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VERDE 19

Date post: 28-Mar-2016
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Il 2013 di VERDE è cominciato con Simone Lucciola in copertina e finisce, non per caso, con Rocco Lombardi: siamo figli della Lama e si vede. Sbrock illustra il ventesimo numero di VERDE – il 19 in tamburino – che ospita (per la prima volta) Vinicio Motta e Jesus Adentro, le nostre vecchie conoscenze Luca Piccolino e Francesco Cortonesi, e le nostre colonne Alda Teodorani, S.H. Palmer, Simone Lucciola e Luca Carelli. Ci rivediamo a gennaio, anno III di VERDE.
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verde protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 19 anno II dicembre 2013 lombardi piccolino teodorani palmer motta cortonesi lucciola adentro carelli Rocco Lombardi - http://www.lalberosfregiato.blogspot.it/
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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 19 anno II dicembre 2013

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p.2 Editp.3 TI ODIO POESIA #17: Chi l’ha visto e chi non sa (Luca Piccolino)p.4 Luoghi di morte(Alda Teodorani)p.5 Rocco Lombardip.6 Senza titolo (S.H. Palmer)p.8 Mercuriale sulfureo-scatologico (Vinicio Motta)p.10 La mucca (Francesco Cortonesi)p.12 SEMIAUTOMATICA #12 (Simone Lucciola)p.13 Novanta (Jesus Adentro)p.14 STORIE NERE #10: Chiara (Luca Carelli)

VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere,

interpunzioni grafiche e belle speranze

a cura di Pierluca D’Antuonoe Alda Teodorani.

Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche,

musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line

(http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma.

Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini.

Per info distribuzione e invio materiale:

[email protected] (lunghezza e formato

da concordare) http://issuu.com/verderivista

www.facebook.com/verderivistahttp://verderivista.blogspot.it

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www.facebook.com/vigomusica

http://aldateodorani.blogspot.it

denyeverythingdistro.blogspot.com

http://suicideautop.blogspot.it/

la poesia è una cosa da ragazzi

Il 2013 di VERDE è cominciato con Simone Lucciola in copertina e finisce, non per caso, con Rocco Lombardi a illustrare l’ultimo numero dell’anno: abbiamo perso il conto di tutte le volte che ci siamo definiti figli della Lama, ma è sempre il caso di ripeterlo, perché crediamo che, a 11 anni di distanza dal primo numero (e a quasi sette dall’ultima uscita), Lamette resti un punto di riferimento imprescindibile per ogni esperienza di autoproduzione che si rispetti. È quello che abbiamo detto, tra le altre cose, il 17 novembre scorso alla tre giorni di SCANNER, il primo Festival delle Autoproduzioni ideato e ospitato dalla libreria Scripta Manent, un importante progetto che punta a creare un archivio (e contestualmente un censimento) permanente di realtà automatiche, autoprodotte e autoalimentate. Da tenere sott’occhio.

Sbrock illustra il ventesimo numero di VERDE – il 19 in tamburino – che ospita per la prima volta Vinicio Motta (con un racconto disgustoso che non potevamo non pubblicare) e Jesus Adentro, il signore di Suicide Autoproduzioni, uno dei 4 partner in crime che permette a VERDE di esistere. Luca Piccolino e Francesco Cortonesi sono nostre vecchie conoscenze che non hanno bisogno di presentazioni, così come le nostre colonne Alda Teodorani, S.H. Palmer, Simone Lucciola e Luca Carelli. Chiudiamo un anno ricco di soddisfazioni, in assoluta controtendenza rispetto all’intero universo, ma i bilanci li rimandiamo al Bestiario 2013, un numero speciale con il meglio dei nostri ultimi 12 mesi, che sarà on-line nella nostra libreria di Issuu.Ci rivediamo a gennaio, anno III di VERDE.

Rocco Lombardihttp://lalberosfregiato.blogspot.it/

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Chi l’ha visto e chi non saLuca Piccolino

Dimmi di quando eriuna cerasa sorridenteinvece di intasarequelle nottiche restano sole con mead aspettare il mattino.Ieri Maria ha vistoquello che dietro agli occhiho girato per nascondere.E segretamente ha speratoche non fosse quelloche aveva visto.Quando non riesco a seminarel’ombra scura che mi seguequalcuno se ne accorge.Che ne sa il pretedi un universoche si muove meccanicosenza emozioni,gira su se stessoe si riposarinnovandoa ogni epocala barbarie della storia.Che ne sa il terapistadi teste prese inscatolate e sistematesugli scaffalidel centro commercialeche sorgesulle rovine della nostra infanzia.Stasera Ilaria dal tono della voceha intuito i toni di colore del mio cuoree mi ha chiestodi non aver paura.

Facile a dirsiamica miama in ogni vicolodi questa cittàqualcuno mi aspetta dietro l’angolocon sottobraccio un album di fotografie.Mi chiedono monetein cambio di ricordie ioarrivo a sfondare le taschenella compulsiva ricerca.Alla pietraho votato il pettoma il cementoa cui è costretto lo sguardomi attanaglia l’anima.Facile a dirsiquando le cosce delle donnesono l’unico pregio urbanisticoe il bagliore azzurrodietro alle persianedecreta il trionfodello schermosul discorso e il vino.Le Madonne piangonolacrime nerema nessuno grida al miracolovisto che è soltanto smog.D’altro canto più onestedegli idoli d’oroche ogni giorno rinnovanoil prodigio del piantoal sugo di pomodoro.

(Dalla raccolta inedita Calcare)

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Alda TeodoraniLuoghi di morte

A Roma c’è solo una strada che passa dal centro abitato prima di avviarsi verso il mare. Ovvero è l’unica che conosco io. Il bello di questa strada è che sei ingabbiato nel traffico e respiri il tanfo dei tubi di scappamento poi, un attimo dopo, puoi filare veloce verso il mare, passando davanti

alla basilica di San Paolo con il suo mosaico dorato che si vede da lontano e accogliendo con una risata i primi folletti che si infilano dentro la macchina a portarti l’odore di resina dei pini marittimi e la brezza salmastra che giunge dalla riva. Dicevo: solo una strada. Nasce dalla Piramide,

idealmente dal cimitero degli inglesi, e prosegue dritta in direzione sud per almeno un paio di chilometri. L’altro giorno attraversavo la strada, dopo aver guardato per bene a destra e sinistra. La macchina nera è arrivata rabbiosa e mi ha sfiorata. Ho sentito il suo alito di cenere e sangue, puzza di bruciato e di interiora putrescenti, esattamente come sulla strada per Ostia sento l’alito leggero della brezza di mare dei folletti di spiaggia. Lì, in quell’esatto punto dove l’auto nera mi ha sfiorata, sono morte tante persone. È lì, come una smagliatura nel tempo e nello spazio, paziente ad aspettare. L’altro giorno c’era una ragazza sulle strisce pedonali, ho visto un furgone blu e rosso arrivare sulla preferenziale a tutta velocità. E ancor prima di sentire quel suono terribile ho capito che lì, proprio di fronte alla scuola dove insegno io, c’è il primo sipario che è in contatto continuamente con la tua fine. Sono lì, che ti aspettano, pazienti, sparsi per tutto il pianeta. Sono luoghi del mondo che hanno un destino comune: sono luoghi di morte.

Rocco Lombardi - http://w

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Rocco Lombardi è nato in riva al mare, a Formia, nel 1973. Ha un passato da writer e batterista punk. I suoi lavori, eseguiti con tecniche di incisione e stampa artigianali, sono comparsi in numerose pubblicazioni in Italia e all’estero, su copertine di dischi e poster per gruppi della scena indipendente italiana. Con Simone Lucciola nel 2002 fonda Lamette Comics, un’etichetta di fumetto underground con cui pubblica la raccolta di storie brevi L’albero sfregiato, 2006 e l’albo illustrato Non senza mano cattiva, 2011. Nel 2009 per Nicola Pesce Editore esce Annetta, storia di sole immagini sull’istinto di libertà. È tra gli autori della rivista Giuda e nel 2012 per Giuda Edizioni pubblica, Campana, un graphic novel in cui i versi del poeta toscano diventano graffianti affreschi a fumetti. Sempre per Giuda edizioni nel 2013 pubblica Alberico, un silent book che racconta dell’ultimo albero rimasto sulla terra e del suo custode bambino.

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Sono socialmente accettato perché nessuno sa cosa contiene la bibita che mi porto sempre dietro. Di solito, dopo il lavoro, compro una bottiglia da mezzo litro di CLUB MATE – coca cola per hipster, lo so – e dopo un paio di sorsi ci butto dentro un bicchiere di vodka secca. Se la gente sapesse cosa sorseggio con naturalezza mentre cammino verso la fermata del treno di Schönauser Allee mi riterrebbe un uomo indecente. O forse no. Non a Berlino, anche se di solito lo faccio alle due e mezza, alla stessa ora in cui mia sorella – in Italia – dorme di gusto. Specialmente d’estate. O fine estate. Qui è già quasi inverno. Lo penso ogni volta che correggo la bottiglia di energetico analcolico. Cerco scuse, di tanto in tanto, per giustificare comportamenti pressoché normali. Sto smaltendo lentamente le mie abitudini italiane, sebbene mi senta un po’ più barbaro rispetto al mio arrivo in Germania. Sono passati già otto mesi. Cassandra al quinto mese di convivenza è diventata quasi normale. O forse la lontananza da casa mi sta rendendo più consapevole. Sono socialmente accettato non solo perché la gente non sa che bevo. Lo sono anche perché non mi sento proprio un cesso (non lo sono). Un trentenne piacente, direbbe mia zia. Non ho difficoltà a socializzare, almeno non come i miei conterranei. Qui ho conosciuto alcune ragazze, me ne sono fatte un paio, forse quattro contando anche le sconosciute – quelle di cui neanche mi ricordo il nome. Alcune di loro, però, mi piacevano sul serio. Come persone intendo, non come giocattoli. Una volta ho incontrato una ragazza davvero giovane per i miei standard, praticamente una bambina (aveva 26 anni, niente di che). Il suo sorriso mi rallegra ancora a pensarci. Quando mi scrive, di tanto in tanto, e ci incontriamo in giro per locali, mi si riempie il cuore di quel nulla tanto piacevole quanto tenero. Credo che a oggi sia la persona più onesta che conosco, qui a Berlino. C’è un’altra ragazza che mi piace davvero. Non sono un uomo compiuto. Sto cercando di chiudere il cerchio con il mio passato, ma non

credo di potercela fare. L’avvicino, l’allontano. A volte credo che la freddezza del Nord sia la cura migliore per il mio cuore malandato. Quando ho fame penso a lei. Nelle notti di luna piena la evito, ma con una scusa o un’altra rimaniamo in contatto tutti i giorni. Ora che è via per lavoro, a volte non ricordo il suo nome, ma il suo volto è sempre presente, impresso sul plesso solare che accarezzo prima di addormentarmi, in uno strano rituale. Il vuoto lasciatomi dall’ultima luna piena mi ha reso vulnerabile e incontrollabile. Quando un’altra ragazza bionda mi ha sorriso, ho visto il sangue fluire dalle arterie principali del suo corpo. L’ho visto inondare l’intorno, in una strana gradazione di rosso. Tendente al magenta. I suoi occhi, di un blu intenso e poco gradevole, mi hanno lasciato interdetto. Sembrava che avessi di fronte – di nuovo – Cassandra, la sera che stava per morire. Ho impiegato quasi dieci anni per dimenticare la forma di un ago, e lei mi ha fatto un gran brutto scherzo, il mese scorso. Era così bella mentre stava per morire. L’ho amata per qualche minuto, il tempo che impiegano le palpebre per aprirsi e chiudere, e non cedere alla compassione del momento. Ho inghiottito questo boccone amaro con forza, il giorno del mio compleanno, il 27 di agosto. Dovrei scrivere una lettera a mia sorella. Quando mi ha fatto gli auguri mi sono sentito davvero una merda. Avevo dimenticato di dover compiere gli anni. Voglio dimenticare che diventerò vecchio. Memento mori, sempre attivo da qualche parte nel mio corpo. Più nelle gambe però, che nel cuore. Una sera i nostri genitori erano fuori a cena. Io e mia sorella eravamo seduti in camera a farci e io allora le ho domandato perché lo facevamo. Lei non ha risposto. Mi ha dato un bacio e si è accesa una sigaretta. Poi l’ho accesa anche io, e questa specie di rito è durato per anni. Almeno un paio, credo. Domanda. Nessuna risposta. Bacio. Sigaretta. Non dimenticherò mai invece il momento in cui una risposta me l’ha data, stendendomi di

S.H. PalmerSenza titolo

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colpo. Da quel momento mi sono reso conto di poter amare davvero solo lei, e poco dopo, sono scappato lontano. «Sai che amo gli uomini. Probabilmente sono la persona, tra quelle che conosco, che ama di più il genere maschile. Siete incompleti, immaturi e infantili. E io vi amo tutti. Tutti. Hai capito?» Ho sentito qualcosa dentro di me mentre pronunciava lentamente quelle parole. Non so riconoscere la sensazione, neanche oggi. Mi sono sentito lusingato, certo, non posso negarlo, ma anche profondamente in colpa. Non credo di essere mai stato portato per l’incesto intellettuale, ma quella stronza di mia sorella mi ha fatto vacillare. Tanto da

costringermi a fuggire lontano. D’accordo, non sono realmente scappato. Volevo farlo, dovevo farlo, ma lei mi ha donato le ultime gocce di coraggio che mi servivano per non farlo. Mi manca mia sorella. Anche se qui sto bene, anche se qui le cicatrici si vedono di meno, a parte quando c’è il sole, come quella volta al lago, quando in mezz’ora la mia pelle è diventata color ambra. Allora le cicatrici sono apparse, ma nessuno, per decenza, ha detto nulla. È per questo che preferisco rimanere all’ombra e uscire solo dopo il tramonto. Quando le ombre non esistono, e non spaventano. Non spaventano più.

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Vinicio Motta

Mercuriale sulfureo-scatologico

La Merda non la digerisco più bene: mezzo secolo fa, quando la Merda salvò la razza umana, mai avrei immaginato una crisi del genere.Dopo che, grazie a essa, abbiamo sconfitto gli alieni, la Merda io e gli altri abitanti della Terra abbiamo cominciato a metterla ovunque: nell’ombelico, nel cazzo e nella fica, nel tubetto del dentifricio, in chiesa – la Merda abbiamo dovuto imparare ad amarla.È sempre stato tutto bellissimo… Il rapporto tra la Merda e gli uomini è sempre stato perfetto.L’idillio, però, almeno per quanto riguarda me, si è incrinato: la Merda non credo più di amarla.Che gli anti-merdisti avessero ragione, quando affermavano che la Merda è meno importante dell’idrossido di sodio e della formaldeide?Perché non amo più la Merda? Perché comincio a preferire le saponette antibatteriche?Se gli alieni tornassero e noi, per abbatterli, fossimo di nuovo costretti a cacare sui loro corpi, la Merda – la mia Merda, la nostra Merda – tornerei ad amarla?Profumo. La Merda, poi, profuma davvero? Una parte di me, una voce quasi impercettibile, dice che la Merda, in realtà, puzza.Eresia o verità? Non so cosa rispondere… Che delusione! Vorrei tanto rivivere il giorno in cui mi innamorai della Merda. Se ciò accadesse, infatti, sono sicuro che tutti i miei dubbi scomparirebbero.Ricordo benissimo il giorno in cui mi innamorai della Merda…Quel giorno, un venerdì, avevo appena terminato la mia solita cacata mattutina, quando, senza pensarci, come rapito da una volontà esterna, immersi la mano sinistra nel cesso e afferrai lo stronzo che avevo cacato. La mia coscienza e le mie idee si spensero e l’immagine mentale di uno stronzo luminoso a forma di pentagono prese il posto di ciò che vedevo. Quando la visione cessò e la vista tornò alla normalità, lo stronzo che, fino a un attimo prima, avevo tenuto nella mano sinistra, era sparito. Ebbi un conato di vomito, stavo malissimo, poi, un attimo dopo, ruttai e mi sentii meglio. La Merda era dentro il mio stomaco, a un millimetro dal cuore, tuttavia io, incredibilmente, mi sentivo bene, pulito! No, di più: mi sentivo puro!È quella la sensazione che voglio riprovare. Voglio ancora una volta sentirmi felicemente pieno di Merda!La fede nella Merda è una cosa bellissima. Unica! Devo fare il possibile per salvarla, non posso rinunciare a lei così facilmente… Non voglio!È deciso, allora: andrò alle terme. Una volta

lì, trangugerò Merda e nuoterò nella Merda ed eiaculerò dentro fiche di Merda fino a quando il mio cuore non sarà leggero come una scorreggia!

L’amore tra me e la Merda non si è ancora rinsaldato.La speranza, tuttavia, non l’ho persa. Dopotutto, sono alle terme soltanto da settantadue ore.In generale, comunque, il soggiorno, almeno finora, è stato eccellente.Un’ora fa, per esempio, sono venuto nella fica piena di merda di una milf che, mentre scopa, bestemmia in falsetto. Ho goduto parecchio. Inoltre, ho pure riso tanto. Non avrei potuto chiedere di meglio.Dopo la scopata, mi sono spostato qui, in una piscina coperta riempita di Merda liquida.Al termine di una cacata improvvisa, fatta sui piedi di una vecchietta che, distesa su una sdraio, faceva un cruciverba, mi sono tuffato nella piscina, ho toccato il fondo e, ingoiando Merda, ho nuotato alla cieca per circa un minuto. Quindi, sempre ingoiando Merda, sono tornato a galla e ho cominciato a nuotare a crawl sul dorso. Non ho ancora smesso: anche se stancante, farlo, in qualche modo, mi rilassa.Urla ed esplosioni. Da dove provengono? Pare da ogni direzione.La porta d’ingresso della piscina si spalanca e uomini e donne nudi e lindi che imbracciano bazooka rosa shocking entrano e si sparpagliano dappertutto.«Tutti a terra!» grida uno degli uomini. «Pancia in giù, sfinteri chiusi e mani sopra la testa!»Riemergo dalla piscina e mi sdraio prono sul pavimento.«Vi starete chiedendo, a ragione, chi siamo e che cosa ci facciamo qui, io e i miei amici. Beh, a dispetto delle apparenze, io e i miei fratelli e sorelle ci troviamo in questo complesso termale non per farvi del male, ma per salvarvi.»Il terrorista passa il proprio bazooka a una donna, poi incrocia le mani dietro la schiena e inizia a camminare tra gli ostaggi.«Il sogno che io e i miei amici vogliamo realizzare e che, come noi, in questo istante, nel resto del mondo, altri miei fratelli e sorelle stanno inseguendo, è un regalo che la mia religione vuole fare a un pianeta che la Merda ha prima salvato, poi sedotto, e infine tradito. Quanti di voi ricordano le vecchie religioni? Nessuno? Peccato. Non importa, comunque ciò che conta è che voi sappiate che, per quanto diverse, quelle religioni, tutte quante, avevano uno scopo comune: portare Dio sulla Terra. Io e i miei amici aneliamo esattamente ciò

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che desideravano quei culti. Tuttavia, a differenza dei nostri, in un certo senso, antenati ideologici, io e i miei fratelli e sorelle il divino siamo davvero in grado di darvelo. Non mi credete? È irrilevante: i fatti, tra un minuto circa, mi daranno ragione…»L’uomo si ferma e schiocca le dita della mano destra. Un altro terrorista si libera dello zaino rosa shocking che porta sulle spalle, lo poggia a terra e, dall’interno dello stesso, estrae e poi lancia nella piscina una sfera di metallo delle dimensioni di una palla da bowling. La sfera, dopo l’impatto con la superficie della piscina, sprofonda. La terra trema lievemente. In lontananza, intanto, boati a catena.Qualcosa, sul fondo della piscina di Merda, esplode: uno tsunami marrone sommerge ogni cosa e mi acceca. Nell’oscurità, quindi, dopo alcuni secondi di squilibrio e confusione e a una distanza per me imponderabile, appare, alieno e magnifico, uno stronzo ettagonale che risplende di luce dorata…

Oltre che dal cielo e dalla crosta terrestre, la Terra, ora, è abitata da fuochi viventi, sospinti da scorregge di Fuoco, indistinguibili l’uno dall’altro.Che cosa mi è successo?Del mio nome, ricordo la forma, non il suono. Il nome che avevo è morto.Brucio. Dentro e fuori. La pelle brucia, il cuore anche. La testa brucia: il Fuoco è il mio nuovo carburante.Stamattina, quando mi sono svegliato, stavo già bruciando.Ho dormito poco e male: ho sognato l’acqua.Servono altre sfere metalliche, servono altri tsunami: questa, ne sono certo – me l’ha bisbigliato il Fuoco – non è la mia forma definitiva.Dove sono i miei salvatori? Se li incontrassi, soprattutto, saprei riconoscerli?Sento puzzo di Merda. La Merda, però, non esiste più. Probabilmente, dunque, il puzzo che sento è un residuo, forse solo psichico, della Merda che stavo digerendo prima che il Fuoco mi salvasse.Servendomi di una grotta, entro nelle viscere di una montagna.Sono di nuovo una persona di carne.Con le mani, raccolgo una zolla di Merda fresca che ricorda una pila di quarantacinque giri, la mordo e mi spezzo gli incisivi: dentro la zolla, c’è qualcosa di duro come la roccia. Divoro la Merda che riveste la zolla e mi ritrovo con un cesso in miniatura stretto fra indici, medi e pollici. Sono terrorizzato e non so perché. Lascio cadere il minicesso e la paura scompare.Davanti a me, nella semioscurità, a sei-sette

metri da dove mi trovo, la terra si squarcia e comincia a eruttare Fuoco, Merda e lapilli dorati.La voragine mi attrae. Non riesco a resisterle: sembra una vagina di Merda. Mi ci tuffo dentro.Il Fuoco, dentro la voragine, è gelido e puzza di ospedale.Chiudo gli occhi. Quando, due secondi dopo, li riapro, sono circondato da una parete bianca e liscia e, allo stesso tempo, sono immerso fino ai gomiti in una vasca piena d’acqua tiepida.Sopra di me, a dieci-undici di metri di distanza, un’apertura ovale e, al di là di essa, un cielo color piscio illuminato da una lampadina gigante.Mentre mi sforzo di ricordare la forma e il suono del mio nome, a un tratto il cielo si oscura.

Vinicio Motta è nato il 31 ottobre del 1984 e ha pubblicato racconti, saggi e poesie e curato rubriche di vario tipo e antologie di racconti con Delos Books, Libro Aperto Edizioni, Bietti, Edizioni Diversa Sintonia, Kipple Officina Libraria e con la fanzine NeXT.

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Francesco CortonesiLa mucca

L’uomo uscì di casa e scese fino al pascolo. Una mucca gli venne incontro. Gli si piantò davanti, restando immobile a fissarlo. E questo fu quanto.

Mi ero messo in cammino la mattina presto. Nella valle i campi di grano erano gialli e la strada quasi deserta. Imboccai il sentiero che portava verso i pascoli. Avevo affittato una casetta in montagna, per stare lontano dalla città e cercare di pensare il meno possibile a quello che avrei dovuto fare. Stavo diventando vecchio ed ero pieno di rimorsi che dentro di me, come ratti rabbiosi, trovavano rifugio in tane che credevo di aver chiuso per sempre. Uscito dal sentiero notai in lontananza un uomo. Davanti a lui c’era una mucca. Erano al centro di un pascolo, una distesa d’erba appoggiata sul dorso di una spelonca che sembrava la schiena muscolosa di un cavallo selvaggio. Entrambi erano immobili. La mucca lo sovrastava e faceva sembrare l’uomo un piccolo spaventapasseri al cospetto di Buddha.La scena m’incuriosì e decisi di avvicinarmi per dare un’occhiata. L’uomo aveva un cappello di paglia in testa, una camicia di flanella e un paio di pantaloni marroni. La mucca (una frisona pezzata bianca e nera, venni a sapere poi) muoveva appena la coda e per il resto pareva di pietra. Mi avvicinai fin quasi a poterli toccare. L’uomo non si voltò neppure. Portava un paio di occhiali con la montatura di metallo e le lenti erano impolverate come se fossero state raccolte da terra. «Di bello c’è che non fa male», disse restando immobile a fissare la bestia. Provai un senso d’inquietudine. L’uomo e la mucca sembravano impegnati a raggiungere un accordo. «Buongiorno» dissi. «È davvero un bell’animale.»

«Domani mattina verrà condotta al macello con tutte le altre» disse l’uomo. «Pensavo fosse una mucca da latte.»«Le mucche da latte sono dall’altra parte della collina. Non pascolano qui. E comunque sono destinate a fare la stessa fine.»«È un peccato sapere che domani sera non ci sarà più» dissi avventatamente, sempre più sorpreso dal fatto che non si fosse ancora voltato.«Esiste un ordine a livello profondo» rispose, «un ordine che dovrebbe essere evidente e che invece ci sfugge.»La mucca nel frattempo non aveva fatto un passo e continuava a guardarci. I suoi occhi sembravano scrutare chissà quali profondità e le parole dell’uomo mi fecero pensare che forse stava esplorando universi che né io né lui avremmo mai potuto visitare; in ogni caso, molto più che pascoli a perdita d’occhio. «Sì certo, lo comprendo» risposi. «È sua questa mucca?»«No. Una volta anch’io avevo delle mucche, ma un giorno mia moglie si spaventò e decidemmo di venderle.»«Paura delle mucche?»L’uomo restò in silenzio. «Questa mucca pare avere un debole per lei» dissi accarezzando il muso dell’animale che restò impassibile come se a sfiorarla fosse stato un alito di vento. «Un giorno» disse l’uomo respirando profondamente, «un giorno ho compreso che la mia situazione era mutata. Forse le mucche volevano dirmi qualcosa?»«Le mucche?»«È una domanda.»«Cosa spaventò sua moglie?» gli chiesi, rendendomi conto troppo tardi di essere stato forse inopportuno.

Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perso in modo estremamente pericoloso il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice.(Friedrich Nietzsche)

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«Non me l’ha mai detto. Non ne abbiamo mai parlato. C’è mancato il tempo.»Non sapevo cosa pensare. L’uomo e la mucca continuavano a guardarsi, praticamente immobili come in una fotografia. Decisi di andarmene. «Lei non sente nulla?» disse improvvisamente l’uomo, voltandosi verso di me.«Cosa dovrei sentire?» domandai.«Nulla. Lo immaginavo.»L’uomo tornò a fissare la mucca.E fu tutto.M’incamminai verso il sentiero e ripresi la mia strada. Mentre mi allontanavo non riuscivo a non voltarmi, di tanto in tanto,

per vedere se l’uomo e la mucca fossero ancora lì. Non sapevo cosa pensare. Ero quasi in cima quando mi voltai ancora. L’uomo non c’era più e la mucca, correndo, stava abbandonando il pascolo terrorizzata. L’uomo rientrò in casa e si tolse il cappello. Prese un fazzoletto e si pulì le lenti degli occhiali, poi li indossò di nuovo e aprì la botola della cantina. Scese giù, aprì una vetrinetta e tolse un fucile. Lo appoggiò sul tavolo. Poi si sedette. E si mise in silenzio. Ad ascoltare.

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semiautomaticasim

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ciola # 12

Uno dei miei vizi è indossare gli indumenti che mi piacciono prima finché non diventano una seconda pelle e poi finché non sono completamente distrutti. Da ragazzo avevo un paio di Levi’s anni ’70 a zampa di elefante, già appartenuti a mio padre: li trovai in un armadio a casa di mia nonna insieme a mozziconi di vecchi sigari, cravatte fuori moda e lettere di imprecisate e sconosciute ex londinesi scritte su dei post-it. Erano del tutto senza tasche e li portai finché non si consumarono a tal punto che camminavo per strada con il culo in vista, perché il retro era andato a brandelli. Poi avevo un paio di jeans che per la metà anteriore erano rivestiti in similpelle nera: anche questi si riempirono ben presto di strappi e abrasioni e per giunta erano crivellati di bruciature di hashish. Ma io senza farmi tanti problemi ricoloravo periodicamente le parti dove non c’era più la similpelle con un pennarello acrilico nero, che spariva di nuovo a ogni lavaggio. La cosa più eclatante però fu quando il 4/11/1994 andai con Daniel, Fabio e Nicoletta a sentire i Ramones che suonavano al Tendastrisce. Andai alla stazione di corsa sbattendo la porta di casa perché i miei non volevano lasciarmi partire, e una volta arrivati a Termini l’autobus fu preso d’assalto dai punk finché non venne la polizia e ne fece scendere un paio che anni dopo sarebbero diventati miei amici (allora i punk di Roma si radunavano

quasi tutti a Piazza di Spagna). Furono arrestati, credo, ma fecero in tempo a tornare per il concerto. Fuori dal teatro incontrammo altri ragazzi e ragazze che avevano i capelli lunghi e il chiodo di pelle nera come me, e mi sedetti in circolo con loro a fumare una canna sul marciapiede. Per il solo fatto che eri lì per il loro stesso motivo, tutti ti rivolgevano la parola ed erano amichevoli: era così diverso da quell’ambiente di merda del liceo, dove i tuoi coetanei se ne stavano sulle loro o addirittura facevano finta di non conoscerti! Il concerto poi fu il migliore che abbia mai visto in vita mia, con un pogo fantastico e Fabio che si arrampicava invasato sui tralicci che reggevano il tendone. Per non perdere l’ultimo treno utile, poco prima dei bis fummo costretti ad abbandonare, ma camminando verso la pensilina passammo davanti a uno stand abusivo dove comprai due magliette taroccate: una dei Ramones con il logo che riportava Dee Dee al basso e Richie alla batteria, e una dei Sex Pistols con la regina d’Inghilterra. Ce le ho ancora entrambe: la prima ha mezza serigrafia cancellata ed è tutta slabbrata, la seconda è ormai senza maniche e si tiene insieme con un grosso spillone da balia. Mi hanno suggerito più volte di buttarle, ma io non le darei via per nulla al mondo, specie quella dei fratellini newyorkesi che ogni tanto ancora metto per ricordare (o ricercare) la felicità di quel giorno lontano.

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Jesus AdentroNovanta

Anna è stesa sul letto. Dorme da ore, nel buio pesto della notte che avvolge il suo sogno. Immagini sfocate, indefinite, poi un volto prende forma. Un uomo anziano le si avvicina, i tratti raggrinziti dall’età, e le porge un diadema d’oro. «È per te, Anna. Sei stata un esempio di moralità per quelli del gruppo. Agli incontri clandestini ancora ne parliamo. Andartene perché non volevi che anche gli altri venissero scoperti è stata una scelta davvero etica.«Grazie, ma perché sei così vecchio? Nella realtà hai solo 30 anni...»«Anche tu sei come me.»Anna si specchia negli occhi dell’anziano, e si vede più vecchia di sessanta anni.Riceve il diadema, e nelle sue perle vede le immagini minuscole delle migliaia di persone che ha conosciuto da quando è nata. Un esempio di moralità.Anna ripensa al piano architettato per uscire dal gruppo, che le ha permesso di ingannare persino Elisa, la fondatrice; poi, con la più artata delle sue espressioni, bacia l’anziano.È Marco.

Sudore e brividi, istantanee mentali oscurate dal nero della notte attorno a lui, e un incubo orrendo. Marco chiude la porta d’ingresso della sala riunioni, un seminterrato malmesso e buio dove si svolgono gli incontri clandestini. Tre persone, avvolte nella penombra di una serata di settembre, lo salutano calorosamente.«Una rivoluzione intellettuale, Marco, basta con i sabotaggi e l’azione diretta, non portano da nessuna parte» dice Elisa.«Antisessismo, antifascismo, antispecismo, non so, oramai mi sembrano solo retorica...» dice Anna.Marco osserva intensamente il terzo del gruppo, che annuisce. Improvvisamente tira fuori dallo zaino una pistola – una Beretta 90two – e spara: prima a Elisa, poi Anna, quindi le tramortisce a pugni e le imbavaglia. Imbrattandosi di sangue e sudore, violenta brutalmente le due ragazze semincoscienti, quasi morte. Il terzo osserva in silenzio. Marco completa l’opera e fissa il ragazzo negli occhi. È Jonathan, che si avvicina al cadavere di Elisa, tira fuori un piccolo diadema di plastica da un sacchetto e lo appoggia sulla testa della ragazza.Immagini veloci scorrono sui bulbi oculari di Jonathan a notte fonda.1990. Erano tutti e tre, bambini, in un prato sterminato nella calura estiva.

«Dammi un bacetto, Marco.»«Sì, Jonathan», risponde Marco, «ma voglio un bacetto anche da te, Anna. Anna vieni qui!»«Eccomi!» grida Anna, raggiungendo di corsa gli amici.In un attimo, il cielo si scurisce. Jonathan è scosso da un brivido, alza lo sguardo, e fissa pietrificato un enorme oggetto sospeso nel cielo.«Aiuto, aiuto!»«Che succede Jonathan?»«Non... non lo vedete anche voi? Lassù!»«No. Non vedo niente... E neanche tu vedrai più nulla, quando ti fisserò negli occhi e incoronerai il cadavere del tuo creatore.»Jonathan, sconvolto, distoglie lo sguardo da Marco e Anna e scappa via.Nel cielo, un enorme diadema riflette nelle sue perle le immagini di tutti i bambini che Jonathan conosce. Tra questi, ce n’è una che lo osserva intensamente.

Elisa come sempre non ricorda cosa ha sognato. Si alza dal letto nel pieno della notte e va in bagno. Apre l’armadietto dei medicinali e prende il Lexotan. Nello specchio appare la sala riunioni, e dentro c’è solo lei, che da 3 mesi precisi sogna di svegliarsi e andare in bagno guardandosi allo specchio, dove ci sono Anna, Marco e Jonathan, il suo gruppo clandestino che, inebetiti – in attesa di un’anima dal loro creatore – disertano per sempre la sala riunioni, a causa del fallimento di quel che Elisa ha plasmato. Poi compare un enorme diadema d’oro, che riflette nelle sue perle l’immagine di tutti gli uomini che, in un vortice di strepiti e grida, urlano senza requie: «Dio è salvezza». Elisa si sveglia. Apre la finestra del bagno, volge lo sguardo al cielo, e si butta dal nono piano. La notte primordiale è lì ad accoglierla nel suo delirio onirico.

Jesus Adentro vive a Roma, a malapena. È impegnato in progetti musicali (qualcuno l’ha visto pestare con gli Addio) e di autoproduzione (le Suicide autoproduzioni, spaccio di cassette, riviste, fanzine, tra cui la sua personale, Disperazione). Jesus Adentro è una surreale proiezione della mente.

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La ragazza coi capelli neri ha paura di qualcosa. Guarda la donna davanti a lei, guarda la lacrima che le riga il volto e poi muore tra le labbra; per un attimo, come una cicatrice, un sorriso rimargina la ferita dei gemiti che le vibrano in gola, poi le braccia si muovono e le mani si avvicinano al viso della ragazza. La donna è anziana, ferma e sospira; la ragazza è giovane, ha la pelle rovinata e lo sguardo ribaltato, messo in abisso dalla chimica che dentro di lei guida e interpreta i suoi movimenti. La ragazza guarda quelle mani giunte e le respinge con le dita, che scivolano su vecchie frange di pelle grigia. Il sorriso della donna scompare e la ragazza schiude le labbra. «Ferma», le intima chinando il capo, «tu non sei mia madre.» La donna chiude gli occhi e precipita silenziosamente in un buco nero che ha la forma della confusione, ma è soltanto una vertigine di disperazione. Poi si volta verso la finestra, ed è allora che registra inconsapevolmente l’attimo in cui il sole affoga nel lago, dietro una nuvola rossa e sottile; nello stesso momento, un capello grigio tramonta sulle spalle della donna. È lungo come una tenia.

All’inizio era il sospetto. Poi venne il disagio nei suoi occhi di fronte ai loro sguardi. Prima ancora ci fu una sottile linea di imbarazzo e infine la certezza, sotto forma di illuminazione: non era lei a essere diversa. Quella che gli altri chiamavano depressione – o deliri psicotici, a seconda delle stagioni – era soltanto la consapevolezza di essere rimasta sola. Non era lei a essere cambiata, erano spariti tutti gli altri. Ma la cosa più spaventosa, pensava Chiara guardandoli in cucina, attraverso lo specchio (avevano trovato, chissà come, un varco nella superficie, e adesso erano dalla parte sbagliata del vetro, quello suo), era l’altra verità: tutte le persone che conosceva, a cominciare dai genitori, erano stati sostituiti. Erano ancora lì, attorno lei, ma non erano più loro. Erano altri. Erano sosia.

Chiara collezionava pensieri ricorrenti. Li allineava nella sua testa, sulla fronte o appena sopra le orecchie, e li tirava a lucido tutte le volte che poteva, testandone resistenza e pervasività. Era una specie di personale divisione d’élite che rispondeva soltanto ai suoi ordini e che le permetteva di districarsi

in quella matassa di allucinazioni e inganni che era diventata la sua realtà. Uno dei suoi pensieri prediletti, forse il più acuto tra i valorosi tenenti della sua mente, le suggeriva spesso che la depressione le aveva salvato la vita. «A quest’ora», intonava con autorevolezza, «saresti sposata, con almeno un figlio e un lavoro serio». «E non mi sarei accorta di niente», aggiungeva Chiara con un sorriso, mentre qualcosa di nuovo e profumato annunciava l’alba nell’aria: presto i casermoni magenta che recintavano il suo orizzonte si sarebbero tinti di rosso, e il sole sarebbe emerso da quel lago di sangue per sciogliersi nei suoi occhi intorpiditi dal freddo. Allora Chiara avrebbe potuto fare colazione, fissando le sue mani e stando ben attenta a muoverle con cura per evitare rumori. Avrebbe disposto le fette biscottate una sull’altra, fino a comporre una torre

alta quanto la tazza; poi avrebbe mescolato il caffè freddo con il latte di soia e finalmente si sarebbe stesa a letto, dove contava di restare almeno fino a sera, quando i sostituti crollavano nelle loro stanze, liberando la casa della loro presenza abusiva. Chiara

passava buona parte della giornata a guardare: roteava gli occhi e aggrottava le sopracciglia fino a sentirne la pressione sul setto nasale; le narici pulsavano, la fronte calda si arrossava, tutte le ossa del cranio le facevano male e respirava con fatica, ma andava bene così: era un tipo di esercizio che aveva ideato per aumentare la profondità del suo campo visivo.Il resto del tempo lo passava leggendo: i ritagli di giornale che aveva accumulato negli anni, con i casi di cronaca simili al suo; i fascicoli di Lotta Raeliana, la rivista che ogni mese le arrivava a casa; le pagine dei quaderni che riempiva, tre per volta, ogni settimana. Di pomeriggio guardava molta tv: film a metà, pubblicità, varietà e sopra ogni cosa giochi a premio; una volta, per caso, aveva riconosciuto tra il pubblico un viso familiare, identico a quello di sua madre – quella vera: fu uno dei suoi pensieri ricorrenti a suggerirle che probabilmente avrebbe ritrovato i suoi cari dentro la scatola nera. Chiara ci rimuginò per un po’ e infine dovette ammettere che aveva senso e il ragionamento filava, ma per cercarli là dentro avrebbe avuto bisogno di tempo, impegno, forza d’animo e di una

Chiara

storie nereSTORIE NERELuca Carelli

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vista molecolare – ma quella, forse, non era un problema. Fu così che, senza volerlo, s’accorse che le pastiglie bianche che buttava giù tre volte al giorno facevano parte del piano. Come aveva fatto a non capirlo prima? Stava guardando una delle tante trasmissioni di cucina che andava in onda a quell’ora quando la tv si spense in un lampo bianco e fuori esplosero gli allarmi delle macchine e le sirene dei negozi. Più tardi i sosia le dissero che si era trattato di un black-out, ma lo schermo opaco del televisore – dal riflesso grigio impalpabile dello stesso colore della pelle della finta madre – le aveva già restituito l’immagine aliena che le era stata cucita addosso e che faceva fatica a decifrare: ciò che vedeva, con la chiarezza di un riscontro, era un corpo stanco, appesantito, sul punto di esplodere, che si muoveva faticosamente e con un ritardo innaturale, come se i segnali di comando non fossero sincronizzati; un viso gonfio e dilatato; un sorriso uncinato da ganci invisibili e dolorosi; capelli radi e spenti, tagliati a strappi con le mani. Quella non era lei. Loro stavano tentando di sostituirla. Aveva senso, perché mancava solo lei. Scoprirlo era stato semplice e sinistramente casuale.

Tutto tornava, eppure non bastava per permettere ai giorni di non passare. Il tempo prendeva le ore, le ore consumavano i giorni, i giorni cancellavano i mesi e infine toccava agli anni. Non c’era verso di cambiare le cose e tutto restava immutato, come la profondità del lago. Chiara non prese più le medicine, si fece regalare uno specchio elegante e maestoso e imparò a dissimulare: smise di parlare dei sosia e a chi le domandava come stava, rispondeva sorridendo con riconoscenza insincera. Aprì la porta della sua stanza e riprese a uscire: andava nei bar a fare colazione, dal parrucchiere in centro, e a passeggiare per ore in riva al lago, finché i sostituti non le comprarono un’automobile. Le dicevano che era un sollievo vederla così. Le ripetevano ogni giorno che sembrava rinata. Le assicuravano che era ormai guarita. Ma continuavano a osservarla. E a controllarla da vicino.Un giorno, pensava Chiara, avrebbero abbassato la guardia. Presto o tardi si sarebbero voltati o avrebbero chiuso gli occhi. Quel giorno sarebbe stato bello fuggire e lasciarsi tutto alle spalle.Sarebbe bello ritrovare i miei genitori – quelli veri; mia sorella e tutti i miei amici. E i miei occhi, gl’occhi belli che avevo e che i sosia sono riusciti a sostituire.Era un altro dei pensieri ricorrenti di Chiara; forse il più anziano tra i coraggiosi tenenti della sua mente; di certo, il meno affidabile.Perché, e Chiara lo sapeva, sarebbe stato più facile imparare a volare e prendere la rincorsa nel cielo. Sopra il lago, con la sua macchina nuova di zecca, oltre i confini del tempo.

Chiara Bariffi, trent’anni, scompare nella notte tra il 30 novembre e il 1 dicembre 2002 tra Dervio e Bellano (Lecco), a bordo della sua Daihatsu Terios. Avrebbe dovuto percorrere quattro chilometri di lungo lago per raggiungere casa. L’11 settembre 2005, in seguito alla segnalazione di una sensitiva, l’auto viene ripescata sul fondo del lago di Como, a 122 metri di profondità e a 100 metri dalla costa. Chiara soffriva di psicosi bipolare ed era affetta da sindrome di Capgras (o Sindrome del Sosia): era convinta che i genitori e i suoi cari fossero stati sostituiti da controfigure. Il 27 novembre 2009 Alessandro Vecchiarelli – l’unico indagato per la morte della ragazza – viene assolto dall’accusa di omicidio volontario. Il caso è tuttora insoluto.

Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito.È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera.

Scheda Chi l’ha visto

Chiara Bariffi e la sindrome del Sosia

Un giorno in Pretura: Chiara Bariffi (07-05-11)

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La poesia è una cosa da ragazzi


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