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Verità e Giustizia

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Verità e Giustizia
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3 maggio 2011 La newsletter di liberainformazione n.73 verità e giustizia Vite rubate
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Page 1: Verità e Giustizia

3 maggio 2011

La newsletter di liberainformazione

n.73

veritàegiustizia

Vite rubate

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2 verità e giustizia - 3 maggio 2011

n questi giorni ricorderemo i giornalisti uccisi perché face-vano il loro lavoro (il 3 mag-gio, nella Giornata mondiale

della libertà di stampa), e tutte le vitti-me del terrorismo e dello stragismo in Italia (il 9 maggio). Le ricordiamo per amore nei loro confronti, per ripen-sare alla storia che è appena dietro di noi, ma anche perché sappiamo che persone come Giuseppe Alfano, Ilaria Alpi, Enzo Baldoni, Carlo Casalegno, Cosimo Cristina, Maria Grazia Cutu-li, Mauro De Mauro, Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Anna Politkovskaja, Mauro Rostagno, Giancarlo Siani, Giovanni Spampina-to, Walter Tobagi e, purtroppo tanti altri, hanno qualche cosa da dirci. Quale è il messaggio che ci lasciano queste vite? Mi sembra che sia quello del coraggio della mitezza. La mitez-za delle persone che stiamo per ricor-dare è stata una scelta; è stato il loro modo di vivere con coraggio, facendo la propria parte, al centro di grandis-simi conflitti e di svolte epocali. Né le mafie né il terrorismo hanno colpito a caso; i loro avversari sono stati (nel caso del terrorismo) o sono (nel caso delle mafie) i costruttori di verità, di conoscenza, di coesione sociale, di democrazia. Il coraggio della mitezza è fatto del rifiuto di qualsiasi forma di violenza e anche del non considera-re normale quella che giornalmente viene prodotta. Del non smettere mai di difendere quello che è giusto. Del riconoscere nell’altro la comune uma-nità, anche quando questi sia lonta-

no o nemico, e del non accettare che nessuno sia considerato un mostro. Crede, invece, nel rispetto e nel rico-noscimento, e nel vivere con umiltà. Il coraggio della mitezza è la strada segnata dalla nostra Costituzione; è ciò che caratterizza la nostra demo-crazia; il modo con cui è concepita la politica; lo spirito attorno al quale si è creata la nostra Repubblica. Cambia-re le cose con la mitezza; costruire la giustizia, nel Paese e nel mondo. Con il consenso; con la collaborazione; con la condivisione. Ed è oggi la virtù più rara e più importan-te da praticare.Il tempo nel quale viviamo non ci pro-pone la mitezza , ma il mercato e la logi-ca che esso si porta dietro: vince il più forte, che è anche l’unico che meriti rispetto e considerazione. Ai perden-ti, che sono la stragrande maggioran-za dell’umanità, non viene riservata neppure la minima tenerezza sociale. E’ una gigantesca forma di violenza e di oppressione, vestita di moder-nità, apparentemente ragionevole e tanto convincente che a volte non ce ne accorgiamo. Finisce per sembra-re normale, ad esempio, discutere se respingere o meno un barcone pieno di esseri umani che rischiano la vita. Smascherare questa nuova disumani-tà, nelle sue tante forme, è il compito di giornalisti coraggiosi, che usano i

loro mezzi espressivi - scrittura, im-magini - per portarci nel cuore della verità del mondo. I capi delle nazio-ni, poi, sembrano più che mai credere che la violenza, magari mirata, sia la strada per risolvere i problemi che ci affliggono. I bombardamenti in Libia; l’uccisione, voluta, di Bin Laden po-che ore fa: sono i modi con cui si pen-sa di superare situazioni complesse. Ma chiameranno altri conflitti, altre vittime, altra incomprensione. Pro-prio nel momento in cui si affaccia-

va, con i movimenti del Nord Africa e del Medio Oriente, qualcosa di nuovo. In realtà, l’unica strada che paga e che costruisce è proprio quella della mitezza, che crede nella forza del par-lare e del parlarsi, e che ha come pro-

tagonisti l’intera umanità. Certo per essere e restare miti ci vuole coraggio, e molta libertà interiore. Penso con tenerezza e rispetto a mio padre, Aldo Moro, che non ha mai abbandona-to quella strada, nella quale credeva profondamente. E ad altri, grandissi-mi, del ‘900 come il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela che hanno cambiato i loro paesi e il mondo senza cedere alla tentazione della violenza. E’ strano come la loro debole voce riesca ancora ad arrivare fino a noi, incoraggiandoci ad essere anche noi coraggiosi e miti.

Il coraggioe la mitezza

Mafie e terrorismo hanno colpito

i costruttori di verità e

democrazia

La giornata mondiale per la libertà di stampa e la giornata delle vittime dello stragismo e del terrorismo in Italia sono l'occasione per mantenere accesa una luce sulle minacce che incombono sulla democrazia nel nostro Paese. Il commento di Agnese Moro, figlia dello statista ucciso nel '78

di Agnese Moro

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>> Editoriale

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3verità e giustizia - 3 maggio 2011

Memoria&impegno <<

Doveva giocare la schedi-na. Disse alla fidanzata: “Vai avanti, ti raggiungo fra poco”. Enza lo attese

invano. Ma il suo corpo fu ritrovato due giorni dopo in un tunnel ferroviario. Ac-cadde nel 1960 a Termini Imerese, un paesino in provincia di Palermo. Lui era Cosimo Cristina, 25 anni, brillante croni-sta de L’Ora di Palermo e collaboratore di numerose testate nazionali dalla Sicilia. Il suo delitto lo fecero passare per un sui-cidio e invece lui fu il primo giornalista italiano ucciso dalle mafie in questo Pae-se. La sua storia è stata portata in scena, l’altra sera, alla Biblioteca nazionale di Roma, grazie ad un intenso recital scrit-to, sceneggiato e diretto da Luciano Mi-rone, anche lui giornalista siciliano, con il “vizio” della memoria e dell’inchiesta. Il suo ricordo, attento e puntuale, ripor-ta in vita una storia poco nota al grande pubblico e contenuta nel suo libro “Gli insabbiati” edito da Castelvecchi. Cosi-mo Cristina è solo degli otto giornalisti uccisi in Sicilia per mano di Cosa nostra. Vite rubate: quelle di Mauro De Mauro (1970), Giovanni Spampinato (1972), Giuseppe Impastato (1978), Mario Fran-cese (1979), Giuseppe Fava (1984), Mau-ro Rostagno (1988), Beppe Alfano (1993). A Napoli è stato ucciso dalla camorra nel 1984, il giovane Giancarlo Siani. A Tori-no dai terroristi Carlo Casalegno (1977) e a Milano Walter Tobagi (1980). Molti altri colleghi sono morti all’estero, 27 in tutto il mondo. L’ultimo è stato Vittorio Arrigoni, pacifista, attivista e cronista dalla striscia di Gaza, ucciso il 15 aprile scorso. A lui ieri è stata dedicata la sera-

ta scelta per celebrare la “Giornata mon-diale della libertà dell’informazione” che si inserisce all’interno delle celebrazioni della “Giornata della memoria ei giorna-listi italiani uccisi nel dopoguerra dalla mafie e dal terrorismo” (quest’anno si terrà Genova il 28 maggio prossimo, per iniziativa dell’Unci). Il recital in memoria di Cosimo Cristina racconta la sua storia ma anche quella degli altri otto giorna-listi uccisi in Sicilia. «Per tutti – ricorda Mirone – vale soprattutto la strategia delle delegittimazione. Questi giorna-listi sono morti due volte. Cosa nostra li ha uccisi fisicamente e poi è stata costretta a infangarne la me-moria». Anche per Cristina è stato così. Soprattutto per lui. Troppo giovane, trop-po in gamba, troppo scomodo. La delegit-timazione seguì an-che canali “ufficiali”. I due magistrati che si occuparono del corpo ritrovato esani-me all’uscita di una galleria ferroviaria di Termini Imerese (Pa) il 5 maggio del 1960, scrissero che il giovane giornali-sta era sull’orlo del fallimento – infatti era stato appena licenziato su pressioni mafiose dalla ditta che gli dava uno sti-pendio – e in crisi per essere colpito da «troppe querele». E invece Cosimo non aveva intenzione di morire, voleva spo-sarsi con Enza, la sua ragazza che viveva a Roma e voleva far crescere il suo gior-nale “Prospettive siciliane” con il quale negli anni ’60 si era messo in testa di por-

tare avanti una battaglia civile e morale in una cittadina crocevia di traffici, de-litti e che di lì a poco avrebbe scoperto, grazie alle dichiarazioni di pentiti, che la mafia sedeva comodamente nel Con-siglio comunale. Luciano Mirone, oggi direttore del periodico “L’Informazione”, scrittore e collaboratore di Repubbli-ca a Palermo, entra in questa storia in punta di piedi e scopre che a distanza 40 anni che la giustizia non è riuscita a fare il suo corso. Nonostante il “rappor-to Mangano” dal nome del commissario

che riaprì le indagini, l’autopsia fatta solo decenni dopo con la riesumazione delle ossa, confermò il sui-cidio. E il caso fu in-sabbiato. Nonostante le dichiarazioni rese da mafiosi di primo rango che raccon-tano come Cristina fosse stato eliminato

perché scomodo. Strettamente legata a questa storia, Mirone nella sua inchiesta ritrova una storia d’amore. Quella con Enza, la fidanzata di Cosimo Cristina. Una donna bella, minuta, dai capelli scuri, oggi donna sessantenne che vive a Roma e custodisce ancora al dito, l’anello che Cosimo le aveva regalato. Un ricordo gelosamente conservato «perché alme-no questo - scrive Mirone – possa vivere per sempre». Il nome di Cosimo Cristina (come quelli di Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mauro Rostagno) il 16 maggio prossimo saranno aggiunti al “Journalist Memorial” di Washington.

Martiriper la verità

Dedicata a Vittorio Arrigoni la serata

in memoria dei giornalisti uccisi

nel mondo

A Roma un recital racconta la storia del giornalista Cosimo Cristina ucciso dalla mafia. La serata in memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo apre il programma di celebrazioni del 3 maggio, Giornata Mondiale dell'Informazione

di Norma Ferrara

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a lasciato Parma per raggiungere Palermo: Massimo Ciancimino è ora recluso nel carcere

Pagliarelli del capoluogo siciliano, in regime d’isolamento. Una tregua è prevista per il 10 maggio, quando dovrà comparire in aula, nel proces-so per la mancata cattura di Proven-zano, che vede alla sbarra gli ex uf-ficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu. Intanto, le nubi addensatesi sopra di lui, fin dal giorno del suo ar-resto, incombono tuttora minaccio-se: dalle accuse di calunnia e truffa per le accuse di contiguità con Cosa Nostra rivolte al direttore del Dis Gianni De Gennaro, all’iscrizione nel registro negli indagati per la deten-zione dell’esplosivo ritrovato nella

sua casa palermitana, per finire con le nuove rivelazioni sul tesoro della sua famiglia: beni per un valore di circa 500 milioni di euro e nascosti all’estero con acquisizioni immobi-liari e partecipazioni societarie.Anziché cercare di capire cosa è re-almente successo, si corre il rischio di gettare alle ortiche tutto il lavoro che in questi ultimi mesi è stato fat-to per venire a capo delle trattative che Cosa Nostra avrebbe intavolato con rappresentanti delle istituzioni e culminata nella stagione di sangue compresa tra il 1992 e il 1993. Anzi-ché plaudere all’iniziativa della ma-gistratura che cerca di prevenire un possibile inquinamento delle prove, colpendo con un provvedimento restrittivo della libertà il suo princi-

pale testimone, si scatena una vera e propria caccia all’uomo, dove a fi-nire sotto tiro è proprio chi rappre-senta la giustizia e non l’eventuale colpevole del reato.Un indecoroso crucifige! che ha come obiettivo la delegittimazione di un magistrato impegnato e co-erente come Antonio Ingroia. Gli attacchi forsennati della stampa schierata con la maggioranza, le violente parole di Giuliano Ferrara lanciate in prima serata, dal pulpito concessogli dalla rete ammiraglia della Rai e le dichiarazioni bellicose di uomini politici vicino al premier rivelano, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, come Ingroia sia nel mirino da tempo, perchè ritenuto avversa-rio irriducibile. Una profonda ostili-tà che vede un passaggio cruciale nel lontano novembre del 2002, quando nel corso del procedimento contro il senatore Dell’Utri, Berlusconi si av-valse, in qualità di Primo ministro, della possibilità di essere ascoltato come teste assistito a Palazzo Chigi, anziché presentarsi a Palermo. In-groia ricostruisce l’episodio nel suo

Trattativa:è caccia all’uomoCiancimino in carcere, Ingroia sulla graticola. Le polemiche sull'inchiesta della Procura siciliana fanno da sfondo al tentativo di screditare il magistrato che indaga sui misteri della stagione delle stragi e sul patto Stato-mafia

di Lorenzo Frigerio

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>> Italia

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libro “Nel labirinto degli dei”, descri-vendo il palese nervosismo che coin-volse tutti i protagonisti di quella strana seduta: «Silenzio. Lunghissi-mi minuti di silenzio. Il tempo sem-brava essersi sospeso. Tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di Lui, teso, i lineamenti contratti. Mi guar-dava. E io ebbi la sensazione che mi stesse fissando. Era come se avesse percepito il mio intervento più come una sfida che un appello. E sembra-va che fosse tentato di raccoglierla quella sfida, di reagire, di risponde-re». Invece Berlusconi non raccolse la sfida, avvalendosi della facoltà di non rispondere e sprecando forse per sempre l’occasione di fare luce una volta per tutte sulle sue relazio-ni pericolose, che non sono certa-mente solo quelle femminili. Forse ci sbaglieremo, ma siamo convinti che l’accanimento personale nei con-fronti di Antonio Ingroia da parte di quanti intendono colpire una peri-colosa “toga rossa”, macchiatasi del reato di lesa maestà, nasconda in re-altà la preoccupazione dei problemi che al leader della maggioranza po-trebbero venire dalla Procura di Pa-lermo. Forse ci sbaglieremo, ma non saranno i processi incardinati a Mi-lano – da Mediatrade a Mills, per fi-nire alla vicenda di prostituzione che coinvolge Fede e Mora – a far dor-mire notti insonni al Cavaliere. Per quanto riguarda le turbolenti notti di Arcore, quest’ultimo ha già rice-

vuto una sorta di assoluzione dall’o-pinione pubblica, soprattutto quella maschile, pronta a riconoscersi più negli stereotipi machisti del latin lover che in quelli rassicuranti del bravo pater familias. I processi, inve-ce, per fatti di corruzione cadranno presumibi lmente sotto i colpi infer-ti alla procedura dalla cosiddetta riforma della giu-stizia. E quindi le uniche accuse che, se provate, potreb-bero causare seri danni al premier, potrebbero essere solo quelle di contiguità con i capi-tali dei boss mafiosi, risalenti all’ini-zio della sua scalata imprenditoriale, e le altre, ben più pesanti, di aver gio-cato in qualche modo un ruolo nella stagione insanguinata delle stragi, quella che ne precedette la discesa in campo. Ecco allora l’accanimento mediatico portato ai danni di Ingro-ia. Analogo tentativo venne esperito nei confronti di Caselli, quando a Cagliari si suicidò il giudice Lombar-dini, indagato per un possibile coin-volgimento nel sequestro Melis e per questo interrogato dai colleghi della procura siciliana. Si colse allora l’oc-casione di un tragico avvenimento per sparare ad alzo zero contro i magistrati di Palermo, accusati di essere responsabili del drammatico

epilogo della vicenda.Oggi si riattiva quella che Saviano ha chiamato la macchina del fango per colpire un giudice, colpevole solo di aver fatto il proprio dovere. Tan-to che, inspiegabilmente, la prima commissione del Csm – quella che

si occupa dei tra-sferimenti d’ufficio – annuncia l’inten-zione di occuparsi dell’affaire Cianci-mino. Anche se il procuratore nazio-nale antimafia Pie-tro Grasso sembra voler buttar benzi-na sul fuoco, al ter-

mine dell’incontro tra i magistrati di Palermo e Caltanissetta, quando dichiara che «si sono chiarite le di-verse posizioni e ognuno ha avuto modo di esporre le proprie ragioni ma adesso è stata messa una pietra sul passato e si pensa solo a costru-ire il futuro delle indagini nel quale tutti si sono impegnati ad una scam-bio reciproco e spontaneo di tutti gli atti compiuti e da compiere».Preoccupa, piuttosto, lo strano si-lenzio che circonda Ingroia, fatte le debite eccezioni ovviamente. Sarà forse questo isolamento che av-verte intorno a sé ad aver spinto il magistrato, solitamente restio al proscenio, a prestarsi più del solito a richieste di interviste e apparizioni pubbliche e televisive?

L'accanimento nei confronti di Antonio Ingroia nasconde paure per le inchieste

Italia <<

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ontro la Procura di Paler-mo ed in particolare contro Antonio Ingroia, certamen-te uno dei suoi uomini di

punta per professionalità efficienza e coraggio, si è scatenata una campagna forsennata. Il pretesto strumentale è il “caso Ciancimino”. Un caso certa-mente intricato e controverso (come lo stesso Ingroia ha ripetutamente ri-cordato: e non solo nell’infuriare delle polemiche), in ordine al quale possono perciò aversi valutazioni diverse. Ma niente hanno a che fare con questa ca-tegoria gli insulti beceri, le aggressioni volgari e le bordate grossolane scaglia-te con l’intenzione di bastonare – sia mediaticamente che politicamente – onesti magistrati che hanno il solo torto di adempiere scrupolosamente i propri doveri istituzionali: doveri che comprendono anche quello di non es-sere “scaltri” voltandosi dall’altra parte ( per quieto vivere) se le dichiarazioni di un collaboratore “difficile” aprono scenari inquietanti ed oscuri: tutti da verificare con adeguati riscontri, certo, ma senza smettere di cercare la verità sol perché la strada da per-correre presenta difficoltà ed insidie. Invece, in quest’Italia che sta sempre più perdendo – insieme alla decenza – la capacità stessa di usare le parole secondo il loro significato corrente, c’è addirittura chi – calpestando pri-ma di tutto il buon senso – ha osato sbraitare contro Ingroia, scagliandogli addosso la delicata richiesta di «ti-rar fuori l’articolo 289 codice penale (attentato ad organi costituzionali)

che punisce con 10 anni di galera chi cospira contro lo Stato». A ben vede-re il copione è vecchio come il cucco. La storia della lotta alla mafia è piena zeppa di tecniche rinunciatarie poste in opera da chi preferisce non vince-re. Queste tecniche comprendono la definizione della ricerca della verità come teorema o complotto;- l’insinua-zione di un rapporto scorretto fra pentiti e inquirenti (una favola diffusa fin dai tempi del pool di Falcone e Borsellino: come di-menticare le pesan-ti ironie sui cannoli portati a Buscetta?);- la delegittimazione pregiudiziale dei col-laboratori (cosa, inu-tile dirlo, ben diversa dalla doverosa cautela nella utilizzazione delle loro dichiarazioni):- fino alla brutale accu-sa a pubblici ministeri e giudici di co-struire castelli accusatori strampalati per ragioni politiche al servizio di una fazione e ai danni di un’altra. Ciò che – nel caso di Ingroia – è addirittura di-ventato ( nella torrentizia profusione di leggiadrie assortite) premessa per sparare accuse di “cospirazione poli-tico giudiziaria” e di “calunnia di sta-to”. Viene alla mente (ed è risolutiva) una frase di Falcone a proposito delle difficoltà strutturalmente connesse ai problemi dei collaboratori di giustizia quando affrontano certi argomenti: difficoltà tali da far «sorgere il sospet-to che in realtà non si voglia far luce

sui troppi, inquietanti misteri di ma-trice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti».Ma si consoli ( se può) l’ottimo Ingroia. Non è lui l’obiettivo principale. Getta-no fango contro di lui per tirare la vo-lata alla sedicente riforma “epocale” della giustizia. Tirare in ballo un magi-strato molto noto e stimato per la sua

irreprensibilità, in-ventandosi irrego-larità e scorrettez-ze gravi, equivale a costruire”in vitro” argomenti tanto falsi quanto sugge-stivi per far passare la merce avariata di una riforma che ha come obiettivo evidente ( al di là

della propaganda ingannevole, pro-fusa senza risparmio di mezzi) quello di mettersi sotto i piedi il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura: costringendola di fatto a ad essere devota ed ubbidiente ai vole-ri della maggioranza politica del mo-mento (di quale colore, va da sé, non importa) in spregio al principio della legge uguale per tutti. Ed è per questi motivi che ristabilire la verità a pro-posito di Ingroia è anche difendere la qualità della democrazia. Esattamente come battersi contro chi invoca com-missioni d’inchiesta per dimostrare che la magistratura è un’associazione a delinquere di carattere eversivo, o tap-pezza la città di manifesti osceni con la scritta” fuori le Br dalle Procure”.

Una campagnaforsennata

Ristabilire verità sul caso Ingroia

è difendere la qualità della democrazia

Dopo l'arresto di Ciancimino Jr. la Procura di Palermo è stata oggetto di un durissimo attacco. È stata chiesta l'incriminazione di Ingroia e una commissione di inchiesta sui pentiti. Ecco perchè è importante difendere il Pm siciliano dimostrando che la magistratura non è eversiva

di Gian Carlo Caselli

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>> Italia

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7verità e giustizia - 3 maggio 2011

aurizio Torrealta non è soltanto un eccellente cronista di quel giorna-lismo investigativo che

con cocciuta determinazione cerca di tenere viva la missione etica e profes-sionale del mestiere: la ricerca della ve-rità. Torrealta è prima di tutto un uomo onesto, nei confronti di un’opinione pubblica avvolta da un fiume di notizie contraddittorie, prive di memoria sul prima e di ragionamento sul dopo, preda indifesa di interpretazioni consumisti-che e di campagne a comando di “distra-zione” o di “indottrinamento”. Le crona-che sono piene del clamoroso arresto di Massimo Ciancimino, per calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro, da parte di quella Procura di Palermo che pure ne ha acquisito, ritenendole valide e comprovate, una massa di rivelazioni sulle trattative fra settori dello Stato e Cosa Nostra negli anni ’90. Attorno alla figura del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo si è scatenata subito la feroce guerra dei “pasdaran” della maggioranza di governo, volta soprattutto a colpire la credibilità del Procuratore Aggiunto Antonio Ingroia, avallando nel contem-po le complottistiche accuse di Silvio Berlusconi nei confronti dei Pm per aprire la strada al progetto Alfano sulla Giustizia. Con il suo “Il quarto livello”, che segue e sviluppa il precedente “La trattativa” (Bur 2010) Maurizio Torrealta evita di gettarsi in questa mischia e offre invece al lettore qualcosa di diverso dal-le teorie preordinate che troppo spesso costituiscono il limite e il rischio delle inchieste giornalistiche, anche quando sono in buona fede. “Il quarto livello” offre una quantità di informazioni, dati, ricostruzioni minuziose tratti dalla lun-ga memoria della lotta contro la mafia, che a metà degli anni ’90, con le terribili stragi messe in opera dai corleonesi e le trattative fra parti dello Stato e la mafia, aprì la strada alla cosiddetta Seconda Repubblica. Non a caso negli ultimi tem-

pi l’ombra dei servizi segreti si è concre-tizzata, con rivelazioni dei pentiti e dello stesso Massimo Ciancimino, avallate pe-raltro da sentenze di processi conclusi, in molte delle pagine oscure che hanno segnato la stagione dei delitti eccellenti fino alle stragi di Capaci e di Via D’Ame-lio e ai successivi sanguinosi attentati contro il patrimonio artistico e religioso del Paese. Il “quarto livello” da cui parte la ricerca di Maurizio Torrealta è costi-tuito dai 13 nomi che Vito Ciancimino scrisse in una cartolina inviata nel 1990 a se stesso: tutti personaggi appartenen-ti ai più alti livelli delle istituzioni e del potere, ministri, funzionari, dirigenti dei servizi segreti, che «compiono azioni al di fuori dei propri compiti istituzionali – scrive Torrealta – non per interessi persona-li o individuali, ma per ragioni di ordine su-periore». Di ciascuno di questi personaggi “Il quarto livello” ana-lizza la vita, il ruolo, le azioni compiute per depistare, inquinare, ricattare, tradire la propria missione per tessere un filo di cui Torrealta cerca di ricostruire la trama, senza iattanza né certezze, ma cercando e offrendo credi-bili ipotesi basate sul ragionamento e la logica documentale. Su tutto incombe la misteriosa figura di Franco/Carlo, per-sonaggio dei servizi che Massimo Cian-cimino ha individuato ripetutamente in Gianni De Gennaro, uomo-mito nella storia della polizia e dell’antimafia, fino a finire in carcere per l’oggettiva falsifi-cazione del suo nome operata nel do-cumento decisivo… Ma anche sul ruolo e l’identità di Franco/Carlo e della sua specifica vicenda restano alla fine del li-bro numerosi dubbi. Torrealta si adden-tra così in vicende finora sottovalutate, come quella del cosiddetto Sisdegate, lo scandalo dei fondi neri a disposizio-

ne dei ministri dell’Interno, che portò il Presidente Scalfaro alla sua celebre in-vettiva televisiva, mentre la responsabi-lità morale e penale della vicenda, che ri-cadde solo su alcuni funzionari “felloni” del Sisde, fa intravvedere scenari tutti da esplorare. E il viaggio di Sindona in Sici-lia, per sbarrare la porta d’ingresso non solo del suo fallimento bancario, ma dei meccanismi del riciclaggio delle finanze criminali, all’ombra della massoneria. E’ davvero inquietante la domanda sul per-ché tutti i personaggi coinvolti in qual-che modo nelle indagini sui movimenti delle finanze mafiose siano stati uccisi, in una lunga catena, da Giorgio Ambro-soli al commissario Boris Giuliano, che pochi giorni prima dell’omicidio del li-quidatore della banca di Sindona si era lungamente incontrato con lui a Milano e che pochi giorni dopo fu assassinato a sua volta a Palermo, al giudice Terra-nova, al capitano Basile, al procuratore capo Costa, ai banchieri Sindona e Calvi, poi via via fino agli stessi Falcone e Bor-sellino… E’ nel contesto mondiale, nei rapporti stringenti dei nostri apparati con la Cia, negli scenari internazionali in cui fu gettata e utilizzata la finanza

criminale, che va cer-cato il perché delle azioni di uomini che, in nome di una pre-tesa “ragion di Stato”, si sono macchiati di delitti gravissimi e di un autentico atten-tato alle istituzioni e all’autonomia della Repubblica? “Il quar-to livello” si limita a

ipotizzarlo, con credibile e suggestiva semplicità. E’ lo stesso Antonio Ingroia, nella sua acuta e serena prefazione, a cogliere il senso di fondo della fatica di Torrealta, al di là di ogni interpretazione: l’aver acceso «un fascio di luce su una zona ancora assai oscura: quella degli apparati, che costituiscono la struttu-ra, il presidio di quella zona buia, dove la ragion di Stato imperversa e dove la giustizia incontra spesso limiti e conte-nimenti».

Maurizio TorrealtaIL QUARTO LIVELLOBUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano 2011pp. 388€ 12,00

Il quartolivellodi Roberto Morrione

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Recensione <<

Una lunga catena di omicidi avvolge

l'indagine sui movimenti delle finanze mafiose

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8 verità e giustizia - 3 maggio 2011

opo le rivoluzioni che han-no interessato il Maghreb e sono ancora in corso in gran parte del mondo, gli

esperti di comunicazione e scien-ze politiche guardano al web come motore di questi ed altri possibili cambiamenti. L’hanno ribattezzata la rivoluzione di “fame e internet” e adesso soprattutto in Tunisia e Egit-to si guarda con attenzione al ruolo che possono giocare anche nel “post“. Questa “lezione” nordafricana si in-serisce come catalizzatore di proces-si sparsi a macchia di leopardo già in buona parte del mondo. E’ internet che ha dato immediata consistenza alla rivolta tunisina, ad esempio, pro-vocando l’effetto domino negli altri Paesi, accelerando la conoscenza e

il riconoscimento internazionale, ri-velando che: la rivoluzione non è ne-cessariamente islamista e forse nem-meno islamica ma è una rivoluzione in mano ai giovani in nazioni dalla demografia particolarmente giovane. Sarà molto complesso e incerto il de-stino di queste rivoluzioni nate dalla “libertà del bisogno” - come l’avrebbe definita Franklin Delano Roosevelt ( freedom from want). Mentre guar-diamo a questi scenari internazionali che stanno cambiando il mondo, la mente vola alla “rivoluzione” di casa nostra. E non solo di casa nostra ma di tutti quei Paesi in cui la democra-zia è messa a rischio dall’esistenza di una criminalità organizzata di stam-po mafioso in grado di eleggere uomi-ni in Parlamento, fare affari per le for-

niture di beni primari, dalle energie, all’acqua, alla gestione dei rifiuti. Solo per citarne alcuni. Paesi, in sostanza, a sovranità limitata, nei quali a go-vernare non è solo lo Stato. In Italia, in particolare, internet silenziosa-mente da decenni rappresenta ormai il luogo privilegiato della resistenza antimafia, sotto il profilo culturale. E’ il Duemila il decennio in cui si conso-lida il ruolo della Rete e dei suoi citta-dini nel ritorno ad un contrasto con-tinuo e frontale alla cultura mafiosa, alle battaglie per la legalità e contro le mafie e la corruzione. Nel nostro Paese questi movimenti dal basso hanno contribuito anche a scalfire il monopolio della stampa tradizionale, dei canali ufficiali, attraverso i quali, consapevolmente o meno, dopo le stragi e le prime sentenze su via d’A-melio e Capaci, si è posto il sigillo del silenzio sulla mafia “sommersa”, quel-la che non spara più come negli anni ’80 per le strade di Palermo, o nella Campania raccontata dal giornali-sta, poi vittima della violenza crimi-nale, Giancarlo Siani. Il meccanismo

La rivoluzione in casa nostr@Prima delle rivolte del Maghreb e dopo le stragi di Cosa nostra, il ruolo di internet nelle battaglie per la libertà e i diritti in Italia e all’estero. Da decenni la Rete è protagonista nel nostro Paese dell’altra informazione su mafie e illegalità

di Norma Ferrara

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>> New media

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ad “imbuto” che filtra l’informazione nazionale ha spesso determinato la sottovalutazione o disinformazione nel racconto del fenomeno mafioso e della reazione, istituzionale e sociale, a questa continua aggressione ai di-ritti della persona e al territorio, al suo funzionamento democratico. Già dai primi anni novanta (non prima, a causa della lentezza con la quale il nostro Paese si è aperto ai “nuovi me-dia”) la Rete in Italia ha utilizzato pa-rametri differenti, ospitato inchieste scottanti, inchiodato politici alle loro responsabilità, raccolto il dissenso e spinto verso la manifestazione del proprio pensiero. Accompagnando il lavoro, in buona parte puntuale e coraggioso, di validi cronisti radiote-levisivi, giornalisti d’inchiesta della carta stampata, delle radio sponta-nee e piccole emittenti televisive lo-cali. Internet non è ancora, per molti, considerato luogo di ricavi economi-ci: una notizia on line non è ancora un prodotto economicamente sicuro su cui investire per gli editori. Questo ha rallentato sino a oggi la nascita di un mercato editoriale digitale che si impegnasse su questi temi, aggi-rando i costi della carta stampata e scommettendo, non tanto e non solo sui lettori di oggi, ma su quel-li di domani. Lentamente anche nel panorama on line dell’altra informa-zione, però, qualcosa sta cambiando, e questo rinnovamento complessi-vo potrà portare al rovesciamento

“dell’imbuto” che filtra le notizie di mafia e antimafia. Secondo le ultime rilevazioni di Audiweb, in febbraio gli utenti attivi su web sono stati 12 milioni 827mila, l’8,6% in più rispetto allo stesso mese del 2009. Fra questi alcuni portali rinnovati, come quello de “L’Unità” e molti portali “verticali”, cioè indirizzati a target specializzati. Accanto a queste realtà in crescita nascono nuovi por-tali come “L’inkie-sta.it”, “Lettera43.it” ma anche l’interfac-cia on line del Fatto quotidiano “Ilfattoquotidiano.it”; si inaugurano nuove sezioni che si oc-cupano di legalità e mafie, come ad esempio, il portale legalità di Ansa.it e la sezione interna del Corriere della Sera.it nell’edizione di Milano. Nello stesso periodo grazie ad un finan-ziamento di tre milioni di euro, Luca Lani (già inventore di Studenti.it) po-trà realizzare un progetto che preve-de la nascita di 40 quotidiani on line entro l’anno in altrettante città italia-ne. Il mercato più interessante sarà proprio quello delle città del centro sud soffocate dalle mafie, molte delle quali vivono in regime di monopolio editoriale da decenni. Oggi più di ieri sembrano crearsi le condizioni per investire economicamente sull’edito-ria on line. In questa direzione si spe-

ra possano trovare maggiore cittadi-nanza non solo il racconto dell’Italia che resiste all’aggressione mafiosa e le connessioni fra mafia, economia e politica, ma anche le notizie e i pro-getti editoriali dei tantissimi portali on line già operativi in questa direzio-

ne. Dall’ampia rete dal basso coordi-nata dal giornalista Riccardo Orioles, ai tanti blog di re-sistenze antimafia sparsi dalla Sicilia, alla Campania, dal Piemonte, all ‘Emi-lia Romagna. Ma anche le tante web

tv e le web radio. Infine, un mercato editoriale on line, potrebbe valoriz-zare il lavoro silenzioso e costante di portali che custodiscono docu-mentazione e sono diventati “archivi mobili e fruibili”della memoria nella lotta alle mafie. Come ad esempio, il progetto di comunicazione alter-nativa “Terrelibere.org” che oggi è diventato anche una casa editrice di e-book e ha ospitato analisi e inchie-ste che altrove non hanno trovato né direttori disposti a pubblicarle, né editori pronti a diffonderle. Tutto ad una condizione: che i signori dell’edi-toria impura non mettano le mani sul mercato dell’on line creando le stesse distorsioni, limitazioni e i paradossi, che si registrano in quello tradiziona-le.

Anche in Italia arrivano editori

disposti a scommettere sul

web

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crivi Ontario, Canada, e leggi Calabria. Le più importanti operazioni condotte dalla Dda di Reggio Calabria hanno mes-

so in evidenza gli stretti collegamenti tra le cosche calabresi e le famiglie “ca-nadesi”. Le operazioni “Il Crimine” e “Il Crimine 2” hanno fornito elementi di particolare interesse. «Nella città di To-ronto – scrivono i pm - esisterebbero sette famiglie criminali che hanno al loro interno per lo più soggetti di origi-ne calabrese». Sette gruppi criminali che farebbero capo a Vincenzo Tavernese, Cosimo Figliomeni, Antonio Coluccio, nella cui organizzazione sarebbe opera-tivo Carmine Verduci, Cosimo Commis-so, Angelino Figliomeni, Jimmy Demaria e Domenic Ruso. Nella regione dell’On-tario ci sono nove locali di ‘ndrangheta, le più importanti a Toronto e a Thunder Bay, e ci sarebbe anche il Crimine, una struttura verticistica di raccordo. Pro-prio come quella esistente in Calabria. Tuttavia, pur forti e ricche, le ‘ndrine “canadesi” fanno riferimento a quelle ca-labresi, mantenendo rapporti e contatti frequenti. Molto frequenti. Già perchè i rappresentanti delle ricche famiglie ca-nadesi in Calabria ci tornavano spesso. Mantenendo uno strettissimo rapporto con Giuseppe Commisso, il “Mastro”, boss di Siderno e del mandamento joni-co della provincia reggina. Il territorio da dove proviene la maggior parte dei boss che hanno messo radici in Canada: da Siderno, appunto, da Marina di Gioiosa Jonica, da Gioiosa, i boss “canadesi” si rapportano con i Commisso, gli Aquino – Coloccuio, i Bruzzese, solo per citarne

alcuni. Vicenzo Tavernese, Carmine Ver-duci e Antonio Coluccio: «Che - scrivono i pm reggini - rappresentano, anche se-condo le autorità canadesi, il vertice di un gruppo criminale operante a Toronto (Canada) - si alternano via via nelle varie riunioni, facendo la spola tra il Canada e la Calabria e, quando non sono presenti, vengono comunque informati dell’avve-nuta mangiata». Presenti e coinvolti an-che in quelle riunioni dove si prendono decisioni importanti per la ‘ndrangheta nel suo complesso. Gli in-quirenti, ad esempio, parlano della riunio-ne del 12 giugno 2008, dove per i “canadesi” era presente Carmine Verduci, nel corso del-la quale è stata presa la decisione di “eliminare” Carmelo No-vella, il boss che in Lombardia stava cer-cando di rendersi autonomo dalla “casa madre”. Seguendo i movimenti tra Ca-nada e Calabria gli inquirenti nell’agosto del 2008 sono riusciti ad arrestare il boss latitante Giuseppe Coluccio, il broker in-ternazionale di cocaina che si rifugiava a Toronto. Gli affari dei boss in Canada sono variegati e hanno, di fatto, reso ric-che e potenti le famiglie calabresi. Dal traffico internazionale di stupefacenti al controllo del gioco d’azzardo, dall’usura agli investimenti nel campo della risto-razione fino all’edilizia. «Le attività ille-cite e di reinvestimento svolte in Canada – si legge ne “Il Crimine” - hanno anche lo scopo di consentire il mantenimento

in vita della componente italiana della struttura criminale indagata o comun-que, di garantirne, quando necessario, il relativo supporto logistico». La “la-vanderia” canadese consente, così, alla ‘ndrangheta di ripulire il denaro sporco e di fare ulteriori profitti, diversificando gli affari. Mantenendo, tuttavia, sem-pre uno stretto legame con la Calabria. Sia in termini di aiuto per boss in fuga

o latitanti, che con aiuti economici. A tal proposito i pm scrivono: «Del fer-vore imprenditoriale della componente canadese che eviden-temente aveva, dalle sue attività, guadagni così rilevanti da po-ter rappresentare un punto di riferimento

per aiuti economico – finanziari anche a soggetti vicini – entranei alla compo-nente italiana». Una potenza criminale che ha messo radici in Canada, sfrut-tando anche le difficoltà di Cosa nostra. Attiva a Montréal, dopo l’arresto di Vito Rizzuto ha subito l’attacco, secondo gli inquirenti, sferrato proprio dai calabresi che ha causato la morte di elementi di spicco della famiglia Rizzuto, legata con i Cuntrera – Caruana e con i Bonanno di New York. Tanta forza e potenza, tutta-via, resta subordinata al riconoscimento della leadership calabrese. Alla “casa ma-dre” si chiedono consigli, suggerimenti e interventi per risolvere problemi. E’ questo legame che rende la ‘ndrangheta forte in Calabria e nel mondo intero.

‘NdranghetacanadeseDalla Calabria alla regione dell'Ontario, i boss della fascia jonica della provincia di Reggio hanno consolidato la loro presenza in Nord America. Restano tuttavia strettissimi i rapporti con le locali di origine, caratteristica che ha reso forte il crimine organizzato calabrese

di Gaetano Liardo

S

>> Internazionale

In Canada i boss diversificano

gli investimenti: droga, usura,

edilizia

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>> dai territoria cura di Norma Ferrara

Parlando del «committente finale» del Papello (l’accordo Stato-mafia), Salvatore Riina fece a Giovanni Bru-sca il nome di Nicola Mancino. Lo ha detto Brusca nell’aula bunker a Firenze al processo sulle stragi di via dei Georgofili del ‘93. Riina gli disse «si sono fatti sotto». «Non mi disse il tramite - ha aggiunto Brusca - ma il committente finale e mi fece il nome di Mancino». Riferendosi a quelli che si erano fatti sotto, Riina mi disse «si sono rappresentati dell’Utri e Cian-cimino che gli volevano portare la Lega» ( forse la nascente Lega del sud) «e un altro soggetto».

Maxi operazione dei carabinieri contro un gruppo di narcotraffican-ti attivo a Roma. Ben 38 le ordinanze di custodia cautelare eseguite nelle prime ore di oggi, al termine dell’in-dagine del Ros denominata “Orfeo”. Sequestrati in via preventiva anche beni mobili e immobili per un va-lore di circa cinque milioni di euro. Contestata nell’ordinanza della Dda di Roma l’aggravante del “metodo mafioso”.

Toscana

Lazio

29 anni fa moriva ucciso dalla mafia l’allora segretario del Partito comunista sici-liano, Pio La Torre, assassinato insieme al suo autista e amico, Rosario di Salvo il 30 aprile del 1982. Il Centro studi Pio La Torre, luogo di ricerca, analisi e archivio, lo ricorda rinnovando l’impegno quotidiano. In un editoriale di Vito Lo Monaco per “A sud D’Europa” il settimanale edito dal centro Lo Monaco scrive della ne-cessità di un’antimafia fuori dalla retorica che sia in grado di unificare il Paese, rafforzandone l’unità e la democrazia.

Sicilia

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Corte d’Assise di Firenze Sentenza primo grado - Stragi 1993

Allo stato, infatti, non v’è nulla che faccia sup-porre come non veritiere le dichiarazioni dei due testi qualificati sopra menzionati, salvo al-cuni contraddizioni logiche ravvisabili nel loro racconto (non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia po-tuto presentare a “cosa nostra” per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, con-troparte in una trattativa fino al 18-10-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di “Show down”, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo). Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trat-

IPSE DIXITCorte d’Assise Firenze: la responsabilità delle stragi

tativa”, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa.Questa differenza, infatti, interesserà sicuramen-te chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa. Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto que-sti aspetti vanno detto senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coin-volto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratte-ristiche per apparire come una “trattativa”; l’effet-to che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convin-cerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione.

di Gaetano Liardo

a cura di Lorenzo Frigerio

rassegna stampa

La politica internazionale la fa da padrona in questi giorni convulsi. La Libia, in primis, dove il Governo ita-liano sembra aver perso la bussola. E anche la maggioranza. Dopo vari tentennamenti Berlusconi ha auto-rizzato i caccia italiani a partecipare ai bombardamenti. Una decisione, questa, che ha fatto esplodere le ire della Lega. Bossi, Maroni e Calderoli accusano il Premier di aver deciso senza una consultazione di mag-gioranza e presentano una mozione in Parlamento. Giornate di tensioni e nervosismo che, oggi, sembrano

essere rientrate. Lo scontro con la Lega, tuttavia, dimostra la fragilità dell’esecutivo alla vigilia della tor-nata elettorale delle amministra-tive. Ancora una volta è la Lega a mettersi di traverso. Bossi avvisa che se si perde a Milano l’esperienza del Governo può dirsi conclusa. Se per la Moratti l’esito delle elezioni non è del tutto scontato, a Napoli il clima diventa incandescente. Ten-sioni all’interno del Pdl e minacce e insulti nei confronti del candidato pidiellino Gianni Lettieri, mentre in città ritorna l’incubo dei rifiuti. Test

importanti anche in Calabria, dove dopo gli arresti di dicembre, da più parti arriva l’invito di non candi-dare persone colluse o interne alla ‘ndrangheta. Proprio oggi, intanto, è stato arrestato il sindaco di Ma-rina di Gioiosa Jonica, importante centro della fascia jonica di Reggio Calabria. Sindaci, amministratori, consiglieri regionali, su fino a parla-mentari e sottosegretari. La politica italiana ha sicuramente bisogno di riflettere su come affrontare la que-stione morale e la legalità. Non solo al Sud.

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Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera InformazioneOsservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie

Sede legalevia IV Novembre, 98 - 00187 Romatel. 06.67.66.48.97www.liberainformazione.org

Direttore responsabile:Roberto Morrione

Coordinatore:Lorenzo Frigerio

Redazione:Peppe Ruggiero, Antonio Turri,Gaetano Liardo, Norma Ferrara

Hanno collaborato a questo numero:Gian Carlo Caselli, Agnese Moro

Grafica:Giacomo Governatori


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