda la valutazione, ha avuto

risalto quella di processo e non è stata approfondita la valutazione di efficacia. In occasione di

una tavola rotonda tenutasi presso l’Istituto degli innocenti di Firenze il 29 settembre 201028

,

Tiziano Vecchiato29

evidenzia come abbia preso campo la falsa convinzione che fare

valutazione di efficacia sia troppo difficile. L’autore al contrario afferma che la valutazione di

efficacia non è difficile, ma ha senso solo nel rapporto diretto con le persone, quindi gli

operatori per primi sono chiamati ad attrezzarsi per poterla compiere. Inoltre la valutazione è

migliore quando è partecipata, quando coinvolge le famiglie e i bambini, perché gli indicatori

che essa necessita sono quelli diretti e non intermedi e da reinterpretare. Ma è anche

necessario che i professionisti riescano a discriminare tra le diverse forme di valutazione.

Valutare la soddisfazione degli utenti non è la stessa cosa che valutare gli esiti e il benessere

che gli interventi hanno provocato. Ad esempio, la partecipazione di tutti gli attori significa

co-responsabilità e, almeno in un primo momento, la responsabilizzazione per dei genitori in

difficoltà potrebbe diventare motivo di scontro con i servizi e di critiche. Tutto ciò non va

confuso con l’esito dell’intervento. La valutazione di efficacia è importante per gli operatori

che lavorano sul campo e che spesso hanno a che fare con prese in carico che difficilmente

arrivano a una conclusione, perché dà loro la possibilità di capire se le decisioni prese hanno

migliorato la vita delle persone. Anche un minimo miglioramento può sostenere sia la

motivazione dell’operatore sia quella dell’utente, spingendo entrambi a impegnarsi ancora di

più. Valutare gli esiti degli interventi potrebbe far emergere anche la loro inefficacia, e a quel

punto tutti i soggetti coinvolti si troverebbero nella condizione di dover mettere in discussione

molte delle loro certezze, teoriche e pratiche. Non bastano quindi le buone prassi, secondo

Vecchiato30

esse vanno considerate solo come primo passo per una crescita della ricerca

valutativa e del servizio sociale, e devono essere seguite da studi sperimentali che producano

delle evidenze, così da sostenere gli operatori nelle difficili decisioni da prendere. Di queste

28

Tavola rotonda dal titolo Approcci qualitativi e quantitativi per valutare l’efficacia degli interventi per

l’infanzia e la famiglia: prospettive internazionali a confronto, tenutasi presso l’Istituto degli innocenti di

Firenze il 29 settembre 2010. Video completo visionabile sul sito web fondazionezancan.it 29

Id. 30

Id.

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39

sperimentazioni gli operatori devono essere i protagonisti e, insieme ai ricercatori, devono

poter rinforzare quel necessario rapporto tra prassi e teoria che caratterizza il servizio sociale

e le professioni di aiuto. Il Risc è una risposta a questa necessità.

3.4. La ricerca-azione

Il modello teorico e metodologico di riferimento utilizzato nella ricerca-azione si chiama

“Persona”, cioè Personalised Environment for Research on Services, Outcomes and Needs

Assessment31

, che anche nel nome ricorda ai ricercatori e agli operatori, di lavorare a effettivo

servizio delle famiglie e dei minori. La ricerca-azione è stata suddivisa in tre fasi: l’analisi

della situazione esistente; la ricerca di soluzioni innovative, efficaci, necessarie e appropriate;

la formulazione di proposte trasferibili. La Fondazione Zancan ha impostato il lavoro

dall’unione di conoscenze raccolte con metodo osservazionale e analitico, basato sull’analisi

della letteratura, della normativa, dei costi dell’organizzazione dei servizi; col metodo

sperimentale, attraverso l’impiego di un disegno sperimentale multicentrico (sei regioni32

e

dodici unità operative, due per ogni regione) La scelta operativa ha privilegiato un disegno

sperimentale multicentrico pre-test e post-test, con un gruppo di controllo composto da

genitori e figli in difficoltà e, considerando i cambiamenti avvenuti nell’arco di 5-6 mesi.

Tabella 3.1 Fasi del disegno sperimentale classico

Gruppo sperimentale Gruppo di controllo

1.Selezione dei soggetti 1.Selezione dei soggetti

2.Selezione delle condizioni sperimentali 2.Selezione delle condizioni sperimentali

3.Pre-test 3.Pre-test

4.Esposizione agli stimoli sperimentali 4.Post-test ( valori post test – valori pre test)

5.Post-test ( valori post test – valori pre test) 5.Effetto causale: diff. sper. - diff. controllo

Per quanto concerne la valutazione S-P (schema polare) il gruppo di controllo ha previsto la

presa in carico usuale con valutazione aggiuntiva e, al gruppo sperimentale è stata applicata la

presa in carico secondo il protocollo di ricerca. Il primo obiettivo è stato quello di verificare la

differenza di esito dei metodi di presa in carico usuali a favore di minori a rischio di

31

Per approfondimenti Vecchiato T, Mazzini E.L.L. (2008), (a cura di) L’integrazione sociosanitaria: risultati di

sperimentazioni e condizioni di efficacia, Fondazione E. Zancan, Padova. 32

Hanno partecipato alla sperimentazione RISC le seguenti regioni: Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna,

Piemonte, Toscana, Veneto. Canali C., Vecchiato T. (2011), (a cura di) rapporto finale RISC: rischio per

l’infanzia e soluzioni per contrastarlo, in Quaderni della Ricerca Sociale n°12, Fondazione Emanuela Zancan

Onlus, Padova.

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40

allontanamento, misurandone l’efficacia sulle condizioni di vita dei singoli bambini con

strumenti quantitativi e qualitativi. Lo studio è iniziato attraverso l’analisi della letteratura

internazionale in materia e, col reperimento d’informazioni attraverso questionari

somministrati a un gruppo di esperti internazionali che si occupano di minori. Le domande si

sono concentrate sui metodi di analisi dei bisogni, sulle risposte disponibili, sul processo

secondo il quale è stabilito l’allontanamento, la definizione di bambino “a rischio”, i costi

degli interventi. La ricerca internazionale ha mostrato uno scenario molto variegato, che in

qualche modo si ritrova all’interno dell’Italia, con ampie differenze tra le varie regioni.

Dall’analisi è emerso che la presa in carico è un momento fondamentale per valutare gli

aspetti problematici e promuovere le azioni efficaci nel ridurre il rischio di allontanamento, e

che la sola adesione ai principi e ai valori per una migliore tutela dell’infanzia non è

sufficiente (Canali, Vecchiato, 2011). Dai dati esistenti a livello nazionale si evince inoltre

che la valutazione è compiuta più che altro sul processo di allontanamento e non sugli esiti

che esso comporta, per la vita dei minori e delle loro famiglie. Il secondo obiettivo è stato

quello di dare una risposta sperimentale al quesito: se e come identificare una soglia di

rischio, utilizzabile per prendere decisioni in condizioni di forte criticità, con sufficiente

fiducia che le scelte adottate siano finalizzate alla migliore protezione e tutela del minore

(Canali, Vecchiato, 2011). I criteri d’inclusione delle famiglie nella ricerca sono stati i

seguenti:

• famiglie con figli in età 0-17, in cui esiste la compresenza di diverse problematiche

sociali e sociosanitarie;

• necessità d’intervento di più servizi;

• ruoli genitoriali non svolti adeguatamente;

• presenza di fattori di rischio di allontanamento per i bambini/ragazzi dovuti a

conflittualità genitoriale che degenera in violenza tra coniugi e sui figli, trascuratezza

dei figli che degenera in abbandono.

Nel complesso si può parlare di situazioni multiproblematiche. Tale concetto è stato oggetto

di riflessione con tutte le persone coinvolte nella sperimentazione ed è stato definito che “i

minori con situazioni multiproblematiche sono coloro che, nella dinamicità delle diverse

istanze evolutive, vedono compromesso il processo di nutrimento-alimentazione dei loro

bisogni evolutivi in un sistema di relazioni in parte o in tutto insufficienti” (Canali, Rigon,

2003)

Lo studio sperimentale ha avuto bisogno di due condizioni preliminari:

• adottare criteri di selezione e di inclusione equivalenti tra le regioni partecipanti

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41

(a questa esigenza si è risposto selezionando le famiglie e i minori sulla base dei criteri

sopra citati);

• un protocollo di sperimentazione verificabile in termini di processi e di esiti

(è stata sperimentata la presa in carico multidimensionale con il protocollo operativo-

metodologico S-P).

Seguendo parallelamente queste indicazioni e concentrandosi principalmente sui fattori di

rischio, è stato possibile realizzare un indice sintetico da utilizzare come indice di inclusione

nello studio. Agli operatori coinvolti sono state poste le seguenti domande: 1) “A suo/vostro

giudizio dove si posiziona, in una scala da 1 a 10, l’indice di inadeguatezza genitoriale e di

contesto relazionale?”; 2) “A suo/vostro giudizio dove si posiziona in una scala da 0 a 10 il

grado di sofferenza (da abbandono, maltrattamento, ecc…) che sta vivendo il

bambino/ragazzo?” (Canali, Vecchiato, 2011). Sono state incluse nello studio le famiglie in

cui i minori avevano una difficoltà uguale o superiore a 3 e i genitori una difficoltà uguale o

superiore a 5. A seguito delle informazioni ottenute con la sperimentazione l’area di rischio è

stata modificata, aumentando il livello di difficoltà sia per i genitori che per i figli.

Canali e Vecchiato (2011) specificano che il progetto Risc è uno studio pilota e trae la sua

significatività dalla rispondenza dei casi trattati ai criteri d’inclusione, tenendo conto del

livello del disegno sperimentale utilizzato, e della forza delle prove di efficacia raccolte. In

questo caso la numerosità dei casi selezionati, abbastanza contenuta, non è stata ritenuta

determinante. Il limitato numero di casi ha risposto a istanze sia etiche che di costo/beneficio,

e non da ultimo, alla sostenibilità dell’impegno da parte delle unità operative. Forte rilievo

nella ricerca è stato dato alla valutazione di efficacia (outcome verificato), perché ritenuta in

grado di mostrare se e quanto, i bisogni e i diritti fondamentali dei bambini e dei genitori

incontrino i servizi, e se le domande di aiuto ricevano risposte adeguate. Alla base

dell’attenzione posta a questo tipo di valutazione, c’è la convinzione che la qualità del

processo non sia sufficiente a fare guadagnare benessere ai soggetti coinvolti.

3.5. Lo strumento: il protocollo operativo-metodologico

Dopo avere introdotto brevemente il contesto in cui il RISC si è sviluppato e gli scopi della

ricerca, per la cui approfondita conoscenza rimando alla documentazione ufficiale della

Fondazione Zancan33

e della Regione Toscana34

, mi voglio concentrare sullo strumento, che

33

Rapporto RISC 2011 e Rapporto RISC 2012 scaricabili dal sito web fondazionezancan.it 34

Cinzia Canali (a cura di) “Lavorare con i bambini e ragazzi in difficoltà in Toscana. Risultati e riflessioni sul

progetto Risc-Personalab”, Centro Regionale di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza presso l’Istituto

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ritengo possa essere di grande aiuto nella pratica professionale e che è il vero motivo per cui

ho scelto di partecipare, a mio modo, alla fase della disseminazione scrivendone nella tesi.

Il protocollo RISC può essere considerato:

• uno strumento operativo-metodologico;

• una metodologia di presa in carico per fasi e integrata tra operatori;

• uno strumento di valutazione dell’efficacia degli interventi;

• uno strumento gestionale dei costi sostenuti;

• uno strumento che obbliga all’integrazione tra professionisti (Balleri, 2013)

Due sono le caratteristiche del protocollo: il rigore nel metodo, sia nel processo di aiuto sia

negli strumenti usati; l’impiego di variabili qualitative e quantitative, per misurare l’efficacia

degli interventi. In quanto strumento operativo e metodologico, il Risc prevede un processo

per fasi.

FASE 0: Scelta del caso da inserire

I criteri di pre-valutazione sono due, i problemi della famiglia e i fattori di rischio per il

minore. Il primo criterio è rispettato utilizzando la check list di pre-valutazione

Tabella 3.2.: Check list di pre-valutazione (Balleri, 2013)

CRITERIO 1: Problematiche della famiglia Sanitarie Sociali Si In

parte

Compresenza di diverse problematiche

Necessità d’intervento di più servizi

Ruoli genitoriali non svolti adeguatamente

Per il secondo criterio si usa la griglia di pre-valutazione. Si tratta di un diagramma

cartesiano, dove sulle ascisse (y) è indicato il livello di difficoltà dei genitori (DG), e sulle

oridinate (x) il livello di difficoltà del bambino/ragazzo (DF) (tabella 3.2). A questo punto le

situazioni a maggior rischio, quelle che si trovano all’interno dell’area rossa, sono individuate

degli Innocenti. Del Gallo Editori D.G.E. Greenprinting, Spoleto. Inoltre sul sito web minoritoscana.it. è

possibile trovare la documentazione completa.

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43

ed è possibile passare alla presa in carico. Ovviamente più ci si sposta in alto e a destra,

maggiore è il livello del rischio di allontanamento del minore dalla famiglia, quindi sono

quelle le situazioni in cui la presa in carico col protocollo deve essere attuata nel minor tempo

possibile ed in maniera efficace.

Tabella 3.3.: Griglia di pre-valutazione (Balleri, 2013)

DG

10

AREA RAREA RISC

9

8

7

6

5

4

3

2

1

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 DF

Fase 1: Analisi del problema

Il software S-P prevede una presa in carico dei minori a rischio di allontanamento, per fasi e

integrata tra operatori, così suddivisa:

a) Analisi della domanda

Prima di tutto è necessario raccogliere i dati anagrafici del minore, indicare chi

presenta la domanda di aiuto e se è necessario ridefinirla insieme all’assistente sociale.

A questa parte del lavoro corrisponde anche la conoscenza delle persone rilevanti per

il/la bambino/a, la condizione economica e abitativa della famiglia, chi sono gli

operatori di riferimento, tutte informazioni utili per coinvolgere nell’intervento gli

interessati ed iniziare a delineare un contesto e dei soggetti con cui coordinarsi in

seguito.

b) Analisi del problema

E’ compiuta attraverso l’impiego di strumenti rigorosi come le schede a cascata (storia

personale, sistema delle responsabilità, scale di valutazione) che prevedono la

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compilazione in ogni loro singola parte, prima di poter accedere alla scheda

successiva. Esse servono a valutare i problemi e le potenzialità del minore e del suo

contesto familiare e di vita, e indagano le aree considerate fondamentali per il

benessere del bambino. Il risultato della loro corretta compilazione porta alla

predisposizione di uno schema polare, in grado di mostrare graficamente la situazione

del minore nelle diverse aree considerate. Lo schema polare è un grafico a raggiera,

con al centro il minore e, tra il centro e la circonferenza le varie aree d’interesse

separate dai raggi. Più il valore attribuito a ciascuna area aumenta, allontanandosi dal

centro, più la situazione si configura positivamente per il bambino/ragazzo.

In quanto metodologia di presa in carico integrata tra operatori, il Risc prevede la

collaborazione di più professionisti, oltre all’assistente sociale viene prevista la

presenza dello psicologo e del neuropsichiatra infantile, a cui a volte si aggiungono

altri operatori di riferimento per il minore.

Le aree indagate sono le seguenti:

• Area funzionale-organica

Si suddivide nelle sub-aree: organica (funzionalità neuro muscolare e sensoriale),

neuromotoria (orientamento spazio-tempo, motricità, mimica, percezione del corpo,

sguardo) e delle autonomie (alimentazione, vestiario, igiene, movimento, esecuzione

compiti/progetti). Quest’area durante la sperimentazione è stata quella in cui i bambini

e le bambine, dall’analisi dello schema polare, hanno mostrato di essere più attrezzati.

La maggiore compromissione si rintraccia nella capacità di progettare ed eseguire

compiti e, nell’alimentazione.

• Area cognitivo-comportamentale

Include le sub-aree: cognitivo-comunicativa (funzionalità cognitiva, comunicazione,

memoria e attenzione, abilità pratiche) e dell’apprendimento (lettura e scrittura,

quantità/calcolo, espressione grafico-pittorica, altre aree di apprendimento). Come la

precedente, quest’area non è quella in cui si trovano le carenze maggiori. Le difficoltà

rintracciate durante la sperimentazione, riguardano principalmente le condizioni di

povertà relazionale e materiale, infatti, anche laddove ci potrebbero essere delle

potenzialità, queste spesso non sono promosse dalla famiglia.

• Area socioambientale e relazionale

Le sub-aree considerate sono: socio-relazionale (rapporti affettivi primari, conoscenza

di sé, affettività), affettivo-relazionale (rapporti con i compagni di scuola, in famiglia,

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nella scuola, con l’ambiente sociale) e sistema delle responsabilità (scala di

responsabilizzazione S-R, livello di protezione nello spazio di vita LPSV).

Il tema dello spazio di vita non è nuovo all’attenzione delle scienze sociali, che hanno

cercato di identificarlo e valutarlo in termini di caratteri propri, capacità personali,

relazioni sociali, accorgendosi della rilevanza di tali elementi per la comprensione

delle dinamiche dello sviluppo personale e per individuare le potenzialità che lo spazio

offre, le capacità presenti, ma anche le fragilità. Karl Lewin per primo definì lo spazio

di vita come il principale prerequisito per comprendere le azioni di un individuo.

Collocare una persona all’interno di uno spazio di vita risponde a tre obiettivi:

contestualizzarla in relazione alla famiglia e all’ambiente; descrivere le caratteristiche

del mondo in cui vive e collegarle all’esperienza di vita della stessa; considerare lo

spazio secondo un’ottica globale (Canali, Vecchiato, 2012). Il sistema delle

responsabilità distingue tra soggetti e risorse . Soggetti e risorse possono essere

considerati sia come attuali sia come potenziali. Per soggetto s’intende una persona

che ha a cuore il problema, che ha la visione globale della situazione e delle necessità

del minore, che intende affrontarlo e farsi carico delle responsabilità che ciò comporta;

per risorsa invece s’intende la persona che svolge azioni concrete descritte nel piano di

attuazione del progetto personalizzato, ma non è in grado di prendere parte alle

decisioni globali. Entrambe possono essere attuali se svolgono già alcune funzioni,

potenziali se è valutata la presenza di potenzialità in grado di svilupparsi, se stimolate,

ed essere utili al progetto (Balleri, 2013). Entrambe sono elementi essenziali nella vita

di ogni essere umano, per questo, dotare gli operatori di strumenti in grado di rilevarle

per comporre una mappa del sistema di protezione del minore, facilita la valutazione

dei bisogni ed anche le scelte operative conseguenti. Della mappa possono far parte i

genitori, gli operatori, altre persone importanti per il bambino. La scelta di utilizzare

una mappa è strettamente connessa all’idea che “il livello di protezione nello spazio di

vita misura la capacità della comunità di farsi carico dei bisogni della persona e della

famiglia sia sul versante di programmazione del progetto personalizzato che in

termini operativi” (Vecchiato, Bezze, Canali, Neve, Pompei, pp. 95-109).

Oltre ad essere una metodologia di presa in carico, il Risc dota gli operatori di

strumenti quali-quantitativi. La scala di responsabilizzazione S-R considera i soggetti

attuali, ai quali viene attribuito un punteggio pari a 0,50, nel caso si tratti di operatori,

e pari a 2 per i familiari. Il livello di protezione dello spazio di vita (LPSV) considera

invece sia i soggetti che le risorse attuali, ad essi attribuisce rispettivamente 6 e 3

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punti. Infine c’è il livello di protezione potenziale (LPP) che consiste nella somma dei

soggetti potenziali. Il passo successivo è la traduzione delle somme, ottenute dalle

scale, in indice (valore tra 0 e 5) e successivamente in uno schema polare, che il

software provvede a elaborare e mostrare graficamente.

Dall’analisi dei vari schemi polari, l’area socio-relazionale e ambientale si è

dimostrata quella in cui si presentano le carenze maggiori nei casi dei minori

multiproblematici, nell’area affettivo-relazionale emergono le maggiori difficoltà, e

spesso il minore è fortemente compromesso.

Fase 2: Piano personalizzato

Mi sento di poter dire che la fase della progettazione dell’intervento personalizzato è quella in

cui le competenze tecnico professionali dell’assistente sociale si esprimono al meglio, sia

perché questa parte del lavoro è sempre stata di pertinenza professionale, sia perché è in

questo momento che l’operatore, strutturando una relazione con l’utente e grazie alla

flessibilità che lo dovrebbe contraddistinguere, può trovare delle soluzioni nuove ai problemi.

L’intervento professionale non è mai casuale, richiede capacità di analisi, di compiere

previsioni, coerenza nel perseguimento dell’obiettivo, appropriatezza di metodi e strumenti

d’intervento, creatività. Il Risc aiuta in questo compito perché è rigoroso, in ogni azione, area

di osservazione e fattore osservabile. Sono questi gli elementi in cui si vanno a misurare i

cambiamenti, traducendo la valutazione qualitativa dell’operatore in una variabile

quantitativa.

Il percorso metodologico che si sviluppa in conseguenza della fase 1 è il seguente:

Tabella 3.4. Percorso metodologico (Canali, Vecchiato, 2012)

Schema polare Domande

Sintesi dei bisogni e delle potenzialità Dallo schema polare, quali aree problema e aree di potenzialità si

rilevano?

Definizione degli obiettivi A fronte dello schema polare ottenuto, quali obiettivi ci si può porre?

Definizione della strategia di azione Quali azioni vanno messe in campo per raggiungere quegli obiettivi?

Descrizione dell’azione/delle azioni Come si possono descrivere?

Collegamento tra azione/azioni e area

di osservazione

In quali aree di benessere si pensa di osservare un cambiamento

attraverso “quella” azione?

Definizione dei fattori osservabili Come si può misurare il cambiamento che ci si aspetta di ottenere (e

che è l’effetto di “quella” azione)?

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Le domande che si pone l’assistente sociale che si accinge a costruire un piano personalizzato,

insieme alla persona o alle persone coinvolte, sono quelle indicate nella tabella 3.3.

L’operatore sa però che la personalizzazione del progetto presuppone che ogni persona abbia

una percezione soggettiva del problema, che siano diversi i significati che ad esso vengono

attribuiti, che l’appropriatezza dell’intervento debba essere considerata sempre in relazione al

singolo utente nel suo contesto, che l’abilità del professionista si riscontra proprio nella

capacità di mediare tra necessaria standardizzazione delle conoscenze e particolarità e

irripetibilità di ogni situazione (Neve, 2012).

Dallo studio è emerso che la parte più complessa della progettazione svolta secondo le fasi

indicate dal software S-P, è stata l’individuazione dei fattori osservabili, cioè di quei

cambiamenti osservabili e misurabili che, seppur minimi (movement outcomes), evidenziano

che il piano va nella direzione sperata. I fattori osservabili sono variabili qualitative, che si

distinguono in fattori osservabili di processo (ad es. numero di colloqui con lo psicologo al

mese) e fattori osservabili di esito (ad es. numero di volte che si presenta con i vestiti puliti),

questi ultimi utili a verificare l’impatto dell’intervento in termini di cambiamento personale e

relazionale. Ci si è concentrati sui cambiamenti del minore e per questo i fattori di esito sono

stati classificati in cinque macro-categorie: autonomia, responsabilizzazione, apprendimento,

benessere psicofisico, relazioni.

In base alle aree problema che nello schema polare hanno mostrato delle carenze, gli operatori

hanno individuato gli obiettivi e poi le azioni necessarie a raggiungerli. Ogni azione è stata

scomposta in fattori osservabili di esito, monitorabili e misurabili. Un esempio di azione e dei

relativi fattori osservabili è il seguente:

• Area problema: area degli apprendimenti

• Azione: intervento logopedico

• Periodo: 3 mesi

• Area di osservazione: area degli apprendimenti

• Fattori osservabili: numero di errori svolti nella lettura di un testo

• Valore del fattore osservato al T0: 10

• Valore atteso alla verifica al T1 (dopo 3 mesi): 6 (Balleri, 2013)

L’intento del Risc è di mettere lo strumento in relazione con i servizi sociali integrati regionali

e quindi con le prestazioni da essi previste. Nella ricerca, e di conseguenza nel software, sono

state individuate tre tipologie di prestazioni (domiciliari; intermedie - ambulatoriali o svolte

nei centri diurni; di servizio sociale professionale) che corrispondono ai livelli essenziali di

prestazioni da assicurare ai cittadini. Il protocollo Risc ne richiede l’indicazione durante la

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progettazione dell’intervento individuale, con l’attribuzione della responsabilità della loro

attuazione ad alcuni soggetti, l’indicazione della quantità di prestazioni erogate e, con

l’attribuzione di un costo a ognuna di esse. E’ a questo punto che il Risc diventa anche uno

strumento gestionale dei costi sostenuti dai servizi, e può indirizzare la spesa sociale verso

interventi efficaci. Inoltre, l’attribuzione di un valore numerico al fattore osservato al T0 e di

un valore numerico atteso al T1 permette, nella fase successiva, la valutazione quali-

quantitativa dell’efficacia degli interventi.

Fase 3: Verifica dei risultati

Di solito gli obiettivi di un progetto d’intervento personalizzato sono il miglioramento, il

mantenimento o il rallentamento dei processi dannosi e, possono anche riguardare la stessa

persona in più momenti dell’attuazione del progetto. Il Risc, come strumento di valutazione

dell’efficacia degli interventi, prevede prima di tutto la verifica di attuazione del piano

personalizzato. Essa consiste nella registrazione sul software S-P dell’avvenuto svolgimento

delle azioni previste, con l’indicazione del loro svolgimento o meno e, la traduzione del

risultato in una percentuale di attuazione dell’azione (carattere quali-quantitativo dello

strumento). La verifica dell’attuazione del piano mostra, di conseguenza, il costo

effettivamente sostenuto per attuarlo.

Si passa poi alla verifica dei risultati attesi, che consiste nella misurazione dei fattori

osservabili attraverso il confronto con il valore atteso. Si mettono in relazione perciò i valori

attribuiti ai fattori osservabili al T0 con quelli individuati al T1 (dopo tre mesi) e a quelli attesi

per il T1, e si vede se l’obiettivo è stato raggiunto completamente, parzialmente, per niente,

oppure oltre le aspettative.

Il terzo momento è quello riguardante la valutazione di efficacia. Mi soffermo su

quest’argomento, perché è centrale per il progetto. Spostare l’attenzione dalla valutazione

degli output (ciò che è stato erogato) a quella di outcome (come sono cambiati gli utenti a

seguito dell’intervento) non è comune, almeno a oggi, nei servizi sociali italiani. Dalla ricerca

emerge che è possibile andare in questa direzione, serve però la collaborazione di tutti gli

interessati, ma soprattutto è indispensabile una reale integrazione tra servizi e professionalità

per realizzare delle linee guida operative comuni. Il software permette la valutazione di

efficacia, calcolando automaticamente la percentuale di raggiungimento degli obiettivi

ottenuta dal confronto tra i valori attribuiti ai fattori osservabili al T0, quelli attesi al T1 e

quelli effettivamente raggiunti al T1. In questo modo è possibile basare su dati affidabili la

decisione di proseguire con l’intervento oppure di modificarlo. Infine, il protocollo obbliga a

valutare i risultati attraverso il confronto fra lo schema polare iniziale e quello che il software

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mostra al T1, in seguito ad una nuova compilazione delle scale di valutazione che si

riferiscono alle tre aree considerate fondamentali per il benessere del minore. I due schemi

polari (quello precedente e quello successivo all’intervento) sono sovrapposti, e i diversi

colori che li contraddistinguono mostrano l’ampiezza dei cambiamenti avvenuti nelle varie

aree tra un tempo e l’altro (T0 e T1). La valutazione di efficacia è ripetuta ulteriormente al T2,

sempre a distanza di tre mesi. A quel punto, se l’intervento dimostra di essere stato efficace, il

professionista può allungare i tempi tra una valutazione e l’altra, in quanto il rischio di

allontanamento dalla famiglia è stato superato ed il progetto può procedere secondo tempi

meno stringenti.

Per non rischiare di dimenticare che i soggetti con cui un assistente sociale ha a che fare sono

i bambini e le loro famiglie e riportare l’attenzione su di loro, vorrei ricordare che un dominio

costantemente considerato nel progetto Risc è quello valoriale e spirituale. Esso ci ricorda

che il protocollo è stato realizzato per le persone, che con loro deve essere utilizzato e che

l’obiettivo del professionista deve essere il benessere delle persone. Lo strumento acquista

valore solo se applicato per realizzare i principi su cui si fonda il servizio sociale.

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CONCLUSIONI

L’elemento innovativo della tesi è sicuramente il Progetto Risc, sia nella sua veste di

protocollo operativo metodologico, per la presa in carico e per la valutazione d’efficacia degli

interventi sui minori, sia per l’impiego di strumenti di misurazione/valutazione quali-

quantitativi. Per comprenderne la rilevanza nel panorama professionale è stato necessario

contestualizzarlo dal punto di vista storico-normativo ed anche teorico. E’ così che ho iniziato

a scrivere i primi due capitoli, vedendoli acquisire lentamente forma e completezza proprie,

pur rimanendo utili strumenti per la comprensione del progetto.

Dal punto di vista teorico, mi sento di poter collocare il Risc in un ambito di ricerca legato ad

un approccio pragmatico, di pluralismo metodologico, in quanto il suo primario obiettivo è

quello di fare ricerca riguardo l’efficacia del lavoro sociale, attraverso l’impiego di metodi e

strumenti di valutazione sia qualitativi che quantitativi. I ricercatori sanno che la complessità

della realtà sociale non può essere ridotta alla quantità dei cambiamenti avvenuti nelle

variabili prese in considerazione. E’ importante considerare infatti anche il contenuto dei

cambiamenti, e gli effetti che tali trasformazioni hanno sulle persone. Il servizio sociale come

“scienza” è molto giovane ed è un settore che necessita di evidenze che sostengano l’attività

degli operatori, ma le evidenze scientifiche non si ottengono imitando la scienza medica, o le

altre scienze affini. Il servizio sociale ha nella sua identità l’apertura verso la società. Ciò

significa che il dialogo è costitutivo dell’identità professionale, come lo è il rispetto

dell’altro, la creazione di luoghi di incontro e scambio di idee. Il tutto in una visione di

crescita professionale, volta al mutamento e alla giustizia sociale. Il modello teorico cui fanno

riferimento i ricercatori per il progetto Risc è chiamato Persona (Personalised Environment

for Research on Services, Outcomes and Need Assessment), da esso ha preso il via un

laboratorio multicentrico (PERSONAlab) che la Fondazione Zancan apre a tutte le unità

operative impegnate nei servizi alla persona. Il laboratorio è un esempio di luogo in cui è

compiuto un sistematico lavoro di analisi e valutazione del lavoro sociale, in cui la

condivisione porta alla creazione di strumenti ed evidenze, che aiutano il servizio sociale,

come professione e come scienza, ad evolversi. Le conoscenze vengono condivise attraverso

una piattaforma tecnologica e, il software S-P, usato per il progetto Risc, ne è l’esempio. Il

progetto Risc si è sviluppato a partire dalla scelta della ricerca-azione come metodo di

indagine, in quanto capace di attivare tra gli interessati un processo di apprendimento che ha

in sé il seme dell’azione sociale. La ricerca-azione considera tutte le persone in grado di

assumere il controllo della propria esistenza, ma perché ciò accada è necessario che cittadini,

operatori e ricercatori si incontrino, e insieme trovino delle modalità nuove per fronteggiare i

problemi che affliggono i singoli, la comunità, la società. La ricerca-azione parte quindi

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dall’indagine, mette in atto gli interventi, valuta ciò che si sta facendo e l’efficacia delle azioni

compiute, secondo un approccio che parte dal basso, e perciò in sintonia con lo spirito del

servizio sociale come indicato nel codice deontologico. Volendo ottenere delle evidenze, i

ricercatori hanno utilizzato anche un disegno sperimentale multicentrico pre-test e post-test,

con gruppo di controllo e gruppo sperimentale. Il disegno sperimentale, se considerato neutro

teoricamente, offre ai ricercatori un percorso metodologico al quale poter unire gli strumenti e

le tecniche ritenute più adeguate al raggiungimento degli obiettivi. E’ nell’ottica del

pluralismo metodologico utilizzare strumenti sia qualitativi, sia quantitativi, e ciò è stato fatto,

prima per realizzare la ricerca, poi per la costruzione del protocollo operativo-metodologico

S-P, che nel concreto è un software che permette anche l’integrazione tra professionisti. Gli

strumenti sono parte dell’innovazione del Risc, nel quale il loro utilizzo ha come obiettivo la

valutazione dell’efficacia degli interventi. Quindi, colloqui, scale, griglie, schema polare, e

altro, sono stati realizzati con l’intento di valutare l’efficacia degli interventi, a partire

dall’individuazione delle aree rilevanti per il minore, degli obiettivi, delle azioni da compiere,

fino ai fattori osservabili di esito, quest’ultimi paragonabili a veri e propri indicatori. La

ricerca-azione Risc, ha un obiettivo concreto, quello di riuscire ad individuare il livello di

sofferenza oltre il quale il minore deve essere allontanato dalla famiglia, allo scopo di

intervenire efficacemente prima di raggiungere tale livello, ed evitare l’allontanamento.

Quindi posso dire che, come ogni riflessione teorica nata dall’analisi della pratica, deve

necessariamente relazionarsi con il contesto in cui la riflessione si è sviluppata e in cui vuole

incidere. Nel caso del Risc, le varie realtà di riferimento sono state le sei regioni che hanno

partecipato alle due annualità di sperimentazione, tra esse la Regione Toscana. Il legame con

la realtà toscana degli interventi e dei servizi sociali integrati, è stato possibile attraverso il

coinvolgimento delle istituzioni regionali e locali, delle unità operative, delle famiglie/utenti,

ed ha avuto riconoscimento a livello normativo, tanto da prevedere l’implementazione del

protocollo all’interno dei servizi sociali, nei prossimi anni. Il nuovo millennio, per i servizi

sociali italiani è iniziato con la legge quadro 328/2000 e con lo spirito ampiamente innovativo

che essa promuoveva. Possiamo affermare che c’è stata una battuta d’arresto nell’entusiasmo

che essa ha provocato, ma questa è solo una possibile lettura. L’integrazione tra professionisti

del sociale è andata avanti, tra difficoltà e slanci, e l’emersione di tendenze conservatrici è

servita da stimolo per un cambiamento dello status quo. I ricercatori, come i professionisti

“riflessivi”, sono in continuo movimento, ogni volta con l’ambizione di scoprire nuove strade

e contribuire allo sviluppo della società, mettendo in campo competenze professionali e

capacità umane. Il Risc mi sembra rappresentativo di questa tendenza costruttiva e

riformatrice.

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